ISSN 1827-8817 00115
di e h c a n cro
Il mondo è in ogni momento la
presa in giro e la contraddizione di ciò che finge di essere George Santayana
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 15 GENNAIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
La Natura contro l’Uomo Negli ultimi cinque anni sono stati più di 700mila gli esseri umani uccisi dalla furia delle catastrofi. E si ripropone l’antico enigma della “guerra” tra noi e la Terra
I morti sarebbero più di centomila: in arrivo cento milioni di dollari
Haiti, il giorno del silenzio di Antonio Picasso «È crollato tutto. È crollato il Parlamento, le sedi dei ministeri, le scuole, gli ospedali». La dichiarazione del presidente, René Préval, appare spaventosa. Il suo Paese è stato completamente raso al suolo, ma il quadro del dramma si limita a previsioni farraginose, dovute alla scarsa disponibilità di notizie certe.
Sgalambro e Stefanini • pagina 12
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I duellanti co-fondatori siglano un patto di concertazione: si vedranno più spesso
Il Pdl: «No all’Udc» (ma alleiamoci pure...) Saggio di ipocrisia di Berlusconi e Fini: attaccano Casini ma non rifiutano gli accordi. Cesa: «Inaccettabile è dare il Nord alla Lega» Il contestato provvedimento al Senato
L’Italia segue la Cina: assedio a Internet Pechino censura Google. Il nostro governo (pro Mediaset e anti Sky) blocca il futuro online della Tv
di Francesco Capozza
ROMA. No ai due forni dell’Udc, sì alle alleanze con l’Udc: Berlusconi e Fini trovano finalmente una posizione comune. Ma solo per bacchettare con una mano i centristi e poi dare loro l’altra mano in segno di pace. L’urgenza elettorale delle Regionali è più pressante delle questioni di principio. Insomma, accusando l’Udc di ipocrisia Berlusconi e Fini dànno uno splendido saggio di ipocrisia. Quanto ai loro rapporti, invece, il vertice di ieri ha portato alla promessa di coinvolgere di più Fini nelle decisioni.
Gli Avatar della discordia Il lanciatissimo film di Cameron (mezzo miliardo di dollari) suscita più di una polemica
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di Errico Novi
Da oggi in Italia la pellicola più discussa dell’anno
VISTO DALL’ITALIA
VISTO DAGLI USA
Confonde buoni e cattivi: un cult movie di al Qaeda
Quant’è religiosa la nuova anti-religione
di Anselma Dell’Olio
di Jonah Goldberg robabilmente non avete bisogno di una lunga sinossi dell’epico film di James Cameron Avatar: perché, anche se non l’avete visto, è come se lo aveste fatto. Cameron ha saccheggiato i cliché più in voga ad Hollywood: volendo, si potrebbero copiare e incollare i dialoghi di Pocahontas o quelli di Balla coi lupi per ottenere quelli di Avatar. a pagina 19
eccesso di zelo nei confronti di Mediaset. Con un decreto che dovrebbe dare semplicemente attuazione a una direttiva europea il governo intrerviene a gamba tesa sul sistema radiotelevisivo. Fino al punto da modificare nei fatti il quadro disegnato dalla legge Gasparri, almeno su una serie di questioni: il tetto televisivo per le tv a pagamento – cioè essenzialmente per Sky – che si abbassa intorno al 12 per cento, con speculare vantaggio asssicurato a Mediaset; quindi sulle produzioni indipendenti di cinema e fiction italiani, colpite anche loro in modo durissimo.
hi era veramente Craxi? Un ladro di pubblico denaro come dicono i suoi avversari e come risulta anche da una sentenza passata in giudicato oppure un grande politico abbattuto da una vile congiura dei suoi nemici? Forse né l’una né l’altra cosa. Craxi è un politico che ha concepito un grande disegno ed è giunto assai vicino a realizzarlo.
on siamo della schiatta di critici che ha trovato insopportabile The Terminator, Aliens e Titanic di James Cameron. Genio monomaniacale di effetti speciali, le sue sceneggiature sono storie semplici e forti. Dispiace che Avatar, deluda in parte proprio perché la storia d’amore e le meraviglie pirotecniche sono al servizio di una «filosofia» New Age.
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ROMA. Eccesso di delega. Ma anche
segu1,00 e a pa(10,00 g in a 9 EURO
Le contrapposizioni a dieci anni dalla morte
La verità su Craxi: né Santo né Bandito di Rocco Buttiglione
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CON I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
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IN REDAZIONE ALLE ORE
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19.30
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Strategie. Il pranzo della pace produce un’ambigua dichiarazione. E la promessa di maggior coinvolgimento del co-fondatore
Una lezione di ipocrisia
Berlusconi e Fini: «Inaccettabile la linea di Casini». Ma sulle alleanze: «Non siamo così drastici...». L’Udc risponde: «Inaccettabile è appaltare il Nord alla Lega» di Francesco Capozza
ROMA. Due ore di incontro a Montecitorio per superare «le incomprensioni». E preparare la linea politica in vista delle Regionali. Risultato: Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini firmano un «impegno a una maggiore concertazione». A spiegarlo ai giornalisti è il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, che era presente al pranzo tra i due leader. L’impegno siglato dal premier (per lui un menù speciale, a causa dei postumi dell’aggressione in Piazza Duomo) e dal presidente della Camera vale «non solo sugli aspetti del partito, su cui la concertazione c’è sempre stata, ma anche sulle iniziative di governo e per quello che riguarda l’attività parlamentare». Un faccia a faccia «non di maniera», dice La Russa. «Sia Fini che Berlusconi non hanno nascosto l’esistenza di problemi - ha aggiunto il ministro - sviluppando un ragionamento su un piano di cordialità, ma senza nascondersi. Credo si sia trovato il modo per ovviare ai problemi, alle questioni o, come preferisco chiamarli io e non loro, le incomprensioni». Tra i temi dell’incontro, anche la linea delle «alleanze variabili» seguita dall’Udc alle regionali. Linea che entrambi condannano. «Fini e Berlusconi - spiega sempre il coordinatore nazionale del Pdl - sono concordi nel contestare la linea dell’Udc, la politica del doppio forno per noi è inaccettabile». E dunque? I pareri sono diversi «sulle conseguenze» che Fini e Berlusconi fanno discendere da questa considerazione.
Paolo Pombeni commenta il mezzo strappo con i centristi
«È finito il monopolio del Pdl sui moderati» di Riccardo Paradisi
ROMA. Il rapporto Pdl-Udc è stato al centro dell’incontro tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. A spiegare il succo della loro riflessione il ministro della Difesa e coordinatore del Pdl Ignazio La Russa: «Fini e Berlusconi sono concordi nel contestare la linea dell’Udc, la politica del doppio forno per noi è inaccettabile. Per quanto riguarda le conseguenze, la discussione è rimasta aperta. Ma per Fini «non necessariamente occorre essere drastici verso l’alleanza con l’Udc». Insomma «politica dei due forni» no ma alleanze sì. Professor Pombeni come legge questa posizione assunta dal centrodestra nel vertice tra i due cofondatori del Pdl? Dopo aver fatto una scommessa forte sulla monopolizazione e l’egemonia dell’intera area moderata e dopo aver perso questa scommessa, il Pdl si trova di fronte a un problema. Questo problema si chiama Udc, un partito che oscilla tra il sei e l’otto per cento e che sottrae al controllo del Pdl una fascia di elettorato moderato vasta e persuasa che questo bipolarismo non sia la risposta definitiva ai problemi del Paese. Non è un problema da poco per il centrodestra. L’Udc infatti è un vaso d’inciampo sulla strada che il Pdl vorrebbe percorrere verso l’egemonia dell’aerea moderata. Sicché ora reagisce. E lo fa in due modi. Uno è quello di giocare sulla censura morale per sottrarre voti all’Udc in queste regionali, l’altro è il tentativo degli estremisti del Pdl di togliere ossigeno all’Udc, sperando che senza partecipazione al governo quest’area si atrofizzi progressivamente da sola. Non mi sembra che le cose stiano andando in questa direzione. Insomma dal Pdl si tenta di leggere il centro politico come un’anomalia. Si, esatto. Ma è una lettura forzosa. Voglio dire in Germania i liberali so-
no stati contemporaneamente alleati della Cdu e dell’Sdp: l’Udc quindi non è questa mostruosa anomalia. In Germania c’è un sistema elettorale diverso. Un sistema elettorale che però avrebbe dovuto favorire la formazione di due soli partiti politici; ma poi c’è stata questa anomalia liberale che faceva sì che il sistema politico fosse a tre forze prima che diventasse addirittura a sei. L’idea di conglobare questa presenza liberale facendola confluire nella Cdu o nella Spd non è riuscita. In Italia c’è stata una scommessa sul sistema bipartitico che era prevedibile non avesse successo nel centrosinistra in termini di semplificazione politica ma che doveva riuscire a livello di centrodestra. Non è avvenuto per incapacità di attrarre e mantenere nel centrodestra l’Udc. Ora è chiaro che l’Udc è un partito che ha qualcosa da dire e da esigere. Tra queste esigenze c’è la libertà di scegliere alleanze di volta in volta. Fini è stato fino a ieri un interlocutore dell’Udc, ora il suo atteggiamento è diverso. Fini è di fronte a un bivio: o continuare la presenza forte nel centrodestra, allargando il suo peso, oppure rompere col centrodestra. Avendo incassato alcune cose che chiedeva, ora torna ad attaccare Casini. Fini si sta riallineando con la sua storia, con gli obiettivi che si è sempre posto, primo tra tutti la successione alla leadership del centrodestra.
«La questione è rimasta aperta», dice La Russa. Berlusconi è stato netto, «mentre Fini è stato meno drastico».
Secca e immediata la replica dell’Udc: «Se i candidati del Pdl non vogliono accordarsi con noi non c’è problema». Lorenzo Cesa, interpellato a Montecitorio, ha replicato così alle critiche mosse dai due leader del Pdl alla cosiddetta «politica dei due forni» dell’Udc. «È logico - ha spiegato il segretario centrista - che Berlusconi e Fini ritengano inaccettabile la linea dell’Udc, se no sarebbero nostri iscritti. Anche per noi è profondamente sbagliata la linea del Pdl che ha appaltato il Nord alla Lega. Se non fosse così - ha rimarcato Cesa - non saremmo all’opposizione. Dov’è la novità?». «Comunque - ha sottolineato Cesa - è una questione che sarà affrontata nella riunione della Costituente di centro convocata da Savino Pezzotta per venerdì 22». Tornando all’incontro del disgelo tra il presidente del Consiglio e quello della Camera, per la definizione delle rimanenti candidature (c’è in ballo, soprattutto, il nodo Puglia) bisognerà attendere l’ufficio di presidenza mercoledì 20. «Questo è un altro tema, che non era inserito nell’incon-
Nel corso dell’incontro si è discusso anche di nuovi sottosegretari: promozione in vista per Andrea Augello e per Daniela Santanchè tro. Mercoledì avremo le le idee molto più chiare e tra oggi e mercoledì la partita sarà chiusa» ha specificato La Russa. «Abbiamo ristretto al massimo - ha aggiunto il coordinatore del Pdl - la cerchia dei candidati: stiamo facendo le ultime valutazioni, lasciateci il tempo di decidere rispetto ad una sinistra che non è in affanno ma nel caos totale». Sulla Puglia in particolare, sempre nel pomeriggio di ieri, si è svolto un vertice a Palazzo Grazioli. Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha infatti ricevuto i coordinatori nazionali del Pdl Ignazio La Russa, Denis Verdini e Sandro Bondi. Alla riunione hanno partecipato anche Antonio Distaso e Rocco Palese, indicati tra i possibili candidati del Popolo della libertà per la Puglia.
Nella colazione di lavoro tra i due leader del centrodestra ampio spazio è stato dedicato, com’era scontato, al capitolo Giustizia: «Il presidente della Camera condivide la linea del governo e prima del Consiglio dei ministri di mercoledì c’è stata una telefonata in cui si è convenuto di rinunciare al decreto blocca processi». Durante il vertice, inoltre, «si è parlato anche del fuoco amico e del danno che provoca». Sull’opportunità di stabilire frequenti faccia a faccia sui temi politici, Berlusconi ha invece risposto a Fini con una battuta: «Io a pranzo da te verrei tutte le settimane, ma mi
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sembra più corretto venire quando mi inviti...». Sempre secondo La Russa, il passo concordato dai due ha mirato anche a evitare di mettere in difficoltà il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Dall’incontro di ieri tra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera sarebbe «emerso che Silvio Berlusconi è vittima di una persecuzione giudiziaria e che tutto il Pdl, Fini in testa, sono consapevoli di questa realtà e sono coscienti del fatto che bisogna intervenire per sottrarre Silvio Berlusconi in persona a questa persecuzione che è una questione importante per il Paese e un fatto senza precedenti». È quanto ha riferito il vice presidente vicario del Pdl alla Camera, Italo Bocchino, anch’egli presente al pranzo a Montecitorio tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini.
Molti quotidiani di ieri e dei giorni scorsi hanno rivelato che nell’incontro tra Fini e Berlusconi sarebbe stato affrontato anche un mini-rimpasto governativo con la nomina di alcuni nuovi sottosegretari. Sulla questione si sa che al piano nobile di Montecitorio è stata apprezzata l’ipotesi che sia Andrea Augello a diventare sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento, un’apertura da parte del premier per sbloccare il veto dello stesso Fini su Daniela Santanchè, veto che ieri potrebbe essere caduto, dando così il via alle due nomine. Stando alle dichiarazioni ufficiali la nomina dei nuovi sottosegretari di governo non sarebbe, tuttavia, stata oggetto del vertici a Montecitorio fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. «Fini ha subito premesso - riferisce il coordinatore del Pdl e ministro della Difesa Ignazio La Russa - che la composizione del governo attiene al presidente del Consiglio per cui lui non entra in queste discussioni». Così come il premier avrebbe osservato «che ha il massimo rispetto - riferisce sempre La Russa - dell’agenda parlamentare». La questione nomine è quindi sul tavolo di Berlusconi che però è pressato da molti esponenti dell’ex-An i quali preferirebbero rimandare la questione a dopo le regionali «perché - è il ragionamento di un finiano doc dopo si potrà ragionare meglio e con più calma di un riassetto generale della compagine di governo».
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Guerra di giustizia (a parole) Il Csm apre un fascicolo sulle accuse del premier. Il Pdl insorge di Marco Palombi
ROMA. A forza di integrare la pratica a tutela dei giudici dopo le uscite pubbliche di Silvio Berlusconi la prima commissione del Csm rischia di dover trovare una stanza ad hoc per contenere gli atti. Si ricorderà che il fascicolo venne aperto a fine ottobre, quando il presidente del Consiglio telefonò a Ballarò per sostenere che «la vera anomalia italiana sono pm e giudici comunisti che da quando Berlusconi è entrato in politica e ha tolto il potere ai comunisti lo hanno aggredito con oltre cento processi», quei pm e giudici «che ormai sono la vera opposizione alla maggioranza eletta dal popolo». Risposta del Consiglio superiore della magistratura: una pratica a tutela. Un mese dopo, durante un ufficio di presidenza del Pdl, il Cavaliere parlò della «deriva eversiva di certa magistratura» che mira a «far cadere il governo» e «rischia di dividere il Paese». Di più, a innescare «una guerra civile». Il Csm, diligentemente, integrò la pratica a tutela. L’altroieri infine, durante una conferenza stampa a palazzo Chigi, Berlusconi è tornato sul tema delle “aggressioni” che gli tocca subire: «Mi attaccano sul piano politico e, lo vedete, sul piano giudiziario le aggressioni sono parificabili a quelle di piazza del Duomo, se non peggio». A palazzo dei Marescialli, metodici come al solito, ieri hanno integrato la pratica a tutela coi giornali freschi di stampa.
già capace di picchiare come un fabbro ferraio. La reazione alla pratica a tutela del Csm è stata una sorta di caso di scuola. Ha iniziato il vicecapogruppo del Senato Gaetano Quagliariello: «Il Csm avrebbe tanto lavoro e se non desse l’impressione di entrare a gamba tesa nel dibattito politico, soprattutto in alcuni momenti, darebbe un contributo all’armonia delle istituzioni». Seguito dal ministro Sandro Bondi, oramai aggressivo al punto da sembrare una sorta di generale Stranamore da sala riunioni: «È una vera e propria aberrazione della concezione del diritto e della democrazia – è stato il suo commento scritto -. Siamo di fronte ad una grave intimidazione nei confronti della sovranità del potere democratico e della libera espressione politica da parte di un ordine dello Stato». Ovviamente questo conferma «l’urgenza improcrastinabile di garantire l’assoluta indipendenza e legittimità delle istituzioni democratiche» eccetera. Approfondisce il portavoce del Pdl.
Botta e risposta a colpi di insulti via comunicati stampa tra Sandro Bondi e Donatella Ferranti
Solo che al di là del folklore dei rispettivi tic reciproci – quello butta lì un’enormità, quelli rispondono con qualche inutile rito burocratico – bisogna registrare l’ennesimo ritorno delle batterie di fuoco berlusconiane al tema della, per così dire, infallibilità ex cathedra del presidente del Consiglio, cioè alla contrapposizione tra istituti di garanzia e/o altri poteri dello Stato e la suprema investitura del voto popolare, cui in nessun caso ci si può permettere di fare ombra. Nulla di imprevisto: azione, tempo e luogo della commedia sono le stesse, i dialoghi paiono scolpiti nella pietra.Vale magari solo la pena di sottolineare che il neonato Partito dell’amore, nel giorno del pranzo della concordia tra Fondatore e Co-fondatore, è
Solito anche il balletto delle dichiarazioni di agenzia. Se la democratica Donatella Ferranti sostiene che Bondi «ha perso un’occasione per tacere», il berlusconiano Osvaldo Napoli le ribatte che lei «ha perso un’occasione per pensare». Sobrio come di consueto il commento dell’Idv per bocca di Leoluca Orlando: «Le continue aggressioni di Berlusconi ai magistrati sono un atto di terrorismo istituzionale».
diario
pagina 4 • 15 gennaio 2010
Giravolte. Nuove pressioni su Tremonti. Che al premier avrebbe chiesto prudenza anche per non mettere a rischio il federalismo
Tasse, imprese e Uil rilanciano Galli (Confindustria): un fisco più giusto. Angeletti: un taglio per la ripresa ROMA. L’avrà fatto involontariamente, ma l’ultimo a dare ragione a Giulio Tremonti è stato Jean-Claude Trichet. Che a un’Europa ancora stordita dalla crisi ha intimato: «I Paesi dovrebbero prendere in considerazione eventuali tagli alle tasse soltanto nel medio termine, una volta che abbiano ritrovato sufficienti spazi per manovre di bilancio». Pena un rialzo più veloce del costo del lavoro, che potrebbe svilire una ripresa già debole di suo. Al riguardo ieri, in un convegno a organizzato da Aspen institute e Istat, il vicesegretario dell’Ocse, Pier Carlo Padoan, spiegava: «Il debito italiano, già alto prima della crisi, diventa meno preoccupante di fronte a un aumento più generale che si è registrato in tutto il mondo». Se le istituzioni internazionali o il mondo accademico consigliano prudenza, non è detto che in Italia il dibattito sulle tasse si congeli fino a tempi migliori. Infatti l’argomento rilanciato da Silvio Berlusconi in prospettiva della scadenza amministrativa si sta rivelando un boomerang per il Pdl. Ieri non soltanto il senatore dipietrista Felice Belisario ha stigmatizzato il passo indietro del centro destra. «A meno che la crisi non abbia colpito il nostro Paese negli ultimi due o tre giorni», ha spiegato, «Berlusconi ha, come suo solito, mentito agli italiani e sono 16 anni che promette di diminuire le tasse mentre le aumenta». Con toni diversi segnalano l’impellente necessità
di Francesco Pacifico
za riduzione delle tasse difficilmente l’Italia tornerà a crescere». E questo perché «il livello di pressione fiscale, soprattutto sul lavoro dipendente, è stato il vero fattore che ci ha costretto a una crescita dimezzata rispetto al resto d’Europa». E guai a fargli notare che non ci sono spazi di manovra. Per il leader Uil, oltre a continuare a «perseguire l’evasione fiscale», si possono trovare risorse «anche trasferendo un po’ di carico fiscale dal lavoro dipendente alle rendite finanziarie».
