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Il potere non corrompe

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gli uomini; e tuttavia se arrivano al potere gli sciocchi, corrompono il potere

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George Bernard Shaw di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 19 GENNAIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Ancora in bilico le scelte di molti governatori mentre Bossi minaccia l’Udc: «Resti sotto il Po». Casini: «L’arroganza non paga»

I berluschini di sinistra

Vendola in Puglia e Loiero in Calabria.Contestano al premier il mito dell’uomo-solo-al-comando ma nelle Regioni fanno come lui:cavalcano il “populismo localistico”per conservare il loro potere Continuano riflessioni e polemiche sul decennale della morte di Craxi

La Corte suprema di Brasilia aveva autorizzato l’estradizione

Lula e il Cavaliere: inciucio su Battisti? La stampa brasiliana sostiene che il presidente si appresta a dare asilo politico al terrorista. E racconta di una trattativa del governo italiano per evitare che la notizia “esca” in prossimità della visita (in febbraio) del nostro presidente del Consiglio. Se fosse vero sarebbe un vile “pasticcio di Stato” pagine 4 e 5

Era lui il nostro De Gaulle, ma ha abdicato di Giancarlo Galli

di Errico Novi

ROMA. Nichi Vendola in Puglia e Agazio Loiero in Calabria hanno aperto un problema politico nel centrosinistra che va ben oltre il singolo caso delle loro candidature: è il nodo del «populismo localistico» cui dirigenti territoriali fanno appello nella speranza di conservare il proprio potere. Insomma, certi “piccoli leader” contestano al premier il mito dell’uomo-soloal-comando ma poi si comportanto allo stesso modo, come piccoli berluschini. a pagina 2

CRONACHE DA UN PARTITO IN STATO DI AGITAZIONE

L’assedio è sempre intorno a D’Alema di Antonio Funiciello l Pd siamo ormai arrivati alle minacce di morte. Il capo dei dalemiani, Nicola Latorre, ha detto ieri chiaro e tondo (in un’intervista alla Stampa) che se il Pd va avanti di questo passo va incontro al suo suicidio. Come al solito, La-

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IL SOTTOSEGRETARIO MANTICA

torre parla a nuora (minoranza franceschinian-veltroniana) perché suocera (maggioranza bersaniana) intenda. A livello periferico, Latorre e i dalemiani ce l’hanno con i cosiddetti ”berluschini” (Loiero, Vendola, Bassolino). a pagina 3

UN CASO ANCORA APERTO

Haiti è sempre nel caos: seconda vittima italiana

«Sono solo voci, Non tradite la nostra linea le vittime non cambia» del terrorismo

Tutto il mondo trema Scosse in Guatemala e Grecia

elle tante rievocazioni sull’operato di Bettino Craxi m’ha colpito un «buco di memoria»: il suo progetto di una Grande Riforma degli assetti istituzionali (ed anche costituzionali) dello Stato. Appena nominato (1976) segretario del Psi, Craxi mise mano al suo progetto senza calcolare che in Italia le Riforme con la maiuscola piacciono solo a parole. a pagina 8

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Martelli: «Fu il suicidio dei comunisti»

di Riccardo Paradisi

di Giancristiano Desiderio

l Brasile non ha intenzione di restituire all’Italia Cesare Battisti e il nostro governo italiano non ha alcuna intenzione di farne davvero un caso. A dispetto dei frettolosi entusiasmi suscitati due mesi fa dal verdetto favorevole all’estradizione della Suprema corte brasiliana, a proteggere l’ex leader dei Proletari armati per il comunismo si conferma uno scenario incredibile, da intrigo internazionale, sull’asse Francia-Brasile-Italia.

esare Battisti è un terrorista, condannato dalla giustizia italiana più volte all’ergastolo e rifugiato in Brasile. Sarà finalmente consegnato allo Stato italiano? La domanda non è fuori di luogo per un motivo semplice e grave: sebbene la Corte suprema abbia dato il suo benestare per la sua estradizione, il presidente Lula sarebbe intenzionato a tutelarlo concedendogli l’asilo politico «per motivi umanitari».

ROMA. Dopo il terrore di Haiti, due nuove scosse di terremoto hanno impaurito il mondo: in Guatemala e in Grecia la terra ha tremato seminando paura tra le popolazioni. Niente a che vedere con le devastazioni nelle Antille, per fortuna. Dove però ieri è stata identificata la seconda vittima italiana: è un fiorentino, Guido Galli, funzionario dell’Onu.

ROMA. «La figura di Bettino Craxi parla e morde nell’attualità: non è una lapide o una memoria da consegnare a un Paese come un epitaffio». Claudio Martelli, delfino del leader socialista, ne tratteggia così l’attuale eredità. «Naturalmente spero che nel tempo prevalga l’aspetto politico e culturale e che finisca, per esaurimento dei contendenti, la chiave di lettura più accanita».

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CON I QUADERNI)

di Francesco Capozza

• ANNO XV •

NUMERO

11 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

di Franco Insardà

19.30


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pagina 2 • 19 gennaio 2010

Schegge. Personalizzazione della politica e perdita delle identità: così Caldarola e Feltrin spiegano il caos-candidature nel Pd

La carica dei berluschini

Vendola in Puglia, Loiero in Calabria: per il centrosinistra c’è un nuovo problema. È il «populismo localistico» di chi si ritiene intoccabile di Errico Novi

ROMA. Quanto vale oggi il Pd? Qual è la quotazione di mercato del suo marchio? È piuttosto bassa, se hanno fondamento le guasconerie di Loiero: «Metto in campo tre mie liste e quello che succede succede», è la sfida del governatore calabrese, in pratica convinto di poter battere il partito nazionale con un pacchetto di simboli locali. Non sarebbe mai successa una cosa del genere al vecchio Pci, nessun potente di periferia avrebbe mai osato tanto nella Dc di un tempo, almeno in competizioni importanti come le prossime Regionali. E allora cos’è successo, cos’ha trasformato la seconda forza politica italiana in un incomprensibile puzzle? Nell’unica delle regioni ancora in bilico dove i democratici lasciano intravedere un barlume di trasparenza di metodo, cioè nel Veneto affidato al leader degli artigiani di Mestre, Giuseppe Bortolussi, il risultato si consegue a prezzo dell’alleanza con l’Udc, opzione a cui Pier Luigi Bersani teneva molto. «Proviamoci anche senza il partito di Casini», dice ora l’assessore di Massimo Cacciari, e così dà prova che nel Pd anche quando la parola spetta a un moderato la dissonanza dal vertice nazionale è inevitabile. Ma certo il vero campione tra i “berluschini di sinistra”è il presidente della Puglia Nichi Vendola: è cresciuto grazie all’appeal mediatico, nel progressivo svuotamento ideologico della sua parte politica, fino a diventare un’icona acclamata da molti all’interno dello stesso partito di Bersani nonostante non ne faccia parte. «I berluschini», secondo la definizione proposta a liberal da Peppe Caldarola, «si sono affermati a sinistra come a destra in una fase di grande personalizzazione della politica. Ma intanto hanno potuto farlo perché mentre è cresciuto il peso

delle suggestioni mediatiche si è affievolito il profilo politico dei partiti, e le vecchie appartenenze non sono state sostituite da nuovi ideali».

È così che sciamano indisturbati i Loiero e i Vendola, i Bassolino e le Lorenzetti ma anche i loro contraltari sul territorio come Agostini e De Luca. Siamo al populismo localistico, sono candidature che sfuggono al controllo della segreteria nazionale e fanno precipitare il Pd nel caos. Più che un materializzarsi del “partito federale”è, dice Caldarola, «la rivelazione che il Pd consiste in una somma di partiti personali locali, con un’apice nazionale creatosi con l’aggregazione tra Ds e Margherita». Ma se è così allora tutta l’energia impiegata nella costruzione di una nuova identità, i manifesti dei valori e gli statuti elaborati nel biennio 2006-2008 sono svaniti nel nulla? «Il punto è che la trasformazione del vecchio modello in una serie di partiti personali precede la nascita del Pd: il fenomeno era già molto presente soprattutto al Mezzogiorno sia nei Ds che nella Margherita». Ecco in cosa consiste la rivelazione: l’affermarsi incontrollato di sistemi di potere che si sono andati formando negli anni scorsi e rispetto ai quali i vertici nazionali avevano pensato fino forse a quest’ultima diaspora di poter esercitare un controllo. Il timore in fondo ha sempre riguardato i livelli di corruzione: della Campania di Antonio Bassolino, per esempio, i leader nazionali dei Ds prima e del Pd oggi hanno pensato che si trattasse di un super sistema clientelare pericoloso per i suoi risvolti giudiziari, ma non per questioni strettamente politiche. E invece oggi è il governatore tristemente noto per i rifiuti a stabilire che Vincenzo De Luca non può candi-

E Bossi minaccia l’Udc: «Se ne resti sotto al Po» PAVIA. Umberto Bossi si conferma il più esperto frequentatore di “politichese” di questo crepuscolo di Seconda Repubblica; uno per cui i voti contano più delle idee. «Se Casini vuole fare accordi con la Lega al di sopra del Po, per lui non c’è spazio»: ecco, malgrado nessuno gli abbia chiesto il via libera per eventuali alleanze, ciò che il leader leghista ha detto intervenendo all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università di Pavia ha detto: «Casini vada da solo visto che si ritiene così forte.Vada da solo a vedere quanti voti prende». D’altra parte, ha rincarato la dose il Senatùr, Pier Ferdinando Casini «è uno che fa molte chiacchiere e pochi fatti. E soprattutto pochi numeri». Poi, sollecitato sul tema, Bossi non ha escluso la possibile esistenza di un asse tra il leader dell’Udc e il presidente della Camera: «Che siano amici mi sembra vero. Però alla fine contano i voti, uno può anche sognare ma contano solo i voti. Noi abbiamo detto a Fini che poiché Casini ha detto di no al federalismo fiscale e agli aiuti per gli allevatori, con noi non sarebbe venuto. Come fa la Lega a governare con chi tutti i giorni la pensa in maniera diversa?». In maniera diversa da Bossi, evidentemente.

Non si è fatta attendere la replica di Casini, che ha accusato la Lega di essere «arrogante» e di voler «dettare alleanze anche al sud». «Credo che gli italiani abbiano capito chiaramente che il problema non sia tra noi e il centrodestra, ma siano Bossi e la Lega», ha risposto Pier Fedinando Casini a margine della presentazione di un volume della Cei alla Camera. «Pretendono di dettare le alleanze non solo al nord, dove noi non siamo disponibili a intese con loro e loro con noi, ma anche al sud. È un problema che riguarda la Lega e il Pdl. Nessuno può pretendere che noi tradiamo i nostri elettori facendo un’alleanza nazionale con il centrodestra. Il nostro elettorato ci ha mandato in Parlamento all’opposizione, se facessimo una cosa diversa saremmo dei traditori delle banderuole».

darsi alla sua successione, e che al massimo si può concedere un via libera per il debole Enzo Amendola.

C’è un passaggio che ha aggravato la situazione, dice ancora Caldarola, e paradossalmente è proprio quello della fusione Ds-Margherita: «Si è sperato di poter unificare politicamente questi clan e invece la debolezza dimostrata dal Partito democratico, con i suoi tre segretari in un anno e mezzo, ha ancora più rafforzato i partiti locali». Se non bastasse l’esperienza dell’ex direttore dell’Unità arriva il conforto di un’analista “scientitfico” come Paolo Feltrin, sociologo attento alle dinamiche dei partiti: «Nonostante siano diventate più ricche dal punto di vista finanziario le strutture politiche nazionali hanno sempre meno legittimità nel comporre le divergenze locali perché scompare quel tessuto ideologico che dovrebbe tenere unita la base: e non c’è dubbio che l’indebolimento dei principi unificanti è stato accentuato dalla fusione. In fondo il vecchio Ppi poteva ancora imporre un ordine alle proprie articolazioni locali, ma con la nascita del Partito democratico quella capacità è venuta meno». Torna utile un paragone con la ormai sempre più rimpianta Prima Repubblica: «Dc e Psi erano alleati di governo

«Si obbedisce agli ordini superiori se ci sono idee comuni, ma la fusione Ds-Margherita le ha disperse», dice il sociologo. «Tre leader in un anno e mezzo: vertice troppo debole per imporsi», per l’ex direttore dell’Unità ma divisi su tutto, pensiamo al referendum sull’aborto: oggi sarebbe inconcepibile che due forze così lontane su temi importanti possano governare insieme, ma all’epoca poteva succedere, perché esistevano due distinte organizzazioni, autonome e capaci di disciplinare il consenso, che poi siglavano un accordo sui programmi. Se Dc e Psi si fossero unite e avessero chiesto alla propria base di assumere una certa posizione sull’aborto, per esempio, avrebbero legittimato i loro aderenti a non obbedire». Ecco: la legittimazione a non obbedire è un concetto interessante per spiegare come il populismo localistico: è così che il leader “esterno”Nichi Vendola può costringere il Pd a fare le primarie, e Agazio Loiero può spingersi anche oltre e impedire di fatto l’alleanza con l’Udc. Il corto circuito è totale, ricorda Caldarola, «nel senso che sono i leader nazionali a cercare di conquistarsi l’appoggio


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Cronache da un partito sempre più in difficoltà in vista delle Regionali

L’assedio è sempre intorno a Fort D’Alema

I governatori uscenti hanno contribuito alla vittoria di Bersani. E adesso si sentono traditi dall’ex-premier di Antonio Funiciello l Pd siamo ormai arrivati alle minacce di morte. Il capo dei dalemiani, Nicola Latorre, ha detto ieri chiaro e tondo (in un’intervista alla Stampa) che se il Pd va avanti di questo passo va incontro al suo suicidio. Come al solito, Latorre parla a nuora (minoranza franceschinian-veltroniana) perché suocera (maggioranza bersaniana) intenda. La minoranza, infatti, non è che dia troppo fastidio alle grandi manovre dalemiane in corso: in fondo si accontenta dell’Umbria (e chi s’accontenta, gode). A Latorre i termini di soddisfazione degli anti-bersaniani sono chiari e, difatti, la sua intemerata aveva ben altri destinatari. Al Nazareno, era diretta contro la Bindi, accusata di aver abbandonato la linea su cui Bersani ha vinto il congresso democratico. A livello periferico, Latorre e i dalemiani ce l’hanno con i cosiddetti ”berluschini” (Loiero, Vendola, Bassolino): quei presidenti regionali che non piegano le loro ambizioni alla grande azione parallela (con buona pace di Musil...) verso la conquista del governo nel 2013, che D’Alema e Bersani prefigurano con le scelte per le regionali.

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dei cosiddetti cacicchi locali per irrrobustire la propria componente nel partito. Nella vecchia Dc una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere anche perché i notabili locali dell’epoca erano spesso i rappresentanti di interessi strutturati: gli agricoltori o le categorie sindacali, per esempio. Il collegamento con un vertice nazionale era a sua volta più saldo. Oggi invece nelle regioni ci troviamo davanti a filiere di comando costruite attorno al potere puro e semplice, non su una componente organica della società o dell’economia ma appunto sul potere fine a se stesso».

E questo, spiega dunque Caldarola, rende anche più sfuggenti, per i leader nazionali, questi aggregati di periferia. C’è la personalizzazione, evidentemente, e c’è la crisi dei princìpi e delle identità di cui parla Feltrin: «Bisogna avere una buona ragione per obbedire. E difficilmente possono esserlo i soldi, lo dimostra appunto il fatto che i finanziamenti ai partiti nazionali, rispetto a Tangentopoli, sono persino aumentati, anche se vogliamo considerare nel conteggio i proventi della corruzione. È venuta meno l’espressione classica della disciplina di partito che era il “non capisco ma mi adeguo”. Obbedire è possibile se si è uniti alla base, e una coesione simile possono darla solo le idee».

Qui sopra, il centrista Roberto Occhiuto che il Pd vorrebbe candidare alla Regione Calabria al posto di Agazio Loiero. A destra, Massimo D’Alema, sempre più al centro delle polemiche nel Partito democratico. Nella pagina a fianco, i due pretendenti di centrosinistra alla Regione Puglia: Francesco Boccia e il governatore uscente Nichi Vendola

Campania, Puglia e Calabria sono i tasselli essenziali per tenere salda la segreteria Bersani e procedere spediti verso la costruzione della nuova alleanza di centrosinistra modello Unione. Nella vecchia strategia di D’Alema, che contro lo strapotere settentrionale del combinato Pdl-Lega prevede un blocco poderoso delle forze di centrosinistra nel centro-sud del paese, Campania, Puglia e Calabria finiscono per essere fondamentali. Tolte le isole, stabilmente in mano al centrodestra (eccezion fatta per la breve parentesi di Soro in Sardegna, per altro soppressa dal Pd stesso), controbilanciare lo strapotere settentrionale di Berlusconi è indispensabile per provare a batterlo alle politiche del 2013. In passato ciò è stato possibile con l’invenzione della stagione dei sindaci e degli amministratori locali, unico vero contro-potere al dominio berlusconiano di questi anni. Quando, però, nel Mezzogiorno è parso evidente che il cartello progressista di sindaci e governatori batteva la fiacca, c’è stato bisogno di correttivi che lo tenessero in piedi. Da destra è venuto il soccorso di Berlusconi stesso, che ha tenuto Bassolino e gli altri lì dov’erano, perché gli servivano a mostrare tutte le differenze tra il suo buon governo e i fallimenti della sinistra. Dalla quale è venuto, invece, il soccorso rosso di D’Alema, che ha sostenuto i presidenti regionali travolti dal-

l’insoddisfazione dei loro elettori. L’ultima ricerca Ekma della fine dello scorso anno testimonia che, al netto del risultato di Formigoni e Galan (i due presidenti regionali più amati dai loro corregionali con oltre il 63% di gradimento), quelli meno amati risultano essere Vendola (46%), Loiero (45%) e Bassolino (33%).

Il legame tra Bassolino e D’Alema è cosa nota. Stando solo agli ultimi avvenimenti, fu D’Alema a mandare il suo Velardi a fare l’assessore al turismo nella Campania sommersa dai rifiuti del 2007 e, pochi mesi fa, il nuovo segretario regionale del Pd campano, Enzo Amendola, è stato eletto proprio sulla base di un accordo tra i due vecchi amici. Parimenti, Agazio Loiero assurse alle cronache nazionali quando D’Alema, nel suo secondo esecutivo, lo chiamò come titolare dei Rapporti con Parlamento. Fu il trampolino di lancio verso la vittoria alle regionali calabresi del 2005. Anche Nichi Vendola, che non è ascrivibile alla storia del Pd, è legato a doppio filo a D’Alema. Contro l’odiato Veltroni e la sua vocazione maggioritaria, che ha estromesso la sinistra radicale dalle Camere, Vendola e gli altri leader estremisti hanno guardato con fiducia alla restaurazione dalemiana e all’elezione di Bersani come segno della liquidazione della presunta autosufficienza. Ma già prima, per quasi tutta l’esperienza di governo locale pugliese, Vendola ha potuto contare su un patto di ferro con D’Alema, tant’è che dalemiano ortodosso era l’ex assessore alla Sanità Alberto Tedesco, dimissionario dopo lo scandalo tangenti.

La strategia era chiara: creare un blocco meridionale, contro lo strapotere al Nord di Berlusconi per poi provare a batterlo alle politiche

L’affermazione di questi

tre protagonisti del governo locale deve così molto all’asse romano con D’Alema. Così come quest’ultimo deve loro altrettanto: sono le nette vittorie congressuali di Bersani su Franceschini in queste tre regioni (oltre il 60% in Puglia e Campania e oltre il 70% in Calabria) ad avergli garantito di superare il limite del 50% più uno per essere eletto segretario del Pd. Ecco perché i tre sono così amareggiati per essere stati scaricati dal Pd nazionale, che in Puglia preferisce Boccia a Vendola, in Calabria ha annullato le primarie che Loiero e il Pd locale avevano promosso, in Campania rispedisce al mittente Bassolino la disponibilità di candidatura del suo assessore ai Trasporti Ennio Cascetta. Ma i ”berlusconi” locali paiono poco disponibili a cedere il passo e, malgrado Latorre da Roma gridi al suicidio del Pd, intendono tirare dritti per la loro strada.


politica

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Trame. C’è molta attesa (e qualche polemica), in vista del 18 febbraio prossimo quando il Cavaliere sarà in Sudamerica

L’inciucio italo-brasiliano

Secondo la stampa di Rio, tra Lula e Berlusconi ci sarebbe un accordo sotterraneo per non estradare Cesare Battisti «per motivi umanitari» di Valentina Sisti

ROMA. Il Brasile non ha alcuna intenzione di restituire all’Italia Cesare Battisti e il nostro governo italiano non ha alcuna intenzione – al di là delle proteste di facciata – di farne davvero un caso. A dispetto dei frettolosi entusiasmi suscitati due mesi fa dal verdetto favorevole all’estradizione della Suprema corte brasiliana, a proteggere l’ex leader dei Proletari armati per il comunismo si conferma, forse in maniera definitiva, lo scenario da intrigo internazionale sull’asse Francia-Brasile-Italia che più volte su questo giornale si è tentato di descrivere. È stato nei giorni scorsi il quotidiano brasiliano Folha de San Paulo, con un articolo molto ben informato, a svelare quale inconfessabile trattativa sia in avanzata fase di definizione sulla pelle delle vittime che ancora attendono giustizia, fra cui il figlio del gioielliere Pierluigi Torregiani, costretto a vivere su una sedia a rotelle.

In occasione della visita di Silvio Berlusconi a Brasilia, in programma il 18 febbraio, il governo italiano avrebbe chiesto a quello brasiliano e in particolare al presidente Lula, (chiamato dalla Suprema corte a dire l’ultima parola sull’estradizione) di non pronunciarsi sul caso né prima e neanche subito dopo, aspettando almeno un mese dalla visita di Berlusconi, per far sbollire la questione. La nostra diplomazia avrebbe dato il suo assenso informale a una formula più blanda per la mancata estradizione, da motivarsi “per ragioni umanitarie” e non “per motivi politici”. Questo consentirebbe al governo brasiliano (e soprattutto all’ex terrorista) di raggiungere il suo scopo, mentre l’Italia non sarebbe accusata come più volte ha fatto il temerario ministro della Giustizia brasiliano Tarso Genro, di trattare gli ex terroristi come aguzzini, come uno stato fascista. Anzi, a dire il vero, il ministro – autore del primo provvedimento che concedeva a Battisti lo status di rifugiato – è arrivato a teorizzarne persino l’innocenza, contestando la fondatezza dei processi a suo carico, conclusi – va ricordato – in tutti i gradi di giudizio con la condanna all’ergastolo per quattro omicidi. Sul caso dell’ex terrorista, la Corte costituzionale brasiliana si era pronunciata favorevole all’estradizione, nel novembre 2009, con cinque voti favorevoli e quattro contrari. E ora, secondo il quotidiano brasiliano, il

Se fosse vero, per l’Italia sarebbe una vergogna di Giancristiano Desiderio esare Battisti è un terrorista, condannato dalla giustizia italiana più volte all’ergastolo e attualmente rifugiato in Brasile. Sarà finalmente consegnato allo Stato italiano?

