2010_01_12

Page 1

di e h c a n cro

00112

Ogni società non è altro che ciò che rimane a conclusione di un processo di sgretolamento della Max Sheler comunità

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 12 GENNAIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

«A Rosarno oscurate legalità e solidarietà» dice il presidente Napolitano che annuncia: «Il 21 gennaio andrò in Calabria»

Processo all’Italia razzista Come è potuto succedere che un Paese come il nostro si sia di colpo svegliato nel Sudafrica dell’apartheid? E perché solo la Chiesa denuncia con forza che è in gioco la nostra civiltà? Il Cavaliere torna a Roma e incontra il Capo dello Stato

Berlusconi a Palazzo

Giustizia e fisco al centro dell’agenda 2010 Alfano: «Ma la priorità resta il processo breve» L’IGNORANZA DELLA POLITICA

LA PIGRIZIA DELLA MORALE

Mi vergogno del mio Paese

Una democrazia “senz’anima”

di Gennaro Malgieri

di Marco Respinti

hiamatela come volete, ma la deportazione è incominciata. Da Rosarno a non si sa dove, qualche migliaio di “schiavi” extracomunitari è stato condannato a risiedere lontano dalla Calabria che li ha scacciati.

na mattina mi son svegliato e ho trovato un’Italia irriconoscibile. Un Paese apatico, abulico, indifferente. Un’Italia davvero irriconoscibile che si è mostrata per quello che non sombrava essere: razzista.

a pagina 2

a pagina 5

C

U

LA REAZIONE DELLA CHIESA

IL CONTROCANTO DI ALBERONI

L’Osservatore guarda lontano

«Di che vi stupite? Così va il mondo»

di Luigi Accattoli

di Franco Insardà

l problema è innanzitutto umano: così ha detto il Papa sulla rivolta e la cacciata dei neri da Rosarno. E il prestigioso «Osservatore romano» gli ha fatto eco aggiungendo che gli «italiani del 2010 sono ancora razzisti».

rancesco Alberoni ha una visione davvero estrema e anticonformista del fenomeno razzista: «Se davvero l’Italia accogliesse milioni di immigrati, scoppierebbe una vera e propria guerra civile».

a pagina 3

a pagina 4

I

«Occidente, che brutto ambiente» Il testo del discorso del Papa: «Le democrazie stanno diventando anti-cristiane» a pagina 12

F

Bersani boccia le primarie Sì alla Bonino: «Niente consultazioni dove la destra ha già scelto»

Una giornata tra battute e vertici politici

Il corpo del premier Abbassare le tasse, di nuovo tra i fedeli liberare lo Stato di Marco Palombi

di Carlo Lottieri

ilvio Berlusconi è tornato a Roma: ne era partito un mese fa da presidente del Consiglio, ci torna non solo premier ma anche leader del partito dell’amore. È tanto vero che tra i primi atti politici del Cavaliere c’è un rapido passaggio nella redazione della enclave dalemiana di Red tv, la cui redazione è diabolicamente situata proprio al primo piano di palazzo Grazioli, la residenza romana del nostro. «Buongiorno, faccio gli auguri anche a voi». Queste le magnanime parole con cui Berlusconi ha rilanciato il dialogo con un pezzo dell’opposizione informativa. La mattinata, in realtà, s’annunciava gravida di avvenimenti fin dalle prime ore: già alle dieci, richiamati da un passaparola via sms e internet, qualche decina di giovani militanti del coordinamento romano del Pdl e del “Club della Libertà” s’erano piazzati sotto casa del Cavaliere muniti di striscione “Benvenuto presidente”. Ma la lunga attesa e la pazienza dei giovani fans del premier alla fine sono state comunque premiate: intorno a mezzogiorno, davanti all’ingresso secondario di palazzo Grazioli, hanno potuto beneficiare di sorrisi e strette di mano di un Berlusconi in ottima forma: il Cavaliere li raggiunge appena sceso dalla macchina, mani in tasca e un’aria di complessivo buon umore.

l dibattito sulla proposta di riformare il fisco rappresenta una buona occasione per l’Italia. Ma è indispensabile che vi sia concretezza e determinazione, e che non si rinviino quelle soluzioni che, invece, sono davvero urgenti se si vuole favorire la ripresa. Sullo sfondo della discussione c’è il contrasto tra due esigenze egualmente legittime: la prima, interpretata da Silvio Berlusconi, punta essenzialmente a ridurre il gravame fiscale, anche per dare risposte all’elettorato, da tempo in attesa che si realizzi la promessa di «Meno tasse per tutti»; la seconda, difesa soprattutto dal ministro del Tesoro, punta l’accento sulla necessità di salvare i conti pubblici. Ma non si tratta di posizioni inconciliabili. Se non si tenessero in considerazione le buone ragioni di Tremonti, infatti, il Paese vedrebbe esplodere il debito e aumentare gli interessi dei titoli di Stato. Per giunta, questo porterebbe – come in Grecia – a giudizi negativi da parte delle agenzie di rating, con la conseguenza che per piazzare i Bot in scadenza bisognerebbe offrire interessi maggiori, entrando in una spirale perversa. Molti sottolineano che una riduzione delle aliquote non comporta minori entrate, perché tasse inferiori possono stimolare l’economia e quindi condurre ad una crescita della base imponibile.

segue a pagina 6

segue a pagina 7

S

Una piccola folla a palazzo Grazioli: «Bentornato presidente»

a pagina 10

segu1,00 e a pa(10,00 g in a 9 EURO

CON I QUADERNI)

Non sprecare ancora l’occasione riformista

• ANNO XV •

NUMERO

6•

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

I

IN REDAZIONE ALLE ORE

Privatizzazioni e revisione degli aiuti alle aziende: ecco le priorità

19.30


prima pagina

pagina 2 • 12 gennaio 2010

Ancora una volta la politica è stata ignorante

Quei “negri” ci hanno fatto aprire gli occhi di Gennaro Malgieri hiamatela come volete, ma la deportazione è incominciata. Da Rosarno a non si sa dove, qualche migliaio di “schiavi” extracomunitari è stato “condannato” a risiedere fuori dai confini della Calabria, in attesa di essere rimpatriato (ma come, con quali rischi, per andare incontro a quale destino, a quello dal quale sono fuggiti?). Dopo la rivolta, la presenza degli africani nella città calabrese non è più possibile. Le autorità che per sedici anni hanno tenuto gli occhi ben chiusi su una realtà disumana, oggi, quando la frittata è fatta, scelgono la strada più comoda, ma forse l’unica oggettivamente possibile, anche per non esporli ad altre rappresaglie, e li allontanano dai luoghi dei misfatti. Qualcuno penserà, non senza ragione, che sia l’ennesima vittoria della malavita organizzata la quale forse sperava proprio in questo esito dal conflitto innescato con la comunità degli immigrati. I quali, disperati, adesso sono mine vaganti per il Paese, difficilmente controllabili dalle forze di polizia e neppure per idea disposti a tornare nei centri di accoglienza provvisori dai quali fuggirono tanto tempo fa per finire non soltanto a Rosarno, ma anche in altri “amene” località dove in nome della civiltà hanno trovato sfruttamento, diffidenza, odio.

C

È una storia di ordinaria barbarie quella che si è consumata nella cittadina calabrese. Gli innocenti sono i “dannati” sui quali si è riversata la violenza gratuita di alcuni delinquenti che hanno acceso la miccia e, con loro, i cittadini che hanno cercato di difendersi come hanno potuto dalla rabbia degli aggrediti. Chi ha torto, chi ha ragione? Ci chiederemo a lungo se la reazione è stata proporzionata alla provocazione. Sarà interessante scoprirlo. Ma ancor più sarà importante appurare come, quando e chi ha innescato una tale spirale di violenza come mai si era vista tra eserciti di poveri e di diseredati, dal diverso colore della pelle, nel nostro Paese. E bisognerà pure che le responsabilità vengano fuori, non soltanto per una questione di “banale” giustizia,

quanto per evitare che avvenimenti analoghi possano ripetersi. E che ciò accada, in presenza di una legislazione in merito che fa acqua da tutte le parti, è probabilissimo. Unita all’imbecillità di chi vorrebbe far sentire il “vento del Nord” soffiare forte su Rosarno e dintorni è addirittura fatale che la guerra dei “dannati della Terra” si rinnovi, magari su vasta scala.

La perdita della ragione, lo smarrimento del senso delle proporzioni, l’immoralità nel definire “nemico”l’altro da noi, di vederlo e considerarlo come un estraneo e perciò indesiderato, invece che promuoverne l’integrazione, con i mezzi e gli strumenti di una legislazione adeguata e supportata dalla considerazione che le identità possono convivere soltanto quando sono abbastanza forti da evitare assimilazioni o colonialismi all’incontrario, tutto questo dovrebbe indurre la classe dirigente del nostro Paese (e non soltanto i politici che

Processo a un Paese incivile

L’Italia razzista. Come è potuto succedere? Cinque riflessioni d’autore sul perché, nella politica e nei media, si sia pericolosamente abbassata la soglia della reazione morale quanto ad inadeguatezza nel comprendere i grandi fenomeni sociali potrebbero essere insigniti del Nobel all’ignoranza), a recepire la mutata situazione in maniera accorta, prudente, consapevole. Cominciando con l’isolare coloro che sostengono che tutto il male

viene da fuori, da mondi lontani, mentre è molto più vicino di quanto si immagini, forse addirittura dentro di noi.

I delinquenti che hanno paradossalmente fatto emergere uno sconcio che l’Italia ignorava, non si sono probabil-


prima pagina

12 gennaio 2010 • pagina 3

Dopo le parole di Benedetto XVI, durissimo attacco del quotidiano vaticano: «Gli italiani sono ancora razzisti»

L’Osservatore solitario Solo il Papa, la Curia, la Cei e le parrocchie hanno denunciato il vero scandalo di Rosarno: gli immigrati non sono più persone di Luigi Accattoli l problema è innanzitutto umano: così ha detto ieri il Papa sulla rivolta e la cacciata dei neri da Rosarno. Lo stesso hanno affermato, con straordinaria coralità, la Curia Romana, la Cei, la Chiesa locale, i preti e i volontari delle tre parrocchie di Rosarno. E ha fatto eco l’Osservatore romano che ha ribadito come nel 2010 gli italiani siano ancora razzisti. Abbiamo appena assistito al caso sociale forse più chiaro e parlante di questo inizio di millennio nel quale la nostra Chiesa abbia saputo porsi con spontanea concordanza sulla frontiera dell’umano e a difesa dei calpestati.

I

Eravamo abituati a vedere questa difesa come vocazione delle Chiese del Sud del mondo, chiamate a echeggiare il “grido” di giustizia dei loro popoli in situazione di tremendo conflitto – dall’America Latina della “sicurezza nazionale” all’Africa della fame, all’India dei senza casta – e mai avremmo immaginato di vedere lo stesso dramma rappresentato così presto in Italia. L’accelerazione è venuta dalla presenza tra noi di un pezzo dolorante dell’Africa affamata e insanguinata. Già venerdì Avvenire riusciva a farsi voce dei cristiani d’Italia – e si sa quanto quell’impresa risulti ardua – con un titolo che segnalava efficacemente l’interpretazione ecclesiale dei fatti: «Non si ferma la rivolta degli “schiavi” di Rosarno». Sabato l’arcivescovo di Capua Bruno Schettino, responsabile Cei per i migranti, denunciava l’inadeguatezza della categoria di “clandestino” per dire il mente resi conto che la rivolta innescata dalla loro stupidità criminale ha fatto gettare lo sguardo degli italiani in un pozzo nero dove convivono l’intolleranza ed il disprezzo per la persona: i pilastri dello schiavismo. Loro, più miserabili dei diseredati che hanno messo a soqquadro Rosarno, sostanzialmente hanno proclamato ai quattro venti che la Calabria è una regione sottratta alla potestà dello Stato e saldamente nelle mani delle cosche mafiose, della ‘ndrangheta, di sedicenti imprenditori che commerciano in carne umana, di politici indifferenti quando non collusi con la criminalità. Hanno fornito il quadro dai lividi colori nel quale mancano le persone perbene, coloro che sopportano quotidianamente la prepotenza di pochi, che vivono nel degrado sistematico, che vorrebbero essere liberate, ma nessuno accorre quando gridano e

mato che “la violenza non risolve le difficoltà”. Ma tutte hanno anche distinto tra la violenza dello sfruttatore e quella dello sfruttato. Sulle responsabilità dei politici – che si tratti del Comune di Rosarno commissariato per infiltrazione mafiosa, della Regione Calabria governata dal Centrosinistra, o del Governo nazionale di Centrodestra – la parola più netta è venuta dal sacerdote Pino Demasi, vicario generale della diocesi di Oppido Mamertina-Palmi a cui fa capo la comunità ecclesiale di Rosarno: “Abbiamo sperimentato l’assenza totale del Governo centrale, della Regione e delle amministrazioni locali, i quali ricorrono alla scusa che i clandestini non esistono per la legge: ma lì ci sono tremila persone che esistono!” L’idea che muove gli uomini di Chiesa è sempre quella: le persone vengono prima delle leggi.

nostro atteggiamento verso i manifestanti di Rosarno: «Gli immigrati clandestini sono persone e le persone devono avere la precedenza su tutto». Poneva la questione del riconoscimento di “umanità” nei confronti di “queste” persone e affermava che quel riconoscimento deve avere “precedenza sulle leggi” quando si trovi a configgere con esse: “anche sulle leggi giuste”.

Ed eccoci al Papa che domenica rivolgeva un appello che aveva i suoi fuochi sui concetti di “persona” e “umanità”, esattamente come quello dell’arcivescovo Schettino: «Un immigrato è un essere umano (…),una persona da rispettare (…). Il problema è anzitutto umano! Invito a guardare il volto dell’altro e a scoprire che egli ha un’anima, una storia e una vita». Siamo abituati agli appelli papali, ma forse ci è possibile cogliere l’intensità di queste parole: «Invito a guardare il volto dell’altro». Come si vede l’ottica è non solo diversa – che sarebbe ovvio – ma opposta a quella del ministro Maroni che aveva indicato nella “immigrazione clandestina”l’origine dei guai di Rosarno. Ed era stato facile all’arcivescovo Agostino Marchetto – segretario del Consiglio vaticano per i migranti – segnalare come “troppo semplicistiche”le risposte del ministro, mentre la condizione “inumana” di quei lavoratori avrebbe richiesto “parole più approfondite”.“Condizione inumana”dice l’arcivescovo Marchetto che è un uomo di studio e un diplomatico, ma la stessa lingua dell’umano è parlata da don Pineppure quando fanno sentire il loro straziante silenzio.

È incredibile, ma gli schiavi del Togo, del Congo, del Benin, della Costa d’Avorio che per anni hanno colto arance e mandarini nella Piana di Gioia Tauro, compensati con la miseria di venti euro al giorno (dei quali cinque dovevano versarli ai “caporali”che li facevano lavorare per quattordici, quindici, sedici ore e in alcune stagioni li smistavano in Campania ed in Puglia per raccogliere altri frutti della terra che per loro erano maledizione divina), sono riusciti nel “miracolo” di aprire gli occhi ai civilissimi italiani sulla piaga dello sfruttamento. Clandestini o meno, poco importa. Sono esseri umani ai quali prima della legge degli uomini va applicata quella di Dio. E se gli uomini non sono in grado di provvedere ai bisogni dei loro si-

no Varrà, uno dei parroci di Rosarno, che condanna le “violenze” dei dimostranti e afferma che il vero problema – al quale devono dare risposta “le autorità”– è quello di «aiutare queste persone a vivere in una condizione umana».

Tutte le voci cristiane che si sono fatte sentire in questa occasione hanno condannato i gesti violenti compiuti dagli immigrati e hanno affermili, vuol dire che la barbarie ha fatto progressi di fronte ai quali dovremmo sentirci tutti in colpa. È stato scritto: stiamo dalla parte dei negri (e c’è pure chi si è risentito per quel “negri” senza dare peso alla sostanza, posto che la parola non designa nulla di negativo, come tutti i dizionari della lingua italiana attestano: è soltanto ipocrisia e negligenza quella che vorrebbe dare nomi diversi alle cose). E da quale altra parte si dovrebbe stare di fronte a ciò che è accaduto a Rosarno? A cinque giorni dai tragici eventi, più le cronache ci inondano di particolari e più vediamo sotto ai nostri piedi sprofondare una società che ritenevamo accettabilmente ordinata. In realtà il contatto con un’Italia senz’anima è talmente disarmante da invogliarci a fuggire, ma non possiamo farlo ovviamente. E dobbiamo appellarci a tutte le nostre forze per resistere alla tentazione dell’abbandono quando apprendiamo dalla televisione e dai giornali che il tutto – la tragedia ed i suoi esiti – rientra nella grande questione attinente all’ordine pubblico. Se è così ed è in tal modo che

Tra i manifestanti violenti di Rosarno che – bruciando e devastando – hanno fatto passare le vittime dalla parte del torto, ce n’era almeno uno pacifico con un cartone sul quale aveva scritto: «Noi siamo persona come voi». Ecco il fatto straordinario, la rispondenza anche verbale tra quello che hanno detto gli uomini di Chiesa – dal Papa ai volontari – e il sentimento degli “schiavi” che ancora una volta e ancora inutilmente si sono ribellati. www.luigiaccattoli.it politici ed analisti considerano i fatti di Rosarno, siamo lontanissimi dalla soluzione del problema.

Non è, se non secondariamente, una questione di polizia, per dirla tutta. Ma una questione culturale che innesca atteggiamenti politicamente rilevanti. Se non si riflette sull’immigrazione e su ciò che la determina, sulla povertà insostenibile e sulla ricchezza ingestibile, sulle identità e sulla violenza che cerca di legittimarsi attraverso l’uso spregiudicato di una religione, se non si immagina di potere e di dover costruire ponti tra le civiltà, ma soltanto attizzare fuochi di inimicizia nella speranza che il “diverso” resti lontano da noi, tutto sarà vano ed il mondo occidentale si autodistruggerà. Possibile che da Rosarno vengano moniti di tale portata? Possibile. Non possiamo fare altro che dichiarare guerra allo schiavismo e ripensare il nostro ruolo nel mondo, insieme con altri popoli, altre culture, altre civiltà. È il solo modo per salvare ciò che resta di un Occidente in bilico tra rinascita e tramonto.


prima pagina

pagina 4 • 12 gennaio 2010

Accoglienza e tolleranza secondo il sociologo

«Perché vi stupite? Così va il mondo»

Il controcanto di Francesco Alberoni: «Smettiamola di usare il termine razzismo» di Franco Insardà

ROMA. «Se dovessimo accogliere tutti gli immigrati che vogliono venire in Italia rischieremmo di trovarci nel nostro Paese decine di milioni di persone. Una cosa del genere farebbe scoppiare una guerra civile con tantissimi morti». Francesco Alberoni ha una visione molto estrema rispetto al fenomeno immigrati e alle sue degenerazioni. Professore, dopo la vicenda di Rosarno il razzismo è entrato ufficialmente nel nostro vocabolario? La smetterei di usare il termine razzista. Io, almeno, non l’ho mai usato. Perché? Nella realtà tutti i popoli sono razzisti. È come un serpente che dà del serpente all’altro. I cinesi, i giapponesi, gli inglesi, i tedeschi e tutti gli altri abitanti della terra sono razzisti. Gli ebrei si considerano un popolo eletto, come gli arabi portatori del messaggio di Allah. Ciascun ritiene di avere una sua qualità che lo rende superiore agli altri. I nobili ritenevano di avere sangue blu e di doversi distinguere dai proletari. Come giustifica quanto è accaduto in Calabria? La mancanza di regole o la non applicazioni delle leggi, unita all’abuso sistematico dell’arbitrio e del potere determinano situazioni malsane, aggravate dal rinvio continuo dei problemi che caratterizzano da sempre certe zone d’Ita-

lia. La mafia, la ’ndrangheta, la camorra e la Sacra Corona Unita arrivano a condizionare lo sviluppo economico. A questo si aggiunge anche il problema degli immigrati. Questi poveretti vengono inseriti in un meccanismo di sfruttamento del lavoro non certamente virtuoso. Anche perché, non tutti, ma una parte dei proprietari terrieri della piana di Gioia Tauro qualche legame con gli ambienti della ’ndrangheta sicuramente ce l’hanno. Una situazione non allegra. Direi indegna. Perché questa povera gente viene per lavorare in condizioni spaventose, minacciati costantemente. Accanto a questi esistono altre persone, con una vita quotidiana tranquilla, invase da una popolazione sofferente e irrequieta che sconvolge ogni schema. Qual è l’elemento nuovo nella vicenda di Rosarno? Lo scontro tra italiani e immigrati in condizioni disastrose. È questo l’elemento di novità per noi italiani, mentre le banlieue parigine sono sempre in fiamme. Fa impressione perché è la prima volta che succede una cosa del genere che a New York e a Parigi sono quasi all’ordine del giorno da anni. Come mai due terre di camorra e di ‘ndrangheta reagiscono così agli immigrati, ma non alla malavita? Gli immigrati sono deboli, mentre la criminalità organizzata è forte e armata. la

Rosarno, ora che gli africani sono stati portati via - deportati? -, chi raccoglierà i mandarini e le arance della Piana di Gioia Tauro? Se è vero che i clandestini rubano il lavoro agli italiani, ora ci dovrebbero essere liberi tra i mille e i duemila posti di lavoro. Ma sarà poi vero che a Rosarno ci sono millecinquecento giovani calabresi pronti a praticare il lavoro stagionale nei campi? Ciò che è accaduto “laggiù” a Rosarno, non riguarda solo la Calabria e il ministero degli Interni. Riguarda l’Italia intera e l’Italia intera non ci fa - come si dice - una bella figura.