Lo Svimez denuncia che tra il 1999 e il 2007 gli enti locali del Sud hanno aumentato le loro imposte del 25 per cento contro il 16,9 del Centro-Nord di modifiche al fisco anche Confindustria e Uil. Non certo centrali di antiberlusconismo in servizio permanente. Da viale dell’Astronomia il direttore generale Giampaolo Galli ha spiegato che le imprese, «nell’attesa che si creino spazi sul fronte della riduzione della spesa, necessariamente un processo graduale, sono pronte a partecipare alla riflessione volta a rendere più giusto ed efficiente il sistema fiscale». Meno diplomatico il segretario della confederazione di via Lucullo, Luigi Angeletti: «Sen-
Visto il clima, ieri il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi ha provato a stemperare gli animi, annunciando che «la riduzione delle imposte avverrà in maniera progressiva tenendo conto dell’enorme debito pubblico che grava sul nostro Paese e della contestuale ripresa dell’economia mondiale. Manterremo gli impegni presi». Al netto di questi chiarimenti il tema della fiscalità rischia quindi di mettere in crisi il rapporto tra il governo e le parti sociali. E che tanto ha contribuito a contenere gli ef-
«Il vecchio Pil non basta più per fotografare il Paese»
Il ministro confida nel sole ROMA. «Se fossero calcolati il sole, l’ambiente, la cultura, la bellezza, la storia e il clima, l’Italia si troverebbe in una imbarazzante prima posizione». A Giulio Tremonti, si sa, non è mai piaciuto chi vuole contenere la realtà dentro aridi diagrammi e statistiche. E infatti ieri ha ampliato la sua polemica contro gli economisti spiegando che «il vecchio Pil non basta più per fotografare la reale ricchezza e l’effettiva crescita di un Paese». Complice un dibattito organizzato dall’Aspen Institute – “Dietro il prodotto interno lordo: quantità e qualità della crescita”– il ministro è tornato su un tema al quale non hanno saputo dare una risposta Obama o Sarkozy: come misurare meglio il mondo per evitare le storture del passato. Secondo Tremonti «lo sviluppo non può misurarsi solo con parametri quantitativi ma va integrato anche
con indicatori qualitativi in grado di valutare il livello di benessere e felicità’ dei cittadini, di solidarietà e sostenibilità del contesto nel quale essi vivono».
Di più, ha rincarato la dose che «il Pil è stato inventato prima della globalizzazione ma, come dice il nome stesso, perché tutto inizia nella parola, è una entità che raccoglie flussiout ed è tutto incentrato, appunto sulla parola interno». Il riferimento è agli asset delle imprese italiane detenute o denunciate all’estero, sua vecchio pallino come dimostrano lo scudo fiscale oggi e il bilancio globale lanciato nel 2001. «Se andate a una assemblea degli azionisti e chiedete chi è posseduto da una holding italiana, vedrete che saranno in pochi ad alzare la mano. Quasi tutti, invece l’alzeranno se chiederete chi e’ posseduto da una holding straniera».
fetti della congiuntura. Ma l’uscita di Silvio Berlusconi rischia di essere un boomerang anche per Giulio Tremonti, che ha davanti a sè un progetto molto più ambizioso di tagliare tout court le aliquote Irpef o Irap: usare la leva fiscale per riequilibrare poteri e spesa tra centro e periferia dello Stato, responsabilizzando le Regioni che non si sono mostrate molto virtuose. Non a caso, tra i motivi per spingere a un dietrofront il premier, Tremonti non avrebbe citato soltanto le garanzie richieste dai mercati internazionali sui nostri. Gli avrebbe spiegato che non si può pensare di recuperare gettito Irpef dall’Iva, visto che è a questo livello che si annida l’evasione. Eppoi avrebbe anche ricordato che un taglio delle tasse implicherebbe una velocizzazione del federalismo fiscale, riforma che sta molto a cuore a Bossi. E che nello scambio tra trasferimenti e pezzi di fiscalità alcune Regioni potrebbero trovarsi con minori risorse. Proprio per attutire la cosa, il ministro punta a spalmare su una serie di decreti gli interventi necessari per modificare l’impalcatura della fiscalità. La legge delega che ha dato l’avvio a questo percorso prevede che ad alcuni trasferimenti mancati segua la possibilità di ampliare del 2 per cento le addizionali di Irpef e Irap. Non è prevista, come avviene negli altri sistemi federali, la devoluzione del potere d’imposizione fiscale, se non di alcuni imposte come quella sulla circolazione già sotto egida locale. Di conseguenza, e di fronte ai tagli dei trasferimenti, le Regioni non potendo introdurre nuove tasse, non avrebbero alta scelta se non quella di intervenire sulla spesa pur di salvare i servizi. Il che potrebbe avere anche un effetto virtuoso, se non fosse che si rischierebbe un ampliamento nella forbice tra Nord e Sud.
Quindi serve calma e gesso. Anche perché la fiscalità regionale è una variante fondamentale dal punto di vista elettorale. E che sia materia delicata per la politica nazionale lo dimostra, come ha reso noto ieri lo Svimez, il fatto che dal 1999 al 2007 le entrate degli enti locali al Sud sono cresciute del 25 per cento, a fronte di un aumento del 16,9 del Centro-Nord.
diario
15 gennaio 2010 • pagina 5
Quattro ore di protesta il 3 febbraio contro la chiusura
Il capo del rabbinato: «Non sarò in Sinagoga»
Fiat: sciopero del gruppo per salvare la Sicilia
Visita del Papa, polemiche nella comunità ebraica
ROMA. I sindacati dei metalmeccanici del gruppo Fiat Fiom, Fim, Uim e Fismic - hanno deciso uno sciopero di quattro ore per tutti i lavoratori del Gruppo per il prossimo 3 febbraio. La decisione è stata presa contro la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese annunciato dalla Fiat. I progetti del gruppo sul futuro del polo siciliano erano stati ribaditi proprio ieri notte, a Detroit, dall’ammistratore delegato Sergio Marchionne: Termini Imerese «non è in grado di competere» e la decisione di chiudere lo stabilimento siciliano «è irreversibile». Dal palco dell’Automotive News Congress, Marchionne aveva riconfermato la posizione del Lingotto e precisato: la Fiat è un’azienda e ha le responsabilità di un’azienda. Non ha le responsabilità di un governo, è il governo che deve governare. «Siamo il maggiore investitore in Italia, ma non abbiamo la responsabilità di governare il paese».
ROMA. «Rispetto le opinioni differenti, rispetto il rabbino Laras per la sua storia e per la sua dottrina, ma sarà il tempo a decidere chi delle opposte visioni ha avuto ragione». Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, risponde così al rabbino Giuseppe Laras, presidente dell’assemblea rabbinica italiana, che ha annunciato in un’intervista al giornale tedesco Jüdische Allgemeine, la propria assenza alla visita del Papa alla Sinagoga prevista per domenica. «Solo la Chiesa trarrà dei benefici - ha detto Laras -, soprattutto con uno sguardo ai propri ambienti conservatori e potrà usare l’evento per esporre la propria “sincera amicizia”nei confronti
La precisazione era arrivata dopo che una voce di protesta si era alzata dalla platea del convegno affermando: «FiatChrysler una vergogna» per la vertenza dello stabilimento siciliano. Una piccola protesta che ha interrotto l’intervento di
Irlanda su, Grecia giù Le pagelle di Trichet La Bce congela i tassi: la crisi ancora non è passata di Alessandro D’Amato
ROMA. I tassi d’interesse rimangono invariati, e i governi europei dovrebbero rinviare i tagli delle tasse. La prima riunione dell’anno della Banca Centrale Europea permette a Jean Claude Trichet di dire la sua sulla situazione economica del Vecchio Continente, e il presidente da Francoforte ribadisce le sue posizioni improntate al massimo rigore, perché i numeri dicono che la ripresa è ancora debole e non è il momento di abbassare la guardia. Il costo del denaro, per il presidente della Bce, resta «appropriato». Un segnale quindi che la Banca centrale non intende rialzare i tassi d’interesse nel breve periodo. I mercati sono avvisati: né questo mese, e nemmeno nel prossimo si varierà il tasso, visto che la situazione richiede ancora un livello basso e non è ancora venuto il tempo della stretta monetaria che di solito segue i cicli espansivi. Quando sarà il momento? Sull’avvio di una politica monetaria restrittiva per drenare l’enorme massa di liquidità immessa nel sistema per contrastare la crisi finanziaria, Trichet non ha fornito indicazioni chiare. Lo faremo «quando sarà necessario» ha detto. In quest’ambito, ha aggiunto Trichet, il prossimo marzo il Consiglio direttivo potrebbe prendere nuove decisioni. E il riferimento temporale, anche se soltanto accennato, non è poca cosa: dopo due mesi di statistiche, secondo la Bce saremo in grado di poter dire con una buona dose di approssimazione se la ripresa è davvero solida e l’Europa è uscita dalla crisi. In ogni caso, ha precisato, le aspettative sull’inflazione restano ancorate agli obiettivi che la Bce si è data, quindi anche sul versante del costo della vita la situazione è sotto controllo. Ma non nasconde, Trichet, che i governi di Eurolandia dovrebbero «rinviare al medio e lungo termine» qualsiasi ipotesi di taglio delle tasse, attendendo il momento in cui ci sarà lo spazio di manovra che oggi non c’è. Proprio perché «l’economia dell’area euro - ha detto Trichet - sta proseguendo su un percorso di crescita, ma che in parte è alimentato da
fattori temporanei. Per il 2010 il Consiglio si attende un tasso di crescita del Pil moderato, ma con un processo di ripresa diseguale, mentre sulle prospettive permangono incertezze». Non del tutto negative, anzi. Secondo la Bce è anche «possibile che la ripresa si riveli più forte delle attese». Ma sul versante opposto del bilancio dei rischi sono anche «possibili ricadute negative tra finanze e economia reale, aumenti dei prezzi del petrolio o movimenti disordinati dei mercati legati agli squilibri globali». Anche perché «speculazione e finanza sregolata quindi rappresentano ancora una minaccia per la ripresa», e per questo il presidente della Bce ha voluto elogiare il Financial Stability Board (Fsb) guidato da Mario Draghi, nel suo sforzo verso una migliore regolamentazione dei mercati. «Siamo chiamati a riformare il sistema finanziario globale e i problemi da risolvere sono ancora tanti» ha ricordato Trichet che ha anche menzionato il lavoro del Comitato di Basilea definendolo «ottimo» e ha ricordato «l’attiva partecipazione» di tanti esponenti di Banche centrali e Governi alla riforma del sistema finanziario.
Il banchiere europeo ha tessuto l’elogio di Mario Draghi: «Il suo Financial Stability Board ha saputo fissare le regole giuste
Marchionne per alcuni istanti. Un secondo episodio è avvenuto al termine del discorso dell’amministratore delegato di Fiat, quando una ragazza ha accusato Chrysler per la morte della madre. Sia il primo contestatore che la ragazza sono stati allontanati. Ma Marchionne, oltre alle proteste, ha incassato gli applausi e le risate della platea. E anche l’appoggio del sindacato dei metalmeccanici americani, lo United Auto Worker: mentre si apprestava a lasciare la sala, l’ad di Chrysler è stato avvicinato da quattro persone con indosso un giubbotto del Uaw e che, a nome dell’intero sindacato, lo hanno ringraziato per il lavoro che sta svolgendo per il rilancio di Chrysler.
Infine, il presidente della Bce ha voluto entrare nel merito dei singoli paesi: «Alcuni paesi della zona euro, e in particolare uno, devono prendere decisioni molto difficili e molto dure», ha detto, spiegando anche che non è in programma alcun cambiamento, in funzione della Grecia, alle norme che regolano i titoli che le banche possono dare in garanzia per ricevere in cambio liquidità. E comunque non c’è alcun rischio, ha tenuto a sottolineare, che il paese ellenico esca da Eurolandia, anche se adesso si trova di fronte a scelte difficili sulle quali la Bce vigilerà. Elogi, invece, per l’Irlanda: «Le misure prese finora dal governo irlandese per fronteggiare la crisi sono piuttosto notevoli e Dublino sembra aver preso le decisioni giuste». Infine, è pieno, dice Trichet, il sostegno della Bce alla politica del dollaro forte della Fed di Ben Bernanke.
dell’ebraismo». Il capo del rabbinato italiano ha definito «unilaterale» la decisione della Comunità ebraica di Roma di confermare l’invito a Ratzinger dopo la decisione di procedere con la beatificazione di Pio XII. «L’idea di annullarlo - afferma in polemica aperta con Di Segni - era stata salutata in Italia da molti, soprattutto dalle famiglie dei sopravvissuti alla Shoah e da alcuni rabbini»
Oltre alla questione relativa al processo di beatificazione di Pio XII, Laras ha fatto riferimento alla revoca della scomunica del vescovo lefebvriano Richard Williamson. Per il rabbino, la successiva spiegazione «non ha chiarito nulla». «Per questo - spiega - ho deciso di stare lontano dalla visita del Papa». In occasione della visita di Benedetto XVI alla sinagoga di Roma, sul numero straordinario del mensile Shalom edito dalla Comunità ebraica di Roma e che sarà diffuso proprio domenica prossima, è intervenuto lo storico Gadi Luzzatto Vogheram che scrive: «Rimane sospesa la valutazione sul perché della mancanza di una posizione esplicita di Pio XII sullo sterminio degli ebrei, anche quando questo avvenne sotto le sue finestre». Il riferimento è alla razzia del 16 dicembre del 1943.
politica
pagina 6 • 15 gennaio 2010
Etere. Col pretesto di attuare una direttiva europea, sono in arrivo una serie di novità che modificano anche la legge Gasparri
AutoRete di governo
Per dare un colpo a Sky (e fare un favore a Mediaset), l’esecutivo punta a un decreto che modifica i tetti pubblicitari e la tv via internet di Errico Novi
ROMA. Eccesso di delega. Ma anche eccesso di zelo nei confronti di Mediaset. Con un decreto che dovrebbe dare semplicemente attuazione a una direttiva Europea il governo interviene a gamba tesa sul sistema radiotelevisivo. Fino al punto da modificare nei fatti il quadro disegnato dalla legge Gasparri, almeno su una serie di questioni: il tetto televisivo per le tv a pagamento – cioè essenzialmente per Sky – che si abbassa intorno al 12 per cento, con speculare vantaggio assicurato a Mediaset; quindi sulle produzioni indipendenti di cinema e fiction italiani, colpiti a loro volta in modo durissimo e rese dunque impotenti di fronte al colosso della tv commerciale; e visto che la concorrenza del futuro può arrivare dalle nuove tecnologie, il decreto messo a punto dal viceministro alle Comunicazioni Paolo Romani, uomo fidatissimo del Cavaliere, se la prende anche con le web tv, le trasmissioni via internet, vincolate improvvisamente dalle stesse regole previste per la televisione tradizionale.
Sulla piccola rivoluzione di Romani il Parlamento in linea teorica dovrebbe dare un proprio parere. Ma intanto la materia si è fatta assai più ampia rispetto alla delega iniziale: «Dalle 11 righe del testo parlamentare che dà via libera al governo si è passati a un provvedimento di venti commi e quaranta pagine», fa notare infatti il responsabile Comunicazioni del Pd Paolo Gentiloni. Come se non bastasse Romani ha consegnato il suo decreto alla Camera per il previsto parere consultivo con strategico tempismo: lo ha fatto cioè il 18 dicembre scorso, giusto alla vigilia delle feste natalizie, quando cioè la pausa dei lavori parlamentari avrebbe dimezzato i quaranta giorni a disposizione delle commissioni per pronunciarsi sull’argomento. Le opposizioni si mobilitano: in conferenza stampa, insieme con il democratico Gentiloni, si presentano la collega di partito Emilia De Biasi, Antonio Borghesi dell’Italia dei valori e il capogruppo dell’Udc in commissione di Vigilanza Roberto Rao: «È particolarmente significativa la parte che riguarda i siti internet, il solo ramo
Passano dalle sorti “magnifiche e progressive” della Rete all’idea di chiudere Facebook
I politici e il web, un caso di schizofrenia di Andrea Mancia er descrivere il rapporto tra classe politica italiana e Internet si può soltanto ricorrere a concetti presi in prestito dalla letteratura medica. E in particolare da quella branca specialistica della medicina che si occupa della prevenzione, della cura e della riabilitazione dei disturbi mentali: la psichiatria.
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Partiamo dalla schizofrenia. Chi scrive ha ascoltato con le proprie orecchie, dopo le elezioni presidenziali americani del 2008, un numero impressionante di esponenti politici nostrani incensare in modo addirittura eccessivo le sorti “magnifiche e progressive”della rete. I successi obamiani nel fundraising online, la capacità di mobilitazione di strati di popolazione mai coinvolti nelle dinamiche politiche, le potenzialità nella condivisione in tempo reale delle informazioni: tutto, proprio tutto, sembrava precludere a un futuro radioso della politica, alimentato da quella gallina dalle uova d’oro post-moderna che rispondeva (e risponde) al nome di Internet. In realtà, il ruolo svolto dalla rete nel processo politico statunitense era centrale da ormai quasi un decennio. Ed era già esploso alle presidenziali del 2004, quando un manipolo di blog conservatori aveva prima sventato un golpe mediatico della Cbs ai danni di Bush (il cosiddetto “Rathergate”) e poi compromesso definiti-
vamente il nucleo centrale della narrativa alla base della candidatura di Kerry (lo scandalo delle medaglie “immotivate”in Vietnam). Eppure, gli stessi uomini politici che fino a qualche settimana prima si erano allegramente disinteressati al fenomeno, dopo la sbornia obamista planetaria erano improvvisamente diventati guru dei new media e dei social network politici, pronti ad affrontare le insidie della blogosfera proprio nel momento in cui in fenomeno dei blog iniziava la sua parabola discendente. Misteri dell’ipnosi collettiva. Ma i casi di schizofrenia non si fermano qui. Un esempio tra i tanti: fino a qualche settimana fa, se un politico italiano aveva meno di diecimila “amici”su Facebook era considerato un paria tra i suoi colleghi. Dopo l’aggressione a Berlusconi in piazza del Duomo – e la proliferazione di pagine a sostegno del lanciatore psicolabile di souvenir – il social network fondato da Mark Zuckerberg è improvvisamente diventato il corrispettivo telematico dell’anti-Cristo. E si sono moltiplicate le voci dei politici che ne chiedevano la chiusura immediata. Soprattutto a nome dei loro diecimila amici su Facebook.
Oltre alla schizofrenia, poi, c’è la paranoia. Come spiegare, altrimenti, il bizzarro decreto legislativo d’attuazione di una direttiva Ue sul quale ieri il governo ha chiesto un parere (non vincolante) al Parlamento? Secondo alcuni, si tratterebbe del tentativo di trasformare Internet in una grande televisione. Secondo altri, la volontà è quella di mettere una zavorra sulle ali delle web-tv per impedire che possano fare troppa concorrenza alla televisione generalista (se nella definizione sia compresa anche YouTube è controverso, e il testo del provvedimento non aiuta a capire). Qualunque sia l’interpretazione più corretta, resta il fatto che l’istinto di “protezione” a cui si è lasciato andare il governo somiglia terribilmente a un “disturbo delirante” basato su un “tema persecutorio non corrispondente alla realtà”. La paranoia, appunto. Ci sono, infine, i politici che non sono né schizofrenici né paranoici, ma che modulano il loro approccio alla rete seguendo i ritmi della cara, vecchia “ignoranza” (nel senso non-socratico del termine). Ma questo è tutto un altro discorso.
del sistema italiano delle comunicazioni che non ricada sotto la scure dello spoil system e che riesca a sfuggire al conflitto di interessi», dice il deputato del partito di Pier Ferdinando Casini. Il conflitto d’interessi nella fattispecie ritorna prepotentemente in primo piano: «Ai siti che trasmettono in modo non occasionale informazione audiovisiva viene imposto, attraverso un regolamento dell’Authority per le comunicazioni, di attenersi alle norme per il diritto d’autore previste per le piattaforme televisive vere e proprie», spiega Gentiloni, «si prescrive anche di osservare le regole del diritto di rettifica come se si trattasse di un telegiornale della Rai e di sottostare al meccanismo delle autorizzazioni ministeriali come una qualsiasi testata: è chiaro che oggi la tv via internet non ha la forza per impensierire Mediaset, ma tra qualche anno questo potrebbe succedere». Ecco spiegato l’eccesso di zelo.