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La domanda non è fuori di luogo per un motivo semplice che è giunto alle nostre porte e al quale noi rifiutiamo di credere: sebbene la Corte suprema abbia dato il suo benestare per l’estradizione dell’ex leader dei Proletari armati per il comunismo, il presidente Lula sarebbe intenzionato a tutelarlo concedendogli l’asilo politico. Tra due settimane Silvio Berlusconi sarà in Brasile e quindi la diplomazia italiana avrebbe almeno chiesto di non concedere l’asilo a Battisti subito dopo la partenza di Berlusconi: meglio attendere almeno un mese. Insomma, un accordo tra Stati o tra governi o tra presidenti per limitare i danni di una decisione che, comunque la si voglia giudicare, è uno schiaffo alla legittimità e all’autorevolezza dello Stato italiano e alla nostra vita democratica. Ecco perché, signor presidente del Consiglio, ci rivolgiamo direttamente a Lei e le chiediamo di scongiurare questo scenario al quale non crediamo e non vogliamo credere, ma che se dovesse risultare reale sarebbe un’offesa per lo Stato, per il suo governo e per la memoria delle vittime dell’assassino Cesare Battisti. Signor presidente, è vero? Bisogna ricordare chi è Battisti. Infatti, il leader dei Pac è stato condannato con sentenze definitive all’ergastolo e ad un periodo di isolamento diurno, oltre che per banda armata, rapine, armi, gambizzazioni, per ben

quattro omicidi: in due di essi (omicidio del maresciallo degli allora Agenti di Custodia Antonio Santoro, Udine 6 giugno 1978; omicidio dell’agente Andrea Campagna, Milano 19 aprile 1979), egli sparò materialmente in testa o alle spalle delle vittime; per un terzo (Lino Sabbadin, macellaio, ucciso a Mestre il 16 febbraio 1979) partecipò materialmente facendo da copertura armata al killer Diego Giacomini; per il quarto (Pierluigi Torregiani, Milano 16 febbraio 1979) fu condannato come co-ideatore e coorganizzatore. Gli omicidi Sabbadin e Torregiani, infatti, furono compiuti a distanza di un’ora l’uno dall’altro, nello stesso giorno (16 febbraio 1979, appunto, a pochi giorni dagli omicidi di Guido Rossa ed Emilio Alessandrini), perché responsabili, secondo “la giustizia proletaria”, di avere reagito a rapine che avevano subito poco tempo prima. Furono uccisi perché mai avrebbero dovuto reagire ai proletari costretti alle rapine per sopravvivere. La stessa organizzazione (Proletari Armati per il Comunismo, Pac), di cui Battisti era uno dei capì, organizzò i due omicidi in contemporanea per darvi maggior risalto: un gruppo agì a Mestre (tra essi Battisti), un altro a Milano.

Quando si parla di Cesare Battisti - poi rifugiato in Francia, a Parigi, e qui diventato anche apprezzato e ammirato scrittore di romanzi, anima delicata - si parla di questo tipo di terrorista. Si parla soprattutto di vittime, vite, famiglie distrutte con il piombo della pistola armata dall’odio ideologico e dal delirio fanatico. Signor presidente, nessuna ragion di Stato - nessuna ragion commerciale, diplomatica, internazionale - può giustificare un accordo, tacito o meno, per riconoscere a Cesare Battisti l’asilo politico.Vorrebbe dire riconoscere l’irriconoscibile e uccidere ancora una volta le vittime.

governo italiano avrebbe fatto sapere che considererebbe «aggressivo e poco elegante» il no all’estradizione di Battisti motivato per i timori di una persecuzione politica in Italia, ma se venisse usata la formula delle ragioni umanitarie non farebbe tante storie. Purché la decisione slitti ancora di un paio di mesi, per non dare l’idea che ci possa essere stato un via libera di Berlusconi (nel corso della visita che farà fra un mese) o del nostro governo. Via libera che però nei fatti ci sarebbe, eccome. Sul modello Ponzio Pilato.

La notizia non ha avuto il risalto che avrebbe meritato sui giornali, che si sono limitati a liquidare la faccenda in più o meno cinque righe. E se la tempistica venisse rispettata, sarebbe una conferma alle parole dello stesso Battisti, che aveva candidamente dichiarato che il suo caso non interessa granché a Berlusconi, facendo nascere il sospetto di qualche segreto interesse del nostro governo con il Brasile. La richiesta di estradizione dell’ex terrorista, curata personalmente dall’attuale procuratore della Repubblica di Bari Antonio Laudati, al tempi al vertice degli Affari penali del ministero della Giustizia, era a pro-

Sarebbe l’ultimo pasticcio di una vicenda per la quale si è già parlato di complotti internazionali, soprattutto in occasione della fuga dell’omicida dalla Francia va di bomba.Trattandosi infatti di un criminale comune, convertitosi solo successivamente in carcere alla lotta armata, in seguito all’incontro con l’ideologo dei Proletari armati per il comunismo Arrigo Cavallina, la richiesta era basata solo sui reati commessi come criminale comune, per i quali non regge nessuna richiesta di essere considerato prigioniero o perseguitato politico. Si trattava della terza richiesta di estradizione, nei confronti di Battisti. La prima del ’91, conclusasi con solo quattro mesi di detenzione in Francia, perché la Chambre d’accusation di Parigi lo dichiarò non estradabile. La seconda, nel 2004, concessa dal presidente Jacques Chirac, ma in seguito alla quale l’ex terrorista si rese latitante, rifugiandosi in America Latina.

Ma la politica, in questa vicenda, ha preso il sopravvento sin dall’inizio. Battisti è arrivato in Brasile grazie a ben accertate complicità francesi che avrebbero visto un ruolo attivo anche di Carla Bruni, amica della scrittrice francese Fred Vergas, che in


politica

19 gennaio 2010 • pagina 5

Il caso-Battisti e i rapporti tra i due Stati, parla il sottosegretario agli Esteri

«Non date retta alle voci, la nostra posizione è ferma»

Alfredo Mantica: «È vero, vogliamo buoni rapporti col Brasile, ma in caso di asilo politico ci sarebbero forti proteste» di Riccardo Paradisi

ROMA. Il presidente del Brasile Lula potrebbe concedere a marzo l’asilo politico a Cesare Battisti. A segnalarlo è stato qualche giorno fa il quotidiano di Sao Paulo Folha, secondo cui il presidente prenderà la sua decisione un mese dopo la visita del premier Berlusconi in Brasile, prevista per il 18 febbraio. Il sì all’asilo politico potrebbe arrivare sulla base di «ragioni umanitarie» e sull’onda di una già montante campagna elettorale dove il presidente uscente potrebbe giocarsi la carta umanitaria. Sulle pagine del quotidiano si legge anche che i due Paesi, Brasile e Italia, stanno d’altra parte «discutendo i modi per compensare l’eccessiva alleanza che Brasilia ha con la Francia, a detrimento dell’Italia».

pressioni sul ministro degli Esteri brasiliano, peraltro già favorevole alla consegna di Battisti, ma si è agito molto anche sull’opinione pubblica di quel Paese. Del resto la maggioranza dei brasiliani è orientata in modo contrario alla dottrina dell’asilo politico per Battisti di Lula e dal suo ministro della giustizia Tarsio Genro. Certo, oltre a quello che è stato fatto si poteva fare di più, ma non è che quanto è stato fatto sia poco. C’è il fatto che Lula è in campagna elettorale e se è vero che l’opinione pubblica moderata sarebbe favorevole alla riconsegna di Battisti all’Italia è vero anche che il presidente brasiliano deve pescare consenso a sinistra e nell’estrema sinistra dove è passata una campagna di disinformazione in cui si è continuato ad affermare né più ne meno che le carceri italiane sarebbero ancora oggi per i detenuti politici dei luoghi pericolosi, dove si viene uccisi e che Battisti sarebbe un perseguitato, e per la sinistra stava combattendo per la rivoluzione marxista. Follie, enormità che abbiamo cercato come dicevo di contrastare». Il fatto che Lula non abbia ancora deciso se firmare o no per la permanenza di Battisti fa comunque sperare in un’estradizione. «Anche perché - dice Mantica - essendo Lula personaggio di grande esperienza conosce anche il rischio di immagine che corre il Brasile. Ma anche in patria ormai Lula ha un’opposizione importante: due, tre grandi quotidiani, legati al ministro degli Esteri affermano che non si può parlare di asilo politico per un uomo condannato all’ergastolo per degli omicidi. Lula dovrebbe tenere conto anche del fatto che dal punto di vista giuridico la ragione sta dalla parte del governo italiano. Ma qui non è più un problema giuridico, il problema è la volontà di Lula, la decisione che prenderà il presidente brasiliano».

Abbiamo impegnato i più grandi giuristi brasiliani, smosso l’opinione pubblica con comunicati e campagne di sensibilizzazione. Adesso siamo nelle mani di Lula

questi anni ha sostenuto economicamente l’ex terrorista, divenuto in Francia, dove si era rifugiato grazie alla dottrina Mitterand, scrittore di successo di romanzi noir. E sarebbe stato proprio l’attuale presidente francese a chiedere a Lula di tutelare Battisti, sin dalla “luna di miele” dei coniugi Sarkozy a Copacabana, dove incontrarono riservatamente il presidente brasiliano in quel Natale del 2008. E l’inconfessabile premura della signora Sarkozy sarebbe arrivata anche al nostro presidente del Consiglio, che di fatti si è sempre guardato bene dall’intervenire sulla vicenda, al pari del ministro Angelino Alfano, che mai ha assunto una qualche iniziativa contro il suo collega brasiliano, esponente dell’ultrasinistra, deciso a difendere la causa di Battisti con ogni mezzo. Cosicché, al di là delle iniziative per dovere d’ufficio condotte da Frattini, il solo Giorgio Napolitano si è speso più volte, con Lula, per tentare invano di sbloccare il caso.

Ora, rivela sempre il giornale brasiliano, ci sarebbe in programma, per la prossima visita in Brasile del nostro premier, la definizione per l’Italia di una grossa commessa militare dopo l’intesa siglata dall’Iveco, lo scorso dicembre, per la fornitura di 2.044 veicoli blindati e dieci navi militari. Vuoi vedere che dopo Ponzio Pilato, sul caso Battisti, spuntano pure i 30 denari?

Qui sopra, Cesare Battisti in mezzo a due poliziotti brasiliani: tra il premier Silvio Berlusconi e il presidente Lula ci sarebbe un sostanziale accordo per non concedere l’estradizione del criminale italiano «per motivi umanitari». A destra, il sottosegretario agli Affari Esteri Alfredo Mantica

Sulla stampa locale viene riportata inoltre la reazione del governo italiano alla dichiarazione di Lula: si riterrebbe «aggressivo e poco elegante» un “no” all’estradizione di Battisti fondato su timori di una presunta «persecuzione politica» contro l’ex terrorista in Italia. Secondo indiscrezioni però il premier Berlusconi non sarebbe contrario a un’eventuale concessione dell’asilo, e a preoccuparlo non sarebbe tanto la sorte di Battisti, quanto la perdita di prestigio dell’Italia nell’area, a vantaggio di altri Paesi, come la Francia. Una posizione, quella presidenziale brasiliana, orientata a proteggere Battisti dall’estradizione, che fa irritare molti atri esponenti della maggioranza, come il presidente dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri, che ha attaccato duramente il presidente-operaio: «L’ostruzionismo in atto è già preoccupante. L’intenzione poi di farsi beffe dell’Italia avrebbe poi nefaste conseguenze sui rapporti tra l’Italia e il Brasile». Intanto Berlusconi ha proposto al ministero degli Esteri brasiliano la terza settimana di febbraio per il tante volte rimandato viaggio in Brasile, a condizione che il Planalto non prenda la decisione sul militante un mese prima o un mese dopo. Ma esiste appunto il rischio che il caso Battisti possa essere chiuso con un colpo di spugna di Lula e il tacito benestare italiano? Non sarebbe in fondo una nostra resa? Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri, non ha intenzione di ragionare su retroscena a cui manca ogni ufficialità ma ricorda a liberal come il governo italiano si sia fino ad oggi attivato molto per riportare l’ex terrorista Battisti in Italia. «L’ambasciatore Michele Valensise, impegnato fino a poco tempo fa in Brasile, ha fatto una grande operazione diplomatica per ottenere l’estradizione di Battisti. È stato mobilitato un team di avvocati che ha fatto le dovute

Ma quali potrebbero essere le reazioni italiane in caso di rifiuto dell’estradizione di Battisti? Il Brasile è potenza emergente con cui l’Italia tiene a mantenere importanti scambi commerciali. Di questo Mantica tiene realisticamente conto: «Certo è improbabile interrompere questi scambi come reazione. Non mi risulta che ci siano governi che per casi analoghi abbiano assunto posizioni così radicali ma certo ci sarebbero delle proteste formali. E ripeto, il governo italiano non ha da rimproverarsi negligenze o sciatteria: la battaglia per avere giustizia l’abbiamo fatta. Abbiamo impegnato i più grandi giuristi brasiliani, smosso l’opinione pubblica con comunicati e campagne di sensibilizzazione. Adesso siamo nelle mani di Lula».


diario

pagina 6 • 19 gennaio 2010

Chimere. L’esecutivo starebbe studiando un intervento fiscale per i nuclei più bisognosi già da quest’anno

Quante tasse per le famiglie? Sacconi: nella riforma via alle deduzioni. Bonanni (Cisl): troppo costoso ROMA. Giulio Tremonti guarda al 2013 per dare all’Italia un nuovo modello fiscale. Emma Marcegaglia e Raffaele Bonanni, più prosaicamente, guardano alla prossima primavera, quando sarà chiaro l’extragettito proveniente dallo scudo, se il governo ha in mano qualche spicciolo per tagliare le tasse. Quel che è certo, per ora, è che il quoziente familiare rischia di essere l’ennesima incompiuta della politica italiana. Di non entrare nel nuovo sistema fiscale che rottamerà quello vecchio ideato 30 anni fa da Ezio Vanoni. Infatti, più di un passo avanti è stato fatto sul versante della famiglia. Ambito nel quale, complice l’avallo della Cisl, non c’è spazio per l’indice inventato dai francesi e promesso in più occasioni da Silvio Berlusconi. Il centrodestra, infatti, guarda al modello delle deduzioni sulla base imponibile. E qualcosa potrebbe muoversi in questa direzione già con la prossima manovra di primavera, quando il Dipartimento delle Finanze avrà certificato il miliardo e mezzo in più derivante dal gettito dello scudo fiscale rispetto ai 3 già impegnati in Finanziaria. Che si vada in questa direzione hanno finito per svelarlo sia il leader di via Po Bonanni sia il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. Guarda caso proprio durante un seminario organizzato dalla confederazione bianca. Ieri il segretario della Cisl ha ammesso di sentirsi «molto vi-

di Francesco Pacifico

Chiediamo anche misure forti per conciliare i tempi del lavoro e delle famiglia».

A chiudere però il cerchio ci ha pensato il ministro del Lavoro, Sacconi: «Ritornare alle deduzioni per carichi familiari è un obiettivo della riforma fiscale compatibilmente con la situazione economica e di finanza pubblica». Per poi aggiungere: «Sbagliò il governo Prodi a cancellare le deduzioni per carichi familiari che sono come il quoziente familiare se non meglio».

Le parti sociali non vogliono aspettare il 2013 per un alleggerimento della pressione totale. Confindustria annuncia a breve una sua proposta cino al concetto di quoziente familiare, ma per questioni costituzionali e di reddito è meglio un forte assegno a favore della famiglia». E se il quoziente – come spesso ha spiegato Tremonti – ha un costo molto alto e finisce per aiutare soprattutto chi paga più tasse, allora meglio guardare a strumenti come deduzioni e detrazioni. «La famiglia», ha aggiunto il sindacalista, «è il primo ammortizzatore sociale. Bisogna mettere in campo un ventaglio di provvedimenti, da quelli fiscali a quelli assistenziali.

Un piano minimo di deduzioni – che colpendo direttamente la base imponibile – potrebbe costare non meno di 3 miliardi. Che è l’ammontare della cifra che Tremonti potrebbe trovarsi alla fine della proroga allo scudo fiscale. Di conseguenza, aiutare le famiglie a queste condizioni potrebbe impedire al governo di intervenire sul costo del lavoro. E la cosa non può che mettere sull’allarme la Confindustria. Ieri il presidente Emma Marcegaglia ha annunciato che «presenterà nelle prossime settimane una propria propo-

Monito di Passera (IntesaSanpaolo): tensioni sociali

«Rischiosa la crescita zero» ROMA. L’ultima volta che Corrado Passera aveva chiesto «una svolta» a Tremonti, il governo aveva fatto quadrato criticando lo sconfinamento dei banchieri. Ieri il consigliere delegato di IntesaSanpaolo è tornato a parlare della stato dell’Italia,lanciando un monito al governo: la scarsa crescita può ampliare i rischi di tensione sociale.

Intervistato dal Sussidiario.net, Passera ha spiegato che «non possiamo permetterci un 2010 a crescita zero o poco sopra. Non basterebbe a farci recuperare la crescita perduta nell’economia ma, soprattutto, potrebbe allargare la fascia del disagio nella società. Con effetti negativi di ogni genere». Entrando nello specificato, Passera ha spiegato che con una «crescita zero-virgola non recuperiamo né l’occupazione né la crescita persa. La crescita dell’Asia non è ancora in grado di compen-

sare la crescita non sufficiente di Usa ed Europa. D’accordo, abbiamo affrontato piuttosto bene l’emergenza, ma non possiamo permetterci in alcun modo di rimanere fermi». Sull’allarme sociale aggiunge: «C’è un rischio di grande disagio sociale, che dobbiamo fare di tutto per evitare. L’idea che in Europa ci siano 25 milioni di disoccupati, e quindi forse 50 milioni di persone a rischio se includiamo anche i sotto-occupati, deve essere la nostra ossessione».

Intanto ieri l’Istat ha annunciato una boccata d’ossigeno per la nostra bilancia commerciale complessiva, che a novembre 2009 ha segnato un deficit di 790 milioni di euro. Le prime commesse della ripresa hanno infatti fatto segnare rispetto a novembre un incremento delle esportazioni del 2,5 per cento contro il +1 delle importazioni.

sta in materia di fisco, scuola e pubblica amministrazione. Abbiamo fatto la scelta di provare a ragionare sullo scenario complessivo a medio termine: pensiamo che i singoli provvedimenti e le singole frasi non risolvono il problema profondo del Paese. È venuto il momento di avere una visione di insieme». Nelle scorse settimane l’imprenditrice mantovana aveva annunciato che viale dell’Astronomia sarebbe scesa in campo nella discussione sulle riforme con una sua piattaforma organica, già definita “Progetto 2015”. Il testo sarà presentato nei prossimi da mesi, ma da qui ad allora possono cambiare tante cose nello scenario del Paese. E Confindustria vuole avere un ruolo forte nella definizione delle politiche per uscire dalla crisi. Al riguardo Emma Marcegaglia ieri ci ha tenuto a sottolineare: «Pensiamo che l’equilibrio dei conti pubblici sia un fatto fondamentale: se avessimo sforato pesantemente sarebbe stata una scelta sbagliata. Ma questo non può però neanche essere un motivo per non fare niente». Al momento non esistono proposte scritte. E sherpa dell’associazione degli imprenditori stanno trattando con il governo per capire quali sono i margini di manovra. Fatto sta che è facile immaginare che sul fisco la Marcegaglia guardi a un sistema di agevolazioni che spazi tra salari, utili reinvestiti fino al risparmio energetico e all’innovazione tecnologico. E se sul versante dell’istruzione si punta a un maggiore collegamento tra mondo della scuola e quello del lavoro, sul versante della pubblica amministrazione si chiedono risorse in più per la riforma del ministro Brunetta. Non a caso il politico che ottiene maggiore consenso in questa fase tra gli imprenditori.

La presidente di Confindustria avrebbe sentito Berlusconi più volte nelle ultime settimane. E se nell’agenda sono finite anche pressioni per favorire la candidatura dell’industriale Gianni Lettieri alla regione Campania – il premier, suo malgrado e visti i veti locali, avrebbe detto di no optando per Stefano Caldoro – la Marcegaglia avrebbe sempre ribadito la necessità di mettere in campo misure per agganciare la ripresa.


diario

19 gennaio 2010 • pagina 7

I giudici dicono no alla richiesta avanzata da Ghedini

Così Luciano Violante a margine di un convegno di Magna Carta

Niente rinvio per Berlusconi al processo Fininvest

Giustizia: il Pd pronto a discutere il “blocca-processi”

MILANO. È andata male. Silvio

ROMA. La giustizia, ancora una

Berlusconi aveva praticamente programmato tutto per il processo Mediaset e diritti televisivi, in cui era imputato insieme ad altri 13 (tra cui Fedele Confalonieri, Frank Agrama e David Mills, mentre le posizioni dei figli Piersilvio e Marina sono state stralciate), prima spiegando il perché della sua assenza e poi chiedendo, attraverso il suo difensore, una sospensiva al processo per valutare la possibilità di ricorrere al rito abbreviato. I due mesi che la Corte gli avrebbe concesso servivano a far approvare almeno una delle leggi che si trovano in Parlamento per fermare i processi fin tanto che il premier ricoprirà cariche pubbliche, e quindi tutti i problemi giudiziari sarebbero stati risolti nel modo migliore per il Cavaliere. Ma i giudici hanno detto no, perché la richiesta è giunta fuori tempo massimo e, nella loro interpretazione, la Corte non intendeva concedere un «tana libera tutti» erga omnes.

volta, torna ad animare il dibattito politico italiano. Luciano Violante, arrivando al convegno sulle riforme organizzato ieri a Roma da Magna Carta, si è detto disponibile esaminare una norma “blocca processi” dopo che la Procura di Milano ha respinto la richiesta di rito abbreviato nel processo sui diritti tv. «È una questione molto tecnica. La sentenza 333 della Corte Costituzionale - ha sottolineato - non ha bisogno di norme applicative. Anche qui c’è un po’ di confusione perché prima Ghedini ha detto che non ce ne era bisogno e adesso forse sì. Se il governo ritiene di fare una cosa ragionevole, semplicemente applicativa della sentenza, se ne può discutere».

