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Un innocente perseguitato
scambia per amore della giustizia l’orgoglio del suo io Jean-Jacques Rousseau
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 13 GENNAIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Anche Gianfranco Fini invita il Cavaliere alla saggezza: «La guida di un Paese non è legata solo al consenso elettorale»
Berlusconi, guerra o governo? Sulla giustizia il premier di fronte a un decisivo bivio:o lo scontro a testa bassa contro tutti o la ricerca di un accordo in Parlamento.Da questa scelta dipende il futuro della legislatura di Giancristiano Desiderio
Le polemiche nel Pd
lo Stato o il partito: è il bivio che ha davanti Silvio Berlusconi. È un bivio tutto politico che inevitabilmente condizionerà il prosieguo della legislatura, ma anche il carattere futuro del centrodestra. Il dilemma può essere detto con un’altra formula che sembra retorica ma che ci mostra con buona dose di realismo che cosa dovrà scegliere il presidente del Consiglio: o la forza della legge o la legge della forza. Se Berlusconi sceglie la prima strada - che contempla il legittimo impedimento, il processo breve senza norma transitoria, il lodo costituzionale - allora trasforma i suoi casi giudiziari in un’occasione per riformare la giustizia e così privilegia le istituzioni.
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Primarie: il Grande Equivoco di Francesco D’Onofrio i sta discutendo molto delle primarie soprattutto in conseguenza del risultato rilevantissimo che esse hanno avuto nel contesto della candidatura di Obama alla presidenza degli Stati Uniti d’America. Quel che sembra mancare sino ad ora è proprio la considerazione del rapporto molto stretto tra primarie da un lato e sistema istituzionale complessivo, partiti politici e corpo elettorale dall’altro.
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Gaetano Pecorella apre all’intesa in Parlamento
«Processo breve? Meglio votare insieme all’Udc il legittimo impedimento» di Errico Novi ROMA. «Serve una soluzione che incida il meno possibile sul complesso delle norme processuali». Meglio «una strada meno costosa per il sistema giudiziario, che comunque garantisca una sospensione dei procedimenti e assicuri così la governabilità». Gaetano Pecorella non abbraccia con cieco abbandono la scelta del processo breve, anzi. Vede un’alternativa molto più efficace nel legittimo impedimento «che sarebbe condiviso da una parte dell’opposizione», cioè dall’Udc, «e che presenta un ulteriore vantaggio: prelude a una successiva norma costituzionale». a pagina 2
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Il fattore Bindi-Bondi Ovvero l’arte di rovesciare la frittata del bipolarismo Franco Insardà • pagina 4
Decentramento e unità nazionale
Tutti gli inganni del federalismo all’italiana
Dopo quindici anni è arrivato il momento di superare i luoghi comuni che il “vento leghista” ha imposto alla nostra politica di Enrico Cisnetto
Il divario Nord-Sud è sempre più drammatico. Anche per la legalità
sua drammaticità l’emergenza Sud. La soluzione, per Alessandro De Nicola, presidente della Adam Smith Society, è una tregua fiscale, una vera e propria «minimum tax area» per favorire il rientro dal sommerso: «Meglio della Banca del Sud, comunque». Per il resto, la lotta alla criminalità che gestisce lo sfruttamento del lavoro deve essere totale e assoluta.
hi, come me, ha radici nel Pri di La Malfa non può che avere tra i suoi principali obiettivi la tutela della Repubblica e delle sue istituzioni, oltre ovviamente alla salvaguardia del senso di appartenenza dei cittadini alla nazione unita. Partendo da queste convinzioni, è fin troppo facile individuare il nemico numero uno dell’unità e della coesione nazionale: il federalismo, non il federalismo teorico, ma quello realizzato che come nel caso del socialismo realizzato è ciò che conta rispetto alle teorie. E la questione da cui vorrei partire è proprio una disamina, visto il tempo sufficientemente lungo che è trascorso dal suo «esordio», del federalismo: sono quindici anni che lo pratichiamo, penso sia giunto il momento di giudicare quello che è stato fatto fino a qui e, se si analizza quello che è stato realizzato, credo che la nostra preoccupazione debba essere non tanto per quello che potrà avvenire, ma per quello che fin qui (non) è stato realizzato. Perché in questi anni la questione meridionale è rimasta tale, semmai si è aggravata, ma nel frattempo è esplosa la questione settentrionale. Quello che abbiamo prodotto è un localismo esasperato, un municipalismo sgangherato, che ha moltiplicato i costi anche perché ha duplicato le funzioni, non trasferendole dal centro alla periferia, ma sdoppiandole.
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C L’Italia al maschile (e vecchia) Il Paese che esce dalla crisi nella fotografia dell’Istat di Francesco Pacifico
Parla l’economista Alessandro De Nicola
«Una tregua fiscale per il Mezzogiorno»
ROMA. L’Italia è spaccata in due. E questo si sapeva. Ma la crisi sta peggiorando drammaticamente le cose. E questo lo si temeva soltanto. L’Istat, con il suo rapporto annuale, stavolta intitolato Noi Italia fotografa un paese in cui le donne lavorano sempre meno, in cui le paure aumentano come il lavoro nero e il sommerso nel suo complesso. Ma l’occasione è utile anche per lanciare un appello alla classe politica perché sostenga di più e meglio l’unicità dell’Istituto di statistica.
di Gabriella Mecucci
ROMA. Il rapporto Istat mostra in tutta la
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CON I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Dopo quella meridionale, è scoppiata «la questione settentrionale»
IN REDAZIONE ALLE ORE
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Non solo Ghedini. L’altro legale del premier indica l’alternativa: «Non si può legare la durata dei procedimenti all’entità della pena»
«Silvio, meglio l’accordo»
Pecorella: «Troppe perplessità sul processo breve. La soluzione migliore è il legittimo impedimento. Il consenso dell’Udc sarebbe importante» di Errico Novi
Perché lo scontro sulla riforma si può trasfromare in un boomerang
ROMA. «Serve una soluzione che in-
Il dilemma del Cavaliere: o la guerra o il governo
cida il meno possibile sul sistema». Meglio «una strada meno costosa, che comunque garantisca una sospensione dei procedimenti e assicuri così la governabilità». Gaetano Pecorella non abbraccia con cieco abbandono la scelta del processo breve, anzi.Vede un’alternativa molto più efficace nel legittimo impedimento «che sarebbe condiviso da una parte dell’opposizione», cioè dall’Udc, «e che presenta un ulteriore vantaggio: prelude a una successiva norma costituzionale». Insomma, nella maggioranza non vige il pensiero unico di Niccolò Ghedini. Non vige solo la verità emanata dalle alchimie di Niccolò Ghedini. E so-
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Si possono migliorare i tempi della giustizia anche con altri strumenti, come il patteggiamento in stile americano
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prattutto non c’è un incondizionato ossequio a quella che il presidente della commissione Ecomafie definisce la «tagliola» del processo breve. Che «suscita perplessità perché ogni vicenda giudiziaria ha la sua storia e non si può legare la sua durata all’entità della pena». Un accordo con una
di Giancristiano Desiderio segue dalla prima Se, invece, Berlusconi sceglie la seconda via - che riguarda il legittimo impedimento, il lodo costituzionale, ma anche il processo breve con la norma transitoria che fa decadere i suoi processi e stravolge tribunali, avvocature, risarcimenti - allora trasforma il dovere legislativo di riformare la giustizia in un’occasione per liberarsi dai suoi processi. La prima strada è la giusta affermazione della legittimità dello Stato; la seconda via è l’affermazione della parzialità della scelta del Pdl e della Lega che si fanno forti della forza dei loro numeri. La prima strada garantisce al capo del governo di governare, lo tutela dalle interferenze giudiziarie della lunga stagione giacobina e gli riconosce persino una qualità da statista; la seconda via cancella i processi in corso e quelli di Berlusconi, gli consente di governare ma rafforza solo apparentemente l’esecutivo che, invece, si ritroverà isolato dalle altre forze parlamentari senza risolvere i suoi problemi interni. Quale delle due strade è dunque più conveniente per Silvio Berlusconi?
Conviene ricordare un fatto preciso. Fu Pier Ferdinando Casini, dopo la bocciatura da parte della Corte costituzionale del lodo Alfano, a proporre la legge per il legittimo impedimento. Casini e l’Udc hanno sempre riconosciuto che in Italia da oltre tre lustri c’è un “problema giustizia” che funziona come elemento perturbativo dell’equilibrio tra le istituzioni. Al contempo, però, i cattolici liberali si sono sempre rifiutati di buttare il bambino - le istituzioni - con l’acqua sporca - i processi di Berlusconi - e hanno sempre proposto una sicura strada istituzionale per garantire insieme governo e giustizia. È difficile, dunque, dire - come si leggeva ieri suoi giornali - «basta con i giochi di Casini» perché il torto dell’Udc è solo quella posizione ragionevole che utilizzando le stesse modalità costituzionali evita di trasformare lo scontro politico in un muro contro muro su di un tema - la giustizia - che a
conti fatti è la ragion stessa dell’esistenza di uno Stato. La scelta che Berlusconi farà sarà autonoma e non può essere motivata in negativo come se fosse una scelta obbligata - «i giochi di Casini» o «l’ostruzionismo della sinistra» - dal momento che il governo e la maggioranza hanno ampi margini di manovra. La verità è che qui si misura la “nobilitate” del Berlusconi uomo di governo e di Stato. Qui sopra, LarryBerIl passaggio è delicato. Summers, lusconi lo sa benissimo. Per ispiratore questo motivo la riforma della della politica giustizia, nelle sue variegate del “dollaro forme, è stata accompagnata dal “proclama” sulleforte” tasse ridotte entro la fine del e2010 a due aliquote.Tuttoconsligliere è stato condi Obama al fine di cordato con Tremonti per evitare divergenze o addirittul’economia. ra sconfessioni come avvenne destra, sul taglio dell’Irap.ASul punto Henry in questione - che è direttamente proporzionale allaPaulson, questione giueconomico stizia - anche Fini responsabile ha più di un dubbio. Ne parleranno nell’incontro che avranno i due “co-fondatori”. Ma, al di là delle previsioni e della chiromanzia politica, una cosa è certa: se Berlusconi si decide per la strada “legge della forza” imporrà la sua “sovranità”al Pdl che si vedrà così legato mani e piedi al destino della Lega. Il Pdl diventerà così davvero ciò che dicono le sue lettere: partito della lega. Ma questo partito egemonizzato dalla Lega quanto durerà? In questo partito in cui la volontà dell’ex leader di An vale molto meno di un ministro leghista cosa accadrà una volta che non ci sarà più alcuna possibilità di dialogare con i moderati? Una volta chiusi, per volontà di Berlusconi, i canali di dialogo con Casini come si limiterà il potere della Lega? Si sa: Berlusconi ha in mano una gran quantità di sondaggi che gli riconoscono fiducia e popolarità. Dopo l’aggressione di Milano, Berlusconi sente di avere il vento a favore e questo lo potrebbe indurre a scegliere la via dell’azzardo facile per risolvere alla radice la questione giudiziaria. Eppure, ciò che i sondaggi non dicono è che il calcolo di Berlusconi non tarderebbe a rivelarsi miope: il giacobinismo e il dipietrismo ne ricaverebbero nuova linfa, mentre il Pdl isolato dai moderati sarebbe prigioniero di se stesso fino a perdere la natura di partito moderato.
parte dell’opposizione avrebbe «grande rilievo politico», dice il legale di Silvio Berlusconi e parlamentare del Pdl, «rappresenterebbe un primo passo verso la tutela della politica rispetto a possibili attacchi pretestuosi della magistratura». C’è un bivio davanti alla maggioranza: sciogliere il nodo giustizia con una mediazione e una convergenza ampia, oppure procedere in modo unilaterale e bellicoso. Una cosa è chiara a tutti, spero: le riforme sono possibili solo se il governo ha effettiva stabilità e può utilizzare il tempo a disposizione senza il condizionamento delle iniziative giudiziarie. Perciò è necessario che i processi di Berlusconi abbiano una pausa. Una pausa? Personalmente ritengo che vada trovata la soluzione per assicurare stabilità in modo da incidere il meno possibile sul complesso delle norme procedurali. E la strada meno costosa per il sistema è quella di una sospensione. Sono convinto che si possano trovare delle formule come quella dell’impedimento a comparire, appunto. Anche se mi pare che la sinistra non abbia rinunciato del tutto a brandire la giustizia come un’arma. Sul legittimo impedimento c’è un testo che è già una mediazione tra quello iniziale di Enrico Costa del Pdl e le proposte di Michele Vietti dell’Udc. Non sarebbe meglio accantonare il processo breve e investire su questo? Certo: dovendo scegliere tra una norma che incide in modo pesante come quella sul processo breve e un’altra che produce lo stesso risultato senza particolare impatto, preferisco nettamente quest’ultima. Oltretutto, presidente, aprire troppe porte fa correre il rischio di non riuscire a chiudere mai quella più importante. Sa, a volte aprire diversi percorsi legislativi è il modo per portarne a termine almeno uno. Altre volte questo in effetti può essere un ostacolo rispetto al traguardo finale. Non siamo appunto nel secondo caso? Io credo che si debba garantire una sospensione dei processi fino alla fine della legislatura. A proposito delle obiezioni che vengono da sinistra: secondo il Pd l’indicazione della“transitorietà” contenuta nel legittimo
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Il presidente della Camera non ci sta a fare il notaio del governo
Le condizioni di Fini sul pacchetto processi A «strettissimo giro» il vertice con Berlusconi dove l’ex leader di An chiederà più collegialità di Riccardo Paradisi
ROMA. «Il presidente del Consiglio e quello della Camera si vedranno a strettissimo giro, e parleranno – annuncia il portavoce del premier Paolo Bonaiuti – così i due cofondatori del Pdl decideranno e chiariranno una serie di questioni che sono piú gonfiate da tentazione mediatica che da reale divisione tra i due».
impedimento non ha valore giuridico e non impedisce bocciature della Consulta. E invece è un proveddimento che offre due vantaggi. Primo: è una norma transitoria nel senso che prelude a una legge di rango costituzionale. E diverse sentenze dell’Alta Corte attestano un trattamento più benevolo quando, appunto, si prevede un successivo intervento costituzionale. Perché è chiaro che senza il preludio della legge ordinaria si arriverebbe alla soluzione definitiva quando l’emergenza ormai è venuta meno.
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Con un’ampia intesa, si arriverebbe finalmente al riconoscimento che la politica va tutelata da possibili attacchi pretestuosi della magistratura E il secondo vantaggio? Un accordo con una parte dell’opposizione, in questo caso con l’Udc, sul legittimo impedimento comporta evidentemente che quella stessa parte dell’opposizione sarebbe disponibile a votare anche la suuccessiva legge costituzionale, proprio perché questa è già prevista nello stadio iniziale. E sul piano politico sarebbe una cosa importante. Mi pare anzi l’aspetto più signifiocativo di tutta la questione. Perché? Con un consenso più ampio si arri-
verebbe finalmente a una risposta di sistema, al riconoscimento che la politica va tutelata da possibili attacchi pretestuosi della magistratura. Ripeto, sarebbe una cosa di grande rilievo. Solo che adesso sul tappeto c’è anche il processo breve. Che tra l’altro mette in pericolo vicende giudiziarie in cui ci sono più imputati, per esempio le grandi truffe ai consumatori. Le perplessità su questa norma dipendono dal fatto che ogni procedimento ha le sue esigenze: ci può essere il processo per strage che si conclude in poche udienze grazie a una confessione e quello appunto per truffa a più creditori che necessita di tempi più lunghi. Legare la durata del procedimento all’entità della pena può funzionare in alcuni casi ma in altri no. E poi si possono migliorare i tempi della giustizia con strumenti più funzionali. Faccia esempi. Allargare il patteggiamento: negli Stati Uniti si arriva a dibattere solo nel 4 per cento dei casi. Si possono introdurre sistemi più moderni per le notifiche, i manager nei tribunali, e soprattutto serve un intervento sull’obbligatorietà dell’azione penale. Bisogna far funzionare il sistema, e non mettere una tagliola. Il processo breve può essere uno stimolo a lavorare di più per i magistrati, ma io preferisco interventi strutturali, anche se richiedono più tempo.
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Dal superlativo – “strettissimo“ – usato da Bonaiuti si deduce che il segnale di impazienza dato ieri da Fini deve avere suonato come un avvertimento nel quartier generale del Cavaliere. Tanto da ritenere opportuno accelerare i tempi del chiarimento. L’avvertimento, nemmeno troppo sottile, è quello contenuto nel discorso di presidente della Camera pronunciato in mattinata a Montecitorio al convegno ”Il Parlamento e l’evoluzione degli strumenti di legislazione”:«La legittimazione democratica a governare non è solo un dato iniziale che scaturisce dalle urne». E ancora: «Solo una visione mitologica della democrazia può indurre a ritenere che la funzione di governo si traduca automaticamente, una volta conclusa la competizione elettorale, in un’agenda legislativa predefinita e a senso unico in cui il potere esecutivo, soprattutto con il ricorso all’uso distorto, sotto vari profili, della decretazione di urgenza, tende a limitare, o peggio a soffocare il libero dibattito parlamentare sulle grandi decisioni della politica pubblica». Certo non è la prima volta che Fini richiama l’attenzione sul ruolo centrale del Parlamento, ma all’indomani della riunione di palazzo Grazioli, dove si è discusso di giustizia e da cui Fini e i finiani si sono sentiti esclusi, le sue parole assumono un particolare timbro polemico. Del resto non è un mistero che lunedì il presidente della Camera era molto contrariato per aver vissuto al buio il vertice di palazzo Grazioli dovendo attendere di sapere le strategie adottate su questioni dirimenti come immunità, processo breve e legittimo impedimento. Fini insomma non ci sta a diventare il semplice notaio delle decisioni del premier.Tanto che Italo Bocchino, vicecapogruppo del Pdl alla Camera e tra gli esponenti Pdl più vicini alla terza carica dello Stato ieri chiariva che «Le modifiche al processo breve, decise al vertice di palazzo Grazioli, andranno ora valutate politicamente ai livelli opportuni, ossia con un incontro tra Berlusconi e Fini». Ma che cosa vuole Fini? Che cosa chiederà all’incontro con il premier che Bonaiuti promette a strettissimo giro? Presumibilmente, come
confermano anche fonti vicine al presidente della Camera, chiederà maggiori verifiche sulla costituzionalità degli emendamenti che verranno proposti, ma sostanzialmente più collegialità nelle decisioni che verranno prese e sul percorso parlamentare che dovranno prendere. Il discorso sulla centralità del parlamento e sulla pericolosità degli assoli decisionisti del governo è da leggersi in questa direzione. Nulla di più, dicono le fonti finiane di area moderata: il rapporto Fini-Berlusconi è molto più tranquillo rispetto a un mese fa.Tra l’altro Fini ha incassato la candidatura di Renata Polverini nel Lazio a cui teneva molto, ora gli resta di ottenere una maggiore partecipazione alle scelte decisionali del Pdl, sicché pone delle condizioni, tira il freno. Ma nella sostanza l’accordo sul pacchetto giustizia dovrebbe già esserci. È sulla proceduralità e sul percorso parlamentare che Fini tenterà di introdurre delle modifiche.
A prendere subito le debite distanze dai distinguo finiani è la Lega: «Noi siamo alleati fedeli”, dice il leader Umberto Bossi e il sottosegretario del Carroccio Roberto Castelli incalza: «I lavori parlamentari non possono essere affrontati con ”un’idea retrodatata” dei rapporti tra Parlamento e governo che ha bisogno di decidere ed agire velocemente». Quanto poi alla linea, interna alla maggioranza, espressa e rappresentanta da Fini, Castelli osserva che «alla riunione di maggioranza di lunedì erano presenti anche i cosiddetti finiani che non hanno sollevato alcuna obiezione. Chi tace acconsente». E del resto tra gli ex di An, a proposito di rapporti tra politica e giustizia, in questi giorni si ricorda con grande fervore la figura di Bettino Craxi. Il Secolo d’Italia gli dedica una corposa edizione del domenicale e un convegno dal titolo: ”E se ripartissimo dai suoi strappi”? «Ci tenevamo ad essere i primi ad offrire un approfondimento sulla figura di Craxi – commenta la direttrice del Secolo Flavia Perina – Serve una riflessione sulla sua politica modernizzatrice in contrapposizione con la tentazione di cavalcare i temi dell’anti politica». Insomma Craxi sarebbe stato «un rivoluzionario, che non ha bisogno di riabilitazioni». Sono lontane le monetine del Raphael lanciate anche dai ragazzi del Fronte della Gioventù, le manifestazioni di fronte alle sedi del Psi al grido di ”ladri-ladri”e i guanti bianchi dei deputati del Msi agitati alla Camera contro Craxi e i socialisti.