A

Gli africani - clandestini e regolari lavorano per loro e per noi, a Rosarno in Calabria o a Villa Literno in Campania o ad Andria in Puglia. Tutti sappiamo come sopravvivono e come lavorano da negri, ma quando qualcosa va storto - perché non sempre le cose vanno per il verso giusto quando si vive nelle baracche, sotto i ponti, sotto le lamiere, in villaggi a ridosso delle abitazioni civili ecco che sui giornali e nei telegiornali si racconta

malavita è uno stato feudale, parassitario, dove i nobili sono i boss. Persone potenti che pongono le persone di fronte all’alternativa: o con loro per poter guadagnare molti soldi o contro di loro. Ma in questo caso c’è soltanto la prospettiva della morte. La ’ndrangheta è forte e mette paura. Gli immigrati sono comunque una risorsa. Il governo sa che c’è bisogno di loro sia perché la popolazione non cresce sia perché alcuni lavori i nostri giovani non li fanno. Si tratta di far convivere tutte le esigenze e garantire livelli minimi di sopravvivenza.

Dopo i fatti di Rosarno il ministro Maroni ha detto che la colpa è del lassismo del centrosinistra. Sono scemenze politiche che non hanno senso. Ciascuno dà la colpa all’altro. Ma lo Stato in queste regioni c’è? Non è mai esistito, tutto è basato sullo scambio di favori. Un fenomeno diffuso un po’ dappertutto, ma in quelle zone è più accentuato. Si tratta di un sistema arcaico, a fronte di una struttura legale importata dai piemontesi, modificata dai burocrati meridionali. Come giudica l’appello del Papa a rispettare gli immigrati? La posizione della Chiesa è equilibrata

Ora ostentiamo rabbia e sconcerto, ma lo sfruttamento è una storia antica

La legge dimenticata tra le arance di Giancristiano Desiderio lo stupore e l’orrore nazionale. Per la prima volta si scopre ciò che tutti già sappiamo da sempre. Quando i killer della camorra uccisero davanti a un bar del paese sei nigeriani a Castel Volturno, si “scoprì” che esistono due Castel Volturno: una legale e una illegale, una italiana e una africana, una ufficiale e una clandestina. A Castel Volturno ci sono ancora due Castel Volturno ma quando la camorra tornerà a uccidere o quando ci scapperà di nuovo il morto “scopriremo” ancora una volta le due Castel Volturno che già conosciamo. E Rosarno? Non ne avevamo già parlato due anni fa? Gli africani salveranno Rosarno è il titolo di un libro che ha già un anno. Viviamo in un Paese in cui tutto ciò che accade è sta-

to già scritto. Siamo, come sempre, il Paese del giorno dopo.

Il giorno dopo - per esempio - ci sono le espulsioni che il giorno prima non sono state fatte perché il clandestino era nei campi a lavorare. L’espulsione che è stata assicurata dal ministro Maroni - è dettata dalla legge, ma la legge detta anche che i raccoglitori (umani) di frutta e pomodori siano in regola. Come si spiega la contraddizione? Con il fatto che l’espulsione non è dettata dalla legge, ma dall’emergenza: fino a quando non c’è il “caso” o l’emergenza non ci sono neanche i clandestini e quindi non c’è bisogno di espellere nessuno. Naturalmente, questo modo di fare - di governare e amministrare - produce dolore, sacrifici, rischi, sangue, merda e morte. “Pazienza”: questo è il modo di ragionare dello Stato italiano cioè dei governi che si succedono nel tempo - mentre


prima pagina

12 gennaio 2010 • pagina 5

Radiografia di un Paese che finge di non stupirsi più

La nostra democrazia? È rimasta senz’anima

Siamo diventati «moralmente pigri»: abbiamo accolto le notizie degli scontri come fatti normali di Marco Respinti na mattina mi son svegliato e ho trovato un’Italia irriconoscibile. Un’Italia che non c’è mai stata, un’Italia che nessuno ha mai conosciuto, un’Italia apatica, abulica, indifferente. I fatti di violenza accaduti nei giorni scorsi nel nostro Mezzogiorno sono noti. Ne conosciamo cause, motivazioni, protagonisti e antagonisti. Nulla è da giustificare, per carità; epperò al contempo sono cose che tutto sommato accadono, che ci stanno, magari che al limite sono persino comprensibili quanto meno nei loro meccanismi. Il gesto stupido e irriverente di uno. La rabbia di un cittadino frustrato. La degenerazione, e poi persino, il va sans dire, lo zampino della criminalità organizzata. Tutte cose che, non solo in Italia, conosciamo.

U

tra due esigenze difficilmente compatibili: da un lato quella della carità cristiana e dall’altro quella della prudenza rispetto a situazioni che possono diventare pericolose. La fame può far scappare dalle loro terre milioni di persone, il Papa è consapevole di questo e lancia appelli ai Paesi più ricchi perché aiutino le popolazioni in difficoltà, accolgano gli esuli, ma allo stesso tempo invita a evitare grandi irregolarità. Vittorio Feltri sul Giornale usa la parola negro, che cosa ne pensa? Negli Stati Uniti era usata in modo dispregiativo. Fino agli anni ’60 in Italia non era così. Per la nostra musica legge-

ra i Watussi erano “altissimi negri” e quando si diceva che una persona lavorasse “come un negro” non la si voleva offendere. Oggi è sicuramente sì. Insomma, professore, niente di nuovo? Direi di no. Martin Scorsese nel suo Gangs of New York racconta degli scontri tra gli irlandesi e gli immigrati. L’odio e lo scontro tra due popolazioni eticamente e religiosamente diverse c’è sempre stato. Non si può dire in assoluto che i neri sono buoni e i bianchi cattivi. Basti pensare alla Sierra Leone e alla Liberia dove vengono ingaggiati per combattere bambini di dieci anni.

«basta che le carte stiano a posto» è il modo di organizzarsi delle amministrazioni e degli enti locali. La “pazienza”e le “carte a posto”si scaricano sugli ultimi della storia contemporanea. Le giornate di normale anarchia di Rosarno si sono risolte in questo modo: via gli africani, tranquilli gli italiani, tra un po’ si ricomincia. Perché qui nessuno è razzista.

La categoria di legalità per controllare il fenomeno dell’immigrazione è necessaria ma non sufficiente. Se è normale solo ciò che è legale è evidente che viviamo in una situazione anormale anche se fingiamo di non vedere e non sapere. Chi ricorre alla categoria di legalità per inquadrare l’immigrazione è soprattutto la destra. Ma anche la categoria di solidarietà è insufficiente per governare l’immigrazione. La solidarietà non può diventare bidonville. Chi ricorre alla solidarietà, come un mantra, è la sinistra. La politica italiana affronta tutta la questione dell’immigrazione con un dibattito emotivo e in larga parte ideologico. Siamo un Paese clandestino. Si invocano legalità e solidarietà, ma in entrambi i casi si tratta di astrazioni. Il mondo reale è altrove, nei campi della Piana di Gioia Tauro dove ci sono ancora le arance da raccogliere. Ritorneranno, ritorneranno gli africani.

La ”battaglia” di Rosarno ha messo a nudo non solo l’intolleranza di una parte degli italiani di fronte a persone in difficoltà, ma anche la “prigrizia” con la quale un’altra parte degli italiani accetta quel dato senza indignarsi. Nella pagina a fianco, il sociologo Francesco Alberoni

Ciò che invece non conosciamo, e che ci stupisce, anzi che ci sconcerta e indigna è l’ignavia con cui il Paese, il Paese tutto, prende i fatti. Accendiamo, tutti, i tiggì, anzi le notizie ci sono state battute quasi ad personam sui telefonini e via Internet dalle agenzie stampa, quindi ne leggiamo pure sui quotidiani, ma ci meravigliamo solo per un secondo, qualcuno si strappa le vesti ma per due soli secondi e allo scoccare del terzo ogni cosa rientra, viene inghiottita, è assorbito, presto metabolizzata. In un Paese civile, in un Paese civile davvero, in un Paese cioè diversamente civile, nella sostanza e non solo a parole, la gravità oggettiva dei fatti accaduti al Sud avrebbe scatenato ben altro movimento, e mediatico, e popolare, e civile. Da noi, invece, no. Eccola qua la notizia più brutta di questi giorni, il vero fondo d’inciviltà toccato dal Bel Paese. Nell’Italia che non è mai stata razzista e che non è mai stata intollerante, nell’Italia dove grazie a Dio ci sono sempre gl’italiani che l’Italia la mandano avanti, la nutrono, la dissetano e la curano, nell’Italia che è il vero bene (più che il Paese) rifugio, in questa Italia che non riconosciamo più oggi accade invece l’inaudito. Succede che tutto passa senza lasciare il segno, che tutto scorre senza colpire. Qualche dichiarazione, magari pure buona, da parte del mondo politico, qualche titolone sui giornali, epperò tutto dura lo spazio di un mattino, anzi meno. Dopo di che, si riprende il tran tran, si accende la televisione su qualche de-

menziale fuga del cervello, si fa shopping ché i saldi ancora premono, e poi c’è sempre lo stadio. Che differenza corre tra la nazionale di calcio del Togo presa a mitragliate e l’ignavia di un Paese, il nostro, che oramai sa far solo spallucce?

E così però il Paese Italia va in malora, si sfascia dal di dentro. A questo punto non è più però colpa solo di quella politica che accusiamo di tutto soprattutto quando non vogliamo assumerci responsabilità personale alcuna, quando cerchiamo un capro espiatorio per la nostra assenza, per la nostra inconcludenza, per la nostra renitenza. E non è nemmeno colpa solo dell’altro grande imputato classico di questi casi, cioè della stampa. Politica e stampa sono infatti lo specchio fedele di una Paese, e quando politica e stampa deludono, è perché è il Paese stesso a deludere. Cosa ci scandalizza allora di fronte ai pestaggi e alle risse tra immigrati, mafiosetti e cittadini incattiviti? Non il fatto che questo accada, ma che dopo il fatto più nulla accada. Questo vuol però solo dire che il Paese ha toccato il fondo. Che non sa più reagire. Non basta infatti dire che i cittadini italiani, a torto o a ragione vilipesi nei propri diritti di cittadini, reagiscono facendosi giustizia da sé, là dove lo Stato in fin dei conti davvero manca. Non basta. Questa non è infatti una reazione, men che meno una reazione sana. La reazione vera, autentica, quella che manca oggi in Italia, è la reazione morale, lo scatto di orgoglio di un Paese che a questo punto da sé dovrebbe subito pretendere di più, rimboccandosi le maniche per testimoniarne uno spirito esistente seppur rattrappito in gesti vandalici. Manca il famoso e fondamentale colpo d’ala, anzi il supplemento d’anima di un popolo che non deve mostrarsi disposto a diventare macchietta, caricatura, stravolgimento.

Quasi quasi non c’è più differenza tra la nazionale del Togo presa a mitragliate e la nostra ignavia: sappiamo far solo spallucce

Sarebbe bello vedere oggi sorgere dalle risse del Sud un Paese Italia in grado di fare davvero i conti con se stesso, con la propria storia e con la propria identità e quindi di sapersi confrontare anche con la stupidità degli altri. Ma abbiamo la sensazione che oggi in Italia il sensus nationis sia mollemente accoccolato in poltrona armato solo di telecomando.


politica

pagina 6 • 12 gennaio 2010

Il ritorno di Berlusconi/1. Riunioni separate dei vertici del Pdl e degli ex-An: «Senza accordo, andremo avanti da soli»

Giustizia, arriva l’ora X

Alfano rilancia: «Processo breve e modifiche alla Costituzione». Ma il Pd chiude subito: «Così il dialogo diventa impossibile» di Errico Novi

ROMA. Certi aggettivi sono rivelatori. «Andiamo avanti, innanzitutto con il processo in tempi certi per i cittadini che si trovano impelagati nelle maglie della giustizia». Impelagati, dice il ministro Angelino Alfano, quasi a intendere che la magistratura rappresenta un corpo estraneo allo Stato, da cui gli italiani devono più che altro difendersi. Sollecitata dalla ressa dei taccuini davanti a Palazzo Grazioli, l’espressione spiccia del guardasigilli ha un pregio: rende l’idea del piglio risoluto con cui la maggioranza intende muoversi sul processo breve. Da oggi il provvedimento passerà all’esame dell’aula di Palazzo Madama, e verrà integrato con il maxiemendamento a cui ha lavorato nei giorni scorsi il senatore del Pdl Giuseppe Valentino. Sul nuovo testo, che prevede un allungamento dei tempi di prescrizione rispetto alla versione originaria, arriva dunque l’imprimatur dello stesso Silvio Berlusconi, concesso nel corso del vertice di maggioranza ospitato a pranzo in via del Plebiscito. «Daremo il via libera entro questa settimana», assicura il presidente della commissione Giustizia dell Senato Filippo Berselli, «quindi faremo uno scambio con la Camera, da dove è in arrivo la legge sul legittimo impedimento».

Dopo tre settimane di assenza forzata il presidente del

Consiglio rientra dunque con il colpo d’acceleratore sulla giustizia. O meglio sulle norme che possono garantirgli lo scudo dai processi in corso, a cominciare da quello su Mills. «Ad personam? Macché, sono leggi ad libertatem», dice il Cavaliere. Pier Luigi Bersani non è troppo d’accordo: «Così il dialogo diventa subito impossibile». Che dal laboratorio di Ghedini, Alfano e Valentino possa venir fuori un riassetto organico dell’ordinamento è per ora solo un’ipotesi. Il ministro della Giustizia ci crede: «Partiranno immediatamente gli incontri all’interno della coalizione per definire una riforma costituzionale della giustizia, la grande riforma da sottoporre subito al dibattito parlamentare», annuncia con una certa enfasi. Lo stesso Alfano però conferma che, in attesa di quel disegno più complessivo reclamato poche ore dopo da Giorgio Napolitano durante l’incontro al Quirinale con il premier, si procede spediti con i due interventi a tutela di Berlusconi: il processo breve e, appunto, il legittimo impedimento, rimodellato alla Camera dal relatore Enrico Costa dopo il confronto con il vicecapogruppo dell’Udc Michele Vietti.

Il guardasigilli tiene anche ad esaltare «la consueta coesione nella maggioranza» emersa

La giornata romana del premier

Tra la folla e il Palazzo di Marco Palombi segue dalla prima Dopo di che il Cavaliere esibisce alla folla il volto angariato da Massimo Tartaglia e minimizza: «Vedete? Ho solo un segnetto qui e uno qui», spiega indicando lo zigomo sinistro e il labbro superiore. Poi mostra i bicipiti: 1Però ho fatto dei muscoli fortissimi…». La platea ride felice. «Ho pochissimi segni - insiste lui – peccato per il dente… dovrò fare un impianto». Non mancano nemmeno due topoi del Berlusconi post ferimento: la battuta sul Duomo in pietra e il giaccone della Marina russa che lo ha accompagnato nelle ultime uscite pubbliche (e che tanto fa arrabbiare le associazioni per i diritti umani in Russia). Uno dei piccoli fans gli chiede della statuetta di Tartaglia e lui rapido: «Adesso hanno perso valore… te le tirano dietro». Poi si vanta del giubbotto: «Questo me lo ha regalato Putin», dice mostrando la bandiera russa. «Faremo una splendida campagna elettorale», promette ai suoi prima di rispondere alle domande dei giornalisti in cui annuncia la riforma fiscale entro l’anno e apre all’opposizione a modo suo, ovvero ribadendo che sulla giustizia si andrà avanti con processo breve, legittimo impedi-

mento e quant’altro, “leggi ad libertatem”. L’uomo che era partito dalla città eterna leader politico divisivo e ci è tornato fenomeno religioso ecumenico ha evidentemente pensato il suo rientro nella Capitale sotto i crismi della normalità e dell’attivismo politico: nessuna drammatizzazione dell’aggressione di Milano e molti appuntamenti di lavoro. All’una e trenta si sottopone, ad esempio, all’ennesimo vertice di maggioranza (fattispecie di appuntamento che ha più volte sostenuto procurargli“l’orticaria”), al termine prepara con lo staff l’incontro con Gianfranco Fini di questa settimana e, infine, mentre andiamo in stampa è annunciato un incontro al Quirinale con Giorgio Napolitano, col quale durante la convalescenza ha ristabilito un rapporto, almeno a livello personale, dopo le tensioni dei mesi scorsi. Siccome però la realtà ha una sua irriducibilità, a sera il premier dell’amore deve fare i conti col fatto che proprio l’amore, contrariamente a quanto si dice, non muove affatto ogni cosa. Il Pd, ad esempio, non lo muove: se vanno avanti così, dice Pierluigi Bersani, «si mette a rischio anche la discussione di sistema sulle riforme istituzionali».

dal vertice di ieri. D’altra parte il summit di Palazzo Grazioli, piuttosto affollato di coordinatori, presidenti di commissione e dei gruppi parlamentari, vede la partecipazione di un drappello leghista selezionato in modo non casuale: con il plenipotenziario Roberto Calderoli ci sono il capogruppo al Senato Federico Bricolo, garante e co-firmatario sul processo breve, e Matteo Brigandì, co-estensore del legittimo impedimento alla Camera. Appare più singolare, invece, che poco prima di inviare Ignazio La Russa a casa Berlusconi, Gianfranco Fini lo incontri nel suo ufficio di Montecitorio con Italo Bocchino e i due suoi esperti di giustizia, Giulia Bongiorno e l’immancabile Giuseppe Valentino. Tanto per essere certi che i termini del maxiemendamento messo a punto da quest’ultimo non vengano stravolti. Non si tratta peraltro di modifiche rivoluzionarie: per i procedimenti con pena massima fino a dieci anni (compreso quindi quello di Berlusconi su Mills) c’è un altro anno di tempo per il primo grado e sei mesi in meno per il terzo, in totale dunque appena sei mesi in più rispetto alla formulazione originaria. L’aggiustamento è più significativo per i reati di mafia e terrorismo: come chiesto da Pd e Udc, in questi casi si può arrivare a dieci anni e guadagnarne altri tre in situazioni particolari.


politica

12 gennaio 2010 • pagina 7

Il ritorno di Berlusconi/2. La riforma del fisco è il nodo cruciale: Ma le opinioni sul ”come farla” non sono univoche

Si può tornare al ’94?

Per gli economisti Mario Deaglio, Luigi Paganetto e Giacomo Vaciago «non possiamo ripartire dalle due aliquote, come quindici anni fa» di Francesco Pacifico

ROMA. «Delle due l’una: o si allunga la vita lavorativa, perché chi paga i contributi non prende la pensione, oppure si confessa che le famigerate riforme non possono che partire dall’eliminazione di posti pubblichi. E anche senza il 20 per cento di personale cambierebbe poco». Secondo l’economista Mario Deaglio «ci sono soltanto due modi rapidi per recuperare i soldi necessari per tagliare le tasse. Ma non è una piattaforma facilmente proponibile agli elettori».

