Gli uomini non vivrebbero a lungo in società se non si lasciassero ingannare gli uni dagli altri
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François De La Rochefoucauld di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 20 GENNAIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il riequilibrio delle ragioni e dei torti del leader Psi apre l’esigenza di una revisione più generale di quell’epoca
Riabilitato Craxi. E la Dc?
Dopo la lettera del Capo dello Stato parla il presidente del Senato: «Fu una vittima sacrificale». Ma certo non fu l’unica. Ora la verità storica pretende di ripensare l’intera stagione di Mani pulite di Errico Novi
I parenti delle vittime sul caso sollevato da “liberal”
ROMA. Le celebrazioni per i dieci an-
«Se c’è l’inciucio su Cesare Battisti, è tradimento di Stato»
ni dalla morte di Bettino Craxi mettono l’Italia di fronte a un bivio: o cogliere l’occasione per ripensare completamente quella stagione che è stata archiviata come quella di Tangentopoli, oppure limitarsi alla “riabilitazione”di Bettino Craxi, che ieri il presidente del Senato Renato Schifani, in una commemorazione ufficiale ha definito l’unica «vittima sacrficale di un intero sistema». a pagina 2
L’intervento di Casini in Aula
Il leader socialista con Andreotti e Forlani ai tempi, appunto, del Caf
Il conflitto che scoppiò a sinistra
La seria lezione Il grande errore del caso Mannino fu di Berlinguer
L’opinione di Stefano Folli
«Ora rileggiamo tutti gli anni ’80»
di Pier Ferdinando Casini
di Biagio de Giovanni
di Riccardo Paradisi
i permetto di chiedere la parola in quest’Aula per ricordare una vicenda che ritengo assai triste e che è venuta a compimento in queste ore. La vicenda umana, politica, giudiziaria riguarda un nostro collega, l’onorevole Calogero Mannino, già esponente di punta della Democrazia cristiana.
n questo anniversario si è riaperto il dibattito su Craxi, favorito forse da una congiuntura politica destinata a mettere in evidenza i molti elementi anticipatori che erano nella sua visione politica, che fu “sua”e che di certo fallì anche per sue responsabilità, e che andò anche in parte, allora, contro “il principio di realtà”.
tefano Folli ha un’idea molto precisa di quello che è successo negli ultimi quindici anni: «La Seconda repubblica è nata su un fondamento principale: la rimozione generale della Prima, come se la storia d’Italia fosse iniziata nel 1994». Ora occorre un cambio di passo culturale per ripensare tutti gli anni Ottanta.
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Sette pagine speciali
UN ANNO DI OBAMA
Parla Torregiani: «Se davvero Berlusconi si è accordato con Lula, siamo pronti a scendere in piazza»
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di Francesco Lo Dico
ROMA. L’ipotesi che il pluriomicida Cesare Battisti resti in Brasile (con il sotterrnaeo assenso del governo italiano) per “ragioni umanitarie” lascia di stucco Alberto Torregiani, il cui padre fu ucciso in un agguato di cui Battisti è stato riconosciuto essere il mandante: «Se il patto c’è, si tratta di un tradimento di Stato. Ne chiederò conto a Berlusconi». a pagina 10
Un sogno vissuto pericolosamente La luna di miele con l’America sembra finita. E quella con il mondo? IL FANTASMA DI BUSH
UN AMORE NON RICAMBIATO
L’ISOLAZIONISMO CAMUFFATO
L’amaro pendolo Forse l’Europa Vi spiego perché tra idealismo e realtà non ha capito niente è l’Avatar di Wilson di Oscar Giannino
di Stefano Silvestri
di John R. Bolton
ual è il bilancio della politica estera americana, dopo un anno di Barack Obama? Se giudichiamo i suoi tour esteri e le maggiori occasioni in cui la politica della nuova amministrazione si è dispiegata in atti e decisioni concrete, direi che la formula più adeguata è: un atterraggio molto ruvido. Dalle altezze dell’idealismo liberal alla ruvida complessità del mondo post Bush.
he gli europei non abbiano capito niente? Nel 2008 gli europei hanno tifato per Barack Obama, con una maggioranza schiacciante, che in alcuni paesi superava l’80 per cento. Ancora un anno dopo, malgrado l’inevitabile differenza che c’è tra la realtà e la speranza, oltre il 70% dei cittadini europei riteneva che Obama fosse stata la scelta migliore e che avrebbe migliorato le cose.
ov’è diretta la politica estera di Barack Obama? Dopo un anno di presidenza, la risposta deve essere accompagnata da un salutare bagno d’umiltà. Il formulare previsioni sulla politica estera statunitense appare un vero rompicapo con un doppio risvolto, in quanto gli analisti dovranno saper prevedere non solo le azioni degli Stati Uniti, ma anche dei provocatori provenienti da fuori.
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I QUADERNI)
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NUMERO
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IN REDAZIONE ALLE ORE
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Il caso. Un equivoco che, come suggerisce Barbera, deriva anche dalla sopravvalutazione delle conquiste politiche di Bettino
Se cadono tutti i tabù
Nell’esaltare Craxi ci si dimentica della Dc. «Si mistifica tutto», dice Bianco: «I socialisti nel governo di oggi hanno il loro peso» di Errico Novi
ROMA. Un passo significativo verso la ricostruzione della verità storica è stato fatto. Ma l’Italia è Paese che non si smentisce mai, e anche in queste celebrazioni per il decennale di Bettino Craxi corre il rischio di deformare un pezzo di memoria pur di sistemarne un altro. Tra rimpianti e risarcimenti infatti quasi nessuno si ricorda del trattamento ricevuto dalla Dc, grave quanto lo furono gli eccessi destinati al leader socialista. Sembra che la figura di Bettino sia l’unica da tutelare, in questa pur doverosa revisione dei giudizi sulla Prima Repubblica e il suo crepuscolo. Tra i pochi a percepire il disagio c’è Gerardo Bianco, che coglie «mistificazioni incredibili, «soprattutto rispetto al ruolo della Democrazia cristiana, accusata addirittura di aver lasciato Craxi da solo, di averlo abbandonato al suo destino».
Mistificazioni, dice l’ex segretario del Ppi, «dovute al fatto che nell’esaltare la figura del segretario socialista si perde la misura esattamente come avvenne quando fu attaccato». Si finisce così per prendersela con la Dc, d’altra accusata parte dalla vulgata giustizialista di aver impedito l’autorizzazione a procedere, «cosa che in realtà facemmo per il reato di ricettazione, ipotesi che sembrò assai azzardata». A suscitare amarezza sono però le contestazioni opposte, dice Bianco, quelle secondo cui «la Dc lasciò crocifiggere Craxi, o peggio le tesi di chi come Gennaro Acquaviva sostiene che l’errore di Bettino fu non rompere con la Democrazia cristiana». Si sa che il rischio della manipolazione è sempre a portata di
Il presidente del Senato celebra il decennale della morte del leader
La «vittima sacrificale» di Francesco Capozza
ROMA. Il clima era quello delle grandi occasioni, irrigidito ancor più da un’insolita sicurezza (che ha pressoché blindato tutta l’area di Piazza della Minerva, sede della biblioteca del Senato) data la partecipazione di Silvio Berlusconi all’evento. La battuta migliore per descrivere la commemorazione di Bettino Craxi, a dieci anni esatti dalla morte, è quella di un ex ministro della prima Repubblica, anch’egli presente ieri: «Quanta gente e quanti giornalisti… E dire che credevo fosse morto dieci anni fa». C’erano il presidente del Senato, Renato Schifani, il premier, Silvio Berlusconi, i sottosegretari alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta e Paolo Bonaiuti, i ministri Franco Frattini, Maurizio Sacconi, Ferruccio Fazio, Sandro Bondi, Raffaele Fitto e Renato Brunetta, i figli Bobo e Stefania, i direttori di Tg1 e Tg5 Augusto Minzolini e Clemente Mimun, il possibile candidato del Pdl per la Regione Campania, Stefano Caldoro. E ancora: Pier Ferdinando Casini, Anna Finocchiaro, Enzo Scotti, Ottaviano Del Turco (protagonista di un breve scambio di battute con Berlusconi: «Come stai? Ho sofferto molto per te» ha detto il premier all’ex presidente della Regione Abruzzo, coinvolto in un’inchiesta sulla Sanità), Assunta Almirante, Vittorio Sgarbi, Carlo Tognoli, Eugenia Roccella, Maurizio Gasparri, Fabrizio Cicchitto, Luigi Angeletti, Gaetano Quagliariello, Gianni De Michelis, Paolo Pillitteri.
«Bettino Craxi fu la vittima sacrificale offerta per risolvere una crisi morale e istituzionale che riguardò l’intero sistema politico». Quindi, «a ciascuno di noi il compito di riflettere su Craxi e su una stagione drammatica che non ha consentito di valutare con serena obiettivà comportamenti diffusi non solo nelle responsabilità personali». Poi l’intervento Renato Brunetta, oggi ministro dell’Innovazione ma allora consulente del ministro del Lavoro Gianni De Michelis, e il ricordo del famoso decreto denominato “di San Valentino”, del 14 febbraio del 1984, che corresse il rigido meccanismo della Scala Mobile aprendo la via all’affermazione di una politica dei redditi. Per la figlia Stefania, Craxi «riuscì a concludere la complessa negoziazione della revisione dei Patti Lateranensi con un accordo che aprì una nuova fase nei rapporti tra lo Stato e Chiesa e successivamente le altre confessioni religiose. Con la stessa energia egli affrontò l’altro nodo del sistema consociativo italiano: la questione dei rapporti tra Governo e Parlamento. Qui l’ambizione riformatrice si scontrò con le resistenze del sistema partitico e così molte delle riforme pur messe in cantiere da Craxi furono varate dal governo De Mita nella legislatura successiva».
In sala c’era anche Berlusconi che non ha voluto fare dichiarazioni «per evitare eventuali strumentalizzazioni»
«Per Craxi non ci furono sconti. Ha pagato più di ogni altro colpe che erano di un intero sistema politico». Con queste parole il Presidente del Senato, Renato Schifani, ha ricordato Bettino Craxi nel suo discorso. Schifani, che ha aperto il convegno in qualità di “ospite” ha aggiunto parole ancora più pesanti:
Per l’attuale sottosegretaria agli Esteri, «fu mio padre a porre la questione delle “grandi riforme” e dell’ aggiornamento della Costituzione. Questioni che ancora oggi dominano il nostro dibattito politico». Il presidente del Consiglio, presente al convegno organizzato proprio dalla figlia dell’ex leader socialista, ha preferito non pronunciare neanche una parola. Ciò nonostante, il moderatore del dibattito, Micheal Martone, dopo gli interventi del presidente del Senato e quello della figlia, ha chiesto al premier se intendesse dire qualcosa. Berlusconi, con un gesto del capo, ha fatto capire che non intendeva intervenire. Un silenzio che Stefania Craxi spiega così: «Il presidente ha voluto evitare le strumentalizzazioni che inevitabilmente sarebbero seguite». Stefania Craxi, infine, ha sottolineato l’importanza del messaggio inviato a sua madre dal presidente della Repubblica: «Restituisce a Craxi i suoi meriti e apre la via ad una pacificazione nazionale, che è un auspicio sia di Napolitano che nostro. I provocatori sono rimasti una minoranza. Mio padre fa parte della storia positiva della nostra Repubblica».
mano quando si giudica un passato così recente e controverso. Qui si profila però una rilettura davvero inaccettabile, una mistificazione appunto, come dice l’ex segretario del Partito popolare italiano: quasi si vorrebbe far passare la riabilitazione di Craxi insieme con l’accantonamento della Dc nel ripostiglio della storia, in uno spazio semibuio e polveroso in cui vengono accatastati gli oggetti che fanno da intralcio alla modernità. In questo senso non può essere irrilevante la preponderanza della cultura socialista all’interno dei due partiti maggiori: il Pdl e il governo hanno un leader filo-socialista, il Pd cerca di darsi una nuova collocazione e una riconoscibilità sempre in chiave socialista. È fatale che nel riabilitare la Prima Repubblica la parte democristiana risulti piuttosto penalizzata. È fatale ma non è detto che sia giusto: «Nel mondo berlusconiano prevale il filone socialista», fa notare ancora Gerardo Bianco, «perché i ministri più vivaci vengono da quel mondo e ora tentano di rigenerarsi. Ma lo fanno fino a negare il passato e al limite a demonizzare gli altri».
È solo questo? E in che modo si sorregge, anche nell’opinione pubblica, una simile interpretazione? Intanto per una questione di emotività: anche un democristiano come Clemente Mastella modula il suo giudizio sulla base degli eccessi compiuti con Mani pulite: «Al di là del fatto che si tratta del decennale suo, oggettivamente furono Craxi e i socialisti a riportare il danno maggiore, tranne alcuni grandi capi della Dc».Vuol dire che verrà anche il loro turno? «Diciamo che così come fu ingiusto allora il sacrificio di Bettino sarebbe sbagliato oggi metterlo in competizione con la Democrazia cristiana», secondo l’europarlamentare ed ex ministro della Giustizia. Che comunque considera doverosa «la riabilitazione di Craxi a dieci anni dalla morte così come lo sarebbe una riconsiderazione storica generale». Un ministro che proviene dalla tradizione democristiana come Gianfranco Rotondi non ne fa, a sua volta, un problema di bandiera: «Mai come dopo la sua morte Craxi è stato il capo del pentapartito», chiosa
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Bettino Craxi insieme con l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, al Quirinale per il giuramento del suo governo nel 1983. Nella pagina a fianco, dall’alto: Giorgio Napolitano, Silvio Berlusconi e Renato Schifani
«Ora usciamo dalla rimozione»
Stefano Folli: «La Seconda repubblica ha cancellato la Prima. Serve un cambio culturale» di Riccardo Paradisi
ROMA. In questa questa settimana dedicata al decennale della sua morte la figura di Bettino Craxi s’è stagliata sul dibattito politico italiano, concentrato sul piccolo cabotaggio delle alleanze per le regionali e sullo scontro intorno all’eterno tema della giustizia. Craxi ha continuato a dividere la memoria del Paese, ha riattizzato amori e odi, ha riproposto a un opinione pubblica di corta memoria un passato recente dimenticato o rimosso. Talmente dimenticato e rimosso che si dimentica il contesto in cui ha agito Craxi, il ruolo e l’importanza per esempio della Dc e dei suoi uomini, ma anche dei partiti laici che componevano il pentapartito e che hanno reso possibile la stagione del pentapartito e la ripresa degli anni Ottanta. Stefano Folli, editorialista del Sole 24 ore, fa con liberal un bilancio i questa settimana di celebrazioni craxiane affrontando anche i nodi di questa grande rimozione. Assieme alla figura di Craxi, che ha monopolizzato l’attenzione del dibattito pubblico, in questi giorni non è riemerso anche il quadro dentro cui il segretario del Psi si muoveva. Perché secondo secondo lei? Credo dipenda dal sipario dell’oblio che è calato su quel periodo storico. Dal fatto che la cesura tra la Prima repubblica e la seconda sia avvenuto attraverso quel trauma collettivo che è stata la stagione di Mani pulite. La tendenza e la tentazione di tutti, anche di noi osservatori, è quella di cominciare a pensare compiaciuto, «nel senso che tutto quanto è dedicato a lui in termini di riconoscimento è implicitamente rivolto, esattamente nella stessa misura, alla Dc». D’altra parte secondo Rotondi «i meriti storici della Democrazia cristiana sono stati riabilitati nella cultura politica stessa del Pd e del Pdl, rispetto al degasperismo e a tutta la lunga storia di quel partito». Insomma quello che il ministro all’Attuazione del programma vede è «l’omaggio
storicamente e politicamente dalla nascita della Seconda repubblica in poi. Un errore di valutazione e di rimozione anche perché la stagione dell’alleanza tra socialisti, partiti laici e Dc ha un’importanza cruciale nella storia di questo Paese. È una stagione da studiare con attenzione e se non lo si fa ancora è perché ci siamo ancora dentro e questo malgrado siano passati quasi vent’anni anni. Se ci si pensa fa impressione: quando Renzo De Felice cominciò a studiare il fascismo, negli anni Sessanta, erano passati meno anni dalla fine di quel periodo. Perché una stagione cruciale? È una stagione dove l’Italia ha raggiunto un grande benessere e dove si sono fatti anche dei grandi errori. Rimeditare oggi la figura di Craxi è importante ma non è sufficiente a comprendere quel decennio il cui tono non è stato dato da un uomo solo. Io credo si esageri nel definire Craxi una figura di levatura eccezionale, credo sia stato un personaggio politico di grande spessore, senza dubbio uno statista che ha esercitato una funzione molto importante nel Paese, dove ha lasciato una grande impronta. Soprattutto nell’evoluzione dei rapporti a sinistra. Ma appunto Craxi non s’è mosso da solo in quel periodo. In quel contesto c’era anche la Dc, figure come Andreotti per esem-
non solo al socialismo ma a tutto un sistema politico».
E se però un rischio di specifica rimozione esiste, rispetto alle aggressioni subite con Tangentopoli dai democristiani, questo pericolo è strettamente legato a un eccesso nel riconoscimento dei meriti politici di Craxi, al di là delle questioni giudiziarie, come ci aiuta a capire Augusto Barbera: «Sarebbe meglio discutere a prescindere da Mani pulite, perché ora tutto tende a
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pio. Travolte anch’esse dal ciclone giudiziario ma senza che su di loro si sia sollevata questo revisionismo che invece interessa Craxi Questo si spiega col fatto che Craxi è stato comunque un elemento molto dinamico nel panorama politico italiano. È stato un personaggio di rottura e di cerniera. Andreotti è una figura diversa, è stato un personaggio di lungo corso, una costante della storia politica del Paese. Allo stesso modo la storia della Dc è diversa da quella del Psi a guida craxiana. Non è mai storia segnata da un leader che impone se stesso – facendo forse in parte eccezione per Fanfani e Moro. Craxi ha lanciato la grande riforma, ha impostato temi innovativi, ha ammodernato il linguaggio politico. Ha scosso l’albero della sinistra. È un personaggio che ha segnato il suo tempo insomma, che ha lasciato l’Italia e che è morto all’estero. Una figura più simbolica rispetto ad altre della Dc. Detto questo è vero che il mettere in ombra il grande, fondamentale ruolo svolto dalla Dc è un errore, che rientra in quella mentalità di rimozione di cui parlavo. Quali sono i motivi di questa rimozione? Lo dicevo prima fa velo un giudizio superficiale figlio di una lotta politica che ancora non si è consumata Quegli eventi li viviamo ancora in modo attuale. La
De Felice cominciò a studiare il fascismo, quindici anni dopo la sua fine. Il craxismo per noi è ancora un tabù
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confondersi: soprattutto perché si parla molto del ruolo positivo avuto da Craxi rispetto a un’idea di modernizzazione del Paese ma si sottovaluta che il leader socialista, rispetto a quell’idea, finì per entrare in contraddizione. Non seppe raccogliere i frutti. Penso a quello che avvenne con l’elezione diretta dei sindaci, a quando Craxi chiese ad Andreotti di mettere la fiducia contro l’emendamento che prevedeva quell’importante riforma». Ma soprattutto,
realtà è che la vicenda di Tangentopoli non si è ancora consumata. È ancora presente nel nostro dibattito.Tanto che si tende ancora da parte di molti attori politici a segnare una rottura con quella stagione politica. Lo stesso Berlusconi marca questa differenza. Per questo nessuno ha veramente interesse ad andare a vedere che cosa siano stati gli anni Ottanta. Ci sono luoghi comuni in cui ci siamo tutti adagiati. È curioso ma è esattamente quello che succedeva negli anni Cinquanta rispetto al fascismo. Per metà c’era una lettura in chiave automaticamente polemica per metà in chiave di rimozione o di apologia. Mancava un giudizio equanime. Lei parla di segnali di rottura con quella stagione. Ma c’è anche chi rivendica una linea di continuità con il craxismo. Questa è una delle più grandi ambivalenze della stagione berlusconiana. Quando Berlusconi è sceso in politica lo ha fatto segnando la discontinuità con la prima repubblica, le sue tv davano un giudizio entusiasta di Mani pulite e di Tangentpoli, lui stesso offrì a Di Pietro un posto nel governo. L’altra faccia del berlusconismo è l’aver offerto una sponda d’approdo al mondo che proveniva dai partiti laici e moderati della Prima repubblica. Ancor oggi si può dire che Berlusconi mantiene questa ambivalenza. Il successo di questa operazione non dipende solo dalle sue capacità mediatiche ma anche dalla perdita di memoria storica del Paese.
dice il politologo, «non si considera che più ancora di Tangentopoli, a Craxi fu fatale il voto del 9 giugno del ’91, quello sul referendum elettorale che Bettino aveva osteggiato. Anche il segretario del Psi si oppose insomma a un rinnovamento delle istituzioni che invece riscuoteva molti consensi nell’opinione pubblica, nonostante fosse stato proprio lui a presentarsi come un riformatore». Alla fine lo slancio positivo, dunque, venne tradito dai risultati: «Ma
nel giudizio sulla vicenda politica craxiana, il primo tende a prevalere sui secondi. E quindi si afferma un’immagine un po’ sopravvalutata dei meriti del leader socialista rispetto alle riforme, mentre la Dc resta consegnata a un ruolo di arcigno difensore dello status quo» È forse anche dall’approfondimento di quest’aspetto ricordato da Augusto Barbera che potrebbe partire una riabilitazione più equilibrata della Prima Repubblica.