La terza carica dello Stato insiste: «Il Parlamento è centrale». Un monito contro le leggi fai da te
politica
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L’analisi. Opportunista è chi privilegia i vantaggi alle idee: l’accusa ai centristi nasconde l’intolleranza al confronto
Il fattore Bindi-Bondi
Nel Pdl e nel Pd c’è chi rovescia la frittata del bipolarismo tacciando di «opportunismo politico» chiunque faccia scelte diverse dalle loro di Franco Insardà
ROMA. Più diversi non potrebbero essere, ma Rosy Bindi e Sandro Bondi rischiano di rivelarsi alleati nella stessa battaglia: lanciare un attacco a 360 grandi contro un’Udc rea soltanto di contrastare l’attuale bipolarismo di plastica. Il presidente del Pd e il coordinatore del Pdl potrebbero riuscire a ottenere un identico risultato: spingere i centristi ad andare da soli alle prossime Regionali, con il rischio di riaprire i giochi in Piemonte (dove l’appoggio del partito di Casini può essere decisivo per la riconferma di Mercedes Bresso) o in Lazio (a scapito della finiana Renata Polverini). L’accusa che si muove all’Udc da parte dei pasdaran del bipolarismo è quella di essere degli opportunisti politici per il solo fatto di non voler essere intruppati. Si vorrebbe, cioè, far passare la tesi secondo la quale bisogna necessariamente far parte di uno dei due poli. A quel punto il gioco è fatto: chi si schiera può assumere qualsiasi posizione ed essere giustificato. Chi, invece, non vuole rinunciare alle sue idee in cambio di opportunità e potere è messo alla gogna. Si tratta di un vero e proprio pretesto che nasconde, invece, un’evidente intolleranza al confronto. Secondo il politologo Paolo Pombeni questa situazione non va ricondotta necessariamente al bipolarismo: «Parlerei di bipolarismo all’italiana, perché quello anglosassone e statunitense, per lungo tempo, ha avuto l’idea di convergere al centro. In Italia, invece, dove il centro ha un soggetto autonomo e c’è una tradizione inveterata della politica che fa prevalere l’ortodossia rispetto alla ricerca di soluzioni che presuppongono il confronto».
L’accusa di opportunismo è davvero singolare per un partito come l’Udc, all’opposizione sia con il governo Prodi sia con quello Berlusconi. E che nelle trattative per le Regionali ha rifiutato poltrone di governatore. Sembra di ritornare alla campagna elettorale del 2008, quando si lanciò la campagna del “voto utile” per eliminare
chi aveva rifiutato di entrare nei due partiti, ottenendo il risultato parziale di eliminare dalla scena politica soltanto la sinistra radicale. Oggi alla vigilia delle Regionali ci si riprova, avendo come unico obiettivo l’Udc. Se da una parte si lancia il partito dell’amore e le colombe tentano mediazioni, dall’altra i falchi non perdono occasione per attaccare. Per il professor Pombeni questa è «la tradizionale accusa che si fa a tutti i partiti di centro, che non sarebbero tali se non rifiutassero per principio l’idea di essere obbligati a uno schieramento. Sarebbe come accusare i neri di essere di colore, o gli asiatici di avere gli occhi a mandorla. È questa la natura di un partito di centro che è egemone come lo era la Democrazia cristiana, oppure, come nel caso dell’Udc o come i liberali in Gran Bretagna, si cerca di vedera nell’ambito della politica dei due partiti maggiori quelli che sono le opportunità migliori da cogliere da una parte e dall’altra. Non vedo dov’è lo scandalo, si tratta di una normale regola politica».
Ma l’ultimo affondo contro l’Udc, forse quello più serio e che potrebbe avere maggiori conseguenze, Sandro Bondi lo ha sferrato lunedì sera durante la trasmissione Porta a Porta quando ha criticato «la scelta dell’Udc di allearsi in alcune regioni con il Pdl e in altre con il Pd». Una scelta,
Duello Alfano-Franceschini sul nuovo piano
E intanto si litiga sull’emergenza carceri ROMA. È in arrivo per oggi un nuovo piano carceri. Ad annunciarlo in aula alla Camera ieri è stato direttamente il ministro della Giustizia Angelino Alfano che ha detto: «Domattina presenterò in consiglio dei Ministri, insieme alla richiesta di stato di emergenza, un piano delle carceri». Il documento poggerà su tre pilastri, ha spiegato.Vi sarà «un piano di edilizia giudiziaria che ponga il nostro Paese al livello delle sue necessità», ha detto Alfano, vale a dire, «un livello capienza attorno agli 80mila posti». Viceversa oggi il cosiddetto “limite tollerabile” è di soli 63 mila detenuti. Il «secondo pilastro», ha proseguito il ministro, saranno «norme di accompagnamento che attenuino il sistema sanzionatorio per chi deve scontare un piccolissimo residuo di pena». Terzo e ultimo intervento, «una politica del personale». Dunque, ha spiegato il ministro, «saranno assunti 2mila nuovi agenti di polizia penitenziaria per migliorare la condizione complessiva delle nostre carceri».
secondo il ministro dei Beni culturali che confermerebbe «una politica del passato, di chi non vuole che siano i cittadini a decidere».
A Bondi ha prontamente replicato in trasmissione Pier Ferdinando Casini che ha respinto la richiesta del Pdl di allearsi con il centrodestra in tutte le regioni perché, fa spiegato «così non manterrei i miei impegni con gli elettori che hanno sempre saputo che saremmo andati all’opposizione. Non siamo trasformisti, perché non abbiamo preso voti da una parte per traghettarli dall’altra. Se l’Ufficio di presidenza del Pdl ci impedirà di appoggiare i suoi candidati, se rifiuterà il nostro sostegno, vorrà dire che non glielo daremo. In ogni caso - ha aggiunto il
Cesa ha inviato, ieri, una circolare ai coordinatori regionali delll’Udc per bloccare ogni eventuale accordo prima dell’ufficio di presidenza del Pdl
Immediata la reazione dell’opposizione del Pd. «Il ministro Alfano garantisca che il governo non abuserà dello strumento dell’ordinanza al posto dei normali provvedimenti legislativi in seguito al via libera allo stato di emergenza per le carceri»: lo ha detto direttamente nell’Aula della Camera il capogruppo del Pd Dario Franceschini dopo l’annuncio del ministro della Giustizia. Il timore dell’ex-segretario del Pd è che il governo possa approfittare dello «stato di emergenza» per gestire la situazione delle carceri al di fuori della normalità e quindi con soluzioni “eccezionali”. Ma lo stesso Alfano ha risposto subito – stizzito – a Dario Franceschini: «Lo stato d’emergenza non è il preludio di un abuso, ma uno strumento di efficienza», ha assicurato. E poi ha aggiunto: «non intendiamo abusare di niente». Nel 2010, ha spiegato, «intendiamo realizzare un numero di posti che ci consentano di tamponare l’emergenza, affiancando una serie di norme che deflazionino la presenza in carcere».
leader dell’Udc - deve finire la politica degli insulti nei nostri confronti».
Ieri il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, dopo l’intervento di Bondi a Porta a Porta, ha inviato una circolare a tutti i coordinatori regionali del partito per bloccare ogni eventuale accordo a sostegno di un candidato di centrodestra in attesa, appunto, di deliberazioni dell’ufficio di presidenza del Pdl. Cesa ha anche detto: «Non tradiremo i nostri elettori, che ci hanno collocato chiaramente al centro. Per questo non siamo disposti a fare accordi nazionali né col Pd né col Pdl. I diktat non li accettiamo da nessuno: se i candidati governatori del centrodestra non vogliono il nostro appoggio, ce ne faremo una ragione». Sempre ieri ai microfoni di SkyTg24 il sottosegretario alla presidenza e portavoce del premier, Paolo Bonaiuti, ha dichiarato che «nelle fila del
politica
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Il dibattito su uno strumento preso in prestito dagli Stati Uniti
Il grande equivoco delle primarie (italiane) La «consultazione interna» ha il vizio di non avere uno sbocco diretto nel nostro sistema istituzionale di Francesco D’Onofrio i sta discutendo molto delle primarie – da qualche tempo a questa parte, con crescente intensità – soprattutto in conseguenza del risultato rilevantissimo che esse hanno avuto nel contesto della candidatura di Obama alla presidenza degli Stati Uniti d’America. Quel che sembra in qualche misura mancare sino ad ora è proprio la considerazione del rapporto molto stretto tra primarie da un lato e sistema istituzionale complessivo, partiti politici e corpo elettorale dall’altro.
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Qui sopra, la presidente del Partito democratico Rosy Bindi. A sinistra, il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi. A destra, il segretario del Pd, Pierluigi Bersani Pdl c’è perplessità per il fatto che l’Udc adotti alleanze diverse nelle varie regioni alle prossime amministrative. Comunque, ha aggiunto, se ne parlerà nell’ufficio di presidenza del Pdl». Lo schierarsi con l’uno o l’altro dei partiti maggiori porta sicuramente più vantaggi «anzi - sostiene il professor Pombeni - quei piccoli partiti della destra o della sinistra che hanno fatto questo tipo di scelte hanno portato a casa risultati maggiori rispetto al loro vero peso elettorale».
Sul fronte opposto , quello del Pd, anche Rosy Bindi non è stata tenera con i centristi. Intervistata dalla Stampa, sabato scorso ha dichiarato: «occorre aprire all’Udc, ma va fatto con la lucidità di chi ha in testa una strategia politica per il futuro. Nessuno ha chiesto a Casini di fare il capo del centrosinistra. Resto convinta che sarà un ottimo capo del centrodestra liberato da Berlusconi. Casini è un
alleato fondamentale in questa fase, ma noi non possiamo permetterci di rompere con tutta la sinistra».
Insomma, quando c’è aria di elezioni i pasdaran del bipolarismo sentono l’odore del sangue e vanno a caccia di nemici da abbattere. Paolo Pombeni distingue due livelli: «Uno tattico per impedire fughe di voti. Perché raggruppamenti ampi hanno sempre l’esigenza di avere al loro interno una componente più moderata e orientata verso il centro, nei confronti della quale si usa tradizionalmente la tattica della scomunica. C’è, poi, una componente più sanguigna, quella dei pasdaran che mirano a ottenere l’egemonia all’interno dei partiti. E per fare questo a cosa debbono dimostrare di essere i guardiani dell’ortodossia e una parte degli uomini politici ritiene ancora che il modo migliore per tenere unite le proprie truppe sia la minaccia di apostasia».
Senza affrontare dettagli troppi numerosi dell’esperienza statunitense concernente le primarie, appare di tutta evidenza che il sistema statunitense si è strutturato sin dall’inizio su un modello presidenziale derivante dalla monarchia britannica; che in esso non operano partiti politici autenticamente continentali; che il rapporto tra i partiti politici – che pur esistono nella specifica identità di democratici e repubblicani – e corpo elettorale, non giunge fino al punto di una vera e propria elezione popolare continentale diretta del Presidente degli Stati Uniti, perché – come non sempre viene tenuto in considerazione – il sistema elettorale presidenziale statunitense risente della sua natura federale, sì che anche le primarie sono disciplinate negli Usa dai singoli Stati della federazione.
de proprio all’articolo 1, allorché si definisce la Repubblica italiana).
Il rapporto tra le primarie e il sistema istituzionale complessivo costituisce, pertanto, il fondamento stesso di un discorso sulle primarie, perché è di tutta evidenza che queste hanno rilevanza più significativa nei modelli presidenziali, soprattutto se questi – a differenza dagli Stati Uniti d’America – si fondano sull’ipotesi di un voto popolare universale e diretto sulla persona chiamata a governare il sistema medesimo. Ne deriva di conseguenza che anche la strutturazione dei partiti politici, in riferimento al sistema delle primarie, svolge un ruolo decisivo sul tipo di primaria da adottare: chiusa tra gli iscritti al partito o aperta a tutti gli elettori. Se infatti le primarie si svolgono soltanto tra gli iscritti al partito, è di tutta evidenza che occorre accertare cosa significa questa iscrizione: pura simpatia elettorale o anche concorso decisivo alla scelta degli organi di governo dei partiti? Nel primo caso, le primarie concorrono a definire la scelta della linea politica del partito; mentre, nel secondo caso, si limitano ad una scelta tra persone che condividono del tutto la linea politica medesima.
La discussione si svolge come se fossimo una Repubblica presidenziale, mentre il nostro è solo un sistema nel quale per essere leader la forza mediatica è (quasi) tutto
Pertanto, allorché si parla delle primarie in Italia e si fa riferimento soprattutto all’esperienza statunitense, occorre come sempre aver molto chiaro il percorso storico ed istituzionale dei due Paesi, e non limitarsi ad assonanze puramente verbali (le primarie), o prevalentemente mediatiche (la capacità più o meno posseduta di “bucare” lo schermo). Il dibattito italiano sulle primarie deve pertanto essere solidamente ancorato alla visione complessiva del sistema istituzionale che si ha o si propone (fortemente basato sulla rappresentanza o sul governo); all’idea di partito che si ha o si propone (soggetto autonomo con capacità di decisione o mero strumento di consultazione dell’opinione pubblica); alla sovranità popolare che si intende porre a fondamento dell’esperienza democratica (illimitata e decisiva per le scelte di governo o limitata come la Costituzione italiana preve-
Il rapporto con il sistema istituzionale complessivo è pertanto fondamentale per comprendere di quale primaria si parli e, quindi, se si è in presenza di un modello prevalentemente personalistico e mediatico, o di un modello partecipativo e politico. Anche in riferimento alle primarie – come per il sistema elettorale – occorre pertanto capire cosa significa per esse la scelta federalistica del sistema medesimo; cosa significa la scelta del modello di governo – prevalentemente parlamentare o prevalentemente presidenziale –; cosa significa per esse la scelta tra un modello di partito che decide la propria linea politica nel congresso; e un modello di partito che trasforma il congresso sostanzialmente in un sondaggio. Non si può pertanto in astratto essere favorevoli o contrari alle primarie: occorre, anche in questo caso, uscire dalle nebbie e collocare l’orientamento medesimo nel contesto di una scelta complessiva concernente il rapporto tra partiti e popolo.
diario
pagina 6 • 13 gennaio 2010
Crisi diplomatica. Dopo i gravi fatti di Rosarno, continuano le polemiche sulle condizioni di vita degli immigrati in Italia
La predica del Bossi d’Egitto
Il Cairo accusa: «Italia razzista». Il Senatùr: «Voi ammazzate i cristiani» ROMA. Il crinale che dalla tragedia porta alla farsa, si sa, è ripidissimo e facile ad essere percorso. In questa fattispecie si può rubricare lo scontro diciamo diplomatico tra Italia ed Egitto innescato dagli scontri di Rosarno. Questi i fatti: ieri una nota del ministero degli Esteri del Cairo ha denunciato, non si capisce bene a che titolo visto che non ci sono egiziani coinvolti, «la campagna di aggressione» e «le violenze» ai danni di «immigrati e minoranze arabe e musulmane in Italia». Il governo di Roma, sostengono gli egiziani, deve intervenire anche alla luce del fatto che le organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani hanno segnalato una crescita di episodi «razzisti» in Italia e le difficili condizioni di vita degli immigrati causate dalle «condizioni di detenzione, dalla violazione dei loro diritti economici e sociali e dalla pratica delle espulsioni coatte». La chiusa è una sorta di schiaffo: il governo di Mubarak s’appella addirittura alla comunità internazionale perché intervenga sulla questione della «discriminazione religiosa, razziale e l’odio contro gli stranieri per evitare che questo tipo di incidenti si ripetano in futuro».
La reazione del governo è stata, per così dire, di doppia natura. Prima il ministro degli Esteri, parlando dalla Mauritania, ha chiarito l’ovvio: «Nessuno può accusarci di razzismo. Tutta l’Italia, credo tutta l’Europa, ha visto
la Bossi-Fini e il governo che «continua ad agitare il tema della clandestinità ma non sa risolverlo», perché la legge voluta dal centrodestra «non è riuscita a incrociare un problema molto semplice»: l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Dire solo no all’immigrazione, dice il segretario del Pd, è come «voler fermare l’acqua con le mani». Il presidente dei Verdi Angelo Bonelli, invece, ha addirittura annunciato un esposto all’Unione europea per violazione dei diritti umani e la richiesta di
Il governo di Mubarak s’è appellato addirittura alla comunità internazionale perché intervenga sulla questione della «discriminazione religiosa» gente dare l’assalto alle case o sfondare e bruciare le macchine. Questo non c’entra assolutamente niente con motivazioni religiose: si tratta di una violenza inaccettabile che giustamente è stata respinta dalle forze di polizia». Umberto Bossi, invece, ha ovviamente occupato il ruolo che spetta alla Lega in dibattiti di questo tipo: «Guardate come loro trattano i cristiani: li fanno fuori tutti. Tranquilli, non sono questi i problemi». Anche l’opposizione s’è cimentata sul tema Rosarno. Pierluigi Bersani ha attaccato
vergogna del mondo globale contemporaneo». È proprio quest’aria di accorata partecipazione, questa estrema copertura informativa, la gran messe di proposte “concrete” che arriva dalla politica che danno al tutto un’aria farsesca: è come se di quel che accade a Rosarno e in migliaia di altri comuni agricoli italiani nessuno sapesse niente, è come se proprio a Rosarno tutto questo non fosse già accaduto. Era l’11 dicembre 2008 quando due ivoriani, gli ultimi di una lunga catena, venivano feriti a colpi d’arma da fuoco nei pressi dell’ormai famosa cartiera. Anche allora scattò la reazione, pacifica però: un corteo spontaneo che arrivò fin sotto al municipio. Il fatto finì sui giornali ma venne oscurato, pochi giorni dopo, dalla strage degli africani a Castelvolturno.
di Marco Palombi
una indagine dell’Europarlamento sul fenomeno del caporalato. Altri ancora hanno sottolineato il ruolo della ’ndrangheta nella vicenda, certificato ieri dal blitz contro il clan Bellocco ordinato dalla Procura di Reggio Calabria: uno degli arrestati - Antonio Bellocco, figlio 29enne del boss Carmelo - era già in carcere, arrestato venerdì dopo aver tentato di investire un immigrato e aggredito alcuni carabinieri. Il vicepresidente della regione Calabria, Domenico Cersosimo, è «tristissimo» perché «Rosarno è una
«Appoggiamo il principio dello jus soli»
Cei, sì alla cittadinanza ROMA. Dopo le dure parole del Papa e quelle durissime dell’Osservatore romano sull’Italia razzista, monsignor Bruno Schettino, presidente della Commissione episcopale della Cei per le migrazioni e della Fondazione Migrantes aggiunge che «gli episodi ultimi, quelli di Rosarno, hanno messo in evidenza la debolezza del sistema di accoglienza e di integrazione. È stata una lotta tra poveri, e chi maggiormente è stato sconfitto è stato il più povero: l’immigrato». Monsignor Schettino ieri ha presentato nella sede della Radio Vaticana a Roma la prossima Giornata mondiale del migrante che si celebra domenica 17 gennaio. Tema della giornata: «Il minore migrante e rifugiato». «Occorre ricreare un clima di maggiore e migliore accoglienza - ha detto ancora Schettino - superando le tentazioni di xenofobia, che produce paura, mortificazione
dell’umano, perdita di speranza». Quindi ha aggiunto: «Contro ogni forma di sfruttamento anche da parte della malavita organizzata occorre essere attenti». E a proposito dell’accoglienza, dalla Conferenza episcopale italiana arriva un deciso sì in favore della cittadinanza per gli immigrati secondo il criterio del cosiddetto «ius soli» che completi e superi lo «ius sanguinis». «Diciamo sì alla cittadinanza secondo lo jus soli - ha detto infatti monsignor Schettino - che certo deve essere offerta a condizioni particolari; definire queste ultime non è compito della Chiesa ma della legislazione civile. Siamo però favorevoli alla formulazione di un principio di cittadinanza che preveda alcuni elementi di base come per esempio la conoscenza della lingua, della Costituzione, la residenza stabile sul territorio italiano».
«C’è un’ipocrisia di fondo spiega Medici senza frontiere, che dal 2003 lavora sui braccianti stranieri - Il 60-70 per cento delle persone che lavorano in agricoltura, sono immigrati non regolari. Si tratta di una situazione che conoscono tutti: istituzioni, prefetture, datori di lavoro, sindacati. Ma si continua a far finta di niente, perché fa comodo, e si interviene con gli sgomberi solo quando il raccolto è stato fatto». Stavolta lo sgombero è arrivato prima, ma comunque i mille immigrati spostati da Rosarno - deportati dallo Stato o partiti con le loro gambe che siano - spesso non sono riusciti nemmeno a farsi pagare il lavoro svolto. Roberto Maroni, parlando nell’aula del Senato, ha promesso che lo Stato «non darà tregua alla ’ndrangheta» e un’inchiesta seria «sulle aziende della Piana di Gioia Tauro che hanno impiegato irregolarmente immigrati». Nessun cedimento nella lotta alla clandestinità, ha scandito il ministro dell’Interno che odia la «troppa tolleranza», per finire poi per ammettere che «la maggior parte degli immigrati nella zona aveva il permesso di soggiorno» e le violenze sono frutto di «un’insanabile contrasto con la comunità locale» iniziato ben oltre un anno fa. Grazie per averci spiegato cosa avete fatto e farete dopo i fatti, gli ha replicato per l’Udc Gianpiero D’Alia, ma prima che stavate facendo?
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13 gennaio 2010 • pagina 7
Bloccati a Susa dai manifestanti i sondaggi preliminari
A Detroit Marchionne ripete: «Chiusura entro il 2012»
I lavori per la Tav partono solo a metà
Su Termini nuova sfida tra Fiat e i sindacati
TORINO. Sono iniziati ieri in 3
TERMINI IMERESE. È guerra a distanza, tra Detroit e Termini Imerese, sul futuro della Fiat in Sicilia. Dal salone dell’auto negli Usa, Sergio Marchionne annuncia che non ha cambiato idea: lo stabilimento di Termini Imerese deve essere chiuso, a volerlo sono le ”condizioni reali”. «Siamo disposti al confronto, ma nessuno può ignorare la realtà. La Fiat è una multinazionale - ha proseguito Marchionne - e i sindacati devono rendersi conto della necessità di un equilibrio tra domanda e offerta». Dichiarazioni che, a Termini Imerese, hanno generato scioperi spontanei tra gli operai, in un clima che il sindacato ha definito «di tensione». Fermo il commento di Gugliel-
dei 91 siti previsti - lo scalo merci di Orbassano, la stazione ferroviaria di Collegno e il sito Amiat di Basse di Stura a Torino - i sondaggi geognostici preliminari per la Tav, la nuova linea ferroviaria Torino-Lione. I tecnici della società incaricata Ltf sono stati invece fermati dal presidio “No Tav” all’autoporto di Susa, dove si erano presentati scortati dalle forze dell’ordine per prendere possesso dei terreni affittati e concessi dal Comune. Gli addetti hanno trovato ad accoglierli i manifestanti, che hanno trascorso la notte nell’area accendendo fuochi. Il portavoce dei “No Tav”, Alberto Perino, ha ribadito l’intezione di non lasciare i terreni confermando di voler portare avanti la disobbedienza civile. «Non siamo disponibili a farvi entrare, non cederemo. Non abbiamo vinto la battaglia, dobbiamo rimanere qui – ha spiegato -. Abbiamo detto che in qualunque punto della Val di Susa tenteranno di fare un sondaggio ci saremo a difendere la nostra terra». Il confronto si è svolto comunque in maniera civile, senza tensioni.