Silvio Berlusconi non la pensa diversamente. Ieri, complice le telecamere sotto la sua casa romana, si è prima sbottonato: «La riduzione fiscale si farà nel 2010». Quindi, in un vertice di maggioranza sempre a Palazzo Grazioli, un piccolo passo indietro. Perché al momento c’è soltanto l’auspicio che «la riforma del fisco possa essere incardinata già quest’anno. Ma è presto per parlare di riduzione delle tasse nel corso del 2010». Nonostante il dibattito non vada oltre le due aliquote Irpef secche del 23 e 33 per cento, sono in pochi a credere che Tremonti riproponga lo schema del 1994. «Non credo sia più attuale quel sistema», nota l’economista Luigi Paganetto, «Caso mai sarebbe più utile arrivare a una riduzione sui redditi da lavoro, perché si ha la necessità di ridistribuire i carichi verso chi produce». Aggiunge al riguardo il collega Giacomo Vaciago: «La progressività è sancita dalla Costituzione. E finché non la si cambia, il ricco dovrà sempre pagare più del povero». La comunità scientifica nutre seri dubbi che si arrivi al taglio di circa 2 punti e mezzo di Pil studiato da nel Tremonti 1994 e poi trasferito nella legge delega del 2001. «Nel 2010 non è possibile pensare a una riduzione del gettito. Quello che si elimina va compensato. È questa la linea che il ministro ha concordato con Bruxelles. Non escluderei, invece, che si possa ridisegnare il gettito in modo che spinga l’economia». Sarà questo il principale compito del titolare dell’Economia. Che con la sua riforma dovrà non ridistribuire i carichi tra categorie produttive e meno abbienti, ma anche tra Stato centrale ed enti locali.Visto che la fiscalità può essere l’unico freno a un federalismo che con il Titolo V ha

Ecco le riforme che si possono fare subito

E adesso ”liberiamo” lo Stato di Carlo Lottieri segue dalla prima Il ragionamento è corretto, ma bisogna comunque agire pure su altri fronti, soprattutto se si intende incidere sulla fiscalità fin dal 2010. Una prima e indispensabile scelta che può agevolare il varo di un’Irpef a due aliquote (al 23 e al 33 per cento) è l’avvio di un’ampia privatizzazione del settore pubblico. Se quanto resta in mano pubblica di Eni, Enel, Finmeccanica, Cassa depositi e prestiti, Ferrovie dello Stato, Poste Italiane ecc. fosse privatizzato, si potrebbero usare tali entrate straordinarie proprio per ridurre il debito e, di conseguenza, eliminare una parte delle imposte che oggi servono a pagare gli interessi. In secondo luogo, la riduzione della pressione fiscale sulle imprese – a partire dall’Irap – va accompagnata da una progressiva eliminazione di sussidi e finanziamenti. Invece che tassare tutti e aiutare alcuni (spesso scelti in modo discrezionale), bisogna procedere a una riduzione delle imposte sul settore produttivo che conduca alla fine di ogni aiuto di Stato. Se anche sul piano contabile per l’Erario non dovesse mutare nulla (pareggiando la riduzione delle entrate tributarie con la cancellazione delle sovvenzioni), si otterrebbe comunque il risultato di far sì che i

soldi restino a chi ha prodotto ricchezza, e che gli apparati politicoburocratici vedano contrarsi la propria capacità di intermediazione.

È poi urgente procedere lungo la strada di un federalismo fiscale davvero competitivo. Tutto dipende dai decreti attuativi della Calderoli. Bisogna infatti che, in ottemperanza al dettato costituzionale, si diano più competenze a Regioni ed enti locali, garantendo loro piena autonomia nel definire l’entità del prelievo. Ciò innescherebbe una positiva concorrenza tra Regioni più esose e meno esose, tra aree con buoni o pessimi servizi: a partire da qui, però, chiunque sarebbe indotto a dare il meglio di sé, al fine di attirare investimenti e capitali. Gli interventi su sprechi, inefficienze e spese inutili verrebbero di conseguenza. È necessario, infine, mandare un segnale positivo ad investitori e agenzie di rating, accogliendo la richiesta dell’Unione europea e parificando l’età pensionabile di maschi e femmine. Perché ridurre le imposte è possibile, senza dubbio, ma solo se si ha il coraggio di realizzare quelle minime riforme che sono necessarie a rimettere in sesto i fondamentali della nostra economia.

Giulio Tremonti. Nelle foto piccole, dall’alto in senso orario: Mario Deaglio, Luigi Paganetto e Giacomo Vaciago

portato in periferia tanti poteri ma nessuna responsabilizzazione sulla spesa. È in questa chiave che sono in molti a vedere l’ultimo patto sulla Salute o il prossimo tavolo sui Lea, i livelli minimi di assistenza, come i primi passi concreti. «I governatori», segnala Deaglio, «non vogliono responsabilità nella raccolta del gettito. Ma una soluzione potrebbe essere quella di ridistribuire l’imposizione indiretta. Questa è la maggiore stortura italiana: noi infatti tassiamo più di altri il reddito che la spesa». Quindi meno trattenute in busta paga e più Iva. «Sì, anche per combattere l’evasione». Per Vaciago è questa la vera priorità. «Il nodo principale», dice, «è far pagare le tasse. La doppia aliquote del 1994 andava nella direzione della semplificazione. Ma oggi, accanto a questa necessità, bisogna fare i conti con la diseguaglianza tra Nord e Sud, la spesa per la sanità e quella per la scuola che cresceranno sempre di più». Soluzione? «Incentivare a pagare le imposte: oggi conviene non pagarle. Penso alla fiscalità di contrasto, a forme di controlli incrociati e a deduzioni più estese».

Luigi Paganetto vede invece nella fiscalità soprattutto una leva per aumentare la competitività. E, forte della sua esperienza alla guida dell’Enea, ha studiato in questi anni come applicarla a uno dei maggiori gap italiano: il fabbisogno energetico. «Si deve insistere», spiega, «sulla deducibilità per la spesa destinata alla ricerca. E in questa direzione può essere utile il famoso “20-20-20” europeo, che porterà contenimento delle emissioni ma anche riduzione dei consumi». Nei prossimi mesi Giulio Tremonti potrà ritrovarsi in cassa con un tesoretto nel gettito che, tra scudo fiscale e ripresa, si stima in maggioranza tra i 3 e i 5 miliardi di euro. «Queste risorse», osserva Deaglio, «saranno tenute nel cassetto per evitare sorprese di fine anno. E visto che sono insufficienti per il quoziente familiare, meglio usarle per le imprese. Ma se promettono di assumere o quanto meno di non licenziare». Sulla stessa linea Paganetto: «Le politiche fiscali devono dare dinamismo. Creare un circolo virtuoso nel quale meno tasse portano più competitività, quindi più crescita e più gettito, che a loro volta consentono meno vincoli di bilanci e una pressione minore sui cittadini».


pagina 8 • 12 gennaio 2010

panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Calderoli grande Semplificatore (mancato) l decreto milleproroghe: ma che è? Il computer - cioè, uno che sa tutto o quasi - non lo conosce e me lo evidenzia in rosso. Così, a naso: il decreto milleproroghe è quella legge di fine anno (o inizio anno) che proroga alcuni provvedimenti che, pur ormai scaduti o superati, saranno ancora in vigore fino a quando non vi sarà la novità effettiva che li manderà in soffitta.

I

Domenica sul Corriere della Sera il giornalista Sergio Rizzo così concludeva il suo articolo dedicato al ministro della Semplificazione - alias Roberto Calderoli - diventato il «ministro della Complicazione» per dimostrare che non solo la semplificazione non c’è stata, ma non si è raggiunta neanche una auspicabile chiarezza del testi delle leggi: «L’ultima perla scintillante è il cosiddetto decreto milleproroghe. Un comma a caso. Il numero 14 dell’articolo 1: “Al comma 14 dell’articolo 19 del decreto legislativo 17 settembre 2007, n. 164, le parole: Fino all’entrata in vigore dei provvedimenti di cui all’articolo 18 bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e comunque non oltre il 31 dicembre 2009, la riserva di attività di cui all’articolo 18 del medesimo decreto” sono sostituite dalle seguenti: ”Fino al 31 dicembre 2010, la riserva di attività di cui all’articolo 18 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58...”. Che cosa vuol dire? Che fino a quando non sarà operativo l’Albo dei consulenti finanziari gestito dalla Consob, potrà fare il consulente finanziario soltanto chi già lo faceva alla data del 31 ottobre 2007». Come solo in Italia esiste il ministro per la Semplificazione, così solo in Italia esiste il decreto milleproroghe. Come dare torto al ministro leghista e a tutto il governo e naturalmente a tutto il Pdl che c’è un assoluto bisogno di semplificare, di rendere le leggi, la loro applicazione, la burocrazia, insomma, tutto più semplice e più chiaro? Solo che ogni qual volta un Semplificatore si mette al lavoro per facilitarci la vita, chissà perché, le cose si complicano. La solenne promessa della maggioranza di governo, quando ancora non era maggioranza, fu quella dell’abolizione delle Province e degli enti inutili. Una solenne promessa inutile. Le Province sono sempre al loro posto, imperturbabili in tutta la loro inutilità. Quando ancora dirigeva il suo quotidiano Libero,Vittorio Feltri provò a rinfrescare la memoria al Pdl. Ma anche Feltri ora ha lasciato perdere. Le Province non si toccano e se proprio si devono toccare vorrà dire che se ne creerà qualcuna nuova di zecca. Anzi, il decreto mille proroghe serve proprio e anche a rinviare l’abolizione di difensori civici e circoscrizioni. Ogni campagna elettorale ha il suo grande slogan. La Grande Verità che è la Grande Bugia. C’è stata la campagna elettorale della riforma fiscale, quella del cuneo, quella dell’abolizione delle Province e degli enti inutili. Siccome le cose dette in campagna elettorale contano meno di zero o quanto il due nel gioco della briscola, non converrà proporre l’abolizione della campagna elettorale? No, meglio prorogare.

Dopo la crisi, le famiglie si riscoprono povere In un anno, il potere d’acquisto è diminuito dell’1,6% di Alessandro D’Amato

ROMA. Cala il potere d’acquisto, aumenta l’indebitamento ma anche il risparmio. Nell’anno della crisi l’Italia delle famiglie è sempre più in difficoltà, anche se riesce in qualche modo ancora a cavarsela.

Da ottobre 2008 a settembre 2009 il potere d’acquisto delle famiglie italiane è diminuito infatti dell’1,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, come comunica l’Istat spiegando che il dato è riferito al reddito reale, mentre il reddito nominale è diminuito dell’1%. Nel periodo considerato i consumi sono diminuiti in maniera maggiore rispetto al reddito (-1,5%), quando invece la propensione al risparmio delle famiglie segna un aumento dello 0,4% (+0,2% su base congiunturale). Complessivamente la propensione al risparmio delle famiglie, ovvero il rapporto tra il risparmio lordo e il reddito disponibile, nel periodo ottobre 2008settembre 2009 è stata pari al 15,4%. Segnalando quindi così un consumatore “scoraggiato”, che preferisce tenersi il denaro in tasca in attesa di momenti migliori per investire od acquistare: è uno dei riflessi più “pavloviani” della crisi, e del pessimismo che genera automaticamente la situazione di difficoltà dell’economia italiana.

Secondo le associazioni Federconsumatori e Adusbef il calo del potere d’acquisto delle famiglie italiane è maggiore, valutabile tra l’1,8% e l’1,9%, pari a 565 euro all’anno. «Un drammatico crollo - si legge in una nota congiunta - dovuto agli effetti della pesante crisi economica che ha investito il Paese, determinando un aumento vertiginoso di cassa integrazione e licenziamenti. Ad aggravare ulteriormente la situazione, si prospettano nel 2010 nuovi aumenti consistenti (dall’assicurazione auto ai trasporti, dai carburanti alle bollette di gas, acqua e rifiuti), che comporteranno una maggiore spesa per le famiglie di 660 euro annui». Parole allarmate anche dal Codacons: «Nella migliore delle ipotesi - dichiara l’associazione - si tratta della media del pollo. I pensionati al minimo, così come le famiglie a rischio di povertà relativa, hanno un’inflazione da doppia a tripla rispetto alla media delle famiglie italiane. Per loro, quindi, il calo del potere d’acquisto è almeno doppio e, quindi, supera abbondantemente la soglia del 3%». Il Codacons chiede dunque all’Istat e al governo indici dei prezzi differenziati per fasce di reddito e per fasce sociali al fine di verificare come l’inflazione si spalma diversamente sulle varie categorie sociali. In particolare, questa l’indicazione, «sarebbe necessario un indice dei prezzi ad hoc per i pensionati, sul quale calcolare l’adeguamento delle pensioni. Inevitabile - conclude l’associazione - che tutti i dati derivati, anche indirettamente, dall’inflazione, come la perdita del potere d’acquisto, siano poi sballati da questo deficit di analisi».

Secondo le associazioni dei consumatori, in realtà è come se in un anno avessimo buttato dalla finestra un euro al giorno

E infatti, secondo i dati diffusi dall’Istat, prosegue la flessione del tasso di investimento delle famiglie (definito dal rapporto tra gli investimenti fissi lordi delle famiglie, che comprendono gli acquisti di abitazioni e gli investimenti strumentali delle piccole imprese classificate nel settore, e il loro reddito disponibile lordo), che nel terzo trimestre 2009 si è attestato al 9%, 0,3 punti percentuali in meno rispetto al trimestre precedente, risentendo di una riduzione degli investimenti (2,9%) molto superiore a quella del reddito disponibile (-0,4%). Rispetto allo stesso periodo del 2008 il tasso di investimento delle famiglie si è ridotto di 0,8 punti percentuali. Anche questo è un segnale ben preciso, che vuol significare lo scoraggiamento dei singoli rispetto alla possibilità di fruire in futuro di beni da acquistare. Anche qui, difficile non vedere ancora una volta un retaggio dei due anni di crisi economica.

Dai sindacati le voci sono ancora più preoccupate: i dati Istat sono «una conferma delle difficoltà e delle paure verso il futuro delle famiglie italiane», secondo Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil. «Per questo serve certezza di maggiori tutele per l’occupazione e il reddito e c’è bisogno di azioni concrete per la ripresa che siano in grado di infondere fiducia per il futuro, invece della riforma fiscale». «I dati Istat sul calo del potere d’acquisto delle famiglie confermano l’urgenza di intervenire sul nostro sistema fiscale riducendo le tasse a lavoratori dipendenti e pensionati» secondo invece il segretario confederale della Uil, Domenico Proietti.


panorama

12 gennaio 2010 • pagina 9

Dalle supercar ciclopiche a quelle “salvaspazio” che piacciono nel Vecchio Continente. Per scacciare la crisi economica

Detroit fa il pieno di “verde” Al salone americano dell’auto spopolano le vetture ecologiche, piccole ed europee di Renato Calvanese a sempre il salone dell’auto di Detroit è la vetrina dell’extralarge, delle supercar a otto cilindri, dei gusti ciclopici, delle fantasie smisurate frutto di una sensibilità che si situa agli antipodi rispetto a quella ecologica e salvaspazio dei cugini europei. Ma l’America del 2010 non è più quella di un anno fa, e anche il mondo dell’auto che si riunisce in questi giorni a Detroit, città universalmente nota come Motown, è irriconoscibile. Per capire il cambiamento basta dire che lo slogan più fischiettato tra gli stand di questa 103° edizione iniziata ieri con il consueto incontro con la stampa mondiale, suona più o meno così: «piccolo e verde è bello». Al ritornello però si potrebbe aggiungere una postilla velenosa senza farsi sentire dai nativi americani: piccolo, verde (ed europeo) è bello.

D

dollari riversati dal Congresso sull’auto americana stanno dando qualche frutto; migliaia di posti di lavoro sono stati persi e decine di stabilimenti chiusi per tentare di arginare la sovrapproduzione; marchi storici del gruppo GM come Saturn e Pontiac sono stati rottamati e la Hummer, simbolo per eccellenza dell’abbondanza americana, è stata venduta ad un’azienda cinese insieme alla Volvo di proprietà Ford; personaggi storici come Rick Wagoner, ceo di Gm sono sta-

ti mandati in pensione e sostituiti da una nuova leva di manager; infine la Cina ha tolto all’America il titolo di primo mercato dell’auto.

A guidare la strategia di rilancio dell’auto in America c’è Ford, l’unica motor company americana che non si è avvalsa del denaro pubblico in tempi di crisi, e che già nel terzo trimestre del 2009 ha invertito il segno negativo dei conti facendo registrare un utile di 997 milioni. Al salone di Detroit presenta per la prima volta due modelli di concezione europea: la Fiesta, gioiellino che nel 2009 ha spopolato in Europa e che solo in Italia le ha assicurato una crescita del 2% della quota mercato, e la nuova generazione Focus. Due veicoli decisamente piccoli secondo gli standard americani. Anche nello stand General Motors, di molto ridimensionato rispetto alle vecchie edizioni, quasi tutte le novità parlano d’Europa. La Chrysler invece, che partecipa al salone per la prima volta

Allestita per la prima volta una “Electric Avenue” con modelli Fiat, Toyota, Honda, Volkswagen e Bmw

Sono queste le parole d’ordine che l’America dell’auto va ripetendo come un mantra per scacciare le paure di un anno, il 2009, in cui sembrava dover sprofondare sotto gli effetti della crisi economica. General Motor e Chrysler sono state salvate dalla bancarotta solo grazie agli interventi della politica, ieri in prima fila con Nancy Pelosi e Ray Lahood, rispettivamente speaker della Camera dei rappresentanti Usa e segretario ai Trasporti della Casa Bianca, che hanno passeggiato tra gli stand per verificare se i 62 miliardi di

sotto la bandiera Fiat, non presenterà alcun nuovo modello. Pochi i sei mesi trascorsi dalla firma dell’accordo fra le due aziende La cura Marchionne è ancora in corso e il lancio del primo modello è atteso per il 2010. Accanto a qualche restyling Dodge, Chrysler e Jeep, compaiono marchi esclusivi del made in Italy come Ferrari e Maserati, un modello di Lancia Delta targata Chrysler e una 500 elettrica.

Proprio all’elettrico Detroit quest’anno dedica molto spazio. Per la prima volta una “Electric Avenue” è stata allestita nello spazio del Cobo Center e popolata da modelli con marchio Fiat,Toyota, Honda,Volkswagen, Bmw. Gli occhi sono puntati in particolar modo sul nuovo modello ibrido di casa Toyota, sulla Chevrolet Volt, elettrica di casa Gm che dovrebbe vedere la luce nel corso dell’anno, e sulla Nissan, che si appresta a mandare in produzione la Leaf, prima auto elettrica di serie. Ma negli Usa rimangono tanti gli scettici sul successo dell’elettrico. Le auto ibride come la Toyota Prius finora hanno avuto una scarsa penetrazione sul mercato americano, e stessa sorte potrebbe toccare a quelle elettriche. Riuscirà Detroit a convincere il popolo americano che “verde è bello?”. E riusciranno le case americane, in primis Chrysler-Fiat, a ficcare quattro americani in una 500? Per rispondere bisognerà aspettare ancora un po’.

Polemiche. Negli Usa i manager si danno superbonus di fine anno: l’opinione pubblica insorge

Caro banchiere, quanto ci costi... er JPMorgan e Citigroup si tratterà della quota minore di sempre, per Goldman della minore dal 1999, cioè dallo sbarco in Borsa. Per Morgan Stanley si dovrebbe trattare della quota inferiore da tre anni. Eppure gli istituti di credito hanno paura dell’ondata di critiche da parte dell’opinione pubblica e dei governi che potrebbe investirli. Oggetto del contendere, i “famigerati” bonus che, secondo il tam-tam, sarebbero stati una delle cause della crisi delle banche che si è poi propagata all’economia reale.

P

Eppure, con l’approssimarsi della stagione dei pagamenti le prime indiscrezioni sui maxi-assegni che gli istituti si preparano a staccare fanno già discutere. Sotto la pressione del governo, riporta il Financial Times, le banche hanno già dichiarato che concederanno in bonus una quota minore dei ricavi annui rispetto agli anni passati: ma i numeri sugli assegni «sono grandi abbastanza da provocare l’indignazione pubblica. E un assaggio delle polemiche politiche che si appresta-

no ad accompagnare la stagione dei bonus è arrivato da Christina Romer, numero uno degli advisor economici della Casa Bianca, che li ha definiti scandalosi» scrive il FT. Alle parole di Romer hanno fatto eco quelle del direttore degli investimenti del sindacato Afl-Cio, Dan Pedrotty, secondo il quale i manager usano le loro banche come degli Atm. L’industria bancaria distribuirà la minore quota

bilmente infuriare» l’opinione pubblica. Il quotidiano si interroga su come «avvolgere in un manto di moderazione gli assegni»: questa preoccupazione ha portato molti istituti a rivedere le pratiche di distribuzione dei compensi, favorendo il pagamento in azioni rispetto ai contanti. Ma è estremamente probabile che non basterà, visto che i titoli dei giornali si concentreranno sulle cifre tonde e non sui “dettagli”riguardo il come verranno corrisposte. Tutto dipenderà dalle cifre dell’economia: se si confermeranno i venti di ripresa, le banche riusciranno a far passare inosservati i “regalini”; se invece si dovesse di nuovo tornare ai rovesci finanziari, sarà molto difficile che la “moral suasion” di governi e opinione pubblica non attecchisca. Con buona pace dei “poveri” manager. (a.d’a.)