Niccolò Ghedini, uno dei difensori di Silvio Berlusconi aveva chiesto ai giudici «termini di tempo congrui» al fine di valutare una eventuale richiesta di processo con rito abbreviato per il presidente del Consiglio. Ma poco prima di mezzogiorno è

Le Br di padre in figlio Arrestato Morlacchi Piero era stato uno dei fondatori dell’organizzazione di Andrea Ottieri

MILANO. Sono finite in manette due persone accusate di appartenere alle nuove Brigate Rosse. Gli arresti sono stati eseguiti a Milano da agenti e funzionari della Digos romana in collaborazione con i loro colleghi di Milano. Il provvedimento cautelare è stato emesso dal Gip del Tribunale di Roma, Maurizio Caivano, su richiesta del Pool Antiterrorismo della Procura della Repubblica di Roma, diretto dal Procuratore aggiunto Pietro Saviotti. I due arrestati sono Manolo Morlacchi, 39 anni, figlio dell’ex brigatista Pierino Morlacchi morto nel 1999, tra i fondatori del primo nucleo brigatista con Renato Curcio e Costantino Virgilio, 34 anni. Manolo Morlacchi si laureò in Storia contemporanea nel 1997 con una tesi che rimandava direttamente all’esperienza del padre Piero: «Politica e ideologia nell’Italia degli anni ’70. Il caso Br». Inoltre ha scritto anche un libro «La fuga in avanti. La rivoluzione è un fiore che non muore» pubblicato da Agenzia X che racconta appunto la storia della sua famiglia e in particolare del padre. «Non posso che guardare con enorme ammirazione alle scelte compiute da mio padre, da mia madre (Heidi Ruth Peush, deceduta nel 2003 ndr), e da centinaia di altri compagni più di trent’anni fa» aveva poi confessato in un’intervista dello scorso marzo.

tentato alla Maddalena nei giorni del G8. Oltre a Fallico, arrestato nella capitale e considerato il capo del gruppo, in quella occasione finirono in carcere anche Bruno Bellomonte, rappresentante di spicco dell’indipendentismo sardo, e Bernardino Vincenzi. A Genova invece a finire in manette erano stati Riccardo Porcile e Gianfranco Zoja.Tra gli indagati, c’era anche Ernesto Morlacchi, figlio di Pierino e fratello di Manolo.

Gli uomini arrestati ieri con l’accusa di far parte della formazione denominata «Per il comunismo Brigate Rosse», secondo gli investigatori risultano legati all’organizzazione e hanno partecipato a ”incontri strategici”. A incastrare i due arrestati, telefonate in codice per fissare appuntamenti per incontri strategici e partecipazione ad incontri di organizzazione. In particolare Costantino Virgilio è risultato in possesso di materiale informatico che espone i criteri e le modalità di criptazione dei documenti per finalità eversive, una sorta di manuale di istruzioni destinato al gruppo eversivo, che riporta le istruzioni per l’utilizzo dell’informatica, definite testualmente nel documento stesso «una specie di codice di condotta che consigliamo ai militanti rivoluzionari», con una serie di indicazioni finalizzate a evitare controlli da parte delle forze dell’ordine, nonché istruzioni per non farsi ”tracciare” in rete. Questo materiale informatico è stato esaminato dalla Digos di Roma con il concorso del Servizio e del Compartimento Polizia Postale di Roma. Nel manuale per la redazione dei documenti viene indicata la necessità di utilizzare l’applicativo di scrittura ”blocco note” (TXT). Gli investigatori della Digos di Roma, spiega la polizia, hanno notato che questo è il metodo di scrittura utilizzato per redigere il volantino di rivendicazione del fallito attentato del 26 settembre 2006 alla caserma ”Vannucci”di Livorno, firmato proprio dalla organizzazione ”per il Comunismo Brigate Rosse».

L’altro neobrigatista, Costantino Virgilio, aveva elaborato un metodo per comunicare in Rete sfuggendo ai controlli

arrivata la fumata nera. Motivata dalla corte con una questione tecnica: i legali del premier avrebbero dovuto formulare la richiesta di rito abbreviato quando fu formulata dal pm la contestazione suppletiva che ha allungato i tempi della frode fiscale all’ottobre 2004. Il processo Mediaset nasce dall’indagine All Iberian. Sui conti di questa società venivano fatti passare, secondo l’ipotesi accusatoria, i fondi neri che venivano creati attraverso la “cresta” sulla compravendita dei diritti di film made in Usa: Mediaset li comprava da società offshore che a loro volta li avevano acquistati da altre società gemelle, facendo lievitare il prezzo ad ogni passaggio di proprietà.

Morlacchi e Virgilio, entrambi residenti a Milano e dipendenti di un’agenzia di gestione archivio (il primo con delle funzioni manageriali, l’altro come semplice dipendente), erano già stati indagati e avevano subito una perquisizione domiciliare il 10 giugno scorso quando la Digos di Roma arrestò tra Roma e Genova un gruppo di presunti brigatisti. I reati contestati, a vario titolo, andavano dall’associazione eversiva alla banda armata, alla detenzione di armi. La svolta nelle indagini era arrivata grazie una chiamata, partita da una cabina telefonica, intercettata a febbraio del 2007 e attribuita a Luigi Fallico. In una delle telefonate intercettate, in particolare Fallico parlava di un at-

«Tornare a discutere di un provvedimento particolare al di fuori di un contesto generale di riforma è un errore», è la posizione della presidente dei senatori Pd Anna Finocchiaro, che sempre a margine del convegno di ieri, ha sottolineato come ci siano «provvedimenti devastanti, come il processo breve, e altri, come questo, che avrebbero un impatto non devastante».

«La maggioranza commette un grave errore ad andare avanti sul processo breve, perché questo è un provvedimento che scassa la giustizia, non risolve il giusto problema di accorciare i tempi del processo e crea una situazione che poi nei fatti si rilevera’praticamente ingestibile». È il commento invece di Nicola Latorre, vice presidente del Pd al Senato, intervenuto direttamente ai microfoni del Tg Parlamento. E dopo la decisione dei giudici di Milano di non accogliere la richiesta di rito abbreviato nel processo sui diritti tv, è intervenuto sul tema anche il presidente della commissione Giustizia del Senato Filippo Berselli, che ha dichiarato: «O si arriva a normare la materia o la questione sarà sottoposta di nuovo alla Corte Costituzionale».


politica

pagina 8 • 19 gennaio 2010

Anniversari. Molti hanno dimenticato la «grande riforma» che il leader socialista prima elaborò e poi lascò cadere

Il de Gaulle mancato Craxi vide in anticipo alcuni mali italiani Ma poi non fu in grado di risolverli di Giancarlo Galli elle tante rievocazioni sull’operato di Bettino Craxi m’ha colpito un «buco di memoria»: il suo progetto di una Grande Riforma degli assetti istituzionali (ed anche costituzionali) dello Stato.

N

Appena nominato (1976) segretario del Psi, Craxi «mise alla stanga», come gli piaceva dire, due «cervelli fini»: Claudio Martelli e Giuliano Amato, soprattutto, che attorno alla rivista Mondoperaio aveva coagulato un gruppo d’intellettuali della sinistra riformista, comunque non comunista. Mondoperaio si muove su un terreno minato, pericoloso. In Italia, infatti; le Riforme con la maiuscola piacciono solo a parole. Nel 1953 Alcide De Gasperi venne bollato di “truffatore”per avere proposto una legge elettorale in senso maggioritario. Ancora peggio toccò a Randolfo Pacciardi, già leader del Partito repubblicano, etichettato tout-court di fascista (nonostante avesse combattuto in Spagna contro Franco), allorché iniziò una campagna di stampa a favore del presidenzialismo. È dunque coi piedi di piombo che si muove. Ma il 27 settembre 1979 (Sandro Pertini presidente della Repubblica, Francesco Cossiga premier), esce allo scoperto, con un fondo sull’Avanti!, quotidiano del Psi. «Piuttosto che inseguire le polemiche quotidiane che si aggirano in ambiti sempre più ristretti, converrà allargare lo sguardo allo stato di salute reale della nostra democrazia e ai doveri che ne derivano alle forze politiche (…). L’Italia è ad un bivio storico, dove attorno alle questioni strutturali si misurano le sue possibilità e le sue ca-

pacità di reazione e si definisce, in un quadro internazionale sempre più complesso ed imprevedibile, il suo avvenire prossimo. Una legislatura già nata sotto cattivi auspici, minata dal pericolo di un vuoto politico puramente distruttivo, vivrà invece con successo se diventerà la legislatura di una Grande Riforma».

Diamo atto, storicamente e politicamente a Craxi. In questa analisi tende a distinguersi da un certo masochismo democristiano che si sente incompreso, defraudato dei meriti (indubitabili, questi) della Ricostruzione degasperiana, del ruolo avuto nella costruzione europea, della felice stagione del “Miracolo economico”; ma anche dall’arroganza comunista, incarnata dallo slogan berlingueriano «Senza il Pci non si esce dalla crisi». A ben vedere, nulla di nuovissimo, solo che si pensi alle tante masturbazioni culturalpolitiche e alle innumerevoli tavole rotonde attorno alla frattura che si sta delineando fra classe politica e Paese reale. Il pregio di Craxi, o quantomeno la sua novità, sta: 1) nel dire cose in maniera comprensibile; 2) di far seguire all’analisi una proposta; 3) d’impegnare se stesso e il Psi per la realizzazione. In che consiste la Grande Riforma? Afferma Craxi: «… la riforma costituzionale rientra nei poteri del Parlamento e la necessità di un bilancio e di una verifica storica è fortemente sentita. Anche gli edifici più solidi e meglio costruiti si misurano con il logorio del tempo (…). In questa materia il presidenzialismo può essere considerato come una superficiale fuga verso un’ipotetica Provvidenza., ma l’immobilismo è divenuto

dannoso». L’ingegneria costituzionale non è però sufficiente, e Craxi incalza: «La riforma deve investire la pubblica amministrazione al centro della crisi economica (…). Il nostro sistema di economia mista può sembrare a prima vista il prodotto di un’intelligente ed armoniosa virtù mediana tra i mali del capitalismo selvaggio e i vizi dello statalismo burocratico. Diviene un sistema perverso quando rischia di assommare i mali dell’uno e i vizi dell’altro». Infine, la stoccata morale: «La classe politica democratica deve riconquistare autorevolezza e credito di fronte alle nuove generazioni, rinnovando uomini e metodi, cultura e linguaggio (…). Troppe immoralità e cattivo uso della libertà fanno velo ad una presa di coscienza collettiva che possa rendere il Paese più unito, più solidale, più

Craxi in Tunisia. In alto, da sinistra, con: Martelli, Berlusconi, Andreotti, Berlinguer, De Michelis, Intini e, infine, con Giovanni Paolo II

fido Luigi Covatta. Dal vago al concreto: riforma del bicameralismo, rivedendo poteri e competenze di Camera e Senato; revisione dei meccanismi parlamentari per snellire i lavori in aula; introdurre il principio della “sfiducia costruttiva”: avanti di mandare in crisi un governo, bisogna avere già

Gaulle nel 1958 ha finito col portare, sia pure dopo oltre vent’anni, il socialismo alla guida di Francia, così il passaggio dalla I alla II Repubblica in Italia, che sarebbe il risultato di una “grande riforma” istituzionale, finirebbe col portare il socialismo alla guida del nostro Paese».

Il progetto (poi accantonato) del 1981 prevedeva una modifica del bicameralismo per cambiare i meccanismi parlamentari, la ”sfiducia costruttiva” e la spoliticizzazione della magistratura

La strategia craxiana è precisa. Affermazioni e propositi sono difficilmente confutabili. La figura di Craxi che in privato non esita a definirsi il «Nuovo Garibaldi», ma pure «di un Garibaldi che non s’inchina ai Savoia», ingigantisce. Brandt e Mitterrand lo tengono in palmo di mano. E i comunisti schierano l’artiglieria pesante. Il 20 settembre 1981, alla Festa de l’Unità di Torino, Enrico Berlinguer tuona: «Siamo l’unico partito pulito e diverso». È l’inizio di un sistematico attacco al craxismo, di cui s’è scoperto il tallone d’Achille, la “questione morale”. Scrive sull’Espresso (18 ottobre) Giampaolo Pansa, in una nota profeticamente anticipatrice: «Craxi può dimostrare di avere ragione solo dando la prova che il Psi è l’unico partito italiano a non avere scheletri nell’armadio. Ma è

impegnato nella costruzione del proprio futuro».

Le reazioni a quello che possiamo considerare “Il manifesto del craxismo” sono veementi, talvolta scomposte; ma presto le acque dello stagno si placano. «Ridimensionare le velleità craxiane», è la parola d’ordine che corre in piazza del Gesù (Dc) e in via delle Botteghe Oscure (Pci). Craxi non demorde,e al Congresso socialista di Palermo (aprile 1981) rilancia. Ha riscritto di suo pugno, nelle “notti insonni” all’Hotel Raphael di Roma, la tesi congressuale che porta la firma del

pronto, e in modo esplicito, la maggioranza di ricambio; spoliticizzare la magistratura, rendendo «il pubblico ministero responsabile dei suoi atti». Significativo il commento del gesuita padre De Rosa su Civiltà Cattolica: «Da parecchio tempo gli sguardi del Psi si erano rivolti sia alla socialdemocrazia tedesca di Schmidt e Brandt sia al socialismo francese di Mitterrand. Dopo l’elezione di quest’ultimo alla presidenza, l’onorevole Craxi si è sentito incoraggiato nel suo disegno riformatore, pensando che come il passaggio dalla IV alla V Repubblica operato da De


politica

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«Fu il suicidio dei comunisti» Claudio Martelli critica l’atteggiamento giustizialista della sinistra

in grado di farlo? Oppure sono dalla parte della ragione i quattro gatti che gettano il garofano (nuovo simbolo del Psi), ricordando le tappe oscure del recente corso socialista: la cacciata di Reviglio, la P2, il caso Calvi (…). La linea politica di Craxi può dare molto alla democrazia italiana, però la sua marcia va troppo a zig-zag e per sentieri bui. Il leader socialista vorrà renderla più rettilinea e chiara?».

Questo breve viaggio all’indietro di trent’anni, alle “radici del craxismo”, dovrebbe dunque aiutare a capire quel che è stato uno dei fenomeni più interessanti e intriganti della politica italiana del Dopoguerra. Un leader socialista, con solidi agganci internazionali, che aveva capito tutto (o quasi) dei mali dell’italica partitocrazia, ma che dopo avere così bene predicato e vaticinato, non seppe curare ciò che aveva diagnosticato. Ora, in molti sostengono che vada “riabilitato”, che a sbagliare più che Lui furono la Corte, i cortigiani. Quindi: assoluzione! Sarebbe opportuna una maggiore prudenza, storica ancor prima che politica. O è chiedere troppo?

ROMA. «La figura di Bettino Craxi è una figura che parla e morde nell’attualità e non una lapide o una memoria da consegnare a un Paese come un epitaffio». Claudio Martelli, delfino del leader socialista, ne tratteggia così la figura . Dieci anni sono ancora pochi per porre fine al dibattito su Craxi? In un certo senso mi auguro che questo dibattito non finisca mai. Naturalmente spero che nel tempo prevalga l’aspetto politico e culturale e che finisca, per esaurimento dei contendenti, la chiave di lettura più accanita. A che cosa si riferisce? Soprattutto alla visione più giustizialista e moralista. Sono evidenti i guai che quella stagione ha prodotto nella cultura giuridica, nella limitazione della libertà politica e nel lungo commissariamento della Repubblica affidata a una presidenza come quella di Scalfaro. Alla quale va aggiunta la guida del governo di Amato e Ciampi, personalità dal profilo tecnico e non politico. Berlusconi è stata la risposta, popolare o populista, alla grave anomalia di quegli anni caratterizzata dal pieno dominio delle procure sulla vita politica che si è prolungato fino al caso Mastella e all’accanimento giudiziario nei confronti di Berlusconi. Qual è la via d’uscita? La fine di questo clima e il ricrearsi di uno spazio democratico vivo, dialettico, anche conflittuale. Quando accadrà la figura di Craxi sarà riconosciuta come quella di un grande protagonista della storia repubblicana, al fianco di De Gasperi, Moro e oggi, potremmo aggiungere, Berlusconi. Rino Formica sintetizzava la vicenda con una battuta: i morti sono vivi perché i vivi sono morti. È senza dubbio una formula molto efficace per descrivere il presente. La figura di Craxi è viva non soltanto per quello che ha fatto come leader socialista rinnovando, rilanciando e rendendo protagonista il Psi negli anni ’80. Ma anche per la sua azione di governo, unico presidente socialista della storia d’Italia, con la lotta vittoriosa contro l’inflazione, l’affermazione di un profilo di indipendenza nazionale nei confronti degli Stati Uniti, nostro principale alleato. Agli americani Craxi mostrò la profonda solidarietà in momenti difficili, senza dimenticare, nella vicenda di Sigonella, il diritto italiano a far valere la propria sovranità. Craxi è stato criticato per essere fuggito in Tunisia. Scelse di rifugiarsi ad Hammamet non per scappare, ma per poter continuare a essere libero di manifestare le sue idee. Nella convinzione che si è dimostrata,

di Franco Insardà ampiamente giustificata, di essere un perseguitato politico. In che senso giustificata? La Corte di Starsburgo ha stabilito che le sue due condanne definitive furono pronunciate al termine di processi assolutamente anomali, nel corso dei quali non era stato consentito all’imputato e alla sua difesa di controinterrogare i testimoni d’accusa. Con le norme attuali tutto questo non sarebbe accaduto. Perché? Si è cambiata la Costituzione inserendo le regole del giusto processo che non avrebbero portato alla condanna di Craxi. E neanche alla mia, perché l’unica condanna che mi riguarda, otto mesi con la condizionale, appartiene allo stesso processo Enimont.Tendendo presente questo ci si rende conto di quale aberrazione è stata compiuta, dal punto di vista giuridico e dei diritti fondamentali negli anni del giustizialismo.

Bettino era un socialista, Berlusconi non ha la stessa sensibilità per la democrazia parlamentare

Chi sono i responsabili della persecuzione politica di Craxi? Abbiamo assistito a giravolte politico-istituzionali da parte di chi gli negò il diritto di potersi curare in patria, per poi offrire alla famiglia i funerali di Stato. Mi riferisco, innanzitutto, alle responsabilità della procura di Milano, ma anche del ceto politico. E lei che cosa fece? Quando fui avvertito che Bettino stava male rimisi piede in Parlamento, dopo sei anni, soltanto per andare da Violante e Mancino, presidenti di Camera e Senato, per

chiedere un atto di clemenza per farlo curare in Italia. Forse oggi sarebbe ancora vivo. Avrebbe 75 anni, l’età di molti esponenti politici di vertice. Il berlusconismo è l’evoluzione del craxismo? Giusto o non giusto è un fatto e la responsabilità è della sinistra è evidente. Le risposte di Bersani sono quelle della nomenclatura comunista che ragiona con tempi lunghissimi per rivedere gli errori del passato. Di conseguenza tarda ad affermarsi una visione aperta, fresca e anche ambiziosa del loro futuro politico. Quanti anni ci sono voluti perché venisse fatta una scelta socialista e riformista? E intanto... Il grosso dell’elettorato socialista andò contro la sua ideologia, scegliendo Berlusconi. Come potevano votare il Pds giustizialista? Anche in questo caso D’Alema dopo vent’anni ha ammesso che quello fu un errore. È così Craxi, un socialista riformista, viene celebrato dal centrodestra. È la conseguenza naturale derivante dagli errori della sinistra che ha perso una parte consistente del suo popolo. Una sinistra, seppure divisa, non è mai scesa sotto il 40 per cento, e, invece, oggi è ai minimi storici. Ma Berlusconi può essere considerato l’erede politico di Craxi? Berlusconi è homo economicus, Craxi era homo politicus. Il piglio decisionista, il carattere carismatico, l’attitudine alla comunicazione chiara, forse estremizzata da Berlusconi rispetto a Craxi, sono sicuramente elementi comuni ai due leader. Sul piano politico direi sostanzialmente no. Bettino rimane un socialista. Di sinistra? Questa definizione a lui non piaceva, era avversario di una sinistra giacobina, comunista, giustizialista e autoritaria. Si definiva socialista e Berlusconi non lo è. Il Cavaliere non ha quella sensibilità verso il mondo del lavoro, del bisogno, non ha quell’amore e quella padronanza per la democrazia parlamentare che accomuna Craxi a tanti esponenti democratici della Prima Repubblica. È lecito poter criticare Craxi? C’è stato e ci sarà il momento per discutere dei limiti e degli errori che può aver compiuto. Ma da parte della sinistra non può non esserci un riconoscimento, innanzitutto umano, di essere stati corresponsabili e, addirittura, aizzatori di una persecuzione.Tutt’ora nella pancia del Pd, accanto a posizioni più riflessive e dialoganti, albergano atteggiamenti violenti e, sostanzialmente, disumani.


panorama

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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Quando Hegel ispirava le nuove leggi ltre ai rilievi che Riccardo Paradisi, qui accanto, fa all’uscita del ministro Brunetta sui bamboccioni, c’è un elemento in più su cui riflettere. Un elemento - come dire? - filosofico. Ebbene: Renato Brunetta lo ha detto pubblicamente - alla tenera età di 30 anni non sapeva ancora rifarsi il letto. È da qui che nasce la sua proposta di obbligare per legge i figli ad uscire di casa a diciotto anni. Un altro ministro, Giorgia Meloni, ministro della Gioventù, ha risposto con una diversa proposta, anche questa poi definita provocazione come quella di Brunetta: «Invece di fare una legge per mandare fuori di casa i diciottenni facciamone un’altra che obblighi chi è andato in pensione a quaranta anni a ridare indietro i soldi ai giovani che quelle pensioni le dovranno pagare per tutta la vita». Non ce ne voglia il ministro della Gioventù, ma tra le due “provocazioni” è molto più probabile che si possa fare una legge per mandare fuori di casa i diciottenni che ottenere la restituzione delle pensioni dai baby pensionati. Ma ciò che più stupisce è che l’idea di Brunetta si stata presa sostanzialmente come una cavolata. Siamo sicuri che sia una cavolata?