«Rispetto le preoccupazioni e le paure dei comitati “No Tav”, ma i sondaggi tutelano la buona realizzazione dell’ope-
I cattolici del Pd e la «bomba Bonino» Mentre la leader radicale incassa il sì di Bersani di Francesco Capozza
ROMA. Dice Pierluigi Castagnetti, capolista di quel che resta dei cattolici democratici: «Il secondo partito del Paese, nella seconda regione del Paese, non può rinunciare a presentare un proprio candidato». Di seguito il parlamentare reggiano affonda: «Oltretutto se ci si affida a un personaggio con le caratteristiche di Emma Bonino l’errore diventa doppio, perché a quel punto bisogna aspettarsi una fortissima irritazione Oltretevere, destinata a complicare non poco i rapporti». Ecco il punto. Castagnetti ha reso bene l’idea di quello che potrebbe accadere - per di più a breve - nei rapporti con le gerarchie vaticane se la leader radicale venisse candidata ufficialmente dal Pd (e questo, ancor più dopo l’incontro durato due ore tra la Bonino e Bersani, sembra ormai scontato). Dei quattro maggiori partiti reduci dallo tzunami elettorale del 2008 (Pdl, Udc, Pd e Lega), i democratici sono tra quelli che hanno dovuto più sudarsi certi rapporti privilegiati al di là di ponte Sant’Angelo e se è stato possibile preservarli è solo merito della sempre più smilza pletora di ultra-cattolici e dei loro personali rapporti in Vaticano.
portare spesso il cilicio, è da sempre in sintonia con l’ex presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini (ancora oggi potentissimo nei Sacri palazzi). Enzo Carra, da par suo, può da sempre contare su solidi rapporti con Francesco Cossiga e Gianni Letta. Lusetti, infine, vanta anch’egli legami con Camillo Ruini oltre che con il di lui successore alla guida della Conferenza episcopale italiana, Angelo Bagnasco, ma anche con Ciriaco de Mita (che si dice stia convincendolo ad approdare nell’Unione di centro di Pier Ferdinando Casini). Una mini-emorragia, come già la chiama qualcuno, che rischia di ledere rapporti e dinamiche ben più importanti dei tre singoli soggetti in questione.
Tante volte la Binetti ha minacciato di sbattere la porta e andarsene dal Partito democratico e non lo ha ancora mai fatto, ma quando lo farà - e questo appare ormai imminente - vorrà dire che oltre il colonnato berniniano avranno annuito. Attorno ad una candidatura, peraltro autorevole come quella di Emma Bonino, nel Pd si stanno consumando contemporaneamente due drammi: il progressivo gelo con il Vaticano e le sue gerarchie e un’accellerata alle fuoriuscite di personaggi più o meno noti alla pubblica opinione (basta ricordare che solo recentemente hanno abbandonato piazza del Nazareno Francesco Rutelli, Linda Lanzillotta, Stefano Calearo, Dorina Bianchi e il prodiano Mario Barbi). Dove approderanno i nuovi naufraghi democratici? Sembra incerto l’ingresso in Alleanza per l’Italia, il neo-partito targato Rutelli&Tabacci, ben più probabile, agli occhi di molti, una tappa intermedia nel gruppo misto per confluire, magari dopo le Regionali, nell’Udc di Pier Ferdinando Casini. Per sapere se e quando l’emorragia avrà inizio è solo questione di ore, ma il dato evidente è che non si sta più parlando di una Binetti vs Bonino, ma piuttosto di una Bonino vs Vaticano e, quindi, di un ben più preoccupante Vaticano vs Partito democratico.
Dopo la Binetti e Carra, anche Lusetti è in procinto di fare le valigie e chiudersi dietro la porta del Partito democratico
ra», ha detto il sindaco di Susa Gemma Amprino. «La Val di Susa è un’eccellenza europea che vogliamo proteggere e su cui intendiamo investire. Per questo l’amministrazione comunale sin dall’inizio si è detta interessata a partecipare a tutti i tavoli che si sarebbero creati», ha continuato. E sul presidio che ha bloccato i tecnici delle ferrovie ha concluso: «Mi pare che il clima sia sereno e che ci si possa incontrare al bar e prendere un caffè insieme al di là delle reciproche posizioni. Qualche anno fa tutto questo non era possibile e il merito di questa inversione di rotta è del lavoro dell’Osservatorio e del dialogo che è riuscito a instaurare».
Sono giorni che liberal interloquisce con molti di questi esponenti e proprio dalle colonne del nostro giornale Paola Binetti, capofila dei cosiddetti “teodem”, aveva lanciato un monito che sapeva molto di aut-aut («se candidano la Bonino io me ne vado» era il succo del suo discorso). Ieri abbiamo scritto che anche un altro esponente cattolico democratico, Enzo Carra, sarebbe in procinto di fare le valigie. Oggi un altro nome si aggiunge al piccolo ma significativo elenco di desaparecidos: quello di Renzo Lusetti, ex fedelissimo di Rutelli ma che nell’Api dell’ex presidente della Margherita non è voluto entrare. Binetti, Carra, Lusetti: una terna apparentemente non significante (a sentire Emma Bonino addirittura troppo «sovra esposti mediaticamente») ma che dall’altra parte del Tevere ha il suo bel peso. Paola Binetti, per esempio, una cattolica di principi tradizonalisti che non fa mistero di
mo Epifani, segretario della Ggil: «Continueremo a batterci contro la chiusura». La Uilm, dal canto suo, ha fatto sapere che intende proporre a Fim e Fiom due ore di sciopero di tutti i lavoratori del gruppo entro gennaio, «a sostegno della vertenza che riguarda lo stabilimento di Termini Imerese». «Siamo disposti a lavorare con tutti – ha ribadito Marchionne ma al momento non c’è nessuna offerta, solo speculazioni via giornali». Il riferimento è alla presunta offerta di Simone Cimino e di una cordata italiana per produrre auto ecologiche nello stabilimento siciliano.
Immediata la risposta degli operai di Termini Imerese: «Se il clima sta diventando pesante la colpa è di Marchionne - ha detto Roberto Mastrosimone, segretario territoriale della Fiom -. Il sindacato governerà la protesta ma se la situazione dovesse degenerare sappiamo già di chi è la responsabilità. La Fiat - ha aggiunto - dovrebbe rispettare quello che un anno fa condivise con i sindacati: produrre la nuova Lancia Ypsilon a Termini Imerese». Per oggi è in programma lo sciopero di 8 ore proclamato da Fim, Fiom e Uilm, con manifestazione a Palermo, davanti alla sede del Parlamento siciliano.
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pagina 8 • 13 gennaio 2010
Luci e ombre. Il presidente Giovannini richiama la politica: accetti le statistiche di qualità e decida in base a numeri reali
Italia. Singolare maschile L’Istat fotografa il Paese dopo la crisi: meno lavoro, più illegalità, più sommerso di Francesco Pacifico
ROMA. La prima stoccata di Enrico Giovannini riguarda il metodo: «Grazie alla tecnologia produrre dati non è mai stato così facile. Ma numeri non statistiche di qualità. E spesso si confondono gli uni con gli altri». Con il secondo fendente, questa volta ancora più diretto, il presidente dell’Istat si occupa del merito: «Lancio un appello ai politici, agli amministratori, agli imprenditori ma anche i mezzi di informazione: non trascurino i dati statistici di qualità, che forniscono gli strumenti di studio e di analisi indispensabili per prendere le decisioni più giuste ed efficaci che riguardano il Paese». Nell’Italia dove la politica decide più leggendo i sondaggi che le grandezze economiche, dove il premier del Consiglio li ha elevati a categoria per decifrare i voleri popolari, le parole del
internet all’indirizzo http://noiitalia.istat.it). Nel quale sono contenuti i maggiori indicatori per comprendere il Paese. «Un viaggio in Italia», l’ha definito Giovannini attraverso finanza pubblica, popolazione, immigrazione, mercato del lavoro, giustizia e qualità della vita. «L’obiettivo non è quello», aggiunge il presidente, «di soffermarsi sulla singola voce», ma di dare uno sguardo d’insieme su virtù e difetti del Paese. Come dimostra il caso del Calabrone Italia, «se vola, vuol dire che ha delle risorse che a prima vista non risultano». In Noi.Italia si succedono luci e ombre, pregi e difetti di un Paese che fa fatica a seguire uno sviluppo omogeneo. Anche perché manca una strategia comune. Soprattutto la fotografia fa riferimento al 2008, anno nel quale si iniziano già a intrave-
Si dimostra inarrestabile l’invecchiamento della popolazione. Ogni cento giovani ci sono 143 anziani. Una donna su due non ha occupazione, mentre al Sud un lavoratore su cinque è “in nero” presidente dell’Istat finiscono per essere una condanna senz’appello alla classe dirigente del Paese. Oltre a un ammonimento a non leggere uno zero virgola in più o in base in base alle proprie esigenze.
Non a caso Giovannini collega questo modo di operare all’incapacità di «investire sul futuro. L’Italia è stata spesso definita il calabrone che vola. Perché come questo insetto vola a dispetto di ogni teoria ingegneristica, così il Paese, pur avendo tanti problemi, in cinquant’anni ha raggiunto un rapporto tra ricchezza e reddito tra i più elevati nel mondo». Eppure «un Paese che investe poco, poco in cultura e poco in capitale umano, alla lunga può avere problemi di sostenibilità». E forse non potrebbe essere diversamente in un Paese dove la metà dei suoi abitanti può vantare al massimo il diploma di scuola media. In un’Italia dove «almeno il 18 per cento del Pil si conferma legato al sommerso». Ieri l’Istat ha presentato il volume “Noi e l’Italia” (completamente consultabile su
dere i problemi strutturali che patiremo nei prossimi anni. Il fronte più caldo è quello sociale. E non potrebbe essere diversamente in un Paese di vecchi, dove ci sono 100 giovani ogni 143 anziani. E dove ogni giovane deve lavorare una volta e mezzo per pagare l’assistenza a chi è già a riposo. Di conseguenza non deve sorprendere che nel 2008 l’Istat abbia calcolato che le persone potenzialmente in uscita dal mercato dal lavoro sono il 20 per cento in più di quelle potenzialmente in entrata. Con il rischio che, sfruttando la crisi, le aziende possano nell’immediato futuro ridurre la già pingue base occupazionale. Tra quelli che Giovannini definisce «tendenze che avranno impatti nel medio e lungo termine» poi va segnalata l’alta disoccupazione femminile. Una tendenza tutta italiana. Livelli di occupazione nazionale al di sotto delle medie europee, soprattutto per quanto riguarda le donne. Quelle occupate sono il 47,2 per cento della popolazione di riferimento,
Mancano 500 milioni
Censimento, i fondi non ci sono ROMA. Per il censimento della popolazione, delle attività produttive e delle abitazioni del 2010 «non ci sono i finanziamenti. Spero che governo e Parlamento sanino rapidamente questa situazione». È l’allarme del presidente dell’Istat, Enrico Giovannini durante la presentazione del rapporto Noi Italia di cui parliamo qui accanto. In conferenza stampa, il presidente ha segnalato che «serve una legge e un finanziamento collegato entro febbraio». «Penso che l’Italia – ha commentato poi - non vorrà non fare il censimento incorrendo così in una infrazione europea. Non farlo ha diverse conseguenze anche pratiche e vuol dire bucare dieci anni di trasformazioni economiche, un rischio che non possiamo correre». D’altra parte, crisi o non crisi, sarebbe la prima volta che un governo occidentale rinuncia a fotograre la situazione sociale e anagrafica del Paese. E invece, stando a quanto successo fino a oggi, il governo ha stanziato solo 128 milioni di euro per il censimento dell’agricoltura: mancano ancora le risorse per quello più importante che è il censimento generale della popolazione. «Servono 500 milioni di euro – ha spiegato Giovannini - che dovrebbero arrivare tramite decreto legge o legge ordinaria, in modo da consentire all’Istat e ai comuni di assumere il personale necessario. Spero – ha concluso il suo appello - che il governo e il Parlamento ci consentano di andare avanti».
mentre gli uomini il 70,3. Più in generale, e nel 2008, era occupato il 58,7 per cento della popolazione nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni. Unica nota positiva che «il tasso di disoccupazione italiano rimane inferiore a quello medio dei Paesi della Ue a 27. Ma non al Mezzogiorno, dove un lavoratore su 5 è in nero.
In questo scenario non sorprende neanche che – come ha reso noto ieri la Banca d’Italia – si sia registrata negli ultimi anni una vera e propria fuga dal Mezzogiorno. Dove a partire questa volta non sono le braccia ma i cervelli. Tra il 1990 e il 2005 hanno lasciato l’area più povera del Paese ben 80mila laureati. Maggiore attivismo invece sul versante dell’immigra-
alle nostre bellezze architettoniche e naturali, registra una sostanziale stasi. Diminuiscono gli alberghi (-0,8 per cento) come le altre strutture per i vacanziere (-3,9). Il tutto a dispetto di presenze in lieve aumento (+2,7 per cento). Domani, e proprio nella sede dell’ Istat, l’Aspen institute ha organizzato un workshop per comprendere come calcolare i processi di crescita dopo la crisi. Enrico Giovannini è da sempre convinto che si debba guar-
Il valore del sommerso si conferma al 18 per cento del Pil. Ma secondo l’Istituto «per comprendere la nazione dobbiamo guardare agli investimenti su capitale umano e sociale» zione. A fronte di una popolazione residente di quasi 4 milioni, nel 2008 le forze lavoro straniere rappresentavano il 7,6 per cento del totale, con un tasso di attività superiore di oltre dieci punti percentuali a quello della popolazione italiana. Più in generale, a dover assorbire questo gap di occupazione è, secondo l’Istat, un sistema produttivo caratterizzato da una forte presenza di microimprese, con in media circa 4 addetti. Talmente frastagliato che ci sono quasi 66 imprese ogni mille abitanti. Nella piattezza generale persino un settore come il turismo che avrebbe bisogno di meno risorse per l’avviamento grazie
dare «a 4 categorie: al capitale fisico, a quello umano, quello sociale e quello naturale. Nel 2006, ultimo dato disponibile, in Italia ha rilevato nel suo Pil attività di sommerso pari al 18 per cento totale». Ma da sé questa statistica vuole dire poco, «visto all’interno di questa voce troviamo anche attività del pubblico impiego, dove il sommerso non può essere generato». Più utile «vedere quanto gli stock di capitale accumulati siano sostenibili nel tempo». Non guardare quindi soltanto ai beni e ai servizi consumati e trasformati per ottenere nuovi beni e servizi, ma anche agli investimenti per essere più competitivi.
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13 gennaio 2010 • pagina 9
L’economista Alessandro De Nicola commenta il rapporto Istat: «Non bisogna confondere contributi e criminalità»
«Tregua fiscale per il Sud»
«La vera emergenza è nel rapporto tra tasse e lavoro nero» di Gabriella Mecucci
ROMA. Dopo Rosarno arrivano i dati Istat sull’economia illegale nel Mezzogiorno: una crescita continua che ha fatto sì che quasi il 25 percento dei lavoratori vivano una situazione di illegalità. In Calabria la percentuale supera il 27 per cento. Il “nero” al Sud è un iceberg dove sono aggrappati anche molti italiani, e quasi tutti gli extracomunitari, clandestini e non. Questa realtà e ciò che è accaduto a Rosarno sono le facce di una medesima medaglia: l’una serve a spiegare l’altra. Le dichiarazioni del presidente dell’istituto nazionale di statistica sono particolarmente preoccupanti: Enrico Giovannini ha infatti riconosciuto ieri che – stando così le cose – è praticamente impossibile persino valutare la quantità di ricchezza che viene prodotta nel Mezzogiorno. Di questa situazione parliamo con Alessandro De Nicola, presidente della Adam Smith Society, Professore, dai dati forniti da Giovannini esce un paese spaccato. E una parte di questo è addirittura inconoscibile.. Questo mi sembra eccessivo. Le reali condizioni di ricchezza e di vita di una zona sono in qualche misura sempre valutabili. Per risalire al livello dei redditi, è sufficiente conoscere i livelli della spesa. Per misurarli, è utile andare a consultare i dati riguardanti l’Iva. È vero che anche questa si può evadere, ma meno di altre tasse. Ci sono poi degli indicatori, come il numero delle automobili, che segnalano le condizioni economiche di una popolazione. Quello che è assolutamente vero, invece, è che la spaccatura fra Nord e Sud aumenta e diventa sempre più grave. I rigori della crisi hanno reso il livello del-
la fiscalità particolarmente insopportabile nelle realtà più arretrata e, in più, in queste c’è da sempre il problema della mancanza delle condizioni minime di ordine pubblico. Quando si dice questo non si vuol significare solo la presenza delle mafie, ma il non rispetto della legalità,in particolare di quella fiscale e contributiva. Questo che lei dice spiega piuttosto bene ciò che è accaduto a Rosarno... In quella cittadina c’erano 2000 immigrati, il 20 per cento della popolazione viveva in condizioni disumane. In un centro così piccolo tutti sapevano: dai
emergere significherebbe determinarne una crisi gravissima. È così? Se le regole fiscali e contributive, così come sono, vengono applicate dall’oggi al domani in tutto il Sud, è evidente che si va incontro ad una formidabile impennata del numero dei disoccupati. La redditività delle produzioni locali, o almeno una parte di questa, non è tale da poter sopravvivere alla quota di tasse e tributi che devono essere versate allo stato, E poi c’è lavoro nero e lavoro nero... Cioè, mi vuole spiegare? C’è un lavoro nero di semplice evasione dei contributi che si devo-
“
La crisi ha reso il livello della fiscalità particolarmente insopportabile nelle realtà sociali più arretrate consiglieri comunali ai carabinieri, dagli vigili agli impiegati dell’Inps. Perché nessuno ha detto nulla? Perché c’è una connivenza dello stato con l’illegalità che, quando va bene, si ferma alle soglie dei reati più gravi, ma, aldisotto di questa soglia, è totale. Nessuno può sostenere che duemila operai stranieri che raccolgono i pomodori, che stanno nelle baracche, possano restare un fenomeno sconosciuto. L’illegalità economica al Sud è estesissima, ha dato vita ad un sistema diffuso e al tempo stesso fragile. C’è chi sostiene che farlo
”
no allo stato e c’è un lavoro nero organizzato dalla criminalità. Un conto è l’imprenditore agricolo che non mette in regola un operaio e un altro conto sono, ad esempio, gli sfasciacarrozze che servono alla camorra. Sono fenomeni diversi. Qual è la soluzione? Per far emergere il lavoro nero non governato dalle mafie, quello – diciamo così – non legato alla violenza, la cosa più semplice e più efficace è di diminuire il livello della fiscalità. Si potrebbe fare una minimum tax area che riguarda ampie zone del Mezzogiorno. Naturalmente questa dovrebbe essere
una misura a tempo: quattro-cinque anni. E chi, nonostante questo privilegio temporale, non si mettesse in regola, dovrebbe essere stangato in modo esemplare. Minimum tax area al Sud? Sì. È comunque meglio che fare la Banca del Sud. Riformare l’apparato statale, ma come? Se l’impiegato dell’Inps o del Comune di Rosarno non fanno i controlli dovuti, nessuno lo può licenziare. Di più: non subiscono nemmeno alcun danno alla propria carriera. Occorre stabilire una qualche responsabilità ed una qualche sanzione per chi chiude tutti e due gli occhi. E questo richiede una riforma della macchina pubblica. L’illegalità del clandestino si somma all’illegalità che trova sul territorio? Sì, c’è una tripla illegalità: il clandestino, l’imprenditore evasore, la mafia che organizza e governa certi lavoratori. Quindi dire, come fanno Maroni e Calderoli, che il problema si risolve con la lotta alla clandestinità, è una sciocchezza. Così come l’affermazione di Livia Turco che tutto è legato alla criminalità organizzata. Esistono invece più livelli sui quali occorre agire”. Gli extracomunitari sono particolarmente concentrati nell’agricoltura. In questo settore il fenomeno è registrabile anche al Nord, perché? Qualcuno dice che dipende dalla bassa redditività? Al Nord sono comunque infinitamente di meno. La concentrazione edi extracomunitari è dovuta alla facilità con la quale questi possono essere impiegati in agricoltura.
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panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Bassolino e il bluff del Rinascimento n sondaggio del Sole 24 Ore dice che il peggior sindaco d’Italia è Nicodemo Petteruti, primo cittadino di Caserta, e l’ultimo governatore d’Italia è Antonio Bassolino, del quale, a differenza del sindaco casertano, non c’è bisogno di dire chi è. La Campania, dunque, anche se può contare sull’ottimo piazzamento del sindaco di Salerno - il famoso sindaco-sceriffo Enzo de Luca - ancora una volta passa alla cronaca per un record negativo. Però, al contrario di quanto si potrebbe facilmente pensare, il record negativo non consiste nell’essere gli ultimi in classifica, bensì essere gli ultimi dopo essere stati i primi. Delle due l’una: o non vale niente l’ultima posizione di oggi di Bassolino o non valeva niente la prima posizione di ieri sempre di Bassolino. Voi per quale delle due ipotesi propendete?