Il Parlamento, dicono Pd, Udc e Idv, viene usato come una casella postale. Con una lettera inviata al presidente della Camera Gianfranco Fini, dunque, si chiede innanzitutto di accogliere l’eventuale richiesta delle commissioni per un differimento dei termini, in modo da poter svolgere
«È particolarmente significativa la parte che riguarda i siti internet, il solo ramo che riesca a sfuggire al conflitto di interessi», dice Roberto Rao dell’Udc almeno qualche audizione. Non che questo possa bastare a fermare il caterpillar del governo, naturalmente. «E infatti sull’eccesso di delega si pronuncerà quasi certamente il Consiglio di Stato, che ha la possibilità di intervenire entro quaranta giorni dal via libera del Parlamento», spiegano i parlamentari. Con loro c’è anche Beppe Giulietti di articolo 21: «Abbiamo già pronta una mobilitazione estesa a tutti i soggetti colpiti dalle parti della norma che riguardano la rete», dice il deputato. Nella maggioranza qualche fibrillazione c’è, assicura Gentiloni: «Il vicepresidente della commissione Trasporti Luca Barbareschi è intervenuto per dichiararsi d’accordo con noi. Riteniamo che non sia l’unico e che i deputati del Pdl possano aiutarci a portare il caso davanti al Comitato per la legislazione», altro organismo in grado di intervenire in caso di eccesso di delega.
politica
15 gennaio 2010 • pagina 7
Parla Gianpiero D’Alia dell’Udc: «Io proponevo una linea più morbida»
«Così si uccide la libertà d’espressione»
«La virtualità non ammazza nessuno. Non si può sottomettere You Tube alle regole che vincolano le tv» di Ruggiero Capone
ROMA. «Il ministro Maroni si affretta a chiedere rapporti alla polizia postale e a prodigarsi per la chiusura dei siti internet a favore di Tartaglia e contro il Premier, ma avrebbe potuto e dovuto prestare più attenzione alla norma da me proposta in Senato qualche mese fa, che consentiva l’immediato intervento sui contenuti illeciti dei siti internet», con queste parole il presidente dei senatori dell’Udc, Gianpiero D’Alia, stigmatizza come il governo si stia occupando di internet senza coinvolgere il Parlamento. «Quasi che nella rete s’annidi la maggior parte del male - aggiunge l’esponente centrista e che vada estirpato con metodiche dure. Io proponevo mesi fa un approccio più morbido ed efficace». Presidente, lo sa che a molti sa d’utopia una eventuale caccia ai tanti reati di rete? Infatti martedì prossimo porremo la questione in commissione. Il governo dice d’agire in recepimento d’una normativa comunitaria. Ma ciò potrebbe avvenire solo nell’esercizio d’una delega, ma non c’è stata alcuna delega all’esecutivo ad occuparsi di internet in sostituzone del Parlamento. A me sembra che il governo stia lavorando contro con gli operatori del settore. E questo emerge dal fatto che vorrebbero equiparare le piattaforme, sottoporre internet agli stessi vincoli delle tivù. Ieri internet era un fenomeno di nicchia, mentre oggi i navigatori sono tanti... È indubbio che il mercato sia esploso. Ma è insensato che ora un governo tenti di chiuderlo, d’imbrigliarlo. Si tenta d’imbavagliarlo, equiparando internet alle tivù commerciali. Sfugge che il mezzo è diverso da quello televisivo. Limitare internet suonerebbe oggi come una limitazione della libertà. Non certo giustificabile col principio della lotta all’eversione. Una compressione indiscriminata delle opinioni via internet, un controllo spasmodico dei contenuti e per paura degli stessi, spingerebbe chi veramente ha finalità eversive verso forme di latitanza ben più pericolose della rete. La virtualità non ammazza nessuno. E sottomettereYou Tube alle regole che vincolano Rete 4 o Rai Tre ha proprio il sapore d’abnormità. Forse che certe scelte eccessive facciano parte d’un eventuale inasprimento d’un ennesimo pacchetto sicurezza?
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Silvio Berlusconi e Ruperth Murdoch: tra i due continua la guerra per il controllo dell’etere. A destra Gianpiero D’Alia. A sinistra, Maroni
C’è di tutto, nel decreto. Si cancella la norma introdotta dai governi di centrosinistra nel ’98 e nel 2007 sul sostegno alla produzione indipendente di fiction e cinema italiani, che prevedeva una serie di quote di trasmissione e investimento: «Il settore è in grande agitazione», dicono i parlamentari di opposizione. Le quote di trasmissione vengono cancellate dal decreto, quelle di investimento - che restano al 10 per cento, e per la Rai diminuiscono dal 15 per cento, di fatto diminuiscono in quanto calcolate su una base imponibile diversa, ovvero non sul fatturato ma sulla programmazione». Mediaset, che a sua volta produce fiction, ringrazia anche in questo caso. C’è poi la questione dei diritti residuali, sempre per le produzioni nostrane, previsti dal testo unico sulle tv. La norma, oggetto di un regolamento Agcom su cui era stato presentato un ricorso da Mediaset e Sky, verrebbe abrogata. Si limitano gli affollamenti pubblicitari per le emittenti sul satellite e si aumentano per Mediaset: il tetto per gli spot sulle pay tv passa dal 18 al 12 per cento nel 2012, per Mediaset sale dal 6 al 12 per cento. Ancora: si cancella di colpo l’istruttoria Agcom sull’eventuale superamento della quota del 20 per cento di programmi che si possono diffondere con il digitale prevedendo che alcuni canali Mediaset come quelli Premium o i canali ripetuti (con la dicitura “+1 ora”, per esempio) non
rientrano tra i programmi da conteggiare nella quota del 20 per cento. Fino alla ciliegina sulla torta del giro di vite per internet. Martedì è convocato l’ufficio di presidenza delle commissioni Trasporti e Cultura alla Camera, per definire il calendario delle audizioni: i due presidenti, Mario Valducci e Valentina Aprea, si sono detti disponibili. «Chiediamo al governo di ritirare quelle parti della legge delega che non hanno attinenza e quelle che sono in contrasto con la direttiva dell’Ue. Con questo provvedimento si sfrutta la stessa direttiva per avvantaggiare Mediaset e colpire tutti gli altri potenziali concorrenti», insiste Rao. Il viceministro Romani si affretta a dire che non è d’accordo e che l’errata valutazione nasce da un equivoco sul “product placement”. Nessuna parola sulla possibilità che almeno il Parlamento approfondisca un po’ la questione e sull’evidente vantaggio consegnato a Mediaset, né sulle restrizioni alle web tv che sanno tanto di oscuramento da Repubblica popolare: «Se è giusto tutelare la privacy, la dignità e i diritti di tutti è però intollerabile un intervento a gamba tesa che limiti la libertà della rete, sostanzialmente assimilandola alla televisione», dice ancora il capogruppo dell’Udc in Vigilanza. Certo i primi segnali dell’Esecutivo non annunciano schiarite, e anche stavolta il solo appiglio possibile è in una presa di posizione netta del presidente della Camera.
Il pacchetto sicurezza aveva il suo scopo come contrasto al crimine, non discuto. C’era uno scopo, e contrastare il crimine anche via internet è cosa buona e giusta. Ma il Governo non può minimamente pensare di controllare la rete. Basterebbe concentrare le forze solo contro i siti che commercializzano merce in evidente violazione delle leggi o che vendono esseri umani od invogliano alla pedofilia. Ma controllare milioni di canali informativi su internet è impensabile ed inaccettabile, vorrebbe dire ammazzare la libertà d’opinione. E Facebook è un femomeno reale? Su Facebook oggi si inneggia a Tartaglia, ieri erano apparse pagine in favore a Riina, Provenzano e criminali di questo tipo. Se la maggioranza non avesse deciso di abrogare il mio provvedimento non saremmo in questa incresciosa situazione. La rete senza la mia norma non è più libera ma al contrario più incline ad ospitare grandi e piccoli delinquenti organizzati, che esortano ad uccidere o incitano impunemente all’odio razziale, alla violenza sessuale anche omofobica. Faccio i miei complimenti a questa maggioranza, ai libertari di destra e di sinistra, che prima in ossequio ad un non meglio precisato diritto di libertà hanno lasciato la rete senza controllo, mentre oggi pensano di poterla totalmente imprigionare. Modus in rebus. Ci vuole misura, moderazione. Io proponevo di procedere per delitti di istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi, ovvero per delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da altre disposizioni penali. Specie quando sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che alcuno compia detta attività di apologia o di istigazione in via telematica sulla rete. il Ministro dell’Interno, in seguito a comunicazione dell’autorità giudiziaria, avrebbe potuto disporre con proprio decreto l’interruzione della attività, ordinando ai fornitori di connettività alla rete di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio. Ed ora che farete? Si spera che con i parlamentari Gentiloni, Emilia De Biase del Pd, Roberto Rao dell’Udc, Antonio Borghesi dell’Idv e Giuseppe Giulietti di Articolo 21 si possa bloccare l’inutile censura totale alla rete.
Contrastare il crimine online è giusto. Ma come può, il governo, soltanto pensare di controllare milioni di canali
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Internet. Il guru dell’informatica (e fondatore del MediaLab al Mit) ci parla di Google, di censura e soprattutto di futuro
«Così internet ci salverà» Nicholas Negroponte: «Esistono solo limiti temporanei: la Rete ci porterà verso la pace. Rivoluzione con la fusione tra digitale e biotecnologie» di Pierre Chiartano
ROMA. Nicholas Negroponte nel 1994 aveva scritto Being Digital non un libro sul futuro del mondo, ma una finestre sulle possibilità che avrebbero fornito le nuove tecnonologie: internet per prima. Nel 1980 aveva fondato il MediaLab, preso il Massachusetts instute of tecnology di Boston, dove aveva raccolto le migliori menti che però non erano ruscite ad inserirsi nei filoni della ricerca canonica. È stato professore a Yale e Berkeley ed è fratello del diplomatico John Negroponte, già Director of national intelligence. Ospite del Festival della Scienza di Roma ha risposto a liberal sul rapporto tra la rete, la democrazia e la possibilità di raggiungere un futuro di pace. Ma soprattutto è entrato nell’argomento del giorno: come la censura sul web, come accade in Cina, possa ledere non solo la libertà su internet ma tout court il concetto di libertà d’espressione. Cosa ne pensa dello scontro tra Google e la Cina; il motore di ricerca più famoso del mondo vorrebbe abbandonare il Paese a causa della censura e del mancato rispetto dei diritti intellettuali. Il libero accesso a Internet può essere considerato come un nuovo diritto da garantire universalmente? Spesso ho la tendenza a voler risolvere tutti i problemi in una volta. La censura in Cina è un problema, molto sentito, ma non è importante. Meglio subire una censura dei contenuti di internet che non avere accesso alla rete. I giovani sono in grado di aggirare la censura in qualche maniera. E comunque ci sono tutte le altre informazioni disponibili. Penso che Google abbia le sue ragioni, ma è un argomento controverso. Forse i tempi scelti sono sbagliati, poi si è aggiunta la vicenda degli hacker. Ad ogni modo, ritengo che il peso, la responsabilità morale non debba ricadere interamente su internet. E come il paragone che faccio spesso tra il terrorismo e i telefoni cellulari. Questi vengono usati “anche” dai terroristi, ma dobbiamo fare in modo che le forze del bene prevalgano. Sono convinto che Il diritto alla connessione in rete dovrebbe essere considerato alla stregua degli altri diritti umani.
Il magazine Wired candida la Rete al Nobel per la pace
World Wide Peace nternet è stata candidata per il prossimo Premio Nobel per la Pace. Perché «è senza alcun dubbio un buon modo per sprecare il proprio tempo, ma è sempre di più uno degli strumenti più potenti proprio per ottenere la pace». La proposta è stata lanciata dal magazine Wired, il cui direttore Riccardo Luna spiega: «La Rete può essere considerata la prima arma di costruzione di massa, indirizzata a distruggere odio e conflitti per propagandare al loro posto pace e democrazia». Secondo il direttore, «quello che è successo in Iran durante e dopo le ultime elezioni presidenziali, e il ruolo che la Rete ha giocato nel diffondere informazioni che altrimenti sarebbero state censurate, sono soltanto l’esempio più recente di come sia questo il vero strumento per la pace globale». Per portare avanti l’idea, il giornale ha lanciato un sito web e sta curando la raccolta di firme necessarie per presentare il progetto al comitato di Stoccolma che que-
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st’anno ha premiato Barack Obama. La prima firmataria è Shirin Ebadi, attivista iraniana per i diritti umani già vincitrice del Nobel nel 2003. Fra gli altri ci sono il professore italiano Umberto Veronesi e lo stilista Giorgio Armani. Secondo la Ebadi, «Internet viene usata per propagare guerra e terrorismo, come dimostra chiaramente il proselitismo compiuto dai talebani. Ma le ultime prove, quelle relative alle rivolte di Teheran, sovrastano ogni dubbio in merito. Non è un caso che il procuratore generale del regime abbia accusato come prima cosa Google, Facebook e Twitter per quanto sta accadendo nel Paese». Il comunicato integrale della proposta, che verrà tradotto in dodici lingue, si trova sul sito del magazine e recita: «C’è voluto del tempo, ma alla fine siamo riusciti a comprendere che Internet è molto più che una rete globale composta da computer. Si tratta in realtà di un’infinita rete di persone. Uomini e donne che vivono in ogni angolo del globo, che si connettono uno con l’altro, grazie alla più grande interfaccia sociale mai conosciuta dall’umanità. La cultura digitale ha permesso la fondazione di un nuovo tipo di società. E questa società sta portando avanti il dialogo, il dibattito e il consenso tramite la comunicazione. Perché la democrazia è sempre fiorita laddove sussistono apertura mentale, accettazione, discussione e partecipazione. E tenersi in contatto con gli altri è sempre stato il miglior antidoto contro l’odio e il conflitto. Per tutti questi motivi, Internet è uno strumento di pace e per la pace. Ed ecco perché chiunque usi Internet può piantare i semi della non violenza. Infine, è per questo che il prossimo Nobel per la Pace dovrebbe andare alla Rete. Un Nobel dedicato ad ognuno di noi».
Professore le si è fatto ambasciatore del premio della pace a internet. Anche nel caso di catastrofi naturali come il terremoto ad Haiti c’è stata una mobilitazione sulla rete. Ma è utilizzata anche dal terrorismo internazionale per reclutare e addestrare alla violenza. Il web sta diventando il principale motore dei cambiamenti globali – nel bene nel
male – anche nei più remoti angoli della terra? C’è un numero enorme di persone che vivono isolate e senza istruzione, molti di questi sono suscettibili alla propaganda del terrorismo. Qui si generano i pericoli che ben conosciamo. Credo che l’istruzione e la fine dell’isolamento siano la chiave principale per il raggiungimento della pace. E internet ha il vantaggio di limitare, se non eliminare questi due fenomeni. Ad esempio guardando alla tragedia di Haiti ho ricevuto le notizie in tempo reale, tramite Twitter. Ciò dimostra come l’interazione sia sempre più importante. Proprio per il superamento del digital divide tra Primo e Terzo mondo aveva lanciato il progetto One laptop per child... Credo proprio che questo progetto – un computer per ogni bambino – sia proprio l’esempio migliore. È stato costruito un pc che non ha bisogno di elettricità, che resiste alla pioggia e può essere utilizzato in condizioni difficili. E quindi si può usare dovunque nel mondo. Oramai ce ne sono quasi due milioni in giro. Facciamo l’esempio del Perù, dove questo tipo di computer è stato distribuito nei villaggi più remoti, dove la popolazione neanche parla lo spagnolo, ma solo le lingue locali. Sono i bambini che stanno alfabetizzando i genitori, diventano quindi agenti del cambiamento. Ripongo la mia speranza di pace proprio in questa funzione dei bambini come educatori e formatori. C’è qualche sua previsione fatta nel sua pubblicazione più famosa negli anni Novanta che non si è realizzata? Il mio libro Being Digital non voleva essere un libro di futurologia. L’avevo concepito come una specie di diario di viaggio. Ho voluto scrivere, prendere appunti sui luoghi che visitavo. In quel periodo si trattava di previsioni su fenomeni che stavano già prendendo piede, su cui però si poteva ancora incidere, modificarli, correggerli. Ciò che invece è stato sorprendente è stata la velocità che ha caratterizzato il fenomeno, i rapidi cambiamenti che hanno provocato. Sicuramente avevamo previsto un utilizzo di internet orientato al consumatore, ma non a una velocità così incredibile. Ciò è successo anche perché alcune infrastrutture che regolavano l’uso della rete si sono semplificate. Se pensiamo alle barriere crollate tra la telefonia mobile e il web, ciò ha creato un impatto più forte e con una velocità non prevedibile. Cosa vede allora per il futuro, cisarà la fusione tra infromatica e biotecnologie? Per i prossimi anni non credo che l’impatto della tecnologia non sarà soltanto nel campo digitale, ma ci sarà una sorta di commistione tra le biotecnologie e quelle legate all’informatica che avrà una forte
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La facciata degli uffici cinesi del colosso informatico Google a Pechino. Il gigante di Mountain View ha la propria sede nel Parco Tsinghua delle Scienze. Nella pagina a fianco, lo scienziato della Rete e filosofo Nicholas Negroponte
Mettete dei fiori nei vostri pc I dissidenti cinesi portano gigli e crisantemi davanti agli uffici di Pechino di Google di Vincenzo Faccioli Pintozzi iori deposti davanti agli uffici e candele accese come per una veglia: è il modo scelto dagli utenti di Internet in Cina per sostenere la posizione di Google, che ha minacciato Pechino di lasciare il Paese se non si ferma la campagna di censura e di spionaggio contro i dissidenti che usano la rete per comunicare con il mondo. Una delle guardie di sicurezza del Parco della scienza di Tsinghua, dove si trova la sede del gigante informatico americano, racconta che la giornata di ieri è stata “la più impegnativa” mai avuta. Davanti agli uffici infatti hanno continuato ad accumularsi fiori posati dagli internauti che, in alcuni casi, hanno cercato persino di entrare nell’edificio. La proposta di portare fiori è stata lanciata da un utente di Twitter, il popolarissimo mezzo di comunicazione online che si è già dimostrato fondamentale per la rivolta dell’Onda verde in Iran.
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Due studenti universitari , che hanno portato dei crisantemi, raccontano: «Siamo qui perché sosteniamo la protesta di Google contro la censura. Ma siamo una minoranza: molti nostri compagni pensano che sia una manovra dell’imperialismo americano». Compatto invece il gruppo dei dissidenti cinesi, che appoggia le dichiarazioni del gruppo di Mountain View. L’attivista Mo Zhixu ha portato un bouquet di gigli: «Me lo hanno suggerito degli amici su Twitter. Questi fiori, infatti, significano persistenza. Ma sono dispiaciuto per Google e triste per quanto sta succericaduta sociale. Lo scenario sarà diverso da come lo vediamo oggi. Internet all’inizio era una rivoluzione, poi è diventato parte della nostre abitudini e della nostra cultura. Nel futuro leggo un’altra rivoluzione che cambierà ancora il nostro modo di vivere e i rapporti tra le persone. Tutto questo sarà sempre qualcosa che scaturirà dal web.
dendo. La chiusura di Google China significa meno scelta per gli utenti». Ma questo, sottolinea ancora Mo, «vale soltanto per il breve periodo. Sul lungo, infatti, si tratta di una buona decisione: dobbiamo essere in linea con i nostri principi e proteggere la libertà di parola». Zeng Jinyan, moglie del noto attivista Hu Jia, dice: «Ho fatto una veglia a favore della compagnia americana e ho preparato delle cartoline a sostegno». Una delle cartoline recita “Nessuna censura politica, nessuna cooperazione con i poteri autocratici”, mentre un’altra dice “Libertà per gli utenti internet, liberate Hu Jia”. In ogni caso, il governo ha tenuto la rete sotto controllo e ha censurato ogni discussione sull’argomento: Netease e Sina, grandi motori di ricerca cinesi, sono state costrette a chiudere le proprie pagine dedicate all’argomento. Pechino, dal canto suo, difende le operazioni di censura. La portavoce governativa Jang Yu oggi ha annunciato la versione ufficiale dell’esecutivo guidato da Wen Jiabao: «Le imprese straniere sono le benvenute su internet se agiscono in accordo con la legge cinese». Il ministro dell’Ufficio informazioni del consiglio di Stato, Wang Chen, ha aggiunto che «pornografia online, frodi e pettegolezzi rappresentano una minaccia». E ha aggiunto che «i media su Internet devono
contribuire a guidare l’opinione pubblica in Cina», che conta il maggior numero al mondo di utenti Web, attualmente a quota 360 milioni. E quindi, dopo l’importanza del fenomeno Twitter nel corso della rivoluzione dell’Onda verde in Iran, torna prepotente il dibattito sulla rilevanza della Rete nel corso dello sviluppo sociale e politico di un Paese. La circolazione delle idee e le opportunità di incontro – per quanto non reali – offerte da Internet sono infatti malviste soltanto dai regimi. Il potenziale devastante che hanno le idee spaventa particolarmente Pechino, che ha un territorio troppo vasto per potere essere controllato in maniera capillare dalla pubblica sicurezza o dall’esercito. In ogni caso, la posizione di Google appare fuori tempo massimo e forse anche ipocrita: insieme a Yahoo!, i due giganti del web sono stati più volte accusati di aver collaborato con il regime a scapito dei dissidenti. Particolarmente grave il caso di Shi Tao, giornalista condannato nel 2007 da una Corte cinese proprio grazie alle informazioni ottenute da Yahoo!. Il gigante informatico ha risposto alle accuse insistendo sulla necessità di operare in accordo alle leggi di ogni Stato in cui venga usato il sistema, ma ha riconosciuto che la sua collaborazione con il governo cinese ha permesso arre-
Secondo Wei Jingsheng, la minaccia del colosso informatico «mostra della morale a un Paese che non ne ha»
Qualcuno afferma che il web abbia fallito come foro democratico di discussione. Molti accusano la rete di essere diventata solo un rumore di fondo dell’informazione, dove non esistono regole e un’etica del dialogo civile. Cosa ne pensa? Sicuramente internet è un luogo privilegiato per la discussione, un contenitore
di opinioni molteplici, che da voce anche alle minoranze. Credo sia ancora un mezzo potente, come era all’inizio. Solo è diventato più rumoroso. Si sente anche negli Usa l’esigenza di tornare a un dibattito più tranquillo e sereno, tra persone con lo stesso background, magari esperti sull’argomento che trattano. Persone con cui si possa comunicare senza
sti e detenzioni arbitrarie. In un documento, il gruppo ha affermato di voler rispettare la privacy dei propri utenti ed ha chiesto tempo «per poter trovare un modo di operare nel campo senza infrangere i principi etici». Oltre alla denuncia contro Yahoo!, nel mirino delle organizzazioni per i diritti umani vi sono da tempo anche altre aziende che operano nel campo della Rete.