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Oddio, fare una legge per stabilire che una volta compiuto il diciottesimo anno di età i ragazzi devono togliere il disturbo e uscire di casa è effettivamente una cavolata. Non si può obbligare nessuno per legge a lasciare il tetto di papà e mamma e andare a guadagnarsi da solo il pane. Tuttavia, perché stabiliamo che a diciotto anni si è maggiorenni, grandi e vaccinati se poi riteniamo che si debba restare a casa dei genitori a tempo indeterminato? E’ vero: ci sono problemi di ordine pratico: la casa, il lavoro, i soldi. Ma non sarà che ci sono questi problemi proprio perché si resta a casa finché si vuole tanto ci sono i genitori che ci pensano e per andar via c’è sempre tempo? L’idea del ministro Brunetta non è nuova in assoluto. Il filosofo Hegel la pensava esattamente allo stesso modo: anche lui riteneva che i figli, una volta diventati maggiorenni, dovevano lasciare la casa del padre per uscire dalla famiglia ed entrare nella società civile e creare a loro volta una nuova famiglia. Sarà anche passato un bel po’ di tempo da quando Hegel scriveva queste cose, quasi due secoli circa; eppure, se l’idea, per una davvero strana astuzia della ragione, è nuovamente riaffiorata con un ministro che ha confessato che fino a trent’anni non sapeva neanche come fare per rimettere a posto il letto, ci sarà pure un motivo. Hegel, in particolare, riteneva, anzi ritiene che l’educazione dei figli sia una “seconda nascita” e lo scopo della famiglia come il loro è diventare liberi. Proprio per questo motivo considera la dipendenza dei figli dai genitori che c’è nella “famiglia romana” una negativa sudditanza. Da noi è prevalso proprio questo modello.

Se le colpe di Brunetta ricadono sui diciottenni La boutade sui «bamboccioni» e il futuro del lavoro di Riccardo Paradisi unque Renato Brunetta è arrivato a 30 anni vivendo con i genitori e senza essere capace di rifarsi il letto. Ci sono peccati peggiori di questo ma il ministro della pubblica amministrazione, del suo lungo indugiare tra le mura domestiche famigliari si vergogna molto. Per lui che ha intonato tutta la sua azione pubblica all’esprit della velocità e dell’efficienza e che ha costruito la sua immagine sulla retorica del self made man deve essere un grosso problema quello di un passato non autarchico almeno in un settore della esistenza quale il vitto e l’alloggio.

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Ci si può dispiacere di questo suo complesso non risolto ma è un problema che il ministro dovrebbe risolversi da solo, senza scaricarlo sull’ultima generazione di italiani che ormai si è preso l’abitudine di chiamare bamboccioni. E che per Brunetta dovrebbero sloggiare di casa a diciotto anni per decreto legge. Brunetta spiega, bontà sua, che è la sua sortita è battuta: «prima di prendere un provvedimento simile bisogna cambiare l’organizzazione sociale perchè i figli bamboccioni sono le vittime di un sistema di cui devono fare il ”mea culpa” i genitori. Ho condiviso Padoa-Schioppa quando ha stigmatizzato questa figura ma mancava però di un’analisi più complessa. I bamboccioni sono vittime di un sistema: ci sono perché si dà più ai padri che ai figli, perchè le università funzionano male, perchè i genitori si tengono i privilegi e scaricano i rischi sui figli. La colpa insomma è dei padri che hanno costruito una società a misura di loro stessi». E infatti in Italia si assiste alla più massiccia redistribuzione di risorse dalla generazione dei figli a quella dei genitori di cui si abbia traccia in epoca recente. In poco più di dieci anni il nostro debito pubblico, già gigantesco e contratto dalle generazioni precedenti a quella che oggi entra nella maggiore età, è raddoppiato ed è aumentato il carico pensionistico, nonostante il calo della fertilità e l’allungamento della vita. In crude cifre significa che su ogni giovane italiano oggi gravano 80.000 euro di debito pubblico e 250.000 euro di debito pensionistico. Lo scandalo è che questa operazione è stata fatta senza che i servizi del Paese ne abbiano tratto giovamento – non sono state costruite infrastrutture, è peggiorata la qua-

lità di scuole e università – ma per rimpinguare quello che Brunetta chiama ”il sistema”, per creare cioè posti pubblici spesso inefficienti, assecondare spinte corporative interessate alla conservazione di benefit e privilegi. Non stupisce dunque il divario fra i redditi reali dei giovani e i redditi dei lavoratori più maturi è in Italia più ampio di quello esistente in Francia, Germania, Regno Unito ed è passato dal 20% del 1989 al 35% del 2004. Negli ultimi anni i guadagni reali di diplomati e laureati con pochi anni di lavoro sono diminuiti, sia per dinamiche legate ai contratti di lavoro, sia perché molti giovani sono occupati in attività o inquadrati in mansioni che non corrispondono al proprio grado di istruzione. In Italia il tasso di rendimento dell’istruzione universitaria è solo del 6,5%, contro il 9,1% in Germania e il 14,5% in Francia. Bontà sua appunto, Brunetta riconosce la realtà e la gravità di questa situazione senza fare l’errore di attribuirla al vittimismo delle nuove generazioni. Resta il fatto che la battuta di Brunetta resti comunque sgradevole. Non solo per l’uso del termine bamboccioni – offenisivo – ma perché la sua battuta si aggiunge a una retorica di ormai lunga tradizione che ha nei confronti delle ultime generazioni tratti autenticaente nonnisti.

Dopo aver lasciato alle nuove generazioni il danno di un’eredità sociale per loro disastrosa si potrebbe evitare loro la beffa

Un atteggiamento che questa classe dirigente, per quello che si è detto poc’anzi non può certo permettersi, nemmeno per esibiti fini di sprone. Anche perché è proprio il potere costituito, non solo quello politico, che fa muro contro i giovani. In molti settori l’inserimento lavorativo delle nuove generazioni è reso difficile da favoritismi e raccomandazioni, ostacoli alla concorrenza. Non solo: in Italia i tassi di concorrenza all’interno di libere professioni tutelate da albi e ordini, quali ad esempio ingegneri, architetti, avvocati, notai sono fra i più bassi in Europa. Nell’impiego pubblico e nelle università molte assunzioni sono condizionate da cooptazione e nepotismo. Nell’università italiana il 30% degli ordinari e il 10% dei ricercatori ha più di 65 anni, mentre solo 9 ordinari su 18.651 hanno meno di 35 anni. Insomma dopo aver lasciato alle nuove generazioni questo disastro il buon senso inviterebbe a risparmiare almeno la beffa di chiamarli bamboccioni o di chiedere per loro una legge che li mandi fuori di casa a diciott’anni.


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Ecco perché la visita di Benedetto XVI alla Sinagoga ha segnato un nuovo passo avanti sulla strada del dialogo

Il compromesso storico su Pio XII Il Papa e il Rabbino hanno convenuto: «Nella Shoah c’è ancora molto da studiare» di Luigi Accattoli a visita del Papa alla sinagoga di Roma ha segnato un passo verso un compromesso nella disputa su Pio XII: non verso lo scioglimento del contrasto, ma verso la reciproca accettazione dell’altrui verità. Il segno di quel passo sta nel modo in cui il Papa e il Rabbino hanno trattato della questione: senza usarla polemicamente, ma formulando la propria posizione e – si direbbe – il proprio sentimento in modo che l’interlocutore potesse non certo condividerli ma prenderne atto.

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Significativamente, né il Papa né il Rabbino hanno nominato Pio XII ma ambedue ne hanno parlato con poche e chiarissime parole. Il Rabbino rivendicando la necessità di un “giudizio” storico sul “silenzio” di Papa Pacelli in merito alla Shoah e Benedetto difendendo il predecessore che si prodigò nell’azione di soccorso. Il Rabbino non ha contestato l’importanza del soccorso rievocato da Benedetto, che a sua volta non ha negato la legittimità del giudizio invocato dal Rabbino. Ci vedo gli elementi essenziali di un compromesso che permette alle componenti dialoganti delle due parti di continuare l’opera di avvicinamento nonostante la perdurante diversità nella percezione dell’evento della Shoah. Si tratta del resto dello stesso compromesso che si era manifestato fattualmente con la decisione di tenere l’incontro nonostante

lo “sblocco”della beatificazione di Papa Pacelli segnalato da Benedetto XVI il 19 dicembre con la proclamazione delle “virtù eroiche”del predecessore.

Il punto chiave di quel compromesso fattuale aveva trovato espressione in alcune parole tra loro rispondenti pronunciate in prossimità del Natale dal portavoce vaticano Federico Lombardi e dal Rabbino Di Segni. Il 23 dicembre il portavoce affermava – con una lunga “nota” – che il pronunciamento sulle “virtù” di Papa Pacelli non intendeva «minimamente limitare la discussione

circa le scelte concrete» da lui compiute e che dunque sarebbe rimasta «aperta anche in futuro la ricerca e la valutazione degli storici nel loro campo specifico». In risposta al portavoce, il Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni dichiarava di vedere nella nota «un opportuno segnale distensivo», apprezzandone soprattutto l’accenno liberante alla «valutazione storica». È sullo sfondo di questa disputa che vanno lette le parole pronunciate domenica dal Papa e dal Rabbino. Il passo verso il compromesso che esse manifestano non appare di poco rilievo se si tiene conto del disagio circolante alla vigilia negli ambienti ebraici italiani e internazionali, con Giuseppe Laras, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana, che apertamente contestava la decisione “unilaterale” della Comunità romana di “ricevere” il Papa nonostante la decisione su Pio XII: «Solo la Chiesa Cattolica ne trarrà vantaggio».

I due leader religiosi hanno scelto di non nominare papa Pacelli in segno di reciproca distensione

Quell’atteggiamento ha avuto un’eco anche durante l’incontro in sinagoga: del disagio degli “assenti” si è fatto portavoce il presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici: pur ricordando commosso le suore fiorentine che protessero la sua famiglia e rendendo onore ai “numerosi religiosi” che «si adoperarono a rischio della loro vita», non ha rinunciato alla polemi-

ca ed ha affermato che il «silenzio di Pio XII di fronte alla Shoah duole ancora come un atto mancato». Il Rabbino capo – invece – non ha polemizzato. Ha richiamato il “silenzio di Dio” sulla Shoah che resta “imperscrutabile” e ha paragonato a esso «il silenzio dell’uomo che ci sfida e non sfugge al giudizio». Non ha nominato Pio XII e lo stesso riserbo è stato osservato nella sua risposta dal Papa, che tuttavia – con chiaro riferimento all’opera di salvataggio promossa da Papa Pacelli – ha detto: «La Sede Apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta». C’è un altro passaggio del discorso del Papa che aiuta a intendere il compromesso verso il quale ci si sta muovendo e chiarisce che il giudizio storico sull’atteggiamento dei cristiani di fronte alla Shoah interpella la stessa Chiesa. Essa – ha detto Ratzinger – «non ha mancato di deplorare le mancanze di suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo». E ha ripetuto la richiesta di perdono pronunciata da Giovanni Paolo per le “sofferenze” inflitte agli ebrei «nel corso della storia». È la seconda volta che Benedetto fa sua l’invocazione del predecessore, ripronunciandola. L’aveva già ripronunciata il 12 febbraio 2009, davanti a una delegazione ebraica. www.luigiaccattoli.it

Statistiche. Il ministro del Welfare contesta i dati di Via Nazionale sugli italiani senza lavoro

Sacconi-Bankitalia, sfida sui numeri di Alessandro D’Amato

ROMA. Non si era mai sentito, ma probabilmente non c’è più da meravigliarsi. Il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha infatti messo nero su bianco che l’Ufficio Studi di Bankitalia, una delle più importanti istituzioni economiche di questo paese, di non saper far di conto. «Sommare, come fanno solo la Cgil e il Servizio studi della Banca d’Italia, i disoccupati veri e propri con i cassintegrati e addirittura con i cosiddetti “scoraggiati”è un’operazione scientificamente scorretta e senza confronto con gli altri paesi dove ci si attiene all’autorità statistica», ha detto infatti Sacconi, aggiungendo poi che «ciò significa negare l’effetto della politica di governo, concertata con le parti sociali».

7,4% “ufficiale” sbandierato dal governo per raccontare che in Italia stiamo messi meglio che in altri paesi. Quasi il 3% in più, dovuto per l’1,2% alla Cig e per 1,6% al fenomeno dello“scoraggiamento”. Certo, è vero che negli altri paesi ci si attiene all’autorità statistica, ma è anche vero che non tenere conto di un numero (quello della Cig) cresciuto del 311% da noi nel 2009, e che le altre

Che aveva fatto di male, via Nazionale? La Banca d’Italia ha preso semplicemente (e finalmente) in considerazione non solo i lavoratori“disoccupati”ma, anche quelli in cassa integrazione e, soprattutto, i cosiddetti “scoraggiati”, cioè coloro che hanno proprio smesso di cercare lavoro a causa della crisi. Il dato complessivo della disoccupazione, di conseguenza, nel secondo trimestre del 2009, è risultato pari al 10,2% anziché al

nazioni sostituiscono con sussidi vari (e riportando i numeri nei conti “giusti”), sembra – questo sì – antiscientifico. Anche perché c’è un altro dato sconfortante di questa crisi da sottolineare. Contrariamente alla vulgata mediatica fatta circolare artatamente dai dicasteri economici del governo Berlusconi, la caduta del Pil dell’Italia non è per niente dominata dalla caduta della domanda estera, al contrario.

La contestazione riguarda il computo di cassintegrati e scoraggiati: con loro, il numero totale dei disoccupati sale al 10,2% contro il 7,4% ufficiale

Mentre nell’area dell’euro la recessione è dipesa per i due terzi dalla caduta della domanda esterna, in Italia essa si deve soprattutto (tre quarti) dalla caduta della domanda interna. In sostanza, in Italia gli investimenti e soprattutto i consumi sono crollati ben più delle esportazioni. E di solito, non consuma e non investe chi non è in grado di farlo. Magari perché è senza lavoro, si è addirittura stufato di cercarlo senza costrutto, oppure si trova in cassa integrazione. Di chi stiamo parlando? Del 10% abbondante della popolazione. Con buona pace del ministro scienziato.


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rimo gennaio 2010: è iniziata in Russia la guerra anti-alcolica decisa da Medvedev. A suo rischio e pericolo… Narra la leggenda che quando il principe Vladimir di Kiev nel 987 decise che era ora per il suo popolo di abbandonare il paganesimo per un culto monoteista, dopo essersi consultato con i Boiardi inviò i suoi messi a indagare sulle fedi dei vicini: islamica dei Bulgari del Volga; ebraica dei Kazari; cattolica dei tedeschi; ortodossa dei bizantini. E l’Islam fu la prima a essere scartata perché, come riferirono gli esploratori, non solo tra i musulmani “non c’era letizia ma solo tristezza e una grande puzza”e non permettevano di mangiare il maiale, ma era perfino impedito loro di bere alcol. «Bere è la gioia della Rus!», sbottò inorridito il sovrano. E tracciò un simbolico frego sulla prima alternativa della lista. Continua a raccontare il cosidetto Manoscritto Nestoriano che poi ci fu un incontro con missionari ebrei, il colloquio con i quali fu però egualmente controproducente: «La perdita di Gerusalemme», spiegò l’incontentabile Vladimir, «dimostra che siete stati abbandonato da Dio». Dei cattolici, gli dissero invece gli inviati suoi, che le chiese tedesche erano cupe e brutte. Ma nella cattedrale di Santa Sofia a Costantinopoli rimasero a bocca aperte, di fronte ai fasti dell’opera di fronte alla quale lo stesso committente Giustiniano aveva esclamato: «Salomone, ti ho superato!». «Noi non sapevamo se fossimo in cielo o sulla terra», gli dissero. E Vladimir, dunque, decise il battesimo di Kiev, per se e per i suoi successori.

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Certo: a essere fiscali, questi ultimi dopo la conquista islamica di Costantinopoli avrebbero dovuto trarre la stessa conclusione che il loro avo aveva tratto per l’ebraismo. Ma invece i Granduchi di Mosca ne approfittarono per proclamarsi loro gli eredi di Bisanzio, per assumere quel titolo di Zar che rivendicava il trono dei Cesari, e anche per proclamare la città del Cremlino come Terza Roma: «Due ne sono cadute, ma la terza vive, e non ve ne sarà una quarta!». Che sarebbe successo se il buon Vladimir fosse stato astemio? Franco Cardini una volta ha provato a immaginare una Russia che si fa Islamica, mette il Corano a contatto dei vichinghi, porta alla conversione anche della Scandinavia, e prende l’Europa cristiana alle spalle. Più probabile, però, che se davvero Vladimir avesse fatto una sproposito del genere, la sua sorte sarebbe stata simile a quella di Gorbaciov. Che parlò di perestrojka, “ristrutturazione”, per rendere il sistema più efficiente. Dopo il disastro di Chernobyl si convinse della necessità di aggiungervi anche la glasnost,“trasparenza”. Ma compromise tutto con la contemporanea campagna anti-alcolica, che anzi era stata la primissima “riforma” da lui iniziata nel marzo del 1985, subito dopo la sua elezione a segretario generale del Pcus. «I russi bevono troppo», spiegava, lamentandone gli effetti disastrosi sulla produttività, sulla salute pubblica, sulla vita familiare. Perfino sull’immagine: che ne potevano pensare i visitatori stranieri, quando già dal mattino presto si dava loro il benvenuto con un bicchiere di cognac? Raccontava l’ex-ambasciatore a Mosca Sergio Romano in La Russia in bilico, libro-testimonianza da lui scritto subito dopo aver lasciato l’incarico: «Durante il giorno, di fronte agli spacci di alcoolici, era facile vedere tre persone che si erano accordate lì per lì per comprare e bere insieme, sul posto, una bottiglia di vodka. Nel pomeriggio, dopo il pasto del mezzogiorno, la produttività delle fabbri-

il paginone Controstoria del colosso russo (e sovietico) dalla parte del bicchiere:

La rivoluzione

Non si governa la Russia vietando l’alcol al popolo. Lo sapevano bene gli Zar; ma anche Stalin e Eltsin. Invece Medvedev punta sulla guerra ai liquori di Maurizio Stefanini che calava verticalmente. Di notte, i furgoni della milizia raccattavano gli ubriachi agli angoli delle strade».

Dell’abuso di alcool nella ex-Unione Sovietica testimonia anche un libro più recente: La cucina totalitaria, compilazione di ricette del periodo comunista a cura di Vladimir Kaminer. Un ebreo russo che ha fatto fortuna a Berlino grazie a libri che hanno cavalcato con intelligenza e ironia

considerati alla stregua di contorni. Al contrario della regola aurea della tradizione italiana, non bere mai alcool a digiuno, il primo bicchierino di vodka andava infatti mandato giù da solo. Col secondo si poteva aggiungere il pane nero, e dal terzo in poi gli altri alimenti: salame, prezzemolo, coriandolo, aglio, cavolo, carote, i classici funghetti in panna acida o in salamoia, formaggio spalmabile… Ananas per i ricchi, fin dai tempi degli zar, come testimo-

Dopo l’Urss, Michail Gorbaciov riuscì a imporre la perestrojca e la glasnot al suo popolo, ma quando nel 1985 cercò di toccare la loro abituale passione, fallì l’obiettivo quella mania della “Ostalgia”: la moda per fortuna più fokloristica che politica del passato, esemplificata dal film Good Bye Lenin. E da questo testo si apprende ad esempio che nell’Urss la vodka era considerata non una bevanda, ma un vero e prprio alimento. Che si vendeva infatti a grammi e chili, e rispetto ai quali gli stuzzichini di accompagnamento andavano

niavano anche le invettive in versi di Vladimir Majakovskij: «ingozzatevi pure di ananas e filetto/ potrebbe essere il vostro ultimo banchetto!». Caviale per gli stranieri, che si ostinano a considerare questo pur pregiato genere d’esportazione una prelibatezza cara ai russi; allo stesso modo in cui i turisti stranieri che vanno in gondola credono davvero che a Venezia si canti O

Sole mio. Ma, al limite, a fare un pasto bastano vodka e cetriolini sottaceto.

Davvero tutto questo scialo di alcool era colpa del Battesimo di Kiev? Qualcuno ha spostato le radici del problema a più indietro ancora, spiegando che erano i rituali del paganesimo russo e esigere libagioni in quantità. Qualcun altro l’ha invece buttata più sul recente. Ad esempio l’arciprete Dimitri Smirnov: un pezzo grosso della Chiesa Ortodossa in quanto responsabile del Dipartimento delle relazioni con le Forze Armate e i servizi per il mantenimento dell’ordine, che in una recente intervista ha dato la colpa alla rivoluzione bolsceviva. Il clima di terrore creato da Lenin e Stalin, che avrebbe spinto i russi a stordirsi per tirare avanti e non pensare all’incubo che si svolgeva attorno a loro. Smirnov ha pure ricordato che era stato Stalin a decidere che l’industrializzazione forzata aveva bisogno dell’alcool, abrogando il regime di austerità alcoolica introdotto da Nicola II. Se si ha presente però la fine che fece l’ultimo zar, di nuovo si può pensare che veramente chi in Russia tocca l’alcool


il paginone

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malgrado traversie secolari, la passione etilica non è mai tramontata

e della vodka

pra un’accisa al consumo. Ma ciò favorì la distillazione clandestina, che nel 1890 arrivava a un terzo del totale. Così nel 1893 Alessandro III propose il ristabilimento del monopolio, con la motivazione ufficiale di combattere l’acoolismo, ma solo nel 1902 suo figlio Nicola II ci riuscì. E entro il 1911 gli incassi dello Stato per la vendita di vodka erano saliti da 341 milioni a 594, per

Dopo il 1917 la distribuzione dei superalcolici fu nazionalizzata. Il che portò molti rubli nelle casse dello Stato. E Majakowskij continuava a tuonare contro la borghesia beona

muore: spesso, non solo metaforicamdente. Lasciando da parte religione e politica, altri spiegano che è semplicemente una questione di clima.