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pagina 4 • 20 gennaio 2010
Il saggio. Il periodo più importante dell’esperienza del leader socialista è quello iniziale, in cui immaginò un Paese diverso
L’errore di Berlinguer
Craxi capì per primo che il «compromesso storico» avrebbe bloccato l’Italia. Puntò a un nuovo sistema, ma il Pci non volle seguirlo di Biagio De Giovanni Il saggio di Biagio De Giovanni è pubblicato sul numero di gennaio di Mondoperaio, la rivista fondata da Pietro Nenni e diretta da Luigi Covatta, che dedica un ampio dossier alla figura di Bettino Craxi. Il numero sarà disponibile dalla prossima settimana in abbonamento postale, in libreria e sul sito web della rivista www.mondoperaio.it. n questo anniversario -nonostante l’asse Borrelli-Di Pietro, dio ne scampi, ricostituitosi sulla toponomastica di Milano - si è riaperto il dibattito su Craxi, favorito forse da una congiuntura politica destinata a mettere in evidenza i molti elementi anticipatori che erano nella sua visione politica, che fu “sua” e che di certo fallì anche per sue responsabilità, e che andò anche in parte, allora, contro “il principio di realtà”, intrisa come fu fin dall’inizio di giacobinismo. Certo, bisognerebbe ripercorrere con calma date e situazioni, periodizzazioni stringenti e motivate. Insomma, sarebbe necessario, credo, un vero e proprio studio non solo su di lui, ma su quel “nuovo” Psi - il Psi di Martelli, e di tanti altri - che nel 1976 sembrò aprire una nuova stagione politica dell’Italia e poi finì nel nulla, dopo quindici anni circa di più o meno convulse vicende.
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Bisognerebbe far questo in un momento in cui si dibatte sul se la seconda Repubblica sia ancora viva o piuttosto moribonda (e su questo ho già espresso la mia opinione: propendo per il “viva”), giacché personalmente non ho dubbi che l’asse strategico intorno al quale nacque il craxismo fu proprio la messa in discussione di un tratto decisivo della storia repubblicana, della sua “ideologia”, dei suoi tabù, delle sue idiosincrasie, del suo senso comune, e insomma di quello che si può chiamare il suo sistema egemonico, che comprendeva troppe cose contro le quali si rischiava di cozzare e contro le quali ci si andò effettivamente a urtare. La strategia di Craxi
L’Odissea del politico siciliano nell’intervento di Pier Ferdinando Casini, ieri, alla Camera
La seria lezione del caso Mannino
nacque anzitutto per affossare il compromesso storico, che di quella storia intendeva essere “conclusione”: è lì che va ricercato il punto d’origine, Craxi è insomma l’antiMoro e l’antiBerlinguer, e va ancor di più apprezzato il suo comportamento in occasione della tragedia che colpì il grande dirigente della Dc.
di Pier Ferdinando Casini i permetto di chiedere la parola in quest’Aula per ricordare una vicenda che ritengo assai triste e che è venuta a compimento in queste ore. La vicenda umana, politica, giudiziaria riguarda un nostro collega, l’onorevole Calogero Mannino, già segretario regionale della Democrazia cristiana, parlamentare per sette legislature, sottosegretario al Tesoro con Nino Andreatta, Ministro della marina mercantile nel I e II Governo Spadolini, Ministro dell’agricoltura, poi dei trasporti e del Mezzogiorno, esponente significativo del rinnovamento siciliano della Democrazia cristiana.
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Il 24 febbraio 1994, l’onorevole Mannino ricevette la notifica di un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Un anno dopo, il 13 febbraio 1995, fu arrestato con la motivazione del pericolo di depistaggi delle indagini, rimase nove mesi nel carcere di Rebibbia. Dal 15 novembre, per tredici mesi, dunque più di un anno, fu agli arresti domiciliari. Alcuni di noi lo visitarono - ricordo l’onorevole Buttiglione e l’onorevole D’Onofrio - il 31 agosto 1995, e subito dopo rivolgemmo un rispettoso appello al giudice Caselli perché - cito testualmente – «voglia farsi garante del rispetto delle regole basilari dello stato di diritto, avendo noi trovato, un gruppo di parlamentari, l’onorevole Mannino in uno stato di prostrazione psicofisica inaudita, tale da far presumere una totale impossibilità di esercitare il suo diritto alla verità processuale». Il dibattimento è stato tra i più lunghi mai celebrati per mafia a Palermo: più di trecento udienze, quattrocento testimoni citati dei quali duecentocinquanta dall’accusa e centocinquanta dalla difesa, compreso l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga; venticinque pentiti, oltre 50 mila pagine di documenti e atti processuali. Il 3 gennaio 1997 l’onorevole Mannino fu rimesso in libertà per scadenza dei termini di custodia cautelare. È stato assolto in tutti i gradi di giudizio, il suo calvario giudiziario è durato
sedici anni, durata complessiva della vicenda giudiziaria, e per ventitré mesi è stato privato della sua libertà personale.
Questi sono i fatti, e anche nella vita politica che spesso si alimenta di tante e troppe parole, in questo caso i fatti sono pietre e contano più di ogni nostra considerazione. A commento della sentenza, Lillo Mannino ha detto: «Mi hanno rubato la vita». Nessun atto riparatorio, nessun risarcimento, nessuna scusa potrà restituire al nostro collega quel pezzo di vita, ma noi vogliamo cogliere l’occasione di questa seduta non solo per rinnovargli i sensi del nostro affetto e della nostra amicizia, ma, di più, per rilevare che dobbiamo operare insieme, maggioranza e opposizione, perché dei “casi Mannino” non esistano mai più. Il sistema giudiziario ha meriti straordinari nella lotta alla mafia e alla criminalità, ma non può consentire simili aberrazioni e il circuito mediatico-giudiziario non può decretare la morte civile delle persone sulla base di una cultura del sospetto che anticipa sentenze e giudizi. Purtroppo, da questo circuito perverso non siamo ancora riusciti ad uscire e non ne usciremo né inseguendo le versioni aggiornate del giustizialismo, né illudendoci che sia possibile una difesa corporativa di singoli o di gruppo. La cultura delle garanzie, quella vera, e non a corrente alternata, non deve dividerci perché è un valore intimamente connesso con la nostra Carta costituzionale. Il nostro impegno di legislatori e di uomini politici deve prendere spunto da fatti come questi per riformare il sistema giudiziario nell’interesse dei cittadini. Accelerare i processi - lo dimostra il caso Mannino - è una priorità, ma attenti a rimedi che a volte sono peggiori del male. Il nostro partito, l’Unione di Centro, per aver ricandidato dopo anni di lontananza dal Parlamento l’onorevole Mannino, ha subito l’onta di critiche infamanti. Oggi sono orgoglioso di dire che questa sentenza, aspettata dall’imputato con fiducia nel sistema giudiziario e la serenità che ogni galantuomo deve avere, ci ripaga di tante amarezze e restituisce ad una persona perbene l’onore politico che gli era stato tolto. Ogni uomo, nel suo lungo percorso, commette errori e ha meriti. Noi non vogliamo mitizzare la realtà, nemmeno per Mannino, ma solo riconsegnare al Parlamento la memoria della verità, di come è stata riconosciuta oggi dai tribunali della Repubblica e di come noi, democratici cristiani, l’abbiamo sempre conosciuta.
Le date, come si usa dire, sono decisive. E che il Midas arrivi nel 1976, qualche anno solo dopo l’opa del compromesso storico, la dice lunga sulla sua origine. Senza i celebri articoli di Enrico Berlinguer su Rinascita che annunciavano la svolta, o meglio che dichiaravano esplicitamente di volere ciò che già in parte era nelle cose, Craxi non avrebbe avuto la forza di emergere come la vera novità italiana. Questo costituisce, secondo me, un punto di partenza fermo, intorno al quale avviare ragionamenti che possono avere esiti e traiettorie diverse. E questo spiega perché l’attacco fu anche alla cultura del Pci, e mi riferisco naturalmente all’azione del Mondoperaio di Federico Coen, senza il cui lavoro molte cose sarebbero rimaste implicite, pura politica, e con lui divennero invece embrione di nuova cultura politica. Si trattava di smuovere un monolite dalla sua tana. Di mettere in discussione, a sinistra, certezze che non erano mai state messe in discussione e che nessuno chiedeva che lo fossero. L’appuntamento del compromesso storico fu proposto dal Pci come elemento di una continuità che veniva da lontano, i cui embrioni erano addirittura nella costituzione originaria del Pci - al di là di affermazioni del tipo «fine della spinta propulsiva dell’Urss» che apparvero più importanti di quanto non fossero in realtà, trattandosi di cosa come tale già acquisita - e ne rivendicavano un continuismo politico-culturale che serviva a confermare la costituzione storico-materiale del paese e un vecchio, ambiguo, ma anche complesso ragionamento sulla questione cattolica. Il compromesso storico voleva insomma sanzionare che il consociativismo di fatto, più o meno strisciante, diventasse governo comune del paese, e
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dovesse trovare quindi motivazioni più solide e di lungo periodo. Non era tanto preparatorio di una alternanza di governo, come pure venne da qualcuno interpretato, ma come consolidamento definitivo di equilibri di una storia allora quasi quarantennale.
Craxi nacque in opposizione a questo disegno, e per far ciò dovette reinterpretare l’autonomismo socialista in una chiave inedita. Dovette battere il conservatorismo di Francesco De Martino senza potersi semplicemente riagganciare a motivazioni da primo centro-sinistra. Si trovò in una situazione scoperta e assai difficile, anche perchè il compromesso storico veniva mostrato come esito necessario della storia della prima Repubblica, ed aveva in sé una sua immanente forza e quasi necessità, stante gli equilibri politici italiani e stante la pericolosa china inaugurata da Piazza Fontana, 1969, e poi esplosa in forme variopinte negli anni Settanta. Incrinare la sua logica interna era lavoro difficilissimo, con sicure venature “giacobine”. Bisognava disegnarne il potenziale carattere di “regime” per risvegliare qualche pezzo di coscienze liberalsocialiste e post-azioniste, e su questa base lavorare a un nuovo Psi e a una nuova sinistra. Il Psi era l’unico cuneo che si poteva inserire in quel disegno per buttarlo giù. E questo implicava l’apertura di un doppio fronte,
verso il Pci facendo intravvedere una alternativa di sinistra, e verso la Dc riproponendo in forma nuova la capacità di governo del Psi. Anche questo, un equilibrio difficile e non privo certo di ambiguità.
Per chi ama le fasi aurorali dei movimenti (anche di idee) è quello indicato l’aspetto del craxismo che più affascina, anche perché è quello veramente anticipatore di una crisi di sistema che si verificò molto dopo, in tutt’altra forma e coinvolgendo lo stesso Psi. Craxi aveva capito in anticipo alcune cose: che il consolidamento dell’asse Dc-Pci costituiva un destino di conservazione per l’Italia, e che questo consolidamento coincideva con un rafforzamento sine die della storia della prima Repubblica, ovvero di un sistema egemonico in via di esaurimento; che era venuto il momento di una riforma della Costituzione (la “grande riforma”) per mettere in discussione i tratti conservativi di un sistema idealmente e politicamente assembleare; che si dovevano mettere in discussione i blocchi sindacalizzati; che le matrici culturali del Psi andavano profondamente rivisitate liberandosi dallo straordinario impoverimento che esse stavano attraversando a favore del suo compagno maggiore; che queste ma-
trici da riconquistare riportavano verso altri pensieri, e anche verso tradizioni che soprattutto la critica del Pci aveva violentemente rimosso, a cominciare da quella liberalsocialista; che, insomma, quel nano politico che era allora il Psi, ancora abbacinato da una vecchia interpretazione dell’unità d’azione, doveva riconquistare la capacità di pensare.
Si può aggiungere, e non sempre è stato detto, data anche la profonda diversità delle situazioni, che più di ogni altro Craxi ha anticipato il socialismo immaginato da Tony Blair, il che costituisce osservazione
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è eccessivo, tende a prevalere l’effettività dei rapporti di forza, dentro i quali la strategia innovativa si continua a scorgere solo per vie indirette e in qualche caso emblematiche: la scala mobile, ad esempio, possibile anche perché la Cisl di Carniti fu d’accordo. Che la stagione “ideale” craxiana tenda ad esaurirsi nei primi anni Ottanta, è segno di questo. L’idea generale rimane, ma per ora viene accantonata, e accantonare una grande idea significa in varia misura rinunciarvi.
Puro velleitarismo, allora, quello del primo Craxi? Non credo; se così fosse, dovrei ri-
Si può anche sostenere, e non sempre è stato fatto per via della diversità delle situazioni, che Craxi ha anticipato anche Tony Blair
di non poco interesse storicopolitico per una precisa ragione: Blair aveva alle spalle la rivoluzione degli anni ottanta, e potè fondarsi almeno in parte su di essa e sul lavoro “sporco” fatto dalla Thatcher. Craxi no, ed egli dovette leggere fra le righe della storia del mondo per vedere in anticipo ciò che solo gli anni successivi squaderneranno davanti a tutti. Ma non mi posso infilare in un discorso troppo complesso e dalle troppe facce, e voglio piuttosto interrogarmi assai brevemente sulle ragioni del fallimento del disegno che ho cercato di rappresentare, e sulle ragioni del disastro finale. C’è stato probabilmente uno squilibrio iniziale fra questo complesso di idee e i rapporti di forza effettivi in campo, quello che chiamavo strisciante giacobinismo. In politica, quando questo squilibrio
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mangiarmi tutto ciò che ho detto, e peraltro non ogni strategia che fallisce è semplicemente velleitaria. Le idee erano molto forti e coglievano aspetti profondi della situazione italiana, esprimevano una diagnosi che allora nessuno faceva, ma che poi si sarebbe dimostrata, in tutt’altra situazione, fondata e anticipatrice. Furono peraltro quelle idee l’asse intorno a cui si formò il nuovo gruppo dirigente del Psi che senza di esse non sarebbe esistito. Il primo vero ostacolo si chiamò Enrico Berlinguer, il politico che riuscì a mettere insieme compromesso storico e diversità comunista, due realtà reciprocamente escludentisi, e rinunciò a entrare in quella terza realtà aperta da Craxi, alla quale il Pci avrebbe potuto dare un contributo decisivo per una alternativa. Era possibile immaginare
un diverso atteggiamento del Pci? Tutto in politica può avvenire, anche se per le ragioni indicate all’inizio non era certo cosa facile. Quel partito in realtà si era infilato in un vicolo cieco distruttivo, e prender sul serio Craxi (e non dico affatto accoglierlo “in toto”) avrebbe potuto costituire qualcosa che avrebbe potuto cambiare la storia della sinistra italiana e dunque di tutto il sistema politico. Così non fu, e venne meno una dialettica decisiva. Craxi anzi diventò il principale nemico da battere a sinistra, come il nemico mortale da distruggere. E Craxi rispose a sua volta per le rime, con altri eccessi, senza accorgersi, forse, che senza quella sponda il suo progetto era destinato a fallire, o comunque a mutare completamente natura.
Craxi entrò così in un sistema di cui alla fine rimase vittima, anche perché, una volta entratovi, contribuì a ridefinirlo a immagine di quelli che gli sembrarono interessi di potere del suo partito. Quando l’asse ideale e strategico viene meno, tutto diviene possibile, soprattutto per chi su quell’asse strategico, contrariamente a ciò che normalmente si pensa, ha giocato parte essenziale della sua identità. Ma qui incomincerebbe un altro discorso sulle modalità di fine del sistema italiano nei primi anni novanta, un capitolo che rinuncio evidentemente ad aprire. Non senza però un piccolo appello al fatto che, di là dal merito delle scelte politiche, Craxi va oggi pensato come parte essenziale della storia italiana, con la buona pace di chi ha costruito le sue fortune sulla sua distruzione umana e politica.
diario
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Il personaggio. L’ex pasionaria si appresta a diventare sottosegretario dopo aver abbandonato l’estremismo della Destra
La terza vita della Santanchè Da Fini a Berlusconi a Feltri: ritratto di una donna di governo
a maggioranza s’allarga ad un nuovo movimento e, com’è giusto, gli riserva un posto, diciamo uno strapuntino, al governo. Trattasi del PdF, il Partito di Feltri, che nell’esecutivo sarà rappresentato da Daniela Santanché, prossimo sottosegretario al Welfare. L’ultimo ostacolo, il veto di Gianfranco Fini, pare essere caduto nel pranzo col Cavaliere: se proprio devi, fai pure, avrebbe detto il presidente della Camera, ma qualunque cosa dirà «ricadrà sotto la tua responsabilità». Annuiva proprio lì accanto il triumviro del Pdl Ignazio La Russa, già creatore politico della Santanché, poi qualificato «palle di velluto» dalla stessa - insieme agli altri colonnelli di An per via di una certa tendenza all’appecoronamento (parole di lei) nei confronti proprio di Fini. Come che sia, via libera all’ingresso della signora cuneese al governo e pace fatta pure tra Feltri e l’ex leader di An: «Abbiamo l’impressione che nel Pdl le acque si siano calmate e che non dovrebbero tornare presto ad agitarsi», scriveva il nostro l’8 gennaio per via del «gesto di distensione» annunciato verso Santanchè. D’altronde i due sono una coppia affiatata già da un po’: la Visibilia, concessionaria di pubblicità della signora, non è solo la società che si occupa della raccolta per Libero, il quotidiano fondato proprio da Feltri, ma oggi s’è accaparrata pure l’assai più succulenta torta del Giornale, strappata nientemeno che alla Mondadori. Il cambio, si dice, è propedeutico al passaggio di proprietà della testata: dalla famiglia di Arcore all’attuale direttore (in cordata, ovviamente, con altri, tra cui pare Flavio Briatore). Nella trattativa col Cavaliere, raccontano, è proprio Santanchè a svolgere un ruolo di mediazione: l’affare infatti è fortemente voluto da entrambi, ma rallentato dalla querelle sul prezzo e, soprattutto, su quanta parte dei debiti del quotidiano debba accollarsi il Cavaliere (pardon, suo fratello).
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Ora, visto che tra poco bisognerà aggiornare l’archivio, s’è pensato come servizio al lettore di fare un sunto sulle gesta passate del nuovo membro del governo. Eccolo: Daniela Santanché, classe ’61 da Cuneo, nonni contadi-
di Marco Palombi niela Santanchè, donna-immagine del duo, protagonista mondana della Milano anni Ottanta e straordinaria organizzatrice dell’attività imprenditorial-sanitaria del marito. «Il cognome che ho sposato, sono io che l’ho reso pubblico, prima equivaleva a un Rossi qualunque». Motivo per cui, quando divorzia (1995), il cognome è l’unica cosa che si tiene.