Fra queste la Microsoft, che su richiesta di Pechino ha chiuso un popolare sito Internet che trattava di temi “sensibili” come la democrazia, e lo stesso Google, che offre una versione censurata del suo motore di ricerca. Certo, alcuni dissidenti sono disposti a sorvolare sul collaborazionismo del gigante di Mountain View per continuare ad utilizzare i servizi di Google. Fonti cinesi di liberal spiegano che, pur censurato, «il motore di ricerca è molto importante per noi. Ha una mentalità occidentale, che i siti nati e sviluppati in Cina non hanno. Se saranno costretti a chiudere, perderemo uno strumento prezioso». Wei Jingsheng, il “padre” del muro della democrazia di Pechino, non è d’accordo e spiega: «Finalmente un grosso commercio come quello relativo a Internet fa emergere un po’ di coscienza… Alcune compagnie occidentali hanno pensato che facendo compromessi con il regime comunista cinese avrebbero potuto commerciare in pace. Ma questo è impossibile perché il governo cinese è insaziabile». troppe barriere linguistiche. La rete è rumorosa, ma questo rumore è anche la chiave per lo sviluppo, sempre legato all’istruzione. Dentro questo rumore di fondo c’è anche la verità che ci serve per progredire. Il web è strategico per la diffusione dell’istruzione e quest’ultima è uno strumento fondamentale nel processo verso la pace.
panorama
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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Maradona, se l’evasore perde l’orecchino iego Armando Maradona: un nome, una garanzia. Di cosa? Di soldi. L’orecchino che la guardia di finanza ed Equitalia gli avevano sequestrato e pignorato a settembre dello scorso anno a Merano - Maradona si trovava da quelle parti per una cura dimagrante - è stato venduto per 25 mila euro in un’asta pubblica a Bolzano. Venticinquemila euro non sono pochi, ma visto che il brillante brillava sul lobo di uno dei calciatori più forti di tutti i tempi, forse, ci si attendeva una quotazione più ricca. Anche perché i 25 mila euro sono soltanto un piccolissimo acconto del credito di 37 milioni vantato dallo Stato. Come farà lo Stato a recuperare gli altri 37 milioni di euro che avanza da Diego Armando Maradona se il fuoriclasse argentino non è proprietario di alcunché o almeno così pare? Quando fu fermato a Merano non aveva con sé niente di niente e l’unica cosa che gli trovarono indosso fu, appunto, l’orecchino. Pare che Maradona un po’ si sia stupito della richiesta degli agenti della Guardia di Finanza: “Allora, faccia una cosa, ci dia l’orecchino”. Tuttavia, non c’era altro da fare che posare il brillante come pegno che, non essendo stato riscattato, è finito all’asta di Bolzano. A vincere l’asta è stata una signora che non ha voluto dire né il proprio nome, né il luogo di provenienza.
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La donna, con accento meridionale, si è limitata a dire di essere «soddisfatta del risultato raggiunto». Altro non ha aggiunto, nemmeno se sia una tifosa del Pibe de Oro. Inseguita da una folla di giornalisti, fotografi e cineoperatori la donna, protetta da un robusto guardia-spalle, si è eclissata scomparendo all’interno di un ascensore dell’albergo bolzanino dove si è svolta l’asta. La gara si è svolta praticamente a due, tra la donna che poi se l’è aggiudicata ed un altro offerente che rilanciava dopo avere ottenuto indicazioni con il cellulare. Grande delusione, invece, per Fabrizio Miccoli, che sognava il gioiello di brillanti. Miccoli non ha mai nascosto la sua ammirazione per il numero 10 dell’Argentina e del Napoli. Tanto da essere soprannominato «Il Maradona del Salento» o «Il Pibe di Nardò».
I 37 milioni di euro che il fisco italiano vuole riscuotere da Maradona non potrebbero essere incassati in altra natura? Visto che Maradona, come sembra, è un nullatenente e che tutti i suoi beni patrimoniali sono intestati a parenti, amici e suoi collaboratori, forse si potrebbe esigere da Diego un pagamento calcistico. Certo, Maradona non è più quel gran giocatore di calcio che fu; come allenatore non sembra che sia neanche lontanamente paragonabile a ciò che fu come giocatore. È difficile dunque immaginare un pagamento calcistico. Per ripianare il suo debito con l’Italia Maradona potrebbe accettare di essere ambasciatore, a nome dell’Italia, dei diritti dei bambini di tutto il mondo a giocare a calcio, anzi, a pallone su campi in erba o in terra battuta che li sottraggano alle guerre, alla violenza, al degrado.
D’Alema e Bersani, l’idillio è già finito Le candidature per le Regionali dividono i due leader di Antonio Funiciello n principio fu la gestione plurale: D’Alema e i suoi non la vedevano di buon occhio e al ”loro” Bersani lo fecero notare subito: d’accordo aprire alle minoranze sugli incarichi di lavoro, ma nei ruoli di direzione neppure a parlarne. Tutto ciò accedeva neppure due mesi fa, ma oggi, col clima di sospetto che accompagna il Pd verso le regionali, sembra già un secolo fa. Bersani filò dritto per la sua strada offrendo a Franceschini, suo competitor alle primarie, il posto più importante del capogruppo alla Camera. Il ragionamento dei dalemiani, d’altra parte, non faceva una grinza: la gestione plurale (cioè, unitaria) è come un governo di unità nazionale, si fa quando sei in guerra; ma tu (Bersani) la guerra l’hai vinta, quindi fare la gestione plurale significa ammettere che non ti senti vincitore di una guerra che c’è stata e che noi (dalemiani) abbiamo combattuto per te (Bersani) in prima fila. Ineccepibile. Eppure i professionisti che dovevano riprendere in mano il partito, si sono ritrovati, tra caminetto, segreteria, forum e gruppi parlamentari, un’infinità di gente con cui proprio non credevano di dover fare i conti.
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contro l’immarcescibile Boccia. E gli ex Ds pugliesi sono in gran parte dalemiani fino al midollo. Ed ecco individuato il capro espiatorio del bel Tavoliere.
Tuttavia le rimostranze dei dalemiani non finiscono certo qui. Prendiamo l’Umbria. Bersani, in coerenza con la sua gestione plurale, l’avrebbe volentieri data alla minoranza interna, sostituendo la dalemiana Lorenzetti con il veltroniano Agostini, ex tesoriere Pd. Dopo tutto, avendo vicini i due futuri presidenti di Emilia Romagna (Vasco Errani) e Toscana (Enrico Rossi, per dieci anni potentissimo assessore regionale alla Sanità), a Bersani non pareva proprio il caso di impiccarsi all’Umbria. Apriti cielo. I dalemiani sono andati su tutte le furie, in testa il capo della segreteria bersaniana Migliavacca, rilanciando la Lorenzetti. Anche se la stessa, a norma di statuto umbro, non potrebbe proprio ricandidarsi, né partecipare alle primarie. Naturalmente pretendere di far rispettare le regole statutarie in Umbria, mentre nel resto d’Italia ognuno si barcamena come può, non è proprio possibile. Risultato: stallo in Umbria. Una regione storica, una roccaforte, dove però alle europee dello scorso Giugno, il Pdl è risultato clamorosamente primo partito (35,7%) sul Pd (33,9%). Solo la balbuzie del Pdl oggi dà ancora un vantaggio iniziale al Pd, che ancora controlla tutte le principali amministrazioni locali, tra regione, province e capoluoghi.
Due sono i casi più spinosi: in Puglia e in Umbria i fedelissimi dell’ex premier hanno trovato l’opposizione del segretario
Oggi lo scontro tra dalemiani e Bersani prende plasticamente corpo nelle due situazioni più critiche, Lazio e Puglia, in un contesto di grave criticità generale. D’Alema coi radicali non è mai andato d’accordo e, difatti, è oggetto, su Radio Radicale, degli strali quotidiani di Pannella al pari - se non più - di Berlusconi. Non è vero che i dalemiani tengono per la Polverini, ma avrebbero voluto estendere il laboratorio pugliese anche al Lazio, offrendo all’Udc la candidatura alla presidenza e ricalibrando al centro la coalizione regionale. Queste le indicazioni che erano state date al neo segretario regionale Mazzoli, delfino del dalemissimo Sposetti, ex tesoriere diessino. Ma Bersani si è messo di mezzo, col mandato esplorativo a Zingaretti, nella speranza che il presidente della provincia romana si sacrificasse per il bene della causa. Ma se i dalemiani rimproverano a Bersani il flop dell’esplorazione laziale, dal Nazareno arrivano frecciate contro quella pugliese gestita da D’Alema. Il problema della Puglia è molto più semplice di quanto non si creda: metà ex Ds nel Pd sta con Vendola, così come cinque anni fa nelle primarie che lo videro vincitore
Non bastasse quanto detto e quanto accade nelle altre regioni, i dalemiani storcono il naso anche per la vicenda Copasir. Si sa che D’Alema ci tiene parecchio e la manfrina andata in scena con la ricerca di qualcuno che in commissione si dimettesse per fargli posto, permettendogli di essere eletto presidente a stretto giro, ha fatto mugugnare più d’uno. Designato per le dimissioni il fassiniano Fiano (candidato segretario regionale nettamente sconfitto in Lombardia), la sua disponibilità era stata anticipata ai media. Ma il designato, parecchio piccato, ha fatto sapere a mezzo stampa che sarebbe stato lui a comunicare quando si sarebbe dimesso. Cosa che è accaduta solo allorché al Nazareno si sono inventati l’ennesimo forum (sulla sicurezza) per cui nominarlo responsabile. Piccole beghe in cui è noto quanto D’Alema detesti finire.
panorama
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A dieci anni dalla morte dell’uomo che finì per pagare per il suo sogno di una sinistra europea e non comunista
Craxi, né Santo né Bandito Il leader socialista aveva obiettivi giusti ma sbagliò il metodo per raggiungerli di Rocco Buttiglione hi era veramente Bettino Craxi? Un ladro di pubblico denaro come dicono i suoi avversari e come risulta anche da una sentenza passata in giudicato oppure un grande uomo politico abbattuto da una vile congiura dei suoi nemici? Forse né l’una né l’altra cosa. Bettino Craxi è un uomo politico italiano che ha concepito un grande disegno ed è giunto assai vicino a realizzarlo. Era il disegno di una sinistra riformista, moderna, europea, capace di competere con la Democrazia cristiana per il governo del paese realizzando in tal modo anche in Italia un sistema politico di tipo europeo. Craxi, d’altro canto, non fu certo scrupoloso nella scelta dei mezzi per realizzare questo disegno e ciò lo espose ad accuse e critiche giustificate. È però necessario non dimenticare che i mezzi utilizzati da Craxi erano quelli con i quali si faceva politica nel tempo suo e che molti di quelli che lo hanno accusato portano sulla loro coscienza pesi più gravi senza nemmeno un grande disegno per il bene del paese a giustificarli.
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non avevano alternativa alla scelta di alleanza con il partito democristiano; dovevano però stare in questa alleanza rendendo visibile la loro continua tensione a rappresentare le ragioni di tutta la sinistra e a creare le condizioni per rimandare la Dc all’opposizione e per arrivare ad un governo della sinistra. Questo implicava naturalmente una lotta su due fronti: contro la Dc e contro i comunisti. Si trattava di introdurre uno scontro per la conquista della egemonia sulla sinistra. Non era soltanto uno scontro con il Partito comunista. Era anche uno scontro con il massimalismo e con l’azionismo che hanno segnato la storia di tutta la sinistra italiana. I socialisti sono sempre stati massimalisti. Il massimalismo è un modo di pensare la politica pri-
ma di tutto come espressione e rivendicazione. Bisogna portare in Parlamento i dolori la rabbia, le rivendicazioni del popolo lavoratore. Bisogna fare in modo che esso si senta adeguatamente espresso dai suoi rappresentanti. Il riformismo è un’altra cultura politica: vuole parlare al cuore del popolo ma vuole soprattutto trovare soluzioni che migliori effettivamente le condizioni di vita delle classi lavoratrici. La ricerca della soluzione prevale sulla preoccupazione di esprimere il cuore del popolo. L’altro avversario di Craxi nella sinistra era l’azionismo. Indichiamo con la parola azionismo l’idea che comunismo e liberaldemocrazia dovessero essere superati in una sintesi più ampia e che questa sintesi dovesse realizzarsi in Italia. Nella visione di Craxi non c’era nessuna sintesi superiore, c’era il fatto che i comunisti avevano torto e i socialisti avevano ragione e che quindi i comunisti avrebbero dovuto dissolversi o, quanto meno sottomettersi alla guida ideale dei socialisti.
Fin qui le luci: un disegno politico di cui è difficile negare che fosse complessivamente per il bene dell’Italia. Le ombre riguardano il metodo. Era un tempo in cui per fare politica era necessario disporre di molti denari. I comunisti i denari li ricevevano dall’Unione Sovietica e molti personaggi che, a differenza di Craxi, hanno chiuso onorevolmente la loro carriere politica in Parlamento hanno preso i soldi dell’Unione Sovietica per finan-
Craxi portò i socialisti dentro una alleanza competitiva con i democristiani. Egli riteneva che socialisti e democristiani dovessero essere alternativi, come negli altri paesi europei. In Italia questo non era possibile perché una gran parte dell’elettorato di sinistra era congelata nelle mani dei comunisti e resa quindi incapace di governare. I socialisti, allora,
ziare una politica contraria ai migliori interessi dell’Italia. I democristiani, per mantenere un partito pesante capace di contrastare il partito comunista, ricorrevano ad ogni mezzo. È da qui che deriva il sistema delle tangenti. In quel sistema al tempo di Craxi i socialisti si fecero spazio con grande rigore. Lo condivisero, lo estesero, lo approfondirono. Nell’89 il crollo del comunismo sembrò dare ragione alla politica di Craxi. Lui però non capì che, fuori dal clima della guerra fredda , il paese non avrebbe più sopportato il sistema della corruzione generalizzata. Avrebbe dovuto essere lui a denunciarlo e a spiegarlo e a chiuderlo con una amnistia che coprisse il passato e leggi nuove , severe per un trasparente finanziamento dei partiti a regolare il futuro. Invece socialisti e democristiani fecero una amnistia che copriva chi avesse preso denaro da potenze straniere, cioè i comunisti. Sarebbe però stato giusto contemporaneamente dare una amnistia a chi aveva preso i soldi delle tangenti in una situazione di necessità per poter finanziare grandi partiti capaci di opporsi ala partito comunista. Questo Craxi non fece ed è così che gli mandarono a casa i carabinieri e si trovò lui da solo a pagare per un sistema di cui non era l’unico ne il primo responsabile. Se non è vero che il fine giustifica i mezzi è pur vero che Craxi ha pagato in realtà non per le sue colpe ma per i suoi meriti. Ha pagato per il sogno di una sinistra europea e non comunista.
Polemiche. Il sì alla riforma passa attraverso il no all’interruzione della gravidanza
Obama, o l’aborto o la sanità di Luca Volontè a battaglia da vincere per l’approvazione della Riforma Sanitaria di Obama passa, indubitabilmente, dal finanziamento federale per l’aborto. Il Washington Post, nell’ultima settimana con un proprio editoriale, non ha usato mezzi termini per definire la Riforma Obama, una legge di «assistenza sanitaria socialista». Ora le pressioni sono rivolte alla Camera dei Rappresentanti, dove si dovranno trovare le mediazioni tra i due differenti testi approvati prima di Natale, tra quello dei Rappresentanti e quello del Senato. Undici dei democratici che hanno votato per la versione Casa Bianca del disegno di legge di assistenza sanitaria hanno ripetutamente dichiarato che lo hanno fatto solo perché il disegno di legge conteneva un linguaggio chiaro di divieto dell’uso dei fondi dei contribuenti per sostenere l’aborto. Tuttavia, per tutelare il proprio voto ed essere trasparenti con i propri elettori, questi 11 deputati hanno ribadito che non potranno «soste-
L
nere ogni proposta di riforma sanitaria a meno che non escluda esplicitamente l’aborto dal campo di applicazione delle sovvenzioni previste dal piano di assicurazione sanitaria».
Oltre ai democratici, c’è anche un solo repubblicano che ha votato alla Camera la Proposta Obama, si tratta di Anh “Joseph” Cao, che ora vi si oppor-
pubblico all’aborto è compreso nella proposta che proviene dal Senato), mettono ora in forte discussione l’approvazione finale della riforma. C’è da ricordare che ventidue dei 38 democratici che hanno votato contro il disegno di legge di assistenza sanitaria alla Camera hanno invece votato a favore dell’emendamento Stupak-Pitts, che vietava l’uso di fondi pubblici dei contribuenti per pagare per gli aborti. Queste 38 persone possono fare la differenza, pro o contro una Riforma che si gioca sempre più sul finanziamento pubblico all’aborto. Ora Obama e i suoi Democratici sono di fronte ad una decisione capitale, la Riforma passerà solo senza il finanziamento pubblico dell’aborto oppure non c’è chance per l’intero impianto.
Sono ben trentotto i democratici che hanno avvertito Washington: nessuno scambio sul diritto alla vita rebbe se non ci fosse un divieto del governo al finanziamento degli aborti. Il disegno di legge sulla riforma sanitaria, voluto dalla Casa Bianca, venne approvato con un leggerissimo margine alla Camera, 220 a 215. Gli 11 membri democratici e Mr. Cao, con il loro impegno di voto condizionato (il finanziamento
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giro di boa del secondo decennio appena iniziato, il terremoto di Haiti rischia di essere la più grande catastrofe del XXI secolo e del Terzo Millennio. Rischia, perché non è ancora del tutto chiaro quale sarà il bilancio delle vittime: se 50mila, come dice il presidente René Préval; 100mila, secondo l’idea del primo ministro JeanMax Bellerive; o addirittura mezzo milione, come ha denunciato un senatore dell’opposizione. Ma certo. Il fatto che su 190 italiani presenti nel Paese al momento del sisma oltre la metà risultino dispersi, se vale come proiezione di quello che è successo a una comunità che certamente non viveva nelle condizioni peggiori, fa poco sperare. Mezzo milione di morti rappresenterebbe tra l’altro il secondo dei terremoti e la quarta castastrofe naturale di tutti i tempi: preceduta solo da quelle inondazioni che in Cina nel 1931 uccisero tra un milione e quattro milioni di persone; dall’altra inondazone cinese del Fiume Giallo del 1887, con 900 mila-2 milioni di vittime; dal terremoto dello Shaanxi ancora in Cina del 1556, con 830mila vittime; e alla pari col ciclone Bhola, che nel 1970 uccise mezzo milione di persone nell’allora Pakistan Orientale. Provocando, per l’inefficienza dei soccorsi, la rivolta separatista da cui nacque il Bangladesh. Il tremendo tsunami del 26 dicembre del 2004 nell’Oceano Indiano, che tanto scalpore fece per aver colpito frequentatissimi posti di vacanza proprio il giorno dopo Natale, fece 229mila vittime: comunque, il record storico tra gli tsunami.
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La terra trema nel Kashmir pakistano e muoiono 75mila persone, mentre il ciclone Nargis passa sul Myanmar e ne uccide 146mila: l’Asia al primo posto Tra gli altri terremoti particolarmente cruenti, c’è stato poi quello dell’8 ottobre 2005 nel Kashmir: 75mila vittime. Quello della provincia cinese del Sichuan del 12 maggio 2008: 69.197 vittime (ma 180mila secondo l’Onu). Quello dell’iraniana Bam del 26 dicembre 2003: 31mila vittime. Quello del Gujarat del 26 gennaio 2001: 20.085 vittime. Quello di Giava del 6 maggio 2006: 6.234 vittime. E i due di Sumatra: quello del 28 marzo 2005, 1303 vittime, e quello del 30 settembre 2009, 1100 vittime. Quello dell’Abruzzo del 6 aprile 2009 ci ha fatto ovviamente molta impressione perché è stato nel nostro Paese, ed ha colpito l’Occidente perché è avvenuto in Euro-
speciale/terremoto La disperazione di Haiti riporta in luce il dramma della nostra vita, in
La Natura contro
Da sinistra: una donna tiene in braccio il suo bambino dopo il passaggio dell’uragano Katrina a New Orleans; la devastazione del ciclone Nagis in Birmania; lo tsunami che ha colpito intere coste dell’Oceano Indiano nel 2004. Sotto, immagini del terremoto di Haiti
Negli ultimi 5 anni sono più di 700mila le vittime di terremoti, alluvioni e cicloni. Il triste record appartiene allo tsunami del Natale 2004 di Maurizio Stefanini pa, ma il conto dei morti si è fermato a 294. Pure molta impressione c’era stata per i 30 morti del terremoto in Molise e Puglia del 31 ottobre 2002, col crollo della scuola di San Giuliano di Puglia. È curioso che abbia coplpito parecchio l’immaginazione anche lo tsunami del 29 settembre 2009 alle Samoa con 189 vittime. Ma lì c’era ancora ad aleggiare l’in-
cubo per l’altro tsunami poco distante: “poco”, s’intende, a giudicare le cose con gli occhi di quel grande pubblico che valuta le distanze sulla carta geografica.