Nella foto grande, un’immagine particolarmente simbolica: siamo a Mosca nel 1992 in piena crisi economica e i cittadini si spintonano davanti a un rivenditore di vodka. Qui accanto, una scaffale di vodka. In alto, Gorbaciov e Medvedev

C’è poi un’altra leggenda, in cui invece è proprio un pope ortodosso a benedire l’acqua di un lago che ostacolava il passaggio al reparto di cosacchi di cui era cappellano, per trasformala in vodka che i cavalkieri prosciugarono a tempo di record. Per la finanze zariste, comunque, la vodka ha sempre rappresentato l’equivalente di quello che sono oggi in Italia le accise sulla benzina. Ivan il Terribile, ad esempio, vi stabilì appalti in concessione ai suoi favoriti. Pietro il Grande istituì il monopolio di Stato. Elisabetta tornò nel 1751 alle concessioni. Proprio perché ci guadagnava sopra il governo favorì il consumo di vodka sulle altre possibili alternative alcooliche, facendone il liquore principe della cultura russa. E così le entrate da vodka salirono dall’11% di tutti gli intrioti statali del 1724 al 30% del 1795. Tra 1798 e 1825 Paolo I e Alessandro I tentarono di ristabilire il monopolio di Stato, ma la resistenza di latifondisti e mercanti li obbligò a rinunciarci: erano gli anni, quelli, in cui Puskin annacquava vodka di fronte agli amici per spiegare loro il modo in cui per via dei progressivi matrimoni in Occidente i Romanov avevano di fatto smesso di essere russi. Nel 1863 Alessandro II cambiò metodo: liberalizzò la vodka, accontenandosi di incassarci so-

arrivare nel 1914 a un terzo di tutte le entrate statali. Le taverne dovettero chiudere: misura dai risvolti antisemiti, visto che erano in gran parte proprietà di ebrei. E l’acool potè essere acquistato solo negli spacci di Stato o al ristorante, mentre funzionari pubbici e aristocratici erano “inviati” a aderire alla lega per la temperanza creata dal governo nel 1895. Poi, dal 1914, con la scusa della dichiarazione di guerra fu addirittura proibito il consumo di vodka, per tutta la durata del conflitto. E ovviamente decollò la distillazione clandestina, che contribuì alla scarsità di cereali per la panificazione, e ai relativi moti che nel 1917 sfociarono nella Rivoluzione. Quanto al regime bolscevico, dopo aver mantenuto il regime proibizionista fino al 1924 decise prima di liberalizzare il consumo, poi dall’agosto del 1925 di ristabilire il monopolio di Stato. In attesa dell’ordine con cui, come già ricordato, nel piano quinquennale del 1930 Stalin dispose di portare la produzione di vodka al massimo.

A Stalin il giornale umorisico Krokodil dedicò una famosa storiella, immaginando un suo dialogo con Pietro il grande nell’adilà. «Come sta la gente da noi, ha sempre fame?». «Beh...ecco...». «Sono sempre in pochi a comandare?». «Si ma vedi...». «E il grano vi basta o dovete sempre importarlo dall’estero?». «Ebbene, ora ti spiego...». «E la vodka è sempre a 48 gradi?». «No, quella adesso è a 43». «E in tutto questo tempo, dopo quello che avete fatto, siete solo riusciti a ridurre la vodka di 5 gradi?». Proprio perché aveva ancora il monopolio Gorbaciov poté disporre la riduzione della produzione, oltre a ridurre gli orari di vendita, non oltre le 14. Ma lo Stato perse tra gli 8 e gli 11 miliardi di rubli all’anno, mentre la gente si avvelenava con profumo, di cui infatti fu pure vietata la vendita dopo mezzogiorno, e intrugli fatti in casa. «Saluto a Gorbaciov», venne ribattezzata una ricetta per alcool fermentato che veniva appunto lasciato in una pentola chiusa con un guanto, e che era pronto quando i vapori facevano spalancare le cinque dita. Alla fine Gorbaciov saltò, l’Unione Sovietica stessa si sciolse, e presidente della nuova Russia divenne Boris Eltsin: noto beone, che abolì il monopolio nel maggio del 1992. Provò a rimetterlo per ragioni

finanziarie nel giugno del 1993, ma ormai le massicce importazioni avevano messo la vodka di Stati fuori mercato, e nel 1996 ci si rinunciò di nuovo.

Dopo Eltsin, Putin ha cercato di ristabilire un controllo statale indiretto: fissando l’accusa al 5%, comprando ingenti pacchetti azionari delle principali distillerie e incrementando i controlli di polizia sulla produzione clandestina. Ma Medvedev ha ora deciso che non basta. Spiegando che i 18 litri alcool puro di consumo pro-capite annuo sono una piaga nazionale e che bisognerebbe ridurli di un quarto entro il 2012, dal primo gennaio ha triplicato i prezzi, e la vodka più economica costa ora 89 rubli ogni mezzo litro.Tre dollari. Il guaio però è che almeno metà dell’alcool consumato dai russi è distillato clandestinamente, con un costo di vendita che non accede i 40 rubli. Piuttosto che ridurre il problema, Medvedev rischia invece di far peggiorare quelle già tremende cifre per cui l’avvelenamento da alcool provoca 35.000 morti all’anno, e l’alcool in genere provoca in Russia almeno metà di tutti i decessi nella fascia di età compresa tra i 15 e i 54 anni. D’altra parte, quando Medvedev il 14 settembre ha annunciato la campagna, subito sui giornali sono comparse foto del presidene che beveva un liquido chiaro. E non si capiva se era tè, o qualcos’altro…


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Stati Uniti. Al partito repubblicano non mancano le idee, ma serve un leader per le elezioni del 2010 e del 2012

Right Nation alla riscossa Dopo un anno di Obama, il movimento conservatore sembra nuovamente in ascesa di Marco Respinti omani, 20 gennaio scocca un anno esatto da che il presidente eletto Barack Hussein Obama si è ufficialmente insediato alla Casa Bianca. Passano 48 sole ore e, oggi come un anno fa, il neo (oggi come allora) presidente federale degli Stati Uniti, fresco d’Inauguration Day o di suo anniversario, impatta subito il muso con la piazza, con il popolo, con gli States veri, autentici, profondi, e pure irriducibili. Mica pizza e fichi, diciamo da noi. Ma così dev’essere in un Paese dove la politica è una cosa seria e così è in un Paese dove la libertà è tanto grande quanto lo è il suo bel limite, la responsabilità, sempre personale, e dove chi governa rende conto, sempre, e in pubblico.

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A parte le elezioni suppletive per il seggio senatoriale del Massachussetts che fu di Ted Kennedy, in cui il partito del presidente rischia di perdere dopo più di tre decenni di domi-

di per sé ha il solo compito di vegliare sulla Costituzione federale, nonché il nadir delle libertà civili statunitensi, è attualmente l’ordalia più importante che a capodanno i vertici politici americani si trovano ad attraversare, persino de facto più pesante e spinosa del Discorso sullo Stato dell’Unione, peraltro quest’anno ricalendarizzato e impigliato nella premiere del serial televisivo Lost...

Lo è perché nell’occasione della Marcia per la Vita migliaia e migliaia di persone provenienti dai quattro angoli del Paese, vecchi e giovani, attivisti e intellettuali, uomini politici e semplici cittadini, organizzazioni e indipendenti, si radunano in un fiume pacifico e maestoso che chiede conto alla politica di cosa essa abbia fatto dell’uomo e della sua dignità, dei diritti fondamentali della persona e del concetto di responsabilità, attendendo risposte e non parole. Ebbene, in un frangente tanto deli-

A novembre si vota per rinnovare l’intero Senato e un terzo dei deputati, e la tentazione d‘inviare un messaggio alla Casa Bianca è irresistibile, in attesa delle presidenziali nio incontrastato, oggi come dodici mesi fa la prima prova a cui Obama è chiamato a rispondere (e come da 36 anni lo sono stati tutti suoi predecessori) è l’annuale Marcia per la Vita, che puntualmente si svolge con la neve e con il gelo nel giorno anniversario della sentenza emessa nel 1973 dalla Corte Suprema federale a conclusione del controverso e clamorosamente falsato caso “Roe vs. Wade” il quale d’improvviso legalizzò l’aborto in tutto il Paese nordamericano, e questo arrogantemente cancellando con un colpo di spugna numerose provvisioni di legge di segno contrario già varate in alcuni degli Stati dell’Unione e fino a prova contraria sovrani in una struttura federale quali la sono gli Usa. Quel fatto, che segnò lo zenit della politicizzazione “sessantottina” (come ha ben osservato George Weigel) e dell’iperattivismo indebito di un organismo, la Corte Suprema federale, che

cato, Obama - non è un mistero per nessuno - qualche scheletro nell’armadio ce l’ha; ed è per questo che chi pensa di sfruttare certe sue palesi “debolezze” popolari come questa sta già affilando i coltelli. Gli Usa infatti, votano a novembre per rinnovare l’intero Senato e un terzo dei deputati, e la tentazione d‘inviare alla Casa Bianca delle mille promesse e di nessuna realizzazione un messaggio forte e chiaro è irresistibile, in attesa delle presidenziali del 2012. Grande protagonista del momento è quindi tornata a essere la Destra politica e culturale, la famosa Right Nation che il tracollo elettorale di John McCain nel novembre 2008 sembrava avere sotterrato anzitempo. Bene inteso, le due cose, la Destra politica e la Destra culturale statunitensi, non sono automaticamente la medesima: non lo sono mai state, non lo saranno mai e certamente non lo sono nell’era Obama. Ma è altrettanto vero

che scindere rigidamente, con acriticità sospetta, Destra politica e Destra culturale è letteralmente impossibile. Negli States, ma non solo lì. Mille sono infatti le tangenze, le contiguità, le ricadute e in realtà anzitutto i tratti di strada percorsi assieme. Eppure – è così ovunque, negli Stati Uniti è una “legge non scritta” mai abrogata – l’universo “di popolo” che configura quella che con formula sintetica viene definita Destra culturale raduna una congerie di gruppi, ambienti e tendenze difficilmente sovrapponibile ai quadri di una (sola) formazione politica.

Negli Stati Uniti, il partito “di destra”, o, meglio, più “a destra”, è da tempo il Partito Repubblicano. Non che sia sempre stato o che quella formazione partitica sia nata così: sostanzialmente, “di destra” essa è divenuta nella seconda metà del secolo XX. Ma ciò non significa che il Grand Old Party (Gop), l’altro nome dei Repubblicani, sia di diritto la casa comune unitaria e unica del variegato e vasto mondo conservatore nordamericano. Si aggirano, però, per le grandi pianure nordamericane degli spettri, e il loro volto ceruleo è una verità di fatto. Il Partito Repubblicano non coincide tout court con il più ampio e profondo mondo della Destra culturale, ma tanto di fatto quanto a volte di diritto quest’ultimo può sperare di vedere accolte, persino in sede legislativa, alcune delle istanze di cui si fa carico sempre e soltanto quando le redini politiche delle istituzioni statunitensi sono tenute da esponenti Repubblicani. Quanto meno, il numero delle volte che ciò può sperare di accadere, e che quindi accade, in presenza di personale Repubblicano eletto è incomparabilmente superiore alle volte che ciò avviene con governi espressi dal Partito Democratico. Se da un lato ciò sottolinea proprio la maggior ampiezza della cultura conservatrice rispetto ai ranghi del partito politico che nell’immaginario collettivo, e anche in certa misura nella realtà delle cose, ne raccoglie le voci, dall’altro ciò significa che senza una precisa formazione politica di riferimento queste stesse

Chi è Scott Brown, candidato del Gop in Massachusetts

L’uomo che è diventato l’incubo dei democratici cott Brown, chi è costui? Il calciatore nativo della bella Dunferline, nella cui abbazia riposano dal 1329 le spoglie mortali di Robert Bruce primo re di Scozia, centrocampista del Celtic di Glasgow? Il deejay, altrettanto scozzese, vate della bouncy techno? Niente affatto. È l’uomo su cui oggi il Gop punta tutto nel Massachusetts dei gay rights, del radical-chicchismo più snob, del progressismo danaroso più smaccato che vi sia. Questo Scott, il nostro Scott, si candida infatti proprio oggi al Senato federale di Washington. Le squadre che ne inquadrano i supporter si chiamano “Scott Brigade”, il richiamo dei braveheart scorre anche nelle sue vene, e ricordano d’appresso le famose “Buchanan Brigade”del giornalista prestato alla politica Patrick J. Buchanan che ha dato e che dà spesso filo da torcere, da destra, al Partito Repubblicano degli Stati Uniti, del resto oriundo scozzese è l’uno, persino nel nome, e atavicamente figlio d’Irlanda è il secondo, buon sangue non mente mai.

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Scott Philip Brown, classe 1959, è senatore nell’Assemblea del Massachusetts dal 2004, in rappresentanza del distretto di Norfolk, Bristol e Middlesex, ma la notizia è che oggi gareggia nella tornata straordinaria indetta per colmare il seggio lasciato libero al Senato federale di Washington da Edward Moore Kennedy, noto a tutti come“Ted”, Democratico, quintessenza del progressismo arrogante di cui sopra, scomparso con qualche mistero irrisolto nell’armadio il 25 agosto scorso a 77 anni. La grande sfida, insomma. Che se Brown la vincesse, pur se è dura, nuova luce verrebbe gettata sull’intera e lunga campagna elettorale che porterà gli Stati Uniti alle elezioni di medio termine di novembre. A Washington, infatti, il Massachusetts è totalmente rappresentato dai progressisti Democratici. Perché talora negli USA si può pure essere Democratici senza essere progressisti, ma nel Massachusetts, a lungo dominato dall’ombra dei Kennedy e dei loro sodali, non è affatto così. Formatosi alla Tufts University di Medford/Somerville, vicino a Boston, dunque alla prestigiosa Boston College Law School, Brown è un avvocato il cui cavallo di battaglia è il diritto di famiglia. A 19 anni si unì all’Army National Guard, le unità della Guardia Nazionale stanziate nei singoli Stati dell’Unione nordamericana, quasi un “esercito locale”dentro la struttura federale del Paese, raggiungendo il grado di tenente colonnello e finendo pure in missione in posti remoti come il Kazakhstan e il Paraguay. Ancora oggi è il primo avvocato di difesa dell’Army National Guard per gli Stati della Nuova Inghilterra. Si definisce conservatore, ma anche indipendente. Sta cioè volentieri con i Repubblicani perché ne


mondo voci restano sparse, disarticolate, talora persino sole a gridare nel deserto.

ha bisogno lui e perché ne hanno bisogno loro, ma non è disposto a fare la marionetta. Con il presidente Barack Hussein Obama è d’accordo sul fatto che in Afghanistan ci vogliano più truppe per combattere il terrorismo internazionale, altro che ritiro, ma a Obama l’ha giurata per via di quella la riforma sanitaria che costa troppo e che, dice, non serve.

A destra sul piano fiscale, Brown si definisce invece più liberale sul piano sociale. Ma, al tempo.“Liberale”qui significa, nel gergo di oggi, persona non disposta a vendere la persona umana alla Borsa valori. Ha del resto fatto scandalo una proposta di legge voluta da Brown del 2005 in base alla quale un dottore, una infermiera o una struttura medica qualsiasi avrebbero potuto negare alle vittime di stupri la somministrazione di contraccettivi di emergenza se ciò avesse cozzato con il loro credo religioso. Brown non vuole i “matrimoni omosessuali”, ma pensa che le unioni omosessuali vadano in qualche modo regolata dal codice civile, a patto però appunto di non chiamarle mai né di confonderle con il matrimonio eterosessuale e con la famiglia naturale. Sull’aborto difende la legge oggi esistente (da noi sarebbe un “partigiano della 194” applicata integralmente), ma fa di tutto per ridurne la ferocia, pensa che l’interruzione volontaria della gravidanza non debba essere supportata dal denaro pubblico e crede fermamente nel fatto che il convincimento pro-life non debba essere usato come arma di discriminazione politica per stoppare la nomina di giudici meritevoli alla Corte Suprema federale, come invece oggi di frequente avviene. Maratoneta, ciclista, nuotatore, ex attore di spot commerciali, da giovane ha figurato quasi nudo su Cosmopolitan che nel 1982 lo ha incoronato “uomo più sexy degli States”, a 12 anni è stato arrestato per furto di proprietà intellettuale in campo musicale (sic), è sposato a una reporter, è padre di due figlie e tiene casa, con un mucchio di terreno, fuori Boston e anche nell’isola di Aruba, Caraibi. Protestanti, lui e i suoi pregano nella Christian Reformed Church in North America, filiazione della calvinistissima Chiesa Riformata dei Paesi Bassi di storica memoria, ma se la fa alla grande anche con le suore cattoliche cistercensi dell’abbazia di Santa Maria a Wrentham, Massachusetts. Per loro capeggia cordate di grandi benefattori, che per le suorine sono manna. E così le sorelle cistercensi pregano quotidianamente per lui e famiglia. Ne avrà certo bisogno oggi questo Repubblicano doc nei pregi e nei difetti. Come scordare, del resto, che George W. Bush jr. non era certo uno stinco di santo e che Ronald W. Reagan governatore della Californication non era proprio un pro-lifer granitico, ma che entrambi sono stati letteralmente trasformati dalla “grazia di stato” (m.r.) della responsabilità politica di primo piano?

Dalla copertina di Cosmo (senza veli) alla sfida per il seggio che fu di Ted Kennedy. E che rischia di passare in mano repubblicana dopo decenni

Ora, la questione è problematica perché nessun movimento culturale che voglia conservare le proprie purezza e libertà ama legarsi troppo a soluzioni di partito, ma è pur vero che senza gambe nemmeno le idee più fulgide riescono a muovere un solo passo; e questo il mondo del conservatorismo “di popolo” statunitense lo sa bene, soprattutto lo ha imparato negli anni pagando di tasca propria. D’altro canto, prezzo analogo lo ha pagato e continua a pagarlo anche il Gop, un partito che, come analogamente il Partito Democratico, non conosce storicamente “dottrine” ufficiali sul modello di quelle che configurano le realtà politiche organizzate europee, e quindi annovera nel proprio seno orientamenti culturali assai diversificati e a volte persino in stridente contraddizione fra loro. In concreto, ciò comporta per esempio il fatto che assai discriminante sia per i Repubblicani scegliere o non scegliere, in un preciso frangente per esempio elettorale, l’“apparentamento” esplicito e visibile, talora addirittura organico, con le fila del mondo conservatore “di popolo”. Lo storico Donald T. Critchlow lo documenta in un libro che la dirigenza Repubblicana avrebbe fatto meglio a studiare durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2008, ma che ancora potrebbe rispolverare ora con profitto. In The Conservative Ascendancy: How the Gop Right Made Political History (Harvard University Press, 2007), Critchlow descrive come l’alleanza strategica con il mondo del conservatorismo sociale e culturale abbia nella storia del Novecento costantemente premiato il Partito Repubblicano in termini elettorali, così come la sua assenza lo abbia sempre penalizzato. Ebbene, questo raccordo, vitale per i Repubblicani e a volte imprescindibile per i conservatori, è quello che nel 2008 è mancato o è giunto troppo tardi. Al di là della gragnola di calunnie diffuse a mezzo stampa, infatti, la candidatura alla vicepresidenza federale di Sarah Palin è stato il tentativo in extremis, quindi tardo e un po’ goffo, con cui il Repubblicano non conservatore (e tale soprattutto per gli standard del movimento culturale conservatore americano) John McCain ha cercato di correre ai ripari e di tamponare una emorragia evidente. Tale emorragia, va però sottolineato, non avrebbe certo ingrassato le casse elettorali dei Democratici, ma si sarebbe in gran parte dispersa, come poi del resto in certa misura è accaduto, nel non-voto, motivo per cui una più tempestiva difesa del fianco destro del partito avrebbe forse

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sortito effetti finali diversi da quelli che invece si sono poi fattualmente verificati. Nel 2008, cioè, senza la candidatura di destra della Palin i Repubblicani avrebbero perso un numero assai maggiore di voti popolari, laddove invece, per buona parte, le urne del GOP hanno“tenuto”botta, la differenza enorme avendola fatta il grande successo tutto personale ottenuto alle elezioni da Obama in persona più che dal partito che lo ha candidato.

Ma è quel che resta oggi di tutto questo che interessa maggiormente. Perché quel che resta oggi di tutto questo è un Partito Repubblicano in profonda crisi, incapace di esprimere figure significative di livello nazionale oppure, per converso ma è lo stesso problema, solo considerato speculare - schiacciato da personalismi ingombranti, veri o presunti, gonfiati dai media o reali. Non è un problema di oggi, appunto, soprattutto perché il Gop la propria anima “di destra” se la sta costruendo ancora - ammesso che

molti versi può essere retrospettivamente considerato come la “patristica” del movimento - necessita di rinnovamenti e di rilanci, d’input e di riattualizzazioni, non solo di pure doverose “piazzate”. Il patrimonio accumulato è un grande investimento, infatti, ma non può trasformarsi soltanto in un bene rifugio e in allori su cui riposarsi. E questa è oggi la priorità del movimento, così come anche il suo tallone di Achille.