A quel punto è una“pr”di discreto successo, ha trovato un nuovo amore (che le darà un figlio, Lorenzo) e ha appena conosciuto Ignazio La Russa, che le ha fatto scattare il ghiribizzo della politica. Entra in An e, all’ombra di ’Gnazio, la sua carriera è in discesa: consulente per la Giunta di Milano, consigliere provinciale, deputata, capo del dipartimento femminile del partito. Sono anni in cui è molto compita: Fini è «il grande presidente di An», timoniere di una «destra moderna ed europea, popolare ma non populista». Nel 2005 diventa addirittura ni, genitori imprenditori nel settore trasporti, è stata una bambina «ribelle, una rompiballe», insofferente tanto a una famiglia conservatrice quanto alla provincia conformista. I suoi, per parte loro, rinunciarono all’idea iniziale di mandarla in collegio, ma non a un’educazione rigidissima, peraltro senza esiti: «Mi potevano anche ammazzare di botte - ha raccontato al “Foglio” - ma io niente» e quando la chiudevano in uno sgabuzzino al buio, «io ci morivo, ma non facevo una piega». Le resta, di quel percorso educativo, la paura di restare chiusa in ascensore. Daniela, comunque, supera tutto e se ne va all’università a Torino, ovviamente contro il parere della famiglia: «Ma allora sei una brigatista?», sbottò il padre alla notizia che avrebbe studiato Scienze politiche. Intorno ai vent’anni, quando decide di eliminare una fastidiosa gobbetta dal naso, conosce l’uomo che diventerà il suo ex marito: Paolo Santanchè, chirurgo plastico di nobili ascendenze, quindici anni più grande di lei. I due si sposano subito e la signorina nata Garnero diventa Da-
Sopra, Daniela Santanché e, sotto, il suo sodale Vittorio Feltri, direttore del “Giornale”
estremizza la sua tendenza alla piazzata: «Saremo un partito incazzato – grida all’Assemblea costituente – con la bava alla bocca». Poi, si sa, Berlusconi scelse Fini e abbandonò La Destra al suo destino. Santanchè si candidò a premier e cominciò a maltrattare anche il Cavaliere: «Ormai è caduto nel teatrino della politica», «è ossessionato da me, ma tanto non gliela dò»; «non ha rispetto per le donne, lo dimostra la sua vita»; «è uno che vede le donne solo in posizione orizzontale»; «le sue offese quotidiane mi inorgogliscono perché vengono da chi, seduto sui suoi miliardi, non conosce né vergogna, né le esigenze e i bisogni degli italiani»; «solo quello che ruba si nasconde ed è forse per quello che le sue principali abitazioni sono all’estero».
Passato qualche mese, però, Santanchè cambia di nuovo opinione: lascia Storace, fonda il Movimento per l’Italia e guarda al Pdl. Beninteso, Fini resta sempre «il più grande dei traditori», ma Ber-
Sembra sia stata incaricata di mediare con il Cavaliere per perfezionare la vendita del “Giornale” al burrascoso direttore la prima donna relatrice di una Finanziaria: agli atti resta la sua battaglia sulla porno tax, approvata ma mai applicata. Da qui inizia il declino: i rapporti col «grande presidente» si fanno testi finché, nel 2007 - quando è già divenuta una pasionaria antiislam - quello le toglie gli incarichi dentro An. Non sia mai. Nel mirino non finisce solo Fini - un autarca, un dittatore – ma pure i suoi sottopanza: «I colonnelli di An hanno le palle di velluto» (in estate aggiornò: «Le hanno di lino»). Quando Francesco Storace crea La Destra con la benedizione del Cavaliere - Santanchè lo segue ed
lusconi «è un perseguitato». Quando scoppia il Casoriagate la nostra si fa notare come portavoce del PdF: «Veronica ha un amante. È il suo bodyguard», dichiara a Libero (a fine estate avrà modo di cazziare anche l’irriconoscente Barbara Berlusconi). In autunno, in attesa di arrivare al governo, si rende protagonista di una lite (lei sostiene aggressione con tanto di botte) con alcuni musulmani che festeggiavano la fine del Ramadan e di una equilibrata comparsata tv in cui scandisce: «Maometto era un pedofilo». Senza dimenticare Fini: «Sta venendo meno al suo dovere di lealtà nei confronti di Berlusconi – ha detto un mese fa –. Ora per essere coerente vada con Di Pietro». Da adesso, comunque, tutti di nuovo insieme: una donna al governo, ha scritto Alessandra Mussolini sul Secolo, dovrebbe per noi essere «fonte fonte di felicità e soddisfazione. Ma allora perché ci sentiamo così infelici, insoddisfatte?». Già, perché?
diario
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Il ministro a Bruxelles annuncia: «Rivedremo le stime»
La Corte di Strasburgo rigetta il ricorso dell’ex deputato
Tremonti fa l’ottimista: il Pil italiano è all’1%
Caso Imi-Sir, neanche l’Europa salva Cesare Previti
BRUXELLES. La fase peggiore
STRASBURGO. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato nel 2006 da Cesare Previti in seguito alle vicende giudiziarie relative al processo Imi-Sir. Nel ricorso, Previti sosteneva che era stato violato il suo diritto a un equo processo e il suo diritto a non essere punito in assenza di legge. Secondo il ricorrente era stato inoltre violato il suo diritto al rispetto della vita privata. La non equità del processo ImiSir, secondo Previti, era da ricercare nella sua inabilità ad accedere a determinati documenti, nel fatto che non aveva potuto presenziare ad alcune delle udienze perché altrimenti impegnato in attività parla-
della crisi economica sembra passata (a dispetto dei dati sulla disoccupazione che continuano a salire) e quindi il governo si sente autorizzato a liberare tutto l’ottimismo che ha dovuto frenare nel corso dell’ultimo anno. Ecco, allora, che l’esecutivo annuncia che aggiornerà le stime della crescita 2010 indicando una cifra «intorno all’1%». Lo ha detto lo stesso ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, alla conferenza stampa a conclusione dell’Ecofin. La stima attuale, contenuta nella relazione previsionale e programmatica si attesta allo 0,7%. «Ma potremmo anche mettere un altro numero. Purtroppo - ha detto - siamo costretti a dover prevedere come sarà la situazione al 31 dicembre 2010. C’è chi ci crede, e c’è chi è obbligato a farlo. E noi siamo obbligati... Io non sono un fanatico dei decimali». Insomma il superministro continua a sbeffeggiare gli economisti (responsabili delle previsioni) che in molte occasioni ha paragonato ai maghi.
Passando poi agli altri temi affrontati nel corso dell’Ecofin, Tremonti ha annunciato che l’Italia potrebbe ricominciare a porre il veto in sede europea sulle questioni fiscali, su cui è
E il Pdl si divide sull’alleanza con l’Udc I berlusconiani contro Casini, finiani e moderati per l’intesa di Riccardo Paradisi l Pdl arriva diviso sulla linea da tenere in merito alle alleanze con l’Udc le prossime regionali all’ufficio di presidenza di oggi. Dove si dovrebbero ultimare le scelte per le candidature alla regionali. Mentre da una parte i berlusconiani ex forzisti spingono sulla rottura con il Centro, gli ex An del Popolo della libertà, finiani ortodossi ma anche figure più moderate come Maurizio Gasparri, tentano di mantenere aperta l’interlocuzione con Casini. «In comune e in regione non abbiamo avuto frizioni con l’Udc. I centristi, in diverse circostanze, si sono dimostrati più fedeli della stessa Lega» dice per esempio Riccardo De Corato, vicesindaco di Milano e senatore del Pdl, lanciando un appello ai centristi affinché confermino l’alleanza con il centrodestra in vista delle Regionali di fine marzo. «Se non intervengono fattori nazionali a complicare il quadro credo che in Lombardia non ci siano problemi - continua De Corato -. In comune e in regione non abbiamo avuto frizioni con l’Udc. Se è invece la Lega a porre dei problemi, dobbiamo tenerne comunque conto visto che elettoralmente è molto più forte dell’Udc. Il nostro vero competitor non è Penati ma il Carroccio». È la stessa tesi esposta dal sottosegretario agli esteri Andrea Ronchi: «Le intese già siglate non vanno rimesse in discussione e la Lega Nord la smetta di lanciare diktat. Non avrebbe senso dire no a un’elleanza con Casini. Soprattutto nel Lazio, dove l’intesa con l’Udc è già stata sottoscritta». Ma appunto anche Maurizio Gasparri, pur stigmatizzando la cosiddetta politica dei due forni sposa la linea dell’alleanza con il centro «sulle intese locali non drammatizzerei.Via libera ad accordi sui nostri candidati ove ci siano le condizioni». E nel Lazio le condizioni sono per il presidente dei senatori dl le più favorevoli: non giudica quindi a rischio l’intesa nel Lazio «sia perché è stato trovato un accordo con l’Udc sia perché la Bonino è antitetica al partito di Casini». Ed è la stessa antagonista di Renata Polverina, la leader radicale Emma Bionino, a sbilanciarsi su una previsione sull’esito
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del dibattio interno al Pdl: «Non penso che si arriverà a questa rottura tra Pdl e Udc nel Lazio». Eppure la mobilitazione interna al Pdl per arrivare a una resa dei conti definitiva con l’Udc è altrettanto forte. La tesi dei berlusconiani contrari all’accordo con l’Udc nelle regioni è che la strategia di Casini centrata sul metodo delle alleanze a geometria variabile sarebbe finalizzata a disarticolare il bipolarismo, a indebolire la leadership berlusconiana e a rinsaldare un asse preferenziale con Gianfranco Fini. Lo stesso comportamento del presidente della Camera che ha siglato da solo un’intesa con Casini sarebbe stato un altro elemento di rottura in seno al Pdl: «Il metodo usato da Fini, che ogni giorno chiede maggiore collegialità nel centrodestra, è stato quello di un autarca che ha deciso da solo di mettere a punto un tandem con il leader dell’Udc» lamenta un esponente del Pdl vicino al premier. Una posizione quella della diffidenza nei confronti del Centro ben riassunta dalle parole del sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro «Se non interverrà un chiarimento politico definitivo e se permarrà intatta, come temo, l’ambiguità dell’Udc qui nel Lazio, che da un lato sostiene la nostra Renata Polverini e dall’altro non perde occasione per predicare nelle piazze della Regione il superamento pratico e teorico della leadership nazionale di Silvio Berlusconi, per me diventa molto difficile riconoscermi nella candidatura Polverini. L’Udc d’altra parte – dice ancora Giro – preferisce accordi personali e riservati con i candidati presidenti alle regionali, rifiutando accordi diretti con Berlusconi che per loro è un nemico da sconfiggere politicamente». Intanto i sondaggi parlano di un testa a testa tra Bonino e Polverini nel Lazio. Un altro motivo che verrà addotto in sede di trattative da chi vuole sostenere la candidatura di Renata Polverini anche con l’apporto dei voti di centro. Ma non c’è solo il Lazio: l’ufficio di presidenza dovrà trovare una quadra anche per situazioni regionali ancora aperte. Come la Puglia per esempio, dove Berlusconi vuole candidare Adrana Poli Bortone
La tesi dei contrari all’accordo col Centro è che la strategia dei centristi sarebbe finalizzata a disarticolare il bipolarismo
necessaria l’unanimità, se non verrà fatta sufficiente chiarezza sul modo in cui il meccanismo dell’euroritenuta ha funzionato fino ad oggi. Inoltre, per Tremonti il tema della strategia di uscita dalla crisi, con il «cauto e graduale» ritiro delle misure di stimolo all’economia non lascia spazio, nei tavoli istituzionali, alla discussione su cambiamenti della politica fiscale nei vari paesi membri, soprattutto in un contesto che il commissario uscente all’Economia Joaquin Almunia ha definito di «ripresa fragile». Quanto al presidente di Bce Jean Claude Trichet che ha parlato di tagli «soltanto a medio termine», Tremonti si è limitato a commentare «dixit».
mentari, nell’ambiguità delle accuse, nella non giurisdizione del tribunale di Milano. Ma in particolare la violazione di un equo processo secondo Previti era legata alla mancanza di imparzialità del Tribunale di Milano. A suo avviso, i giudici coinvolti sia nelle indagini che nel processo erano politicamente a lui avversi e avevano pubblicamente criticato un disegno di legge che avrebbe avuto un effetto positivo sulla sua posizione nel caso Imi-Sir.
Ad avviso della Corte di Strasburgo, anche se sarebbe stato preferibile che i giudici che istruivano il caso assumessero un comportamento «più prudente nel rilasciare commenti, non c’è prova che le loro posizioni ideologiche abbiano prevalso sul giuramento di imparzialità fatto al momento di prendere servizio». Inoltre, la Corte di Strasburgo ha sostenuto che la circostanza che i magistrati abbiano avanzato delle critiche su un disegno di legge «non rappresenta di per sé un fatto capace di influire negativamente sull’equità di un processo in cui quanto previsto da quel disegno di legge potrebbe applicarsi». I giudici di Strasburgo hanno quindi dichiarato manifestamente «infondata» anche questa parte del ricorso.
economia
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L’intervista. In Italia il 93% delle aziende ha meno di 50 addetti: quali sono gli strumenti indispensabili per farle ripartire?
Se il mondo è piccolo Crisi e globalizzazione hanno cambiato le pmi «Serve una rivoluzione», dice Luigi Paganetto di Pierre Chiartano
ROMA. Le piccole imprese salveranno l’Italia? Al momento soffrono sbattute dai marosi della recessione. La catena imprenditoriale a maglie corte e cortissime che caratterizza il nostro Paese e che – in piena mondializzazione – ha mostrato molti limiti, difficilmente potrà essere cambiata in tempi brevi ma occorrebbe trasformare quella che potremo definire la polverizzazione del nostro sistema produttivo. Anche nel campo della ricerca e dell’innovazione, dove spesso le dimensioni contano. Gli aspetti culturali del problema non sono secondari. L’Italia è conosciuta per la varietà e sempre più spesso anche per la qualità dei suoi prodotti. Il nostro approccio con i mercati internazionali è però condizionato da alcune tare culturali. All’estero veniamo – in alcuni casi – tacciati di essere «presuntuosi, ma poco ambiziosi», un approccio che è figlio di una cultura poco aperta o semplicemente di una mentalità che non conosce le regole del gioco. Soprattutto incapace di distinguere tra eccellenza, qualità (dove il sistema Italia è forte) e standard operativi (poco conosciuti) di un sistema del commercio internazionale che funziona a prescindere dalla presenza delle nostre aziende.
Le piccole (fino a 49 addetti) e la piccolissime imprese (fino a 9 addetti) - entrambe le chiameremo Ppi – sono sempre state il biglietto da visita dell’economia italiana, nel bene e nel male. La loro presenza sui mercati internazionali è comunque significativa per numero d’iniziative, non certo per fatturato (che spesso si riduce a poche decine di migliaia
di euro - fonte Ice). Sono 180mila le aziende esportatrici (fonte Ice) rispetto alle 40mila della Germania e alle 25mila francesi (dati 2008). Il 93 per cento di queste imprese italiane hanno meno di 50 addetti, pur contribuendo al 30 per cento dell’export nazionale (fonte Confindustria). La globalizzazione in atto dal 1994 e la crisi entrata nel secondo anno di effetti sull’economia mondiale hanno provocato dei mutamenti strutturali e di sistema che
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Siamo passati da un’epoca in cui il successo si misurava sull’export a un’altra in cui dipende dalla capacità di stare stabilmente su di un mercato, avendo prodotti e postazioni molto solidi provocheranno nei prossimi anni profonde mutazioni economiche e sociali. La stessa Cina – che recentemente ha superato nell’export anche la Germania – ha un forte sistema di Ppi. Un esempio è l’«invasione» dell’Africa, dove oltre alle grandi imprese di Pechino ci sono migliaia di Ppi che hanno “colonizzato” l’intero continente.
Insomma, come potremmo trasformare un sistema d’imprese così parcellizzato in un vantaggio per l’Italia? Lo abbiamo chiesto a Luigi Paganetto, preside della facoltà d’Economia all’Università di Tor Vergata e grande esperto di economia internazionale. «È un sistema che possiede sia pregi che difetti. Il pregio è senz’altro la capacità d’iniziativa che qualche volta si trasforma anche in un successo considerevole. Perché su piccole aree di business queste imprese
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riescono a prendere posizione come esportatori sui mercati. Il punto vero è quello di farlo attraverso investimenti diretti all’estero. Stiamo passando da un’epoca in cui il successo si misurava sull’export a un’altra in cui il successo si misura sulla capacità di stare stabilmente su di un mercato, avendo prodotti e postazioni nel Paese in cui ci si colloca commercialmente». Per aziende che hanno meno di 50 addetti è difficile pensare a un investimento così impegnativo, specie in periodi di crisi come quello che ancora stiamo attraversando.Visto anche che la globalizzazione ha messo in luce almeno due limiti del nostro modello di Ppi. Il primo riguarda le dimensioni troppo ridotte per produrre economie di scala, anche su mercati di nicchia. Un buon esempio e il mercato vinicolo: il 93 per cento delle aziende produce meno di 10mila bottiglie annue. Per riempire un container ne occorrono 20mila. Sul mercato Usa anche un piccola catena di distribuzione richiederà 3 o 4 container all’anno. La risposta degli esperti e quella di continuare il coordinamento e la creazione all’interno dei distretti produttivi o delle aree a vocazione produttiva di “aggregazioni” temporanee
per l’export, ma che superino le naturali diffidenze degli imprenditori a voler agire «da soli» e a non voler condividere asset strategici (anche per business molto ridotti). Cioè avere strutture sui mercati che saltino le forche caudine degli importatori. Il passo successivo sarebbero le joint venture tra Ppi sostenute dalle istituzioni (la Simest gia opera in tal senso).
«È proprio questo il problema. Le piccole imprese – ci spiega il professor Paganetto – non si possono permettere di fare un investimento diretto all’estero. Qui soccorre l’idea che bisogna andare per aggregazioni, per consorzi d’imprese legate a una tipologia di prodotto, a uno specifico mercato oppure a procedimenti di produzione integrati. E ci sono varie tipologie d’integrazione. Se è vera la premessa, cioè di guardare ai mercati con l’ottica di volere una presenza sistematica in loco, perché solo così si riesce a soddisfare il consumatore finale, serve evitare meccanismi come l’intermediazione. Spesso sono loro i dominus del mercato. Intendiamoci, già esportare è un successo, ma occorre alzare l’asticella degli obiettivi. Spesso però l’impresa è consegnata alle scelte degli importatori locali. Basterebbe che ci fossero dei consorzi di commercializzazione a livello locale per facilitare il compito dell’acquirente». Ma guardiamo a ciò che è stato fatto. Ci sono esempi di buona pratica? È sempre il professor Paganetto a spiegarcelo: «Direi di sì. Ancora una volta sono distretti che possono riguardare un singolo prodotto e – più frequentemente – processi in cui ognuno fa un parte del prodotto finale. Allora
posso creare un ufficio commerciale anche a Pechino, che sia titolare della vendita dei prodotti di un gruppo d’imprese localizzate in uno specifico distretto. Tutto ciò può avvenire tanto più se esiste un sostegno da parte delle istituzioni. E credo che in questa direzione stia facendo un buon lavoro, specialmente quelle dedicate ai finanziamento all’estero delle iniziative imprenditoriali (come la Simest). Andrebbe rafforzata la loro azione. Sarà un beneficio complessivo per il sistema nazionale».
Nella mentalità degli imprenditori però c’è una certa“gelosia” nel condividere sia asset strategici che semplici informazioni commerciali. Che è un po’il limite delle aggregazioni d’impresa. Paganetto vede le stesse difficoltà.«Sono d’accordo con questa valutazione, infatti ho parlato di distretti per questo motivo. L’imprenditore per definizione – vivendo su proprie iniziative – vuole aver risultati esclusivi. I distretti sono caratterizzati da vantaggi di scala, ciò che si fa insieme non si ottiene da soli. Funziona bene nei processi integrati, dove nessuno va turbare il mestiere dell’altro, come nel caso dell’abbigliamento. Non dico che siano tantissimi gli esempi positivi. Andrebbero incoraggiati, con azioni pubbliche e private – penso al sistema finanziario – di supporto. Come ho affermato in apertura, con il sistema così caratterizzato da piccolissime imprese, rischieremmo di avere poca penetrazione sui mercati e incapaci di gestire la domanda dei mercati locali. È un limite per lo sviluppo dell’export, ma è un limite anche per il nostro sistema industriale».
economia
no anche tante piccolissime imprese che fanno capo ad organismi pubblici che finiscono per essere il tramite con i mercati, in Europa in Italia o negli Usa». È un esempio non da imitare ma da prendere in considerazione per vedere che cosa saremmo capaci di fare in questo campo. «La Cina è fatta di tante piccole imprese che vengono poi coordinate a livello di export…».