Tra le catastrofi diverse dai terremoti, la più cruenta di questo primo decennio è stata il ciclone Nargis, che tra il 27 aprile e il 3 maggio 2008 si abbattè su
Myanmar: oltre 146mila vittime. Ma la cifra precisa non si potrà sapere mai, per il modo in cui il governo birmano gestisce in modo non trasparente certi dati, oltre che male le emergenze in genere. Fuori dal contesto birmano, in effetti, è difficile che una tempesta arrivi a tali livelli di devastazione. Il peggiore ciclone del 2008 dopo il Nargis, quello filippi-
speciale/terremoto costante sfida con le forze della Terra
o l’Uomo n’intera città rasa al suolo. Ovunque cumuli di macerie e rovine. I sopravvissuti si aggirano per le case distrutte con aria sgomenta. I luoghi dove sono cresciuti sono gli stessi che hanno seppellito i loro cari ed amici. Gli stessi dove adesso li cercano a mani nude. La tragedia di Port au Prince è una delle più grandi catastrofi naturali degli ultimi cento anni. Una di quelle che più ha evidenziato il volto truce della natura. Che ci restituisce a un terrore primigenio. A un’idea, nata chissà quando, nata chissà dove, di un conflitto perenne tra l’uomo e l’universo. Di un’armonica convivenza che sa di tregua armata.
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«Siamo amorevoli verso la natura finché essa ci si mostra carezzevole e premurosa - spiega a liberal il filosofo siciliano Manlio Sgalambro -. La accudiamo perché sembra accudirci, non in forma di madre ma di ancella sottomessa ai nostri capricci. Si tratta però di una proiezione ingannevole, di un’amorevole menzogna. Perché il vero sentimento della natura non è benevolo né maligno. Il vero sentimento della natura è la cecità, il suo indifferente fluire che non può scorgere l’uomo perché dall’uomo prescinde». Giardini, dighe, bacini artificiali, misure antisismiche. A partire dall’era positivista, la modernità ha costruito nelle società occidentali l’illusione di un trionfo. La sensazione malcelata di aver definitivamente soggiogato l’esistente. Di poterlo ritagliare a piacimento come una camicia su misura. C’è dell’ironia tragica nel fatto che il terzo millennio abbia accumulato nel volgere di un decennio così tanti eventi rovinosi. «La natura non è nella matematica, non si ferma laddove arriva la tecnica a imbrigliarne le redini prosegue il pensatore di Lentini - non possiamo amarla sulla base della sua amabilità perché non è una creatura cordiale. La natura è davvero natura nella catastrofe, nell’evento disastroso che sfugge al controllo e ce ne fa intuire, insieme alla grandezza, la sua irredimibile autonomia. C’è molta più na-
A colloquio con Manlio Sgalambro: «Gli eventi naturali scorrono senza tener conto di noi»
«Né benigna né maligna: solo cieca» di Francesco Lo Dico tura in un verso di Lucrezio che in un’equazione matematica». Matrigna o benigna. Leopardi o Pascoli. Una tragedia come quella di Haiti non può che costringere ciascuno a cercare un aggettivo che affianchi l’esistente. «Sbaglia chi cerca messaggi negli eventi naturali, catastrofici o confortanti che possano risultare all’essere umano ammonisce Sgalambro - la natura non dialoga, non apre trattative, non punisce né gratifica.
Semplicemente agisce, perché il suo è un dover essere che l’uomo riveste di senso. E l’uomo, non è in qualche modo figlio della natura? «In senso ontologico, la natura è il grembo in cui l’uomo nasce, ma nel momento in cui lo rende parte di se stessa lo immette dentro la sua mostruosità. L’avventura dell’uomo può essere terribile e magnifica, ma il mare può decidere di travolgerlo in ogni momento. E che sia un eroe o un galeotto poco importa, perché così è deciso». Vien fatto di pensare che l’odierna concezione della natura, usata a sproposito in un mediatico
fiorire di glad al mughetto e succhi multivitaminici, non faccia altro che annacquare, celare all’uomo il tanfo della morte. «Oggi la catastrofe suona inaccettabile - argomenta il filosofo nonostante il millantato progresso. Progredisce anche l’inganno e la contro superstizione di tenere la natura stretta in pugno. Gli antichi, più saggi di noi, erano disponibili alla catastrofe. Alla tragedia, quanto alla primavera e ai suoi bocci opulenti. Non ci sono solo fiori e solo frutti, l’uomo consumatore non riesce ad accettare il fatto che non tutta la natura sia commestibile. L’uomo che consuma non accetta di essere consumato». Eppure da tempo suonano le trombe del giudizio. L’ecosistema è giunto al collasso. Del tutto inutile prevenire, fare marcia indietro, cercare soluzioni che possano tentare di risparmiare molte vite umane, e tante altre di quelle che verranno?
«È giusto continuare a proteggere la natura, e anche fare il possibile per proteggercene. Ma è ingenuo pensare che la natura scenda tra di noi a esigere il fio della colpa. Il senso di ogni catastrofe, proprio come il terremoto ad Haiti, non è trascendente, ma immanente». Il pensiero corre alle religioni, all’imbarazzante gelo che scende nei portavoce più illuminati, quando l’umanità atterrita prende a interrogarsi su un incidente e finisce per fare un frontale contro il “male”. «Di fronte a un evento terribile, il messaggio religioso non può che essere strumentale e inadeguato. Chi prova dolore e non lo nasconde tuttavia è in buona fede, perché non tenta di spiegare l’inspiegabile, ma lo accetta soffrendone». Terrore, un terrore antico si impadronisce nel vedere squarciarsi la terra che ospita, di solito paciosa, i nostri mocassini. «Se proprio desideriamo ricomporre il disastro in una sintesi preziosa - dice Manlio Sgalambro - se vogliamo andare oltre il lutto e l’angoscia, c’è qualcosa da comprendere in questa terra che trema: l’uomo deve svegliarsi. Da troppo tempo l’uomo è un animale morente».
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no Fengshen, fece 1.400 morti: 800 dei quali per il rovesciamento di un traghetto. Il peggior tornado del 2008, quello del Super Tuesday del 5 e 6 febbraio, fece 58 morti. Il peggior tornado del 2007, quello che tra febbraio e marzo passò tra Golfo del Messico e Minnesota, fece 20 morti. Il peggior evento atmosferico del 2006 fu la frana che seppellì tutti i 1.400 abitanti del villaggio filippino di Guinsaugon, uccidendone 1.119, seguito dalla tempesta tropicale cinese Bilis (625 morti), dall’inondazione nord-coreana (549 vittime) e da due disastrosi monsoni su Subcontinente indiano e zone adiacenti (574 e 417 morti), e dal tifonSaomai nella stessa zona del Bilis (441 morti). Nel 2005 ci sono i 1.836 morti dell’uragano Katrina negli Stati Uniti, i 1.000-2.000 dell’uragano Stan tra Messico e America Centrale e i 1000 delle inondazoni del Mahashtra in India. Nel 2000 l’Uragano Jeanne, che proprio a Haiti fece 3000 morti.
I numeri reali delle vittime causate da disastri naturali non si saprà mai: i regimi asiatici e africani tendono infatti a nascondere le enormi falle dei loro Paesi Altri tipi di catastrofi determinano pure meno perdite dei terremoti, ma anche qui il Ventunesimo secolo ha registrato alcuni record. Anche se bisogna sempre ricordare che oggi la popolazione su cui certi fenomeni si possono abbattere e maggiore, e i conteggi sono più accurati. Tra giugno e agosto del 2003, ad esempio, c’è stata in Europa la più letale ondata di caldo estivo: 37.451 morti. L’altra ondata di caldo del luglio 2006 in Europa ha fatto 3.418 morti, quella indiana del maggio-giugno 2003, 1.900 morti, quella ungherese del luglio 2007, 500 morti. E proprio alla fine del Ventesimo secolo ci fu nel dicembre 1999 in Venezuela il record delle valanghe: 20.006 morti. Ma qui abbiamo avuto di recente anche un disastro in Italia, con l’alluvione e frana di Messina del primo ottobre 2009: 31 morti e 6 dispersi. Il nostro d’altronde è un Paese dove lo stillicidio di vittime per dissesto idrogeologico è continuo. 2 morti nel bellunese il 18 luglio 2009; 4 a Villa Pellice il 29 maggio 2008; 2 a Carrara il 23 settembre 2003; 23 morti e 11 dispersi in Piemonte tra 13 e 16 ottobre 2000; 12 a Soverato il 9 settembre 2000; 159 a Sarno e Quindici il 5 maggio 1998… Il 7 febbraio del 2009 c’è stata in Australia la famigerata “Domenica Nera” degli incendi forestali: 173 morti. Nel 2008 ci sono state grandi tempeste di neve in Afghanistan, con 1137 morti, e in Cina, con 133 morti. In compenso, le eruzioni vulcaniche sembrano ormai un fenomeno che l’uomo è riuscito in qualche modo ad addomesticare, nel senso che i sistemi d’allarme riescono ormai a evacuare la gente in pericolo in modo tempestivo. L’ultima grave strage a seguito di un’eruzione vulcanica avvenne in Colombia il 13 novembre 1985, con i 23.000 morti del Nevado del Ruiz. Ma lì a provocare il massacro non fu la lava in sé, ma il modo in cui venendo fuori dopo 150 anni di inattività sciolse la cappa nevosa della montagna, trasformandola in una mortifera inondazione.
speciale/terremoto
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Haiti. Ancora incertezza sul numero dei morti. Il mondo stanzia oltre 300 milioni di dollari. Atteso sull’isola Ban Ki-moon
Il giorno del silenzio
Dalle macerie sempre meno lamenti, ed è corsa contro l’incubo delle epidemie. Arrivati i primi aiuti, ma Port-au-Prince è nel caos crollato tutto. È crollato il Parlamento, le sedi dei ministeri, le scuole, gli ospedali». Nell’attesa che giungano da Haiti notizie più dettagliate sul numero di morti e su quanti italiani siano rimasti coinvolti nel devastante terremoto, la dichiarazione del presidente della Repubblica, René Préval, appare spaventosa. Il suo Paese è stato completamente raso al suolo, ma il quadro del dramma si limita a previsioni farraginose, dovute alla scarsa disponibilità di notizie certe. Non è ancora possibile effettuare un damage report, un punto di situazione che fornisca cifre esatte sul sisma. Le stime vanno oltre le 100 mila vittime, senza contare i feriti. La catastrofe ha assunto “dimensioni inimmaginabili”, come ha detto il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton. Le Nazioni Unite, presenti ad Haiti con la loro missione di peacekeeping Minustah, sono state anch’esse colpite. Nel momento in cui va in stampa il giornale, si sa che sono 22 i Caschi blu morti sotto il crollo della sede Onu a Port-au-Prince. L’impossibilità di aprire un canale di comunicazione con i membri di Minustah, costringe a chiamare prima New York, al Palazzo di vetro, e da lì essere messi fortunosamente in contatto con il personale sul posto.
«È
Difficile è inoltre l’intervento per la ricerca e il recupero dei sopravvissuti. Le squadre di soccorso stanno lavorando senza sosta, ma il loro primo nemico è il tempo. Il Paese è senza luce, ne consegue che il soccorso per le migliaia di persone ancora sotto le macerie è possibile unicamente durante il giorno. Nel pomeriggio di ieri l’aeroporto della capitale haitiana, Port-au-Prince, è stato temporaneamente chiuso per l’eccessivo numero di aerei carichi di aiuti
di Antonio Picasso umanitari e di soccorsi in arrivo. Praticamente tutti gli ospedali haitiani sono crollati. Ne è rimasto in piedi solo uno, ma è pieno di feriti. Si sta provvedendo, quindi, ad allestire una serie di centri di assistenza medica avanzata. Il problema è che sono almeno 3 milioni le persone colpite dal terremoto. Mancano gli spazi e la quantità necessaria di infrastrutture, per ospitare un numero tanto elevato di sopravvissuti. Si aggiungono i danni collaterali che fanno da cornice a questo genere di catastrofi naturali. In primis il rischio di epidemie, dovuto soprattutto all’assenza di
aree di raccolta dei cadaveri. Il quadro agghiacciante è dato dalla presenza nelle strade, gli uni accanto agli altri, dei morti e dei sopravvissuti. Fenomeni di sciacallaggio, a loro volta, sono stati già rilevati nella capitale haitiana. Le carceri sono crollate come tutti gli altri edifici e i detenuti sopravvissuti al sisma sono a piede libero.
Va aggiunto peraltro che il Paese ha sempre registrato un elevato tasso di micro-criminalità. La situazione attuale quindi si sta trasformando in una grottesca occasione per l’aumento del-
la delinquenza. Proprio per ragioni di sicurezza, la confinante Repubblica di Santo Domingo ha chiuso le frontiere. Il permesso di entrata sul suo territorio è stato concesso solo agli operatori umanitari e agli haitiani feriti classificati come “casi gravissimi”, il cui intervento a Port-au-Prince non è sufficiente. Per quanto riguarda gli aiuti umanitari, la comunità internazionale ha superato immediatamente l’emozione è fatto scattare una molla di pronto intervento di dimensioni globali, per fornire ogni genere di immediata necessità (acqua, viveri, ripari, cure e medicinali). Il coordinamento è dato dalle Nazioni Unite, il cui Segretario Generale Ban
È giusto soffermarsi sul numero di italiani coinvolti, ma la notizia non è quanti siano. È la scomparsa di una città
l Tg e l’Apocalisse“corporativa” di Giancristiano Desiderio entomila e cento oppure cinquecentomila e cinquanta: sono i numeri che mi sono entrati nel cervello e che non riesco a scacciare. I morti ad Haiti sono centomila oppure cinquecentomila. Centinaia di migliaia. «Una cosa che non si riesce neanche a immaginare» ha giustamente detto ieri il segretario di Stato degli Stati Uniti Hillary Clinton. Una cosa è un numero e ben altra cosa è la trasformazione del numero in ecatombe. Il Corriere della Sera, infatti, ieri ha aperto con questo titolo: «Haiti è diventata un cimitero». I vivi sono morti. Eppure, a fronte di questo “orrido nulla”
C
che ha inghiottito una parte della Terra, la notizia nei telegiornali e nei radiogiornali italiani è diventata questa: «Nel terremoto di Haiti ci sarebbero anche cento italiani dispersi».
non che non si sa se cento italiani sono vivi o morti. Il provincialismo è un male italiano che evidentemente non fa difetto al giornalismo. È una regola non scritta delle redazioni quella che dice
Davanti all’umanità sofferente e annientata l’interesse nazionale non può diventare la cifra degli italiani dispersi Antonio di Bella direttore del Tg3, così come Augusto Minzolini, direttore del Tg1 e Emilio Carelli direttore di Sky Tg24, farebbero bene a prestare un po’ più attenzione: la notizia - ma come vedete anche il concetto di notizia è diventato banale - è che non c’è più Haiti,
che di un fatto va segnalato l’aspetto a noi più prossimo e, nei fatti internazionali, quindi di interesse nazionale.
Ma davanti all’umanità sofferente e annientata qual è l’interesse nazionale? La contabilità dei morti non è per
speciale/terremoto
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In meno di 48 ore ha coordinato gli aiuti internazionali
L’ecumenismo di Barack Obama
Parla come il Papa e agisce come il Segretario dell’Onu. Solo che è il Presidente Usa... di Mario Arpino l mondo si è mobilitato in soccorso di Haiti, che si dimostra vero e proprio collante della solidarietà internazionale. Le iniziative sono tante, tutte encomiabili, ma un afflusso non regolato può portare in breve a situazioni di collasso. Anche l’Italia, dove purtroppo l’esperienza di calamità naturali ha insegnato molto, sta facendo bene la sua parte, e il ministro Frattini ha giustamente rammentato l’esigenza primaria di un coordinamento internazionale. L’Onu ha questa esperienza, ma, a prescindere dal fatto che ad Haiti si trova nella posizione di essere soccorso piuttosto che di soccorrere, la sua organizzazione è maggiormente adatta alla continuità nel tempo piuttosto che all’emergenza. Obama si è subito fatto avanti, ed ora il mondo, come sovente è successo nei casi disperati, guarda agli Stati Uniti d’America con fiducia e speranza.
I
Ki-moon è atteso nell’isola non appena le condizioni lo permetteranno. Da questo vertice la struttura piramidale si dirama coinvolgendo l’Organizzazione Internazionale per l’Immigrazione (Oim), l’Unicef e il Programma Alimentare Mondiale (Pam), che ha inviato due aerei carichi di generi alimentari. Il Comitato internazionale della Croce rossa (Icrc) ha annunciato di aver raccolto 40 tonnellate di farmaci e di aver organizzato un team di medici specializzati per i casi di calamità naturale. Sul fronte economico la Banca mondiale ha stanziato 100 milioni di dollari per Haiti. La sua iniziativa è stata seguita dal Fondo Monetario Internazionale con la stessa cifra e dalla Banca Interamericana di Sviluppo, di cui non si sa ancora lo stanziamento. La Commissione Europea a sua volta ha sbloccato 3 milioni di euro in aiuti di emergenza. Nell’ambito dell’Ong, le prima a mobilitarsi sono state la Caritas e Medici Senza Frontiere. In merito ai singoli Paesi, gli Stati Uniti hanno indirizzato 100 milioni di dollari in favore dell’isola e hanno messo in piedi un contingente militare costituito da 3.500 paracadutisti della “82 esima” Divisione aviotrasportata, 2mila marines, 3 navi anfibie e la portaerei “Carlo Wilson”. Sul fronte civile ieri, gli
nessuno una cosa bella, tuttavia prima o poi va fatta. Il dovere del sistema dei mezzi di comunicazione è quello di informare e sapere se i 50 o 100 italiani ci sono o no è una notizia utile. Ce ne rendiamo conto. Ma che davanti all’Apocalisse la prima preoccupazione di un telegiornale sia quella di soffermarsi sui connazionali è un’assenza di compassione non tollerabile.
Avverto l’inutilità di quel che scrivo. Davanti alla Natura che ad Haiti ha inghiottito e continua a inghiottire migliaia e migliaia di uomini, donne, bambini davvero l’umanità appare come una malattia della pelle della Terra. Ma al cospetto di questo universo che mangia i suoi figli senza sapere che li mangia e che sono suoi figli non si capisce come si possa scegliere di dire prima di tutto che non si trovano cento connazionali. Un’umanità negata due volte.
Usa sono stati anche i primi a inviare un primo gruppo di “volontari generici”, costituito da personale non tecnicamente specializzato in fenomeni sismici, utile per l’assistenza umanitaria. Da sottolineare la concertazione a Washington tra il presidente Obama e i suoi predecessori alla Casa Bianca, George Bush jr. e Bill Clinton, nel gestire la crisi. Anche il Canada ha inviato due navi militari, alcuni elicotteri e aerei da trasporto.
La Russia ha mobilitato il ministero delle Situazioni d’urgenza, per l’invio di un aereo “Il-76” con a bordo 20 medici e un ospedale da campo. Altrettanto immediata è stata la risposta asiatica. Il Giappone ha annunciato lo stanziamento di 5 milioni di dollari. L’Indonesia ha garantito l’invio di una squadra composta da 75 unità, fra soccorritori e personale medico. L’Australia a sua volta ha indirizzato 9 milioni di dollari.Veniamo infine all’Europa. La Gran Bretagna ha sbloccato 10 milioni di dollari da impiegare nei soccorsi e ha inviato una squadra di 75 soccorritori accompagnati da cani per il recupero di persone sotto le macerie, oltre a 10 tonnellate di equipaggiamenti. La Francia ha mandato dalla vicina Martinica tre aerei da trasporto militare, poi un Airbus A310, con a bordo una sessantina di membri della Sicurezza civile e 12 tonnellate di materiale. I Paesi Bassi e la Germania hanno sbloccato rispettivamente 2 e 1,5 milioni di euro. Per quanto riguarda l’Italia, l’Unità di Crisi della Farnesina ha rintracciato 80 su 190 dei nostri connazionali iscritti all’anagrafe haitiana. Il Governo Berlusconi nel frattempo ha stanziato 1,5 milioni di dollari. Sono inoltre partiti un C130 con un ospedale da campo e 20 medici e paramedici e un Falcon con i primi soccorsi umanitari. A bordo di quest’ultimo era presente l’“advanced team” di tecnici della Protezione civile e della Croce Rossa Italiana, oltre a due funzionari del ministero degli Esteri incaricati di verificare sul campo la situazione degli italiani che mancano ancora all’appello. Merita anche di essere segnalata la dichiarazione del Commissario della Protezione Civile, Guido Bertolaso. «Il modello di crisis management e ricostruzione definiti nell’ambito del terremoto abruzzese del 2009 sarà messo a disposizione di Haiti», ha detto Bertolaso. «Tuttavia è troppo presto per poter fare una valutazione di questo tipo».
partire per l’Australia, ha deciso di rimanere a Washington per coordinare gli aiuti dalle sale operative del Pentagono. Nonostante i problemi sociali, la crisi e le “due guerre”, gli Stati Uniti rimangono il paese più ricco, più capace e più disponibile in casi calamità grave, mentre la sua posizione geografica consiglierebbe addirittura di concentrare là gli aiuti internazionali, essendo il Paese più idoneo per un intervento disciplinato.