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Sembra davvero lontano il tempo in cui Bassolino era visto come una sorta di nuovo San Gennaro con la balbuzie. Sembrava quasi che mai Napoli avesse avuto un sindaco degno del nome e Antonio Bassolino era considerato non solo un gran pezzo di sindaco napoletano - nonostante sia di Afragola, paesone alle porte di Napoli - ma era addirittura visto come una grande speranza per la riscossa del Mezzogiorno, per l’Italia e, dulcis in fundo, per la sinistra. Prima che iniziasse l’era di Silvio Berlusconi, sotto il Vesuvio già governava Bassolino e già si parlava di Rinascimento Napoletano. Nessuno ha mai capito bene che cosa si volesse intendere con questa formula più barocca che rinascimentale, ma le parole suonavano così bene che nessuno osava contraddirle. Bassolino era visto come il prototipo del sindaco d’Italia: il sindaco che ci voleva un po’ ovunque per risollevare le sorti delle dormienti città del Sud, del Centro, del Nord. Il sindaco di Napoli, dopo aver messo il divieto di parcheggio in Piazza Plebiscito, fu messo a capo di una cordata di sindaci - soprattutto del centrosinistra - che si proponevano come modello superpositivo per governare l’Italia partendo - come si diceva - dal basso. Quando fu fatto il governo D’Alema il sindaco di Napoli era così forte e contava così tanto nel suo partito di allora, il Pds, che il neopresidente del Consiglio non potette fare a meno di portarlo con sé al governo e gli affidò il ministero del Lavoro. Ma fu quello un governo triste e sfortunato: di lì a poco, infatti, la follia assassina delle Brigate rosse avrebbe ucciso a via Salaria il giuslavorista Massimo D’Antona. L’esperienza del doppio incarico fu una svolta negativa per Bassolino che dopo Palazzo San Giacomo passò a Palazzo Santa Lucia, diventando governatore della Campania, ma iniziando contemporaneamente l’inizio della fine. Mantenne e rafforzò il potere, ma il bluff del “rinascimento” già lasciava il campo alla monnezza alla quale, però, Bassolino - a testimonianza del suo potere - è sopravvissuto.
La rivoluzione di Obama: ammettere i propri errori La vera novità del discorso sul fallito attentato di Natale di Anna Camaiti Hostert uesto incidente non è stato colpa di nessun individuo o di alcuna organizzazione in particolare, è stato piuttosto un errore di sistema sfuggito alle maglie delle diverse organizzazioni e degli uffici competenti. Personalmente sono meno interessato ad addossare la colpa sugli altri e più a imparare come correggere questi errori per fare in modo di essere più sicuri, perché alla fine dei conti il cerchio si chiude con me ( the buck stops here). Come presidente ho la solenne responsabilità di proteggere la nostra nazione e la nostra gente e quando il sistema fallisce la responsabilità è mia». Così Obama giovedì 7 gennaio si è addossato la colpa della enorme falla dell’intelligence americana in occasione dello sventato attentato nel giorno di Natale sul volo Amsterdam-Detroit. Il nome dell’attentatore, il ventitreenne nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab, che si è presentato all’aeroporto con un regolare visto per entrare negli Stati Uniti e con una bomba nascosta addosso, era noto ai sistemi di sicurezza. Obama, che non ha addolcito la pillola ai suoi collaboratori (we screwed up = abbiamo fatto una cazzata), considera, oltre alla mancata attenzione, altri due gli errori fondamentali commessi dall’intelligence: non avere considerato la serietà dell’attentatore e non avere messo in vigore il divieto per quest’ultimo di volare negli Stati Uniti. «In sostanza il governo americano ha disperso le informazioni, che gli avrebbero permesso di scoprire e sventare questo piano, entro i meandri del sistema . Più che un fallimento nel raccogliere o condividere informazioni questo è stato un fallimento nel connettere e capire le informazioni di cui già eravamo in possesso» ha spiegato il presidente.
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per prima cosa si dovranno prendere sul serio tutti gli indizi anche quelli più insospettabili non solo in alcuni casi, come si è fatto fino ad ora, ma in ogni evenienza; inoltre si dovranno velocizzare i rapporti tra i vari gangli delle organizzazioni, poi si dovranno rafforzare e integrare le informazioni e infine si dovrà tenere sempre aggiornata la lista dei terroristi (the black list), rivedendo il sistema dei visti, con speciale attenzione a quegli individui che non devono assolutamente entrare negli Stati Uniti. Obama ha inoltre annunciato nuove misure di sicurezza negli aeroporti come i body scanners in grado di rivelare esplosivi addosso alle persone.
«Non c’è una soluzione semplice a questo problema. Appena noi sviluppiamo nuove tecnologie e nuove procedure i nostri avversari cercano nuovi modi per evaderle come è avvenuto per lo sventato attentato di Natale. Nella continua gara per proteggere il nostro paese noi dobbiamo sempre essere un passo avanti rispetto ad un avversario temibile. Queste sono le misure necessarie per combatterlo e noi continueremo a lavorare con il Parlamento per assicurare che la nostra intelligence, la nostra homeland security e le forze della legge abbiano le risorse necessarie per mantenere il popolo americano al sicuro…Siamo un paese in guerra, in guerra contro al Qaida e faremo qualsiasi cosa per sconfiggere i terroristi» ha affermato senza esitazioni il presidente. Questo rivendicare le proprie responsabilità è d’altra parte coerente con i principi e i valori di Obama che fin dalla campagna elettorale ha parlato di affidabilità, di trasparenza e della possibilità di un cambiamento nella conduzione della cosa pubblica. La sua amministrazione si era infatti lamentata in passato che il presidente Bush e il suo team erano stati troppo lenti a riconoscere gli errori commessi e raramente se ne erano assunti le responsabilità.
Il presidente ha dichiarato in fretta le proprie colpe, proprio il contrario di quello che aveva sempre rimproverato a Bush
Quello che ormai alcuni giornali americani hanno denominato lo stile del “the buck stops here” di Obama contraddistingue un nuovo stile alla Casa Bianca rispetto al passato e, anche se il presidente ha detto che non chiederà la testa di nessun individuo, ha promesso con forza che porterà più credibilità nei servizi segreti e soprattutto rafforzerà il sistema antiterroristico. Quattro le aree di intervento:
Obama e i suoi consiglieri sembrano invece imboccare una strada differente nella speranza di convincere gli americani che, se sbagli ci sono stati come è accaduto, un’ammissione di colpa e la soluzione veloce dei problemi, possano restituire loro intatta la fiducia nell’amministrazione.
panorama
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Sta per partire «Blognation», nuovo aggregatore che dovrà affrontare la concorrenza degli “indipendenti”
Telecom dà una casa ai blogger Dopo «Cubovision», l’azienda di Franco Bernabé lancia una nuova sfida nella Rete di Alessandro D’Amato
ROMA. Telecom alla rete ci crede davvero. Dopo il lancio di Cubovision, la televisione via internet che offre accesso al mondo multimediale on-line e al digitale terrestre, l’azienda di Franco Bernabé sta lavorando a un progetto pensato per i blog, ovvero i diari on line che in Italia hanno riscosso un grandissimo successo. BlogNation è il nuovo progetto con cui il gruppo ha intenzione di creare un aggregatore per contenuti per raccontare “il mondo visto dalla rete”. Un progetto in fase di realizzazione, per il quale Telecom ha chiamato Gianluca Neri (blogger e giornalista, fondatore del portale Clarence e animatore di Macchia Nera, uno dei più importanti blog italiani), e a cui collabora anche Hagacure, l’agenzia per le pubbliche relazioni in internet di Marco Massarotto. L’intento del progetto è quello di dare ai blogger «una propria voce, un proprio spazio, una propria casa, e ciò che ne consegue».
voce ai blogger italiani, non “farli finire su un giornale”, ma dare loro una propria voce, un proprio spazio». Non avrà quindi contenuti duplicati e la sua pagina principale somiglierà a quella di Google News: verranno aggregati soltanto i titoli e le prime righe degli articoli/post, evitando così il rischio di contenuti duplicati (che vengono penalizzati da Google nelle ricerche). E che quindi promette di essere una nuova “casa”per i blogger italiani, permetten-
do loro di usufruire di una vetrina che, nelle intenzioni, potrebbe andare a incidere sull’opinione pubblica del paese.
Un progetto che comunque nella rete non è nuovo. Anche nell’interfaccia, della quale circolano alcune immagini in rete, l’idea somiglia molto a quanto già sta facendo il gruppo Banzai con Liquida e Blogbabel: rispettivamente, «il primo portale italiano di informazione 2.0 interamente composto ad User Generated Content, pensato per dare visibilità e fare emergere i migliori blogger italiani ed essere un’opportunità reale per ogni blogger di essere protagonista in una libera pluralità di espressioni, forte della reputazione e della credibilità conquistate tra il popolo del web», e la classifica che traccia le discussioni della blogosfera e incolonna in una classifica i blog italiani in base alle citazioni degli altri blog. E infatti le critiche, già oggi, cominciano a fioccare: «Quel che è chiaro è il fatto che, ancora una volta, emerge un tentativo di mettere la magra blogosfera italiana in fila creando un ranking basato su principi che, per chiari che possano essere, andranno sempre e comunque a creare un qualcosa di artificioso: una classifica», scrive Giacomo Dotta su WebNews, facendo riferimento alle moltissime polemiche tra i blogger italiani che hanno accompagnato la
Su Internet è polemica contro il ”gigante” che rischia di controllare o, peggio ancora, mangiare i piccoli
Blognation funzionerà come aggregatore di post e classifica di blog, in maniera totalmente automatica, dando rilevanza, come se fosse la prima pagina di un giornale on line ai contenuti in base ai links (i collegamenti) e ai commenti: «Il progetto è ancora in fase Alpha ed è in fase di testing da parte di una trentina di blogger, si aprirà presto – scrive Massarotto sul suo blog - questo progetto è stato voluto per dare un
nascita e la gestazione di Blogbabel prima che fosse venduta a Liquida. Senza dimenticare che a fornire un servizio molto simile c’è anche, ad oggi, c’è anche Wikio: «Un motore di ricerca di news diretto dai propri utenti che sorveglia, in tempo reale, migliaia fonti d’informazione, estrae in tempo reale i contenuti e li archivia in un database di milioni di documenti. L’archiviazione degli articoli si basa sulla pertinenza delle notizie e della popolarità di queste espressa dai lettori che votano, commentano o che scrivono a loro volta degli articoli. Ad oggi, la versione italiana di Wikio raccoglie le notizie a partire da 2000 fonti», dicono i gestori del sito, che vanta anche portali simili in altri paesi europei e fornisce anch’esso una classifica dei blog a livello tematico, nazionale ed europeo.
Insomma, un po’ di concorrenza il progetto di Telecom dovrà scontarla, soprattutto all’inizio; anche perché, soprattutto nel caso di Banzai, che è oggi il terzo operatore italiano nell’ambito media internet (prima di RCS e Gruppo Espresso), il primo nell’ambito e-commerce e tra le prime cinque realtà nel mercato del web design; in ogni caso, i nomi chiamati a collaborare al progetto dell’ex monopolista e le dimensioni dell’impegno sono garanzia di un progetto di successo. Qualcosa si muove, nel web italiano.
Celebrazioni. Un convegno di ex-An riconsidera alla radice la figura del leader socialista
E i finiani fanno pace con Craxi di Ruggiero Capone
ROMA. A destra Bettino Craxi è sempre
cale intitolata «Dieci anni dopo, e se ripartissimo dai suoi strappi?». E sullo stesso tema la componente finiana del Pdl ha organizzato ieri alla Camera dei Deputati un convegno.
piaciuto tanto, un po’ perché era riuscito (a differenza di tanti che vi convivevano) a mettere in crisi il duopolio Dc-Pci, poi perché aveva incarnato quel sentire patrio e socialista che Giano Accame appellava come “socialismo tricolore”. Così non pochi missini venivano vinti da come Bettino vivesse pericolosamente contro il regime partitocratico e l’occidentalismo. Una mancanza di sudditanza che alla destra italiana degli anni ’80 faceva battere il cuore, specie all’indomani di quella vignetta di Repubblica che, in pieno duello Craxi-De Mita, vestì Bettino per sempre d’orbace.
All’incontro erano presenti Stefania Craxi, Fabrizio Cicchitto, Chiara Moroni, e i “finiani di ferro” Carmelo Briguglio e Fabio Granata
Non è dato sapere quanto questo passato amorazzo missino oggi condizioni la scelta editoriale del Secolo d’Italia, è certo però che il quotidiano vicino a Fini oggi abbia deciso di ripartire dagli strappi di Bettino Craxi per offire una rilettura del ruolo e della politica modernizzatrice del leader socialista. Così il Secolo d’Italia dedica a Craxi una corposa edizione domeni-
mento al quotidiano finano, per molti aspetti complementare alla fondazione Fare Fururo del presidente della Camera. All’incontro erano presenti Stefania Craxi, Fabrizio Cicchitto, Chiara Moroni, ed i finiani di ferro Carmelo Briguglio e Fabio Granata, nonché Massimo Pini ed Enzo Biffi Gentili. «Ci tenevamo ad essere i primi ad offire un approfondimento sulla fi-
Ad animarlo l’associazione gli “Amici del Secolo”, struttura organizzativa di riferi-
gura di Craxi - ha commentato Flavia Perina (direttrice del Secolo) - Serve una riflessione accurata, sulla sua politica basata sull’accelerazione verso una direzione modernizzatrice». Craxi fu il primo presidente del consiglio nella storia dell’Italia repubblicana ad ascoltare anche l’Msi, duramente colpito dall’arco costituzionale. Massimo Pini, amico e biografo di Craxi, ha invitato a trasformare «il mito di Craxi da fatto culturale a fatto politico, l’esilio ad Hammamet non fu latitanza ma rifiuto di sottoporsi ad un giudizio politico». Scelta difficile, che oggi fa emozionare le persone vicine all’ex leader socialista. «L’ha fatta per non accettare una giustizia usata come arma politica, lasciando tutto quello per cui aveva vissuto: la politica, la famiglia, Milano, gli amici», ha ditto la figlia Stefania. Mentre Massimo Pini rammenta le parole di Pinuccio Tatarella: «Craxi deve tornare».
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segue dalla prima In questo modo ha creato un elemento di contenzioso enorme e soprattutto ha prodotto quei diritti di veto che si sono sparsi sul territorio e che abbiamo visto agire in questi anni. Poi possono essere stati vestiti a sinistra come «no-tav» e a destra come tassisti che rifiutano le liberalizzazioni, ma di fatto si è trattato di diritti di veto a tutti gli effetti che hanno bloccato infrastrutture di carattere internazionale. Non a caso un uomo avveduto come Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Acri, alla giornata del risparmio ha sostenuto che è decisamente sbagliata l’equazione che è passata in questi anni «territorio = sede di decisione alternativa al centro», aggiungendo, oltretutto, che il territorio non può sostituirsi al sistema Paese come invece purtroppo è avvenuto. Ciò si è verificato perché all’inizio degli anni Novanta, con la caduta della Prima Repubblica, è passato nel nostro Paese un vento nuovista e si è affermata l’idea che per rendere più efficiente il funzionamento della macchina dello Stato fosse utile accentuare le politiche di decentramento. Si è venduta questa idea come il modo per combattere il malaffare, per tagliare le unghie alla casta, per avvicinare i cittadini alla politica dalla quale si erano allontanati. Non bastava il regionalismo della Prima Repubblica, che in effetti era rimasto incompiuto perché chi l’aveva voluto a suo tempo aveva chiesto che ci fosse una risistemazione del decentramento - penso alle proposte di abolizioni delle province che accompagnarono la nascita delle regioni e che sono rimaste lettera morta; questa idea del decentramento, che quello che sta in periferia sia meglio di quello che sta al centro, che poi non a caso si accompagna in economia al «piccolo è bello» che molti danni ha fatto (perché ha reso nano e impotente un segmento importante del nostro capitalismo al di là delle retoriche che sento usare ancora oggi), ha finito per permeare anche molti altri aspetti della stessa società - che già era predisposta, poiché il dna dell’Italia è pur sempre quello dei mille campanili e del particolarismo - con la fioritura di mille federalismi: quello universitario, perché ognuno voleva l’università sotto casa; quello aeroportuale, perché «guai a non avere un aeroporto»; quello ospedaliero, tant’è che oggi il problema è quello di tagliare decine e decine di ospedali in eccesso.
Di tutti i servizi possibili e immaginabili si è assistito a una moltiplicazione: persino le stesse province e numero dei comuni sono aumentati tant’è che oggi il nostro sistema con questo mostro istituzionale conta venti regioni, centonove province, ottomilacento comuni, trecentotrenta comunità montane - comprese quelle al mare - sessantatre consorzi di bacino (credo che siano riferiti anche ai torrenti oltre che ai grandi fiumi) e una pletora ulteriore di istituzioni di secondo o terzo grado. Un mostro questo che è stato alimentato dalla scelta drammaticamente sbagliata della modifica al Titolo Quinto della Costituzione votata dal centrosinistra alla fine della legislatura ’962001, sbagliata nel merito e nel metodo. Il risultato è stato quindi una moltiplicazione dei centri di spesa che, per esempio, ha portato sei regioni su venti a essere in default dal punto di vista della spesa sanitaria, e un’esplosione delle tasse locali, per cui dal ‘95 al 2006, mentre le tasse nazionali al netto dell’inflazione sono aumentate del 12 per cento, quelle locali hanno
il paginone
Si è venduta questa idea come un modo per “tagliare le unghie”
Tutti gli inganni Abbiamo bisogno di più Europa, non di una moltiplicazione dei centri di spesa, perché nello scenario della globalizzazione nessun Paese ha la forza di affrontare da solo i cambiamenti di Enrico Cisnetto subito un aumento del 111 per cento arrivando a rappresentare il 22 per cento del totale. Basti pensare che oggi più del 50 per cento della spesa pubblica è spesa allocata negli enti locali.
Una situazione sicuramente non sostenibile che adesso si vorrebbe aggiustare, o portare a compimento: io dico, invece, che così facendo si stanno definitivamente tagliando le gambe al nostro Paese, e questo per colpa del federalismo fiscale. A parte che basterebbe leggere il disegno di legge che lo istituisce: in esso si trova una formula che recita che «l’attuazione della presente legge deve essere compatibile con gli impegni finanziari europei». Chi ha votato contro - e penso all’amico La Malfa - ha sottolineato in
L’indecisionismo italiano che caratterizza la nostra politica economica è spesso frutto di un eccesso di frammentazione causato dal trasferimento di alcune funzioni verso la periferia Parlamento che non si può scrivere una norma dicendo che sarà realizzata nella misura del possibile perché questa non è una cosa conciliabile con le esigenze di uno Stato che deve misurarsi a livello mondiale; è inaccettabile che ci si debba basare solo sull’impegno assunto dal governo, che sembra quasi dire ai cittadini «state tranquilli che questa norma rispetterà i problemi della finanza pubblica». In realtà, se si scava poco al di sotto degli impegni presi in campagna elettorale, si scopre che la norma in questione ha previsto un ulteriore stanziamento a favore degli enti locali e in particolare delle province perché l’articolo 1 stabilisce che si attribuisca patrimonio a comuni, città metropolitane, province e regioni, ma l’articolo 2 dichiara espressamente autonomia finanziaria delle province. Secondo un calcolo fatto dall’università della Sapienza, la già enorme cifra di 17 miliardi e mezzo l’anno che costano le province, di cui l’80 per cento impiegato per l’auto sussistenza, lieviterebbe a 27 miliardi, con un aumento del
il paginone
” alla casta, ma il territorio non può sostituirsi al sistema-Paese
del federalismo 65 per cento. Questo nonostante si sia preso l’impegno di abolire le province. Insomma, questo è il federalismo realizzato, e io credo che da cittadini, prima ancora che da analisti, abbiamo il dovere di testimoniare la nostra completa insoddisfazione per lo stato attuale delle cose. Il fatto, poi, che qualcuno voglia creare una sorta di dicotomia tra un ipotetico «federalismo buono» che soppianterà l’attuale federalismo «cattivo» è tanto aleatorio quanto sprovveduto. Se davvero esiste, e ho seri dubbi in proposito, un federalismo buono, come mai finora è stata applicata solo la sua versione più deteriore? Senza contare che non si riesce proprio a intravedere l’utilità di questo tipo di federalismo, buono o cattivo che sia. Il problema principale di questo
Un numero monografico dedicato all’unità d’Italia L’articolo di Enrico Cisnetto è tratto dall’ultimo numero dei Quaderni di Liberal, in edicola in questi giorni, dedicato al Convegno sull’“Unità d’Italia e l’identità della nazione di fronte alle sfide del XXI secolo” organizzato dalla Fondazione Liberal a Roma il 30 e il 31 ottobre scorsi. Nel numero: la relazione di Ferdinando Adornato; gli interventi di Sandro Bondi, Piero Alberto Capotosti, Francesco Paolo Casavola, Francesco D’Onofrio, Biagio de Giovanni, Stefano Folli, Gennaro Malgieri e Francesco Rutelli; le conclusioni di Pier Ferdinando Casini e Carlo Azeglio Ciampi.