Infatti Pechino ha praticamente colonizzato vaste regioni africane, non solo con le grandi imprese, ma anche con le Ppi. «L’I-
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ta». Le Ppi che rappresentino settori non decotti, potrebbero meglio assorbire l’urto di un terremoto sociale di queste dimensioni, anche se in Italia queste dinamiche potrebbero essere più sfumate. In pratica, proprio un sistema polverizzato come il nostro, con una presenza così forte delle Ppi, potrebbe diventare un’arma vincente contro certe dinamiche perverse. Il piccolo imprenditore è quello che più di tutti ha interiorizzato il concetto di «capitale umano». È perciò quello meglio disposto alla salvaguardia della qualità del pro-
«Il sistema delle piccole e piccolissime imprese da questo punto di vista è un vantaggio. È nelle Ppi che il lavoro è più stabi-
Non c’è invece una risposta di principio su come ricerca e innovazione possano coniugarsi con le Ppi. «Se parliamo di tecnologia innovativa è più difficile. Se ci riferiamo dalle innovazioni incrementali – cioè quelle che non cambiano il modo di produrre e neanche cambiano il prodotto, ma lo migliorano solamente – allora è possibile. È alla portata della piccola impresa. In questo campo andrebbe creato un rapporto diverso dall’esistente tra mondo della ricerca e quello della piccola impresa. Non si può fare il cosiddetto trasferimento tecnologico, perché oltre ad aver bisogno di qualcuno che trasferisce occorre anche che qualcuno sia interessato al trasferimento. Bisogna seguire gli esempi che ci sono in giro per il mondo. In Germania ci sono istituti di ricerca che mandano in giro il loro personale per fare un’inchiesta, una sorta d’inventario in una determinata regione, per sapere cosa fanno le imprese lì insediate e gli spiegano
le. Qualunque imprenditore considera che il capitale umano come il maggior vantaggio competitivo di cui dispone. Non è vero che il lavoro nelle piccole imprese sia di natura precaria. Ho l’impressione che sia l’esatto contrario. L’imprenditore è convinto che il prodotto nasca dalla capacità professionale e dalla competenza dei propri dipendenti. Nella maggior parte dei casi le nostre piccole imprese vendono prodotti di qualità – poi esistono anche le eccezioni in negativo – ma principalmente siamo sulla fascia medio alta dei prodotti. La
cosa “potrebbero” fare. Cercano di capire le loro esigenze e come un’innovazione potrebbe aiutarli. Gli sottopongono delle proposte e ragionano insieme agli imprenditori le modifiche più utili. Alla fine si fa un’integrale di questa attività, una sintesi tra mondo della ricerca applicata e piccola impresa. Dove quest’ultima impara a conoscere l’innovazione, come utilizzarla e apprende anche su quali mercati venderla. È una nuova forma di cooperazione tra industre ricerca. In Germania sta funzionando molto bene».
È chiaro che il costo dell’investimento per una presenza logistica adeguata e per le risorse umane adatte ai mercati non può essere affrontato facilmente dalle piccole imprese
Il secondo problema, per le Ppi, sono le figure professionali come, ad esempio, un area manager con capacità medio-alte che sappiano muoversi in sistemi economici, sociali e culturali complessi. Costerebbero troppo. In questo settore qualcosa però è stato fatto. Si tratta di risorse umane con tipologie specifiche “sovvenzionate” dal pubblico. Iniziative già messe in atto in Germania col progetto Musten, in Spagna con quello Micro e anche in Italia – ma su base episodica in alcune regioni – potrebbero, con opportune modifiche, dare una riposta ai limiti del“piccolo”. Creare un nuovo modello per le Ppi, che permetta una penetrazione dei mercati non superficiale, e che possa costituire una rete produttiva in grado di ammortizzare le dinamiche occupazionali e sociali che molti cominciano a definire “feroci” e che non mancheranno di farsi sentire nei prossimi anni. Fatte le debite eccezioni per aree geografiche e settori economici. «Le risorse umane sono importanti sia all’estero, che sul luogo di produzione come gli esempi da lei fatti. Sono però più affezionato all’idea che sia più importante
avere queste risorse nel Paese di destinazione che in quello d’origine del prodotto». Non c’è dubbio che serve sia chi coordini il lavoro in partenza che all’arrivo. Dal punto di vista tecnico le soluzioni possono essere numerose. Il problema è metterci risorse, capacità e competenze, per l’ecnomista. Per queste ragioni il fattore umano è decisivo. Se vogliamo vincere questa sfida che diventa tanto più attuale alla luce di una recente notizia: la Cina avrebbe superato nell’export globale anche i tedeschi. Significa un cambiamento non solo d’immagine o percezione. «Si tratta di numeri. I cinesi si muovono con gradi imprese ma han-
talia si trova in un’analoga situazione ma è incapace di sfruttane l’opportunità. Serve un forte imput in questa direzione, altrimenti le energie imprenditoriali che sono tante – soprattutto nelle Ppi – vanno disperse. È chiaro che il costo dell’investimento per una presenza logistica e di risorse umane sui mercati non può essere affrontato dalle piccole imprese». I cambiamenti indotti dalla crisi economica potrebbero, sul medio periodo, favorire le Ppi e il sistema produttivo nazionale, se accompagnate da politiche adeguate. Le dinamiche lavorative spingeranno nei prossimi dieci anni verso una ulteriore precarizzazione dei posti di lavoro, a causa delle continue delocalizzazioni e della flessibilizzazione estrema del lavoro, del basso potere contrattuale di sindacati e dipendenti. Si potrebbe arrivare fino a una diffusa codificazione di una tipologia di lavoratore just-in-time che meglio sarebbe definire di impiegato «usa e get-
qualità è un punto di riferimento per tanti. Per questi è considerato conveniente non farsi scappare le competenze necessarie. Abbinare piccole imprese e lavoro stabile finisce per essere un oggettivo elemento di vantaggio. Chi non ha questa cultura e questa tradizione può utilizzare la traiettoria di cui parlava, quella del lavoro precario, su domanda. Per noi sarebbe un vantaggio. Sempre che si abbia le capacità di gestire una commessa dall’estero, con tutte quelle attenzioni di cui trattavamo in precedenza. Altrimenti si diventa vittime degli eventi senza poter progettare il proprio lavoro, senza poter guardare al futuro senza preoccupazioni. Come invece sarebbe possibile».
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dotto e della stabilità occupazionale. Ammesso che le previsioni per gli Usa valgano anche per l’Europa.
mondo
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ROMA. Il retroscena raccontato ieri su liberal dalla nostra Valentina Sisti lascia l’amaro in bocca. Il Brasile sembrerebbe non aver alcuna intenzione di restituire all’Italia Cesare Battisti, e il nostro governo sembrerebbe non aver alcuna intenzione di farne una dramma. Segnali e indiscrezioni si intrecciano ancora una volta sull’asse BrasileFrancia-Italia. In sintesi i fatti. Due mesi fa la Suprema corte brasiliana si pronuncia favorevole all’estradizione dell’ex leader dei Proletari armati per il comunismo condannato all’ergastolo per banda armata, rapine, possesso d’armi, gambizzazioni e quattro omicidi. A questo punto si aspetta l’ultima parola del presidente Lula, ma questi si mostra stranamente afasico. Gli interrogativi montano fino a che, nei giorni scorsi, il quotidiano Folha de San Paulo dà a quel silenzio connotati precisi: c’è in corso una trattativa, in avanzata fase di definizione, per sottrarre ancora una volta Battisti alla giustizia italiana. Ieri, dalle pagine del nostro giornale, il sottosegretario agli Esteri Mantica, ha invitato a «non dare retta alle voci» e ha garantito la fermezza della po-
Polemiche. L’affondo del figlio di una delle vittime: «Pronti a scendere in piazza»
«Gli inciuci su Battisti? Un tradimento di Stato» Alberto Torregiani commenta con liberal le voci del possibile accordo Italia-Brasile di Francesco Lo Dico sizione italiana. Ma se l’accordo ci fosse, converrebbe a tutti. In primis a Berlusconi, che il 18 febbraio si recherà in visita a Brasilia. Le nostre feluche starebbero tentando di rimandare la negata estradizione dello scrittore con l’hobby del killeraggio a debita distanza dalla visita del premier in terra carioca. Un rinvio strategico di un paio di mesi. Il
sconsolata sulla spalla, a Lula la solidarietà dei compagni più irriducibili, che fa tanto sinistra radicale in vista delle prossime elezioni brasiliane. Ma nell’incontro del 18 febbraio, spiega Folha, non c’è in ballo solo una questione d’immagine. Dopo l’intesa siglata da Iveco a dicembre, si definirà probabilmente per l’Italia una sostanziosa commessa militare: 2044 veicoli blindati prenderanno la volta
«Se l’intesa tra Lula e Berlusconi fosse vera ci spiega l’uomo - chiamerò le Associazioni delle Vittime e manifesteremo la nostra rabbia» tempo necessario per evitare che i soliti terroristi mediatici possano imputare al presidente del Consiglio eventuali responsabilità rispetto alla mancata consegna del contumace. Lula infatti sembra orientato a negare Battisti alla giustizia italiana. Ma non più per motivi politici. La stampa brasiliana riferisce infatti che il governo italiano lo riterrebbe un «gesto aggressivo e inelegante». Ragion per cui si sarebbe fatta largo l’ipotesi più comoda per tutti: «motivazioni umanitarie». Una formula buona per le esigenze di ognuno: al nostro premier arriverebbe qualche pacca
di San Paolo, in aggiunta a una decina di unità navali. Si configurerebbe insomma un inciucio mica male.
Ad ogni modo, le «ragioni umanitarie» non trovano molto solidale Alberto Torregiani. Lo stesso che quel 16 febbraio 1979, allora quindicenne, perse per sempre suo padre Pierluigi insieme all’uso delle gambe, in seguito a un brutale agguato dei Pac di cui si rivelò essere mandante Cesare Battisti. «Chiederò conto della vicenda al nostro presidente del Consiglio e mi attivo
A destra, il premier Berlusconi. Sopra, Alberto Torregiani. In alto, Cesare Battisti. A sinistra, Lula
fin d’ora affinché mi riceva dice a liberalTorregiani - se la vicenda dovesse avere anche un fondo di verità, chiamerò a raccolta le Associazioni delle Vittime e scenderemo in piazza a gridare la nostra rabbia. Non si tratta soltanto della mia famiglia, ma di una famiglia più grande, quella delle vittime, che aspetta di avere giustizia da trent’anni. Le pallottole di Battisti ci hanno strappato i nostri cari, ma il mancato rientro di un delinquente comune, ci strapperebbe per sempre la fiducia nello Stato. E soprattutto la speranza. Sarebbe un tradimento dello Stato. Non si può barattare la dignità per quattro carri armati». Non si potrebbe, ma sulla vicenda pesa anche il pressing attuato su Lula da Nicolas Sarkozy, in occasione di quel Natale 2008 in cui si venne a sapere che il presidente francese si era adoperato presso il collega brasiliano affinché si tenesse in casa il rifugiato politico Battisti. Con lo zampino, si disse allora, della sensibilità umanitaria di Carla Bruni e Fred Vargas.
«Purtroppo gli atteggiamenti pilateschi non mi sorprendono - prosegue Torregiani -. Quando incontrai Sarkozy e gli chiesi spiegazioni, alzò le spalle dicendomi che la questione di Battisti non era di sua competenza. È una patata bollente che ci si passa di mano in mano. In realtà avevo capito da tempo che anche Lula avrebbe lasciato scivolare la cosa. Quando si è costretti a rinunciare alle gambe, resta molta più energia per usare per la testa. È almeno da Natale che la questione è stata messa in stand-by». Non deve essere stato facile attendere giustizia per trenta lunghi anni, ma Torregiani non è affatto rancoroso: «Non nutro odio verso Battisti. Mi ha scritto un paio di volte, e non gli ho negato la mia risposta come non l’avrei negata a nessuno. Continua a ripetere che è innocente, e questo è a mio parere un motivo in più per cui dovrebbe affrontare i nostri magistrati. Non ho alcun desiderio di rivalsa. Anzi, se Battisti fornisse le prove della sua innocenza, io diventerei il suo primo sostenitore. Ciò che io e le altre vittime vogliamo è soltanto giustizia, e se davvero lui non fosse responsabile di quanto è accaduto, noi marceremo al suo fianco. Un vero uomo non sfugge alle accuse, qui la Costituzione garantisce ancora un giusto processo».
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UN ANNO DI OBAMA
UN SOGNO VISSUTO PERICOLOSAMENTE La luna di miele con l’America sembra già finita. Ma la sua leadership mondiale può reggere ancora? di Oscar Giannino ual è il bilancio della politica estera americana, a oltre un anno dall’elezione di Barack Obama? Se giudichiamo i suoi tour esteri e le maggiori occasioni in cui la politica della nuova Amministrazione si è dispiegata in atti e decisioni concrete, direi che la formula più adeguata, dal mio punto di vista, è la seguente: un atterraggio molto ruvido. Dalle altezze dell’idealismo liberal alla ruvida complessità del mondo post Bush: con un’America ferita profondamente e ridimensionata dalla crisi economica; perplessa all’interno dalla solo parziale attuazione delle promesse elettorali su materie come Guantanamo, Iraq e Afghanistan; protesa obbligatoriamente a un rapporto preferenziale con la Cina; ancora sprovvista di reali novità sul delicato tavolo tra Israele e palestinesi; più lontana dall’Europa di quanto fosse in passato; incerta come in precedenza su alcune discontinuità centro e sud americane. Eppure, tutto questo è valso in pochi mesi al presidente Obama la trionfale concessione del Nobel per la Pace.
Q
Un incoraggiamento venuto ancor prima che Obama si trovasse in condizione di far seguire alle sue parole i fatti. E che ha inevitabilmente deluso molti, quando sono venute scelte come quella sull’Afghanistan. Controversa e sofferta per più di un semestre, tanto da simboleggiare per questo solo fatto la manifestazione sin qui più eloquente dell’hard landing obamiano, e del suo team di consiglieri, i più dei quali vengono dal Middle East Institute of Studies della Brookings. Eppure, nulla di tutto ciò si deve a presunta impreparazione del presidente. Né al fatto che l’Amministrazione sia troppo assorbita sull’assai impegnativa agenda di politica interna, economica e sociale, considerando quantità e qualità di advisor di primo livello rotanti intorno al segretario di Stato Hillary Clinton, o in Congresso, come Paul Joula, Vance Serchuk, Bill Monahan, Tom Hawkins e
Rick Kessler, l’ottimo staff director della Commissione Affari Esteri della Camera che a sua volta tra i suoi collaboratori può contare su una decina delle migliori menti liberal forgiate sotto l’amministrazione Clinton e nei migliori campus americani. Obama per primo, nella sua precedente breve esperienza parlamentare, è stato membro della Commissione Affari Esteri del Senato. Ed era Joe Biden a guidarla, il suo vicepresidente il quale, non a caso a giudizio di molti in politica estera, è il più importante e ascoltato vicepresidente che la storia americana ricordi da molto tempo a questa parte.
Tutto si può dire insomma, ma non che la politica estera fosse per Obama pane non abbastanza masticato, come invece i dossier che riguardano moneta, bilancio e industria. In questo primo anno, si può legittimamente affermare che dopo il discorso di insediamento due siano state le grandi occasioni in cui il presidente Obama ha deliberatamente concentrato la maggior enfasi, per dare vigore e impulso alla promessa che in politica estera l’aveva portato alla vittoria: una svolta netta, dall’unilateralismo della guerra al terrorismo proclamato e perseguito dall’amministrazione Bush, al multilateralismo programmatico e compartecipato, per restituire all’America l’immagine e i consensi meritati di un Paese che «si propone al concerto internazionale per il suo esempio e per la sua instancabile ricerca della persuasione, del dialogo, della reciproca convenienza, non per la forza delle sue armi e per la superiorità del suo modello», come aveva ribadito all’insediamento. La prima occasione ha coinciso con il primo viaggio all’estero carico di simbolismo e significato, con la tappa del Cairo e il discorso all’università Al Ahzar, cuore e testa del delicatissimo equilibrio tra plurisecolare tradizione di alti studi, e trentennale slittamento verso ideologia, prassi e proselitismo dell’islamismo dei Fratelli Musulmani.
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La seconda occasione ha coinciso con l’intervento all’assemblea generale dell’Onu, in settembre. I due eventi costituiscono l’inizio e la fine della luna di miele di Obama in politica estera. La punta più alta è venuta con il G20 di Pittsburgh, sotto molti punti di vista il più grande successo americano in questo 2009, una specie di rappresentazione vivente - con la sua photo opportunity per cui occorrevano non uno, ma due grandangoli giustapposti agli obiettivi dei fotocronisti - della decisione di estendere la governance condivisa planetaria secondo criteri, logiche e obiettivi sin qui mai sperimentati. Dopo tali occasioni, la realtà ha preteso i suoi aspri diritti, sostituendosi ai proclami di principio. Prendendo la forma, di conseguenza, del tour asiatico al vertice Asean e soprattutto della visita in Cina. E poi, della controversa e tanto attesa decisione sull’Afghanistan.
Prima di due nuovi tentativi di ridare all’idealismo il suo afflato prioritario, a tribune cariche nuovamente di forte valenza simbolica ancor più che concreta, come il vertice di Copenaghen sul clima, e il discorso di accettazione del Nobel, a Oslo. Prima di approfondire l’esame di questa oscillazione pendolare tra il cielo dell’ideale e la terra della realtà, occorre però una premessa. Che costituisce l’orizzonte obbligato, per tanti versi, in cui la politica estera di Obama si trova ad essere inscritta, qualunque siano poi le sue stelle polari e decisioni concrete. L’America di Bush jr. era quella dell’11 settembre 2001. L’America di Obama è figlia del 15 settembre 2008. Temo che, nei libri di storia, questa seconda data non sarà scritta con neretto meno rilevante della prima. Anzi al momento, e per il futuro che possiamo scorgere di fronte a noi, direi proprio che le conseguenze della più grave crisi fi-
Da sinistra: la copertina dell’ultimo numero di “Risk”; Obama si “inchina” di fronte al Re saudita; il presidente Usa (e sua moglie Michelle) insieme al cancelliere tedesco Angela Merkel (e suo marito) e il presidente francese, Nicholas Sarkozy
I dubbi su Kabul e l’inizio del declino I sei mesi di rinvio della decisione gli hanno fatto perdere il 20% cano, meccanismo che a propria volta rendeva sostenibile un paradigma di crescita mondiale realizzato da Clinton spalancando le porte le porte del Wto alla Cina. Con quest’ultima che canalizzava parti crescenti del proprio eccesso di risparmio, ingenerato dalla crescita vorticosa del proprio export nel mercato a più alto assorbimento mondiale di beni di consumo a basso costo, proprio a sostegno del doppio deficit Usa - commerciale e delle partite correnti - attraverso l’acquisto massiccio di asset denominati in dollari e l’ammassamento di riserve nella stessa valuta. Quel doppio paradigma si è infranto. La domanda interna americana per lungo tempo ancora stenterà a tornare ai livelli precrisi, dovendo riequilibrare l’eccesso di debito privato acceso per sostenere i consumi e il calo del contributo al reddito disponibile realizzato dal deprezzamento degli asset immobiliari, nonché da una disoccupazione a doppia cifra. L’America è economicamente assai più debole di un tempo, non solo perché la crisi è nata dal modello della sua intermediazione finanziaria. Ma perché, con un debito pubblico che in pochi anni passa dal 40% al 90% del proprio Pil, sono gli States ad aver bisogno del traino rappresentato nell’economia mondiale di oggi dalle ex emerging economies, ed è Washington ad aver bisogno che Pechino continui a comprare le obbligazioni pubbliche americane. Wa-
È la prima volta nella storia che, solo dopo aver vinto un premio Nobel per la pace, si deve dimostrare di meritarlo davvero. Facendo anche la guerra nanziaria ed economica del secondo dopoguerra determinano e determineranno una ridislocazione di forze, equilibri ed influenze assai più penetranti e di lungo periodo di quanto si sia prodotto per l’attacco jihadista all’America e per la sua strategia di guerra globale al terrorismo. Si è rotto un paradigma ventennale di crescita finanziaria con rendimento annuale a doppia cifra sul mercato ameri-
shington insomma ha bisogno di un asse con una Pechino economicamente e finanziariamente cooperativa, almeno se non più, rispetto a quanto in precedenza Pechino aveva interesse a estendere il suo export in America, per dare maggior forza alla propria crescita interna.