Ai lettori consigliamo di andarsi a vedere per intero sul sito della Casa Bianca - www.whitehouse. gov - l’intervento di Obama alla Diplomatic Reception Room. È una direttiva completa, di impressionante lucidità e chiarezza, dove il Presidente non solo istruisce i suoi sulle linee d’azione, ma, come ha fatto anche il Santo Padre, con toni che hanno dell’ecumenico mette a nudo i suoi sentimenti e si spinge a invocare la benedizione divina «sul popolo di Haiti e su coloro che stanno lavorando per esso».
È quando affronta i grandi temi sociali che si scopre la sua vera natura e la sua vocazione
È quando affronta i grandi temi soEppure, nelle calamità interne la ciali che si scopre il vero Barack Obaprotezione civile americana - di pertinenza dei singoli Stati - non aveva dato una grande impressione di efficienza. Vedi uragano Katrine. Ma per l’estero è diverso, essendo il Presidente abilitato a intervenire direttamente con l’organizzazione che, per reattività e cultura, è la prima è in grado di rispondere: quella del Dipartimento per la Difesa. I primi aiuti, con i mitici C 130 Hercules, sono arrivati in avanscoperta, mentre i sistemi satellitari e da ricognizione militare stavano ancora fornendo il quadro di situazione. A bordo c’erano i tecnici per la valutazione del disastro, poi sono affluiti anche 2mila marines, mentre un team delle forze speciali dell’Usaf sta lavorando per riabilitare i sistemi di comunicazione ed assumere il controllo degli spazi aerei, indispensabile per regolare in sicurezza l’afflusso sequenziato di uomini, mezzi e materiali. Anche la Marina, con una portaerei e navi ospedale, è già in movimento. Il ministro della Difesa Robert Gates, in procinto di
ma, assieme alla sua vera natura e alla sua vocazione. Ha parlato con toni universali, con in più l’espressione del potere e della forza che gli deriva dall’essere il presidente degli Stati Uniti d’America. Eppure, a un anno dalla sua elezione, non ha davvero avuto molte soddisfazioni, se non l’assegnazione di un Nobel per la Pace che lui stesso ritiene prematuro e suscettibile di creare attese non realizzabili. Ragionevolmente, forse in un anno non si poteva pretendere di più, ma i risultati delle sue azioni, in politica interna come in politica estera, sono assai lontani da ogni aspettativa. Nella nota intervista con Ophrah Winfrey l’otto in pagella - poco condiviso all’interno degli stessi democratici - ha dovuto darselo da solo. Pochi americani sono soddisfatti del fatto che la mitica America sia stata avviata a divenire «un Paese come tutti gli altri». In quegli ambienti, c’è già qualcuno che pensa che avrebbe potuto essere senz’altro il migliore Segretario Generale dell’Onu….
cultura
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Ritratti. «Le libere donne di Magliano» e «Per le antiche scale» sono due caposaldi del Novecento, dedicati alla complessità della follia privata e sociale
La malattia di vivere I cent’anni di Mario Tobino, lo scrittore-psichiatra che raccontò l’assurda normalità del dolore di Pier Mario Fasanotti on tutti gli scrittori an- costi la sua indipendenza. Al- donne, non risparmiava lamendrebbero conosciuti di leanze quasi mafiose o barac- tele o moti di stizza con gli edipersona. Magari amia- coni politici gli passavano da- tori, anzi riusciva a essere un mo le loro opere, ma vi- vanti, e così sussurri e agguati vero rompiscatole-addivenensti da vicino erodono la nostra in occasione di premi letterari. do anche «ad litem» con iniziaammirazione: perché sono va- In tasca aveva il suo asso di tive legali- con lo spulciare i renesi, autoreferenziali, egoisti, cuori: «Io ero un medico, io soconti economici, le copie dei retorici, spocchiosi. Quando avevo un lavoro». Ma sarebbe suoi libri date «a chissà chi». Il per la prima volta telefonai a sbagliato pensarlo indifferente figlio del farmacista- che è anMario Tobino ebbi subito l’im- alla stregua di un indiano o di che il titolo dei suo primo, mepressione di una voce calda, in- un cinese che guarda il fiume. raviglioso, libro-memoir viatrisa di umanità e di ironia. Mi Aveva la lingua tagliente come reggino cui sempre resterà afchiese quanti anni avessi. Glie- ce l’hanno molti che sono nati fezionato in quanto «groviglio lo dissi e lui, alzando quel suo celeste della mia vocione: «Ma lei deve pensare infanzia»- sapea fare l’amore… c’è la vita, la va far di conto, vita». Ho avuto la fortuna, spinma faticava a to dal giornalismo culturale, di comprendere la incontrare un uomo vero, proa burocrazia, prio all’altezza delle splendide volte farraginosa pagine che aveva scritto e stava e colpevolmente ancora scrivendo. Gli appuntaprudente, delle menti furono tre, nell’arco di case editrici. Di dieci anni. Avvertii una spontaqui l’astio, esplinea deferenza dinanzi a un uocitato o contenumo che per quarant’anni aveva in Toscana. Coglieva, e ci stava to, verso Giulio Einaudi, del vissuto come un recluso nei male, ogni sgarbo. Un giorno quale colse appieno la freddezmanicomi, riservando a se stes- scrisse: «L’unica vendetta con- za, a volte il cinismo ammantaso le ore serali per il suo «se- tro Montale è avere successo». to da cortesia sabauda: quanta greto», ossia la letteratura. Orgoglioso, fiero, consapevole distanza caratteriale! Qualche scatto umorale mi fu di raccogliere successo tra le Con «Il clandestino» ben visibile, successiottenne un riconoscivamente lo confrontai mento internazionale. con alcuni passi del Il romanzo gli aprì le suo Diario, e capii che porte anche di salotti la sua tempra conteSi aprono oggi a Viareggio, dove Mario Tobino nacque ammuffiti e accademineva era impastata di cento anni fa, le celebrazioni in memoria del grande ci. Tuttavia Pietro Citati polemiche, di parole scrittore-psichiatra. A Palazzo Paolina, dunque, sarà nel 1962 scrisse su Il gettate in faccia agli inaugurata la mostra «Immagini del vivere. Scritture e Giorno frasi ad alto tasaltri, brutalmente. Se figure di Mario Tobino», che propone ritratti, oli e diseera tenero e affettuogni, che amici pittori di Tobino hanno eseguiso (termine che applito e donato allo scrittore ed alcuni documenti cava con dedizione dattiloscritti di Mario Tobino. Domani, invenei confronti dei suoi ce, al Teatro Eden sempre di Viareggio è previmatti, così li chiamasta la consegna del Premio Viareggio-Tobino a va senza infingimenSergio Zavoli. Le celebrazioni proseguiranno ti) verso gli esseri con a Lucca, il 12 febbraio, con la’pertura di una la mente sfortunatamostra fotografica che documenta l’ex Ospe«una sorte…. forse un dale Psichiatrico di Maggiano. A marzo, semdono del Signore…. pre a Lucca, sarà presentato il volume a cura una condanna inspiedi Paola Italia «Mario Tobino bibliografia tegabile»- rigoroso e stuale e critica (1910-1991)». Il 9 aprile presso polemico era davanti la sala Accademia della Provincia di Lucca si alla «combriccola» svolgerà il 3° Seminario di Psicopatologia dal dei letterati, critici, titolo La rappresentazione delle “nevrosi” in colleghi di penna, letteratura. In maggio, al Salone del Libro di molti dei quali, e lui Torino, ci sarà la presentazione degli atti del che vinse lo Strega lo Convegno: «Il Turbamento e la scrittura», a so di acidità. Un esemsapeva bene, meschicura di Giulio Ferroni, edito dalla casa editrice Donzelpio: «Forse non c’è nulnamente presi dai li. Per finire, il 26-27 novembre presso la sala Accadela di più triste di uno traffici editoriali, dalle mia della Provincia di Lucca in Palazzo Ducale, ci scrittore che si avvia furbizie piccole e così sarà il convegno «Il mondo di Tobino: il medico e le arverso la decadenza». squallide. ti in Toscana e in Italia», a cura di Giulio Ferroni. Il Quel testo di marca convegno ospiterà gli interventi di letterati e storici delTobino, e me lo dis«manzoniana» veniva la letteratura e della cultura italiana. se sempre, voleva salstritolato sbrigativavaguardare a tutti i mente: «….non resta
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Duro, ma sempre mosso da compassione, anticipò un modo (molto umano) di considerare e giudicare gli uomini e la storia: «Alla fine la morte placa tutto»
le celebrazioni
Qui accanto, un disegno di Michelangelo Pace. Sotto, «le antiche scale» di Maggiano, cui Tobino si ispirò per il titolo di uno dei suoi romanzi più celebri. L’altra sua opera più celeberata è «Le libere donne di Magliano». Nella pagina a fianco, lo scrittorepsichiatra
che un romanzo sbagliato, dove la generosità si limita a contemplare se stessa: la genialità si perde nel vuoto: ogni fuoco è assente dai personaggi e dalla realtà che egli rappresenta, per quanto la sua recitazione tenti invano di recuperarlo». A Tobino, che aveva imparato la naturale furbizia dei semplici giocando nel “Piazzone” di Viareggio con i figli dei marinai, «la teppa», non sfuggì certo il fatto che nella stessa pagina del quotidiano milanese c’era, a firma Giorgio Bocca, l’elogio sperticato della «forza morale» contenuta ne La guerra dei poveri di Nuto Revelli. Il rude, e schieratissimo, giornalista piemontese preferiva tutto quello che scendeva dai pendii della sinistra partigiana, fino a dire che quello era «il libro che avrei voluto scrivere». Peccato che non riuscì mai a scrivere nulla a quell’altezza. Ma erano gli anni(durati a lungo, eccome!) in cui per essere onorato o onorevole in tutto occorreva possedere un pedigree da partigiano duro e puro, magari voltando gli occhi da verità storiche orribili e scomodissi-
me. Ma si sa: l’aver avuto il fazzoletto rosso attorno al collo era passaporto sicuro per il paradiso, politico e letterario che fosse.
Eppure Tobino aveva passato vent’anni a «odiare il fascismo». «Vent’anni di vita sprecata durante il fascismo»: una frase forte, ma debilitata dall’assenza di una tessera politica. E a proposito di fascismo, vale la pena di rileggersi il carteggio che vide lo psichiatra-scrittore indignarsi contro Emilio Cecchi, il quale sul Corriere della Sera, gli rimproverò di non aver fatto nomi e cognomi di persone tramutate in personaggi. Ecco la furia di Tobino: «…se ora sono tanto coraggiosi, ora che c’è la libertà, perché non lo furono quando fu il momento di combattere? La domanda che vorrei fare è questa: lei, signor Cecchi, odiava i fascisti? Ammettiamo che lei risponda “sì”. Allora perché non li ha uccisi quando è capitato il momento? Oppure: se era fascista perché invece non si è messo, come ha fatto il filosofo Gentile, con le Guardie repubblicane?». Tobino, da vero antifascista, ce lo’aveva a morte con i «neutri». E con coloro che non capivano la pietas familiare: ma come,
cultura
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renza sconclusionati. In due romanzi, Le libere donne di Magliano e Per le antiche scale,Tobino cambierà i nomi dei suoi pazienti, di quelli che descriverà nelle sue pagine. Per rispetto, per pudore. Un giorno mi confidò che ugualmente si vergognava: «Capita che in autobus qualcuno, forse un famigliare di qualche matto, mi guardi storto». Nel diario scrisse di sé: «Mario sei grande, sei piccolo». Così come confidò in quelle pagine la sua propensione al bere e la faticosa lotta
grado di spiegare appieno. Tobino si chiedeva: «Non esiste per caso una sublime felicità che noi chiamiamo patologica e superbamente rifiutiamo?». Considerava la letteratura anche come strumento a favore dei malati. In occasione della ripubblicazione di un suo romanzo,ambientato tra le pareti scivolose di menti girovaghe e allucinate, il narratore viareggino scrisse:«…questo libro serve per domandare ai sani se non sia giunto il tempo di aiutare chi è sulla soglia, in bilico se rientrare nel mondo o invece ripiombare nella caverna. Per i sani è giunto il momento di fare il loro dovere verso i folli». Voleva che si aumentasse il numero dei medici, che si costruissero ospedali psichiatrici piccoli. E confidava al suo diario: «Adesso sono venticinque anni che vivo tra i matti e la notte sempre più me li sogno: volti che vicinissimi mi ridono spastiche risate, parole che mi arrivano distinte eppure non riesco a decifrare se sono di derisione o di richiesta di aiuto, donne che mi piangono davanti con i capelli disciolti e so che non ho nessuna possibilità di consolarle». Un atto di dolore, la presa d’atto di un’insopportabile resa, o incomprensione profonda.
Il suo percorso di scrittore e di uomo lo riassunse così: «Miseria e onestà, è la mia catena». Cercava a volte di placare la propria animosità confessando i suoi rancori
scrisse, io dovrei fare i nomi di coloro che combatterono contro di noi, di quelli che hanno figli che passeggiano per il paese…? «Il signor Cecchi vorrebbe sadicamente che loro leggessero i particolari della morte dei loro padri, che sapessero delle pallottole che strapparono la carne». Duro, ma sempre mosso da compassione, Tobino anticipò un modo (umano assai) di considerare e giudicare uomini e storia: «La morte placa tutto e io non ho più nessun odio. In quel periodo della Resistenza i fascisti furono gli unici che si batterono, mentre la generalità che aveva approfittato del carnevale attese gli eventi, se ne stette in cantina. Solo adesso, perché c’è il centro-sinistra, osano dire qualche parola, fare i coraggiosi. Il Cecchi ama molto il Guicciardini, io amo molto il Machiavelli. Guicciardini era un signore, ma rimase nella provincia, Machiavelli era universale».
Nelle stanze e sotto i portici dell’ospedale psichiatrico di Maggiano (in Lucchesia), Tobino dimostrò affetto sincerissimo verso i matti. Volle loro bene. Da essi fu affascinato, anche se dolorosamente. Colse poesia ed estro in atti in appa-
contro quell’abitudine a stordirsi dopo ore e ore di frequentazione col dolore, calato interamente nei misteriosi labirinti della pazzia, della violenza verso di sé e verso il mondo, con gli insuccessi della psichiatria tradizionale, con l’«ambigua» illusione data dagli psicofarmaci, un evento farmacologico rivoluzionario che tuttavia non abbattè muri e grate, non sciolse le cinghie di costrizione e non spazzò via tutto quel che denunciò Franco Basaglia che con la legge 180 operò un volteggio copernicano attorno alla follia. Si sa che Tobino non fu mai tenero verso il collega. Si preoccupava del “dopo”, delle famiglie che dovevano farsi carico di esseri strani e imprevedibili, dell’assenza di strutture pubbliche a sostegno, delle numerosi e silenziose morti di pazzi lasciati al margine della vita quotidiana, come spazzatura mentale e comportamentale. Se a Basaglia si può confutare la carica utopica della libertà (prima Gorizia poi a Trieste ebbe lo straordinario coraggio di coniugare cura e libertà), a Tobino si può attribuire un afflato “affettuoso”, ma anche la sottovalutazione, in buona fede, di manicomi-lager, di medici e infermieri aguzzini, di ferocia dentro camici bianchi.
Si è molto scritto dello iato ideologico tra i due, a volte a sproposito o comunque con la voglia della contrapposizione a tutti i costi. Certamente le distanze ci furono, e furono nette e aspre. Ma è ingiusto allontanare i due psichiatri da ciò che li univa: il rispetto per le menti malate, per un mondo oscuro, per vibrazioni cerebrali che nessuna scienza è davvero in
Il suo percorso, di scrittore e di uomo, lo riassunse così: «Miseria e onestà, è la mia catena». Cercava a volte di placare il proprio animo, o animosità, confessando a se stesso di avere dentro il torace «non due sacchi d’aria, ma due sacchi d’odio». Odio contro i «neutri» o i cattivi, gli astiosi di professione, «la cui gloria era che si sentivano soddisfatti d’essere intelligenti». Poco indulgente lo era anche con una certa Italia meschina e volgare. Amava molto Parigi. Dopo un viaggio in Francia scrisse: «Paragoni con la nostra cafoneria italiana; noi ci odiamo tanto tra noi che anche negli spettacoli di varietà stridiamo offese e irate volgarità; la nostra è una forza che solo con molto dolore potrà guadagnare l’armonia». Tobino però sapeva ridere, a pure di gusto. Una volta gli chiesi come mai il suo ultimo libro fosse di poche pagine. Risposta:«Un giorno ordinai a un falegname di farmi un tavolo, dandogli le misure. Me lo consegnò diverso nelle dimensioni. Alla mia richiesta di spiegazioni, disse: che vuol farci, professore, a me è venuto così». Ebbe svariati amori (era un bell’uomo, indubbiamente), ma soffrì sempre della mancanza di una famiglia. Sovente, negli appunti personali, descrisse la sua casa ideale: ampia, luminosa e piena di gente. Lui non l’ebbe mai.
speciale / avatar
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Da oggi in Italia il film più promosso e discusso dell’anno: uno spettacolo per gli occhi, un po’ meno per il cervello
Un cult-movie di al Qaeda di Anselma Dell’Olio
on siamo della schiatta di critici che ha trovato insopportabile The Terminator 1 e 2, Aliens e Titanic di James Cameron. Genio monomaniacale e appassionato di effetti speciali, le sue sceneggiature sono storie semplici e forti che reggono bene la forza d’urto della spettacolare tecnologia dispiegata. Dispiace che Avatar, il primo film narrativo del regista dopo Titanic (1997), deluda in parte proprio perché la storia d’amore e le meraviglie pirotecniche sono al servizio di una «filosofia» (parola grossa) New Age, panteista, ambientali-
N
dei campioni!». Date le sue budella sanguinanti, il pubblico si sganascia, come succede ai funerali. Si può fare benissimo un ottimo film senza sollevare un sorriso (se Titanic aveva momenti spiritosi, non affiorano alla mente) ma sarebbe meglio evitare il già visto, sentito, masticato: il predicozzo ecopacefondaio col cuore in mano. I Na’vi, gli umanoidi che abitano sul pianeta Pandora, sono esseri altissimi, azzurri e atletici, e rammentano la sviolinata sul Buon Selvaggio, che nei western revisionisti di Hollywood negli anni Settanta ha sostituito il clichè
re di Madame Blavatsky e Krishna Murti nell’Ottocento e inizio Novecento. Lo storico delle religioni Mircea Eliade si rivolta nella tomba. Unico dettaglio scorretto: i Na’vi sono tutti alti il doppio degli umani e longilinei, con vitini da vespa, nemmeno uno ha un etto di troppo. Sono pronti per gli abiti di stilisti che disegnano per anoressiche, purché provvedano pertugi per le loro code. Non si dice se sono vegetariani, o forse ci siamo distratti, ma con tutta quella vene-
Un’opera anticapitalista, antimilitarista e antitecnologica (ma finanziata da Wall Street) che termina con una sfacciata battaglia epica sta e pacifista talmente pia e conformista, da ricordarci che il mago Cameron è canadese, nazione politicamente convenzionale con i baffi, riscattata dal sorprendente numero di bravi attori comici che produce: Dan Aykroyd (Ghost Busters), Lorne Michaels (produttore di Saturday Night Live), Jim Carrey, Martin Short, Eugene Levy, Seth Rogen e tanti altri. Poi è la patria dell’impareggiabile Mordercai Richler, che ci ha fatto contorcere dalle risate con il suo romanzo La versione di Barney, un best-seller in Italia.
Cameron non è noto per il suo umorismo, e alcune battute di Avatar sembrano esilaranti per sbaglio. La scienziata Grace Augustine (Sigourney Weaver), portata in fin di vita all’Albero Sacro dei Na’vi per essere guarita, scruta dalla lettiga la vegetazione particolarissima del giardino incantato degli indigeni, e tra un rantolo e l’altro esclama libidinosa: «Devo raccogliere
degli indiani sanguinari, primitivi sgozzatori e scotennatori di coraggiosi e incolpevoli coloni. In Avatar, il pregiudizio culturale è più manicheo, a parti rovesciate, dei film con John Wayne: indigeni divini, noi mostri assetati di sangue e avidi di denaro. (Ma alcune tribù di pellerossa scotennavano davvero i loro nemici, e i popoli indigeni più a sud fieramente offrivano sacrifici umani alle loro esigenti divinità). Il Popolo azzurro (si raccomanda il maiuscolo) di Avatar si difende con archi e frecce; quando sono «costretti» a uccidere dal solito invadente, infantile, violento umano, una delle temibili bestie che gironzolano per le foreste di Pandora (certi pachidermi con ruspe al posto del naso e enormi ventagli di piume alla Wanda Osiris in testa, o feroci, giganteschi rettili volanti tipo pterodattili o pterosauri) pregano sul cadavere per onorare la sua «energia eterna»: roba che in California ci sguazzano sin dalla fondazione, per non parla-
intona la principessa Neytiri Zoe Saldana computerizzata che fa da guida al protagonista e al gruppo di studiosi mandati «sul campo» dalla Terra in un corpo surrogato Na’vi (avatar, appunto). I player di Hollywood respingono con sdegno «le religioni organizzate» in ogni intervista, ma farsene una su misura va benone. In Italia l’ateismo fa fino e illuminato; in America no.