La “Destra nuova” degli anni 1990 e di questo primo decennio di secolo XXI è infatti, negli Stati Uniti, una Destra più attivistica che di pensiero. Cosa che non è certo un male, ma che da sola non può bastare a reggere gli urti enormi che una società complessa qual è quella statunitense viene chiamata, in cima all’Occidente, ad affrontare, dal terrorismo internazionale alla crisi demografica, dalla bioetica alle libertà della persona. In un altro gran bel libro, America’s Right Turn: How Conservatives Used New and Alternative Media to Take Power (Bonus Books, Chi-

Il patrimonio accumulato dalle riviste e dai think tank d’area è un grande investimento, ma non può trasformarsi in un “bene rifugio” su cui riposarsi. E questa è oggi la priorità del Gop voglia sempre farlo -, dai tempi della candidatura presidenziale di Barry M. Goldwater (19091998) nel 1964. Ma nondimeno è un problema urgente. Quanto al movimento “di popolo”, intellettuali e grassroots, da tempo non si vedono emergere figure di autorevolezza tale da saper indicare con precisione vision e mission, prospettive e strategie. Il movimento conservatore statunitense, dalla sua rinascita a metà degli anni 1950, incubata (anche inconsapevolmente) nel ventennio precedente, è stato un costante fiorire di personalità e di elaborazioni, di idee e d’iniziative: un mondo popolato di giganti del pensiero quali Russell Kirk (1918-1994) e Frank S. Meyer (1909-1972), Willmoore Kendall (1909-1968) e Murray N. Rothbard (1926-1995), Richard M. Weaver (1910-1963) e Irving Kristol (1920-2009), per non citarne che alcuni, gravido di giornalisti talentuosi come William F. Buckley jr. (19252008) o Robert Novak (19312009), ricco di think tank imponenti come l’American Enterprise Institute for Public Policy, l’Intercollegiate Studies Insitute, la Heritage Foundation, il Cato Institute e la Free Congress Foundation, nonché di periodici seri come Modern Age, National Review, Human Events, Chronicles: A Magazine of American Culture, First Things, Commentary, The Weekly Standard e The American Spectator, e appoggiato da fuoriclasse come Eric Voegelin (1901-1985) e Leo Strauss (1899-1973). Oggi però tutto quell’universo - che per

cago e Los Angeles 2004), il cosiddetto guru del direct-mail Richard A. Viguerie, coadiuvato dal veterano dell’attivismo conservatore David Franke (insieme prefati dallo scrittore Tim LaHaye) spiega come la “rivoluzione informatica” e l’accesso ai nuovi mezzi di comunicazione di uso personale abbiano consegnato al popolo conservatore un potere reale di presa sulla società americana inesistente e insperato in anni precedenti. Così è sorto, nascostamente ma con grande efficacia, quel vero e proprio esercito di commentatori radiofonici, giornalisti d’inchiesta e d’assalto, attivisti, blogger e rappresentanti studenteschi capaci anche di pesare in sede elettorale ma soprattutto di rendere cogenti e attuali discussioni su temi delicati, scottanti e persino tabù. Insomma, artefici di quella che i due giornalisti John Micklethwait e Adrian Wooldridge hanno descritto, con espressione divenuta giustamente celebre, Right Nation. Ma oggi che il mondo lo chiede, e non solo quello americano, saprà questo popolo di nobili peones e frontiermen trasformarsi in una seconda eletta schiera di cavalieri senza macchia e senza paura? La domanda non è affatto retorica, soprattutto perché la risposta, da cui dipende molto, persino troppo, nessuno ancora la conosce. Certo, undici mesi per trovare una risposta, gli undici mesi che ci separano dalle elezioni di medio termine statunitensi, sono pochi. O forse no, se non altro per iniziare. (www.marcorespinti.org)


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Terremoti. Parla Gianpaolo Cavinato, sismologo del Cnr: «Nessun allarme» ROMA. «Haiti è una delle zone più a rischio della Terra in fatto di terremoti. Lo racconta la sua storia, lo mostrano le mappe geologiche dove si vede l’isola al bordo di una piccola placca stretta fra altre gigantesche. In gioco ci sono forze straordinarie capaci di distruzioni immani quando si manifestano». Gianpaolo Cavinato, dell’Istituto di geologia ambientale e geoingeneria del Cnr, ha studiato i movimenti sismici nei continenti, talvolta li ha inseguiti con impressioni così forti difficili da tradurre in parole. Negli ultimi cinquecento anni nell’area si sono già verificati 12 terremoti più violenti dell’attuale superando i 7,5 gradi della scala Richter. «La crosta della Terra è suddivisa in tanti pezzi che i geologi chiamano placche con uno spessore variabile da dieci chilometri a oltre settanta, a seconda dal luogo, negli oceani o sui continenti. Le placche si scontrano fra loro, alcune si inabissano sotto le altre, e altre ancora scivolano sullo stesso piano e dove vengono a contatto il movimento sviluppa energia. Questo accade lungo le faglie, cioè le fratture, che segnano la spaccatura della crosta». Per Cavinato, inoltre, «Haiti emerge dalla placca caraibica che è come una zattera in moto verso est. A nord si scontra con la grande placca

«Il nostro pianeta è come una macchina termica con un cuore incandescente che alimenta i sismi» nordamericana in viaggio invece verso ovest alla velocità di 2 centimetri all’anno e a sud con la altrettanto estesa placca sudamericana che s i sposta a nord-ovest di 1,5 centimetri all’anno». Quindi la «zattera» si trova stretta fra imponenti masse che agiscono di continuo sul suo territorio. Professor Cavinato, ieri c’è stato un altro terremoto, 6° della scala Richter, questa volta in Guatemala. È una frequenza preoccupante oppure è la normalità? Innanzi tutto il terremoto di ieri in Guatemala non deve destare preoccupazione. Sicuramente è un evento sismico di rilievo, ma a 103 Km di profondità non ci sono pericoli per cose o persone. Secondariamente, è vero anche che negli ultimi anni ci sono stati terremoti assai devastanti (in Indonesia, in Giappone, poi nel “nostro”Abruzzo, adesso ad Haiti), ma anche nei secoli scorsi ne avve-

Dopo Port-au-Prince trema il Guatemala Una scossa sottomarina getta anche El Salvador nel panico. Ma cosa sta succedendo? di Francesco Capozza

10 anni per la ricostruzione

La Ue stanzia 400 milioni per Haiti Unione europea non lascia sola Haiti: in una riunione straordinaria dei ministri dello sviluppo, la Ue ha preso impegni finaziari immediati e a medio termine per oltre 400 milioni di euro e si è impegnata ad inviare una missione di 140-150 gendarmi per contribuire a garantire la sicurezza degli aiuti umanitari alla popolazione colpita dal terremoto. «Abbiamo preso una decisione rapida», ha detto il ministro degli Esteri della Ue Catherine Ashton, alla sua prima grande prova di coordinamento di un’emergenza a livello europeo. L’Italia ha confermato il contributo immediato di 5,7 milioni di euro e l’azzeramento del debito di Haiti, che ammonta ad oltre 40 milioni di euro. Intanto, a quasi una settimana dal terremoto che ha devastato Haiti, il governo ha proclamato lo stato di emergenza fino alla fine del mese e 30 giorni di lutto, mentre sono già circa 70 mila i cadaveri cui è stata data sepoltura nelle fosse comuni. A preoccupare di più, infatti, è il tema della sicurezza: dopo i saccheggi e i linciaggi di ieri, e la macchina degli aiuti che fatica a raggiungere molte aree devastate del Paese, i sopravvissuti sono sempre più esasperati. La Croce Rossa parla di «situazione catastrofica» e «violenze e sacchegi in aumento». Intanto, continuano i miracoli: a 126 ore dal sisma che ha devastato Haiti, le squadre di soccorso hanno estratto due persone vive dalle macerie del Caribbean Market. E sotto le macerie ci sarebbero altre decine di persone ancora in vita. Circa cento bambini sarebbero rimasti sepolti sotto le macerie di una scuola crollata nel villaggio di Leogane, a un’ora di viaggio a ovest di Port-au-Prince. Anche qui si scava senza sosta.

L’

È la seconda vittima italiana. Si teme per altri due

La morte di Guido Galli ra stato in Afghanistan nel 2001 per l’Onu, come prima missione, in qualità di addetto al coordinamento dell’assistenza sanitaria, Guido Galli, 45 anni, il funzionario fiorentino delle Nazioni Unite morto ad Haiti sotto le macerie dell’hotel Christofer di Port-au-Prince. Laureato in scienze politiche, Galli aveva collaborato, subito dopo l’università, con alcune organizzazioni umanitarie in Messico e in Guatemala, per essere poi assunto dall’Onu con compiti organizzativi e politici nelle missioni di pace. Il funzionario fiorentino era ad Haiti, stabilmente, dal luglio 2008 ed era addetto a compiti di mediazione politica con il governo locale. «Guido seguiva incarichi delicati - ha raccontato la sorella Francesca - nell’ambito di

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relazioni tra l’Onu e il governo haitiano». Nel momento del terremoto, Guido Galli era all’hotel Christopher di Port-au-Prince, in una riunione presieduta da Hedi Annabi, tunisino responsabile della missione, e dal vice responsabile Luiz Carlo da Costa, entrambi morti sotto le macerie. Il suo nome era stato inserito, in un primo momento, in un elenco di italiani presenti ad Haiti emanato dall’Onu in seguito al quale si era pensato che Galli fosse stato tratto in salvo. Ma, dopo altre verifiche, la Farnesina aveva avvertito i familiari che in realtà era tra gli italiani dispersi. Sono proseguite per giorni le ricerche tra i detriti dell’albergo di Port-auPrince, ma ieri pomeriggio la speranza si è spenta ed è giunta la tragica conferma della sua morte.

nivano di tale intensità (e forse anche di più). Direi che adesso siamo più informati e quindi più in allarme. È possibile prevedere un terremoto? Purtroppo no. Sappiamo dove avverranno, conosciamo, cioè, le faglie sella crosta terrestre e ne monitoriamo la “vitalità”, ma non possiamo ancora prevedere quando i terremoti avverranno. La scienza riuscirà ad ovviare anche a questa mancanza? C’è un gruppo di ricercatori statunitensi che sta studiando da tempo la falda di Sant’Andreas, nel nord America. Questi studi dovrebbero produrre delle novità in tal senso, ma è difficile sapere se e quando questo avverrà. Sono dinamiche talmente fuori dalla portata dell’uomo... Haiti è nuova a eventi sismici di questa intensità? L’intera placca caraibica è percorsa al suo interno da faglie minori, su una di queste è addirittura collocata la capitale di Port-au-Prince rimasta vittima di imponenti distruzioni. Il suo territorio è infatti diviso in due parti in movimento nella stessa direzione ma con velocità diverse intorno a 70 millimetri all’anno. Nel continuo scivolare strette fra loro accumulano un’energia che ad un certo punto deve liberarsi ma non si sa dove e quando. Questa volta il punto sotterraneo in cui si è scatenata la violenza distruttrice, l’ipocentro come lo chiamano i geologi, era a 10 chilometri di profondità e a 16 chilometri dalla capitale. Santo Domingo, al contrario, dall’altra parte dell’isola, è in una posizione meno pericolosa perché le due faglie esistenti sul territorio della Repubblica Dominicana restano lontane, transitando una a nord e l’altra marginalmente a sud. La città, dunque, è meno soggetta a rischi. E Il terremoto è rimasto lontano. Ma da dove arriva la forza che fa muovere senza sosta le placche della crosta terrestre? Il nostro pianeta è come una macchina termica con un cuore incandescente. È proprio il calore che ha al suo interno ad alimentare un’energia capace di spostare le placche. Così il volto della Terra continua a cambiare e a rimodellarsi. Circa 300 milioni di anni fa c’era il supercontinente unico, Pangea, che lentamente si è diviso nei continenti attuali. Insomma, è un continuo comporsi e scomporsi proprio grazie al calore che, come in una pentola, quando bolle sposta il coperchio.


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19 gennaio 2010 • pagina 17

L’attentatore di Papa Wojtyla è uscito ieri di prigione

I talebani contro edifici governativi e luoghi pubblici

Ali Agca torna libero eannuncia la fine del mondo

Afghanistan, attacco al cuore di Kabul

ANKARA. Pregare sulla tomba

KABUL. Un attacco al cuore

di papa Giovanni Paolo II, proclamare la «Cristianità Perfetta che il Vaticano non ha mai compreso», chiarire tutti i misteri che ancora avvolgono il tentato omicidio dell’ex pontefice, incontrare lo scrittore Dan Brown e sposare con rito cattolico una donna italiana. Sono solo alcuni dei propositi di Mehmet Ali Agca, autore del tentato omicidio di Papa Wojty\u0142a il 13 maggio 1981, che ieri ha varcato le porte del carcere di massima sicurezza di Sincan, a circa 30 chilometri da Ankara, ed è tornato in libertà. Primo appuntamento: una visita militare per mancato servizio di leva, dal quale è stato però immediatamente esentato per «turbe psichiche». «Nel nome di Dio onnipotente, proclamo la fine del mondo. L’intero pianeta sarà distrutto, ogni essere umano morirà. Io non sono Dio, non sono il figlio di Dio, sono Cristo l’eterno», ha dichiarato l’attentatore del Papa, ripetendo di persona quanto scritto in una nota diffusa dal suo avvocato.

delle istituzioni governative e ai simboli della presenza occidentale a Kabul. Queste sono le caratteristiche essenziali dell’attentato talebano che ha colpito ieri la capitale afgana. Con un intervento plurimo, alcuni guerriglieri suicidi e altri mujaheddin armati di Kalashnikov e lanciarazzi hanno impegnato le forze di Polizia afgane ed elementi delle truppe Nato nel pieno centro della “Zona verde” della città, in una battaglia di circa due ore.Tra gli edifici presi di mira c’erano: il palazzo presidenziale, alcuni ministeri e la Banca Centrale, oltre a un centro commerciale e l’Hotel Serena, dove solitamente alloggiano gli stranieri. Il bi-

Un tempo militante dell’organizzazione terroristica di estrema destra denominata Lupi grigi, Agca sta quindi per chiudere i suoi conti con la giustizia turca per l’omicidio del direttore del quotidiano liberale Milliyet, Ab-

Il capitalismo cileno che piace alla sinistra Alberto Mingardi: la grande occasione di Sebastian Piñera di Pierre Chiartano ebastian Piñera - fratello di José, ministro del Lavoro con Pinochet - ha vinto in Cile. E con lui torna la destra politica al governo dopo l’intermezzo della Bachelet. Ma parliamo degli eredi della dittatura di Pinochet o possiamo affermare che il Paese sudamericano sia ormai entrato in un ciclo di democrazia virtuosa? Cioè che abbia abbandonato uno strutturalismo statalista che non solo aveva caratterizzalo la sinistra cilena di marca comunista ma anche una certa nomenklatura militare. Lo abbiamo chiesto ad Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni. In Cile è tornata al governo la vecchia destra o una tutta nuova ? Ci sono sicuramente delle grosse innovazioni. È comunque il ritorno della destra democratica in Cile. Serve però capire come erano cambiate le persone negli oltre vent’anni dall’uscita di scena del generale Pinochet. Anche i Piñera, prima di entrare nel governo con i militari, avevano a cuore le libertà individuali e non possono essere associati ai crimini commessi da quel governo. Possiamo affermare che i liberali si siano oggi liberati dai militari? Non erano subalterni a Pinochet. Non furono cooptata dai militari, innamorati della scuola economica di Chicago. Pinochet eredita un Paese in condizioni disastrose. Impoverito da Allende e ben oltre la soglia della guerra civile. I militari intervenirono per necessità e andarono a prendere gli unici economisti «non comunisti» che c’erano nel Paese: all’Università cattolica di Santiago. L’ateneo dagli anni Cinquanta aveva un programma di scambio culturale con l’Università di Chicago, ragion per cui i decani di economia avevano quasi tutti studiato negli Usa. Con alcune differenze. Entrambi i fratelli Piñera - figli dell’ambasciatore preso l’Onu a New York - avevano studiato ad Harvard. Così per un caso della storia il governo militare gli chiese di tirare il Paese fuori dai guai. È una grossa fortuna per il Cile, perché vengono attuate molte riforme. La più famosa è quella del sistema pensionistico. Ma anche la privatizzazione dei diritti di proprietà sulle mi-

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niere, l’apertura al mercato internazionale. Quelle riforme diventano il mattone per ricostruire il benessere che porterà più tardi la società cilena a chiedere un ritorno alla democrazia e alle libertà politiche. Quelle riforme non sono state toccate neanche dal governo di centrosinistra. Un grande merito della Concertation - lo schieramento che porto all’elezione della Bachelet - che in alcuni casi le ha migliorate dal punto di vista liberale. ha aumentato il ventaglio geografico degli investimenti che potevano attuare i fondi pensione. Il governo militare - fortemente nazionalista - aveva vincolato molti investimenti ad attività economiche cilene. Il governo della Bachelet ha ampliato queste possibilità. I militari erano antisocialisti, entrano in scena solo di fronte al disastro di Allende, con la classe dirigente che c’era. Casualità della storia? Per fortuna in questo caso. Pensiamo se quegli economisti avessero studiato con Paul Samuelson. Oltre alle violazioni dei diritti civili non avrebbero portato il Paese fuori dalla crisi economica. Sebastian Piñera può dunque crescere col Paese, avendo un patrimonio politico condiviso anche con l’opposizione. È una grande opportunità. Il Cile è entrato in una fase di democrazia più matura? Raramente ho visto un Paese così civile. Più dell’Italia. È sicuramente un Paese che ha un’adesione condivisa per le idee della libertà economica. Lo sviluppo ne ha poi consolidato la percezione favorevole da parte di tutti gli schieramenti. È un successo delle riforme degli anni Ottanta e di una sinistra aperta e intelligente che con Lagos, la Bachelet e anche con Frei la distinguono da quella di tutti gli altri Paesi dell’America latina. Tra Chavez e Morales e il populismo pragmatico brasiliano, il modello cileno è destinato a rimare un caso unico? È un Paese capitalista. È un modello esportabile? Ciò che sappiamo è che altri Paesi ci hanno provato, con meno fortuna. In Argentina l’hanno inquinata con la logica mercantilista e arricchimenti personali.

«È un Paese che ha un’adesione condivisa per le idee della libertà economica. Grazie anche ai buoni risultati ottenuti»

di Ipekci, nel 1979, dopo averli chiusi nel 2000 con quella italiana per il tentato omicidio del Papa, in seguito alla grazia concessa dall’ex presidente Carlo Azeglio Ciampi. Ma Agca non si prepara certo a un ritorno in libertà in punta di piedi. «Sono sano e forte, sia fisicamente che psicologicamente», ha scritto nei giorni scorsi in una lettera inviata al Times, volendo così mettere a tacere quanti dubitano della sua lucidità mentale. Mercoledì scorso due dei suoi avvocati, Yilmaz Abosoglu e Gokay Gultekin, hanno annunciato ai giornalisti che il loro assistito intende dare chiarimenti sull’attentato contro Wojtyla e su una possibile pista sovietica o bulgara.

lancio dello scontro è di una decina di morti, tra i quali però anche un bambino, e circa 40 feriti. Ragionando freddamente in termini numerici, l’attentato non ha paragoni rispetto a quello di febbraio 2009, quando vennero uccise 26 persone. Ancora più grave fu quello dell’estate 2008, che colpì l’Ambasciata indiana e provocò una sessantina di vittime.

D’altra parte è sul valore politico dell’episodio che bisogna riflettere. Risale al 27 aprile 2008 l’ultimo caso in cui i talebani si avvicinarono così tanto ai massimi rappresentanti delle istituzioni nazionali afgane. In quella occasione, durante una parata militare, i mujaheddin si scagliarono contro il palco delle autorità. Il primo a rischiare la vita fu lo stesso Presidente Hamid Karzai. Quel che è accaduto ieri però non aveva come solo obiettivo il vertice politico nazionale, ma l’intera “Zona Verde”di Kabul in quanto tale. I talebani volevano colpire sia il governo filo-occidentale di Karzai, sia i rappresentanti delle Nazioni Unite, della Nato e di Isaf, nonché il loro corollario di diplomatici, esponenti di Ong, giornalisti e stranieri che per vario titolo sono presenti sul (a.p.) territorio afgano.


cultura

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Geografie. Dopo la nomina a “Capitale europea della cultura”, si riapre il dibattito sulla Turchia, un paese islamico che punta all’ingresso in Europa

L’enigma di Istanbul I “niet” di Francia e Germania, le radici occidentali e quelle orientali: ritratto di un Paese sospeso tra due mondi di Enrico Singer stanbul. Il fondo dorato dei mosaici bizantini accanto a quello verde dei pannelli con i versetti del Corano: entri a Santa Sofia e subito i volti contrastanti di Istanbul prendono le forme e i colori di mondi, culture, religioni diverse. L’Europa e l’Asia, il Cristianesimo e l’Islam, l’Occidente e l’Oriente. Tracce visibili di scontri e di contaminazioni, della storia millenaria di quello che è stato l’Impero romano d’Oriente prima di diventare il Califfato ottomano e che oggi vorrebbe essere una porta piuttosto che una frontiera. Per inaugurare il suo anno da “Capitale europea della cultura” si è tirata a lucido. Ma Istanbul può essere considerata davvero una capitale dell’Europa?

I

di Paesi che non facevano ancora parte della Ue hanno avuto questo titolo e la Turchia – non va dimenticato – è comunque un “Paese associato” all’U-

Dietro le remore di Bruxelles c’è la percezione di un diverso fondamento identitario. L’aspetto religioso pesa

Può sembrare un paradosso. Proprio adesso che Paesi come la Francia, la Germania o l’Austria escono allo scoperto e si dichiarano contrari all’ingresso della Turchia nella Ue, la metropoli sul Bosforo si presenta come il cuore culturale di un’Europa che corteggia da anni. Da quell’ormai lontano 1963, quando per la prima volta bussò alle porte dell’Unione che, nel 2005, le ha finalmente concesso lo status di Paese candidato e ha aperto la trattativa per l’adesione completa, anche se non si è data scadenze temporali per arrivare a una firma che cambierà – se e quando ci sarà – non soltanto i suoi confini, ma la sua stessa natura. Il riconoscimento di capitale europea della cultura, anche se condiviso con Essen e Pecs, ha il sapore di una prova generale, di un anticipo di quello che sarà. O che, almeno, potrebbe essere perché l’esito del cammino della Turchia verso la Ue non è poi così scontato. In realtà, da un punto di vista puramente burocratico, le manifestazioni che sono cominciate a Istanbul, non sono eccezionali. Già in passato altre città

nione europea con tanto di accordi doganali che hanno già permesso un’integrazione economica consistente. Ma è evidente che nel 2006, quando fu deciso che Istanbul sarabbe stata nel 2010 capitale della cultura, la voglia di stabilire legami che incoraggiassero in ogni modo il percorso dell’adesione era più forte.

Adesso i sentimenti da una parte e dall’altra sono cambiati. La mossa più clamorosa è stata quella del presidente francese Nicolas Sarkozy che ha apertamente dichiarato che, «per onestà», bisognerebbe dire alla Turchia che non entrerà mai a pieno titolo nella Ue e che le trattative in corso dovrebbero essere rimodulate

con l’obiettivo di arrivare a stabilire un “partenariato speciale”. Nulla di più. Una posizione che, al fondo, è condivisa da Angela Merkel – anche se Berlino è più prudente di Parigi nelle esternazioni pubbliche – e che si sta facendo strada in molti altri Paesi dell’Unione. Ma anche in Turchia aumentano i dubbi. Un fronte del no all’ingresso in Europa c’è sempre stato e ora si alimenta delle riserve altrui presentandole come degli ineccettabili diktat nella logica del “se non ci vogliono non ci meritano”. Proponendo un piano B nel solco del ben radicato nazionalismo turco che prefigura per il Paese un ruolo autonomo di potenza regionale capace di attrarre l’Iran e parte del Medio Oriente. Con il sogno segreto di ricostruire un Califfato in versione moderna. Il governo di Recep Tayyip Erdogan, che si dichiara islamico moderato o “demo-musulmano”come va di moda dire qui, oscilla tra le opposte ipotesi con astuzia tutta bizantina per non chiudersi alcuna porta alle spalle. Ma, ufficialmente, l’intenzione è sempre quella di entrare a pieno titolo nella Ue.