L’Amministrazione Obama ha forse potuto sperare nei suoi primi mesi che anche la Cina vedesse la sua crescita interna più piegarsi verso il basso, verso un un 6% di aumento annuo che a giudizio di molti osservatori è la soglia sotto la quale nella Terra di Mezzo iniziano a determinarsi problemi interni di “mancate promesse” di benessere sin qui accese, con quantità di ridislocazioni coatte di manodopera dalle città alle campagne di troppi milioni di unità, per risultare gestibili senza sommovimenti e proteste.Va bene che la Cina è oggi il Paese con il più efficiente strumento al mondo di attuazione intertemporale delle delle decisioni economiche - l’Armata Popolare Cinese - ma a tutto c’è un limite. Al contrario, però, da aprile scorso Pechino ha mostrato una tempestività e una decisione economica assolutamente preziose. Non solo per sé, ma per il mondo intero. Incomparabilmente più importanti nella ripresa del commercio estero di quanto non si siano dimostrati i salvataggi bancari da una parte, e dall’altra i programmi occidentali di sostegno all’economia reale. Pechino ha deciso di sostituire domanda interna all’export che mancava per la caduta americana destinata a protrarsi. Lo
ha fatto non solo con un programma mostruoso di lavori pubblici finanziato dalle riserve accumulate e annegando le proprie famiglie e imprese di liquidità bancaria. Soprattutto, Pechino ha saputo coinvolgere tutti i Paesi del Far East - di qualunque colore politico fosse il loro governo in carica - in una comune scommessa di politica estera ed economica.
Poiché la Cina non è in grado di produrre i beni intermedi e finali richiesti in quantità pazzesche da una domanda interna in via di esplosione - le vendite di auto sono schizzate nei trimestri ultimi a botte del più 76%, la Cina sarà nel 2009 il primo mercato mondiale con 13 milioni di unità vendute - Pechino ha abbassato selettivamente le maglie dell’import verso i prodotti del Far East, consentendo a tutti loro crescite record dell’export in sostituzione della domanda americana svanita. In tal modo, non solo Corea del Sud e Taiwan, Thailandia e Vietnam contribuiscono a una crescita cinese da consumi superiore al 9%. Ma, soprattutto, disegnano un Pacific Ring politicamente ed economicamente sinocentrico, come nessun esperto di politica estera americana, nemmeno il più antieuropeo, avrebbe mai osato immaginare. È questa svolta obbligata di prospettiva, integralmente disegnata dall’evoluzione economica e finanziaria, dalla debolezza degli Usa e dalle vecchiezze dell’Europa, quella con cui Obama ha dovuto fare i conti nel primo bagno di realismo in cui ha dovuto immergersi, recandosi a
Pechino. Non una delle sue richieste di fondo è stata accolta. L’Afghanistan è il teatro sul quale la torsione tra promesse e realtà si è manifestata con più evidenza. I sei mesi di rinvio della decisione, dal momento della nomina del generale McChrystal alla testa del contingente americano e della contestuale richiesta di un suo immediato assessment dei suoi desiderata per vincere, hanno accompagnato Obama alla perdita di quasi venti punti di popolarità tra gli americani. Alla fine, i 30mila nuovi militari inviati, più gli altri 20mila ai quali Obama aveva già detto sì alla sua elezione, non corrispondono né alla richiesta piena dei vertici militari, né tanto meno alle attese dei liberal e dell’elettorato che in Obama ha creduto. Le richieste rivolte al presidente Karzai, ulteriormente indebolito da un’elezione inficiata da brogli e imbrogli che avrebbe dovuto suggerirne il passo di mano, appaiono pressoché del tutto irrealizzabili. Proiettando verso la parte finale del primo quadriennio di Obama il rischio di apparire impossibilitato a ritirarsi senza perdere la faccia da una parte, e dall’altra ancor privo di una netta distinzione tra Taliban, signori della guerra e leader tribali afghani da una parte, e al Qaeda dall’altra. Il Pakistan non è né rassicurato né impegnato, in fondo, da una tale strategia. La Cina continuerà ad aver mano libera con la minoranza uighura nello Xinjiang. L’India a temere di pagare prezzi crescenti all’intolleranza di nuovo in salita tra nazionalismo indù e musulmani.
Persino l’Iraq potrebbe riesplodere, se a questo punto la surge afghana non dovesse aver successo di fronte a recrudescenze di caduti Usa ai quali l’Amministrazione si rivelasse
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L’Unione resta divisa, incerta e priva di una leadership forte e autorevole
Forse l’Europa non ha capito niente L’amore del Vecchio Continente nei confronti di Obama (nato in funzione anti-Bush) non è affatto corrisposto di Stefano Silvestri he gli europei non abbiano capito niente? Nel 2008, durante tutta la campagna elettorale americana, gli europei hanno tifato per Barack Obama, con una maggioranza schiacciante, che in alcuni paesi superava l’80 per cento. Ancora un anno dopo, malgrado l’inevitabile differenza che c’è tra la realtà e la speranza, oltre il 70% dei cittadini europei riteneva che Obama fosse stata la scelta migliore e che avrebbe migliorato le cose. C’erano certo delle differenze. Le percentuali di quella che potremmo definire una vera e propria “obama-mania”sono diverse tra i paesi di quella che un tempo era l’Europa Occidentale e quelli della vecchia Europa Orientale. Gli ex satelliti dell’impero sovietico avevano amato ed apprezzato la retorica bellicosa di George W. Bush, che invece la stragrande maggioranza degli “occidentali” aveva grandemente avversato. Ma persino in quel caso le percentuali di gradimento di Obama sono rimaste da 10 a 20 punti al di sopra di quelle del suo predecessore. Insomma, se Obama avesse fatto campagna in Europa, e non negli Usa, avrebbe raccolto una maggioranza schiacciante, e sarebbe ancora largamente in grado di essere rieletto.
C
non capace di reggere. Per gli alleati Nato impegnati in Afghanistan, tra cui l’Italia, è una decisione subìta, non compartecipata. Del resto, come il presidente francese Sarkozy non ha perso occasione di dichiarare al suo Consiglio dei ministri - almeno secondo la cronaca ufficiosa pubblicata da Le Canard - «la verità è che l’America di Obama considera oramai del tutto secondari noi europei». Anche i paesi esteuropei che più si erano avvicinati all’America di Bush, come Polonia e Cechia privati dello scudo antimissile per indurre Mosca a maggio collaborazione sul dossier iraniano.
Ma è il Medio Oriente, la scacchiera in cui finora Obama non ha mosso un pezzo. Anzi, col tempo ha perso consensi. Eppure, al Cairo aveva pronunciato un discorso tanto aperturista nei confronti dell’Islam e del blocco arabo-musulmano, che molti commentatori erano rimasti senza parole. E senza la tradizionale comprensione e solidarietà verso Israele. Come ammonisce Benny Morris, Obama si è abbeverato alla scuola multiculturalista di Edward Said, che in definitiva non conosce, non ama e non apprezza Israele. Sarà anche per questo che, senza mostrare al momento reale capacità di influenza sul governo Netanhyau e sulla sua agenda, l’America di Obama sta assistendo senza grandi iniziative a tre processi altrettanto pericolosi. Il primo è che Al Fatah e Abu Mazen trattano riservatamente il riavvicinamento con Hamas, a seguito del venir meno della prospettiva “due Popolidue Stati” dichiarata dal governo d’Israele. Il secondo è che Hamas ed Hezbollah in Libano continuano a riarmarsi, grazie all’Iran che attraverso di loro “parla” ai ceti dirigenti di Egitto e Arabia Saudita, oltre che natu-
ralmente di Siria, Giordania ed Emirati. Il terzo è che, grazie a tutto questo, Ahmadinejad è più forte e non più debole, di fronte alla sua opposizione interna che non demorde dallo scendere in piazza, ma appare completamente isolata. Il Medio Oriente, proprio sulla tensione IranIsraele, potrebbe tornare a diventare improvvisamente e tragicamente incandescente. Un bilancio troppo pessimistico e ingeneroso? No. Bisogna comunque augurarsi che Obama ce la faccia. Un anno è troppo poco, per giudicarlo. Che il realismo prendesse le sue rivincite, è amara lezione della storia che puntualmente si ripete. Ma le risorse politiche e diplomatiche degli Usa restano imprescindibili, in questo mondo più aperto e più caotico del dopo Lehman. Certo è la prima volta nella storia, che solo dopo aver vinto un premio Nobel per la pace, si deve dimostrare di meritarlo davvero. Facendo anche la guerra.
È possibile che parte almeno di questo consenso sia dovuto proprio ai gravi errori di Bush e al timore che aveva creato tra gli europei. Ma c’è sicuramente molto di più, tra cui l’immagine trascinante di un presidente giovane e di bell’aspetto, per di più nero, che si è presentato volutamente come l’incarnazione stessa del sogno americano di integrazione e di progresso. Quel suo slogan martellante (Yes, We Can) era anche l’arrivo dell’ottimismo di fronte alle mille paure del terrorismo, della guerra e della recessione, gli europei hanno così, idealmente, votato con il cuore, come del resto ha fatto anche una maggioranza (molto più risicata) degli elettori americani. A un anno di distanza questa popolarità diminuisce, ma è ancora molto alta. Mentre la quasi titalità dei capi di governo europei (con la almeno apparente eccezione di Silvo Berlusconi e, in chiave più ridotta, Angela Merkel) crollano nei sondaggi. Obama resta confortevolmente oltre il 50 per cento in Europa, malgrado la sua netta perdita di consensi in America. Un presidente per gli europei dunque, prima ancora che per gli americani o per il resto del mondo (in Asia, ad esempio, non ha mai veramente sfondato), che però di questo consenso, almeno a prima a vista, non sa bene che farsene, e forse non gliene importa
un gran che. Ma è proprio così? Certamente Obama non ha preso in grande considerazione i suoi storici alleati transatlantici. Li ha anzi tranquillamente scavalcati o ignorati sia quando doveva affrontare la crisi economica globale, dove pure gli europei dovrebbero avere una certa qual voce in capitolo, sia per la Russia, il Medio Oriente, l’Iran, ultimamente l’Afghanistan naturalmente, al vertice di tutto, la Cina. Ha preso decisioni, avviato negoziati, cambiato posizioni strategiche, senza avviare nessuna seria consultazione con gli alleati, neanche quando erano direttamente coinvolti (come è stato quando ha deciso di non installare più i sistemi antimissilistici in Polonia e nella Repubblica Ceca). Negli ultimi giorni è andato a Copenhagen dove ha evitato di schierarsi con gli europei, preferendo ricercare un compromesso “politico” con la Cina, e rinfocolando i timori di un ase preferenziale tra Washington e Pechino. La realtà è naturalmente più sfumata. Il Presidente americano si trova stretto tra un Congresso riluttante a sposare in pieno le sue posizioni e una serie di gravi crisi economiche e politico-militari che deve in qualche modo affrontare. Inevitabilmente le sue posizioni e i suoi compromessi risentono più del dibattito politico interno americano che di quello internazionale. Non a caso, il Presidente Obama ci sta abituando ad una serie di docce scozzesi, quando a discorsi alati e di grande apertura culturale e politica, fanno seguito scelte molto più modeste e tradizionaliste, nel solco della normale politica estera americana.Tuttavia la crescente importanza che egli attribuisce all’area del Pacifico e alle nuove grandi economie emergenti della Cina, del Brasile e dell’India è innegabile. Questo è il primo vero Presidente orientato verso la costa occidentale degli Stati Uniti, sul Pacifico, e non più verso la costa orientale, sull’Atlantico. Quando si rivolge agli europei è soprattutto per chiedere il loro contributo e la loro solidarietà per condurre a buon porto le sue iniziative.
C’è anche una responsabilità dell’Europa. L’arrivo di Obama ha certamente contribuito a ammorbidire le vecchie divisioni, alimentate e sfruttate dagli Usa sotto la presidenza Bush, ma non le ha né eliminate né risolte. L’Europa resta incerta e divisa, priva di una forte leadership unitaria. Gli interlocutori che si propongono a Washington sono ancora e soprattutto i singoli governi nazionali europei, ognuno con le sue particolarità e i suoi limiti. Ciò limita certamente la capacità europea di farsi ascoltare, ma corrisponde anche a una modesta propensione del nuovo presidente a dare spazio ai troppi protagonisti europei. Eppure la popolarità di Obama in Europa sembra poco scalfita da questo suo atteggiamento. Possiamo fare due ipotesi.
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La prima, la più facile, è comunque ben radicata tra gli europei la convinzione che Obama resti la scelta migliore che gli americani potevano compiere tra i candidati disponibile ed è ancora ben vivo un Europa un forte desiderio di una benigna leadership americana. In altri termini, gli europei rimangono in maggioranza filo-americani, e Obama consente loro di restarlo, senza turbamenti d’animo. Ciò è tanto più facile in quanto la sensibilità politica “democratica” del nuovo presidente è largamente in sintonia con le opinioni di una larga maggioranza dei cittadini europei su un gran numero di argomenti (la sola eccezione restando la disponibilità al ricorso all’uso della forza militare, su cui gli europei scontano anni di scarsa attenzione alle grandi scelte strategiche).
americane e degli altri paesi presenti sul terreno. In una tale situazione anche il dibattito in corso per la definizione di un nuovo concetto strategico, che ridia unità e coerenza all’Alleanza, rischia di risolversi in un modesto compromesso burocratico-linguistico senza vera sostanza politica. Nessuno intende chiudere l’Alleanza naturalmente, ma la sua rilevanza futura è ormai in dubbio, sia per le esitazioni europee che, soprattutto, per il crescente disinteresse americano.
Una complessa combinazione di fattori è al lavoro per indebolirla. Ne è un esempio la vicenda delle cosiddette armi nucleari tattiche americane in Europa. Per molti anni, durante la Guerra Fredda, gli americani avevano mantenuto in Europa alcune migliaia di testate nucleari cosiddette “tattiche”sem-
lo schieramento nucleare in Europa con i cosiddetti euromissili. Questa decisa risposta della Nato (richiesta dagli stessi europei) finì per convincere l’Urss della impossibilità di distaccare l’Europa, o anche solo la Germania, dall’alleanza con gli Usa, né di far ritirare gli americani dal vecchio continente, e aprì la strada ad una nuova fase di disarmo e distensione che terminò con il crollo del muro di Berlino, vent’anni or sono, e con la dissoluzione dell’impero sovietico e dell’Urss. Dopo di allora la necessità di mantenere queste armi in Europa è diminuita, ed esse sono state grandemente ridotte, sino a poche centinaia di testate. Ora la questione dovrebbe essere se valga ancora la pena di avere una presenza dissuasiva nucleare americana nei nostri paesi, oppure no, visto il rapido mutare degli scenari di con-
pressoché totale, gli americani stanno riducendo rapidamente il numero delle testate ancora presenti in Europa (cosicché oggi esse vengono stimate ad un paio di centinaia soltanto, di cui quasi la metà in Turchia, dove però non ci sarebbero neanche gli aerei attrezzati per trasportarle), riducono la prontezza operativa del sistema (ormai calcolata in termini di... mesi!) sino a renderne pressoché assurdo il mantenimento in essere. Tanto che il nuovo governo tedesco sembrerebbe aver deciso di darci un taglio, e ha inserito nel suo programma la proposta di richiedere il ritiro dal suo territorio degli ultimi ordigni nucleari americani che ancora vi rimangono.
Insomma, l’idea sembra quella di far sparire queste armi dall’Europa “all’inglese”, senza neanche salutare. Il che potrebbe anche andar bene, se però qualcuno trovasse nel frattempo il tempo e il modo di spiegarci cosa avviene della dissuasione alleata e quale sia la nuova dottrina dell’Alleanza per scongiurare ricatti nucleari nei confronti dell’Europa. Questa curiosa storia è rivelatrice dello stato delle relazioni transatlantiche oggi. Dapprima il Presidente Bush aveva cercato di arruolare gli europei in ordine sparso, in appoggio a guerre che ignoravano completamente il quadro multilaterale dell’Alleanza Atlantica. Ora il Presidente Obama rilancia l’importanza del multilaterale, ma sembra avere in mente più le Nazioni Unite o persino la rete dei rapporti con le potenze dell’Asia e del Pacifico, che la vecchia organizzazione transatlantica su cui tanto contano gli europei. Tutto fa pensare che, se vorremo salvare o ancor di più rilanciare il rapporto transatlantico dovremo trovare qualcosa di più che la sola speranza nel nuovo Presidente. Probabilmente dovremmo tentare di accrescere il peso e il ruolo unitario degli europei in campo strategico, così da imporre agli americani la necessità di rivolgere nuovamente la loro attenzione verso l’Europa. Ma questo non sarà né facile né indolore.
Filo-americani a corrente alternata
La seconda ragione, più indiretta, ha a che fare invece con la crescente impopolarità dei governanti europei. In altri termini, gli elettori europei non si meravigliano poi troppo se un capo di stato straniero, come Obama, ha verso i loro governo lo stesso condiscendente scetticismo che manifestano essi stessi, anche se in questo caso la scarsa considerazione americana potrebbe riflettersi negativamente sulla difesa dei loro interessi. Quale che sia la
La sintonia maggiore è con la sensibilità dei Democratici
spiegazione, resta comunque il fatto che il rapporto transatlantico sembra lentamente appannarsi. Persino l’Alleanza Atlantica perde progressivamente di mordente. In Afghanistan, la seconda guerra combattuta dalla Nato dopo quella del Kosovo, la situazione è paradossale e può essere ben descritta da una ironica parafrasi: “Divided We Fight, United We Lose”. La confusione di linguaggi e di iniziative resta altissima, mentre il ruolo politico e militare della Nato viene limitato se non accantonato dalle iniziative
plicemente perché i loro vettori, per lo più americani, ma anche di alcuni paesi alleati europei (tra cui l’Italia) avevano una gittata o un raggio d’azione relativamente modesto, rispetto ai missili intercontinentali. Queste armi erano destinate a garantire la dissuasione nucleare dell’Europa: erano insieme la
garanzia dell’impegno americano e il grilletto di un’eventuale conflitto nucleare, se si fosse giunti a doverne concepire la necessità.
L’importanza di queste armi fu ribadita per l’ultima volta all’inizio degli anni Ottanta dello scorso secolo, quando il dispiegamento da parte sovietica di nuovi missili a media gittata, destinati a minacciare la sola Europa e non anche l’America, fece temere che anche quelle testate “tattiche”non fossero più sufficienti e si decise di rafforzare
flitto. Da un lato la Russia è molto meno minacciosa, anche se continua a mantenere un imponente arsenale nucleare, ma dall’altro vanno crescendo i rischi di una proliferazione nucleare “selvaggia” in Medio Oriente, che potrebbe gravemente minacciare l’Europa (il che del resto era alla base della
decisione di dispiegare un sistema antimissile in Polonia e nella Repubblica Ceca, ed oggi prevede lo stazionamento di alcuni incrociatori antimissile americani nel Mediterraneo: ma, come è noto, la sola difesa è infinitamente meno dissuasiva di una credibile minaccia). Ci si aspetterebbe un grosso dibattito politico e militare su questi temi. Nulla di tutto questo. Nelle discussioni in corso sul nuovo “concetto strategico” della Nato l’argomento è volutamente ignorato. Nel frattempo, in un silenzio
Obama ha un grande carisma, è certamente pieno di buona volontà e sa toccare le corde dell’immaginario dei popoli europei. Ma ciò crea un rapporto di ammirazione e di stima a senso unico, dall’Europa verso Washington, che non sembra essere reciprocato. Non che alla Casa Bianca vi sia una qualche ostilità verso gli europei, neanche questo, ma probabilmente solo un certo grado di indifferenza, alimentato dalla convinzione che comunque gli europei non hanno posti migliori dove andare, e conoscono bene il loro interesse a restare legati agli Stati Uniti. Ma anche questa convinzione potrebbe alla lunga rivelarsi illusoria, se non sarà sostanziata dalle scelte necessarie.