Ecco la trama per chi si trovava in una caverna durante la promozione di Avatar: Jake Sully (Sam Worthington) è un ex Marine paraplegico nel 2054. La tecnologia esiste per ridargli la mobilità con gambe vere, ma la «crisi economica» sulla Terra è forte e l’assicurazione medica garantita a ogni reduce che non
che si trova in abbondanza sotto il loro villaggio, «indispensabile per risolvere la crisi energetica sulla Terra» (dal pressbook). Di solito «dialoganti», i Na’vi non ne vogliono sapere di sloggiare dalle loro terre sacre, e allora il piano degli avidi lestofanti terrestri è di mandare soggetti umani sotto mentite spoglie Na’vi, delle vere e proprie spie, per carpire usi e costumi e convincerli a fare fagotto. La squadra scientifica-antropologica ha tre mesi di tempo per farli ragionare - o saranno stesi da un attacco shock and awe che lévati; ricorda qualcosa? Il Programma Avatar prevede un collegamento della coscienza umana con un surrogato (avatar) geneticamente modificato per sopravvivere nell’atmosfera tossica del pianeta in
Gli alieni sono altissimi, azzurri e atletici, un po’ come gli indiani dei western revisionisti girati a Hollywood negli anni Settanta
razione per la vita d’ogni cosa, va da sé e s’addice al loro pacifismo. (Alziamo un calice laico al Cardinale Biffi che ha scritto: «Quando arriverà il nuovo Anticristo, sarà vegetariano, pacifista e aperto al dialogo»). Ma Cameron, regista e sceneggiatore unico, non se ne cura, e serve dosi industriali di Weltanschauung hippy, alternativa, ecologista, appioppando al Popolo una pseudo religione panteista, dove la Grazia arriva attraverso certi insetti volanti che sembrano medusine fosforescenti, e si prega davanti a un Albero (sempre maiuscolo) circondato da liane luminose («È qui che ascoltano le nostre preghiere, e qualche volte le esaudiscono»,
può permettersi la spesa. Jake ha un fratello gemello scienziato, morto dopo che lo Stato (qui rappresentato da un «consorzio» dell’industria militare) ha molto investito nella sua preparazione. L’ex Marine in sedia a rotelle ha lo stesso Dna, ed è tosto arruolato per sostituire il fratello ed evitare sprechi all’azienda. Giovanni Ribisi è Parker Selfridge (assonanza con selfish, egoista. Oh, yes), capo spietato della missione Pandora, e il suo braccio armato, il colonnello Miles Quaritch - un caricaturale Alexander Haig - ha il compito di far sgomberare i Na’vi per poter sfruttare indisturbati un minerale prezioso e raro
sembianze Na’vi, mentre il corpo vero s’appisola in bare speciali alla base. Quaritch promette a Jake, a missione compiuta, di fargli avere un paio di gambe nuove di zecca in carne e ossa. Nel frattempo, attraverso il suo Avatar, l’handicappato salterà come uno stambecco. Il regista si sforza di comunicare la gioia del Jake azzurro rinato quando corre e affonda i piedi nel fango, con risultati mediocri. (Il mare dentro, non un capolavoro di film, trasmetteva molto meglio l’estasi di un paraplegi-
speciale / avatar co totale che nei suoi sogni vola sul mare). Cameron ha varato una nuova era tecnologica in maniera formidabile, innovativa, commendevole: ma l’estetica del segno visivo è da videogame e fumetto fantasy, meno originale e ispirato dei gloriosi effetti speciali. Gli animali, le piante, i contorni del pianeta sono divertenti ma artisticamente poca cosa. Cameron non è Moebius.
Nelle scorse settimane si sono lette le più svariate riflessioni sull’effetto Avatar: dalla Fine dell’Attore (per la perfezione del performance capture, che usa solo movimenti, sguardi ed espressioni di attori veri, per poi elaborarli in altre specie al computer) all’impari concorrenza con i film italiani (persino con i cinepattoni, tiè). Ci sono stati interventi che chiosano e criticano il film per la sua sfacciata glorificazione del traditore: Jake è talmente incantato dai Na’vi, da Naytiri e dalla loro svenevole concezione del mondo, e così disgustato dai brutali guerrafondai, sfruttatori e colonizzatori terrestri, che con il gruppetto di scienziati tradisce la sua stessa gente e passa con gli insorti. (Si perdona solo la Trudy Chacon di Michelle Rodriguez, stupenda, tosta aviatrice che chiunque vorrebbe come amica e sodale). Chi non tradirebbe il Grande Satana inquinatore per i purissimi Angeli Ribellli esotici? Il tifo antioccidentale candida Avatar a film-culto di al Qaeda. Lo abbiamo visto due volte. Durante la proiezione stampa predominava l’attenzione alla favola edificante, i dialoghi portentosi e legnosi e si restava delusi. Rivisto, migliora se si seguono solo gli spettacolari effetti speciali in 3D. Nessuno vicino a noi ha subito emicranie o nausee per gli occhialini. La seconda proiezione era di qualità supe-
riore (un’anteprima per i vip) ed era godibile come un biglietto «E» di Disneyland, quello che dava diritto d’accesso a tutti i giochi più cool. Avatar avrà molte candidature all’Oscar. Negli Stati Uniti è uscito da poco The Hurt Locker, per molti critici il miglior film di guerra della storia. Kathryn Bigelow, ex moglie di Cameron, è regista e autrice del film, e si prefigura che i due divorziati potrebbero contendersi l’ambito premio di miglior film. Noi tifiamo Bigelow, non in quanto femmina, ma perché con una frazione del costo di Avatar ha fatto un film teso, magnifico, indimenticabile. Restano alcune perplessità sul film miliardo-di-dollari-in-treweekend. La dottoressa Augustine fuma; è fico, una scienziata americana che accende sigarette a catena in laboratorio, ma Cameron non dà seguito all’unica malizia sfuggita al suo lato oscuro nascosto: peccato. Negli ultimi quaranta minuti il film pacifista esplode in una battaglia epica dove il regista dà fondo al suo abbondante testosterone con un videogioco guerresco: esplosioni, sparatorie, raffiche di mitragliatrici, rumorosi scontri tra gigantesche macchine da guerra si scatenano in un Götterdammerung finale. L’arma più cameronesca è un carro armato verticale a forma di robot, non semovente alla Terminator ma comandato da un soldato al suo interno. In breve: un’opera anticapitalista, antimilitarista e antitecnologica è stata finanziata da Wall Street, finisce in gloria con una sfacciata battaglia epica, ed è l’apoteosi della tecnologia più avanzata. Inforcate gli occhialini, staccate il cervello e sparatevi ‘sto Avatar.
15 gennaio 2010 • pagina 19
Molti ambientalisti cercano di mutuare la loro causa in un imperativo morale
Quanto è religiosa la nuova anti-religione
Se gli abitanti del Pianeta, i Na’Vi, fossero stati cattolici, avremmo assistito a boicottaggi e proteste di Jonah Goldberg robabilmente non avete bisogno di una lunga sinossi dell’epico film di James Cameron Avatar: perché, anche se non l’avete visto, è come se lo aveste fatto. Cameron ha saccheggiato talmente tanto i cliché più in voga ad Hollywood che, volendo, si potrebbero copiare e incollare i dialoghi di Pocahontas o quelli di Balla coi lupi all’interno di Avatar senza per questo modificare in maniera sconvolgente la storia.
P
Per farla breve, il film racconta la storia del marine disabile Jake Sully che, grazie alle meraviglie cinematografiche, occupa il corpo di un altissimo alieno di oltre 3 metri per vivere nella mistica foresta del pianeta Pandora. Sully è descritto come un futuristico Lawrence d’Arabia, per enfatizzare ancora di più lo schema della malvagia corporation, che violenta la natura e che cerca disperatamente il prezioso minerale “unottanio”(e sono serio). Inevitabilmente, Jack si schiera dalla parte dei nativi ed abbraccia la eco-fede degli abitanti di Pandora e le loro dee degli alberi, le “madri di tutto”. Insieme agli aborigeni (per non menzionare proprio l’ecosistema pandorano) combatte contro le forze malvagie di un velato incrocio del 22esimo secolo fra la Blackwater e la Halliburton. Questo film è stato definito da molti un assalto
cottaggi e proteste. Se invece dipingi i giganti come seguaci di Rousseau, tutti saranno contenti eccetto qualche raro conservatore. Certamente io sono uno di quelli, e quindi giudico questo film in maniera diversa dall’uomo comune. Ma quello che considero interessante rispetto al film è che“cercare di piacere a tutti”sia così contrario all’apologetica religiosa. Il nuovo libro di Nicholas Wade, L’istinto della fede, compila lucidamente la prova scientifica a sostegno di una cosa che i filosofi dicono da secoli: per gli esseri umani è facile credere nel trascendente. Questa trascendenza può essere divina o semplicemente kantiana, una nozione che indica qualcosa che non si può conoscere tramite la mera esperienza. In entrambi i casi, secondo le parole del filosofo Will Herberg, «l’essere umano è un homo religiosus, religioso per ‘natura’: così come ha bisogno di cibo ed aria, ha bisogno di fede». Secondo Wade, l’evoluzione darwiniana dell’uomo è dipesa non soltanto dalla selezione naturale individuale, ma anche da una selezione naturale dei gruppi. E quei gruppi che hanno abbracciato una visione mondiale religiosa sono più facilitati nella sopravvivenza, e quindi nella trasmissione dei propri geni. Le regole religiose impongono norme morali che aiutano la sopravvivenza collettiva nel nome di una causa «più grande e importante del singolo». Non deve meravigliare il fatto che tutto quello che passa fra l’altruismo e il martirio è inestricabilmente previsto da praticamente tutte le religioni. L’istinto della fede potrebbe essere collegato proprio ai nostri geni, ma è comunque molto malleabile.
Gli aborigeni di Pandora combattono contro le forze malvagie di un velato incrocio del 22esimo secolo fra la Blackwater e la Halliburton
alla destra e una “apologia del panteismo”. La critica, mossa da Ross Douthat sul New York Times, colpisce il segno anche se è stato John Podhoretz, sul Weekly Standard, a sottolineare un punto ancora più importante. Cameron, dice Podhoretz, «ha scritto “Avatar” non per essere controverso, ma proprio per raggiungere lo scopo opposto: ha cercato di compiacere il maggior numero possibile di persone». Veramente controverso, aggiunge, «sarebbe stato un film in cui i buoni accettano Cristo nel cuore». Ovviamente, questo sembra essere assurdo: ma è proprio così. Viviamo in un’epoca in cui la norma vuole che si parli di spiritualità e si prenda in giro la religione tradizionale. Se gli abitanti di Pandora - i Na’Vi - fossero cattolici romani, avremmo assistito a boi-
Molti ambientalisti cercano di mutuare la loro causa in un imperativo morale, proprio come i Na’Vi. Non è un caso che Al Gore insista nel dire che il riscaldamento globale è «una sfida spirituale all’umanità», così come la campagna elettorale di Obama si sia incentrata su una sorta di mistica attesa religiosa per il «cambiamento». Quello che trovo in ogni caso affascinante, e che mi fa infuriare, è che la cultura del dibattito sulla guerra venga una volta di più descritto come un conflitto fra religiosi e non religiosi. L’istinto della fede si manifesta spesso attraverso lo spettro dell’ideologia, anche se viene mascherato da altro. A destra, molti conservatori hanno cercato e cercano di unire le cosiddette “diversità teologiche” attraverso l’unità morale. I cattolici, i protestanti e gli ebrei trovano sempre di più campi comuni di lavoro. A sinistra avviene lo stesso processo. Quello che, però, non si verifica mai è che un simile sforzo coinvolga la destra e la sinistra. Ed è per questo che la cultura della guerra, così come l’istinto alla fede, non ci abbandonerà molto presto.
speciale / avatar
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Eredità. «Avatar», ovvero l’arte di coniugare l’evoluzione tecnologica del cinema a una formidabile resa economica
La svolta del Cameronismo Ecco come cambierà il grande schermo dopo la rivoluzione in 3D del regista canadese di Alessandro Boschi adesso, povero cinema? Che sarà adesso del cinema, specialmente di quello povero, dopo che James Cameron ha di nuovo colonizzato la nostra immaginazione come all’epoca fece con Terminator? Sembra essere passato un secolo, e forse cinematograficamente è così. Correva l’anno 1984 e Arnold Schwarzenegger, con solo 17 battute recitate contribuiva a dare vita (impropria) a uno dei personaggi più celebri del cinema di fantascienza. Quel Terminator nato dalla fantasia di Gale Anne Hurd, di Harlan Ellison e dell’ex marito di Kathryn Bigelow (Cameron ha anche questa fortuna) destinato a diventare il prototipo dell’eroe (in quel caso negativo) indistruttibile e impassibile, quasi la versione palestrata e assassina di Buster Keaton. In questo, va detto, notevolmente aiutato dalla mono espressività dell’attuale governatore della California.
E
Dicevamo che sembra essere passato un secolo, e in effetti a vedere Avatar si ha come la sensazione che l’asticella sia stata spostata ancora oltre. Va subito detto che il regista riesce come nessun altro a coniugare l’evoluzione tecnologica del cinema con una formidabile resa economica. Dopo le prime settimane di programmazione Avatar sta stracciando tutti i record possibili e immaginabili e nella classifica degli incassi di tutti i tempi è secondo solo a Titanic, altro prodotto della premiata ditta James “Iron Jim”Cameron. Forse, allora, sarebbe il caso di pensare a coniugare un nuovo termine, il Cameronismo, che anche se può sembrare un pericoloso ibrido tra “camerata” e “peroni-
smo” servirebbe a rendere omaggio a un autore che checché se ne dica riesce sempre a stupire. E ad attirare l’attenzione di filosofi, sociologi, tecnocrati, psicologi, storici, religiosi e chi più ne ha più ne metta. Si è anche parlato molto delle sigarette fumate da Sigourney Weaver e negli Usa alla pellicola
è stato assegnato il “Polmone nero”. Di fatto, come sempre accade di fronte a un’operazione di così vasta portata, si è scatenata la corsa verso l’accaparramento ideologico. Il film in effetti (come tutti i film, sia chiaro) è una imponente metafora con le più svariate sfaccettature. Ma alla fine, come sempre, vincono i buoni. Si
ler vedere nei film qualcosa che in realtà non c’è. O, se c’è, c’è per caso. Avatar è un film grandioso ma anche un grande film. Il che non significa che ci abbia strappato l’applauso.
Ma è difficile rimanere impassibili di fronte a qualcosa che ci sembra destinato a lasciare il segno nella storia del cinema. Non è un caso se anche uno dei critici più scettici come Roger Ebert ha ammesso che dopo essersi seduto in sala ha ricevuto la stessa impressione provata nel 1977 durante la visione di Star Wars (e di essere stato costretto a ricredersi come per Titanic). Il fatto è che il regista Cameron riesce quasi sempre a mantenere ciò che promette. Si può non essere d’accordo sulla sua scelta tecnologica così dannatamente estrema, sul fatto che dopo aver visto per la prima volta un film in 3D abbia dichiarato che non avrebbe mai più realizzato un film “normale” così decretando
sti citati sopra… ma a volte le storie portano al loro interno, più o meno consapevolmente, dei segni del destino. Il film non è ancora uscito in Italia, accadrà oggi, e quindi ognuno di voi potrà verificare che quanto stiamo per anticiparvi non sciuperà la sorpresa. Anche
Il cineasta, ancora una volta, è riuscito ad attirare l’attenzione di filosofi, sociologi, tecnocrati, psicologi, storici e religiosi. Scatenando la corsa verso l’accaparramento ideologico è parlato di metafora ecologica, di apologo pacifista, di ritorno del Buon selvaggio, di lotta tra palazzinari che abbattono le foreste. Probabilmente è tutto vero. Ma come spesso accade, sono cose alle quali nel momento della realizzazione non rappresentano la precipua preoccupazione dei realizzatori. È un po’ il vizio dei critici oltranzisti, vale a dire vo-
la fine, dal suo punto di vista, del cinema tradizionale (ebbene sì, per noi è sempre “viva il 2D!”). Ma poi dimostra immancabilmente di essere in grado di padroneggiare le nuove tecniche di ripresa come nessun altro. Non solo, dimostra anche di saperle portare sempre un po’ più oltre. Ma c’è anche un’altra cosa in Avatar che ci dà la sensazione di trovarci di fronte a una svolta. Magari è solo una bislacca sensazione, pari a quelle dei critici oltranzi-
perché la storia dell’invasione di Pandora è arcinota e il film circola da mesi su internet… Non sveliamo quindi niente raccontandovi l’inizio. Che prevede la sostituzione di un soldato deceduto con il suo gemello (paraplegico…). Questo perché per poter conoscere meglio Pandora e i suoi abitanti si è pensato di creare degli avatar, vale a dire degli esseri fisicamente superiori il cui Dna è il risultato della combinazione tra il Dna umano e quello degli
abitanti di Pandora. Di conseguenza, visto che creare un avatar è molto costoso, si cerca di recuperare quello altrimenti inutilizzabile del soldato morto adoperando il gemello, il cui Dna è molto simile. Ebbene, questi due fratelli che si danno il cambio (al paraplegico viene promessa come ricompensa una costosissima operazione per il recupero della funzionalità degli arti inferiori) sembrano rappresentare il passaggio di testimone tra un cinema che muore e un altro che sta nascendo. Ma questi per nascere ha bisogno di entrare in un altro corpo e di abbandonare il proprio, ormai difettoso, superato. Per questo è necessario che l’anima, che comunque del corpo è elemento fondante, trasmigri con tutti i suoi ricordi in un corpo nuovo più efficiente. Si muore (il corpo umano muore), e ci si migliora (si diventa avatar). Il concetto vi sarà ancora più chiaro dopo avere visto il film. Come diceva Caterina Caselli «non sarà facile ma sai, si muore un po’ per poter vivere». In fondo l’evoluzione (e il cinema non fa eccezione) risponde a delle regole: ci si migliora, a volte, ma sempre si cambia. Anche Wim Wenders nel 1973 con “Alice nelle città” segnò un momento di svolta:
speciale / avatar
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La prima forma virtuale di immortalità attraverso una proiezione dell’io
Come nacque la filosofia del «vivere altrove» L’avatar fu inventato per gioco molti anni fa. Bastava un pc, un collegamento a internet e un videogame... di Roberto Genovesi errà il giorno in cui le macchine sostituiranno l’uomo. Ma verrà anche il giorno in cui i simulacri sostituiranno le macchine. A giudicare dagli scenari proposti da alcuni film ai blocchi di partenza in queste settimane, quel giorno sarebbe molto vicino o, perlomeno, piuttosto prevedibile nei contorni e nelle tinte.Tutto cominciò per gioco. Occorreva un pc, un collegamento in internet e un videogame. Ogni giocatore sceglieva un personaggio e lo faceva muovere in mondi fantastici con lo scopo di trovare tesori, uccidere draghi, costruire armature sempre più potenti. Con il tempo le comunità virtuali sono diventate sempre più numerose e la comparsa della funzione di chat durante le sessioni di gioco ha reso i mondi alternativi dei veri e propri luoghi altri dove incontrarsi e socializzare con la scusa di ammazzare un mostro.