Paese è il suo declino: la questione che ci troviamo ad affrontare oggi, pur essendosi aggravata con la crisi economica e con la recessione finanziaria internazionale, era già presente nel nostro Paese. L’Italia viene da quindici anni in cui ha accumulato un gap di crescita nei confronti degli altri paesi europei di un punto percentuale all’anno: quindici punti in quindici anni con Eurolandia e trentacinque punti in quindici anni nei confronti degli Stati Uniti.
La crisi italiana è nata ben prima di quella internazionale e francamente non si capisce come si possa sostenere che la recessione globale avrebbe potuto metterci in condizione di cancellare quel gap e di metterci addirittura, come ci viene raccontato ormai quotidianamente, nelle condizioni ideali per ripartire una volta terminata la recessione. Come sia possibile che avvenga tutto questo non ci è stato spiegato, e infatti non avverrà. Ma se il tema è quello di recuperare la via dello sviluppo, di recuperare questi gap, sareb-
be utile capire se questa idea del federalismo fiscale possa aiutare in questo senso il nostro Paese. In Parlamento il ministro Tremonti ha sostenuto che l’attuazione del federalismo non avrebbe peggiorato la situazione. Sarebbe stato singolare sentire il contrario. Ma bisogna focalizzarsi su quali possano essere gli elementi che portano a un miglioramento dell’attuale status quo.
Dando per assodato, infatti, che l’Italia, con il sistema attuale, continuerà a perdere terreno nei confronti dei competitor mondiali, è necessario soffermarsi sulle soluzioni possibili, uscendo una volta per tutte dal guado in cui siamo da oltre quindici anni. Nel mondo, dall’inizio degli anni Novanta in poi, sono due i paradigmi che si sono affermati. Uno è quello delle grandi dimensioni, poiché la globalizzazione significa prima di tutto quello, e l’altro è la velocità, in particolare nelle decisioni. Il processo federalista ha fatto in modo che l’Italia diventasse l’unico Paese ad aver agito al contrario rispetto agli altri: si è diviso ciò che era unito, non unendo ciò che era diviso attraverso il federalismo. Infatti l’indecisionismo italiano che ha caratterizzato la politica economica recente nasce, anche e soprattutto, per effetto del federalismo. E allora, se il mondo va in tutt’altra direzione, se il federalismo
delle competenze sanitarie a livello statale. In questo modo si potrà evitare che si ripetano situazioni di default per il 30 per cento delle regioni italiane. Secondo un recente studio della Banca d’Italia, negli ultimi sei mesi sono aumentati del 9,5 per cento gli impegni finanziari in derivati dei comuni italiani: gli ultimi sei mesi significa nel pieno della crisi finanziaria. È pleonastico sostenere che avere a che fare i derivati, specie in questo momento storico, è estremamente pericoloso. Eppure, nonostante questo, i comuni hanno aumentato la loro esposizione con questi strumenti finanziari. Fino a ora abbiamo analizzato le criticità più impellenti, ma quali possono essere le rispo-
Soltanto attraverso una nuova Costituente sarebbe possibile ottenere quell’unità necessaria per dare il via a una stagione di riforme che, fino a oggi, sono state troppo spesso procrastinate non serve ad agganciare le grandi tendenze che sono in atto nel mondo, portandoci invece in direzione di ciò che abbiamo fin qui descritto, è necessario porsi delle domande e sottoporre l’intero processo a una verifica radicale. Basti pensare, per voler citare un altro esempio, alla questione dei vaccini contro l’influenza H1N1, che sono stati sì acquistati dallo Stato, ma la cui distribuzione è stata affidata alle regioni: il risultato è che in alcune realtà il vaccino è stato disponibile da metà ottobre, in altre lo si attende per metà gennaio, quando l’allerta sarà ormai del tutto o quasi rientrata. Allora, in un Paese in cui ci sono stati alcuni morti per questo nuovo virus, che il viceministro Fazio, interrogato sulla motivazione dei rallentamenti nella distribuzione del vaccino, si trinceri dietro la scusa delle regioni, è francamente eccessivo: la delega su questioni così rilevanti non può essere una scusa per le istituzioni per «lavarsi le mani». È, in ultima analisi, necessario pensare che, nel più breve tempo possibile, si ritorni a un riaccentramento
ste più adeguate? A mio giudizio, sono almeno due: la prima, quella che dipende esclusivamente da noi, è quella di un ripensamento: togliamoci dalla testa questo riflesso condizionato che parlare male del federalismo è come parlare male di Garibaldi, ragioniamo su quello che è stato il federalismo fin qua, tiriamo le somme e se la conclusione, come ho cercato di illustrare fino a qui, è negativa, allora è necessario che ci interroghiamo, nel più breve tempo possibile, per capire quali siano gli strumenti più adeguati per rinnovare il Paese e per rimanere in quel processo di modernizzazione mondiale che in questo momento è in atto. Se il processo federalista non serve, è necessario che le forze politiche e culturali del nostro Paese si facciano portatrici di una reale volontà di cambiamento e di discontinuità con quanto fin qui realizzato. E se questo significherà entrare in collisione con un partito che ha fatto del federalismo una sua scienza, ben venga lo scontro, dal momento che la politica è fatta anche di assunzione delle proprie responsabilità e di sottoli-
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neatura delle distinzioni. L’altra risposta, necessaria e non più procrastinabile, è quella delle riforme. Oltre alla sanità, cui ho già fatto riferimento, alla previdenza e alla semplificazione istituzionale, è necessario anche procedere a una revisione dell’organizzazione dello Stato; in questo modo, infatti, sarebbe possibile generare delle risorse che ci permetterebbero, da un lato, di ripianare parte dell’enorme debito pubblico che oggi affligge le casse italiane; dall’altro, consentirebbe di realizzare quelle infrastrutture che non sono più rimandabili. Se accorpassimo alcune regioni più piccole a quelle più grandi, non dico creando agglomerati di dimensioni simili ai länder tedeschi, ma comunque procedendo a un drastico taglio del numero di realtà regionali, se abolissimo le province, se diminuissimo a metà il numero dei comuni e se revisionassimo tutte le istituzioni di secondo e terzo grado, cominciando da quelle che più hanno fallito come le comunità montane, potremmo ricavare più di cento miliardi di euro. Con una cifra del genere, anche in una crisi come questa, si potrebbe iniziare a impostare delle riforme strutturali ormai imprescindibili. E ho menzionato solo questa riforma, senza aggiungere quella della sanità, della previdenza; senza contare, infine, gli interventi una tantum sul debito pubblico che pure sono, secondo me, le altre riforme che bisogna affrontare.
Come “Società Aperta” abbiamo lanciato da molto tempo l’idea di una nuova Costituente. Un’assemblea costituente rappresenterebbe per il Paese il segno che si svolta, il segno che nasce una Terza Repubblica - e dio solo sa quanto ci sia bisogno che nasca al più presto -, priva di quei difetti della Seconda. Io dico sempre che la peggiore cosa che ha fatto la Prima Repubblica è stata quella di averci dato la Seconda, non vorrei dire domani che la Seconda ha fatto la cosa peggiore nel darci la terza perché la Terza, a mio giudizio, dev’essere un auspicio. Potrà essere una realtà migliore solo se nascerà con ottimi presupposti. Perché solo attraverso una nuova costituente sarebbe possibile ottenere quell’unità necessaria per varare le riforme che, oggi, troppo spesso sono state procrastinate. L’Italia, se vuole davvero ripartire, non può più aspettare: deve trovare la forza di uscire dalla palude e di ricollocarsi al fianco delle altre potenze mondiali. Infine, non va dimenticato che il sistema entro cui il nostro Paese si muove è, come minimo, quello continentale: non avevamo bisogno di questo federalismo ma abbiamo bisogno del federalismo verso l’alto, del federalismo europeo perché nel grande scenario mondiale, nella competizione mondiale, certamente nessun Paese europeo da solo ha la dimensione e la forza per affrontare i cambiamenti che sono in atto. Abbiamo fatto la moneta ma non siamo stati capaci di fare l’unificazione politicoistituzionale dell’Europa. Oggi abbiamo una classe dirigente che deve prendere definitivamente coscienza del fatto che questo è uno dei paesi più deboli d’Europa e che ha, rispetto agli altri, ancor più necessità, ragione e interesse ad avviare un processo di integrazione europea: sta a noi quindi lanciare quel tipo di idea federalista e battere quella strada che può portare alla creazione degli Stati Uniti d’Europa. Queste penso che debbano essere le grandi indicazioni che possono supportare in maniera non retorica e banale una rifondazione e una riaffermazione del concetto di unità nazionale.
mondo
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Omicidi. Per il governo di Teheran, Masoud Ali Mohammadi era un fedele rivoluzionario. Per l’Onda, un sostenitore di Mousavi
Una bomba sulla Bomba Un attentato non rivendicato uccide uno dei maggiori esperti nucleari d’Iran di Antonio Picasso ingegner Masoud Ali Mohammadi, 50 anni esatti e docente di fisica nucleare all’Università di Teheran, «era un devoto funzionario del regime iraniano, anti-rivoluzionario e convinto del lavoro di ricerca che stava conducendo». Questa è stata la dichiarazione ufficiale del governo presieduto da Mahmoud Ahmadinejad, che ha seguito l’attentato avvenuto ieri, nel quale ha trovato la morte uno dei fisici impegnati nella realizzazione del tanto discusso piano nucleare iraniano. I particolari sull’omicidio si sono accavallati durante tutta la giornata di ieri, che si è chiusa con una serie di informazioni contrastanti fra loro in merito alla responsabilità dell’accaduto. Mohammadi è morto per l’esplosione di una moto-bomba, azionata a distanza e parcheggiata vicino alla sua abitazione. Le autorità governative hanno accusato senza indugi la Cia e il Mossad che, aiutati da esponenti dell’opposizione interna, si sarebbero infiltrati nel Paese per colpire un «cittadino iraniano fedele alla causa nucleare». L’indice è stato rivolto anche ai “Mujaheddin del popolo”, il gruppo più influente all’interno
L’
del Consiglio Nazionale di Resistenza in Iran (Cnri), l’opposizione esiliata oltre confine dal regime. Tuttavia dagli Usa, da Israele, come dall’ufficio centrale parigino del Cnri sono giunte altrettanto secche le smentite di un loro coinvolgimento. Per intorbidire ulteriormente le acque, nel pomeriggio di ieri, un gruppo filo-monarchico attivo all’estero ha rivendicato l’atten-
re informazioni sulla situazione nucleare ai governi occidentali, i servizi segreti interni iraniani (Vevak) avrebbero provveduto a eliminarlo. L’intreccio dell’episodio ha tutte le caratteristiche degli omicidi mirati che spesso accadono in Medio Oriente. La dinamica ricorda la morte del Responsabile della Sicurezza di Hezbollah, Imad Mughniyeh, ucciso a Damasco il 12 febbraio
Il regime degli ayatollah punta il dito contro Usa e Israele, che non rispondono alle pesanti accuse e parlano di un regolamento di conti interno. Mentre Petraeus avverte: «Pronti a bombardare le centrali» tato comunicandolo alla tv satellitare al-Arabiya, tuttavia senza fornire altre indicazioni, nemmeno sulla sua stessa identità. A questa notizia ha fatto seguito quella contrastante con le dichiarazioni ufficiali di Teheran per cui Mohammadi sarebbe stato nella lista dei 240 professori universitari schierati con il riformista Mir Hossein Moussavi. Infine, ancora i “Mujaheddin del Popolo” hanno aggiunto che la vittima si stesse preparando a fuggire dal Paese. Di conseguenza, onde evitare che Mohammadi potesse trasmette-
2008. Anche in quel caso ci fu una detonazione capace di colpire solo una persona. Un morto e intorno a lui tanti sospetti, tutti con ragioni più o meno valide per essere considerati colpevoli. Per la prima volta che Teheran è protagonista di un simile episodio. Gli attacchi mirati di dubbia provenienza hanno fatto parte solitamente del contesto libanese oppure di quello siriano. La capitale iraniana finora si era dimostrata impermeabile agli attentati contro le personalità più o meno illustri del suo regime.Va aggiunto che
Mohammadi è stato il primo scienziato di cui è stata certificata la morte. Dei suoi colleghi spariti nel nulla precedentemente – Adeshir Assanpur e Ali Reza Asghari nel 2007, Shahram Amiri nel 2009 – non si è più saputa la fine. Dobbiamo dedurne che in Iran il livello sicurezza stia calando sensibilmente?
Se così fosse, sarebbe una nuova e preoccupante falla del regime che, impegnato nell’affrontare un numero crescente di problematiche, non riesce ad avere sotto controllo l’intero Paese. Effettivamente le proteste anti-governative innescate dalle elezioni presidenziali di giugno non sembrano diminuire, nemmeno di fronte alla repressione più rigida. La sicu-
rezza delle frontiere appare minacciata dalla instabilità in cui vivono i Paesi confinanti con l’Iran: a ovest l’Iraq e a est Afghanistan e Pakistan. Last but not least il dossier nucleare resta aperto sui tavoli delle cancellerie di tutto il mondo. Il 31 dicembre 2009 è stata l’ultima spiaggia presentata dalla comunità internazionale perché l’Iran accettasse la cosiddetta “proposta di Vienna”. Nella seconda metà di ottobre, durante un summit nella capitale austriaca, i rappresentanti del “5+1”(i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, insieme alla Germania) insieme all’Aiea avevano proposto all’Iran di arricchire l’uranio necessario per la ricerca medica trasferendolo in un terzo Paese, nella fattispecie la
L’Iranian Cyber Army attacca internet. Ma questa volta colpiscono il maggior motore di ricerca di Pechino
E i pasdaran attaccano il web. Cinese di Osvaldo Baldacci e nuove tecnologie sono il principale campo di battaglia in Iran. Se l’opposizione riformista finora è riuscita a superare la rigida censura del regime su proteste e violenze è perché grazie a internet è riuscita a far oltrepassare il confine a frammenti di quanto stava accadendo. Ma la comunicazione informatica non è monopolio degli studenti che si contrappongono ad Ahmadinejad. Non si sa se davvero ci siano legami ufficiali, ma ieri è tornato a farsi clamorosamente vivo un gruppo di hacker che sostengono il regime di Teheran. E un po’ a sorpresa hanno colpito la Cina. L’Iranian Cyber Army ha preso di mira baidu.com, il maggior motore di ricerca cinese, che detiene il 60% dell’enorme mercato contro il 30% di Google China. Se-
L
condo i mass media cinesi per oltre quattro ore gli utenti che si collegavano al sito hanno trovato la scritta «Questo sito è stato attaccato dalla Iranian Cyber Army». La direzione di baidu.com ha attribuito il black out del sito ad un “attacco illegale” portato contro il suo server (Dns) basato negli Usa.
La tecnica è stata l’intromissione nella gestione dei Dns con l’obiettivo di dirottare la navigazione lontano dal server ufficiale di Baidu, permettendo così di portare sui pc degli utenti i contenuti di un server differente rispetto a quello ufficiale. Un inatteso redirect, quindi, e non un attacco al sito in sé. La stessa tecnica utilizzata nel primo successo del gruppo di lotta informatica: in dicembre la stessa firma era stata usata dagli “hacker” che avevano attaccato Twitter.
Leggermente diversa la pagina comparsa in quel caso: la firma del gruppo era infatti accompagnata da un indirizzo email che stavolta non compare. La bandiera poi era quella verde islamica, mentre sul motore di ricerca cinese è apparsa quella nazionale iraniana. Nel messaggio sulla home page di Twitter compariva inoltre una minaccia agli Stati Uniti: «Gli Usa pensano di controllare e gestire Internet, ma non è così, noi controlliamo e gestiamo internet attraverso il nostro potere, quindi non provate a stuzzicare la gente iraniana...». Anche stavolta benché il sito sia cinese compare una scritta farsi contro gli Usa: «In reazione all’intervento delle autorità statunitensi negli affari interni iraniani. Questo è un avvertimento». A parte queste due azioni, del gruppo Iranian Cyber Army non si sa nulla.
mondo sì ci sarebbero almeno altri otto centri di ricerca. Su questa base, si è arrivati alla deadline di fine anno senza che il governo di Ahmadinejad abbia accolto la proposta di Vienna. Ne è conseguito che Washington, per mezzo del Segretario di Stato Hillary Clinton, ha avanzato nuovamente l’ipotesi di costringere l’economia iraniana a un regime di sanzioni ancora più rigido di quello attuale, volto a isolarne ulteriormente le attività economiche all’estero e a isolare il regime sul piano politico.
Il fisico atomico e docente universitario Masoud Ali Mohammadi, ucciso ieri con un attentato non rivendicato. Nella pagina a fianco, il presidente Usa Barack Obama
Russia. L’offerta, sostenuta anche dagli Usa, poggiava su una nuova fiducia accordata a Teheran, le cui ambizioni nucleari esclusivamente per finalità civili ed energetiche venivano in quella sede ritenute attendibili. Fin da subito però l’atteggiamento iraniano si era dimostrato poco collaborativo. Di fronte alla proposta del “5+1”, il regime si diceva intenzionato a proseguire autonomamente nel suo programma nucleare. Contemporaneamente emergeva che le attività di arricchimento di uranio non si limiterebbero agli impianti di Isfahan (dotato di 7.000 centrifughe) e di Naranz (6.000), ben-
E quindi neanche dei suoi obiettivi politici. Anche perché se poteva essere intuibile la ragione dell’attacco a Twitter, popolare social network americano molto usato dall’opposizione per organizzare le sue proteste e per far filtrare all’estero le notizie contro il regime, meno chiaro risulta l’obiettivo dell’attacco a Baidu. Anche perché come noto i rapporti tra Cina e Iran sono buoni, e Pechino tiene a freno le spinte occidentali verso le sanzioni a Teheran, con cui ha in ballo enormi interessi economici.
Le ipotesi sul terreno possono essere di vario tipo, e comunque resta tutto da verificare l’eventuale coinvolgimento diretto del governo iraniano. Rimane infatti possibile che il gruppo sia composto da spontanei sostenitori del regime, o magari da hacker che si fanno scudo dei simboli di Teheran per rimanere nascosti, nel qual caso potrebbero perseguire obiettivi molto diversi dalla prima apparenza. Una situazione di confine potrebbe essersi verificata nel caso in cui l’Iranian Cyber Army davvero sostenga il regime, ma abbia colpito Pechino non tanto per ragioni di contrapposizione politica, quanto per mostrare la pro-
Risale solo all’altro giorno l’ipotesi ancora più minacciosa da parte del Comandante del Centcom, il generale David Petraeus, di «eventualmente bombardare le centrali». Finora una soluzione tanto drastica era stata attribuita unicamente a Israele, che si è sempre considerato la prima vittima di un temuto arsenale nucleare iraniano. Questa invece è la prima volta che, dopo l’insediamento di Obama, il Pentagono prende una posizione tanto netta e intransigente. In realtà questi venti di guerra stanno soffiando su uno scenario iraniano molto fluido. All’intransigenza crescente degli Usa fa da contrappeso il canale di dialogo che la Russia e la Cina continuano a tenere aperto. D’altro canto è solo di ieri la decisione del Kazakistan di bloccare una fornitura di uranio all’Iran pari a 450 milioni di dollari. Il governo di Astana, tradizionale partner di Teheran, sembra quindi aver cambiato repentinamente atteggiamento. Forse dietro pressione di soggetti stranieri. In tutto questo, il caso ha voluto che proprio un ingegnere nucleare iraniano venisse assassinato ieri a Teheran. Un atto che da solo potrebbe indebolire il regime e apparire come un’alternativa alle minacce di attacco rese pubbliche da Petraeus.
pria forza mettendo nel mirino - pur con mezzi informaticamente elementari - le maggiori potenze del web (la Cina ormai ha superato gli Usa per numero di utenti). Se poi invece si vuole vedere un messaggio politico le possibilità ci sono. Prima di tutto di recente la posizione della Cina verso l’Iran si è significativamente inasprita rispetto a prima delle ultime elezioni presidenziali. In secondo luogo a inizio anno proprio Twitter era stato usato per un’insolita iniziativa proprio di internauti cinesi, che avevano lanciato messaggi di solidarietà con l’opposizione iraniana. In terzo luogo non si può escludere che la rete cinese, che pure è come noto sotto uno stretto controllo governativo (ma proprio Baidu non ha filtri, essendo già di per sé controllata dal governo), può essere stata usata come sponda dagli internauti dell’opposizione iraniana, e magari Teheran ha voluto lanciare un segnale perché quel canale venga chiuso. Infine resta la pista della frase antiamericana: il bersaglio restano gli Usa, ma viene scelto un sito cinese o per maggiore facilità o per destare più attenzione o anche per diffondere il messaggio tra il pubblico cinese.