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L’ex segretario Usa alle Nazioni Unite immagina i prossimi tre anni di Obama. Partendo da un altro democratico doc
L’Avatar di Wilson Non crede nell’eccezionalismo Usa, ma si batte per un ordine mondiale in cui il potere sia condiviso. La famosa “pace senza vittoria” invocata dal suo predecessore agli inizi del ‘900. Ma allora non c’erano l’Iran, la Cina, la Corea del Nord, l’Afghanistan… di John R. Bolton ov’è diretta la politica estera di Barack Obama? La risposta deve essere accompagnata da un salutare bagno d’umiltà. Il formulare previsioni sulla politica estera statunitense appare un vero rompicapo con un doppio risvolto, in quanto gli analisti dovranno saper prevedere non solo le azioni degli Stati Uniti, ma anche dei provocatori provenienti da fuori. Nel caso di Barack Obama, un ulteriore avvertimento deve essere preso in considerazione: le preoccupazioni di alto livello che hanno monopolizzato i suoi sforzi all’estero vengono visti dal presidente stesso come poco più che strascichi dell’era Bush, e non di certo come atti caratterizzanti una sua propria politica estera. Tutti i nuovi presidenti vengono frenati nelle loro aspirazioni da irritanti limitazioni, ma Obama appare più contrariato della maggior parte dei suoi predecessori nel doversi sobbarcare un qualsivoglia senso di continuità con il proprio predecessore. La sua critica nei riguardi di Bush continua con la consueta veemenza, quantunque egli non stia procedendo meglio dell’ex inquilino della Casa Bianca su tale impervio terreno.
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Obama non sta cercando di costruire la propria eredità di politica estera alla luce delle dispute che hanno preceduto il suo arrivo alla Casa Bianca. Egli sta lavorando per superarle, per giungere al giorno in cui potrà dare attuazione alla sua agenda relativamente alla politica estera e alla sicurezza nazionale. In sintonia con tale vi-
sione, il miglior modo di prevedere la politica estera di Obama nei prossimi tre anni risiede non in una disamina del modo in cui egli affronterà le difficoltà accumulatesi in Iraq ed Afghanistan, lo stallo nel processo di pace mediorientale e le dispute sui programmi nucleari di Iran e Corea del Nord. Pur essendo delle tematiche assolutamente di prim’ordine, esse costituiscono ciò con cui Obama ha dovuto confrontarsi. Ci si dovrebbe chiedere invece cosa egli tenterà di mettere in piedi quando sarà meno gravato dai problemi ricevuti in dote. A tal proposito, il suo passato fa emergere tre caratteristiche preoccupanti.
In primo luogo, Obama non denota alcun interesse specifico nella politica estera ed in quella di sicurezza nazionale. Non sono questi gli ambiti che hanno forgiato la sua carriera professionale prima e politica poi, non sono queste le tematiche che lo appassionano. Non vi è dubbio sul fatto che le sfide insite nella ridefinizione dei sistemi sanitario, finanziario ed energetico del paese occupino gran parte dei pensieri di Obama. In secondo luogo, il Presidente non concepisce il resto del mondo come una potenziale fonte di pericoli o minacce per l’America. Con i suoi gesti da Presidente, ha fatto intendere chiaramente di non essere intenzionato ad ingaggiare un “conflitto mondiale contro il terrorismo”. A detta di Obama, la crescente influenza di altri paesi, fedi ed ideologie, per quanto sgradevoli, non pone alcuna gravosa
sfida con cui gli Stati Uniti debbano misurarsi. Non viviamo in un’epoca postbellica, una di quelle che un tipo come il fu segretario di Stato Dean Acheson avrebbe dipinto nel suo «Present at the creation». Pertanto, riflette Obama, che motivo c’è di comportarsi in modo reattivo ed antiquato quando vi sono molti altri interessanti e pressanti progetti interni da perseguire? Da ultimo, la visione di Obama è modellata da una corazza di ingenuo internazionalismo, un abito che calza a pennello quando temi quali la sicurezza nazionale non appaiono né eccessivamente pressanti né così importanti. Obama è il primo presidente da Pearl Harbor a fare proprio un ruolo globale per gli Stati Uniti determinatamente condiscendente, un atteggiamento che verte - con una qualche punta di ironia - su una visione essenzialmente neo-isolazionista dell’America.
L’annuncio di Obama, datato primo dicembre, dell’aumento di truppe in Afghanistan non si muove in direzione contraria, poiché il Presidente ha proclamato tra le righe l’inizio di un vero e proprio ritiro. Come l’Iraq, l’Afghanistan costituisce il vero paradigma di quelle questioni avute in eredità che Obama non intende affrontare. I fallimenti incassati nel processo di pace in Medio Oriente e nelle trattative tanto con l’Iran quanto con la Corea del Nord hanno semplicemente generato rassegnazione e disattenzione. In ogni caso, quello di Obama non è certo il tipo di isolazionismo che i nostri nonni ricordano.
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Egli incentra la propria azione politica non sulle virtù dell’America ma sui motivi che fanno di quest’ultima una nazione ordinaria (la qual cosa spiega perché, come ho scritto in un’altra sede, egli sia decisamente “post-americano”). È l’ordinarietà statunitense che dovrebbe dissuadere il paese dall’imporre la propria volontà ad altre nazioni. Obama è il primo presidente in carica a esprimere tale sentimento. Nell’aprile scorso, egli articolò tale visione con assoluta chiarezza. Alla domanda se credesse o meno nell’eccezionalismo americano, il presidente ha affermato: «Credo nell’eccezionalismo americano, così come sospetto che i britannici credano nell’eccezionalismo britannico e i greci credano nell’eccezionalismo greco». In altre parole, “no”. Nello stesso spirito, la sconfinata ingenuità di cui sono intrise le parole pronunciate dal Presidente di fronte all’assise dell’Onu forniscono un’esauriente dimostrazione del patrimonio ereditato da Woodrow Wilson. Lo scorso settembre, nel corso dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite Obama ha affermato: «È in me profondamente radicata la convinzione che nell’anno 2009 - più che in qualsiasi altra epoca nella storia dell’uomo - gli interessi delle nazioni e dei popoli siano condivisi. ... In un’era in cui il nostro destino è comune, il potere non costituisce più un gioco a somma zero. Nessuna nazione può o deve cercare di dominare un’altra nazione. Nessun ordine mondiale che elevi una nazione, un gruppo o un popolo su un altro avrà successo. Nessun equilibrio di potere tra le nazioni reggerà».
Nel 1916, Wilson asserì che «gli interessi di tutte le nazioni sono anche i nostri interessi» ed in seguito invocò una «pace senza vittoria». Disse: «deve esistere non un equilibrio di potere, bensì una comunità di potere; non rivalità organizzate, ma un’organizzata pace comune» fondata sulla «forza morale dell’opinione pubblica mondiale». Se si omettessero le date di questi due diversi discorsi, la maggior parte dei lettori si domanderebbe quale dei due sia stato pronunciato da Obama e quale da Wilson. Attraverso questi prismi l’attenzione di Obama sulle problematiche interne, la sua fiducia nell’assenza di grandi minacce internazionali, e la sua passione per il multilateralismo in sé e per sé - possiamo tentare di immaginare la politica estera del Presidente. Convenientemente per Obama, il portare avanti le
un anno di obama sue priorità comporterà l’impegno in negoziati internazionali in cui l’autorità presidenziale è virtualmente esclusiva. Ciò naturalmente non significa che egli sia in grado di determinare l’esito conclusivo nel caso in cui siano necessari atti congressuali quali una ratifica da parte del Senato; ma Obama ed i suoi negoziatori saranno in grado di imporsi nella definizione degli accordi stessi.
Tre temi politici incombono, ed essi serviranno al presidente come trampolino di lancio per esporre, con varie combinazioni, le tre caratteristiche principali della sua visione mondiale. Il primo tema politico sul tavolo sarà quasi certamente rappresentato dalla riduzione degli armamenti, obiettivo da perseguire mediante limitazioni di budget ed accordi sul controllo della produzione, tanto bilaterali con la Russia quanto multilaterali con altre nazioni. In un periodo di dissolute spese federali, solo al dipartimento per la Difesa vengono imposti tagli di bilancio. Con il piano di stimolo economico che imperversa, Obama si è rifiutato di rinfoltire i ranghi dell’esercito; ha deciso di non incrementare gli approvvigionamenti per la difesa atti ad integrare gli armamenti e gli altri equipaggiamenti divenuti obsoleti in seguito ai conflitti in Iraq ed Afghanistan; e ha frenato i progetti di sviluppo di importanti sistemi militari high-tech. Tali spese (e non solo queste) costituiscono dei nodi centrali per le future capacità di power projection, e tutto ciò avrebbe risvolti essenziali nelle risorse tangibili e nelle opzioni politiche di più ampio respiro, in contrasto con i patetici programmi “a progetto”previsti dall’attuale piano di stimolo. Una simile disparità non rappresenta un caso. Peggio ancora, sia il discorso pronun-
Il neo-isolazionismo di Barack Nucleare, clima e diritti umani: 3 battaglie per indebolire gli Usa ciato dal Presidente a Praga riguardante un mondo libero dalle armi nucleari sia la prima Nuclear Posture Review dal 2001, fermamente voluta dalla Casa Bianca, puntano ad un disarmo nucleare unilaterale da parte statunitense, qualunque sia l’esito dei negoziati internazionali. Il Presidente crede fermamente, nonostante sussistano prove a sostegno della tesi contraria, che
Nucleare, la qual cosa ricalca la proposta del primo ministro britannico Gordon Brown di rinunciare ad uno dei quattro sottomarini armati con testate nucleari del suo paese.
In varie occasioni nel corso del 2009, Obama ed il presidente russo Medvedev hanno annunciato accordi su futuri, drastici tagli agli arsenali nucleari e ai sistemi strategici di lancio di entrambe le nazioni. Obama ha già ridotto unilateralmente gli sforzi statunitensi nel campo della difesa missilistica, e potrebbero aprirsi ulteriori spiragli per il ritorno ad una qualche versione di trattato contro i missili antibalistici. I russi, ovviamente, si dimostrano ben felici di aderire a queste riduzioni. Poiché anche qualora la quotazione internazionale del petrolio dovesse toccare nuovi, esorbitanti picchi, la Russia rimarrebbe incapace di sostenere le proprie forze nucleari, in qualsiasi dove, ad un livello pari a quello statunitense. “Reciproche e bilanciate” riduzioni impegnano così Mosca a raggiun-
Dove andrà la Casa Bianca? Per capirlo non bisogna concentrarsi sull’Afghanistan e l’Iraq, ma guardare alle prime mosse che farà appena sarà meno indebolita dalle guerre una diminuzione prossima allo zero delle capacità nucleari statunitensi indurrà i potenziali proliferatori sparsi per il globo - Iran e Corea del Nord, prendete nota - ad abbandonare i loro rispettivi programmi di proliferazione. Ciò intende Obama quando parla di “rafforzamento” del regime stabilito dal Trattato di Non-proliferazione
gere semplicemente le sue più ottimistiche previsioni sul suo potenziale nucleare e servono essenzialmente a contenere quelle statunitensi. Difatti, i cosiddetti “uguali” livelli svantaggiano severamente e sproporzionatamente gli Stati Uniti, in virtù del nostro obbligo a fornire un ombrello protettivo ai paesi della Nato, al Giappone e ad altri alleati. La Russia non ha invece nessuna comparabile necessità.
A livello multilaterale, Obama si è dimostrato anche più attivo, facendo includere tutti i suoi obiettivi nella risoluzione 1887 del Consiglio di Sicurezza (Obama presiedeva la seduta del Consiglio che l’ha adottata) e convocando un summit globale sulla “sicurezza nucleare” per il 2010. Il presidente ha promesso che gli Stati Uniti procederanno alla ratifica del Trattato di Bando Complessivo dei Test Nucleari (già bocciato dal Senato nel 1999 con voto a maggioranza). Egli si è inoltre solennemente impegnato a riprendere i negoziati su un trattato per la cessazione della produzione di materiale fissile così come su un trattato per la prevenzione alla corsa agli armamenti nello spazio. Obama sostiene la creazione ed il rafforzamento di cosiddette re-
un anno di obama
gioni prive di ordigni nucleari in tutto il mondo e ha chiesto a tutti gli stati che non fanno ancora parte del Trattato di Nonproliferazione di unirsi in qualità di stati non in possesso di armamenti nucleari, la qual cosa implicherebbe che Israele, Pakistan ed India dovrebbero riporre nel cassetto i propri arsenali (scenario difficilmente prospettabile). Infine, il Segretario di Stato Clinton ha promesso un attivo coinvolgimento statunitense nell’abbozzare un trattato per il commercio degli armamenti convenzionali, un velato escamotage per conseguire l’obiettivo di controllare il mercato interno delle armi, misura a lungo bloccata dal normale processo legislativo statunitense.
Tutti questi obiettivi incontreranno forti opposizioni interne, al Senato come in qualsiasi altra sede. Ma vediamo di non commettere errori; Obama sa dove vuole arrivare ed intende lavorare sodo per giungere a destinazione. La seconda preoccupazione di Obama risiede in un accordo internazionale sul surriscaldamento globale. Non è questa la sede per ridiscutere gli effetti di tale processo, ma i più strenui sostenitori della teoria del cambiamento climatico non denotano interesse alcuno in tutto ciò che sia diverso da un approccio statalista di comando e controllo degli andamenti del panorama globale. Gli sforzi di Obama porteranno gli
Usa ancor più compiutamente in tale sfera. La realtà politica nel 2009 può anche aver bocciato la possibilità di un trattato nuovo di zecca per rimpiazzare il Protocollo di Kyoto, ma tale battuta d’arresto non ha affievolito gli entusiasmi multilateralistici di Obama. Gli ambientalisti hanno imputato agli Stati Uniti la colpa per l’assenza di un trattato legalmente vincolante, in quanto il Congresso si è rivelato incapace di dare attuazione
no con ogni probabilità ben più a sinistra del centro di gravità politico americano. Dunque, con in mano un trattato o una qualche altra forma di accordo internazionale, gli attivisti faranno ritorno al Senato per annunciare che il resto del mondo è risoluto nel fare “X” e che l’America non può permettersi il lusso di “isolarsi” assieme alla Somalia, al Myanmar, alla Cina ed altri risoluti oppositori. Così, per ciò che concerne il surriscaldamento globale, Obama concentrerà la propria attenzione su un approccio internazionale per raggiungere i propri obiettivi, magari facendo ricorso ad accordi esecutivi invece di trattati per aggirare il Senato e gli altri ostacoli politici interni. Allo stesso modo, egli accrescerà i propri sforzi per ratificare il trattato sul diritto del mare, salutato dagli ambientalisti come un ulteriore espediente al fine della codificazione di misure per la tutela ambientale. In terzo luogo - sia incoraggiando che perseguendo sin dall’inizio i primi due imperativi della sua politica estera - la “governance globale” ed il “diritto internazionale” diverranno importanti pilastri della strategia di Obama.
Di fronte al Consiglio di Sicurezza Onu, Obama ha affermato: «Il mondo deve rimanere unito. Dobbiamo dimostrare che il diritto internazionale non è una promessa vana, e che i trattati verranno applica-
bale, sempre pronta a condividere le sue forme di controllo burocratico e a risollevare il “deficit democratico” in tutto il mondo. Ora il nuovo presidente europeo si ritrova uno scolaretto estasiato nell’Ufficio Ovale ed accoliti sparpagliati in tutti i settori della politica estera di Washington. Sotto molti aspetti, la rinuncia alla “tortura”negli interrogatori dei terroristi catturati, l’impegno a chiudere la struttura detentiva nella Baia di Guantanamo, ed i processi nei confronti di Khalid Sheikh Mohammed ed altri imputati nei tribunali statunitensi servono per rassicurare sul fatto che «il diritto internazionale non sia una promessa vana».
Questi passi incarnano la decisione, alquanto pericolosa, di discostarsi da un paradigma di deterrenza bellica per approdare ad un paradigma di consolidamento del diritto nell’approccio al terrorismo. Ma non è una coincidenza il fatto che il primo scroscio di applausi nell’Assemblea Generale sia giunto quando Obama ha fatto riferimento alla rinuncia alla “tortura” ed alla chiusura di Guantanamo. Vi è molta più governance globale in cantiere. L’amministrazione Obama ha chiesto ed ottenuto la rielezione nel nuovo Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu, un’agenzia alla cui creazione l’amministrazione Bush nel 2006 si oppose e della quale rifiutò di conseguenza di fare parte. Il nuovo consiglio si è dimostrato tanto antitetico agli interessi statunitensi quanto il suo predecessore, la Commissione per i Diritti Umani, tuttavia il menzionare un’altra inversione di rotta rispetto all’era Bush ha fatto guadagnare ad Obama un ulteriore scroscio di applausi
Il primo presidente post-americano Ha fatto dell’ordinarietà statunitense la sua parola d’ordine al cap-and-trade in questo primo anno di Obamamania. In risposta, il Presidente si farà probabilmente più aggressivo nell’ambito dei negoziati multilaterali al fine di creare un successore di Kyoto malgrado l’inattività congressuale. Così facendo, egli seguirà una strategia oramai comune tra gli esponenti della sinistra, e cioè l’internazionalizzare quei problemi per i quali non si riesce a rinvenire una soluzione sul fronte interno. Ci hanno provato nei decenni passati, con alterne fortune, su più d’una tematica. Tra i tanti, ricordiamo: il controllo delle armi da fuoco, la pena di morte, l’aborto. La strategia consiste nel ricercare un accordo con i leader di altri paesi che condividono le stesse idee ed i cui governi si colloca-
ti».Tali dichiarazioni si armonizzano elegantemente con le opinioni del nuovo presidente dell’Unione Europea, l’ex primo ministro belga Herman Van Rompuy, che nel suo discorso di accettazione del 19 novembre ha chiarito che «Il 2009 rappresenta altresì il primo anno di governance globale, con la fondazione del G-20 nel pieno della crisi finanziaria. La conferenza sul clima di Copenhagen costituisce un ulteriore tassello verso una gestione globale del nostro pianeta». Come il nostro presidente post-americano ben sa, l’Unione Europea rappresenta una continua fonte di idee sulla governance glo-
da parte dell’Assemblea Generale.Vi saranno indubbiamente altri simili applausi nei mesi a venire. Il segretario di Stato Hillary Clinton si è impegnato a ratificare la Convenzione sui Diritti del Bambino, la Convenzione sull’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne e la Conven-
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zione sui Diritti delle Persone Diversamente Abili.