Avrupa Hosgeldiniz. Benvenuti in Europa. Il cartello spunta subito dopo il grande ponte sul Bosforo intitolato a Kemal Ataturk che unisce le due metà di Istanbul. Erdogan spera ancora di spostarlo di quasi duemila chilometri più a Oriente. Fino alle frontiere con l’Iran, l’Iraq, la Siria e il Libano. Tra i caffè che costeggiano il Corno d’Oro molti ripetono la stessa cosa: non importa quanto dureranno i negoziati avviati nel 2005, l’importante è andare avanti. «L’Europa non può umiliarci con condizioni che non sono state imposte a nessun altro Paese o con minacce di referendum come quello annunciato in Francia», dice Ohran che è un giovane impiega-

Nella foto grande, un’immagine della basilica di Santa Sofia. Un tempo sede patriarcale, si trasformò in moschea e attualmente ospita un museo. La cupola che la sormonta, ultimata nel 537, è considerata l’apice dell’arte bizantina. A sinistra, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan. A destra, Merkel e Sarkozy, scettici sull’ingresso del Paese nella Ue to con moglie e due figli. Per lui l’ingresso della Turchia nella Ue vuol dire tante cose. È la garanzia dell’applicazione delle riforme, la sanzione della scelta di democrazia e di modernità. Ma è anche l’occasione per inseguire un maggiore benessere. «Qui uno stipendio medio è sugli ottocento euro al mese e bisogna lavorare almeno in due se si vuole andare avanti». L’economia turca, benché in forte movimento, ha bisogno di una sponda solida per crescere e per limitare la vertiginosa inflazione che nel 2004 aveva fatto arrivare il prezzo di un chilo di uva secca a sei milioni di lire turche e quello di una casa normale a cento miliardi di lire turche. Oggi, dopo la riforma monetaria, un euro vale due lire turche, ma fino a cinque anni fa, nel Paese circolavano i biglietti di banca con il maggior numero di zeri del mondo. C’erano anche le banconote da cinquanta e da cento milioni che sono diventate una curiosità per collezionisti perché, dal gennaio del 2005, è entrata in circolazione una nuova «lira forte». L’uva secca è tornata a costare sei lire turche e una casa centomila lire. Ma il rapporto tra gli stipendi e i prezzi non è cambiato. Il livello di vita della Turchia è molto più basso della media europea: il reddito pro-capite è la metà di

quello dei dieci Paesi che sono entrati nell’Unione con l’allargamento ed è appena un quinto di quello dei vecchi Quindici. La produzione agricola rappresenta ancora il 14 per cento del Pil. E questo è uno degli argomenti di chi sostiene che la Turchia non è pronta per l’Europa e che la sbilancerebbe inesorabilmente verso il basso.

Ma non è il solo. Valery Giscard d’Estaing, l’ex presidente francese che è stato anche presidente della costituente europea, liquidava la questione con una battuta: «A scuola mi hanno insegnato che la Turchia è in Asia e non in Europa». Un argomento che potrebbe già chiudere la discussione. Basta consultare qualunque atlante geografico per vedere che la Turchia, in effetti, ha più del 90 per cento del suo territorio in Asia. Dopo quel cartello lungo il ponte sul Bosforo che dà il benvenuto in Europa, c’è soltanto il 5 per cento del territorio turco che arriva fino alla Grecia e alla Bulgaria, dove vive appena l’8 per cento della popolazione che, oggi, sfiora i 77 milioni di abitanti: 15 milioni concentrati a Istanbul. Proprio il numero degli abitanti che tra vent’anni potrebbero essere 90 milioni - è un altro grande argomento negativo sottolineato da chi è contrario


cultura

all’apertura. La Turchia diventerebbe il primo Paese della nuova Ue: più influente di Francia e Germania perché, con le regole del Trattato di Lisbona appena varato, è il numero degli abitanti che determina il peso politico di ciascun Paese: nel Parlamento europeo e nel Consiglio. Ma il problema dei problemi è un altro. Per usare sempre le parole di Valery Giscard d’Estaing, esiste una «diversità dei fondamenti identitari» tra la Turchia e la Ue. Dietro questa formula c’è una realtà indiscutibile: la Turchia è un Paese musulmano al 99 per cento della sua popolazione. L’incontro tra civiltà e religioni sarà possibile e positivo, oppure finirà con lo snaturare definitivamente il progetto europeo? Giscard avrebbe voluto sviluppare – attraverso quella Costituzione che è poi caduta sotto il fuoco dei referendum – un “patriottismo” dell’Europa unita basato su valori comuni: l’apporto culturale dell’antica Grecia e dell’antica Roma, l’eredità religiosa del cristianesimo e dell’ebraismo, lo slancio creativo del Rinascimento, la filosofia del secolo dei Lumi. Valori che la Turchia non ha condiviso, sviluppando una sua civiltà che «merita rispetto», secondo Giscard d’Estaing, ma che non si può fondere con il progetto eu-

ropeo. O, per dirla in modo molto più netto con Vittorio Messori, «creando quell’antiEuropa per eccellenza che, storicamente, è stato l’Impero Ottomano». Anche a Istanbul, anche nella parte europea della Turchia, perché nel 1453, Costantinopoli, la Nuova Roma, la terza Città Santa della Cristianità, è stata conquistata dalle armate otto-

mane che l’hanno resa musulmana con la forza, che ne hanno fatto per quasi cinque secoli sia la loro capitale politica che quella religiosa come sede del Califfato in cui il sovrano riuniva in sé il titolo di sultano (la guida politica) e di califfo (la guida religiosa).

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Questa è la critica che brucia di più ai turchi che vogliono entrare nella Ue. «Vedi questa era una chiesa, poi è diventata una moschea, adesso è un museo per non fare torto a nessuno», dice Yusuf che vende le ciambelle al sesamo di fronte a Santa Sofia. È il suo modo semplice di spiegare la rivoluzione laica di Mustafa Kemal Ataturk che, nel 1923, depose l’ultimo sultano, abolì il Califfato e fondò la Repubblica turca. Anche la decisione di trasformare Santa Sofia in museo fu presa da Ataturk. Un gesto simbolico perché chiudere una moschea e far riaffiorare i mosaici con la vita di Cristo dalla malta con cui erano stati ricoperti, è stato un gesto coraggioso per stabilire un dialogo. Adesso il “mihrab”che indica ai fedeli musulmani la direzione della Mecca per la preghiera è proprio sotto l’immagine bizantina di una Madonna in trono con Gesù in grembo. Ma basta questo per credere che la Turchia, una volta entrata nella Ue, diventerà una specie di laboratrio per l’incontro di civiltà? Yasar Yakis, presidente del Comitato per l’armonizzazione delle istituzioni turche con quelle della Ue, dice: «I nostri amici europei ci parlano sempre dei vantaggi di una società multiculturale, che non discrimina le altre confessioni e ci hanno chiesto di migliorare la nostra legislazione per sviluppare la ricchezza delle differenze, cosa che stiamo facendo. E poi non vogliono accettare un’altra cultura nella Ue? Questa è un’ipocrisia che ci sorprende». Anche Inal Batu, che è uno degli esponenti di spicco dell’unico partito di opposizione rappresentato in Parlamento - il partito socialista - e che è stato ambasciatore a Roma, dice che la Turchia «non è un Paese musulmano, ma un Paese abitato da musulmani». Sarebbe uno Stato laico, insomma, come l’Italia

«che è abitata in grandissima maggioranza da cristiani, ma che non è uno Stato confessionale». La versione del governo turco su questo punto è netta: l’impero Ottomano non esiste più dal 19 novembre del 1922 quando l’ultimo sultano, Vahdeddin, fuggì su una corazzata inglese. Da quel giorno sono cominciate le riforme di Kemal Ataturk: il 3 marzo del 1924 furono aboliti i tribunali religiosi e l’insegnamento nelle scuole passò sotto la competenza di un ministero dell’Educazione pubblica. Nel 1925 furono riconosciuti alle donne gli stessi diritti degli uomini e entrarono in vigore i nuovi codici: quello penale preso in buona parte dalla legislazione italiana, quello civile dalla svizzera. Nel 1928 arrivò la riforma dell’alfabeto. Fu abbandonato quello arabo per introdurre una scrittura con lettere latine che ha fatto nascere il turco moderno. «Il nostro cammino verso l’Europa è cominciato da lontano», dice Seyfi Tashan, che da trent’anni è presidente dell’Istituto di politica estera di Ankara.

Una lunga marcia, insomma. Che non è stata a senso unico, però. Perché al piatto positivo delle riforme ha fatto da contappeso quello pieno di tanti elementi negativi: la persecuzione dei curdi (trentamila morti) e il genocidio degli armeni (un milione di morti) ancora ufficialmente negati, la tortura come sistema negli interrogatori della polizia, i tribunali speciali, la pena di morte. Il taglio con questa parte del passato è molto più recente. La riforma dei codici è passata soltanto alla fine del 2004, scongiurando anche il tentativo dell’ala più islamica del partito di Erdogan - l’Akp - di reintrodurre il reato di adulterio. In questa accelerazione la voglia di entrare nell’Unione europea è stata decisiva. I tecnici la chiamano «realizzazione dei criteri di Copenhagen». In pratica non è altro che l’armonizzazione della società politica, economica e civile turca agli standard europei. «È su questo che dovete giudicarci», dice Seyfi Tashan. Ma anche sul terreno dei criteri di Copenhagen ci sono delle crepe. Non è ancora passata, per esempio, la legge sulle fondazioni. Potrebbe sembrare un aspetto marginale, ma non è così perché questa legge darebbe finalmente uno statuto giuridico certo e una protezione alle religioni che qui sono minoranze: a cominciare da quella cristiana che è sempre in bilico tra tolleranza e discriminazione. A parte gli attentati – come l’assassinio di don Andrea Santoro – che, naturalmente, il governo di Erdogan condanna e attribuisce a “elementi isolati”. Per il momento, Istanbul si gode il suo anno da capitale europea della cultura. Per tutto il resto, si vedrà.


cultura

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a crisi del sistema economico finanziario statunitense ha reso attuale l’opera di una della maggiori pensatrici della seconda metà del Novecento. L’implosione di un Capitalismo privato della sua identità, quale civica religione del fare, corrotta dalla politica e dalla burocrazia in favore di speculazioni a vario titolo, non può non provocare nel grande pubblico curiosità.

L

Un pensiero eretico fu quello di Alissa Zinovievna Rosenbaum, al secolo Ayn Rand. La sua fu una visione di un Capitalismo senza compromessi quale destinazione finale naturale delle relazioni umane, un Capitalismo ostacolato dalla mediocrità e dal parassitismo, una visione diffusa attraverso la costruzione coerente di un pensiero, l’“oggettivismo”, che trovò negli eroi individualisti, protagonisti dei suoi romanzi, icone capaci di coniugare il pregio letterario con un messaggio rivoluzionario per un’epoca, quella della seconda metà del Novecento, dove le idee collettiviste spopolavano nell’editoria e nel mondo accademico. L’immigrata russa in fuga dall’Unione Sovietica verso la terra degli uomini liberi comincia a fare breccia non più soltanto nel blocco dei conservative-libertarian del Paese a stelle e strisce come del mondo, ma anche in ambienti insospettabili. Anne C. Heller, giornalista ed editor per rivie ste come l’Eqsquire Redbook, oltre che per le pubblicazioni di Conde Nest, esce in libreria con una biografia completa della vita dell’eroina del libertarianismo contemporaneo con il proposito di costruirsi, costruire e poi divulgare un’idea non preconcetta, nel bene come nel male, della figura della filosofa. La Heller racconta di essersi imbattuta per puro caso nell’opera di Ayn Rand, di cui non aveva mai avuto particolare interesse pur essendo La Fonte Meravigliosa o La rivolta di Atlante romanzi che da decenni restano saldamente popolari, considerati né più né meno dell’Holden Caulfield di Salinger o dell’Huckleberry Finn di mark Twain, ovvero tra i libri negli Stati Uniti d’America che hanno avuto più influenza nel formazione dell’opinione pubblica. Il fatto è che l’opera della Rand divide da subito e negli anni l’intellighenzia accademica liberal ha lasciato passare il suo messaggio di damnatio memoriae sulla filosofa dell’oggettivismo, tacciata di dogmatismo povero e senza ritorno. Il lavoro della Heller, pur non essendosi potuto avvalere del-

Libri. Un’insolita biografia di Ayn Rand scritta dalla giornalista Anne C. Heller

La “capitalista” del secolo scorso di Giampiero Ricci la collaborazione dell’“Ayn Rand Instiute” come dell’“Ayn Rand Center for the individual rights” per una malcelata voglia di protagonismo e di esclusivismo da parte dei rettori degli istituti (che dovrebbero invece avere maggiormente a cuore la conservazione della memoria sul pensiero e la persona della Rand), sgombra autenticamente il campo da pregiudizi e lo fa grazie ad una ricostruzione certosina soprattutto degli anni della formazione.

Sopra e in alto, due immagini della filosofa Ayn Rand. In alto a destra, le copertine dei suoi libri “La rivolta di Atlantide” e “La fonte meravigliosa”

Il libro possiede una notevole quantità di chicche e pone sotto la lente di ingrandimento soprattutto il periodo di vita vissuta in Russia e i rapporti personali familiari, argomenti questi di cui la Rand non accettò mai di di-

Nel volume viene indagato non soltanto il pensiero della filosofa russa, ma anche l’aspetto più personale di una figura considerata eretica lungarsi in pubblico. La biografia della Heller è diversa dalle altre, lascia da parte l’aspetto politico e filosofico dell’impatto dell’oggettivismo sul mondo libertarian e conservatore americano.

L’epopea della farmacia di famiglia prende nel libro della Heller più spazio delle diatribe della Rand con Hayek o Friedman, gli aspetti polemici

e politici sono solamente accennati (la Rand si sentì di sodalizzare solamente con Ludwig von Mises avendone per tutti gli altri). I tratti caratteriali della Rand che escono dalla lettura della biografia della Heller sono quelli di una donna intransigente come il suo pensiero, impietosa soprattutto nei confronti di se stessa che finì per allontanarsi da tutto e tutti pur di non tradire i propri ideali. Credette nella forza della logica e nel valore dell’essere umano, in un mondo che sembra godere della colpevolizzazione e della ridicolizzazione dell’uomo. La Heller si sforza discutibilmente di trovare più di una connessione tra la sua filosofia e le radici ebree e russe della Rand, sostenendo che la sua filosofia sia l’elaborazione delle pulsioni fanciullesche ad ottenere tutto ciò che si vuole, rivissute poi nel periodo frustrante ed asfissiante dei giorni della rivoluzione di Ottobre e di quel che ne seguì e coerentemente esplose nella costruzione dell’oggettivismo, una filosofia basata sull’assunto che la realtà esiste e che l’uomo è una valore di per se stesso.

Appaiono calzanti invece le conclusioni dell’autrice quando, riferendosi alle critiche sul troppo romanticismo che piovvero e che ancora piovono addosso alla dignità dell’estetica letteraria randiana, nel suo lavoro sostiene che Ayn Rand, alla fine, non fu che una scrittrice dell’Ottocento trovatasi a vivere nel Novecento, una scrittrice che guardava senza vergogna ai sentimenti umani, alle aspirazioni, alla forza di volontà e alla capacità di costruire dell’uomo. Tutte caratteristiche banalizzate nella vulgata generale occidentale contemporanea, quasi ci si riferisse a tratti lontani di un’umanità preistorica. Alla fine, dietro al rinnovato interesse verso l’opera di Ayn Rand, è bello pensare si nasconda una nuova voglia di trovare dentro noi stessi e le nostre opere terrene le ragioni e la dignità dell’essere uomini e donne, senza vergogna né colpe originali decise per moda o per convenienza di bassi interessi, un messaggio che il libro della Heller permette di cogliere in pieno.


spettacoli

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Musica. Oltreoceano, tutti pazzi per la giovane ventiseienne Serena Ryder e per il suo nuovo, riuscitissimo album “Is it ok”

Il nuovo volto del pop canadese A fianco, sotto e in basso, alcune immagini della giovane artista canadese Serena Ryder, di nuovo sotto i riflettori con l’uscita del nuovo, riuscitissimo album “Is it ok”

di Valentina Gerace on usa la voce come Mariah Carey o Whitney Houston, non sfoggia acuti da brivido e non c’è alcun erotismo o provocazione nei suoi video. Sono altre le armi vincenti che fanno della cantautrice canadese Serena Ryder una star. Ambizione, talento, determinazione, sensibilità alla tradizione. E tanto gusto musicale. Eppure quella semplicità l’ha portata lontano. Le principali riviste musicali americane l’hanno definita la nuova Aretha Franklin e hanno sottolineato la sua spigliatezza da artista veterana. In effetti la sua sensuale voce, dai toni caldi e profondi inganna riguardo la sua giovane età. A quanto pare nemmeno gli Aerosmith, che l’anno invitata ad aprire più volte i loro concerti, sono rimasti indifferenti al suo talento. O persino Bruce Springsteen, che l’ha ospitata tra gli artisti preferiti nel suo sito. Mentre la nostra, di tutta risposta, ha realizzato una cover del Boss da brivido: Racing in the street. Poi, si sa, da cosa nasce cosa. Questa combinazione di carte vincenti nutrite da importanti collaborazioni l’hanno portata a lavorare con la celebre casa discografica Atlantic Record, in occasione del suo nuovo album. Is it ok prodotto in Canada nel febbraio scorso e disponibile da noi dallo scorso novembre, dimostra come Serena non abbia davvero nulla da invidiare a Janis Joplin o a Joni Mitchell.

N

La sua musica, che è rock e folk, country e soul, ma sopratutto la sua performance vocale, fanno di ogni singolo brano che compone una perla compositiva da ascoltare più volte e apprezzarne il valore musicale e poetico. Che si tratti di un grande disco, un album da collezione, lo si capisce già ascoltando Sweeping the asher. Il tempo che un arpeggio di banjo sposi un paio di accordi di pianoforte ed ecco entrare la voce di Serena come una vampata emotiva che cattura. Riporta l’emozione provata ascoltando per la prima volta la voce di una Tracy Chapman o un Cat Stevens. Ancora, Little bit of red ricorda invece che siamo negli anni Duemila e che la Ryder ne interpreta prefettamente gli umori nella modernità degli arrangiamenti e nelle parti vocali. Con Brand New Love arrivano le chitarre e l’essenzialità di una voce che mastica rock e passione così come Biding Place è una perla che Serena ci serve da consumata interprete. Altri splendidi brani sono Blown like the wind at night, con chitarre in primo piano e un ritmo in crescendo con un riff che non ti lascia più, e All for love. Nel Dna della nostra giovane autrice emerge la canzone d’autore raffinata con Weak in the knees o Stambling over you, dove le chitarre si fanno elettriche sprigionando un’ energia che contrasta la vulnerabilità di altri brani del disco. Cambiano I toni nella ballata rock che parla d’amore, Why can’t I love you. Truth è diretta, profonda, essenziale, una traccia in cui le chitarre acustiche ed elettriche si incrociano in delicati loop, lasciando la voce della Ryder

pecorrere le strade tracciate dalle migliori cantanti rock statunitensi. Is it ok, che dà il titolo al disco, conferma l’agilità del linguaggio compositivo e della proposta musicale carica ed entusiasmante. Gran finale con What I wanna know, quasi funky rock, splendida voce e grinta, arrangiamento musicale da dieci e lode; e poi Dark as the black, che chiude l’album. Un brano intimo, graffiante, solo chitarra e voce. Sono chiari I suoi idoli musicali, dalla musica nera anni ’50 al pop moderno di Tori Amos o Tracy Chapman. Eppure Serena è così diversa da tutte. Si tratta di carica emotiva, forza esecutiva, originalità dei brani e un modo di interpretarli che non

ra ed è con la musica che inizia, a soli tredici anni, ad esprimere questa sensibilità nei confronti di ciò che le sta attorno. Il padre musicista e la madre ballerina non possono che stimolare la sua curiosità e ispirarla nella sua composizione.

Nessun diario segreto, nessuna amica possono darle quello che le dà la sua musica. Nonostante la sua tenera età. Lascia Millbrook e frequenta arte musica e canto al College di Peterborough. Nel 1999 realizza il suo primo disco, Falling out, con la Mime Radio, casa discografica locale. Serena ha solo quindici anni. Ma è con Unlikely Emergency del

Il disco, fatto di passione, ironia, rabbia ed esaltazione dimostra come l’artista (dalla voce calda alla Aretha Franklin) sia stata confermata «astro nascente dela musica americana» può lasciare indifferenti. Insomma, quel qualcosa in più che dà la certezza di trovarsi davanti a una nuova stella musicale. Il suo punto di forza è senza dubbio la sua voce, che è soul, cuore, potenza e originalità messe insieme. Un timbro vibrante, unico, emozionante come raramente capita di ascoltare. Is it ok, registrato al Village Recording Studios di Santa Monica, California, dove è stato prodotto l’album preferito della Ryder, Rumors dei Fleetwood Mac, è valorizzato dalla produzione di John Alagia (Dave Matthews Band, Jason Mraz, Dave Matthews Band, John Mayer). Una band fantastica che come confida la Ryder, ha saputo valorizzare in pieno la sua musica e risvegliare in lei nuove emozioni, nuove sensazioni, durante le registrazioni stesse, avvenute in una sola settimana.