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All’opposizione serve il sostegno di tutto l’Occidente
Tre semplici vie per aiutare l’Onda di Michael Ledeen l presidente americano Barack Obama starebbe considerando l’idea di fornire un aiuto concreto ai dissidenti iraniani. Almeno, questo è quanto sostiene Jay Solomon dalle pagine del Wall Street Journal: ad essere onesti, questo è quanto recita il titolo. Se si legge bene l’articolo, infatti, ci si rende conto che la realtà è abbastanza diversa. Sembra infatti che, dopo sette mesi di coraggiose dimostrazioni portate avanti da milioni di iraniani, almeno alcuni fra i nostri leader hanno capito che il tirannico regime guidato dal presidente Mahmoud Ahmadinejad e dalla Guida suprema Ali Khamenei sia odiato da molti e stia perdendo la propria legittimazione. E questo va molto bene, così come va molto bene il nuovo tono usato dal presidente Obama per sostenere i dissidenti. Ma non ci sono segnali concreti di una volontà tesa ad “aiutare”l’opposizione. E Solomon non fornisce argomenti che suggeriscano che questa politica sia pronta per essere adottata. La cosa migliore che si possa dire, se ci si basa sulle sue informazioni, è che stiamo mantenendo una politica “ippocratica”: non far loro del male. Come dice l’autore «alcuni dirigenti americani sottolineano che il presidente non voglia adottare, come propria politica per l’Iran, una tesi di cambiamento di regime. Invece, dicono, Washington rimane convinta della necessità di applicare un approccio “a doppio binario”, cercando di bloccare il programma nucleare iraniano e usando, in caso di fallimento dei colloqui, delle serie sanzioni fiscali». La prima domanda che viene in mente è: i colloqui sono falliti? Sì, 31 anni fa. E anche se Obama ha promesso di “agire”, il nuovo anno non ha portato alcun cambiamento significativo. Si va avanti come sempre. Continuando a leggere Solomon si scopre che «sia l’amministrazione che i dissidenti iraniani hanno paura di un contatto bilaterale diretto: temono che questo avvicinamento possa fornire nuove munizioni al regime di Teheran…». Ma questo non è vero! I dissidenti non hanno alcuna paura di un contatto diretto.
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In realtà, sono più che altro scoraggiati (e ancora di più delusi) proprio dalla mancanza totale di un contatto diretto con il mondo occidentale. La presunta “paura dell’incontro”, che fornirebbe “nuove munizioni al regime di Teheran”, non può esistere: è come se l’Occidente si fosse rifiutato di
salvare gli ebrei europei durante l’Olocausto o non avesse fornito il proprio aiuto ai dissidenti sovietici durante la Guerra Fredda.
I dissidenti iraniani sono già stati violentati, torturati e condannati a morte in massa; e noi, ogni giorno, veniamo biasimati per la semplice esistenza di un movimento di opposizione. Questa “scusa” è il linguaggio classico di chi vuole un accordo. Eppure, dicono analisti e diplomatici, «la rivalutazione dell’Onda verde compiuta dalla Casa Bianca segna una significativa evoluzione nella politica iraniana di Obama sin da quando i primi manifestanti, lo scorso giugno, hanno iniziato a contestare apertamente la ri-elezione di Ahmadinejad». Nella migliore delle ipotesi, questa rivalutazione dimostra che la comunità dell’intelligence internazionale ha fallito una volta di più nel capire cosa stia succedendo in Iran. Le parole di Obama a favore dell’Onda sono incoraggianti, ma gli Stati Uniti devono fare qualcosa di concreto. Qualcosa di facile, adatto, poco costoso e
Comunicazioni, forti denunce pubbliche e incoraggiamento: ecco cosa possiamo fare oggi per sconfiggere il regime non violento. Proprio come l’Onda. Ad esempio, gli Usa potrebbero aiutare le famiglie dei dissidenti e dei prigionieri politici. Potrebbero richiederne pubblicamente la liberazione, e premere perché si interrompano le torture e tutte le violazioni ai diritti umani che avvengono nelle prigioni iraniane. Potrebbero poi fornire al movimento dei moderni sistemi di comunicazione. Nel corso della Guerra Fredda inviavamo ai sovietici dei fax; oggi servono telefonini e server potenti. Terzo, interrompere l’efficacia censura operata dal regime sulle televisioni e sulle radio libere. Al momento, i cittadini iraniani non hanno modo di raggiungere quelle stazioni che parlano senza bagaglio e sono costretti a sentire soltanto la versione ufficiale di ogni fatto. Ma gli iraniani hanno il diritto di sapere cosa accade nel loro Paese, e hanno bisogno di sentire parole di incoraggiamento da parte dell’Ovest. E questi tre semplici suggerimenti potrebbero ottenere questi importanti risultati.
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La crisi. È gelo fra Giappone e Russia per gli atolli vicino alla Kamchakta on fossero sufficienti i terremoti pressoché quotidiani, ma sulle Kurili, una catena di isole e isolotti estesa per 1.200 km tra la giapponese Hokkaido e la penisola russa della Kamchakta, si è abbattuta anche un’ondata di gelo e tempeste. In qualche modo le condizioni climatiche rispecchiano quelle tra Mosca e Tokyo, per il contenzioso sulle quattro più a meridione di queste isolette, che in Giappone chiamano Happo ryodo, Territori del nord. Un paio d’anni fa sembrò che la situazione potesse cambiare. L’allora presidente Vladimir Putin scrisse al primo ministro Yasuo Fukuda, invitandolo in Russia anche per trovare soluzione alla contesa territoriale sulle Kurili meridionali. Ma non accadde nulla. A partire dalla scorsa estate, e soprattutto dopo la nomina di Yukio Hatoyama a primo ministro nel settembre 2009, il barometro ha cominciato a volgere al peggio. Delle speranze erano divenute evidenti nell’imminenza del G8 dell’Aquila, dove il presidente russo Dmitrii Medvedev e il primo ministro Taro Aso dovevano affrontare la delicata questione. A guastare irrimediabilmente l’incontro, solo qualche giorno prima, con un tempismo davvero fuori luogo, fu la camera bassa del parlamento giapponese, che approvò un emendamento in cui si stipulava l’appartenenza al Giappone dei “Territori del nord”.
Kurili, le isole contese da Tokyo e Mosca
All’Aquila, Taro Aso, dopo aver manifestato la sua insoddisfazione, fu molto chiaro: «Se la Russia non intraprende delle azioni pratiche per firmare il trattato di pace, noi non saremo in grado di sviluppare con lei un rapporto di partenariato nella regione Asia-Pacifico». In altre parole, Mosca dovrebbe fare le concessioni territoriali. E a Medvedev che aveva sostenuto che
legale da parte della Federazione Russa». Mosca ha inviato una nota di protesta, mentre i giovani putiniani del movimento Nashi picchettavano l’ambasciata nipponica. La tensione ha anche fatto saltare una manifestazione organizzata ufficialmente a Tokyo dal ministero degli Esteri russo per promuovere gli investimenti nella regione di Sakhalin. Nel frattempo Mosca ave-
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L’arcipelago avvelena da 60 anni i rapporti fra i due Paesi. Oggi tesi più che mai di Fernando Orlandi
L’incapacità di Putin di diventare un partner del Sol Levante sta nel basso livello d’integrazione della sua economia con quelle asiatiche le relazioni fra gli uomini d’affari dei due paesi sono migliori di quelle fra i politici, Aso ha ribattuto: «In assenza di cambiamenti politici, gli ambienti d’affari giapponesi possono prendere tempo sulle questioni dello sviluppo congiunto della Siberia orientale». Da quel momento è stato un crescendo. Alla fine di novembre Muneo Suzuki, presidente della commissione Affari Esteri della camera bassa del parlamento, ha chiesto un pronunciamento del governo, che ha approvato un documento in cui si parla di «occupazione il-
va deciso di respingere gli aiuti umanitari che dal 1992 il Giappone invia alle Kurili, fra cui farmaci e attrezzature sanitarie. Fonti governative hanno sostenuto che il respingimento non è legato alle polemiche in corso, ma il legame è ovvio. La tensione continua a salire e a nulla sono valse la visita a Tokyo di Sergei Naryshkin, capo dell’Amministrazione presidenziale russa, e il viaggio a Mosca del ministro degli Esteri Katsuya Okada. Entrambi inconcludenti. Intervistato da Interfax, Okada ha sostenuto che «il popolo giap-
ponese prova sfiducia» verso la Russia e che se non si risolve il contenzioso «l’immagine di questo paese non cambierà agli occhi dei giapponesi». In questa situazione, i “rapporti di partenariato” sono “soltanto parole”.
L’Unione Sovietica non esiste più da quasi un ventennio, ma Mosca e Tokyo non sono ancora riuscite a firmare il trattato di pace. Quella delle Kurili è anche una storia di intese e accordi mal redatti al termine della Seconda guerra mondiale, ed è una storia di Guerra fredda e di cambiamento delle posizioni di Tokyo. Il Trattato di pace di San Francisco del 1951 stabilì che il Giappone doveva abbandonare ogni rivendicazione sulle isole ma contemporaneamente non assegnava la sovranità all’Unione Sovietica. Erano anni cupi della Guerra fredda e si combatteva in Corea. Mosca non firmò e ha sempre sostenuto che la sovranità sulle Kurili deriva dagli accordi della Seconda guerra mondiale, da quello di Yalta (peraltro ripetutamente violato) alle dichiarazioni del Cairo e di Postdam. La tesi è contestata da Tokyo, ma non
da sempre. Intervenendo alla Dieta il 19 ottobre 1951 Kumao Nishimura, rappresentante del ministero degli Esteri, spiegò ai parlamentari che per Kurili, nel Trattato di San Francisco, si intendevano tutte, comprese quelle ora chiamate Territori del nord. Nel giugno 1955, nella fase di politica distensiva con l’Occidente successiva alla morte di Stalin intrapresa da Nikita Khrushchev, presero il via dei negoziati per addivenire a dei rapporti normali con Tokyo. Si era vicini all’accordo: Tokyo avrebbe firmato il trattato di pace e in seguito Mosca avrebbe ceduto Shikotan e le Habomai. All’improvviso al negoziatore Shunichi Matsumoto fu imposto un cambio di posizione. Nel frattempo anche Washington aveva cambiato posizione sulle Kurili. Intervenne il segretario di Stato John Foster Dulles, minacciò di far diventare statunitense Okinawa e ricordò che il trattato di San Francisco non assegnava a Tokyo il diritto di trasferire la sovranità su quei territori. Il trattato con Mosca non si firmò ma il 19 ottobre 1956 una dichiarazione nipposovietica fece propria i termini dell’intesa raggiunta nelle
trattative. La stessa offerta delle due isole è stata fatta da Putin nel 2006 e in precedenza dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica dal presidente russo Boris Eltsin. Dopo il 1991 Mosca coltivò molte aspettative sul Giappone, soprattutto sui finanziamenti e gli investimenti giapponesi in Russia. La segretezza che ha sempre avvolto tutti i negoziati sulle Kurili, unita all’estrema politicizzazione della vita politica russa del biennio 1992-1993 impedì a Eltsin di realizzare i suoi progetti. Fu anche costretto ad annullare improvvisamente il previsto viaggio in Giappone del settembre 1992. Per raggiungere l’obiettivo giapponese vennero elaborati anche audaci piani. Uno di questi è noto come “Scenario Burbulis” (Gennadii Burbulis era allora uno degli stretti collaboratori di Eltsin): per assicurarsi i finanziamenti e sistemare l’opposizione interna, prevedeva lo scioglimento del Consiglio supremo della Federazione Russa proprio mentre il presidente era in Giappone.
Oggi la contesa è una vicenda di orgoglio e di politica interna, che avvelena in modo persistente i rapporti fra i due paesi. Per Mosca le isole hanno un valore economico e uno militare, perché rendono il Mar di Okhotsk un bacino chiuso, proteggendo la flotta dei sommergibili strategici russi che vi hanno base. I mari della regione permettono una ricca pesca, di cui comunque anche Tokyo si avvantaggia, perché viene rinnovato un accordo annuale per cui ai giapponesi sono concesse 2.180 tonnellate di pescato a fronte di un esborso di 42,4 milioni di yen (poco più di 315.000 euro). Negli ultimi mesi, sono stati poi scoperti giacimenti di gas e petrolio, che garantirebbero il fabbisogno energetico della regione per 30-40 anni. Il forte valore psicologico e la politicizzazione che la contesa ha fra le parti non sembra far intravvedere una facile risoluzione. Per quanto riguarda l’economia e la finanza, l’attuale incapacità della Russia di diventare a pieno titolo un partner strategico del Giappone risiede nel basso livello di integrazione della sua economia con quelle dell’Asia e ancora di più nel basso livello di attrazione degli investimenti, a causa della corruzione, di pratiche opache e di un sistema giuridico che poco tutela gli investitori. Non è forse un caso che, a dispetto dei paralleli contenziosi territoriali in essere con la Cina e la Corea del sud, i rapporti di Tokyo con Pechino e Seoul siano completamente diversi.
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Domenica 17 il paese sceglierà fra la Tymoshenko e Yanukovich
I morti sono decine, ma gli Shabaab perdono avamposti
Sfida ucraina fra la tigre bionda e il travet (fedele) dei “soviet”
La Somalia teatro di guerra ma al-Qaeda arretra al centro
KIEV. L’Ucraina rischia di uscire sfilacciata dalle elezioni presidenziali che si terranno domenica prossima. Una popolazione disillusa, che ha visto svanire le speranze suscitate dalla rivoluzione ”arancione” del 2004, va alle urne in un paese di 46 milioni di abitanti, colpito pesantemente dalla crisi economica, e combattuto tra aspirazioni europee e influenze russe. È improbabile che la partita si apra e si chiuda nella giornata di domenica. I due grandi rivali in lizza sono Viktor Yanukovich, capofila del fronte filo-russo, e l’attuale premier Yulia Tymoshenko (nella foto), ex “pasionaria”della rivoluzione arancione. A seguire quanto dicono i sondaggi, con tutta probabilità, questi due esponenti dovrebbero sovrastare gli altri 16 candidati - tra cui il presidente in carica Viktor Yushchenko - e poi sfidarsi nel ballottaggio del 7 febbraio.
NAIROBI. Furiose battaglie, con pesante bilancio di vittime, da domenica nel centro e centro-est della Somalia dove milizie indipendenti, filogovernative e appoggiate da clan locali, sembra stiano sconfiggendo i due principali gruppi di integralisti islamici che controllano larga parte del Paese: Hizbul Islam (relativamente più moderato), e Shabaab, il braccio armato somalo di al Qaeda. La battaglia principale, che appare sostanzialmente conclusa, si è svolta a Baledweyne, importante città strategica a circa 430 chilometri a nord-est da Mogadiscio. Era nelle mani di Hizbul Islam, ma i filogovernativi del gruppo Ahlu Sunna ne hanno ormai il controllo, anche se si registrano an-
La campagna elettorale è stata avvelenata da pesantissime polemiche e accuse reciproche, che sono andate dalla corruzione alla pedofilia. Alla fine di questo bailamme, i sondaggi fotografano uno Yanukovich accreditato tra il 34 e il 42 per cento dei voti e una Tymoshenko tra il 19 e il 22 per cento. Al secondo turno, sempre
La mattanza dei narcotrafficanti Messico: 283 morti in dieci giorni per la guerra fra clan di Massimo Ciullo ei primi dieci giorni del 2010, i morti legati alla guerra in atto all’interno della criminalità organizzata e tra le bande di narcotrafficanti e le forze dell’ordine in Messico, sono quasi raddoppiati rispetto al 2009. Le cifre fanno impressione: lo scorso anno le persone uccise sono state circa settemila, di cui 138 solo nella prima settimana. L’anno nuovo è cominciato ancora peggio facendo registrare 283 morti violente legate alla violenza della criminalità organizzata. La lotta per la supremazia e il controllo del territorio tra i sette cartelli legati al narcotraffico - Golfo, Tijuana, Sinaloa, Milenio, Oaxaca, Colima, Juárez - ha causato solo sabato scorso 69 omicidi in nove Stati diversi (il Messico è una Repubblica federale), il maggior numero di persone assassinate in un solo giorno, che ha superato il triste primato registrato il 17 agosto dello scorso anno, quando furono ammazzate 57 persone. Il record degli omicidi spetta alla tristemente nota Ciudad Juárez, una delle città più pericolose di tutto il Messico, assurta a fama internazionale per la mattanza impunita di donne del luogo. Nella stessa città sono stati commessi 26 dei 69 omicidi di sabato scorso e più di un terzo del totale (2.635) dell’intero 2009. Negli ultimi tre anni, la guerra tra i trafficanti di sostanze stupefacenti ha provocato 15.500 omicidi, nonostante lo schieramento da parte del presidente Felipe Calderon di 50mila uomini dell’esercito in tutto il Paese, 6mila dei quali inviati nello Stato settentrionale di Chihuahua, di cui fa parte Ciudad Juarez.
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dei messicani onesti, che sono disposti ad accettare la presenza dei blindati per le strade pur di riuscire a tagliare i tentacoli della gigantesca piovra messicana che era riuscita ad infiltrare i suoi adepti anche all’interno della polizia e delle istituzioni.
Lo scorso 17 dicembre è stato necessario l’intervento della Marina militare per piegare la resistenza di Arturo Beltrán Leyva, capo storico del cartello di Sinaloa alleato di quelli del Golfo e degli“Zeta”. La sua cattura potrebbe essere paragonata all’arresto di un capomafia del calibro di Bernardo Provenzano o Totò Riina in Italia. Beltrán Leyva infatti, era conosciuto come il “Capo dei capi”ed era il terzo latitante più ricercato in Messico. Ad aprile, nella rete degli investigatori erano finiti i successori dei boss dei cartelli di Juarez e Sinaloa. Il primo ad essere arrestato è stato Vicente Carrillo, figlio del defunto fondatore del cartello di Juarez, Amado Carrillo; successivamente è toccato al figlio di Ismael Zambada, Vicente, uno dei principali capi del sodalizio criminale di Sinaloa. Un altro figlio di Zambada, Jesus, detto “il Re”, era stato catturato ad ottobre del 2008 dopo un pesante conflitto a fuoco a Città del Messico. “Il Re” aveva il compito di sovrintendere per conto del cartello di Sinaloa al traffico di stupefacenti che avveniva nell’intera ed immensa area metropolitana della capitale, controllando perfino l’aeroporto internazionale di Città del Messico. La sua cattura è stata possibile grazie ad una soffiata anonima che ha permesso alle forze di sicurezza di sorprendere il boss durante una sfarzosa festa nella sua megavilla che aveva come ospite d’onore Mauricio Harold Poveda, noto per esser il principale fornitore di cocaina proveniente dalla Colombia per il cartello dei fratelli Leyva. Nello stesso periodo, è finito in carcere anche Eduardo Arellano Félix, alias “il Dottore”leader storico del cartello di Tijuana, le cui redini ora sono passate al nipote, Fernando Arellano. Sul suo capo pendeva un mandato di arresto internazionale dal 2004 spiccato dall’Interpol.
Sette i cartelli legati alla droga: Golfo, Tijuana, Sinaloa, Milenio, Oaxaca, Colima e Juárez. 69 le vittime solo sabato scorso
secondo i sondaggi, il leader filorusso è dato facile vincitore. Gli analisti, tuttavia, non danno nulla per scontato. Yulia Tymoshenko è nota per essere una politica estremamente combattiva. Inoltre, il numero di elettori indecisi è ancora elevato. «Se Tymoshenko dovesse riuscire a mobilitare la maggior parte dell’elettorato che non vuole Yanukovich presidente, ha una chance di vittoria», ha dichiarato Volodymyr Fesenko, direttore del centro studi politici Penta. Se riuscisse a vincere le elezioni, Yulia Tymoshenko, classe 1960, capelli biondo oro, coronerebbe un curriculum eccezionale, in cui ha conosciuto tutto: la ricchezza, la prigione, il potere.
Anche se i dati sulle morti violente non sono molto confortanti, l’invio dell’esercito ha ottenuto risultati importanti riuscendo a mettere a segno operazioni contro i vertici delle organizzazioni criminali. D’altro canto, la lotta alla criminalità organizzata è un impegno che il presidente Calderon si è assunto con ferma determinazione, decidendo quattro anni fa di far scendere i militari nelle strade. L’idea che il Paese sia impegnato in una vera e propria guerra è comune alla maggior parte
cora marginali resistenze. Pesante il biancio delle vittime: una trentina di morti e moltissimi feriti, ma quasi tutti combattenti. I civili hanno fatto in tempo a fuggire. Scontri violenti anche nel distretto di Elbur, piu’ centrale, dove gli Ahlu Sunna sono riusciti a sconfiggere e a far arretrare - almeno per il momento - gli Shabaab da due villaggi piccoli, ma che controllano strade di comunicazione importanti.
Lo stesso gruppo ha strappato agli Shabaab anche Dhusamareb, nella regione del Galgadud. Battaglie che hanno provocato una ventina di morti, e numerosi feriti. Anche in questo caso, però, quasi tutti miliziani; i civili, in larga misura, hanno fatto in tempo ad andarsene. Una situazione in movimento che, secondo gli esperti, sembra indicare un possibile, seppur ancora marginale, cambiamento di scenario. Gli integralisti islamici controllano, infatti, tutto il sud, quasi completamente la capitale, e sembravano sempre più forti al centro. Ora in quel quadrante la loro avanzata appare quantomeno rallentata, se non fermata, il che potrebbe creare le condizioni per nuovi riposizionamenti militari. Anche se la presenza militare soprattutto degli Shabaab è ancora di gran lunga prevalente.
cultura
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Retrospettive. Nei suoi racconti, un filo segreto affronta i nodi del fine-vita che si svilupperà nella nostra narrativa: dal dopoguerra al caso Englaro
Vivere in “Casa d’altri” Emiliano di nascita, esule per vocazione: ecco chi era Silvio D’Arzo, da molti paragonato a Henry James di Sabino Caronia ome è possibile indicare un percorso della narrativa di Brancati fra la noia del ’37 e l’uggia del ’54, così è possibile indicare in Giovanni Damigella, l’aspirante suicida protagonista de Il passo di silenzio, un fratello dell’indimenticabile vecchia di Casa d’altri.