Qualsiasi siano i pro ed i contro di tali accordi, la questione più ampia consiste in quanto “diritto” l’amministrazione Obama sia pronta a ratificare al di fuori del sempre più corposo U.S. Code che già possediamo. Per la sensibilità internazionalista di Obama, il problema, naturalmente, è che le leggi made in Usa redatte da rappresentanti liberamente eletti dal popolo siano troppo “eccezionali” e troppo “campanilistiche” per poter incidere in un mondo talmente interconnesso. Mere leggi “nazionali”, come vengono definite dagli studiosi di diritto internazionale, non superano la “prova globale” di legittimità per la politica estera americana di John Kerry. Il presidente Obama desidera chiaramente risolvere tale problema. L’estate scorsa, nel corso di una sua visita a Nairobi, Hillary Clinton ha sostenuto che costituisse «un grande rimpianto, ma comunque un dato di fatto, il non essere ancora firmatari» dello Statuto di Roma, fondativo della Corte Penale Internazionale. Quindi non vi è stata sorpresa alcuna quando, il 16 novembre, il Dipartimento di Stato ha confermato che gli Stati Uniti avrebbero da quel momento in poi partecipato come osservatori alle sessioni della corte. Lo status di osservatore rappresenta un evidente passo in avanti verso il raggiungimento del malcelato obiettivo dell’attuale amministrazione, una nuova firma dello Statuto di Roma, con successiva ratifica, per diventare così un membro a pieno titolo della corte. Ovviamente, tutti questi ed altri passi comportano implicazioni non solo per gli Stati Uniti, ma anche per alleati a noi vicini quali Israele, un tempo protetti dall’opposizione statunitense. Il piano di Barack Obama per gli Stati Uniti annuncia sventure per l’autonomia, l’autogoverno e la difesa americani, tutti elementi alla base del principio di sovranità nazionale. La sua evidente indifferenza a ripetute diminuzioni di tale sovranità è in tutto e per tutto coerente con le visioni dei suoi ammiratori europei, ai quali, ai loro livelli, piacerebbe vedere i rispettivi stati-nazione fondersi nell’Unione Europea. In ogni caso, gli Stati Uniti sono eccezionali e non confluiranno in un’unione più ampia o globale; diverranno semplicemente meno in grado di proteggere sé stessi ed il loro sistema decisionale per via costituzionale. Questo è esattamente il punto a cui le politiche del nostro primo presidente postamericano ci condurranno.
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La sfida. Le rimesse di chi ha lasciato l’isola valgono 1,2 miliardi di dollari l terremoto potrebbe costare ad Haiti il 15% del suo Pil. La stima l’ha fatta Pamela Cox: vicepresidente della Banca Mondiale per l’America Latina e i Caraibi. E si basa sulla proiezioni degli altri danni che provocarono le quattro tempeste tropicali che si abbatterono sulla regione nel 2008. Tutto sommato, si tratta di una previsione che potrebbe perfino apprire ottomista. Il contesto Paese sta in coda a tutti gli indici di sviluppo e ricchezza dell’Emisfero Occidentale: un Pil che nel 2008 fu di 6,9 miliardi di dollari, e che corrisponde pro capite a poco più di due dollari al giorno; oltre un terzo di analfabeti; un indice di mortalità infantile del 63,83 per 1000; un’aspettativa di vita alla nascita di 57 anni; i due quinti del bilancio pubblico dipendenti dall’aiuto internazionale; un’agricoltura di sussistenza che impiega il 66% della popolazione, ma contribuisce solo al 28% del Pil. Però era anche un Paese che stava crescendo: dell’1 o 2% all’anno; addirittura l’unico Paese della regione a crescere nell’anno di crisi 2009; e comunque in grado di lasciare l’ultimo posto delle classifiche dell’Emisfero Occidentale in favore del penultimo, grazie a uno storico sorpasso sul Nicaragua.
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Nel suo famoso Mistero del capitale, in effetti, Hernando de Soto aveva indicato proprio Haiti come uno dei Paesi dove le sue ricerche avevano mostrato un notevole capitale informale. «Una baracca a Port-au-Prince può essere acquistata per soli 500 dollari», aveva spiegato, «ma le abitazioni di questo tipo sono numerose e, complessivamente, il loro valore sopravanza di molto la ricchezza totale dei ricchi. A Haiti il valore dei patrimoni immobiliari urbani e rurali privi di titoli di proprietà complessivamente ammonta a circa 5,2 miliardi di dollari».Va ricordato che il li-
Il Piano Marshall degli emigrati haitiani Un milione di cittadini all’estero è pronto a inviare denaro. Ma non ci sono più banche di Maurizio Stefanini
Bertrand Aristide e René Préval: assieme a quelle del “banchiere dei poveri” Muhammad Yunus e alle misure di rigore e di privatizzazione dettate da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale. A volte in modo sconclusionato. Le banche cooperative create nel 2000 da Aristide, in particolare, invece di fare microcredito si erano messe a dare interessi del 10%, trasformandosi in piramidi finanziarie ed esplodendo in un botto che ha fatto
Ricostruire la rete creditizia è essenziale per rimettere in moto l’economia del Paese e aiutare la popolazione a ricominciare bro era del 2000. «Per contestualizzare il dato, questa somma è pari a quattro volte il totale di tutte le attività di tutte le imprese legalmente operanti in Hiaiti, nove volte il valore di tutte le attività possedute dallo Stato e 158 volte il valore di tutti gli investimenti esteri diretti registrati nella storia di Haiti fino al 1995». Le ricette dello stesso de Soto erano state diligentemente seguite dai governi pur in teoria populisti di Jean-
svanire 200 milioni di dollari. Ma alla fine un po’ di capitali stranieri avevano incominciato ad arrivare, una catena di hotel aveva appena deciso di investire nell’isola alla vigilia del sisma, e vari imprenditori tessili stavano impiantando maquilladoras alla messicana. I governi haitiani erano anche riusciti a ampliare il già cospicuo numero di donatori, aggiungendo il Venezuela di Chávez e Cuba senza privarsi dell’apporto Usa. Ma come
Acqua e viveri lanciati con il paracadute
Se il cibo arriva dal cielo Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha dato il via libera all’invio di 3.500 caschi blu supplementari ad Haiti, circa 2mila militari e circa 1.500 poliziotti (la cosiddetta forza Minustah). Il Consiglio di Sicurezza ha approvato all’unanimità una risoluzione, la numero 1908, che prevede un impegno complessivo fino a 12.651 uomini (rispetto ai 9.065 attualmente dispiegati) per far fronte alle «terribili circostanze e all’urgente necessità di rispondere» alla tragedia. La Minustah è stata istituita nel 2004, con un impegno iniziale di 6.700 uomini. Attualmente sono circa 9mila (7mila militari e 2 mila poliziotti circa), ai quali vanno aggiunti circa 2 mila civili tra personale locale ed internazionale. La missione era guidata fino a pochi giorni fa dall’alto funzionario dell’Onu Hedi Annabi, un tunisino, morto nel terremoto, insieme con una cinquantina di altri dipendenti delle Nazioni Unite, mentre centinaia di persone mancano ancora all’appel-
lo. Al momento i Caschi Blu sono coordinati da Edmond Mulet, uno dei responsabili del dipartimento per il peacekeeping del Palazzo di Vetro. Intanto, gli aiuti ad Haiti arrivano anche via aerea, in forma di lancio di beni di prima necessità dai velivoli americani. La macchina dei soccorsi Usa è costretta così ad
aggirare la strozzatura dell’aeroporto di Port-au-Prince. Si tratta di circa 14.000 pasti pronti e di circa 15.000 litri di acqua da bere, che sono stati paracadutati da un aereo cargo C-17 su una zona messa in sicurezza dai militari a nordest della capitale haitiana.
sempre gli aiuti avevano i loro aspetti controproducenti. In particolare, il massiccio flusso di riso a basso prezzo o addirittura gratis, che continua a impedire il decollo della risicultura dell’Artibonite: la regione dalle possibilità agricole più promettenti.
Adesso, il segretario dell’Onu Ban Ki-moon ha chiesto alla comunità internazionale di raccogliere 550 milioni di dollari, ma questi potrebbero rappresentare appena un decimo della somma necessaria alla ricostruzione. Qualcuno rievoca dunque già l’idea di un “Piano Marshall”per Haiti. Comunque, diventa cruciale la diaspora: un milione di haitiani sparsi nel mondo, che nel 2008 avevano inviato in patria rimesse pari a 1,2 miliardi di dollari. In particolare, 450mila haitiani negli Stati Uniti, il 40% della diaspora ufficialmente registrata, avevano inviato 756 milioni, pari al 63% del totale: una media pro-capite di 14 invii, da 120 dollari l’uno. 120 dollari, va ricordato, equivalenti a due redditi mensili pro-capite. Un altro 40% della diaspora sta nella più povera Repubblica Dominicana, da cui arriva di meno: 189 milioni, pari al 16%. Si parla di sei rimesse all’anno pro-capite, ognuna da 70 dollari. Ma forse la media vera è più bassa, stando alle stime per cui contando i clandestini nella Repubblica Dominicana ci sarebbero almeno due milioni di haitiani. Il 5% degli emigranti, circa 54mila, sta in Canada, da cui ha spedito circa 130 milioni, l’11%: 12 invii pro-capite da 200 dollari. Dai 30mila haitiani in Francia, il 3%, sono arrivati 73 milioni: il 6%, in 12 invii medi da 200 dollari l’una. Gli altri 15mila haitiani all’estero hanno infine mandato 45 milioni, a una frequenza media di 12 emissioni da 250 dollari l’una. Si tratta del doppio dell’aiuto chiesto dal segretario Onu e dal 17,4% del Pil, anche se con la recessione del 2009 questi invii erano calati del 12%. Specie negli Stati Uniti e in Canada agli invii individuali si aggiungono quelli di associazioni regionali, particolarmente impegnate per progetti in favore delle comunità di origine: almeno 300 nei soli Stati Uniti, per un invio medio di 10mila dollari all’anno ad associazione. Un problema centrale sarà dunque quello di ripristinare l’infrastruttura delle banche, che rappresentano il 40% dei punti di invio. Secondo le stime, almeno un quarto delle famiglie haitiane hanno smesso di ricevere denaro che rappresenta a volte tutto il loro reddito, e sempre una componente importante.
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Dal 22 gennaio verrà sospesa la proiezione del kolossal
L’Ayatollah vuole manifestare a Teheran l’11 febbraio
L’ira di Pechino si abbatte su Google e Avatar
Khamenei chiama a raccolta il popolo contro l’Onda
PECHINO. La battaglia della Cina contro la cultura occidentale ieri ha preso di mira due simboli della nostra epoca: Google e Avatar. Nel primo caso si è dato il via a un vero e proprio botta e risposta tra Pechino e la Silicon Valley: nel giorno in cui il governo cinese intima a Google, menzionandola esplicitamente, di rispettare le leggi e le consuetudini cinesi, il colosso informatico americano annuncia di rinviare, a data da definirsi, il lancio del nuovo telefono cellulare in Cina. «Le aziende straniere in Cina devono rispettare le leggi e le norme cinesi, rispettare le consuetudini e le tradizioni e assumersi le relative responsabilità sociali; naturalmente Google non fa eccezione», ha dichiarato ieri il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Ma Zhaoxu, chiudendo la porta a qualsiasi ipotesi di compromesso. Poco dopo ecco il portavoce di Google a Pechino, Marsha Wang, precisare che il lancio del cellulare, previsto per oggi, è stato posticipato a data da definire.
TEHERAN. La Guida suprema iraniana, ayatollah Ali Khamenei, ha chiesto ieri al popolo iraniano di partecipare «con tutta la sua forza e saggiamente» alle manifestazioni per l’anniversario della rivoluzione, l’11 febbraio, per sconfiggere i complotti del «nemico che cerca di creare instabilita». Un appello lanciato mentre tra l’opposizione circola l’ipotesi di tornare a scendere in piazza proprio in quella occasione, dopo le manifestazioni del 27 dicembre scorso. Khamenei, in un discorso citato dalla televisione di Stato, ha anche affermato che tutti i personaggi di primo piano della Repubblica islamica «devono prendere una posizione trasparente ed evitare le ambiguita, perché di questo c’e’ bisogno nei momenti di sedizione».
Riguardo al kolossal fantascientifico di James Cameron, invece, Pechino ha deciso di bloccare le proiezioni di Avatar nonostante il grande successo di pubblico. In realtà verrà sospesa solo la versione“normale”a partire dal 22 gennaio. Ma siccome le sale attrezzate per il tridimensionale
Ue, lascia la commissaria bulgara Rumiana Jeleva Il Ppe: «È la vittima di una piccola guerra politica» di Sergio Cantone
BRUXELLES. Per Rumiana Jeleva, commissaria europa bulgara designata, la partita è ormai chiusa. Ha dovuto gettare la spugna ieri dopo una settimana di tensione per la sua supposta «incapacità a svolgere il ruolo di commissaria agli aiuti umanitari». Socialisti europei, Verdi, Liberali e Comunisti l’hanno spuntata quindi, costringendo la Jeleva ad abbandonare e a dimettersi dal ruolo di ministro degli Esteri del suo Paese. Anche se il premier bulgaro Borissov, dopo un primo tentennamento (a Sofia si è consumato un piccolo giallo, al riguardo, perché sembrava aver accolto la richiesta della Jeleva) sembra avereormai definitivamente respinto la richiesta delle sue dimissioni in patria. In ogni caso, però, si tratta di una decisione maturata tra Sofia e Bruxelles. Si è voluto infatti evitare alla commissione europea di andare al voto dell’eurocamera, rischiando la sfiducia. Secondo I regolamenti del parlamento Ue, non è infatti possibile la sfiducia individuale, ma solo quella collegiale, contro l’intera commissione quindi. Ma il suo “licenziamento” è uno smacco anche per il Partito popolare europeo, gruppo di riferimento di Rumiana Jeleva, di cui è stata eletta vice-presidente, assieme ad Antonio Tajani e ad altri lo scorso dicembre a Bonn. Nei giorni passati il Ppe aveva creato una barriera attorno alla candidata di Sofia, respingendo tutte le accuse di “conflitto di interessi” che le erano state rivolte e bollandole come “caccia alle streghe”. Messa all’indice per essere stata proprietaria, fino a poco tempo fa, di una società di consulenza per le privatizzazioni in Bulgaria, la Global Consult Ltd, Jeleva è stata scagionata dai servizi giuridici del parlamento.
moglie, formazione conservatrice guidata da dall’attuale primo ministro bulgaro Boyko Borisov, ex guardia del corpo di politici di primo piano in Bulgaria. Ma i suoi oppositori affermano che all’audizione di martedí scorso, Rumiana Jeleva, si sia dimostrata «incompetente e non adatta al ruolo». Le stesse accuse sono state fatte da eurodeputati e giornalisti ad altri candidati e candidate, come ad esempio la britannica Catherine Ashton, alto rappresentante per la Politica Estera, l’olandese Neelie Kroes, commissaria designata alle Telecomunicazioni ed uscente per la Concorrenza, assieme a un paio d’altri. Jeleva se ne va con una lettera puntando l’indice contro il gioco scorretto di Eva Joly, la verde ex magistrata franco-norvegese, presidente della commissione sviluppo.
La deputata ecologista ha dato la parola a un’avversaria diretta di Jeleva, la liberale bulgara Antonja Parvanova, nonostante non avesse diritto alla parola perché non è della membro commissione competente per l’audizione sugli aiuti umanitari. Ma aveva I suoi dossier pronti da un bel po’, almeno dal giorno in cui José-Manuel Barroso ha presentato i nomi dei ventisei commissari tra cui quello di Jeleva. È un po’ una vendetta balcanica perché Parvanova è amica e collega di partito (quello liberale) di Meglena Kuneva, la commissaria bulgara uscente che tanto avrebbe voluto essere riconfermata per il secondo mandato. Lo stesso Barroso avrebbe preferito quest’ultima soluzione, ma i governi preferiscono sempre presentare i candidati del loro colore. Con la stilettata di Antonja Parvanova, la ormai commissaria mai nata ha perso il controllo della situazione. Il governo bulgaro ha indicato una nuova candidata, è Kristalina Georgieva, vice-presidente della Banca mondiale. La sua nomina costringerà la nuova commissione europea a entrare solo dopo il 9 di febbraio, data prevista per il voto parlamentare, al posto del 26 di gennaio.
Con il suo “siluramento” si è voluto evitare alla Commissione Ue di andare al voto dell’Eurocamera rischiando la sfiducia
in Cina sono pochissime, la decisione equivale al ritiro dalla circolazione del film. In alcuni commenti affidati ad Internet la decisione viene spiegata con la necessità di «fare spazio» al film «patriottico» su Confucio, prodotto ad Hong Kong, che sarà nelle sale a partire dal 23 gennaio, e agli altri film cinesi, schiacciati dal successo di «Avatar». Altri affermano che le autorità avrebbero visto nel film pericolosi riferimenti alla situazione delle minoranze etniche della Cina, come i tibetani e gli uighuri. Secondo l’ Apple Daily di Hong Kong, la decisione sarebbe «politica» e l’ordine di bloccare il film sarebbe venuto direttamente dal Dipartimento Centrale di Propaganda del Partito Comunista Cinese.
La sua leggenda nera poggia su molti sospetti e (finora) zero prove, come quella sul marito Kasimir Jelev, indicato come uomo d’affari vicino alla criminalità organizzata bulgara. Jelev è un banchiere che ha “dato una mano” alla creazione di Gerb, il partito di suo
La Guida suprema non ha detto a chi si riferiva, ma ha sottolineato che il suo messaggio è rivolto in particolare alle “figure influenti” del regime. Potrebbe quindi trattarsi dell’ex presidente pragmatico Akbar Hashemi Rafsanjani, che negli ultimi mesi ha criticato la repressione delle proteste di piazza, ma evitando di prendere apertamente posizione per i leader dell’opposizione.
«Coloro che fanno parte del sistema - ha avvertito Khamenei devono chiarire qual è la loro posizione e se la manterranno di fronte al nemico oppure no». Da parte sua, però, l’ex presidente riformista, Mohammad Khatami, ha difeso il diritto dell’opposizione a manifestare pacificamente, accusando esponenti del governo di «dire menzogne». Khatami, scrive oggi il suo sito, Baran, ha fatto queste affermazioni ricevendo alcuni oppositori arrestati nelle proteste dei mesi scorsi e poi rilasciati. Altre centinaia di manifestanti ed esponenti riformisti sono stati arrestati nei raduni di protesta del 27 dicembre e nei giorni seguenti e cinque di loro sono comparsi ieri davanti alla Corte rivoluzionaria di Teheran per rispondere dell’accusa di Mohareber, cioè la guerra contro Dio. Un’imputazione che può portare alla condanna a morte.
cultura
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Mostre. Costruiti per le “cerimonie del Possesso” dei Pontefici, si pensava fossero andati persi per sempre. Oggi sono esposti al Museo Ebraico della Capitale
Il Tempio dei fregi perduti Riaffiorano dalla Sinagoga di Roma 14 pannelli realizzati dalla Comunità ebraica tra la fine del 600 e la fine del 700 di Olga Melasecchi * el cuore di Roma, fra Trastevere e il Campidoglio, al di sotto della Sinagoga, in un luogo nascosto e misterioso, è conservato il tesoro della Comunità ebraica romana, la più antica comunità ebraica europea. Nei sotterranei del Tempio, costruito nel 1904 in sostituzione del complesso templare delle Cinque Scole, su cui gravava ancora il ricordo infamante della ghettizzazione degli ebrei nella Roma preu-
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nitaria, sono custoditi i preziosi arredi di quelle distrutte cinque sinagoghe, e che ora costituiscono il nucleo principale della collezione del Museo di questa antica comunità.