Financial Times e New York Times guidano la rivolta contro Wall Street e contro i «responsabili della crisi». E temono che la protesta possa allargarsi di sempre rispetto ai ricavi, anche se «continua a trattarsi di bonus che molti considerano eccessivi» spiega un manager di Wall Street. Secondo il New York Times, il comparto è assolutamente «consapevole che i numeri a sei, sette o otto cifre faranno proba-


politica

pagina 10 • 12 gennaio 2010

Regionali. Il segretario dei democratici ribalta l’impostazione dello statuto e dà un sostanziale via libera alla Bonino nel Lazio

Primarie o secondarie? Il Pd perde la “vocazione maggioritaria”. Bersani: la consultazione non è obbligatoria di Riccardo Paradisi

ROMA. «Le primarie sono un’opportunità e non un obbligo, il partito non può essere un notaio che si limita a stilare il regolamento delle primarie». Pierluigi Bersani sente che il tempo stringe e nelle Regioni come il Lazio, dove la destra è già in campo, dice che è meglio privilegiare l’immediatezza e l’efficacia della scelta. E poi «la Bonino è una fuoriclasse – sostiene il segretario del Pd – è fuori da ogni stereotipo, non c’è da indugiare». E in fondo in Puglia le cose non vanno così male: «Stiamo cercando di mettere insieme uno schieramento che sia il più competitivo possibile».

Non è un tentativo facile. L’incontro, avvenuto domenica a Bari in casa di Nicola Fratoianni, coordinatore regionale di Sinistra e Libertà, ha sortito un nulla di fatto tra il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola e il possibile candidato alla Presidenza, il parlamentare Pd Francesco Boccia. E se Boccia può contare su una coalizione con l’Udc Vendola è disposto a rinunciare alla conferma della candi-

datura solo attraverso il passaggio dalle primarie di cui l’Udc non vuole sapere niente.

Ora la patata bollente passa all’assemblea del Pd pugliese, dove esiste una massiccia componente dei delegati favorevoli alle primarie e d’altra parte l’Udc che aveva chiesto al Partito Democratico, una scelta definitiva in tempi stretti sul candidato presidente del centrosinistra che di primarie in Puglia non vuol sentir parlare.

tra questi rovesci, declinare a dirigenti e militanti del partito le primarie come variabile dipendente dalle situazioni regionali. Filippo Penati difende però con liberal le idee del segretario: «Nell’ultima riunione della segreteria ancora leader del Pd Dario Franceschini si è presa la decisione che le primarie per queste regionali avrebbero dovuto essere primarie di coalizione. Si doveva uscire dall’idea del partito a vocazione maggioritaria e

Il ginepraio pugliese è il paradigma della crisi del Pd, un partito fondato sulle primarie, strumento contemplato dallo stesso statuto. Ma quel Pd nasceva con una vocazione maggioritaria e bipolarista Il ginepraio pugliese è il paradigma della crisi del Pd, un partito fondato sulle primarie, strumento contemplato dallo stesso statuto. Ma quel Pd nasceva con una vocazione maggioritaria e bipolare mentre ora si trova ad agire entro una politica di alleanze e di contestazione al bipolarismo come si è andato prefigurando. Non è facile per Bersani navigare

quello sembrava a tutti lo strumento adatto. Ora brandire questa polemica sulle primarie come se il fine fossero appunto queste e non la vittoria nelle regioni è un assurdo. Le primarie non possono essere un totem. Se dobbiamo costruire un soggetto politico più ampio, lo strumento delle primarie non può diventare l’obiettivo». Oltre alle primarie l’oggetto

della contestazione riguarda anche i ritardi nelle candidature: nel Lazio, si obietta, si è partiti tardi. «Ma in Lombardia, Toscana ed Emilia siamo partiti un mese prima degli altri. E poi quando avremmo dovuto partire nel Lazio – replica Penati – quando non erano ancora costituiti i gruppi dirigenti regionali? O ci crediamo che questo è un partito federale o ce ne dimentichiamo ogni due per tre». Insomma per Penati le parole di Bersani sono coerenti con lo statuto. E però nel Pd questo ragionamento fa fatica a passare.

«Non era questo il patto fondativo del Pd e neppure la linea congressuale condivisa appena due mesi fa dalla maggioranza del Partito – sostiene Arturo Parisi – la questione delle primarie, il modo in cui è stato affrontata e si va definendo la scelta dei candidati alle Regionali, mette in causa la stessa natura del Pd. Dove si preferisce continuare invece con la prassi degli accordi variabili di vertice e dei fatti compiuti». L’invito di Parisi al presidente del partito Rosy Bindi, anche lei polemica sulla sospensione delle primarie, è

Una settimana fa, l’esponente Pd aveva detto: «Non la voterò di sicuro, o lei o me nel centrosinistra»

Emma vs. Paola: «I cattolici non sono integralisti» ROMA. Botta e risposta a distanza nel già complicato assetto democratico in vista delle prossime elezioni regionali. «Un sostegno del Partito democratico alla candidatura di Emma Bonino sicuramente sarebbe per me una ragione forte per andare via». Con queste parole, rilasciate la scorsa settimana al nostro quotidiano, Paola Binetti non aveva lasciato spazio a dubbi: nella conversazione con liberal era arrivata a ipotizzare persino un suo voto favorevole alla candidata del Pdl. «Vediamo quali saranno davvero gli altri candidati, ma potrebbe anche essere». Con la scelta di Bonino, secondo Binetti, «ci sarebbe una vera e propria emorragia: pensiamo davvero che la componente popolare, ad esempio, potrebbe mai far accettare al proprio elettorato la candidatura di un personaggio dal profilo senza dubbio internazionale, forte, ma anche così scolpito da essere in antitesi con tutta una serie di valori?». «La leader radicale - concludeva - ha condotto battaglie sull’aborto, sulle coppie di fatto, con disegni di legge sull’eutanasia: come può un elettorato cattolico sostenere una linea di questo tipo? Comincio a credere che se si arrivasse a una scelta chiarificatrice come il sostegno del Pd alla Bonino, si dovrà davvero vedere cosa possa fare il grande Centro a cui lavorano Ca-

di Francesco Capozza

sini e Rutelli». Non è passata nemmeno una settimana, ed ecco che ieri, in un’intervista a Radio radicale, Emma Bonino, ormai qualcosa di più che candidata in pectore del centrosinistra nonché vice presidente del Senato, ha replicato all’esponente teodem. «In questi mesi e in questi ultimi anni il rapporto con il mondo

cattolico, del volontariato, su immigrati, carcere, fame nel mondo sono sempre stati molto franchi, leali e di apprezzamento. Pochi giorni fa, per esempio, ho incontrato il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi». Ma la risposta di Bonino non è solo indirizzata a Paola Binetti, bensì anche ad altri esponenti di quell’area cattolica del Pd - come Enzo Carra, ad esempio - che non hanno lesinato critiche e perplessità in merito alla candidatura dell’esponente radicale come presidente del Lazio.

E infatti Bonino ha così proseguito: «Parlamentari come Binetti o Carra mi sembrano soffrire di una certa sovra-esposizione. E mi sembrano, più che del mondo cattolico nel complesso, espressione della parte più clericale o integralista; come mi sembra integralista l’affermazione “o lei o me” che viene attribuita alla Binetti e che a me non verrebbe mai in mente». La sfida è aperta a largo del Nazareno, a pochi giorni, forse ore, dalla scelta del candidato ufficiale con cui il Pd tenterà la sfida a Renata Polverini, appoggiata da una vastissima coalizione ed in grado di battere, secondo molti sondaggi, perfino Nicola Zingaretti. E la strada verso l’investitura per la leader radicale – fino a ieri in discesa - sembrerebbe aver subito una brusca inversione di rotta.


politica

12 gennaio 2010 • pagina 11

Le alleanze trasversali (e spesso contraddittorie) del segretario

È nato il partito degli esploratori di Antonio Funiciello Radicali, da quando in Italia si vota per le elezioni regionali (1970), un consigliere regionale nel Lazio non sono mai riusciti ad eleggerlo. Salvo forse nel 1990, quando la Lega Antiproibizionista, che all’arcipelago radicale faceva riferimento, ne elesse uno per il rotto della cuffia. Ma erano altri tempi, c’erano ancora la Dc, il Pci e compagnia bella. Si votava con un sistema diverso da quello che sarà adottato a partire dal ’93, quando (impropriamente) ai presidenti delle regioni italiane si cominciò ad affibbiare l’appellativo ridicolo di “governatori”. Ci voleva il Pd di Bersani per fare il miracolo: non un consigliere semplice o un assessore nominato, ma addirittura il candidato presidente dell’intero centrosinistra sarà radicale, nella persona di Emma Bonino. Che dieci anni fa, da par suo, s’era già candidata per governare la sua regione, il Piemonte. Già, perché Emma Bonino, prossima candidata per il centrosinistra alla presidenza della regione Lazio, è piemontese di Bra, cittadina del collinoso Roero. Ma si può capire se, dopo Marrazzo, la cosa al Pd nazionale e laziale pare meno che un dettaglio.

I

di convocare l’assemblea nazionale per far valere le prerogative e gli strumenti a disposizione di quella che è la massima carica di garanzia del Partito. La stessa richiesta viene dalla mozione Marino: «Sulle regionali, di fatto, in questa settimane abbiamo assistito ad una centralizzazione della trattativa sul tema delle alleanze e sulla scelta dei candidati presidenti. Proprio per questo, e senza tradire la natura federalista del Pd, chiediamo un confronto nella sede più autorevole e rappresentativa del partito, per contribuire a ricercare soluzioni competitive, chiare e condivise indispensabili alla costruzione di un clima unitario». Primarie non solo in Puglia, ma anche in Lazio e nel Veneto le chiede anche Debora Ser-

con tutta evidenza per il Lazio e per la Puglia». Ceccanti fa riferimento ad un altro caso dolente della geopolitica del Pd.

In Umbria, dove le primarie erano già state indette, se la candidatura valida rimane una sola, perché altre non sono legittime (il riferimento è alla terza candidatura del governatore uscente Maria Rita Lorenzetti) o non vengono presentate e perché il candidato la mantiene, si deve applicare il comma 6 di quell’articolo, secondo cui le primarie non si fanno dal momento che quell’unica candidatura diventa quella del Pd, non nel senso in cui essa possa essere arbitrariamente cancellata». Sulla stessa linea Vannino Chiti, vice presidente del Senato: «per le cariche di partito a volte si

Per Filippo Penati ha ragione il segretario: «Le primarie non possono essere un totem. Se dobbiamo costruire un soggetto politico più ampio, questo strumento non può diventare l’obiettivo» racchiani, europarlamentare Pd, segretario regionale del Friuli Venezia Giulia. Il senatore Stefano Ceccanti brandisce lo Statuto del partito: «Quando si stipula una coalizione, secondo l’articolo 20, gli alleati non hanno alcun potere di veto sulle primarie. È solo l’assemblea regionale del Pd medesimo che può decidere di derogare a quella regola generale purché la proposta, ai sensi del comma 3 di quell’articolo, raggiunga il quorum molto esigente del voto favorevole dei tre quinti dei componenti l’Assemblea. Ciò vale

può fare a meno di primarie, mentre per le istituzioni, da sindaco a presidente del Consiglio, passando quindi per i presidenti di Provincia e Regione, quanto ci sono più candidati, credo sia giusto e doveroso ricorrere alle primarie». Emma Bonino intanto osserva tranquilla il dibattito nel Pd: sulle primarie, la coalizione decide quel che ritiene, ma non e’ che noi fossimo in coalizione nella regione. La candidatura Bonino è della lista Bonino Pannella, e tale resta». Il Pd ormai sembra una variabile dipendente.

quale Bersani ha costruito la sua vocazione esploratrice. La priorità del Pd di un accordo nazionale con l’Udc verso un’intesa futura antiberlusconiana con Casini premier è nel Lazio stravolta dalla candidata presidente Bonino: liberale, liberista, abortista e antiproibizionista (e piemontese). In Puglia, dove il Pd non vuole accettare le primarie richieste da Vendola perché ha paura di perderle, l’asse privilegiato con l’Udc va a discapito delle forze alla sinistra del Pd, che pure Bersani puntava a rianimare per ricostituire il piede sinistro della coalizione. Ma Lazio e Puglia non sono che le due punte di un iceberg gigantesco. In Piemonte i comunisti di Ferrero e quelli di Diliberto, in giunta con la Bresso, minacciano la candidata uscente che privilegia il dialogo con l’Udc. In Campania la lunga anticamera del Pd in quel di Nusco, nell’attesa che De Mita cambi idea e si allei col suo vec-

Da un lato la riscoperta dei radicali, dall’altra lo schiaffo alla sinistra alternativa: il balletto per le candidature alla regionali impedisce ai democratici una linea univoca

Difficile dire oggi quanto il tutto apparirà marginale agli elettori del Lazio. Fatto sta che dopo l’esplorazione fallita di Zingaretti, il Pd in mano non ha niente altro se non la possibilità di affidarsi alla vice presidente del Senato. Marco Boato, politico di lungo corso e intellettuale avvertito, ha fatto notare come il ritorno nel gergo politico dell’espressione ”mandato esplorativo”(capolavoro del Pd) ha riportato la politica italiana indietro di venti-trent’anni. Allora i mandati esplorativi erano utilizzati quando i partiti governativi erano immobilizzati dalle lotte interne e costretti così a prendere tempo. Oggi il mandato esplorativo di Zingaretti, quello di Boccia e quello che è stato dato da Bersani – pur senza chiamarlo così – al segretario regionale campano Amendola, nascono dalla stessa difficoltà e svolgono la medesima funzione. Con l’aggravante che le regole del gioco sono intanto cambiate e questa vocazione esploratrice che, ai tempi di Bersani, ha sostituito la vocazione maggioritaria, fa girare il Pd intorno a sé come un cane che si morde la coda. Bersani, tornato dalle vacanze, ha assicurato che non è così, che «il Pd non è in balia degli eventi: abbiamo un filo logico per dar vita ad un centrosinistra più competitivo alle prossime elezioni regionali». Andiamolo a vedere questo filo logico. Del Lazio s’è già detto: nessuna candidatura alla presidenza più di quella della Bonino allontana quel centro cattolico in rapporto al

chio partito, agita l’Idv. Di Pietro è in realtà in tutta Italia sul piede di guerra, dalla Calabria, dove tra pochi giorni si celebreranno finte primarie per confermare Loiero, alle regioni rosse, dove l’Idv accusa il Pd di non considere l’alleato dipietrista alla stregua degli altri alleati. Questo il filo logico di Bersani.

Il guaio per l’ex ministro prodiano è che nella logica sommatoria della grande alleanza pensata da D’Alema, tutti gli alleati sono indispensabili. Per rifare l’Unione, non si può fare a meno dell’Udc, visto che Mastella, Dini e gli altri centristi della vecchia alleanza sono ormai con Berlusconi; così come non si può fare a meno del movimento di Vendola, ancor più se si decide di rinunciare (ma D’Alema non si rassegna) ai comunisti di Ferrero e Diliberto. Per fare cosa, non è dato sapere. Bersani ha abbassato la asticella al risultato delle europee, quando il Pd considerò una vittoria quella netta sconfitta. Un buon modo per continuare a vivere alla giornata e a credere nei miracoli.


il paginone

pagina 12 • 12 gennaio 2010

Pubblichiamo il testo del tradizionale discorso di inizio anno del Papa al corpo diplom

Occidente, non sei p «Si moltiplica in tutto il mondo la violenza contro i cristiani, ma anche nelle democrazie si diffonde nei salotti politici e culturali, come pure nei media un sentimento di ostilità, per non dire disprezzo verso la nostra religione» di Benedetto XVI per me motivo di grande gioia questo incontro tradizionale d’inizio d’anno, due settimane dopo la celebrazione della nascita del Verbo incarnato. A Natale abbiamo contemplato il mistero di Dio e quello della creazione; mediante l’annuncio degli angeli ai pastori ci è giunta la buona novella della salvezza dell’uomo e del rinnovamento dell’intero universo. Per questa ragione, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest’anno, ho invitato tutti gli uomini di buona volontà, ai quali gli angeli hanno promesso giustamente la pace, a custodire il creato. Ed è in questo stesso spirito che sono lieto di salutare ciascuno di Voi, in particolare coloro che sono presenti per la prima volta a questa cerimonia (...).

È

Il mio pensiero si estende, anche, a tutte le altre Nazioni della terra: il Successore di Pietro mantiene le sue porte aperte a tutti e con tutti desidera avere relazioni che contribuiscano al progresso della famiglia umana. Da qualche settimana, sono state stabilite piene relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Federazione Russa: è questo un motivo di profonda soddisfazione. Allo stesso modo, è stata molto significativa la visita che mi ha reso recentemente il Presidente della Repubblica Socialista del Vietnam, Paese che è caro al mio cuore e nel quale la Chiesa sta celebrando la sua plurisecolare presenza con un Anno giubilare. Con tale spirito di apertura, nel corso del 2009, ho ricevuto numerose personalità politiche, provenienti da diversi Paesi; ho anche visitato alcuni di essi e mi propongo in futuro, nella misura del possibile, di continuare a farlo. La Chiesa è aperta a tutti, perché - in Dio esiste per gli altri! Pertanto essa partecipa intensamente alle sorti dell’umanità, che in questo anno appena iniziato, appare ancora segnata dalla drammatica crisi che ha colpito l’economia mondiale e ha provocato una grave e diffusa instabilità sociale. Con l’Enciclica Caritas in veritate ho invitato ad individuare le radici profonde di tale situazione: in ultima analisi, esse risiedono nella mentalità corrente egoistica e materialistica, dimentica dei limiti propri a ciascuna creatura. Oggi mi preme sottolineare che questa stessa mentalità minaccia anche il creato. Ciascuno di noi, probabilmente, potrebbe citare qualche esempio

dei danni che essa arreca all’ambiente, in ogni parte del mondo. Ne cito uno, tra i tanti, dalla storia recente dell’Europa: vent’anni fa, quando cadde il Muro di Berlino e quando crollarono i regimi materialisti ed atei che avevano dominato lungo diversi decenni una parte di questo Continente, non si è potuto avere la misura delle profonde ferite che un sistema economico privo di riferimenti fondati sulla verità dell’uomo aveva inferto, non solo alla dignità e alla libertà delle persone e dei popoli, ma anche alla natura, con l’inquinamento del suolo, delle acque e dell’aria? La negazione di Dio sfigura la libertà della persona umana, ma devasta anche la creazione! Ne consegue che la salvaguardia del creato non risponde in primo luogo ad un’esigenza estetica, ma anzitutto a un’esigenza morale, perché la natura esprime un disegno di amore e di verità che ci precede e che viene da Dio. Pertanto, condivido la maggiore preoccupazione che causano le resistenze di ordine economico e politico alla lotta contro il degrado dell’ambiente. Si tratta di difficoltà che si sono potute constatare ancora di recente durante la XV Sessione della Conferenza degli Stati parte alla Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, svoltasi dal 7 al 18 dicembre scorso a Copenaghen. Auspico che, nell’anno corrente, prima a Bonn e poi a Città del Messico, sia possibile giungere ad un accordo per affrontare tale questione in modo efficace. La posta in gioco è tanto più importante perché ne va del destino stesso di alcune Nazioni, in particolare, alcuni Stati insulari (...).