V
Il meccanismo dei mondi virtuali ha permesso un vero e proprio stravolgimento delle gerarchie e non è azzardato conferirgli funzioni di ammortizzatore sociale. Nelle terre di World of Warcraft può capitare di far parte di gruppi in cui il capo sia un bidello e lo scudiero un componente del cda di una multinazionale. Fa parte del gioco, fa parte dei nuovi equilibri. Ed è anche un modo per scaricare online la frustrazione di una carriera lavorativa non proprio apprezzabile, di un amore finito male o di una collocazione nelle gerarchie sociali non rispondente alle proprie aspirazioni. Vedere qualcuno che ci vuole superare nella lunga fila alla posta è meno doloroso se si è druidi di ottantesimo livello. La parola magica è avatar. Che non è solo il titolo del più costoso film della storia del cinema ma anche il nome di una filosofia, quella del vivere altrove attraverso una proiezione della propria personalità. Un meccanismo che, con tutte le sue storture, le sue esasperazioni e le sue implicazioni di carattere perfino etico, ha fatto registrare una diffusione a progressione geometrica tra la popolazione della rete. L’avatar è la tridimensionalizzazione del nick name. A un nome fittizio viene concessa anche una forma, più o meno umana e più o meno vicina a quella reale. Qualche volta perfino molto diversa per scelta. Così, per un uomo essere un elfo scuro donna non comporta alcun problema di carattere psicologico o sessuale. L’universo virtuale ragiona attraverso parametri e regole diverse da quello reale. Un mondo di simulacri che sfidano intemperie, trabocchetti, nemici potentissimi con il solo scopo di rafforzare il proprio ego. Poco importa quante volte si muore poiché subito dopo si può risorgere e riprendere la sfida. L’avatar è dunque la prima forma virtuale di immortalità. Il giorno in cui
fosse in grado di registrare oltre che le informazioni anche le sensazioni del suo io reale questi potrebbe fare anche a meno del suo corpo e vivere per sempre. O, almeno, fino a quando il suo mondo virtuale resta sul server. Avatar e Il Mondo dei Replicanti hanno provato a darci alcune suggestioni. Il risultato del cammino degli artisti è stato però molto diverso. In comune una sola cosa, la più importante. Il corpo umano non è coinvolto se non cerebralmente nel processo di proiezione verso il simulacro. Il corpo non agisce, non subisce, non si deteriora. In sostanza non rischia, se non nel momento in cui qualcuno provi a fermare le funzioni di flusso tra fonte e corpo di destinazione. Esseri biologici con in comune qualche tassello di Dna o semplici macchine a immagine e somiglianza, non importa come sia fatto lo strumento. Non si rischia nulla perché ad agire è qualcosa che non deve rispondere alle leggi della comunità umana. E l’accettazione di questo compromesso è, automaticamente, la inconsapevole accettazione che l’anima esiste. Se è vero, infatti, che all’avatar è concesso di poter fare tutto e di poter ignorare le regole (non rubare, non uccidere, non soffrire, non amare) allora questo significa che l’essere umano avrebbe invece necessità di sfogare tutti questi sentimenti qualora fosse impegnato nelle stesse azioni del suo simulacro. Dunque l’essere umano non può fare a meno dei suoi sentimenti. Se ne fosse privato o inibito sarebbe come un avatar, una macchina, una proiezione allo specchio.
Ogni giocatore sceglieva un personaggio e lo faceva muovere in mondi fantastici con lo scopo di trovare tesori, uccidere draghi, costruire armature potentissime
fece credere a molti che si potesse fare film quasi a costo zero (per questo adoro Wenders, ma lo ritengo responsabile di pellicole wendersiane micidiali e punitive). Certo il cinema tecnologicamente avanzato ha già dato segni precisi e abbondanti in questo senso, ma era necessario James Cameron per sancire il passaggio.
Parafrasando ciò che dice Jorge Luis Borges (Altre inquisizioni) a proposito di Kafka, «ogni grande regista crea i suoi predecessori». Tanto che ci siamo spendiamo due parole sul significato di questo termine, solitamente destinato ad indicare i pupazzetti cui lasciamo interpretare noi stessi su social network tipo Facebook… Avatar, o più esattamente “avata-
ra”, è un termine sanscrito che sta a designare la varie incarnazioni degli Dèi indiani (nel senso di India). Soprattutto nel vishunismo. Per essere precisi gli avatara classici sono solo dieci: Matsya (pesce), Kurma (tartaruga), Varaha (cinghiale), Narasimha (uomo leone), Vamana (nano), e poi Parashu Rama, Rama, Kalkin, Krishna e, naturalmente, Buddha. Nell’enciclopedia che abbiamo consultato (non avrete mica creduto che li sapessimo e memoria, spero), subito dopo il termine avatara c’è Avati (nel senso di Pupi). Chissà magari è un segno del destino, e il buon Pupi prima o poi si troverà a proprio a ridosso di Avatar (nel senso di film) al box office. Magari ricorrerendo al suo avatar cinematografico.
Ma se accettiamo questo assioma, accettiamo anche che le regole possano essere evitate. E appare molto interessate la posizione di alcuni filosofi di formazione cristiana, che nei mesi scorsi hanno provato ad aprire il dibattito sulla necessità di considerare le azioni e i comportamenti degli avatar suscettibili di giudizio divino. In sostanza il fatto che l’uso di un avatar possa far cadere i muri inibitori non significa che la persona che lo gestisce non debba rispondere dei comportamenti derivati. Come va gestito il sentimento che può nascere tra due avatar, nella vita regolarmente sposati con i rispettivi coniugi? Come si può giudicare l’omicidio di un avatar ad opera di un suo simile? Anche se ci trovassimo su mondi ostili, lontani dal nostro, dove sono i draghi a farla da padrone, il valore di sentimenti come l’amicizia, il tradimento, l’odio avrebbero una valenza diversa rispetto a quelli suscitabili nella vita di tutti i giorni? Se il rapporto tra uomo e suo avatar restasse nella sfera bidimensionale del gioco, forse il problema sarebbe di relativa entità. Ma se un giorno i nostri avatar fossero in grado di venire in contatto con altri esseri umani, che accadrebbe? Come dovremmo chiamare quel ponte tra il reale e la proiezione del reale?
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da ”le Figaro” del 14/01/10
Il burqa dei socialisti francesi di François-Xavier Bourmaud l segretario del Partito socialista francese aveva aperto il 2010 sfidando il governo sul tema degli immigrati: il voto degli stranieri alle elezioni amministrative - non nuovo né a destra né a sinistra, ma utile a causare qualche distinguo e molto disagio soprattutto nella maggioranza di centrodestra. In Francia, l’idea del voto agli stranieri per le elezioni locali non è nuova. Era nelle 110 proposte del presidente socialista, Francois Mitterrand, per l’elezione presidenziale del 1981. Ora è Martine Aubry a trovarsi in difficoltà con i suoi.
I
Una volta al potere, lo storico leader socialista la ripose nel cassetto: impopolare. Ora il ministro dell’Immigrazione, Eric Besson bolla come «controproducente» l’iniziativa della Aubry. «Agitare questo argomento in un periodo elettorale è sbagliato», ha affermato. Anche se in prospettiva, nei prossimi 10 anni, ha ribadito «mi pare un dibattito legittimo». Poi è arrivato l’affondo sul burqa. Il premier, Francois Fillon, ha ribadito che il divieto del velo integrale deve passare per una «risoluzione», vale a dire una dichiarazione di principi in Parlamento, a cui si aggiungerebbero altri testi per la concreta applicazione della norma. Pur ricordando la sua ferma opposizione al burqa, la Aubry ha invece ribadito il suo «no» a una legge che lo vieti. All’unanimità i socialisti sono tutti contro il velo integrale. Ma come giudicano il divieto d’indossarlo per legge? Qui è dove si complica la faccenda. Ufficialmente, il Ps si oppone a una legge «speciale». E la Aubry che aveva deciso la linea dopo l’assemblea nazionale del partito la scorsa settimana, sta facendo alcune riflessioni. Un’indicazione di quanto l’argomento tocchi molte sensibilità tra i socialisti, tanto che alcu-
ni membri della segreteria nazionale non avevano ancora capito quale fosse la linea ufficiale. Il primo segretario socialista pensa che una legge-divieto, come proposto Jean-Francois Cope «sarebbe probabilmente incostituzionale e nel caso non lo fosse, sarebbe comunque inefficace». La Aubry ritiene che la legge in vigore sia sufficiente per «prevenire» l’uso del burqa. Per ora, il Ps si oppone alla normativa sul divieto, ma si riserva comunque la possibilità di cambiare posizione. «Come possiamo pensare che sia la polizia a costringere una donna ad abbandonare il burqa oppure togliersi il velo?» la domanda del portavoce dei socialisti, Benoît Hamon, per giustificare l’opposizione del suo partito alla legge. «È una situazione complicata», spiega Aurélie Filippetti, scrittrice e membro del Ps che sostiene invece l’idea di un divieto.
«Siamo contro il burqa in nome della dignità delle donne e del vivere insieme. Ma ciò che condiziona la nostra vita – continua la Filippetti – è solo la legge». La parlamentare della Mosella non è la sola su questa linea. Manuel Valls sostiene anche lui l’idea di una legge che vieta il velo integrale e perfino con una sanzione pecuniaria di 750 euro. Una posizione che corrisponde, grosso modo, a quella del Ump. «Quando si tratta di Repubblica, di valori della laicità, siamo d’accordo con loro», afferma Valls. Ma i deputati socialisti dovranno scegliere bene quando si tratterà di votare a favore o contro la legge. Questo è ciò che Laurent Fabius (anima
critica del socialismo francese, ndr) ha ricordato loro mercoledì mattina in una riunione in seno all’Assemblea nazionale, quasi interamente dedicato al tema. «Dobbiamo prendere una posizione, ha avvertito, prima portare avanti un’altra proposta». Per Julien Dray, sarebbe «non una legge contro il burqa», ma «una legge per la dignità». Il Partito socialista ha ancora un po’ di tempo per definire la propria posizione.
Jean-Francois Cope non dovrebbe presentare il disegno di legge prima di aprile. Fino ad allora, la commissione informativa parlamentare sul velo integrale avrà espresso le sue conclusioni. Dovrebbe accadere il 26 gennaio. Secondo il suo presidente, il deputato comunista André Gerin, una legge che vieta il burqa sarà possibile già quest’anno. «Dobbiamo agire al meglio e soprattutto essere sicuri che non venga colpito un fondamento costituzionale», ha però avvertito.
L’IMMAGINE
Per non dimenticare i sentimenti nazionali: bene Radetzky ma seguito dal nostro inno I concerti di Capodanno della filarmonica di Vienna hanno riscosso enorme successo tra i telespettatori. Sarà stato questo il motivo per cui, anche da noi, delle bande musicali hanno aggiunto nel repertorio dei loro concerti la marcia di Radetzky. Si tratta di una musica molto gradevole, che genera allegria e provoca la partecipazione degli ascoltatori con applausi cadenzati. Nello spirito europeistico che ci anima, superiamo il peccato originale della sua creazione a condizione che alla sua esecuzione segua un nostro inno patriottico. La marcia venne scritta per festeggiare la repressione delle cinque giornate di Milano, che furono animate anche dai versi immortali del Manzoni: “O compagni, sul letto di morte, o fratello su libero suol, Per l’Italia si pugna, vincete! Il suo fato su brandi vi sta. O risorta per voi la vedremo, al convinto dei popoli assisa, o più serva, più vil, più derisa sotto l’orrida verga starà”...
Luigi Celebre
INCREMENTO SPESA SU PIL La verità viene sempre a galla, prima o poi. La relazione del Nucleo di valutazione sulla spesa pensionistica, non ha potuto fare a meno di segnalare un’importante e preoccupante incremento della spesa pensionistica sul Pil - già nel 2010 - in conseguenza della crisi economica in cui versa il Paese. Peraltro il calcolo del Pil (che è il parametro di rivalutazione del montante nel sistema contributivo) determinerà anche una penalizzazione delle future pensioni. In ogni caso, con gli interventi sulle pensioni, non siamo alla fine della storia.
Francesco Comellini
TERREMOTO AD HAITI Il terremoto ad Haiti è l’ennesimo velo sottile che si scopre in paradisi naturali presi d’assalto dal tu-
rismo, ma con una popolazione che, oltre ad essere povera, non possiede le strutture adatte alla prevenzione di tali cataclismi. In tale regime di mancanza di cultura, molti regnanti ne hanno approfittato per opprimere il popolo con la scusa delle opportunità offerte dalla globalizzazione. Un fenomeno che ha fatto rimpiangere in molti luoghi il vecchio colonialismo europeo, che al di là dello scempio delle schiavitù, ha portato più benessere e democrazia di quanto si stia facendo oggi.
Bruna Rosso
LA CANDIDATURA DI RAUTI: UN BUON VALORE AGGIUNTO L’ipotesi della candidatura di Isabella Rauti alla Regione Lazio sarebbe un fatto importante. La sua esperienza politica, unita al suo
Camere separate Si è fatto giorno, tutti a nanna! Per il microcebo murino, piccolo lemure notturno del Madagascar, il riposo è riposo, e le coccole prima di addormentarsi sono rigorosamente bandite. Alle primi luci dell’alba, maschi e femmine si separano: i primi si appisolano tra di loro, rannicchiati a due a due, le seconde riposano in grandi nidi di foglie comunitari
curriculum professionale, rappresenterebbero uno straordinario valore aggiunto per la lista che sostiene Renata Polverini. Nel Lazio, grazie al centrodestra, la legge elettorale stabilisce che nel cosiddetto listino collegato al presidente, entrambi i sessi siano rappresentati in misura paritaria. Ciò comporta la presenza obbligato-
ria di sette donne. Mi auguro che Isabella Rauti sciolga la riserva e decida di scendere in campo.
Barbara
DURATA MASSIMA L’immagine che la destra italiana sta dando all’estero non è più critica come una volta. Lo testimoniano molti connazionali che vivono
fuori e sottolineano il fatto che, oltre la logica satira che esiste ovunque e che si calza bene a Paesi con governi forti, si sta prendendo contatto con la realtà che il nostro esecutivo possiede carattere e capacità, in barba all’atavica statistica che profetizza in due anni la durata massima di un governo italiano.
Lettera firmata
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Ci ho versato tutta la mia anima Antonietta, esci di casa verso le nove e mezzo. Passa da madame Delac; se vi sarà il mio ragazzo alla porta, riceve; se no, converrà rassegnarsi alla provvidenza. Ma se il cielo stamattina ci abbandonerà, non ci abbandoniamo noi. Non vedendo il servitore alla porta, verso le nove e mezzo, sta’ sicura ch’io passeggerò in quel momento nel solito boschetto. Bada che il mio ragazzo sarà vestito di un abito corto verde, pantaloni bigi, abbottonati lungo le cosce e le gambe e guarniti di una striscia rossa ne’ luoghi dell’abbottonatura; cappello a tre corna; faccia bruna; statura un po’ più alta della mia; ciglio fosco; capelli nerissimi e tagliati; e per metterti in salvo da qualunque equivoco avrà in mano una fascia larga di seta rossa. Ti scrivo anche un altro biglietto perché desidero che tu risponda separatamente. Ti prego anche di leggerlo con attenzione; io ci ho versato tutta la mia anima; e quantunque due ore dopo, io mi sento ancora agitato dalla commozione con cui l’ho scritto. Domani a che ora? Piuttosto prima che dopo le nove: il boschetto di casa Delac è eccellente, ma bada, tu sola, sola. Spero che nel tuo biglietto di questa sera mi dirai qualche cosa. In tutti i casi, domani sarò al solito sedile; il tempo sarà bello. Ugo Foscolo ad Antonietta Fagnani Arese
ACCADDE OGGI
INTERNET, LIBERTÀ DI ESPRESSIONE E CENSURA: CHE CONFUSIONE! Lo scorso 11 gennaio un giudice del tribunale di Firenze ci ha condannato ad impedire che sui nostri forum si villaneggino i responsabili di presunti illeciti o truffe. Una decisione non decisione l’abbiamo definita, perché anziché indicare cosa il giudice ritiene lesivo, e quindi da rimuovere, rimette la palla in gioco demandando questo compito a noi, che lo faremo - ovviamente - secondo le nostre logiche. Di conseguenza chi ci ha chiamato in causa, e chiedeva l’oscuramento totale del forum, caso per caso valuterà se sentirsi soddisfatto o richiamarci in giudizio. Sulla libertà di espressione e Internet, il tribunale ha aperto ad una confluittualità permanente tra difensori e detrattori. Questa sentenza arriva dopo una dello scorso ottobre dove, invece, un giudice sempre del tribunale di Firenze, in nome dell’inesistenza del diritto all’anonimato, ci aveva fatto chiudere un intero forum. Di recente, dopo l’aggressione al capo del governo, si è scatenata una volontà di censura su Internet perché alcuni avevano inneggiato in Rete a questa violenza. Poi tutto si è risolto con qualche raccomandazione. Lo scorso marzo siamo dovuti arrivare in Cassazione per farci sentenziare contro la nostra pretesa che un sito Internet potesse essere considerato, nell’ambito delle responsabilità civili e penali, come un giornale e quindi soggetto alle leggi sulla stampa. A
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
15 gennaio 1969 L’Unione Sovietica lancia la Sojuz 5 1970 Muammar Gheddafi viene proclamato premier della Libia 1971 Inaugurazione della diga di Assuan sul Nilo 1973 Il presidente americano Richard Nixon annuncia la sospensione delle azioni offensive sul Vietnam del Nord 1974 Happy Days, la nota serie televisiva, debutta sulla rete televisiva ABC 1976 L’aspirante assassina di Gerald Ford, Sara Jane Moore, viene condannata all’ergastolo 1992 La Comunità europea riconosce formalmente la Slovenia e la Croazia 1993 Viene catturato e arrestato Salvatore Riina 2001 Wikipedia, un’enciclopedia libera basata su Wiki appare su Internet 2005 Arrivano sulla Terra le foto della sonda Huygens su Titano 2008 Alcuni studenti dell’università La Sapienza di Roma manifestano contro Papa Benedetto XVI, che è costretto ad annullare la sua lectio magistralis
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
luglio del 2008 il tribunale di Catania ci aveva dato ragione contro chi aveva chiesto di censurare i nostri forum, in cui alcuni esprimevano con bestemmie le loro opinioni. A settembre del 2007 il tribunale di Bari ci diede ragione e negò la richiesta di oscuramento di un nostro forum, riconducendo la partecipazione allo stesso come lecita manifestazione dei diritti di libertà di espressione e di critica. A luglio del 2007, invece, il tribunale di Palermo ci ha condannati a censurare una lettera pubblicata sul nostro sito che si lamentava - in modo civico - del non-rispetto di un preventivo di un’azienda che, tra l’altro, si era rifiutata di replicare sul nostro sito a queste rimostranze. Sempre a luglio 2007, il tribunale di Padova dichiarò illegittimo l’oscuramento delle pagine del nostro sito web che contenevano riferimenti con accezione negativa ad una agenzia viaggi, e affermò il nostro diritto alla libera manifestazione del pensiero. Nel giugno 2007, la polizia postale di Firenze venne nella nostra sede a sequestrare, in ottemperanza ad un’ordinanza di un giudice del tribunale di Este-Padova, che avevamo già onorato (quindi viaggio inutile), alcune lettere pubblicate sul sito in cui si parlava negativamente dell’agenzia di viaggi di cui sopra. Censura dovuta - a detta del giudice - perché essendo in corso una causa di questa agenzia con altri, non era bene che altrove si parlasse di loro.
IL PORTO DI MARATEA È A RISCHIO Le mareggiate non fanno sconti. Maratea, con il suo porto e la sua costa rappresenta un riferimento socio-economico della comunità locale e dell’intero comprensorio del lagonegrese di assoluto rispetto. Ciò premesso, gli enti locali si prodighino per assicurare a questa comunità risorse e attenzioni che, di giorno in giorno, rispetto alle emergenze persistenti, vanno continuamente cercate e garantite. Si fa presente che, in seguito a un sopralluogo fatto sul posto il 6 gennaio scorso, con amministratori e operatori locali, i problemi che assillano maggiormente, per la loro problematicità, in questo avvio di stagione, sono: 1) il fisiologico indebolimento delle strutture portuali, per chiarezza lo stato del molo nord e molo sud che, a seguito delle turbolenti mareggiate di questo inverno, presentano una visibile e preoccupante condizione di deperimento che, con azioni di urgenza, va affrontata e risolta; 2) la persistente erosione delle spiagge, in particolare quella del Nastro di Cersuta, preoccupa non poco gli operatori locali che, nel giro di questi ultimi mesi, hanno visto retrocedere in modo vistoso decine e decine di metri di spiaggia; 3) lo stallo del Piano Lidi che merita dal punto di vista amministrativo un’accelerazione. Chiedo al presidente della Giunta regionale di conoscere quali iniziative intenda adottare per porre rimedio a queste complesse questioni, ritenute urgenti per la crescita della situazione economica e sociale della città di Maratea e del Lagonegrese. Gaetano Fierro ESAME E PROSPETTIVE DEL PARCO DEL MEDITERRANEO Il progetto del Parco del Mediterraneo avvierà delle prove tecniche di dialogo tra i responsabili dei Parchi del Pollino, della Val D’Agri -Lagonegrese e del Cilento - Vallo di Diano, per verificare se esistono le condizioni politiche e culturali per una possibile unificazione dei tre parchi che hanno medesime caratteristiche ambientali, fisiche e storiche. La rappresentazione dei tre parchi in un solo unicum rafforzerebbe, in chiave strategica, le potenzialità di un’area montana, concentrata nelle proprie energie economiche e competenze direzionali, che diventerebbe un grande polo attrattivo nel sistema geo-morfologico euro-mediterraneo e ridisegnerebbe sul territorio la presenza di nuove realtà istituzionali: province, comunità montane ed altro, con il compito di governare, in un’aggiornata programmazione interregionale, quelle aree oggi diventate o ritenute impropriamente marginali. Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I L IB E R A L BA S I L I C A T A
APPUNTAMENTI GENNAIO 2010 LUNEDÌ 18, ORE 18,15, MILANO SALA CONSIGLIO REGIONALE LOMBARDIA Direttivo Circoli liberal Lombardia.
VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Aduc
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
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Con interventi di Adornato, Bondi, Capotosti, Casavola, Casini, Ciampi, Cisnetto, D’Onofrio, De Giovanni, Folli, La Malfa, Malgieri, Rutelli