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A proposito del racconto di Silvio D’Arzo, apparso in una prima redazione su L’illustrazione Italiana del 2930 luglio 1948 e poi, nel 1952, in Botteghe oscure, Enzo Siciliano ha scritto: «Casa d’altri ha una qualità di presagio… Nell’Italia postbellica… andava in crisi il mondo cattolico perché per secoli si era identificato con la civiltà contadina. Le accreditate parole di consolazione per i travagli del vivere perdevano lentamente forza persuasiva. La vecchia di Casa d’altri vive, e vuol morire, in quell’alba fredda. Il suo trascinarsi per i calanchi del paese non conosce altra speranza: alla Chiesa non riesce a chiedere che un permesso o l’inammissibile permesso alla morte, unica, risolutoria via di salvezza». Ed Enrico Ghidetti ha parlato di «disperata impossibilità di trovare ragioni positive al vivere quotidiano in una società oppressiva e alienante. Il giudizio che meglio coglie il senso più vero del racconto a noi sembra quello di Geno Pampaloni, che osserva come Casa d’altri «riesce a darci il senso vertiginoso, insondabile e… metastorico della dimensione spirituale dell’uomo». Significativa è in proposito la frase di un frammento manoscritto di una redazione perduta della parte finale: «Ma questa ormai non è più casa mia». Silvio D’Arzo trova i maggiori punti di contatto della sua poetica nella poetica di Henry James: il culto del silenzio, il superiore riserbo, la raffinata psicologia, la diffidenza verso i fatti («Falsi e gratuiti come tutti i fatti se – è detto nel
saggio sullo scrittore anglosassone – non si farà apparir riflessa una lunga serie di giorni senza nome. Anno per anno, tutta quanta una misera storia quotidiana. Perché niente che non abbia una storia può essere vero. Solo i fantasmi non hanno storia. E sono fantasmi»). Particolare importanza in Casa d’altri ha soprattutto la componente religiosa. Se la «casa» non è sua, se si vive semplicemente «a dozzina», per motivare la vita non si può fare altro che sforzarsi di accettarla in un modo degno. È qui che risulta il massimo accostamento possibile tra la mora-
lità di Silvio D’Arzo – un «senso d’esilio» terreno, ma in misura dilatata – e l’essenza esistenziale del cristianesimo: un condizionato amore della vita e un limitato timore della morte. Vien fatto di pensare in proposito a una considerazione di un altro racconto di D’Arzo, Alla giornata, dove l’allievo ufficiale che cede il suo nome in favore di un caduto ignoto spiega così il suo gesto: «Come levarsi lo zaino. Ma ancor di più… Ancor di più… senza nemmeno confronto». In Casa d’altri c’è dunque un innegabile senso del trascen-
dente. Pensiamo all’interrogativo che dapprima si pone il sacerdote protagonista di fronte alla situazione della vecchia lavandaia: «E che cosa potrei dirle oltre tutto? Perché oramai ero un prete da sagre, ero un prete da sagre e nient’altro». È una situazione diversa da quella proposta da uno scrittore cattolico come Mario Pomilio in L’uccello nella cupola. Il prete di Casa d’altri non trova parole grandi come “anima”,“fede”o “missione”. Dice a un certo punto: «Alla bocca mi salirono parole e parole… e prediche… tutte cose d’altri però… di mio non una mezza parola». A ben vedere il racconto di D’Arzo è la storia di «un assurdo prete» che non ha saputo dire niente e di «un’assurda vecchia» che vuole ribellarsi ma mantenendosi sottomessa.
Se la loro vita è senza finalità perché ha smarrito il senso di Dio, il punto di arrivo di quella che è una ricerca in due («Bene: io avevo intenzione di dirvi questo soltanto: che in due si cerca meglio, ecco tutto») non può che essere per entrambi un progresso rispetto al punto di partenza. E alla fine la vecchia muore, è vero, ma niente fa capire che muoia suicida, e il prete non dice, ma forse con quel suo non dire cambia, fosse anche per una sola volta, il suo e l’altrui destino. Non a caso anche il laico Montale parlando di questo racconto poteva concludere: «La vecchia muore, a quanto pare, di morte naturale». Se il racconto di Silvio D’Arzo testimonia di una condizione sociale all’indomani della seconda guerra mondiale, la situazione degli anni Settanta può essere bene esemplificata dal romanzo I viaggiatori della
Nella foto grande, un’illustrazione di Michelangelo Pace. Ai lati, due foto dello scrittore Silvio D’Arzo, noto anche con lo pseudonimo di Raffaele Comparoni. A sinistra, le copertine di “Maschere”, ”Luci e penombre” e ”Casa d’altri” sera di Umberto Simonetta, uscito nel 1976, la favola amara da cui è stato tratto il film di Ugo Tognazzi con lo stesso Ugo Tognazzi e Ornella Vanoni. Alvaro e Anna Maria, i due protagonisti quarantanovenni, lasciano il loro negozio di Milano e partono per Arenzano dove, come in molti altri centri turistici italiani, è sorto un villaggio residenziale di tipo molto particolare e dove, per via di una legge approvata in Parlamento dopo che è stato concesso il voto ai tredicenni, li aspetta una vacanza molto particolare: ogni sera, durante la crociera, uno a caso scelto dalla sorte tra i partecipanti dovrà veder porre fine alla sua vita, per cui si tratta di un viaggio senza ritorno. È una condizione, quella de-
scritta in I viaggiatori della sera, che richiama quella di uno dei racconti più felici di Non tanto regolari, cinquantuno domani, dello stesso Simonetta.
Lì il protagonista ripercorre sul filo del ricordo tutta la sua esistenza, e intanto prepara meticolosamente il suicidio, ma non perde tempo ad autocompassionarsi, non piange, non grida: finge di non pensarci nemmeno, alla morte, e quando infine l’antica coscienza religiosa gli pone qualche interrogativo, scrolla le spalle con ostentato scetticismo: «al dio come lo vogliono loro non ci credo: sarebbe un dio spietato, cattivo: ti metto al mondo puoi fare quello che vuoi se fai bene c’è il paradiso se no l’inferno però io lo so già se farai bene o male… fi-
cultura nazione rabbiosa. Mi vengono in mente altre vaghe immagini della storia con imperatori e papi costretti ad abbandonare precipitosamente i palazzi prima che i barbari arrivino per il saccheggio. Guardo mia sorella e ci vien da ridere. Ma è meglio far finta di niente perché sono ombrosi, pronti a esplodere in scenate…»
Nel 1978, due anni dopo I viaggiatori della sera, è pubblicata l’opera dello svedese CarlHenning Wijkmark La morte moderna, un’opera che mostra significativi punti di contatto col romanzo di Simonetta, un’opera che «precorre di
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di riflessione più utili che vengono fuori per noi oggi sono da un lato la necessità di un recupero di valori etici, dall’altro la coscienza del rischio di legalizzare qualcosa che è strettamente intimo, individuale, irrepetibile e sacro per ciascuno di noi: la vita e la morte. Dobbiamo vegliare e pregare per la Chiesa, ammonisce Chesterton, perché «se il mondo diventa troppo mondano, la Chiesa lo può rimproverare, ma se la Chiesa diventa troppo mondana, non può essere correttamente rimproverata dal mondo per la sua mondanità».
In questo senso
guriamoci! Come se uno mi venisse in casa la mattina presto mi mette un numero sulla schiena: adesso vai a fare la corsa a ostacoli: se vinci ti premio se perdi giù botte: no, no, guardi che a me non interessa di far le corse, non voglio proprio partecipare, ne chiami un altro». Ma leggiamo le pagine iniziali de I viaggiatori della sera: «Ogni volta che c’è una partenza a casa mia sembra sempre che ci sia la fuga a Varennes. Non so cosa succede nelle altre famiglie quando qualcuno deve partire, se fila via tutto quanto liscio o se anche là si sprecano ordini e contrordini a nervi tesi, se c’è tutta questa elettricità questa trepidazione e soprattutto la gran paura d’aver dimenticato qualcosa. Chi lo sa, probabile che le partenze tradi-
zionali avvengano più o meno secondo gli stessi schemi. Quando devo partire io è diverso perché mi sono abituato a non portarmi via quasi niente, proprio soltanto l’indispensabile tanto se in viaggio avrò bisogno di qualcosa me lo comprerò al momento nel posto dove mi trovo. Magari è così unicamente perché ho diciottanni: quando sarò vecchio forse sarò legato anch’io ai miei feticci come lo sono loro. Si vedrà. Ogni volta partono con sconcertanti valigie strapiene e poi va a finire che molta della roba che si sono portati non la usano nemmeno. È quello che succederà anche stavolta. D’accordo, questa è una partenza particolare ma esagerano, non hanno misura. Stanno svuotando armadi cassetti ripostigli con determi-
decenni il nostro tempo», come ha scritto Hans Magnus Enzensberger in occasione della sua recente rappresentazione in Germania, e che è stata tradotta in italiano e pubblicata da Iperborea nel 2008. Il convegno sulla legislazione relativa al termine della vita, che si è allungata troppo e quindi pone dei problemi di gestione delle risorse, si presenta in quell’opera come un evento surreale e forse nel 1978 poteva anche avere dei risvolti fantascientifici, ma invece oggi è terribilmente realistico. Due sono gli aspetti che colpiscono maggiormente in questa operetta morale: il primo la lucidità, la razionale consequenzialità che porta alla proposta socialmente utile di una volontaria autodeterminazione alla morte, dove ciò che distingue i ragionamenti del Fater (Comitato Fase Terminale della Vita Umana) da quelli dei teorici del nazismo è solo quel “volontariamente”che è imprescindibile in una società democratica come quella svedese; il secondo aspetto, strettamente legato al primo, è l’assoluta mancanza di riferimento a dei valori che sono obsoleti in una società in cui bisogna guardare solo all’utile e all’economico. Da tutte le considerazioni, i ragionamenti che sono presentati negli interventi dai convegnisti, forse gli spunti
è significativo il richiamo a Giovanni Testori che negli anni tra il 1977 e il 1981 sul Corriere della Sera e su Il Sabato pubblicò i suoi articoli d’occasione che, suggeriti da fatti di cronaca, da lettere, da avvenimenti internazionali, furono poi raccolti nel volume La maestà della vita per conto dell’editore Rizzoli, con una introduzione di Roberto Fontolan. La perdita del sentimento del sacro, la scomparsa dell’uomo, l’eliminazione del “centro” della vita, come amava dire lo stesso Testori, e le parallele conseguenze, la sottomissione alla mentalità dominante, la moralità della vita pubblica, la schizofrenia caratterizzante i rapporti interpersonali, queste sono le tematiche
Gli eventi che narra riescono a darci il senso vertiginoso, insondabile e metastorico della dimensione spirituale dell’uomo su cui si incentra il discorso di Testori. Si pensi ad articoli come Ridare un senso al dolore di tutti in Il Corriere della Sera del 9 aprile 1978, Il centro della vita in Il Sabato del 13 gennaio 1979, Qualcuno vuole uccidere la maestà dell’uomo in Il Corriere della Sera del 26 febbraio 1979, Il posto vuoto dei turpi banchetti, in Il Corriere della Sera del 5 maggio 1979. In particolare si pensi a L’uomo, la vita, la morte, la risposta a una lettera del figlio di un malato terminale in Il Corriere della Sera del 2 novembre 1979 e a Nel sì alla vita l’unico vero
amore per l’uomo in Il Sabato del 21 maggio 1981 che così si conclude: «Con malposta ironia è stato scritto, e proprio da un cristiano, che il “movimento per la vita” non coincide con tutta la Chiesa; può darsi. Quello che risulta sicuramente certo, non perché lo scriviamo noi, ma perché ce l’ha sussurrato e, quando è stato necessario, ce l’ha gridato e urlato, lui, Cristo, è che la Chiesa di Cristo non può essere altrimenti che con la vita e per la vita; da quando inizia nel grembo delle madri a quando scende nel grembo della terra per attendere il giorno dell’ultima, definitiva resurrezione; che sarà anche, conviene non scordarlo, il giorno dell’ultimo, definitivo giudizio. Quel giudizio in cui, prima di tutto, saremo chiamati a rendere conto se, avuta la vita, saremo stati dalla parte di lei, la vita, o non, invece, dalla parte della morte». Un riferimento all’attualità ci può venire ora dal recente romanzo di Cesarina Vighi, L’ultima estate. L’autrice ripercorre la sua vita fino alle ultime fasi della malattia degenerativa. Alla fine del percorso che, pur senza nulla concedere all’autocompassione e al lamento sterile (nessun dolore che si fa spettacolo, niente estetizzazione della sofferenza), è sempre un percorso di dolore, si trova a riflettere e a farci riflettere, o meglio a far riflettere i suoi compagni di malattia, ai quali nelle ultime pagine del libro principalmente si rivolge, che l’uomo, quando ha sofferto tanto e aspetta la morte, si trova a desiderare di non soffrire più.
Leggiamo: «Ho steso tra i primi, coscienziosamente, sperando che un giorno potesse avere valore, un testamento biologico fai-da-te in cui chiedevo che mi si risparmiassero buchi, cannule e sondini, nella certezza che la natura, nostra madre, sarebbe stata pietosa. Solo dopo ho conosciuto la malattia, la sua ingiustizia e casualità e ho scoperto che siamo infinitamente adattabili, che cambiamo idee e ideali seguendo i peggioramenti, che le nostre richieste diventano minime: ci basta respirare, trascinarci, tirare avanti. Quando faticavo a camminare, rimpiangevo la mia andatura sciolta; quando ho perso anche la voce, mi sarei contentata di zoppicare soltanto. Avrò il coraggio, quando sarà venuto il momento, di tirar fuori da sotto il cuscino lo scritto in cui rifiuto le cure?». Il pensiero religioso si incontra con quello laico mettendo in crisi la legittimità di una legislazione su un argomento tanto delicato, riguardante il nostro io più profondo.
cultura
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aedeker e manuali hanno degli indubbi vantaggi, quantomeno a livello commerciale. Se sono scritti da uno che se ne intende, la loro riuscita è praticamente certa e i risultati sono immediatamente utilizzabili. E tuttavia rivelano anche notevoli intralci, nati quasi sempre dall’inevitabile iattanza che trasuda dalle loro pagine. Non basta infatti un titolo ammiccante o una premessa colloquiale: troppo spesso resta l’amara sensazione di trovarsi a leggere un libro noioso che si trasforma in una lezione accademica. Il Taccuino di un vecchio bevitore, pubblicato da poco da Baldini Castoldi Dalai editore (prefazione di Christopher Hitchens, traduzione di Salvatore Fichera, pp. 284, euro 18,00) non ha niente a che fare con questo genere di libri. Non solo perché a scriverlo è stato Kingsley Amis, tra i più irriverenti e acuti scrittori del Novecento inglese, e non solo per il titolo colloquiale che, come accade raramente in editoria, mantiene ciò che promette. Il saggio di Amis è una straordinaria miniera di utili consigli per chi ama alzare il gomito, ma è anche qualcosa di più e di meglio: un ritratto ironico e piuttosto scapigliato di un’intera generazione alle prese con cocktail e drink di ogni sorta.
B
Andiamo con ordine e cominciamo con il tema. Sin dalle prime righe, Amis ammette che l’argomento è stato più volte affrontato dai letterati. Eppure sostiene l’autore di Jim il fortunato (altra chicca inspiegabilmente introvabile nelle librerie italiane) - l’approccio è sempre stato fuori fuoco. «Naturalmente ci sono poesie e canzoni sul bere, ma nessuna che parli dell’ubriacarsi, per non parlare poi dell’essere stati ubriachi. I romanzieri approfondiscono maggiormente il concetto, e in maniera più estesa, ma tendono ad andare fuori tema, liquidando i postumi della sbronza del protagonista delle loro opere in un paio di frasi o, al contrario, facendone il cuore del romanzo». Per Amis, dunque, l’alcol non è mai stato preso troppo sul serio, o forse lo è stato troppo poco. Anche per questo, se è vero che ci sono diverse migliaia di pagine letterarie sul tema, non vi è praticamente traccia di libri affidabili. Un lacuna ancora più grave se si pensa agli innumerevoli risvolti legati a «un argomento così controverso». «Per esempio osserva lo scrittore - cosa vi sarebbe stato offerto da bere alla corte di Attila, re degli Unni? Dove vi trovate se state bevendo Mascara? Per cosa viene ricordato Freddie Fudpurcker?» L’intento del narratore inglese è abbastanza chiaro. Del resto basta poco per capire come sappia muoversi con una certa disinvoltura tra bevande ad al-
Libri. Da Baldini Castoldi Dalai, il “Taccuino di un vecchio bevitore” di Amis
Una «spugna» di nome Kingsley di Filippo Maria Battaglia
to tasso etilico. Dismessi i panni del politicamente corretto, Amis infatti non va molto per il sottile. I primi attacchi sono tutti rivolti nei confronti di certe ansie moderniste. Obiettivo? I pub odierni (il libro è stato
Due immagini di Kingsley Amis. Baldini Castoldi Dalai ha da poco mandato in stampa il suo divertente “Taccuino di un vecchio bevitore”
chio», traccia un identikit di un profilo ancora oggi attualissimo: «Il vostro obiettivo ideale scrive - è una bella lite tra (tutti) i mariti e le mogli, sulla via del ritorno a casa: con lui che si lamenta della vostra ospitalità
Il saggio è una straordinaria miniera di utili consigli per chi ama alzare il gomito, ma anche qualcosa di più e meglio: un ritratto ironico e piuttosto scapigliato di un’intera generazione alle prese con cocktail e drink di ogni sorta scritto più di un quarto di secolo fa), che assomigliano «sempre più a una pubblicità televisiva, con tutti i luccicanti orrori che questo implica» e che spesso sono persino a tema.
L’analisi dello scrittore londinese, però, non si ferma qui. Dopo aver sciorinato ingredienti e preparazione di alcuni imperdibili cocktail firmati per-
fida Albione, invitando a diffidare da certi imbonitori («evitate di farvi incantar dall’ Attrezzatura completa per il barman, che non solo sarà sicuramente incompleta, ma conterrà ance attrezzi inutili e disegnati male»), Amis finisce col tracciare una sapida fenomenologia della «spugna contemporanea». Così, nel capitolo dedicato alla «guida del bevitore tir-
e lei che gli risponde che siete stati molto dolci e pieni di attenzioni, mentre lui non è altro che un alcolista frustrato». I suggerimenti per contentare gli ospiti e risparmiare qualche penny oscillano tra l’umorismo e il realismo borghese. Per fare un solo esempio: una delle indicazioni essenziali è quella di
preparare i beveraggi in un «oscuro recesso della casa» in modo tale da «coprire la vostra avarizia» e «fare anche sì che la richiesta di ogni giro successivo al primo venga percepita come una lieve scocciatura». Ma i consigli di Amis non si attestano solo nella proverbiale capacità di crocifiggere certi tic piccolo-borghesi. Punte di ineguagliabile umorismo hanno il soppravvento quando si parla degli effetti della sbronza, fin quasi a sfiorare il sacrilegio letterario. Secondo il vincitore del Booker Prize, per comprendere cosa davvero significhi una sbornia, la cosa migliore è orientarsi su un mostro sacro della letteratura del Novecento: «Forse la migliore tra le trasposizioni letterarie è La metamorfosi di Kafka, che inizia con il protagonista che una mattina si sveglia per scoprire di essere diventato uno scarafaggio di dimensioni umane. Anche se non sono riuscito a raccogliere informazioni sulle abitudini alcoliche di Kafka, l’immagine difficilmente avrebbe potuto essere più azzeccata, e il comportamento cattivo che tutti adottano con il poveretto è significativo».