Cresciuta a Milbrook, in Ontario, un’infanzia vissuta in mezzo alla natura tra sterminate foreste e selvaggi campi naturali, Serena è affascinata fin da piccola dalla maestosità della natu-

2005 che si guadagna un posto in primo piano nelle radio locali e americane. Una raccolta di cover, If your memory serves you well del 2006, include le principali canzoni canadesi degli ultimi cento anni. Tra cui Sisters of Mercy di Leonard Cohen, Good Morning Starshine di Galt Mac Dermot, This Wheel’s on Fire di The Band. E la mitica It Doesn’t Matter Any More di Paul Anka. Told You in a Whispered Song è datato 2007. Un disco acustico che include track live e alcuni nuovi brani della Ryder. Is it ok è un esperienza mistica per Serena Ryder. Una presa di coscienza del suo essere imperfetta e fragile. Ma se rientrare in delle definizioni o mostrarsi sempre pronti ad ogni situazione o coerenti è un punto forte per molti, Serena confessa come per lei sia vero il contrario. La dualità, l’indecisione, il cambiamento continuo non possono che arricchire una persona e aprirle davanti nuove prospettive, nuovi orizzonti. Non si può negare che un disco a volte possa contenere gli spunti riflessivi della letteratura.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal ”Daily Star of Lebanon” del 18/01/10

Libano senza confessioni? di Elias Sakr l primo ministro libanese Saad Hariri, è arrivato domenica negli Emirati arabi uniti (Eau) per una visita ufficiale di due giorni. Nei colloqui il tema predominante è costituito dagli ultimi sviluppi sullo scenario ragionale ed internazionale, oltre ai rapporti bilaterali tra i due Paesi (appena uscito da una frote crisi finanziaria, ndr). Un dialogo diretto per tramite del governatore di Dubai, il principe Mohammad bin Rashed al-Maktoum (salvato dalla bancarotta dall’intervento di Abu Dhabi, ndr).

I

Il viaggio in Dubai verrà seguito dalla tappa francese e l’incontro con il presidente Nicolas Sarkozy e alti rappresentanti del governo di Parigi. Alla base dell’appuntamento francese ci sarebbe la ratifica di ben cinque accordi di cooperazione, secondo quanto riportato domenica dall’agenzia stampa Nna. Trattati di collaborazione che spazieranno dal settore economico a quello sociale e della sicurezza, compresa un’intesa tra i comparti giudiziari (libanese e francese) sul diritto penale. Saranno avviate delle intese anche nel campo della sicurezza civile col ministero del Lavoro di Parigi. Inoltre anche il ministero delle Finanze di Beirut chiuderà accordi di collaborazioni con altre istituzioni e associazioni di Parigi, così come si farà anche nel settore della ricerca scientifica. Un carnet di relazioni ad ampio spettro quelle messe in campo dalle due diplomazie. Il premier libanese è a capo di una delegazione che comprende anche i ministri della Difesa, degli Interni, degli Esteri, della Giustizia, delle Finanze, degli Affari sociali ed esperti governativi in molti campi. La partenza per la Francia avverrà dopo il rientro a Beirut con la prevista riunione di gabinetto (martedì) e il successivo

meeting con Hosni Mubarak al Cairo. Nell’agenda politica ci sono ancora delle questioni di politica interna, come le elezioni amministrative, dove non si è ancora giunti ad un accordo sulla legge elettorale e le ambiguità sui tempi per arrivare alle urne per il rinnovo di alcuni sindaci. Nabih Berri da tempo spinge per il superamento del cosiddetto «settarismo» (la ripartizione confessionale degli incarichi politici, ndr) che continua a sollevare critiche, mentre altri hanno ripreso il problema del disarmo di Hezbollah. Ali Bazi, parlamentare del movimento Amal (vicino a Hezbollah, ndr) ha parlato del clima di consenso che si è instaurato nel Paese e di come questa situazione possa favorire la collaborazioni fra le parti per rafforzare la convivenza a livello nazionale e riuscire a superare le tensioni «settariste».

«I cristiani sono una componente essenziale e vitale per il Libano per preservare la nazione e le sue ascendenze arabiste, così come la loro tradizione di sacrificio in favore dell’indipendenza e la sovranità del Paese» ha affermato Bazi. Le richieste di Berri sono state respinte non solo dai principali partiti cristiani, ma anche da alcuni alleati di Berri, come il leader del Free patriotic movement, Michel Aoun, mentre il capo dei falangisti, Sami Gemayel, ha chiesto uno Stato federalista che garantisca i cristiani nel caso di un superamento del modello settarista.

Gorges Adwan del movimento politico Forze libanesi non è invece convinto da quanto asserito sabato scorso dal presidente della Repubblica, Suleiman: che l’abolizione della ripartizione confessionale non porterà come conseguenza alla cancellazione della parità tra musulmani e cristiani. Dal ministero degli Interni sono arrivate ampie rassicurazione che le elezioni municipali si terranno il maggio prossimo. Si parla anche di abbassare a 18 anni il diritto di voto e di poter far votare i libanesi residenti all’estero, come proposto da Antoine Zahra.

Tutti segnali che stanno ad indicare come, dopo l’apparente stallo delle scorse politiche, dove il partito sciita non aveva ottenuto il successo pronosticato, anche un test elettorale come quello delle amministrative possa servire da controprova per il nuovo clima che si è instaurato nel Paese. Ricordiamo che la ripartizione confessionale è sancita dalla Costituzione e codificata rispetto a un censimento che ha fotografato una realtà demografica che non corrisponde più a quella attuale nel Libano.

L’IMMAGINE

A causa dell’amianto si moltiplicano i morti colpiti da neoplasie Se per due morti di mesotelioma, a causa dell’amianto, inizia il processo, è dell’altro giorno la notizia del loro rinvio a giudizio. Per centinaia, anzi per migliaia di queste vittime non c’è giustizia. È un dovere civico e morale bandire tutti i cancerogeni, risarcire le vittime e punire i colpevoli. La maggioranza governativa vorrebbe approvare il processo breve, un colpo di spugna dopo due anni, visti i tempi lunghi della giustizia a causa della mancanza di organici e di strutture. Ciò non può essere accettato. Su sollecitazione delle associazioni delle vittime dell’amianto e del loro difensore, l’avvocato Ezio Bonanni, verranno assunte, presto, le opportune iniziative politico-istituzionali.

Lettera firmata

STRADE CONDOMINIALI E CASSAZIONE La Corte di Cassazione torna ad occuparsi dei danni provocati a terzi dalle parti comuni. In questo caso si trattava del danno subito da una persona a causa della caduta da una moto, provocata dalle cattive condizioni di una strada condominiale. La pronuncia ribadisce che il condominio, quale responsabile dei beni comuni, risponde dei danni che provengano dagli stessi; afferma che si tratta di responsabilità oggettiva, lasciando poco spazio alla possibilità di evitare una condanna. Se si tiene presente che i costi di un risarcimento sono a carico dei condomini, è chiaro che la decisione della Cassazione pone l’accento sulla necessità di una manutenzione costante delle parti comuni. Che cosa dice più nello specifico la sentenza? Il principio richiamato «Chi pro-

ponga domanda di risarcimento dei danni da cose in custodia ha l’onere di dimostrare le anomale condizioni (nello specifico) della sede stradale e la loro oggettiva idoneità a provocare incidenti del genere di quello che si è verificato. È onere del custode convenuto in risarcimento dimostrare in ipotesi l’inidoneità in concreto della situazione a provocare l’incidente, o la colpa del danneggiato, o altri fatti idonei ad interrompere il nesso causale fra le condizioni del bene ed il danno». Che cosa può fare il condomino che si avvede del pericolo? È consigliabile avvisare subito l’amministratore, che dovrà agire immediatamente per rimuovere la situazione di pericolo. Nel caso d’inerzia di quest’ultimo, il condomino potrà provvedere a rimuovere la causa del pericolo chiedendo, poi, le spese al condominio.

Alessandro Gallucci

Bocca in fiamme Avete esagerato con il peperoncino e avete la lingua in fiamme? Tutta colpa della capsaicina, il composto chimico responsabile della sensazione di bruciore che si ha quando si mangia qualcosa condito con il peperoncino. Per indicarne il grado di piccantezza esiste addirittura un sistema di misurazione, la scala di Scoville (dal nome del suo ideatore)

CARCERI: RECUPERARE I DETENUTI FACENDOLI LAVORARE Non c’è dubbio che le indicazioni del ministro Alfano, relative alla situazione carceraria siano giustificate. Occorre quindi attivare una serie d’iniziative volte a superare lo stato di emergenza. Il dato che mi

pare più drammatico soprattutto dal punto di vista umano è quello relativo ai suicidi: 501 in circa 10 anni. Se si vuole intervenire, occorre da un lato assumere le iniziative proposte dal ministro, dall’altra creare le condizioni per poter recuperare i detenuti facendoli lavorare

anche per ditte esterne. Il detenuto potrà così svolgere o apprendere un’attività da un lato educativa (per quando tornerà in libertà) dall’altra remunerativa. Sono convinto che migliaia di carcerati potrebbero trarre benefici dal lavoro.

Raffaele Costa


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

L’incanto creato in tutta innocenza Caro amico, mi sono sbagliata, e stavo per farmi rispedire il biglietto indirizzato a lei per errore e la lettera a lei all’altro amico, e me ne ero appena resa conto, quando il volto di mia «sorella» mi ha fatto dimenticare questo mondo, e non ne dovrei neppure fare menzione, se non sapessi che il piglio familiare deve averla sorpresa. Ho un amico che mi ama, e pensa che io sia più grande di quanto sono, così per affievolire l’incanto, creato in tutta innocenza, ho spedito a lei quel breve componimento poetico. E poi la sua gentile risposta, che non meritavo, della quale le sono ancora più grata. Il viso della mia sorellina, così dolce e inatteso, mi ha riempito gli occhi dell’antica pioggia e ho nascosto il viso nel grembiule, l’unico mio rifugio. Ora lei sta dormendo e io mi sono chiesta perché mi era stato dato questo amore, per poi strapparmelo. Le volevo bene e il suo amore, un lusso che mi impediva amori più rozzi, e le altre donne mi paiono sgradevoli e molto chiassose. Ricorda quando mi disse che «vi avrei presto dimenticati entrambi?». Certo non aveva intenzione di ingannarci, ma ha commesso un errore. Se non le spiace, lo ricordo di più e non di meno, come lei aveva detto. Emily Dickinson a Edward S. Dwight

ACCADDE OGGI

RISCHIO DI EPIDEMIE Non sono le migliaia di cadaveri in strada a determinare il rischio di epidemie ad Haiti, bensì la distruzione della rete idrica e fognaria, con la conseguente contaminazione fecale di acqua ed alimenti. Le più probabili epidemie che potrebbero verificarsi sono quelle dovute a colera, febbre tifoide, epatite virale A. La prevenzione di tali epidemie si realizza rifornendo la popolazione di acqua potabile attraverso idonee cisterne fornite dal soccorso internazionale. È della massima importanza inoltre evitare la concentrazione di popolazione nelle tende e nelle altre strutture abitative fornite dal soccorso internazionale, per limitare il più possibile il contagio oro-fecale. Particolare attenzione da parte dei soccorritori dovrà essere dedicata ai bambini che sono i soggetti più a rischio di complicazioni mortali connesse alle malattie epidemiche gastroenteriche.

Walter Pasini Direttore di Travel Medicine

DISASTRI NATURALI. HAITI E L’ITALIA La catastrofe naturale che ha colpito Haiti, con morti, feriti e distruzioni, ci dovrebbe indurre a ricordare che anche l’Italia è il Paese dei terremoti, cui si aggiungono vulcani, alluvioni e frane. Il ricordo delle tragedie, purtroppo, viene rapidamente metabolizzato e dimenticato in attesa dei successivi eventi. Cosa fare per evitare il ripetersi delle catastrofi? La risposta è semplice: prevenire. Significa che

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

19 gennaio 1949 Cuba riconosce Israele

1955 Debutta il gioco da tavolo Scarabeo

1966 Indira Gandhi viene eletta primo ministro dell’India 1969 Muore lo studente Jan Palach, dopo essersi dato fuoco 3 giorni prima nella Piazza San Venceslao di Praga, per protesta contro l’invasione russa della Cecoslovacchia 1977 Il presidente Gerald Ford perdona Iva Toguri D’Aquino (alias Tokyo Rose) 1981 Funzionari statunitensi e iraniani firmano un accordo per il rilascio di 52 ostaggi statunitensi dopo 14 mesi di prigionia 1983 Il criminale di guerra nazista Klaus Barbie viene arrestato in Bolivia 1993 L’Ibm annuncia una perdita di 4,97 miliardi di dollari per l’anno 1992 1997 Yasser Arafat ritorna ad Hebron dopo più di 30 anni e si unisce ai festeggiamenti per la cessione dell’ultima città della Cisgiordania controllata da Israele

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

occorre fare delle scelte prioritarie e investire sul lungo periodo con risorse adeguate. È un problema che riguarda chi governa. Costruire il ponte sullo Stretto di Messina o avviare la messa a norma dei 500 ospedali che sorgono in aree a rischio sismico? Siamo in attesa che il governo Berlusconi decida di investire, tempo e denaro, in prevenzione.

Primo Mastrantoni

AVATAR Mi domando seriamente se la vostra giornalista Anselma Dell’Olio abbia una vaga idea del percorso creativo di Cameron e di cosa sia realmente Avatar, perché il suo pezzo sarebbe a dir poco irritante, se non fosse parimenti triste per l’infondatezza delle sue asserzioni. Peraltro è stato segnalato anche su vari blog tra cui il gruppo Facebook per le peggiori recensioni: http://www.facebook.com/group.php?g id=254800492489&ref=nf

Valerio Salvi

Risponde Anselma Dell’Olio. Gentile signor Salvi, mutuo una tipica risposta di Pietrangelo Buttafuoco a questo genere di carezza: «Baronessa, mi disse!». Sono onorata dalle attenzioni sue e di Facebook (chissà se è coinvolto anche il “fan club Anselma Dell’Olio” sulla stessa rete): non è tutti i giorni che si ricevono premure siffatte. La più grande disgrazia che possa accadere a un film o a un critico è di essere ignorati. L’ho scampata bella. Con gratitudine. Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

LA POLITICA DEL SILENZIO (I PARTE) Capitanata, terra di mille ricchezze e mille problemi eppure tutto tace, sembra. Terra da sempre emarginata nelle politiche regionali, così come la Daunia è emarginata nelle politiche provinciali. In questo periodo tutti si accapigliano per una candidatura alle prossime regionali, il Pdl sembra sia oramai orientato su D’Ambruoso, anche se molte sono le resistenze, mentre Vendola tira dritto e Boccia e il Pd auspicano una tenuta. Tutto scorre lentamente ma velocemente, tutto sembra andare per il verso giusto ma è realmente così? Vedremo. La politica si occupa di se stessa, ecco il vero limite dei nostri tempi, ecco la vera problematica. Si inventano stratagemmi, pur di personalizzarla in ogni stato e grado e il più a lungo possibile. Il limite dei partiti oggi è dunque questo, sono vittime di loro stessi e di una estrema personalizzazione della politica, prescindendo da programmi e progetti e tanto altro. Il Paese tutto, compreso la Puglia e la Capitanata necessitano di politiche innovative, da un reale investimento in nuove tecnologie, ad una vera formazione per i giovani ed un sistema universitario efficiente che non sia un diplomificio, ad una sanità che sia meritocratica; ci riusciremo mai? La nostra provincia è tornata in questo periodo alla ribalta per fatti di cronaca, a prescindere dalle responsabilità che vanno comunque accertate, è necessario capire che c’è una emergenza sociale in alcune regioni del Paese, tra cui anche la Puglia. La Puglia è diventata la prima regione per produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, e la Capitanata ha il più alto concentrato di insediamenti eolici, pur non essendo contrario alle energie alternative, va detto che è necessario rivedere tutto l’impianto privatistico e pubblicistico sotteso alle contrattazioni in essere, ripartendo con maggiore equità le risorse che dall’eolico si traggono, indennizzando maggiormente gli agricoltori che locano i suoli, e i comuni per l’impatto ambientale che ne ricevono, e i cittadini, costruendo politiche locali defiscalizzanti per i comuni che intraprendono lo sviluppo dell’energia pulita da fonti rinnovabili. In ogni altro caso non faremmo altro che svendere il nostro territorio a holding internazionali senza una valida ragion d’essere, e senza dimenticare di controllare chi e come si investe nella nostra provincia. È necessario tornare tra la gente e nelle piazze per ridare dignità e credibilità agli organi rappresentativi ed elettivi.È l’unica strada percorribile, per non incorrere in una democrazia anestetizzata e in una società malata e non auto-immune perché povera di elementi valoriali. I problemi quotidiani non sono un dettaglio anzi, ecco perché le forze politiche devono inopinatamente affrontarle con piglio deciso e sicuro. Luigi Ruberto C I R C O L I LI B E R A L MO N T I DA U N I

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Gran Bretagna. La sfida di David Cameron: «stop ai professori impreparati»

I have a dream: solo i cervelli migliori saliranno di Luisa Arezzo a sfida di David Cameron, leader dei Tory, ai laburisti continua. Dopo la proposta di una settimana fa di ridurre gli ingressi degli immigrati nel Regno Unito del 75%, oggi il 43enne leader dei Tory entra a pié pari in un altro territorio “blindato” dagli eredi di Blair, la scuola. E lo fa con una proposta di legge (appena presentata) destinata a scompaginare la fisionomia del corpo insegnante. Un programma, parole sue, «dichiaratamente élitario», che vuole regolarizzare l’accesso all’insegnamento e allontanare dalle scuole i professori meno dotati. Nel primo caso l’assioma di Cameron è semplicissimo: un eventuale governo Tory negherà ai laureati che non hanno ottenuto votazioni più che brillanti (facendo un paragone con le nostre lauree, bisognerebbe uscire dagli atenei almeno con 105) l’accesso ai corsi statali per la formazione all’insegnamento. Nel secondo caso, l’allontanamento, alcuni aspetti sono ancora da chiarire: i docenti assunti negli ultimi cinque anni che si fossero laureati con bassi voti, potrebbero essere esonerati dalla scuola qualora questa li ritenesse inadeguati. Ma resta oscuro se si tratti di un licenziamento vero e proprio o solo di un esonero temporaneo in attesa di una ricollocazione.

L

Il piano Cameron, comunque sia, è molto chiaro: le scuole inglesi hanno bisogno di un corpo docente adeguato alla sfida che li attende: preparare, e bene, gli studenti. E questo si può ottenere soltanto restituendo prestigio e dignità alla professione. Basta dunque con chi sceglie di insegnare perché privo di alternative. Da domani, se la A sinistra, David Cameron, il giovane (43 anni) leader dei Tory che ieri ha sfidato laburisti e sindacati su un tema storicamente di loro pertinenza: l’insegnamento

sua proposta passerà e se vincerà le prossime elezioni, correre per una cattedra nella scuola pubblica sarà una scelta sudata. Ma gli studenti che decideranno di intraprendere questa strada (e che dunque, voti alla mano, saranno i migliori) potranno (a seconda del reddito, naturalmente) vedersi pagati i corsi universitari dallo Stato.

«Non ci sono alternative - ha spiegato ieri Cameron - se vogliamo una scuola degna di questo nome, capace di preparare i nostri figli alle sfide di domani, dobbiamo mettergli a disposizione i migliori cervelli del nostro Paese per dargli una formazione di alto livello. E questa la può dare solo chi si è laureato con voti altissimi. Gli altri no». Nello

l’altezza, non è detto che in futuro resteranno sempre così poche. La verità, è che David Cameron ha avuto il coraggio di rompere un tabù, di cui tutti parlano ma che nessuno finora ha affrontato: la scuola pubblica britannica è in caduta verticale. Sia per la scarsa offerta formativa, sia per il crescente aumento del tasso di violenza che attanaglia gli istituti. Il limite di sopportazione è stato superato da un pezzo, tanto da portare i presidi a prendere decisioni quantomeno discutibili,

IN CATTEDRA come quella di allontanare dalla scuola un ragazzino di 5 anni per bullismo manifesto e vocazione (!!) alla criminalità. Non solo: una ricerca commissionata dall’Istituto nazionale di statistica ha messo recentemente in luce che gli studenti che si iscrivono alle università provengono quasi sempre dalle stesse scuole. Molte aree del Paese, soprattutto quelle ad alta densità di immigrazione, non riescono dunque a motivare gli studenti a prendere una laurea, con conseguente abbassamento della soglia di istruzione generale. Un pericolo che Cameron vuole evitare per scongiurare sacche di degrado in futuro difficili da gestire.

Potrà insegnare soltanto chi si laurea con il massimo dei voti, mentre i docenti meno bravi verranno esonerati dall’incarico. Ecco la riforma presentata ieri dal leader dei Tory per risollevare la scuola della Corona britannica stilare il suo manifesto per la scuola, Cameron si è direttamente ispirato a tre Paesi che hanno già sperimentato tale metodologia: la Finlandia, Singapore e la Corea del Sud. Tre storie di successo, che hanno visto il ritorno alla professione di insegnante delle migliori menti in circolazione. Ovviamente, se la riforma dovesse andare in porto, anche le università britanniche ne sarebbero interessate. Perché per l’abilitazione all’insegnamento sarà comunque necessario prendere almeno 2:2 (circa 28 secondo il metodo italiano) all’esame di matematica o di un’altra materia scientifica di comprovato rigore. E non tutti gli atenei sono pronti ad offrire un esame in queste dicipline.

Su questo punto si sono scatenati i laburisti, che vedono nel disegno di Cameron il tentativo di avallare un circuito stile Ivy League, il titolo che accomuna le più prestigiose ed élitarie università private degli Stati Uniti D’America. Immediata la risposta del leader dei Tory: «Per i nostri figli i Tories vogliono i migliori. Tutti gli atenei sono chiamati a quest’arduo compito. E tutti gli atenei si dovranno attrezzare». Come dire: è una questione di meritocrazia. E se al momento solo alcune università sono al-

Una volta Evelyn Waugh, il famoso scrittore inglese, disse che i conservatori britannici erano stati al potere per anni e anni, ma never set the clock back a single minute, non erano mai cambiati, non avevano mai osato, non erano mai stati reazionari, né rivoluzionari. David Cameron, dal congresso di Manchester dello scorso anno in poi, ha chiramente l’obiettivo di smentire il motto di Waugh e, soprattutto, di dimostrare che dietro a una macchina elettorale studiata in ogni suo dettaglio ci sono anche delle idee. Innovative, concrete e ricche del suo tanto citato «conservatorismo progressista e compassionevole», quel mix di destra e politically correct che sta prendendo piede - in forme diverse - nell’Europa continentale. E che presto potrebbe portarlo alla porta di Downing Street.


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