Vorrei sottolineare ancora che la salvaguardia della creazione implica una corretta gestione delle risorse naturali dei paesi, in primo luogo, di quelli economicamente svantaggiati. Il mio pensiero va al Continente africano, che ho avuto la gioia di visitare nel marzo scorso, recandomi in Camerun ed Angola, ed al quale sono stati dedicati i lavori della recente Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi. I Padri sinodali hanno segnalato con preoccupazione l’erosione e la desertificazione di larghe zone di terra coltivabile, a causa dello sfruttamento sconsiderato e dell’inquinamento dell’ambiente. In Africa, come altrove, è necessario adottare scelte politiche

ed economiche che assicurino «forme di produzione agricola e industriale rispettose dell’ordine della creazione e soddisfacenti per i bisogni primari di tutti» (...). Sì, Signore e Signori, la custodia del creato è un importante fattore di pace e di giustizia! Fra le tante sfide che essa lancia, una delle più gravi è quella dell’aumento delle spese militari, nonché quella del mantenimento o dello sviluppo degli arsenali nucleari. Ciò assorbe ingenti risorse, che potrebbero, invece, essere destinate allo sviluppo dei Popoli, soprattutto di quelli più poveri. Confido, fermamente, che nella Conferenza di esame del Trattato di NonProliferazione nucleare, in programma per il maggio prossimo a NewYork, venga-

La negazione di Dio sfigura la libertà della persona umana, ma devasta anche la creazione. La salvaguardia del creato non risponde in primo luogo a un’esigenza estetica, ma anzitutto a una morale

no prese decisioni efficaci in vista di un progressivo disarmo, che porti a liberare il pianeta dalle armi nucleari. Più in generale, deploro che la produzione e l’esportazione di armi contribuiscano a perpetuare conflitti e violenze, come quelli nel Darfur, in Somalia e nella Repubblica Democratica del Congo. All’incapacità delle parti direttamente coinvolte di sottrarsi alla spirale di violenza e di dolore generata da questi conflitti, si aggiunge l’apparente impotenza degli altri Paesi e delle Organizzazioni internazionali a riportare la pace, senza contare l’indifferenza quasi rassegnata dell’opinione pubblica mondiale. Non occorre poi sottolineare come tali conflitti danneggino e degradino l’ambiente. Come, infine, non menzionare il terrorismo che mette in pericolo un così gran numero di vite innocenti e provoca un diffuso senso di angoscia? In questa solenne circostanza, desidero rinnovare l’appello che ho lanciato il 1° gennaio durante la preghiera dell’Angelus a quanti fanno parte di gruppi armati di qualsiasi tipo affinché abban-


il paginone

12 gennaio 2010 • pagina 13

matico accreditato presso la Santa Sede. Dall’ecologia alla guerra

più un bell’ambiente dell’ambiente è complessa. Si potrebbe dire che è un prisma dalle molte sfaccettature. Le creature sono differenti le une dalle altre e possono essere protette, o, al contrario, messe in pericolo, in modi diversi, come ci mostra l’esperienza quotidiana. Uno di tali attacchi proviene da leggi o progetti, che, in nome della lotta contro la discriminazione, colpiscono il fondamento biologico della differenza fra i sessi. Mi riferisco, per esempio, ad alcuni Paesi europei o del Continente americano. «Se togli la libertà, togli la dignità», come disse S. Colombano.Tuttavia, la libertà non può essere assoluta, perché l’Uomo non è Dio, ma immagine di Dio, sua creatura. Per l’uomo, il cammino da seguire non può quindi essere l’arbitrio, o il desiderio, ma deve consistere, piuttosto, nel corrispondere alla struttura voluta dal Creatore.

donino la strada della violenza e aprano il loro cuore alla gioia della pace.

Le gravi violenze che ho appena evocato, unite ai flagelli della povertà e della fame, come pure alle catastrofi naturali ed al degrado ambientale, contribuiscono ad ingrossare le fila di quanti abbandonano la propria terra. Di fronte a tale esodo, invito le Autorità civili, che vi sono coinvolte a diverso titolo, ad agire con giustizia, solidarietà e lungimiranza. In particolare, vorrei menzionare i Cristiani in Medio Oriente: colpiti in varie maniere, fin nell’esercizio della loro libertà religiosa, essi lasciano la terra dei loro padri in cui si è sviluppata la Chiesa dei primi secoli. È per offrire loro un sostegno e per far loro sentire la vicinanza dei fratelli nella fede, che ho convocato, per l’autunno prossimo, l’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi sul Medio Oriente. Quelle che ho tracciato finora sono soltanto alcune delle dimensioni connesse con la problematica ambientale. Tuttavia, le radici della situazione che è sotto gli occhi di

Vaticano e Russia più vicini: riaperta la Nunziatura a Mosca ROMA. Il 9 dicembre 2009, la Santa Sede ha stabilito relazioni diplomatiche con la Federazione Russa, a livello di Nunziatura Apostolica da parte della Santa Sede e di Ambasciata da parte della Federazione Russa. Sono quindi 178 gli Stati che attualmente intrattengono relazioni diplomatiche piene con la Santa Sede. A questi vanno aggiunti l’Unione Europea ed il Sovrano Militare Ordine di Malta e una Missione a carattere speciale: l’Ufficio dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Per quanto riguarda le Organizzazioni Internazionali, la Santa Sede è presente all’Onu in qualità di ”Stato osservatore”; è, inoltre, Membro di 7 Organizzazioni o Agenzie del sistema Onu, Osservatore in altre 8 e Membro o Osservatore in 5 Organizzazioni regionali.

tutti, sono di ordine morale e la questione deve essere affrontata nel quadro di un grande sforzo educativo, per promuovere un effettivo cambiamento di mentalità ed instaurare nuovi stili di vita. Di ciò può e vuole essere partecipe la comunità dei credenti, ma perché ciò sia possibile, bisogna che se ne riconosca il ruolo pubblico. Purtroppo, in alcuni Paesi, soprattutto occidentali, si diffondono, negli ambienti politici e culturali, come pure nei mezzi di comunicazione, un sentimento di scarsa considerazione, e, talvolta, di ostilità, per non dire di disprezzo verso la religione, in particolare quella cristiana. È chiaro che, se il relativismo è concepito come un elemento costitutivo essenziale della democrazia, si rischia di concepire la laicità unicamente in termini di esclusione o, meglio, di rifiuto dell’importanza sociale del fatto religioso.

Un tale approccio crea tuttavia scontro e divisione, ferisce la pace, inquina l’“ecologia umana” e, rifiutando, per principio, le attitudini diverse dalla propria, si trasforma in una strada senza uscita. Urge, pertanto, definire una laicità positiva, aperta, che, fondata su una giusta autonomia tra l’ordine temporale e quello spirituale, favorisca una sana collaborazione e un senso di responsabilità condivisa. In questa prospettiva, io penso all’Europa, che con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha iniziato una nuova fase del suo processo di integrazione, che la Santa Sede continuerà a seguire con rispetto e con benevola attenzione. Nel rilevare con soddisfazione che il Trattato prevede che l’Unione Europea mantenga con le Chiese un dialogo ”aperto, trasparente e regolare”, auspico che, nella costruzione del proprio avvenire, l’Europa sappia sempre attingere alle fonti della propria identità cristiana. Come ho rimarcato durante il mio viaggio apostolico del settembre scorso nella Repubblica Ceca, essa ha un ruolo insostituibile ”per la formazione della coscienza di ogni generazione e per la promozione di un consenso etico di fondo, al servizio di ogni persona che chiama questo continente «casa»!”. Proseguendo nella nostra riflessione, è necessario rilevare che la problematica

La salvaguardia della creazione comporta anche altre sfide, alle quali non si può rispondere che attraverso la solidarietà internazionale. Penso alle catastrofi naturali, che durante l’anno scorso hanno seminato morti, sofferenze e distruzioni nelle Filippine, in Vietnam, nel Laos, in Cambogia e nell’isola di Taiwan. Come non ricordare poi l’Indonesia, e, più vicino a noi, la regione dell’Abruzzo, scosse da

Se il relativismo è concepito come un elemento costitutivo essenziale della democrazia,si rischia di concepire la laicità unicamente in termini di esclusione o,meglio, di rifiuto del fatto religioso

devastanti terremoti? Di fronte a simili eventi non deve venire meno l’aiuto generoso, perché la vita stessa delle creature di Dio è in gioco. Ma la salvaguardia della creazione, oltre che della solidarietà, ha bisogno anche della concordia e della stabilità degli Stati. Quando insorgono divergenze ed ostilità fra questi ultimi, per difendere la pace debbono perseguire con tenacia la via di un dialogo costruttivo. È quanto avvenne venticinque anni or sono con il Trattato di Pace ed Amicizia fra Argentina e Cile, che fu raggiunto grazie alla mediazione della Sede Apostolica. Esso ha portato abbondanti frutti di collaborazione e prosperità, di cui ha beneficiato, in qualche modo, l’intera America Latina.

In questa stessa parte del mondo, sono lieto del riavvicinamento intrapreso da Colombia ed Ecuador, dopo parecchi mesi di tensione. Più vicino a noi, mi compiaccio dell’intesa conclusa tra Croazia e Slovenia a proposito dell’arbitrato relativo alle loro frontiere marittime e terrestri. Mi rallegro, altresì, dell’accordo tra Armenia e Turchia, in vista della ripresa delle loro relazioni diplomatiche, ed auspico che attraverso il dialogo, i rapporti fra tutti i Paesi del Caucaso meridionale migliorino.

Durante il mio pellegrinaggio in Terra Santa, ho richiamato in modo pressante Israeliani e Palestinesi a dialogare e a rispettare i diritti dell’altro. Ancora una volta levo la mia voce, affinché sia universalmente riconosciuto il diritto dello Stato di Israele ad esistere e a godere di pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti. E che, ugualmente, sia riconosciuto il diritto del Popolo palestinese ad una patria sovrana e indipendente, a vivere con dignità e a potersi spostare liberamente. Mi preme, inoltre, sollecitare il sostegno di tutti perché siano protetti l’identità e il carattere sacro di Gerusalemme, la sua eredità culturale e religiosa, il cui valore è universale. Solo così questa città unica, santa e tormentata, potrà essere segno e anticipazione della pace che Dio desidera per l’intera famiglia umana! Per amore del dialogo e della pace, che salvaguardano la creazione, esorto i governanti e i cittadini dell’Iraq ad oltrepassare le divisione, la tentazione della violenza e l’intolleranza, per costruire insieme l’avvenire del loro Paese.

Anche le comunità cristiane vogliono dare il loro contributo, ma perché ciò sia possibile, bisogna che sia loro assicurato rispetto, sicurezza e libertà. Anche il Pakistan è stato duramente colpito dalla violenza in questi ultimi mesi e alcuni episodi hanno preso di mira direttamente la minoranza cristiana. Domando che si compia ogni sforzo affinché tali aggressioni non si ripetano e i cristiani possano sentirsi pienamente integrati nella vita del loro Paese. Trattando delle violenze contro i cristiani, non posso non menzionare, peraltro, i deplorevoli attentati di cui sono state vittime le Comunità copte egiziane in questi ultimi giorni, proprio quando stavano celebrando il Natale. Per quanto riguarda l’Iran, auspico che attraverso il dialogo e la collaborazione, si raggiungano soluzioni condivise, sia a livello nazionale che sul piano internazionale. Al Libano, che ha superato una lunga crisi politica, auguro di proseguire sempre sulla via della concordia. Confido che l’Honduras, dopo un periodo di incertezza e trepidazione, si incammini verso una ritrovata normalità politica e sociale. E lo stesso mi auguro che si realizzi in Guinea ed in Madagascar, con l’aiuto effettivo e disinteressato della comunità internazionale. Al termine di questo rapido giro d’orizzonte, che, a motivo della brevità non può soffermarsi su tutte le situazioni pur meritevoli di menzione, mi tornano alla mente le parole dell’Apostolo Paolo, secondo cui ”la creazione geme e soffre” e ”anche noi… gemiamo interiormente”. Sì, c’è tanta sofferenza nell’umanità e l’egoismo umano ferisce la creazione in molteplici modi. Per questo l’attesa di salvezza, che tocca tutta quanta la creazione, è ancor più intensa ed è presente nel cuore di tutti, credenti e non credenti. La Chiesa indica che la risposta a tale anelito è il Cristo, il ”primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra”. Fissando lo sguardo su di Lui, esorto ogni persona di buona volontà ad operare con fiducia e generosità per la dignità e la libertà dell’uomo. Che la luce e la forza di Gesù ci aiutino a rispettare l’“ecologia umana”, consapevoli che anche l’ecologia ambientale ne trarrà beneficio, poiché il libro della natura è uno ed indivisibile. È così che potremo consolidare la pace, oggi e per le generazioni che verranno. Buon Anno a tutti!


mondo

pagina 14 • 12 gennaio 2010

Pandemia A. L’accusa arriva da Wolfgang Wodarg, presidente della commissione Sanità. «Allarme creato di proposito»

H1N1: e se fosse un bluff? Ammissione shock del Consiglio d’Europa: «Una truffa delle case farmaceutiche» di Luisa Arezzo o pensavano tutti, ma nessuno lo aveva detto ufficialmente. Da ieri il velo sulla presunta pandemia A è stato squarciato da Wolfgang Wodarg, presidente tedesco della Commissione Sanità del Conisglio d’Europa. Che senza giri di parole ha detto: «L’influenza A, le cui conseguenze per settimane hanno tenuto in allarme milioni di persone, in realtà era una falsa pandemia orchestrata dalle case farmaceutiche pronte a fare miliardi di euro con la vendita del vaccino». Punto. Da qui si può solo andare accapo. Tanto che ieri il Consiglio d’Europa ha approvato una risoluzione che chiede un’inchiesta in merito e calendarizzato un dibattito di fuoco già per la fine di gennaio.

L

Il j’accuse è pesantissimo, visto che Wodarg, ex membro dell’Spd ma soprattutto medico ed epidemiologo, ha spiegato in dettaglio come le multinazionali del farmaco avrebbero influenzato la decisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di dichiarare l’emergenza mondiale. «Le industrie hanno accumulato “enormi guadagni” senza alcun rischio finanziario, mentre i governi di tutto il mondo prosciugavano i ma-

gri bilanci sanitari spendendo milioni nell’acquisto di vaccini contro un’infezione che in realtà era poco aggressiva». La denuncia arriva solo qualche giorno dopo la decisione di alcuni paesi europei, fra cui Francia e Germania, di vendere milioni di dosi di vaccino acquistate all’apice della crisi, ad altri governi (soprattutto asiatici e africani).

Soltanto pochi mesi fa, in piena estate, il solo Regno Unito aveva previsto almeno 65mila decessi in meno di un anno, creato una linea-verde e un sito web per dare consigli, sospeso

«Le industrie hanno accumulato enormi guadagni senza alcun rischio finanziario, mentre i governi di tutto il mondo prosciugavano i magri bilanci sanitari spendendo milioni nei vaccini» la regola che vieta di vendere anti-virali senza prescrizione medica; allertato gli obitori e persino l’esercito, che doveva essere pronto a entrare in campo qualora si fossero verificati tumulti tra la popolazione a caccia dei farmaci. Ebbene, tanta solerzia era per nulla. E questo avrà delle ripercussioni su tutti i governi della Ue. Secondo Wodarg, il caso del-

l’influenza suina è stato «uno dei più grandi scandali sanitari» del secolo. Le maggiori aziende farmaceutiche, secondo il Commissario tedesco, sarebbero riuscite a piazzare i propri uomini negli ingranaggi dell’Oms e di altre influenti organizzazioni; e in tal modo avrebbero persino convinto l’organizzazione Onu ad ammorbidire al principio la defini-

zione di pandemia, per rendere più credibile l’intera messincena. L’acceleratore mediatico sarebbe stato schiacciato invece nel mese di giugno scorso, con la dichiarazione di pandemia in tutto il mondo.

«Per promuovere i loro farmaci brevettati e i vaccini contro l’influenza, le case farmaceutiche hanno influenzato scienziati e organismi ufficiali, competenti in materia sanitaria, e così allarmato i governi di tutto il mondo: li hanno spinti a sperperare le ristrette risorse finanziari per strategie di vaccinazione inefficaci e hanno

esposto inutilmente milioni di persone al rischio di effetti collaterali sconosciuti per vaccini non sufficientemente testati». Ora, Wodarg non fa alcun nome esplicito di persona in conflitto di interessi; ma poco prima di Natale il quotidiano inglese Daily Mail aveva rivelato che Sir Roy Anderson, uno scienziato consulente del governo britannico sull’influenza suina, fa parte del consiglio d’amministrazione della GlaxoSmithKline, l’azienda farmaceutia che - assieme alla Roche e alla Novartis - produce antinfluenzali e vaccini. Immediata la replica della GSK, che ha de-

La paura di virus e malattie sono sicuramente un buon affare per le aziende del settore

Un business da dieci miliardi di Pierre Chiartano alse pandemie per pompare soldi nella casse delle case farmaceutiche? Questa è l’accusa, pesantissima, lanciata da Wolfgang Wodarg, il presidente tedesco della commissione Sanità del Consiglio d’Europa, tramite il quotidiano britannico Daily Mail. È fuor di dubbio che nelle ultimi crisi pandemiche le notizie prima e le azioni dei governi poi, siano state improntate da una certa dose di confusione. Nella nuova era della globalizzazione anche virus e malattie hanno acquistato le stesse caratteristiche potenziali delle crisi economiche: rapide, devastante e globali. E c’è forse chi ha speculato sulla paura della gente e dei governi. L’influenza suina aveva acceso i primi dubbi su virulenza e pericolosità, pur essendo un’influenza che qualche morto sembra averlo provocato. A spartirsi il grande business dell’influenza suina è stato un ristretto gruppo di

F

giganti dell’industria farmaceutica: Glaxo-Smith-Kline, Sanofi Aventis, Novartis, Astra Zeneca. Accanto ai vaccini antinfluenza ci sono anche i medicinali per chi, l’influenza, l’aveva già contratta. Per l’influenza H1N1 è ancora Big Pharma a dominare il mercato. Anzitutto con il Tamiflu della Roche. E poi con il Relenza, ancora di Glazo-Smith-Kline. Secondo J.P.Morgan, Tamiflu e Relenza porteranno, rispettivamente a

rischio pandemia vale, per Big Pharma, circa 10 miliardi di dollari. Indipendentemente dal fatto che poi la pandemia esploda o meno i soldi, nelle casse dell’azienda farmaceutica - chiamata a preparare l’antidoto - sono entrati in quantità. È un business da 10 miliardi di dollari.

Anche se ogni singola dose di vaccino è destinata a costare una decina di euro, ciò che conta è il volume delle vendite. La banca d’investimento J.P.Morgan, ha calcolato che i governi abbiano già prenotato, presso le 3-4 aziende in grado di produrre il vaccino su larga scala, almeno 600 milioni di dosi. Per un controvalore di 3 miliardi di euro, circa 4,3 miliardi di dollari. La sola Francia, ha fatto un ordine per 94 milioni di dosi per un costo di 1 miliardo di euro. Quando è arrivato sulla scena il virus H1N1, il ministe-

La banca J.P.Morgan ha calcolato che per l’influenza suina i governi abbiano già prenotato almeno 600 milioni di dosi, per un controvalore di oltre 3 miliardi di euro Roche e Glaxo vendite per 1,8 miliardi di dollari nei Paesi ricchi, più 1,2 miliardi di dollari nei Paesi in via di sviluppo. Complessivamente, altri 3 miliardi di dollari, oltre 2 miliardi di euro. Fra vaccini e medicine, il


mondo

In alto, il planisfero Oms che segnala il dilagare della pandemia. A sinistra, in senso orario: il presidente della Commissione Sanità Wolfang Wodarg, e un chimico al lavoro durante la sperimentazione sul vaccino. In basso, i farmaci antivirali e alcune delle case farmaceutiche interessate dallo scandalo

Il virus, segnalato per la prima volta a fine marzo 2009 in Messico, ha provocato finora quasi 12mila morti a livello mondiale. Ma le prime stime Onu parlavano di milioni di morti possibili finito le accuse «sbagliate e infondate». Ma a nessuno è sfuggito che lo striminzito comunicato non abbia minimamente paventato una qualsivoglia ipotesi di querela al Commissario Wodarg.

Che la malattia nella stragrande maggioranza dei casi si sia presentata in forma leggera è del resto palese dalle statisti-

che mediche. Milioni di persone contagiate dal virus H1N1 hanno presentato scarsi sintomi, o non ne hanno presentati affatto, ed è dunque possibile che, possedendone gli anticorpi, abbiano contratto la malattia senza saperlo e senza consultare il medico: lo afferma uno studio su 500 donne incinte tra i 20 ed i 39 anni di età, realizzato dall’Unità dedicata

ro della Salute di Londra aveva previsto 65mila decessi creato una linea-verde e un sito web per dare consigli, sospeso la regola che vieta di vendere anti-virali senza prescrizione medica. Furono allertati gli obitori e persino l’esercito. Sempre J.P.Morgan stima che, alla fine, ai 600 milioni di dosi già prenotate se ne sommeranno altri 350 milioni, per un’ulteriore costo di oltre 2 miliardi e mezzo di dollari, più di 1,8 miliardi di euro.

Il miliardo di dosi prenotate, o in via di prenotazione, è largamente insufficiente a coprire una popolazione mondiale che sfiora i 7 miliardi di persone. Ma è anche, più o meno, il massimo che gli impianti attuali possano produrre, sotto forma di fiale da iniettare (in Europa) o di spray nasale (negli Usa). Sicuramente un grande affare per Big Pharma. Bisogna ammettere che ricerca e investimenti possonoe

ai virus emergenti nell’Università Aix-Marsiglia.