P r o f a n a z i o ni n a r r a t i v e a parte, il Taccuino di un vecchio bevitore è anche uno straordinario viaggio nelle cantine, non solo occidentali: dal Portogallo alla Jugoslavia, dalla Germania alla Russia, dal Messico alla Turchia sono passati in rassegna centinaia di vini, cocktail e liquori. Gin, sangria, whisky, Martini dry, vodka, rum, tequila e margarita: Amis sembra davvero aver bevuto tutto. Per questo gli si può persino perdonare un paio di crudelissime frecciate verso le abitudini italiane. È il caso, ad esempio, dell’invito a tagliare con «la locale acqua minerale frizzante» certi vini, definiti troppo pastosi, di alcune zone collinari dell’Italia e della Spagna. È vero: alla sola enunciazione, un simile suggerimento farebbe perdere i sensi a qualsiasi sommelier. Eppure, acidità a parte, il breviario dello scrittore della City resta un affidabile e divertentissimo sondino per scandagliare certe pulsioni ataviche dell’uomo contemporaneo.
spettacoli
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A sinistra, Luc e Jean-Pierre Dardenne. Sotto, il libro “Diari”. In basso, le locandine dei film “Il matrimonio di Lorna” e “Il figlio”
L’intervista. A tu per tu con il regista belga Luc Dardenne, in libreria assieme al fratello e collega Jean-Pierre con i “Diari”
«Noi, siamesi dietro la cinepresa» di Valerio Venturi
MILANO. Viaggio a 360 gradi dentro il mondo creativo di Luc Dardenne e fratello: è ora possibile grazie alla pubblicazione dei Diari del grande cineasta belga, editi in Italia da Isbn (336 pagine, 16,50 euro). Si tratta della testimonianza intima dei due fratelli registi, che scrivono, producono e dirigono come se fossero una mente sola, realizzando un cinema di storie umane che parte dal dato concreto «per cercare di dimenticare le idee di partenza», secondo le parole di Luc Dardenne; il cinema, per loro, non è altro che un modo per interrogarsi sul presente. Un’immersione nella vita quotidiana di due artisti, il racconto dettagliato di come un’intuizione può diventare una storia, rende quindi i Diari non accessori per comprendere l’insieme. «L’idea è venuta a un mio amico editore francese», spiega Luc, giunto in Italia per presentare l’opera. «Mi ha chiesto se avevo qualcosa di scritto che avesse a che fare con il mio, il nostro modo di fare cinema, perché era curioso di sapere cosa sta dietro la realizzazione di un film. Gli ho detto di avere degli appunti, un diario; lui ne ha letto una parte e poi mi ha chiesto di mandagli tutto il lavoro perché gli piaceva. Così ho messo insieme i pezzi migliori e li ho inviati insieme ad alcune sceneggiature, in modo che ci fosse tutto: il prima e il dopo del film». I fan del regista
belga, che con il fratello JeanPierre ha firmato alcuni dei capolavori della cinematografia europea, hanno così pane per i loro denti: possono contestualizzare, capire meglio le opere cinevisive, il mondo-Dardenne. Le note sono professionali ma anche esistenziali, haiku di estetica, considerazioni marginali... Scrive Luc, ma pensano in due. Non a caso il sottotitolo del volume targato Isbn recita “dietro ai nostri occhi”: come dire che il cuore, il cervello, i 5 sensi, sono comuni a entrambi i fratelli-siamesi.
vincono un European Film Award per il miglior documentario con Gigi, Monica… et Bianca; ma è soprattutto con Rosetta, Palma d’Oro a Cannes ’99 e Premio Ecumenico della Giuria, che sbancano. Nel 2002 “bissano”il successo di critica e pubblico con Le Fils. La seconda Palma d’oro giunge con L’enfant (2005), storia che narra, come sempre, degli ultimi della società. Il matrimonio di Lorna, del 2008, è l’ennesima conferma: perché piace e perché racconta ancora una volta di sventurati. «Scegliamo personaggi che vivono a margine della società. Se per i nostri lavori avessimo scelto personaggi di estrazione borghese, si sarebbe parlato spesso di “dramma psicologico”, perché i bor-
“
Il nostro non è certamente grande, oltre ad essere culturalmente diviso in due, se non in tre alle volte; e ha solo quattro milioni di abitanti. In proporzione, quindi, i mezzi di finanziamento sono meno importanti rispetto, per esempio, alla Francia. La sorte di registi come noi, provenienti da piccoli Paesi, è quindi quella di trovare partner all’estero. Ma questo è anche un punto di forza. Lei lavora sempre in coppia con suo fratello. Come fate a trovarvi sempre d’accordo? Non avete desiderio di sperimentare cose nuove? Il fatto è che noi abbiamo sempre fatto le stesse cose insieme. In genere, quando l’uno si dedica esclusivamente
Abbiamo sempre fatto le stesse cose insieme. Ma ogni virgola viene realizzata volta per volta tenendo conto delle opinioni di ognuno. Per questo non siamo frustrati. Ogni sceneggiatura ha addirittura cinque, sei o più stesure La vicenda artistica dei Dardenne prende il via tra gli anni Settanta e Ottanta. I primi prodotti sono una serie di documentari - come Le chant du rossignol (1978), Lorsque le bateau de Léon M. descenit la Meuse puor la première fois (1979), Pour que la guerre s’achève, les murs devaient s’écrouter (1980), R… ne répond plus (1981), Leçons d’une universitée volante (1982) e Regard Jonathan/Jean Louvet, son oeuvre (1983) - che già suggeriscono la cifra stilistica dei belgi. Il debutto avviene con Falsch (1987), che segue un fortunato cortometraggio. La consacrazione è del 1997, quando
ghesi, e solo loro, hanno una psicologia. Di certo abbiamo un certo modo di guardare il mondo e la società. I miei personaggi sono tutti accumunati da una profonda solitudine, a causa della realtà socio-economica in cui sono nati e cresciuti: la città industriale che negli anni Settanta è stata stravolta dalla crisi con conseguente chiusura delle fabbriche, spopolamento e miseria». Cose che accadono in Europa. In Belgio, Paese dal quale provenite. Ma i vostri film sono prodotti all’estero... È un po’ il destino di tutte le cinematografie dei piccoli Paesi.
”
ad una cosa e l’altro ad un’altra, si può arrivare ad un punto in cui uno dei due può dire: «Voglio vedere se posso fare io stesso quello che fai tu, e che io non ho mai potuto fare in un film». Ma noi facciamo tutto indistintamente. Per questo non ho frustrazioni. L’unica cosa in cui non ci siamo mai cimentati è la recitazione. Jean-Pierre ha studiato teatro, potrebbe recitare, ma dice che
io non voglio; sostiene che vado dicendo che è un cattivo attore, ma non è vero. I Diari, comunque, li ha scritti lei... È perché scrivere un diario, prendere degli appunti, mi è molto utile in fase di scrittura della sceneggiatura e anche per confrontarmi meglio proprio con mio fratello e le sue idee. La stessa sceneggiatura ha cinque, sei o più stesure, e spesso viene cambiata in fase di riprese. I vostri film sono sempre ben accolti dai giornalisti, e tanti sono i Premi e i riconoscimenti che avete collezionato. Che valore ha, per voi, la critica? La critica può essere molto importante e costruttiva se stimola un dibattito nel pubblico. Va diversamente se si pone come serva dell’industria cinematografica. Quali sono i suoi cineasti preferiti? Nell’ambito della commedia adoro Charlie Chaplin, un vero genio del passato; per il cinema “comico”del presente mi piace molto Woody Allen. Ma gli autori che amo sono molti. Nei Diari si trovano tutti i miei punti di riferimento cinematografici. A cosa state lavorando attualmente? Non parlo dei progetti futuri; dirò solo che le riprese del nostro prossimo film inizieranno ad agosto 2010.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
dal ”China Daily” del 12/01/10
Processo all’alluminio a polizia ha terminato ieri (lunedì, ndr) il lungo lavoro investigativo contro alcuni manager della società mineraria Rio Tinto» si legge sulle pagine del quotidiano cinese. Si tratta una faccenda che ha infiammato lo scorso anno i rapporti diplomatici tra Pechino e Camberra.
«L
La Rio TInto è proprietaria di una delle maggiori miniere di materiali ferrosi – da cui si estrae d’alluminio – al mondo e la sempre più affamata industria cinese ne voleva un pezzo. Per essere sicura di sfamare gli altiforni dell’industria automobilistica in ripresa dall’estate passata. Aveva proposto di acquistare un pacchetto d’azioni considerevole, ma il governo australiano aveva posto il veto vista anche la vicinanza delle miniare a un luogo strategico per la difesa del continente: la base di Woomera. Un storia che è una via di mezzo tra una guerra economica – in ballo anche il costo sul mercato dell’alluminio che Pechino vorrebbe a prezzi scontati – e una spy story in piena regola. Ora, dopo numerose schermaglie diplomatiche che avevano portato all’arresto di Stern Hu, responsabile in Cina di Rio Tinto «la polizia ha passato l’incartamento alla procura generale, dopo cinque mesi di investigazioni, su quattro persone sospette compreso Hu» per l’eventuale istruzione del processo. «È stato avvisato il consolato generale australiano di Shangai» si legge su Cd. Infatti sarà la procura di Shangai a dover decidere se il semplice procedimento giudiziario si trasformerà in un processo. E possiamo solo immaginare come in questa fase si “combatta”una guerra sotterranea tra panda e canguri. La portavoce del consolato australiano ha dichiarato in proposito che «non siamo in grado di stabilire quanto tempo prenderà la fase istruttoria e
non siamo in grado neanche di prevederne l’esito». La fase investigativa è durata tre mesi in più della norma. È un fatto che ne sottolinea l’estrema delicatezza. Hu che era il responsabile della sede cinese della Rio Tinto è in carcere dal luglio 2009 assieme ad altri tre colleghi di nazionalità cinese. L’accusa? Aver sottratto segreti di Stato. Dopo un mese dalla contestazione delle accuse di aver rubato segreti commerciali per Hu e di aver pagato delle tangenti, l’arresto da parte della polizia municipale di Shangai.
Ricordiamo che proprio in quel periodo aera in corso la vicenda delle miniere australiane, con la proposta d’acquisto da parte della società cinese, Chinalco. Un’azienda di Stato, leader nella produzione d’alluminio, che aveva l’obiettivo di acquisire il 18 per cento del pacchetto azionario di Rio Tinto. I soldi in ballo erano tanti. La Chinalco che già deteneva il 9 per cento della società australiana, aveva da poco sottoscritto un aumento di capitale per 15,2 miliardi di dollari. Aveva quindi grandi aspettative che la successiva offerta potesse esser accolta. Poi l’amara sconfitta. «Jing Yunchuang capo dello studio legale Gaotong di Pechino ha affermato che allo stato delle cose la fase successiva sarà quella processuale». Hu rischia una condanna al massimo «per sette anni» afferma il legale e la società australiana a rifondere i danni. «Gli esperti affermano che il caso non dovrebbe incidere sui rapporti tra Cina e Australia» recita il quotidiano cinese, ma dietro l’apparente neutralità della formula possia-
mo immaginare una realtà molto vicina al ricatto. Han Feng un esponente dell’Accadenìmia cinese delle Scienze sociali è convinto che il caso di Hu «sia basato su un fraintendimento iniziale e che ora ogni problema sarà risolto». Simon Crean, il ministro degli Esteri australiano ha recentemente dichiarato all’Australian broadcasting company che è fiducioso «che la vicenda si risolva utilizzando gli strumenti della legge e che Pechino converrà ai suoi doveri di legge».
«I cinesi hanno prove sufficienti altrimenti non avrebbero tenuto in carcere i prigionieri per un tempo così lungo» sottolinea Han che aggiungendo che non «ci sono motivi per allentare i legami sinoaustraliani, visto anche il periodo di ripresa economica che stanno attraversando i due Paesi».
L’IMMAGINE
Cina e Stati Uniti d’America dovrebbero abolire la pena di morte Cina e Usa si annusano con interesse, come fedeli segugi che devono riportare qualcosa al padrone, per fargli capire che la fiducia può ancora essere riposta. Barack Obama è desideroso che il futuro sancisca un nuovo connubio tra tali potenze, nel nome della pace e della collaborazione commerciale. Diciamo però la verità: gli Usa vogliono una Cina forte al proprio fianco, per controbilanciare l’espansione russa che si è fatta di nuovo preoccupante. Se non ci credete andate a vedere ciò che sta avvenendo in America Latina. Nel contempo entrambe le potenze non capiscono che fino a quando la pena di morte sarà strumento univoco di giustizia, rappresenterà una sorta di nuovo muro, di nuova coltre di ferro tra le coscienze, che, per mantenere un equilibrio, evita che si compia il vero miracolo mondiale per la pace e il progresso di queste due potenze: ovvero l’abolizione della pena di morte. Se lo facessero insieme, sarebbe meglio di qualsiasi collante per un futuro di pace e collaborazione.
Bruno Russo
A PROPOSITO DI FALCE E MARTELLO Nel ricalcare i pietosi e vergognosi concetti della inguardabile Rosy Bindi (forse hanno ragione Storace e Sgarbi), il giornalista Desiderio, su liberal che leggo ogni giorno ma che ogni giorno che passa mi delude sempre di più, equipara il Pdl e Idv perché fanno «politica con il martello e le statuine».Tanto per mettere le cose in chiaro, chi è stato in ospedale - con tutte le conseguenze della vile aggressione - é Silvio Berlusconi e non altri. Giancristiano Desiderio dovrebbe ricordare che la politica con la falce e (dimenticanza storica?) il martello, l’hanno sempre fatta i “compagni”a danno di tutti gli italiani. Ora hanno tolto la falce, ma è rimasto il martello, e una moltitudine di si-
nistrorsi ha gioito in cuor suo per la statuina in faccia a Berlusconi. Tanti farisei e ipocriti abbiamo visto condannare - sui giornali o in tv - il gesto di una persona definita squilibrata, ma con forti simpatie per gli eredi della falce e il martello. Speriamo che Pier Ferdinando Casini non faccia seguire alle parole i fatti: la ricostituzione del Cln. La sola parola mi mette i brividi per le angherie e i soprusi subiti da me - piccolo - e dalla mia famiglia, in quei giorni del terrore ad opera dei seguaci della “falce e del martello”.
Eriberto Polidoro, segretario Udc - Gualdo Tadino
Risponde Giancristiano Desiderio. Vorremmo leggere articoli che confermano i nostri desideri, ma
Serpente a metà Se non fosse munita di zampe e carapace, questa tartaruga potrebbe essere facilmente scambiata per un serpente. Tutta colpa del lungo collo, liscio e super snodato, che le è valso il soprannome di snakeneck turtle, “tartaruga collo di serpente”. Grazie a tale collo, la tartaruga riesce a respirare mettendo la testa fuori dall’acqua, lasciando il resto del corpo sommerso e al riparo dai predatori
non sempre i nostri desideri trovano conferma negli articoli. Dunque, confermo: il Pdl e Idv, statuine a parte, si rispecchiano.
SÌ ALLA POLVERINI Lucia Pignatelli, presidente dei Circoli Liberal Lazio, con gli Amici dei Circoli Liberal della regione,
esprimono viva soddisfazione per l’appoggio dell’Udc alla candidata alla presidenza della Regione Lazio, Renata Polverini. Condividendone il progetto che vede famiglia, lavoro, sanità, impresa al centro della sua azione sul territorio, mettono in campo una fattiva collaborazione per contribuire al suo suc-
cesso elettorale. L’applicazione dei programmi permetterà il rilancio di una Regione, che ha urgenza di rivendicare il ruolo che merita: centro culturale, artistico, paesaggistico, economico della Nazione e d’Europa.
Elisa Calmieri Circoli Liberal Lazio
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Quel poeta dal nome triste Questa mattina, leggendo le disimpegnate osservazioni di Vicky (Neuburg) su di me, «lo sperimentalista», mi sono ritrovato a chiedermi chi fosse questo poeta dal nome triste e se abbia un’esistenza separata dall’ancor più triste personaggio della sera precedente, derubato delle sue sigarette da tre gorilla e rifugiatosi, avendo dimostrato la sua codardia comica, su una pila pietrosa di parole. E perché a questo sperimentalista dovrebbero essere dedicate tante righe di un giornale nazionale, mentre i miei furfanti dal ghigno alla Beery saranno consegnati alla mortalità della pagina di una lettera? In ogni caso, non sono uno sperimentalista e non lo sarò mai. Scrivo nel solo modo che so, e la mia roba deforme, contorta e involuta non è il risultato di un teorizzare ma della pura incapacità di esprimere le mie tortuosità gratuite in qualsiasi altro modo. L’articolo di Vicky era una sciocchezza. Se lo vedi, digli che non sono né modesto, né sperimentale, non scrivo sul Presente, e ho assai poco controllo del ritmo. Il mio Pegaso, poi, è assai più bolso del puledro di Basham, che è troppo autocritico. Digli anche che non so nulla di un ritmo vitale. Digli che scrivo di vermi e corruzione perché mi piacciono i vermi e la corruzione. Dylan Thomas a Pamela Hansford Johnson
ACCADDE OGGI
DEL TURCO, UNA PERSONALITÀ CHE HA SEMPRE SERVITO IL SUO PAESE Il quotidiano abruzzese Il Centro ha pubblicato un rapporto del Nas dei carabinieri di Pescara, nel quale sono riportati gli esiti delle indagini sulla Sanitopoli di quella regione. Il rapporto si conclude con la richiesta di arresto dell’imprenditore Maria Vincenzo Angelici. In manette finì, invece, il 14 luglio del 2008, il presidente della Regione Ottaviano Del Turco, vittima di un clamoroso errore giudiziario che venne subito paragonato al caso Tortora. Alla luce dei nuovi eventi ci sarà pure un giudice a Pescara in grado di restituire l’onore a Del Turco, una personalità, che ha sempre servito onestamente il suo Paese nei diversi ruoli ricoperti.
Francesco Comellini
NO A FORZATURE PERSONALISTICHE, SÌ ALL’UNIONE DI CENTRO Non ci vuole la zingara per prevedere un capitombolo alle regionali se non ci si affretta a sciogliere tutti i nodi. Per farlo bene, bisogna evitare forzature personalistiche, mettendo nel conto una sconfitta del centrosinistra per premiare un solo partito; e poi si deve allargare la coalizione all’Udc sulla base di un serio e praticabile programma riformista di governo. La candidatura Boccia per la regione Puglia, anche se arrivata tardi, è su questa strada. Per il Lazio siamo invece ancora alle esplorazioni. Quanto alla Campania il buio è totale, ma se mancano i candidati, i socialisti sono in grado di presentarne uno anche domani.
Riccardo
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
13 gennaio 1976 Il Procuratore della Repubblica di Milano fa sequestrare Salò o le 120 giornate di Sodoma 1989 Nel Piemonte viene scoperta una discarica abusiva con 1000 tonnellate di prodotti tossici 1991 Le truppe sovietiche attaccano i sostenitori dell’indipendenza lituana a Vilnius 1992 Il Giappone chiede scusa per aver costretto le donne coreane ad avere rapporti sessuali con i soldati giapponesi durante la seconda guerra mondiale 1994 Dimissioni del presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi 1998 Lo scrittore siciliano omosessuale Alfredo Ormando si dà fuoco a Roma in piazza San Pietro per protesta contro la Chiesa cattolica per il suo atteggiamento nei confronti degli omosessuali 2001 Un terremoto di magnitudo 7,6 della scala Richter colpisce El Salvador 2003 Viene scoperta la nana bruna BA 2009 Primo volo di Alitalia Compagnia aerea italiana
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
PADOVA SOFFERENTE PER ILLEGALITÀ E ALTRO Nel pieno centro padovano continua il commercio ambulante - abusivo e illegale - di merce contraffatta. Pure a danno dei cittadini e commercianti regolari, che emettono scontrini fiscali, esborsano fitti effettivi, compilano dichiarazioni fiscali, pagano tributi e balzelli. L’amministrazione comunale di sinistra persevera sul dispendioso effimero: festa di Capodanno in Prato, con luminarie che saranno spente dopo il 14 febbraio, giorno degli innamorati, durante il quale sarà organizzato un “grande evento”, ossia un bacio collettivo, come alla festa di fine anno a Venezia.Tuttavia, la vera affettività, l’amore, il bacio e l’intimità fisica appartengono alla sfera più privata - non ostentata - della coppia. Anche l’organizzazione del bacio collettivo può risultare uno strumento elettoralistico, che rischia d’irreggimentare giovani e condurre i loro cervelli all’ammasso. La giunta comunale e la sua maggioranza insistono sulla tecnica attorale e sulla politica propagandistica di: visibilità, esibizione, autocelebrazione, presenzialismo mondano. La giunta non migliora adeguatamente il patrimonio stradale, che è insufficiente, insicuro, sporco e poco curato, specie nelle periferie. Queste - trascurate e degradate presentano una mobilità pericolosa, anche per la carenza di percorsi ciclopedonali. La giunta porta scolaresche ai lager e, per la sua faziosità, mai a Katyn (dove oltre 4400 ufficiali polacchi furono uccisi dai comunisti).
Gianfranco Nìbale
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
MEGLIO UN COMUNISTA O UN LEGHISTA CHE UN LIBERALE (I PARTE) È frequente nelle analisi politiche riscontrare l’interpretazione che il fenomeno della Lega Nord sia strettamente collegato al processo di secolarizzazione della società italiana. Al voto della Dc si è sovrapposto il voto alla Lega per la secolarizzazione degli ideali religiosi. Al Nord, la religione è solo un ricordo, si lavora per accumulare, non ci sono più riferimenti culturali e senso di appartenenza. La Lega offre qualcosa di diverso sia nel linguaggio che nei simboli che sostituiscono i precedenti perché non più esistenti. Ancorando il consenso non al fare ma al simbolismo (linguaggio, comportamenti), può permettersi il lusso di non portare risultati e conservare la forza elettorale anche se non mantiene le promesse. Certo, nella percezione simbolica della Lega c’è anche l’idea che la Nazione è un peso e non una tutela, ma se le istituzioni e i partiti riacquisiscono nei fatti credibilità, la Lega verrebbe ridotta a fenomeno localistico e per sua natura si sgonfierebbe elettoralmente. Non condivido e ritengo che il processo di secolarizzazione sia una causa del tutto priva di significato. Dopo lo Stato liberale laico e anticlericale e il ventennio fascista del Dio-Stato, si dovette, finita la guerra, ricattolizzare, politicamente, la popolazione per creare una connessione vincente tra cattolicesimo e politica contro il fronte popolare di sinistra in prevalenza comunista. Si trattava di difendere la collocazione atlantica dell’Italia. La Dc fu un’invenzione che durò pertanto quanto durò la guerra fredda. Vi ricordate gli itinerari processionali nelle campagne della “Madonna pellegrina” nel primo Semmai quindi è vero il contradopoguerra? rio e cioè che la Lega Nord ha trovato terreno fertile, come nel Veneto, su aree dove la Dc, essendo la ricostruzione del Partito popolare non più minoritario, usando il sentimento religioso cattolico a fini politici, aveva conservato inevitabilmente e suo malgrado, i sentimenti antinazionali e antirisorgimentali di un certo cattolicesimo. Nel memorandum presentato da padre Enrico Rosa in Vaticano intitolato “Il ruolo dei cattolici nelle elezioni del 1924”, in vista delle elezioni, Padre Rosa suggerisce che nelle condizioni presenti sarebbe più giusto ufficialmente per la Santa Sede tenersi fuori dalla competizione elettorale, non appoggiando direttamente nessun partito. Ma vista la certa «sconfitta dei popolari e la vittoria dei fascisti nelle prossime elezioni, sarebbe opportuno che la lista popolare avesse la maggioranza tra i partiti della minoranza in modo tale da sottrarre seggi in Parlamento ai socialisti, sovversivi dell’ordine sociale, e ai liberali e democratici sociali, legati in vario modo alle logge massoniche». Così avvenne: fu la distruzione dei partiti risorgimentali nazionali, quelli della religione civile. Leri Pegolo C I R C O L O LI B E R A L PO R D E N O N E
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