In Italia, secondo l’ultimo bollettino del ministero della Salute, all’8 gennaio sono state vaccinate 820.456 persone e distribuite 7.423.851 dosi di vaccino; i casi stimati (ripeto: solo stimati, non accertati) di influenza dall’inizio della pandemia sono 3.872.000, con 200 vittime correlate alla nuova influenza. Al picco dell’emergenza, l’Italia ha ordinato 48 milioni di dosi (la Francia 94 milioni, idem la Germania) con l’obiettivo di vaccinare il 40% della popolazione, a partire dalle ca-

12 gennaio 2010 • pagina 15

tegorie a rischio e quelle di pubblica utilità. Vaccinazione che però è stata disattesa da larga parte della popolazione, anche perché lo stesso mondo medico si è diviso al riguardo prendendo spesso le distanze dall’ordinanza ministeriale.

Interpellata sulle critiche all’Oms, accusata di essere stato troppo allarmista, Margaret Chan, direttore generale dell’Organizzazione, ha giustificato «l’atteggiamento molto prudente» dell’Oms di fronte a questa «prima pandemia da quattro decenni» a questa parte. L’Oms non è stata «influenzata né da Paesi, né dall’industria farmaceutica al momento di prendere decisioni», ha garantito. Sottolineando che si trattava di un nuovo virus (che) si propagava in modo duraturo in più di due regioni del mondo, il direttore ha sottolineato di aver consultato «virologi, specialisti in epidemiologia e specializzati in sanità pubblica» prima di dichiarare lo stato di pandemia lo scorso giugno. «In termini di communicazione», ha però riconosciuto Chan, «c’è stato un notevole divario tra le attese e la realtà». Riconoscimento a parte, «è troppo presto

ssere attuati solo dai grandi gruppi. Senza i grandi nomi dell’industria farmaceutica, probabilmente, non ci sarebbero né le medicine, né la speranza del vaccino. Cinque anni fa, nell’inverno 2004-2005, negli Usa non si riuscì a mettere insieme le dosi previste di vaccino contro l’influenza ordinaria, prodotte da due aziende relativamente piccole: Aventis Pasteur e Chiron. In effetti, Big Pharma si teneva per lo più lontana da un settore che appariva poco promettente: nel 2004 le vendite complessive di vaccini in generale - non solo per l’influenza - raggiungevano appena gli 8 miliardi di dollari, meno degli incassi di un singolo farmaco fra i più diffusi. Poi, alcune aziende hanno scoperto che, con i vaccini, si possono far soldi. La Wyeth con un vaccino contro lo pneumococco (84 dollari a dose). La Merck con uno contro il papilloma (130 dollari a dose). Big Pharma ha scoperto il settore: Novartis

per affermare che si è superato il picco della pandemia di influenza A a livello mondiale», ha dichiarato Chan. «In alcuni Paesi dell’emisfero nord come Canada e Stati Uniti, si è superato il picco della seconda ondata della pandemia. Ma non tutti i Paesi sono a questa fase. L’inverno è ancora lungo e occorre restare prudenti e osservare l’evoluzione della pandemia dai sei ai prossimi dodici mesi prima di cantare vittoria». E in ogni caso, forse per prendere un po’ di tempo, ha detto che non sarà possibile stilare un bilancio sull’impatto del virus H1N1 prima di due anni.

Ma se in Europa si tira un sospiro di sollievo e si pensa a come ricollocare le scorte di vaccino inutilizzate (e il nostro Paese sarebbe pronto a donare il 10% delle scorte), in Asia ed in particolare in Cina è invece allarme: Il virus A si starebbe rapidamente diffondendo nelle campagne, ha avvertito il governo, e si teme un picco di casi con il prossimo capodanno lunare, il 14 febbraio, quando milioni di cinesi torneranno a casa per i festeggiamenti. Da qui l’invito a un’immediata di vaccinazione di massa...

ha comprato Chiron, Sanofi ha preso Aventis Pasteur, Astra Zeneca Medimmune, Glaxo Id Biomedical, ancora Sanofi la Acambis, Pfizer ha assorbito Wyeth. Senza questa concentrazione di mezzi e di ricerca, affermano le ditte farmaceutiche, non ci sarebbero le risorse industriali per una risposta rapida all’emergenza pandemia. Nonostante lo sforzo messo in campo dalle aziende del settore, il vaccino, anche se prenotato, sarebbe ancora un punto interrogativo.

I ricercatori della Novartis hanno fatto sapere che, nei test di laboratorio sul virus della suina, riescono a produrre solo il 30-50 per cento dell’antigene - che è l’elemento attivo del vaccino - che normalmente si ottiene per il virus dell’influenza ordinaria. Il processo di produzione è ancora lungo: una volta isolato il virus in laboratorio, le milioni di dosi di vaccino vanno coltivate per un periodo di 4-6 mesi.


quadrante

pagina 16 • 12 gennaio 2010

Ue. L’Europarlamento chiamato a decidere sulle sorti del governo comune l nuovo corpo diplomatico europeo, il processo di pace nel tormentato Medioriente e il modo di approcciarsi alla problematica iraniana, che monta di giorno in giorno. Sono questi i temi principali affrontati ieri dal nuovo capo della politica estera dell’Unione europea, la baronessa inglese Catherine Ashton, designata il mese scorso dal presidente Barroso con l’accordo dei capi di Stato e di Governo dei Ventisette. Proprio la Ashton, vice presidente in pectore della Commissione, è sotto l’attento esame dell’Europarlamento, che dovrà avallare la sua nomina e quella di tutta la nuova Commissione. A dire la verità la nobildonna si era già sottoposta alle domande degli europarlamentari, subito dopo la sua nomina, per permetterle di iniziare sin da subito a esprimere l’opinione del Continente nei vari vertici internazionali. Ma quel primo appuntamento non era stato superato senza danni. In quell’occasione, infatti, la vicepresidente designata era stata bersaglio di aspre critiche per la sua scarsa esperienza in materia di politica internazionale. Come ha sottolineato introducendo l’audizione il presidente della Commissione Affari Esteri Gabriele Albertini, «che l’Alto rappresentante sia la prima a sottoporsi alle domande degli europarlamentari è paradigmatico della novità principale introdotta dal trattato di Lisbona: la creazione di una nuova politica estera europea che sarà appunto guidata da Catherine Ashton».

I

Che, da parte sua, ha confermato l’intenzione di lavorare duramente per mettere a punto un vero strumento diplomatico a servi-

Otto giorni di esami per il Barroso bis Per prima “alla sbarra” è la Ashton, pronta a lanciare la diplomazia europea di Vincenzo Faccioli Pintozzi

ternazionali e se un Paese vuole esser trattato come merita deve lavorare con noi. Dobbiamo essere pronti al dialogo, ma abbiamo molto chiaro quello che vogliamo dall’Iran». Un Iran a cui, ha sottolineato, «l’Unione europea ha già dato e proposto molto, sempre in termini positivi». La baro-

Secondo la baronessa britannica, Medioriente e Iran sono i primi punti da sciogliere per i ventisette membri del “post-Lisbona” zio dell’Europa. Parlando ai giornalisti, ad esempio, ha preannunciato un incontro con Tony Blair - inviato del Quartetto per il Medio Oriente (di cui fanno parte Usa, Russia, Ue e Onu) - sul Medio Oriente già oggi e le prossime visite a Washington, Mosca e Pechino sui “temi caldi” della politica internazionale: dall’Afghanistan allo Yemen, dall’Iran al Medio Oriente. Ha poi dichiarato: «Deploriamo tutte le violazioni dei diritti umani che sono state compiute in Iran. Esistono regole in-

nessa ha poi indicato un altro dei punti cardini del suo programma di governo: «È vitale avere progressi verso la pace tra israeliani e palestinesi, occorre sfruttare la situazione di calma relativa nella regione. È vitale avere progressi nel Medioriente per arrivare a due Stati: lo stato d’Israele ha il diritto di esistere in piena sicurezza così come lo hanno i palestinesi». Ashton ha avvertito che «in un momento in cui c’è calma relativa, non si deve prendere questa calma come sicurezza a lungo

In corso le audizioni ai 26 Commissari

Gli uomini del presidente Sono iniziati ieri gli esami per i commissari proposti da José Manuel Durao Barroso: in otto giorni, i 26 candidati del Barroso-bis saranno sottoposti alle domande del Parlamento europeo: una prova collettiva e individuale. Le audizioni sono un’opportunità per i 736 parlamentari di fronteggiare l’autorita’ delle 27 capitali, che hanno selezionato i commissari, e il presidente Barroso, che ha assegnato i portafogli. Dopo aver superato l’esame, i prescelti saranno formalmente investiti della squadra che guiderà l’Ue fino al 2014. Anche se 14 candidati facevano parte del primo esecutivo comunitario (tra loro, l’italiano Antonio Tajani), il presidente del Parlamento Europeo Jerry Buzek ha avvertito che gli esami saranno “duri e rigorosi”. Ma la crisi economica e la

lunga ratifica del Trattato di Lisbona hanno aumentato e l’ansia di vedere al lavoro la nuova commissione, e dunque il “passaggio” dovrebbe essere quasi indolore. Fra i possibili scogli ci sono la nomina della commisssaria alla Cooperazione Internazionale, Aiuti Umanitari e Emergenze, Rumiena Jeleva, che potrebbe trovarsi di fronte all’ostilità dei deputati per le rivelazioni della stampa sui legami del marito a gruppi mafiosi. Un altro appuntamento che potrebbe rivelarsi spinoso è quello fra l’emiciclo di Bruxelles e l’ungherese Laszlo Andor, proposto per Lavoro e Affari Sociali. Il passato comunista del neo Commissario, e la sua provata ortodossia nei confronti del regime ungherese, non piace ad alcuni gruppi di potere del Parlamento.

termine, ma come un’opportunità per andare avanti».Tuttavia, ha aggiunto subito dopo in pieno stile “Vecchio Continente”, «non è mio compito dire come. Questo fa parte del dibattito tra le due parti». Ma la Ashton non intende dimenticare le problematiche dei Paesi “vicini” e in particolare le relazioni dell’Europa nei Balcani e in Ucraina.

Anche per questo, però, ha deciso la strada: «Sono consapevole dell’importanza di questo ruolo e ho accelerato in queste settimane la mia preparazione: credo soprattutto nella necessità di risposte multilaterali alle complicate questioni poste dal processo di globalizzazione». La creazione di un servizio esterno «è una grande priorità non solo da un punto di vista burocratico: è una di quelle opportunità che si hanno una volta in una generazione. Si tratta di creare qualcosa di valore aggiunto per i cittadini». Adesso, ha detto Ashton, «il lavoro è cominciato, come ho accelerato la mia preparazione, presenterò una proposta che consenta una decisione del Consiglio ad aprile. Siamo in un momento unico del viaggio europeo, è una grande opportunità, dobbiamo essere orientati a trovare risultati, sfruttando gli strumenti che il Trattato di Lisbona ci dà. Il mio lavoro consisterà nel fornire slancio e leadership, ma essenziale sarà il sostegno pubblico e soprattutto del Parlamento europeo». Secondo Ashton, in effetti, il nuovo Trattato «consente di lavorare per un’Europa più democratica, più efficace, con un ruolo più credibile e più forte in un mondo in continuo cambiamento». I toni dell’audizione sono parsi, questa volta, più appropriati rispetto all’ultimo incontro fra la “Signora Pesc” e l’emiciclo. Tuttavia, la mancanza di esperienza e la relativa fama internazionale di cui gode la Ashton rimangono uno scoglio che sembra insuperabile per coloro che speravano in un’unione di Stati forte e in grado, soprattutto, di tenere testa agli Stati Uniti e alla Russia in quei campi di politica estera che dividono il Vecchio continente. In ogni caso, bisogna essere giusti e aspettare i tempi di maturazione: la baronessa per adesso è in rampa di lancio, ma per darle un voto bisognerà aspettarne almeno il primo atterraggio. Sperando con tutto il cuore, per il bene dell’Unione e dei suoi cittadini, che non sia troppo brusco.


quadrante

12 gennaio 2010 • pagina 17

Il leader dell’unionista Dup si sospende per sei settimane

Non si placa l’ira musulmana per l’uso della parola “Allah”

Ulster, dopo lo scandalo si dimette il premier

Malaysia, nove attacchi in 4 giorni contro i cristiani

DUBLINO. Il primo ministro

KUALA LUMPUR. Nuovo attacco contro un edificio cristiano in Malaysia: ieri è stato colpito il tempio di Sidang Injil Borneo, situato nello stato centrale di Negeri Sembilan. Due giorni fa altri quattro luoghi di culto o istituti religiosi erano finiti nel mirino dei fondamentalisti. Dall’8 gennaio scorso sono nove gli edifici cristiani assaltati. Le violenze sarebbero una risposta contro la decisione dell’Alta Corte che il 31 dicembre scorso ha autorizzato il settimanale cattolico Herald a utilizzare la parola “Allah” nell’edizione in lingua malay. Il reverendo Eddy Marson Yasir, della chiesa di Sidang Injil Borneo, riferisce di essere stato chiamato da un fedele «che ha visto la porta della chiesa incendiata. C’era del fumo – aggiunge – ma siamo stati fortunati, le fiamme

dell’Ulster, Peter Robinson, leader del partito unionista Dup, si è autosospeso dall’incarico per sei settimane e ha chiesto alla collega Arlene Foster, attualmente ministro locale per le imprese, di prendere il suo posto. La decisione è stata presa in seguito allo scandalo scoppiato per la relazione di sua moglie Iris, 60 anni, con un diciannovenne al quale aveva prestato 50mila sterline. La notizia, data all’Assemblea nazionale dell’Ulster dallo “speaker” William Hay, è arrivata poco dopo che Robinson aveva ricevuto una conferma di massimo sostegno dal suo partito.

La sospensione dovrebbe durare quanto una possibile inchiesta sul suo operato sul prestito ottenuto dalla moglie, del quale sapeva ma che non dichiarò, come invece impone di fare la legge. Con una sua eventuale rinuncia si aprirebbe un futuro incerto per l’Irlanda del Nord; un quotidiano locale ipotizza tra l’altro un ritorno sulla scena del reverendo Ian Paisley. I governi di Londra e Dublino, dal canto loro, temono che il Sinn Fein si avvantaggi delle eventuali dimissioni di Robinson per rompere il governo di coalizione di Belfast e per arrivare alle elezioni anticipate ri-

Tra Londra e Israele un Rapporto di troppo Il testo Goldstone ha scatenato un’inutile battaglia legale di Mario Arpino mpegnate con Afghanistan e Yemen, le agenzie tornano a occuparsi anche di Israele. E non soltanto perché nella striscia Hamas non sembra essere in grado di controllare alcune sue fazioni, che hanno ripreso il lancio di razzi e granate verso i villaggi oltre confine. Ovviamente la parola è passata subito agli F.16, che hanno “tartassato” l’area dei tunnel. Ma, prima ancora di questo, a riportare il conflitto agli onori della cronaca sono stati i flemmatici inglesi. Incuranti della continua caduta del governo di Gordon Brown - ora nei sondaggi al 30 per cento rispetto al 42 di Cameron - cercano di attaccare briga con i meno flemmatici israeliani. La notizia è che alcuni ufficiali di Tshaal hanno dovuto rinunciare ad un viaggio di lavoro in Inghilterra per timore di essere arrestati. Le fonti inglesi minimizzano, ma, in effetti, è dall’uscita del Rapporto Goldstone, commissionato dall’Onu per far luce sui presunti crimini nel corso dell’operazione Piombo Fuso a Gaza, che i rapporti tra i due Paesi non sono esattamente idilliaci. Come, a onore del vero, non lo sono mai stati. Gli israeliani probabilmente ricordano ancora che gli inglesi sono stati tra i maggiori ostacoli alla creazione dello Stato indipendente, mentre i britannici non hanno mai digerito l’attentato al King David Hotel, perpetrato a loro danno sessant’anni fa dall’Irgun. Il Rapporto, da molti giudicato “partigiano” perché a totale detrimento di Tshaal mentre sorvola sui crimini di Hamas, ha scatenato in diverse magistrature - e segnatamente in alcuni giudici dell’Alta Corte di Sua Maestà - un gran desiderio di trarre in giudizio per crimini di guerra contro l’umanità militari israeliani e alti funzionari governativi responsabili dell’attacco a Gaza.

I

Sembra sia la terza volta in pochi mesi che gli inglesi ci provano, segno che i magistrati della corte di Westminster sono determinati e mirano in alto. Infatti, già all’inizio di dicembre era stato spiccato un mandato nei confronti di Tzipi Livni, ministro degli esteri e membro del gabinetto di guerra al tempo di Piombo Fuso.

La signora avrebbe dovuto partecipare a Londra ad una conferenza benefica del Jewish National Fund britannico, il quale, assieme alla notizia, ha confermato severe valutazioni nel merito. L’arresto è fallito - ed il mandato ritirato dai giudici - solo perché l’ignara Livni era stata costretta all’ultimo momento a rinunciare al viaggio, per motivi mai resi noti. La tentazione di pensare a una “soffiata”del Mossad è difficilmente contenibile. Qualche mese prima, in settembre, la stessa Corte, su richiesta degli avvocati di alcuni palestinesi, aveva spiccato un mandato di arresto nei confronti di Ehud Barak, ministro della difesa in carica, anche lui accusato di crimini contro l’umanità. In quel caso, la procedura non era andata a effetto solo perché il ministero degli esteri Millibrand aveva certificato alla Corte che si trattava di un ministro in carica, in attività bilaterale di governo, protetto per effetto di uno “State Immunity Act” del 1978. Tempi duri per le personalità non più in carica - anche Olmert si troverebbe nelle stesse condizioni della Livni - in quanto soggette a un “Criminal Justice Act”del 1988, che conferisce ai magistrati di Westminster “giurisdizione universale” sui crimini contro l’umanità. Per il momento, quindi, nulla di fatto. Resta purtroppo che il Rapporto Goldstone, accettato solo dai pro-Hamas in quanto omette o sorvola sui crimini di questa parte in causa, sta producendo più danni che benefici. Ciò non stupisce, considerato l’atteggiamento sempre tenuto dall’Onu. Meraviglia invece che proprio i britannici, con svariati problemi in casa loro, abbiano voglia e tempo per occuparsi di questo.

Il Criminal Justice Act dà ai giudici inglesi “giurisdizione universale” sui crimini commessi (ovunque) contro l’umanità

spetto alla data naturale del prossimo anno. Dopo aver tentato il suicidio, la first lady è ricoverata in trattamento psichiatrico da alcuni giorni al Belfast Health and Social Care Trust. Madre di tre figli e deputata del Partito democratico unionista, Iris Robinson, aveva annunciato di volersi dimettere perché depressa. La sua confessione di aver tradito il marito con il 19enne Kirk McCambley era stata resa nota dallo stesso primo ministro, che aveva convocato la stampa a poche ore dalla messa in onda di una trasmissione della Bbc, “Spotlight”. Il programma aveva sostenuto che Robinson era a conoscenza del prestito non dichiarato della moglie e che lo aveva tenuto nascosto.

Per quanto la questione sembri in buona misura di carattere ideologico - anzi, dicono alcuni, forse proprio per questo - il pericolo per gli israeliani all’estero non è solo virtuale.

non si sono propagate». Fonti della polizia confermano altri quattro attacchi, contro luoghi di culti cristiani, avvenuti ieri. Gli assalitori hanno lanciato bombe Molotov contro una chiesa e una scuola gestita da religiosi nello stato di Perak; colpita anche una chiesa a Sarawak, nell’isola del Borneo; una quarta chiesa, nel sud del Paese, è stata imbrattata con vernice nera.

Nonostante le violenze, i cristiani hanno voluto partecipare come d’abitudine alle funzioni domenicali. Circa 1000 fedeli hanno ascoltato la messa alla chiesa cattolica dell’Assunzione di Kuala Lumpur, uno degli edifici attaccati l’8 gennaio scorso. P. Phillis Muthu ha chiesto ai fedeli di essere pazienti. «Non vogliamo incolpare – afferma il parroco – nessun abitante, quartiere o religione. Siamo una comunità pacifica e siamo qui per offrire le nostre preghiere per la nazione». Il sacerdote ha ammesso di essere “spaventato per gli incidenti”, ma aggiunge: «La vita deve andare avanti». La Malaysia ha una presenza consistente di minoranze etniche, tra cui quella cinese e indiana. Il 60% circa è di religione musulmana: i cristiani sono circa il 10% della popolazione.


cultura

pagina 18 • 12 gennaio 2010

Mostre. Fino all’11 aprile 2010, nella reggia torinese della Venaria Reale, “Dai templari a Napoleone. Storie di crociati, soldati, cortigiani”

Lo zodiaco dei Cavalieri Viaggio illustrato nella storia europea attraverso i racconti e le gesta dei diversi ordini cavallereschi di Massimo Tosti el 2001 (in occasione del cinquantesimo anniversario dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana) l’allora Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi stigmatizzò un modo di dire entrato nel vocabolario corrente da più di un secolo: «Un sigaro e una Croce di Cavaliere non si negano a nessuno». Non citò l’autore, che era il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II. Le onorificenze (e, in particolare, il titolo di cavaliere) hanno origini antichissime. Il re gentiluomo - che aveva gusti popolari, e nient’affatto aristocratici - ne distribuiva in quantità esagerate, e questo spiega la disinvoltura con la quale ne parlava.

N

I primi ordini cavallereschi, nel Medioevo, riunivano i nobili che combattevano sotto il segno della Croce; nei secoli seguenti lasciarono il posto a quelli monarchici del Rinascimento e dell’Ancien Régime; infine sono arrivate le decorazioni al merito, moderne e democratiche: quelle che premiano il lavoro, o l’altruismo (eroismo) in guerra e in pace. Siamo lontanissimi dalle «donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie e l’audaci imprese» cantate da Ariosto nell’Orlando furioso, che celebrava le gesta dei paladini di Francia. E siamo lontanissimi dalle leggende di re Artù e della Tavola rotonda. Ma un sottile fil-rouge lega i crociati, o i templari, ai Cavalieri del lavoro, o ai commendatori al merito della Repubblica. Un racconto affascinante di questo percorso quasi millenario è offerto da una mostra allestita nella reggia torinese della Venaria Reale. Si intitola: Cavalieri. Dai templari a Napoleone. Storie di crociati, soldati, cortigiani. Curata da Alessandro Barbero e Andrea Merlotti, la mostra ospita molti capolavori di artisti famosi: il Ritratto equestre di Giovan Carlo Doria, cavaliere di Santiago del Rubens, il Ritratto di cavaliere

di Malta di Tiziano, il Ritratto di cavaliere Mauriziano del Carracci, il Ritratto di cavaliere di Fra’ Galgario, il Ritratto di San Giovanni Battista come cavaliere di Malta di Mattia Preti, Il conferimento dell’ordi-

L’esposizione è curata per intero da Alessandro Barbero e Andrea Merlotti, e ospita molti capolavori di artisti famosi

ne del Santo Spirito al principe Girolamo Vaini di Cantalupo di Giovanni Paolo Pannini. Uno dei pezzi che attira maggior-

mente l’attenzione del pubblico è la “testa di Templecombe”, una tavola medievale datata alla fine del XIII secolo, negli anni immediatamente precedenti al processo (voluto dal re di Francia Filippo il Bello) che segnò la tragica fine dell’Ordine dei Templari. Murata e ricoperta di intonaco, fu ritrovata durante la Seconda guerra mondiale in seguito all’esplosione di una bomba tedesca nel villaggio inglese che le ha dato il nome, già sede di una precettoria templare. Molte sono le leggende che ruotano attorno a quest’opera: alcuni sostengono che rappresenti il volto di Cristo della Sindone; altri ci vedono semplicemente la testa di San Giovanni Battista: in ogni caso la sua storia romanzesca fa nascere il sospetto che la “testa di Templecombe” abbia invece qualcosa a che fare con l’idolo a forma di testa umana (il Baphomet) che i Templari erano accusati di adorare in segreto. Al di là dei singoli oggetti e dei documenti esposti, la mostra offre un panorama storico pressoché completo dell’evoluzione degli ordini che – nel corso dei secoli – hanno diffuso l’idea che l’onore, o il merito, di un uomo possano essere esaltati e ricompensati con il diritto di portare una croce o di indossare un particolare simbolo di riconoscimento.

Al principe di Metternich, protagonista della Restaurazione (che nei primi anni del XIX secolo ripristinò l’ordine sociale delle monarchie settecentesche, sconvolto dalla rivoluzione francese e dalla tempesta napoleonica) fu attribuita una frase - L’uomo comincia dal barone - che distruggeva i fondamenti della democrazia con l’elogio della nobiltà. Che - occorre precisare - non è necessariamente di casta, ma può es-

In queste pagine, le immagini di alcune delle importanti opere in mostra, fino all’11 aprile 2010 nella reggia torinese della Venaria Reale, nell’ambito dell’esposizione “Cavalieri. Dai templari a Napoleone. Storie di crociati, soldati, cortigiani”

sere anche di sentimenti. Le leggende antiche raccontano di un’età buia (siamo nel Medioevo) nel corso della quale «scomparvero dal mondo la lealtà, la solidarietà, la verità e la giustizia». Dilagarono allora «la slealtà, l’inimicizia, l’ingiuria e la falsità, provocando errore e sconcerto nel popolo di Dio». Fu allora che «il popolo fu diviso per migliaia, e da ogni mille ne fu scelto uno che si distinguesse dagli altri per gentilezza d’animo, lealtà, saggezza e forza». Quell’uomo fu detto “cavaliere”. Più o meno negli

stessi anni nei quali fu dipinta la testa di Templecombe, uno scrittore catalano Ramon Llull (definito dai contemporanei Doctor illuminatus) spiegò le origini del titolo

di cavaliere: «Fra tutte le bestie qual è la più bella, la più veloce, la più pronta ad affrontare qualunque sacrificio? Qual è la più adatta a servire l’uomo?». La risposta è semplice: il cavallo. «E poiché il ca-


cultura dei quali si hanno notizie certe ammontano a diverse centinaia: dai più famosi (i Templari, l’ordine del Santo Sepolcro e quello dei Cavalieri di Malta e di Rodi, dal Toson d’oro ai Santi Maurizio e Lazzaro, dalla Giarrettiera allo Speron d’oro, dall’ordine teutonico di Santa Maria in Gerusalemme all’ordine costantiniano) a quelli meno conosciuti (Sant’Alessandro Nevskij, Cigno nero, della Corona di Hawaii, della Fedeltà e della Sincerità, dei Portaspada di Livonia, del Sigillo di Salomone) fino alle decorazioni al merito oggi presenti in quasi tutti i Paesi del mondo (in Europa, l’unica eccezione è la Svizzera, che trova sempre il modo per distinguersi).

vallo è la bestia più nobile e adatta a servirlo, l’uomo lo scelse, e ne fece dono a colui che era stato scelto fra mille e che perciò si chiama cavaliere».

Uno scrittore francese dello scorso secolo affidò a un saggio (Le secret de la Chevalerie, pubblicato nel 1930) le sue considerazioni esoteriche sul fenomeno. «Re Artù», scrisse, «non è morto. dorme nell’isola di Avalon, sempre atteso dai Bretoni, con la spada Excalibur al fianco. Nemmeno Merlino è morto. Dorme il suo sonno nel-

la foresta di Brocelandia, nella selva di Paimpont. La sua arpa è nascosta nella grotta di Fingal, in Scozia. Quando verrà l’Anticristo a tentare la conquista del Santo Graal, Artù e Merlino si risveglieranno per difendere il vaso sublime». Sicuramente Dan Brown si è ispirato a questo genere di letteratura per conquistare il pubblico dei giorni nostri con le sue storie di pura invenzione, che affondano le radici nel mistero e tentano di spiegarlo. Gli ordini cavallereschi

Cesare Cantù, nella sua Storia Universale (scritta a metà del XIX secolo) dedicò un capitolo ai Cavalieri antichi, soffermandosi su quella che era una caratteristica peculiare dell’attività del cavaliere (e che ha rappresentato nei secoli una suggestione indiscutibile): la «cerca dell’avventura». «Entrato nell’ordine, il cavaliere davasi in traccia di avventura, seco portando una ciarpa o un nastro donatogli dalla dama de’ suoi pensieri, o vestendo il colore che esprimesse lo stato dell’animo suo. Giovani di famiglie primane coprivano talora lo scudo, perché non si vedesse lo stemma finché le lanciate degli avversari non n’avessero stracciato il velo. Così correvano città o provincie in traccia di perigli e di fatiche; o per tingere la spada nel sangue de-

gli infedeli, o vedendo altre Corti, massime quella di Spagna, per aiutarla contro i Mori; o cercando lontano alcun cavalier rinomato, per seco venir a prova di valore; o sfidan-

12 gennaio 2010 • pagina 19

cavaliero escluso mandava il guanto allo scortese, lieto di perigliarsi per liberare i soffrenti. Tal altra fiata capitava a rocche dove era posta a gran prova la sua fermezza; con sale addobbate a bruno, giganti minacciosi, notturni rumori, e spettri e trabocchetti, e le forze d’una potenza ignota. Udiva essere accusato un debole? chiamava a giudizio una bella indifesa? accorreva; colla spada provava bugiardo l’accusatore, salvava i calunniati. Né sdegnava talora accompagnare all’arti del brando quella del giocoliere; e Tagliaferro canta-

do tra via chi portasse apparenza d’uom forte; o accorrendo a’ tornei, per farvi risuonare il nome della dama, ed esser gridato terrore degli eroi e sospiro delle belle. In cupi valloni e fiere spelonche incontravano qualche volta gentili donne e cavalieri famo-

va, lanciava in aria la spada e la ripigliava galoppando a spron battuto».

si, con cui provavansi di cortesia e di coraggio. A sera toccavano la campanella d’un romitorio o d’un convento, e il valore riceveva asilo della santità. Ovvero accostavansi ad un castello, ed ecco il corno annunziava da lungi la loro venuta; il ponte calava: la dama e le damigelle disarmavano il ben venuto, e gli ammannivano il bagno, le aque odorate e i vini generosi. Amava scoprirsi? riceveva il tributo delle lodi meritate, e il trovadore cantava durante la mensa le sue prodezze. Gli giovava tenersi celato? copriva la propria divisa, non facendosi conoscere che per qualche titolo arcano; “il cavalier nero, dalla lancia d’oro, dalla penitenza, dal bianco scudo”. Ma talora nel castello abitava un fellone, inospito agli stranieri; un geloso che teneva prigione un fiore di beltà: un tiranno che imponeva fiere condizioni a chi giungeva ne’ suoi poderi. Il

L’eroismo (cioè l’avventura sublimata dal fine giusto e dal sacrificio supremo) garantiva un trattamento privilegiato nel momento supremo. «Moriva sui campi della gloria? tutti i fratelli d’arme in lutto solenne gli rendevano gli estremi ufficii. Cadeva lontano dalla patria? un compagno, uno scudiero lo sotterrava appiè d’un tronco antico, al quale sospendeva le armi e lo scudo, che ne conservassero il nome e i vanti. I cavalieri crociati sepellivansi colle armi e colle gambe in croce, e tali effigiavansi sopra gli avelli». Attenzioni che non vengono riservate ai cavalieri dei tempi nostri. Fino al 2001 (poi le onorificenze sono state modificate e aggiornate) i cavalieri erano la “quinta classe”, un gradino sotto gli ufficiali e due sotto i commendatori. Ritornava la dizione nella prima classe: i cavalieri di gran croce. E tornava (torna ancora) nel più alto riconoscimento professionale al quale si possa ambire: il cavalierato del lavoro. Ma neppure a loro (i grandi imprenditori che contribuiscono allo sviluppo economico del Paese) sono conferiti onori paragonabili a quelli che spettavano agli antichi cavalieri. Ed è anche giusto, perché l’avventura non è più una caratteristica dei prodi di oggi, che non si confrontano con i “perigli” di un tempo, non partecipano a tornei e giostro, e se riscuotono il “sospiro” delle belle dame, lo devono più al portafogli che al coraggio.


cultura

pagina 20 • 12 gennaio 2010

Perugia. La modernizzazione del capoluogo umbro, dalle scale mobili delle case dei Baglioni al minimetrò di Jean Nouvel

Quando l’antico si sposa col futuro di Claudia Conforti

In questa pagina, uno scatto della Galleria archeologica ipogea di Perugia del gruppo Paolo Belardi; due immagini della copertura aerea della galleria energetica di Coop Himmelb(l)au; un’immagine della sezione longitudinale con le diverse quote del progetto

erugia è stata la prima città in Italia a intuire e a valorizzare le potenzialità funzionali dei suoi strati archeologici, affondati nel sottosuolo e perduti nell’oblio dello sguardo. La costruzione infatti, nel 1983, di un sistema di scale meccaniche tra la valle e corso Vannucci, asse viario centrale di Perugia, si è tradotta in una visionaria riscoperta e rifigurazione di un lacerto dimenticato di città medievale. Ci si riferisce alle cosiddette case dei Baglioni: un quartiere caratterizzato dalle abitazioni dei Baglioni, antichi signori della città, inghiottito nel 1540 dalle sostruzioni di una possente cittadella costruita dall’architetto toscoromano Antonio da Sangallo il Giovane. Commissionata da papa Paolo III per sottomettere e intimidire i riottosi sudditi perugini, la fortezza, denominata dal nome del committente rocca Paolina, sarà distrutta dai cittadini, in quanto simbolo di tirannia sul popolo, alla caduta dello stato Pontificio. Con l’avveniristica costruzione delle scale mobili, giustificata in primo luogo da esigenze funzionali, volte a velocizzare l’accesso pedonale al centro storico, Perugia svelò e risvegliò la sorprendente ricchezza e l’attualità dei luoghi sepolti del suo corpo antico. Occorre precisare che un’azione progettuale a scala urbana di quella natura non si improvvisa.

P

Non è infatti un immaginifico colpo di genio di un architetto artista e demiurgo: al contrario essa è il frutto, appassionatamente coltivato e lentamente maturato, di lunghe indagini conoscitive, condotte da gruppi di specialisti appartenenti a discipline diverse; di reiterate prospezioni e misurazioni topografiche, archeologiche e architettoniche; di un’affilata interpretazione storica e comprensione critica dei segni materiali che il tempo ha inabissato nelle pieghe profonde dell’organismo urbano. Questo precedente urbanistico, ormai lontano, ha tuttavia costantemente indirizza-

to, come un lievito sottile e tenace, le coraggiose e disinibite scelte di sviluppo del capoluogo umbro. Tra esse spicca il recentissimo progetto del francese Jean Nouvel, architetto del parigino Institut du Monde Arabe, finalizzato a rendere rapidi e spediti i collegamenti tra il nucleo antico di Perugia e i suoi nuovi quartieri esterni, tramite un velocissimo minimetrò. Inaugurato ai primi del 2008, il trenino metropolitano rivela in filigrana l’intento di coniugare un problema di natura infrastrutturale con l’estro creativo di svelare la città a se stessa, tagliando paesaggi urbani a quote inusuali, scoccando scorci inattesi e prospettive vertiginose. L’esperienza del

curato dal brillante progettista perugino Paolo Belardi, edito allo scadere del 2009 da Fabrizio Fabbri editore di Perugia. Il volume presenta i risultati operativi di una ricerca condotta sul campo

È stata la prima città italiana a intuire e a valorizzare le potenzialità funzionali dei suoi strati archeologici, risvegliando la ricchezza e l’attualità dei luoghi sepolti del suo corpo antico percorso sulla minuscola saettante metropolitana rossa di Nouvel, inanella esperienze percettive inconsuete, che mettono impietosamente a fuoco sia la qualità (poca) che la pochezza di tanta

parte della città di recente edificazione. L’intervento infrastrutturale di Nouvel è il presupposto dell’ambiziosa ipotesi urbanistica e architettonica illustrata nel libro Camminare nella Storia. Nuovi spazi pedonali per la Perugia del terzo millennio

della città, della sua architettura e della sua storia dal Dipartimento di Ingegneria Civile e ambientale dell’Università di Perugia, con l’apporto progettuale di Wolf D. Prix di Coop Himmelb(l)au, uno studio di progettazione di Vienna celebre per il realismo avveniristico delle sue creazioni. La ricerca finanziata grazie al contributo della Fondazione della cassa di Risparmio di Perugia e da Nova Oberdan spa, si innesta nel solco innovativo della tradizione urbanistica perugina del dopoguerra che, felice-

mente sperimentata con le case dei Baglioni, ha raccolto la sfida del passato trasfondendola in linfa viva del presente e del futuro della città. Se è la necessità di un’infrastruttura urbana a far scattare l’interruttore della ricerca storica e archeologica, è il progetto architettonico a dispiegare “naturalmente” una serrata concatenazione di ipotesi, capaci di rispondere alle richieste e alle attese della città e del suo territorio. Nel caso in questione il luogo d’azione è uno slargo, chiamato piazza del Sopramuro. Lì, contro un arcone di contenimento sotto cui affiorano stratificate tessiture murarie, approdano i collegamenti meccanici del minimetrò con la città.

È un luogo di incerta connotazione, che non accoglie e non indirizza il visitatore, che sosta smarrito. Da questa indefinitezza spaziale hanno preso le mosse i sistematici studi storici e i rilievi metrici che hanno alimentato la ricerca: il luogo ha rivelato vigorose potenzialità funzionali, tradotte dal gruppo di Belardi in una fantastica galleria archeologica sotterranea che incanala i flussi del minimetrò e li conduce all’aperto, nel cuore storico di Perugia. Lì, con un formidabile colpo scenico, si è accolti da un cielo tumultuante e artificiale ideato dall’architetto Prix di Coop Himmelb(l)au. Una sommossa copertura, scintillante di nembi cirri e cumuli artificiali, si distende su via Mazzini, rovesciando concettualmente e figurativamente i messaggi e i sensi della galleria ipogea di accesso. Alle penombre ctonie, screziate dalle luci artificiali che illuminano il passo e i reperti del passato remoto cittadino, si contrappone la sfacciata e gioiosa luminosità dei drappeggi cristallini di un cielo artificiale, che fluttua sui coppi e protegge dagli agenti atmosferici, attribuendo a una sezione della città storica, progressivamente abbandonata dai commerci, l’appetibilità commerciale di un modernissimo Mall, che custodisce ed esalta l’impronta antica e compatta della città del tempo.


sport Napoli c’è un detto, molto indicato per esprimere in sintesi l’attuale situazione dei bianconeri, che suonerà molto familiare a Ciro Ferrara: mettere ’na femmina in mano a ’na criatura. La Juventus è insomma come una bella donna, affidata alle mani inesperte di un bimbo». Leone Piccioni, scrittore e saggista che alla passione letteraria accompagna un altrettanto tenace attaccamento alla Vecchia Signora, sintetizza così l’avvilente impasse in cui sembra essere piombata la squadra di Ferrara. Una parabola a precipizio, che dalla eliminazione in Champions patita contro il Bayern, sembra aver toccato il fondo all’indomani delle tre pappine rifilate a Buffon e company da un Milan non irresistibile. «Un autentico sconquasso – commenta Roberto Mussapi, scrittore e tifoso bianconero di vecchia data –, è evidente che bisogna cambiare l’allenatore. Dato il livello di questa dirigenza non è difficile immaginare che verrà fatta la cosa peggiore: affidare la squadra a un traghettatore inconsistente». Tutta colpa dell’allenatore, dunque? «Non proprio – argomenta Piccioni – basta guardare all’attuale rendimento di Felipe Melo e Diego per rendersi conto che si è verificato un cortocircuito tra programmazione societaria e conduzione tecnica. Sono stati strapagati calciatori che ad oggi vengono impiegati fuori ruolo, nell’incertezza di un modulo in continuo mutamento, che penalizza altri giocatori come Marchisio, un mediano di grande qualità costretto a restare defilato nella zona sinistra del campo». «Blanc ha speso venticinque milioni per portare a Torino un bidone come Felipe Melo, che non è neppure titolare nella nazionale carioca e che sarebbe stato già abbastanza generoso pagare più di sei o sette milioni di euro», spiega Mussapi. Ammesso che la campagna acquisti 2009-10 si sia rivelata sul campo pressoché disastrosa, bisogna cercare di comprendere perché persino la vecchia guardia, che a tutt’oggi costituisce l’ossatura della

12 gennaio 2010 • pagina 21

«A

Sport. La crisi della Juve analizzata da due tifosi doc: Mussapi e Piccioni

Ciro, Melo & C: la Signora scompare di Francesco Lo Dico squadra, sembra avere smarrito gli antichi ardori. «A mio modo di vedere, nella Juventus non mancano i grandi calciatori. Sette o otto sono stabilmente nel giro della Nazionale, e poi ce ne sono altri come Sissoko, Camoranesi e Buffon, che sono stati penalizzati in modo pesante dagli infortuni. È evidente però che una bandiera come Nedved, uno che sapeva infondere ai compagni quello spirito battagliero che ha fatto le fortune della Juve negli anni passati, non è stato sostituito da un campione all’altezza», osserva Piccioni. E in tema di

campagna acquisti, Mussapi è perentorio: «Basta con i consigli di Lippi, dietro i fallimentari ritorni di Cannavaro e Grosso c’è la sua ombra. Continuare a rivangare il passato è disastroso per la Juventus, ma anche per la Nazionale, che si presenterà ai mondiali con una serie di vecchie glorie che difficilmente supereranno il girone eliminatorio». Il nome di Lippi, chiama in causa naturalmente anche una dirigenza da molti indicata come inadeguata al blasone di un club che sino a pochi anni fa era protagonista in Italia e in Europa.

Nella foto grande, alcuni giocatori bianconeri durante una fase di gioco. Qui sopra, una scena di contestazione dei tifosi juventini durante il big-match contro il Milan. A sinistra, Bettega. A destra, Lapo Elkann

«Bettega è il Bertolaso bianconero, ma cambiare allenatore non basta. Bisogna convincere Secco a cambiare mestiere» «Questa Juventus è una società fatta da incompetenti – prosegue lo scrittore cuneese – che forse non sono del tutto in buona fede. Sono quelli che hanno accettato la B senza neppure rivendicare il diritto di difendere un club glorioso in tribunale. Sono stati lasciati andare via due scudetti non si sa in cambio di quale vantaggio». E a proposito dei fasti passati, e della triste vicenda di Calciopoli, Mussapi aggiunge: «Meno male che nel disastro si è pensato di richiamare Bettega, l’unico dirigente capace di questa squadra. È il Bertolaso della Juve, ma perché i bianconeri possano uscire da quest’incubo

non basterà che Roberto convinca gli altri manager a cambiare allenatore. La vera impresa sarà convincere Alessio Secco a tornare al suo mestiere: organizzare menù e scegliere alberghi: una specie di guida turistica, peraltro di modesto livello». Un compito delicato, quello di Roberto Bettega. Ma nell’immediato, che fare? «La Juventus ha già attraversato periodi di crisi. Su tutte quella dei tempi di – Maifredi chiosa Piccioni – bisogna fare quadrato e procedere per gradi. Per quest’anno, a mio avviso, bisogna acciuffare un posto in Champions, con o senza Ferrara». Mussapi torna invece sul problema della dirigenza: «Con questi manager non si vince. Non basta avere doti organizzative nel settore turistico, per pensare di fare il dirigente sportivo. Senza cultura calcistica alle spalle, si fanno brutte figure. E poi manca la continuità storica. John Elkann non mi sembra essere, tra tutti i fratelli, quello che ha ereditato il fiuto e il talento degli Agnelli».

Il concetto di eredità è molto sentito tra gli juventini, che si sentono un po’ tutti defraudati. E Messapi non fa eccezione: «Buffon e Del Piero sono tutto ciò che rimane di quella Juventus vincente. Hanno dato tutto per questa maglia e a differenza di altri sono rimasti fedeli a questi colori in ricchezza come in povertà. Purtroppo sono stati mal ripagati. In particolare, se Buffon dovesse scegliere di lasciare la Juve a fine stagione, non avrebbe il mio biasimo. Ha creduto in uno spirito e in uno stile che non ci sono più». La Signora non è mai stata così vecchia.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal ”Financial Times” del 10/01/10

Oligarchi in cerca di soldi di Miles Johnson e Courtney Weaver nuovi oligarchi russi vogliono tornare a quotarsi nella borsa della City. Nonostante la crisi, Londra sembra rimanere ancora il centro finanziario per ricostruire le alterne fortune di molti industriali, specialmente di quelli che vengono dall’est europeo.

I

Sergey Popov e Andrey Melnichenko, sono i proprietari delle più grandi miniere di carbone russe. La Suek è la loro società che questa settimana vorrebbe iniziare la trafila delle procedure per quotarsi sul listino britannico e anche su quello di Mosca. Un affare che si aggirerebbe intorno ai 9 miliardi di dollari, secondo fonti vicine alla società mineraria. ProfMedia, un altro gigante della comunicazione della Confederazione di stati indipendenti, ha dato mandato alla Bank of America-Merril Lynch e al Credit Suisse per un’operazione di ingresso sul mercato azionario di Londra. Un affare valutato intorno ai due miliardi di dollari. Entrambe le operazioni si prevede che verranno realizzate nella seconda metà del 2010. Il ritorno dei russi è un primo segnale positivo, così come viene percepito dai banchieri londinesi, dopo lo tsunami della crisi. Significa che la City è ancora percepita come un centro finanziario che riesce ad attrarre capitali e investimenti stranieri. Specialmente dopo l’incidente di percorso della Rusal di Oleg Deripaska,“scappata” alla borsa di Hong Kong. Sembrava avesse aperto una falla nel cuore finanziario d’Europa che fosse la prima di una lunga serie di fughe. Dopo mesi di attesa finalmente la borsa cinese ha dato il via libera alla quotazione della Rusal, ma con molte limitazioni alla partecipazione di capitali privati. Una vicenda che ha subito fatto rizzare le orecchie a molti. «L’esperienza di Deripa-

ska ha fatto scattare molti allarmi per tutti quegli investitori russi che volevano seguire le sue orme verso l’ingresso in altri listini rispetto a Londra» afferma Chris Weafer capo strategista della UralSib (una banca d’affari russa, ndr). «Solo due anni fa era quasi impossibile riuscire a far incontrare investitori e società russe. L’approccio dei proprietari russi era quello di dire: perché devo permettere a qualcuno di entrare nella mia compagnia?» continua Wafer. Oggi, invece, il clima è decisamente cambiato. Ma nonostante tutto tra il 2005 e il 2008 circa 40 miliardi di dollari sono stati rastrellati sul mercato azionario da società russe, secondo una ricerca della Dealogic. E gallerie d’arte e società immobiliari hanno goduto di un vero boom, grazie alla presenza degli oligarchi moscoviti e delle loro famiglie. Dopo le pensanti perdite subite si sono convinti a rastrellare fondi dal mercato.

Nel 2008 il crollo del valore delle azioni e delle merci trattate nelle borse internazionali ha molto ridimensionato la ricchezza dei tycoon di Mosca, abituati a manovrare masse enormi di danaro. Il valore totale degli asset di Potanyn, ad esempio, è passato dai 19,3 miliardi di dollari del 2008, ai 2,1 miliardi del 2009, secondo una classifica stilata dalla rivista Forbes. Le fortune del signor Popov, invece, sono passate dai 6,4 miliardi di dollari ai 2,4 miliar-

di, nello stesso periodo. Mentre per l’altro tycoon, Melnichenko, sempre secondo Forbes, il salasso della crisi ha provocato una riduzione da 6,2 a un solo miliardo di dollari. Una vera cura dimagrante. Una fonte che conosce bene la Suek ha rivelato che potrebbe essere messo sul mercato circa il 25 per cento del valore della compagnia. E che la banca di Stato russa Vtb e la Citigroup sarebbero state incaricate di coordinare il passaggio sul mercato azionario. Anche altri istituti sarebbero nella short list per altri incarichi di consulenza (Bank of AmericaMerril Lynch, Morgan Stanley, Ubs e Credit Suisse).

Ci si aspetta che l’entrata della Suek nella borsa londinese sarà attuata utilizzando un ampio ventaglio di strumenti mobiliari per attirare un parterre più vasto di investitori internazionali. Si è più interessati a questi che a piazzare emissioni sul mercato inglese. Anche questo un vezzo da oligarchi, ma con la speranza di riempire di nuovo dei forzieri ormai vuoti.

L’IMMAGINE

Lombardo ter... ennesimo ribaltone che disattende la volontà degli elettori siciliani Il Lombardo ter è frutto di un vero e proprio ribaltone che calpesta la volontà degli elettori siciliani. Ci troviamo di fronte ad un quadro politico in cui regna sovrana la confusione. Gli elettori non comprendono, infatti, come sia possibile che, chi ha perso le elezioni, possa trovarsi alla guida della Regione. Sarebbe stato più coerente che, venuta meno la maggioranza, il presidente Lombardo avesse rimesso il mandato nelle mani degli elettori che lo avevano sostenuto. Questo ennesimo ribaltone si è verificato grazie alla complicità del Partito democratico che, per qualche poltrona, ha prestato il fianco agli interessi del governatore in un’ottica squisitamente inciucista. L’atteggiamento ambiguo del Pd impedisce la costruzione di una seria alternativa politica nell’intero Paese, in cui, secondo me, l’Italia dei valori rappresenta ormai l’unico partito coerente coi propri elettori.

Domenico

MAZZUCA APRE ALL’UDC Quella di Giancarlo Mazzuca di aprire alla UdC è stata una intuizione felice, come ha dimostrato la risposta di Gianluca Galletti”lo afferma in una nota l’on Giuliano Cazzola, deputato del PDL. ”Dopo il caso Puglia - aggiunge - è destinato a fallire miseramente il tentativo dell’UdC di tessere alleanze con il Pd nelle prossime elezioni regionali. Si allargheranno quindi le situazioni in cui il partito di Casini si schiererà con la colazione moderata. Mettere in campo in Emilia Romagna un’alleanza comprensiva dell’UdC renderebbe concrete le possibilità di vittoria. Ovviamente, di questa nuova coalizione allargata deve far parte anche la Lega Nord che è una forza sicuramente in crescita in Emilia Romagna e che ha sicuramente interesse a competere nelle migliori

condizioni. Mazzuca vada avanti nel confronto, sgombrando il campo - come deve fare anche Galletti - di ogni possibile pregiudiziale. Se si tratta di cambiare le cose in regione ognuno deve sforzarsi per trovare la soluzione più adatta”.

Giochi da cucciolo

Francesco Comellini

GARANTIRE LA TUTELA ALLE VITTIME DELL’USURA Troppe lungaggini burocratiche per le vittime del racket e dell’usura. Benché il legislatore avesse previsto un celere reinserimento nel circuito dell’economia legale solo una bassissima percentuale di chi collabora con le istituzioni riesce ad accedere ai benefici, così come denunciato da numerose associazioni di settore e d’imprenditori. In tal modo, le vittime dell’usura e del racket non sono incentivate a denunciare i loro aguzzini,

A questo cucciolo di elefante asiatico hanno regalato una palla che il piccoletto, 6 mesi, sembra avere apprezzato. Giocare per ora è l’unica occupazione dell’elefantino ospite del Taronga Zoo di Sydney. Al resto provvede la madre: nonostante si nutrano d’erba già dai primi mesi, infatti, i cuccioli continuano a succhiare il latte materno fino all’età di un anno e mezzo

vanificando lo scopo della legge.

Domenico

FENOMENI MEDIATICI Ciò che è successo con il vaccino per l’influenza A è la chiara dimostrazione di quanto un fenomeno mediatico di indubbia provenienza può nascere, dilagare e scompari-

re senza infamia e lode, ovvero senza che nessuno se ne accorga. Doveva dilagare a Natale in tutta Europa, una previsione paurosa forse inscenata per motivi commerciali, che sono alla base oggi dei più grandi scandali nel settore sanità. La saggezza certe volte è più longeva della stessa realtà, per-

ché parte dalla considerazione che il buon senso può farci capire in quale direzione vanno i fenomeni. Certe volte, lo stesso buonsenso si potrebbe applicare anche in politica, quando quest’ultima diventa chiassosa o sembra voler fare paura a chi rema contro il governo.

Bruno Russo


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog

dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Non posso fermarmi Domani mi toccherà lasciare rue de Seine, o che mi toccherà lasciarvi tutte le mie cose (e il libro in corso? - e il tipografo! e l’editore!), supponendo che io abbia il denaro oggi, per due o tre giorni dormirò per terra e lavorerò dove potrò, perché non posso fermarmi. Ho scelto l’appartamento nel quartiere del boulevard du Temple, rue Angouleme, 18; la casa è bella e soprattutto tranquilla, così alloggerò finalmente come un uomo onesto! Ciò costituirà un vero ringiovanimento, ho bisogno di una vita assolutamente segreta, e di castità e sobrietà complete. I miei due volumi stanno finalmente per essere pubblicati, e il prossimo anno, grazie alla «Revue des Deux Mondes» e ad Ancelle potrò vivere in modo conveniente. Di questo non sono preoccupato. Finalmente sarò a casa mia. A quel punto, voi non dovrete più subire simili fastidi. Non ce ne sarà più ragione. Ho preso tutte le precauzioni perché questa mia nuova sistemazione sia completamente al riparo da ogni disgrazia. Ah! Mio Dio. Dimenticavo la cifra. Con 1500 franchi sarà tutto concluso in tre giorni. Francamente la vita di un poeta vale bene tale cifra: né più né meno, ho fatto e rifatto i conti cinquanta volte. È poco, ma è proprio quanto basta. Charles Baudelaire alla signora Aupick

ACCADDE OGGI

TELECOM ITALIA IN MANI SPAGNOLE? La difesa dell’italianità di alcune aziende (Telecom, Alitalia) è una boiata pazzesca. Lo confermano le indiscrezioni sul passaggio di Telecom Italia sotto il controllo esclusivo degli spagnoli di Telefonica. Un’ipotesi che al di là delle smentite è tra quelle al vaglio dei protagonisti. Una confusione prevedibile, vista l’impostazione posticcia dell’azionariato attuale di Telecom Italia. Partorito proprio per garantire soci italiani a controllo del gestore, con l’ennesima cassaforte a garantire il comando a pochi e qualificati soci (Telco), e senza un credibile piano industriale condivisibile da Telefonica e soci italiani (Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo e, fino a poco fa, la famiglia Benetton). La missione era impossibile, visto che il gestore spagnolo ha interessi concorrenti a quelli di Telecom Italia. Presto analogo destino toccherà ad Alitalia che inevitabilmente sarà abbracciata da Air France. Ora si aprono due scenari: 1) Telecom Italia si fonde strategicamente con Telefonica e segue il suo destino (d’altronde Enel non ha comprato Endesa, il principale gestore elettrico spagnolo?) e la politica lascia fare il suo corso al mercato, badando esclusivamente a tutelare il servizio indispensabile agli utenti italiani e non più i soci e le loro (dis)avventure finanziarie. Se così fosse, occorrerà che le autorità competenti tutelino gli interessi degli azionisti di minoranza di Telecom Italia; 2) oppure scatterà di nuovo il riflesso incondizionato della politica italiana che si mobiliterà per tutelare l’ita-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

12 gennaio 1942 Il presidente Roosevelt crea la National War Labor Board 1964 A Zanzibar, ribelli iniziano una rivolta e proclameranno in seguito una repubblica 1966 Lyndon B. Johnson dichiara che gli Usa devono restare nel Vietnam del Sud fino a quando non finirà l’aggressione comunista 1969 I Led Zeppelin pubblicano il loro primo album 1970 Il Biafra capitola, finisce la guerra civile nigeriana 1971 I Sei di Harrisburg: Il reverendo Philip Berrigan e cinque altri vengono indagati con l’accusa di aver cospirato per rapire Henry Kissinger e far saltare in aria le condotte di riscaldamento di edifici federali a Washington 1976 Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite vota 11-1 per permettere all’Olp di partecipare ad un dibattito del Consiglio di sicurezza (senza diritto di voto) 1991 Gli Usa autorizzano l’uso della forza militare per scacciare l’Iraq dal Kuwait

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

lianità di Telecom Italia. E da qui si potrebbero aprire nuovi scenari che, tra l’altro, non escludono una fusione tra il gestore telefonico e Mediaset, il coinvolgimento di Poste Italiane... e la valanga di polemiche conseguenti. Eppure la soluzione, a disposizione dei vari governi c’è. Telecom Italia da anni viene meno ai suoi impegni in fatto di garanzia del servizio universale (fornitura linea base), avendo trascurato la manutenzione e lo sviluppo della rete dell’ultimo miglio. Questo fatto legittima lo scorporo della rete da Telecom Italia, per affidarla ad altro soggetto giuridico con le risorse finanziarie adeguate e una strategia industriale coerente. Si eliminerebbe il problema dell’italianità, che tanto accalora, e darebbe maggiori garanzie agli utenti che sono interessati al tipo di prestazioni di una rete telefonica e non alla nazionalità dell’azionista.

Domenico Murrone

LA COSTITUZIONE PUÒ CAMBIARE La modifica della Costituzione è la prima riforma da fare, perché significa legare l’ordinamento principale dello Stato alle necessità coeve, che determinano una revisione della logica con la quale si è opportunamente redatto a suo tempo la Costituzione stessa. Il dado è tratto, solo se si parte dalla considerazione che mantenere una legge intatta da più di 50 anni, non può e non deve essere strumento politico ma necessità dialettica, volta a considerarne le dicrepanze all’occhio dei cambiamenti moderni.

Gennaro Napoli

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

UN ANNO DI IMPORTANTI RISULTATI E DI SODDISFAZIONI. ORA SERVE DARE CONTINUITÀ Bilancio positivo e proficuo quello del 2009. Un anno di soddisfazioni e di impegno per la crescita e lo sviluppo del territorio tranese e provinciale. Per quanto riguarda l’attività politico-amministrativa mi sono impegnato, raggiungendo risultati positivi che hanno visto la crescita costante delle adesioni al progetto politico-culturale del partito dell’Udc. La tappa fondamentale è stata la nascita istituzionale della nuova provincia pugliese, un territorio che ora ha bisogno di compattarsi sempre più, di fare sistema e di intraprendere la strada del dialogo e della concertazione strategica tra i dieci comuni per funzionare al meglio e per ottenere risorse necessarie per lo sviluppo. Poi ci sono state una serie di importanti entrate di personalità illustri e dal grande spessore umano e professionale nel nostro partito, il che ha segnato la validità del progetto dell’Udc del presidente Casini. E infine aggiungerei la nutrita partecipazione giovanile agli incontri del partito e alla vita attiva nel partito. Ho sfiorato il 18% di consensi nel collegio IV di Trani alle elezioni provinciali: sono stato premiato per la dedizione verso questo territorio e verso la mia città. Dal punto di vista, invece, pratico, penso innanzitutto al mio emendamento presentato durante la discussione sul ddl della tutela delle acque e sull’attività estrattiva, che ha in effetti cassato alcuni divieti che ostacolavano gli operatori del settore. Penso anche alla intermediazione effettuata per ottenere lo sblocco dei finanziamenti che spettavano a Trani per il completamento strutturale di una parte della costa tranese, e poi alla mobilitazione per accelerare i tempi per la riattivazione del reparto di ginecologia dell’ospedale di Trani. Tengo molto a ringraziare l’on. Angelo Sanza, col quale ho un rapporto fraterno ormai da anni e col quale ho lavorato intensamente quest’anno appena trascorso, così come tanto ho lavorato con l’on. Angelo Cera. In sede di consiglio regionale ho portato avanti tante battaglie istituzionali e repubblicane con l’amico Antonio Scalera, mentre in consiglio provinciale si sta rivelando molto proficua la collaborazione politico-amministrativa con l’avv. Francesco Di Feo. Ma i compagni di banco quotidiani sono stati gli uomini e le donne che mi hanno incontrato per strada, in segreteria a Trani, in ufficio in Regione e in varie circostanze e che mi hanno sostenuto e offerto suggerimenti e spunti di riflessione per la mia attività politica. E poi i tanti collaboratori giovani e meno giovani della mia segreteria tranese e regionale. Propositi per l’anno che sta arrivando? Dare continuità all’azione politico-amministrativa svolta in questi 5 anni in Regione magari con un ruolo più attivo e più incisivo con un’Udc dalla rappresentanza più marcata. Dare maggiore linfa alla provincia di Barletta-Andria-Trani con azioni mirate e più incisive sotto l’aspetto dell’utilità per il territorio. Mi ricandido, dunque per ribadire il discorso della continuità dell’azione politica intrapresa, e per dare rappresentanza a Trani e all’intero territorio provinciale. Carlo Laurora C O N S I G L I E R E RE G I O N A L E UD C

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

Amministratore Unico Ferdinando Adornato

Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118

Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747

Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani,

Emilio Spedicato, Davide Urso,

Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano

Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,

Marco Vallora, Sergio Valzania

Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”

Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner,

Abbonamenti

06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro

Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

e di cronach

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


Chi vuole continuare a essere italiano faccia un passo avanti In edicola il nuovo numero dei Quaderni Verso il 150o anniversario dell’Unità d’Italia, una riflessione su come ricostruire lo Stato e la Nazione. In cento pagine gli atti del convegno di liberal

Con interventi di Adornato, Bondi, Capotosti, Casavola, Casini, Ciampi, Cisnetto, D’Onofrio, De Giovanni, Folli, La Malfa, Malgieri, Rutelli


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.