In occasione della visita di Papa Benedetto XVI alla Sinagoga, avvenuta il 17 gennaio, il Museo Ebraico di Roma ha voluto festeggiare la presenza del pontefice tra le mura del Tempio, ritorno simbolico alla fede antica, alle radici profonde della Buona Novella, incastonando tra gli splendidi oggetti della collezione permanente, un gioiello raro e prezioso. Non si tratta di un materiale nobile e adamantino, non è oro, né argento, che pur brilla dai tessuti ricamati e dalle ricercate suppellettili che sono ora conservate ed esposte nelle sale del Museo, ma della più umile, fragile e deperibile carta, scritta e decorata dagli ebrei romani nel Settecento in onore dei pontefici. Con grande emozione Daniela Di Castro, direttrice del Museo, alcuni mesi fa mi aveva comunicato di avere riconosciuto in 14 pannelli cartacei riemersi nell’Archivio Storico della Comunità durante il consueto lavoro di spoglio e catalogazione, gli unici apparati effimeri realizzati dagli ebrei romani in occasione dei Possessi pontifici. Si conosceva dalle fonti
storiche la partecipazione degli ebrei romani alla fastosa cerimonia del Possesso, con la quale il papa, pochi giorni o alcuni mesi dopo l’elezione, sanciva la salita al soglio di Pietro con la presa di possesso della Basilica di S. Giovanni in Laterano, la chiesa episcopale romana. A partire dal Medioevo, e rinnovando un antico rito romano, il pontefice a capo di un lungo corteo formato da nobili romani e dignitari della Chiesa partiva a ca-
vallo dalla sua residenza, il Vaticano, e, nel corso del Settecento, il Quirinale, e attraversando Roma, arrivava al Laterano. «Come sovrano temporale, cavalcando al centro di una sfarzosa processione attraverso la Roma antica e monumentale», spiega la Di Castro nel suo saggio in catalogo edito da Araldo De Luca Editore, «prendeva possesso della città, in un rito augurale e di passaggio nel quale la storia di Roma e dei suoi antichi fasti si conciliava con quella della cristianità, con particolare riferimento a Costantino che aveva eretto le due basiliche collegate dalla processione. Durante il Medio Evo la presa di possesso della città da parte del pontefice, Vicario di Cristo, veniva assimilata all’entrata di Gesù in Gerusalemme; inoltre il percorso della processione, che in quel periodo si
connotava anche come un rito a tratti violento e a volte cruento di assunzione del potere, era irto di pericoli, perché le fazioni rivali tentavano di bloccare il pontefice con l’intento di rendere invalida la sua ascesa al soglio. Con il Rinascimento la cerimonia si delineò anche come rinnovamento in senso cristiano dei trionfi degli imperatori romani, mentre in età barocca e nel Settecento a questa connotazione si aggiunsero elementi sempre più sfarzosi, con grande impiego di “apparati effimeri”, elementi di legno, cartapesta, cartone ed altri materiali poveri, concepiti per durare solo il tempo della cerimonia, ma che consentivano di ricostruire o decorare facciate di edifici, archi trionfali e ogni sorta di scenografia, con un effetto di grande magnificenza dovuto anche al fatto che spesso queste decorazioni erano opera di insigni architetti e artisti. Con l’Ottocento il rito si svuotò sempre di più dei suoi connotati di fasto, e venne radicalmente semplificato divenendo un percorso da compiere rapidamente, e quasi privatamente, non più a cavallo ma in carrozza». Tutti i dignitari e i cittadini di rilievo erano fieri di avere una parte nella cerimonia, all’interno del corteo papale, oppure lungo il percorso, dove alla nobiltà, le corporazioni e altre associazioni veniva affidato l’onore e l’onere di allestire archi trionfali e altri apparati effimeri per la celebrazione di questo evento straordinario. Anche la venerabile Universitas Hebraeorum, così si chiamava allora la Comunità Ebraica, aveva un ruolo nel cerimoniale, con diverse modalità a seconda dei periodi. Nella seconda metà del Seicento e per tutto il Settecento fu loro assegnata stabilmen-
te la porzione del percorso compresa fra l’Arco di Tito e il Colosseo: due monumenti, per gli ebrei romani, densi di ricordi e di significati simbolici. L’Università degli Ebrei doveva addobbare la via con arazzi e tessuti preziosi, che facevano da sfondo a grandi tabelle decorate con figure simboliche e motti, in ebraico e in latino, inneggianti al pontefice.
Si pensava che questi apparati effimeri, che erano di carta e concepiti per durare solo per la cerimonia, fossero andati perduti. E invece i 14 pannelli ritrovati nell’Archivio sono esattamente ciò che rimane dei circa 800 realizzati dalla Comunità ebraica tra la fine del Seicento e la fine del Settecento, per i diversi pontefici eletti in quel giro di anni. In particolare i primi quattro sono relativi al pontificato di Clemente XII Corsini (1730), uno a quello di Benedetto XIV Lambertini (1740), altri quattro sono da riferire a quello di Clemente XIII Rezzonico (1758), tre a quello di Clemente XIV GanIn queste pagine, alcuni degli apparati effimeri realizzati dalla Comunità ebraica di Roma, tra la fine del 600 e la fine del 700, in occasione della cerimonia del Possesso dei diversi Pontefici. Oggi i fregi sono esposti al Museo Ebraico della Capitale
cultura
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Il 17, a Montecitorio, Napolitano, Fini e il Premio Nobel Wiesel
Shoah, è il ricordo che rende liberi
Attese solenni celebrazioni da Roma a Milano, a 10 anni dall’istituzione del Giorno della Memoria di Gabriella Mecucci dieci anni dall’approvazione della legge che istituì il Giorno della Memoria, nel luglio del 2000, è tempo dei primi bilanci. Il Parlamento scelse per ricordare la Shoah il 27 gennaio, quando l’Armata Rossa, che si dirigeva verso Berlino, entrò ad Auschwitz e scopri l’abominio che si era consumato in quel campo. Basta scorrere il numero impressionante di iniziative, pubblicato nel sito dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, per capire che la legge ha stimolato una vastissima attività, che ha prima di tutto coinvolto le scuole e le università, ma che nel tempo si è andata diversificando.
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Quest’anno il decennale della Giornata delle Memoria verrà celebrato in modo solenne a Montecitorio alla presenza del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, e del Presidente della Camera Gianfranco Fini. Con loro ci sarà il premio Nobel per la pace Eliezer Wiesel, ebreo-romeno che ha raccontato la sua terribile esperienza ad Auschwitz nella stessa baracca di Primo Levi, in un libro commovente e bellissimo, La Notte, e il presidente delle Comunità italiane Renzo Gattenga. Ma a Roma si potrà visitare una mostra sulla Shoah al Vittoriano e una della nipote di Albert Einstein. L’iniziativa forse più toccante sarà quella che si svolgerà in Sinagoga, dove il rabbino capo Riccardo Di Segni e il presidente della Comunità Riccardo Pacifici intervisteranno i superstiti dei campi di sterminio. Sarà un lungo racconto di dolore, ma anche della capacità dell’uomo di resistere: l’espressione più alta della sofferenza e dell’essenza umana. La memoria dei protagonisti di questa tragedia, che da una parte costituisce un unicum, e dall’altra è il punto estremo dell’odio, del tentativo di annientare l’altro da sé, colui che viene identificato come nemico per quello che è e non per quello che fa, trasforma in vita vissuta, in quotidiano il male assoluto. Un’esperienza sconvolgente. E poi ci saranno gli spettacoli teatrali, le rassegne cinematografiche, il dibattito sui nuovi libri, usciti nell’ultimo anno, che raccontano la Shoah. A Milano La storica Liliana Picciotto e il direttore del Corriere della Sera Fer-
ruccio De Bortoli presenteranno il saggio L’alba ci colse come un tradimento. Gli ebrei nel campo di Fossoli. E anche qui come a Torino, come a Genova l’agenda è piena di iniziative. Proprio ieri il Corriere della Sera ne raccontava una che si potrà rintracciare su internet: si tratta dell’ossario digitale dei bimbi ebrei, che da ieri mattina si può trovare online, messo in rete dal Cedec, il centro di documentazione ebraica. Le foto dei 288 bambini, che vennero rastrellati nel ghetto di Roma, in quel terribile sabato dell’ottobre del 1943. Dei 288 solo uno sopravvisse alla deportazione nei campi di sterminio. Vennero uccisi subito dopo essere arrivati ad Auschwitz, entro la prima giornata. Complessivamente vennero strappati alle loro case 1.023 ebrei e vi tornarono in 17. Adesso i volti di quei bimbi, accompagnati dai loro papà e dalle loro mamme, ritornano fra noi, con i sorrisi ingenui o con le espressioni un po’ corrucciate: a loro è stata negata la vita, a noi viene restituito attraverso internet il ricordo.
Una toccante iniziativa si svolgerà in Sinagoga, dove Di Segni e Pacifici intervisteranno i superstiti dei campi di sterminio
ganelli (1769) e gli ultimi due al pontificato di Pio VI Braschi (1775). Dai documenti manoscritti identificati e trascritti in catalogo da Serena Di Nepi, conosciamo in alcuni casi i nomi dei calligrafi, ebrei e non ebrei, e degli artisti coinvolti nella realizzazione degli emblemi, per forza di cose non ebrei, in quanto a essi era vietato l’ingresso nelle scuole di pittura, nelle Accademie d’Arte. Il livello qualitativo è oscillante, più raffinato nel caso degli emblemi per papa Corsini, più ingenuo in quelli realizzati per Clemente XIII. In essi compaiono figure umane, animali e oggetti di ogni genere. Le fonti iconografiche erano quelle considerate normative dalla trattatistica del tempo come gli antichi testi rinascimentali e barocchi sugli emblemi e diverse sono le iconografie note e identificabili come il pellicano che si svena per nutrire i figli, noto simbolo cristologico o il carro di Apollo preceduto dall’Aurora, che riprende esattamente l’Aurora di Guido Reni al Casino Rospigliosi. In un altro una giovane donna inneggia a papa Cor-
sini dicendo «nel cor s’inalza la letizia mia», mentre su altri compaiono api e aquile, una Minerva sul carro trainato da civette, arcobaleni e colonne, scogli come cristalli di rocca in un mare in tempesta, e addirittura una corsia d’ospedale dove i malati si alzano dal letto risanati dal suono di una cetra. Il tutto accompagnato da citazioni delle Scritture: Pentateuco, Profeti, Salmi, calligrafate in ebraico fiorito con traduzione latina.
La cura dedicata a queste decorazioni dagli ebrei di Roma, cittadini romani a tutti gli effetti, ma privati della libertà e di molti privilegi proprio da quella autorità alla quale venivano rivolti tali omaggi, ci incanta e ci sorprende, incapaci come siano, uomini di un tempo che a fatica riconosce il sacro e l’autorità, di immaginare quali fossero i reali rapporti tra queste due realtà. Formalmente lontani, ma in sostanza molto vicini, erano in fondo tutti figli di Roma. * Conservatore del Museo Ebraico di Roma
Il Presidente dell’Unione delle comunità ebraiche Renzo Gattenga, per parlare di Shoah usa una lunga citazione di Hannah Arendt: «Il male può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. È una sfida al pensiero perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento in cui s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il bene ha profondità e può essere radicale». Lucida e penetrante più di sempre la filosofa. Ma la Memoria si nutre di tutto: di riflessioni straordinarie, di libri di storia, ma anche di racconti, di vita vissuta. Per questo il giorno della Memoria, dopo dieci anni, non invecchia e non diventa nemmeno per un attimo solo celebrazione fine a se stessa. «Occorre fornire alle nuove generazioni – osserva Renzo Gattenga – gli strumenti, anche empirici, per riflettere su cosa l’umanità è in grado di fare perché non accada mai più. Questo è il senso più vero del giorno della Memoria ed è un bene prezioso per tutti».
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da ”Al-Ahram weekly” del 20/01/10
Vincono i duri della Fratellanza di Gamal Essam El-Din Fratelli musulmani potrebbero avere già scelto una nuova guida suprema. Si tratterebbe di Mohamed Badei. La voce circolava già da sabato e fonti bene informate affermano che il vecchio leader, Mahdi Akef, aveva terminato il suo mandato a capo del movimento fuorilegge del radicalismo islamico.Tre membri dell’ala più conservatrice del gruppo – Moahmed Badei, Rashad El–Bayoumi e Gomaa Amin – erano in lizza. Le fonti di Al Ahram (Le Piramidi, ndr) sostengono che sia stato Badei a spuntarla nella competizione, avendo guadagnato ben 66 voti sui cento componenti del consiglio della Shura. La sua vittoria apparentemente netta è stata però compromessa dall’appoggio ricevuto da El–Bayoumi dalla sezione estera dei Fratelli. Akef e Badei sono amici di lunga data. Entrambi sono discepoli del teorico del movimento Sayed Qotb, il fondatore dello jihadismo che voleva il ritorno del califfato e che fu condannato a morte nel 1965. Badei che ha 67 anni, è membro permanente dell’esecutivo dei Fratelli dal 1993. È professore associato di Patologia nella facoltà di Veterinaria dell’Università Sweif del Cairo. Arrestato nel 1965 fu condannato a 15 anni di carcere e rilasciato nel 1974, come risultato di una trattativa tra il movimento e l’allora presidente Anwar El-Sadat. Membri dei Fratelli sostengono che Badei, entrato in carica sabato, dovrebbe tenere il primo incontro del direttivo del movimento mercoledì. Nella riunione si dovrebbero decidere i nomi dei due vice che affiancheranno Badei nel suo lavoro. Uno di questi sarà sicuramente Khairat El-Shater, già vice di Akef, passato anche lui dalla scuola delle carceri. Mentre Bayoumi è il candidato più probabile per diventare il primo vice del nuovo leader della Fratellanza musulmana. Oggi professore di geologia alla Cairo University, Bayoumi fu
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arrestato nel 1954 in seguito alla scoperta di un complotto che i Fratelli avevano ordito per assassinare il presidente Nasser. È membro dell’esecutivo del movimento dal 1995. Gomaa Amin è invece lo storico del gruppo. Sempre fonti vicine ai radicali musulmani segnalano che l’attuale segretario generale, Mahmoud Ezzat, di 66 anni, verrà confermato nell’incarico che mantiene da oltre 15 anni. Anche lui un medico, appartiene all’ala dura dei Fratelli che proprio il mese scorso tentò di rovesciare l’ala interna riformista. Molti analisti sono concordi nell’affermare che l’ellezione di Badei che appartiene e anche lui come Ezzat all’oltranzismo islamico sarà l’ultimo chiodo infisso sulla bara dei riformisti in seno alla Fratellanza.
La loro politica mirava far rientrare leggitimamente il movimento nell’agone politico. Già a dicembre era stato eletto un nuovo consiglio della Shura: tutti membri conservatori. Non senza aver sollevato diatribe e critiche interne. Come quella del primo vice di Akef, Moahmed Habib che era arrivato ad accusare il suo leader di aver manipolato le regole elettive interne al movimento. Non sarebbero state permesse le consultazioni con tutti i leader locali. Motivo per cui lo stesso Habib avrebbe rassegnato le dimissioni a fine dicembre. Insomma le manovre dell’ala dura per prendere il controllo del movimento non si sono mai fermate e sono giunte a cogliere un obiettivo. L’accusa di Habib, che si è sentito esautorato dalle sue prerogative di arbitro, sarebbe quella che Akef avrebbe fatto «una selezione dei candidati piuttosto che una elezione». Da lì è nata una querelle che avrebbe coinvolto anche il consigliere legale del movimento, Fathi Lashin. Così ora la Fratellanza
musulmana, nata 82 anni fa, sarebbe completamente controllata dai falchi del movimento. Hussein Abdel Razek, membro del partito di sinistra Tagammu, sottolinea come il dominio dei «Qotibisti» (conservatori, ndr) rappresenta un passo indietro per tutta la vita politica egiziana, visto che tireranno fuori – ancora una volta – «le loro idee sul califfato e cercando di diventare l’unico riferimento del mondo islamico nel Paese». «Molti sarebbero disposti a dare più spazio ai Fratelli nel tentativo di condurli sulla strada di un confronto democratico – afferma Razek – ma ora, col dominio dei conservatori, non c’è alcuna speranza di veder nascere in Egitto un partito islamico come l’Akp in Turchia».
L’IMMAGINE
Il Corpo dei vigili del fuoco è una carcassa che viene spolpata dagli avvoltoi di turno Circa due anni fa la Rdb pubblico impiego dei vigili del fuoco aveva chiesto al governo il transito del dipartimento al ministero dell’Ambiente, in virtù del fatto che, con le sue attività di tutela dell’ambiente e del patrimonio nazionale e le sue strutture sparse su tutto territorio, il Corpo aveva maggiore attinenza con le funzioni svolte da tale dicastero. Il governo ha “superato” tale proposta, e ha stabilito l’istituzione di un ispettorato con commissari straordinari presso il ministero dell’Ambiente, al fine di attuare «interventi urgenti in situazioni di rischio idrogeologico e salvaguardare la sicurezza delle infrastrutture e il patrimonio ambientale e culturale». La RdB si domanda se il Corpo nazionale dei vigili del fuoco sia diventato una sorta di carcassa che ogni giorno può essere spolpata da parte degli avvoltoi di turno.
Jiritano Antonio
INFLAZIONE ALL’0,8%, MA NON È UN BUON SEGNO L’inflazione è scesa allo 0,8% e cioè al minimo storico di 50 anni fa. Non mi pare che sia un buon segno. E infatti, a differenza di allora, quando il Paese era in ripresa dopo i disastri della guerra, noi siamo in piena recessione, per cui non dovremmo registrare un’inflazione nemmeno minima. E ciò perché essa rende più drammatica la situazione dei licenziati, di coloro in cerca di primo lavoro e di tutti quelli che vivono a reddito fisso.
Luigi Celebre
I ”BENEMERITI” CITTADINI Una cosa che non mi è mai capitato di leggere è quella dei nomi degli evasori che vengono scovati dagli accertamenti della Guardia di finanza e dell’Agenzia del-
le Entrate. Anche per i rientri dei capitali dai paradisi fiscali, sarebbe opportuno pubblicare i nomi di questi “benemeriti” cittadini, che hanno contribuito ad aggravare la situazione finanziaria del nostro Paese. Non vorremmo correre il rischio di trovarceli come candidati, di votarli e di farci amministrare da loro.
Gino Milazzo
Canyon col buco Non tutti i canyon riescono col buco... Il Blyde River Canyon invece è un vero colabrodo! Tutta colpa della corrente che si fa più intensa quando il fiume Blyde incontra il fiume Treur. Le potenti rapide che si scatenano da questo connubio, infatti, hanno scavato per secoli la roccia arenaria, formando questi giganteschi buchi
TURISMO CULTURALE Come al tempo di Goethe, torna il turismo culturale tedesco. Il 2009 è stato l’anno del 150° anniversario dell’epica impresa dei Mille. A ricordarsene per primi sono stati gli intellettuali tedeschi, mentre tra di noi c’è chi si trastulla in un’inutile e falsa rilettura storica. Da un progetto maturato dalla collaborazione tra il giornalista e storico Peter Amman di Monaco e l’ar-
cheologo Thilo Fitzner,pastore evangelico e rettore dell’accademia di Bad Boll, è nato il viaggiostudio di un numeroso gruppo di intellettuali tedeschi, che da Marsala, percorrendo le tappe più importanti, hanno raggiunto Roma. Quello del turismo culturale è un filone turistico troppo trascurato e, in ogni caso, poco valorizzato da una parte della classe politica,
troppo distratta dal quotidiano e dall’effimero.
L.C.
PROCESSO BREVE L’annunciato e previsto maxiemendamento da parte del Governo conferma la bont delle pregiudiziali di incostituzionalit che abbiamo presentato. L’ eliminazione della lista dei reati e dei recidivi ai
quali, nell’impostazione originaria della proposta di legge, non si applicava la disciplina sul processo breve, va nella direzione indicata dai nostri emendamenti e dalle nostre pregiudiziali, rendendo questo provvedimento legislativo un po’ pi aderente ai parametri costituzionali e ai principi del nostro ordinamento giuridico.
Donatella e Marco
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Che strano effetto mi ha fatto!
LA POLITICA DEL SILENZIO (II PARTE) Non si può continuare a vivere in una situazione in cui solo dopo ogni emergenza si trovano delle soluzioni tampone, Rosarno docet. È necessario costruire politiche migratorie inclusive, in proporzione alle capacità di recepimento di una determinata area o territorio. C’è bisogno, dunque, di maggiore fermezza nella gestione dei flussi migratori e che gli stessi non cadano nelle mani della criminalità organizzata. Tutto questo è possibile perché la forza statuale ha dimostrato che, quando vuole, le problematiche seppur incancrenite - spesso trova le giuste soluzioni, con una naturale allocazione sociale ed economica. I limiti dell’azione di governo in Italia, dal più piccolo comune al più grande, sono date da una estrema farraginosità della macchina amministrativa, che andrebbe snellita nelle procedure e nella eccessiva litigiosità tra maggioranze e minoranze, dettate a mio avviso, dalla mancanza di strumenti di controllo che il legislatore ha tolto nel corso degli anni dalle mani delle opposizioni, per costruire un normale e naturale controllo democratico sugli
Le tre cose belle che Dio abbia fatto sono il mare, l’Amleto, e il Don Giovanni di Mozart. Non irritarti ancora una volta per queste cose. Poiché questo tuo rimprovero, proprio tuo, non è vero. Può nascere in un momento d’irritazione nervosa ma non deve essere permanente in fondo al tuo cuore. Du Camp è sempre nei boschi dove va a cavallo e caccia il cinghiale. Aspetto una sua lettera che me ne annunci il ritorno. Il viaggio a Dieppe è svanito, grazie a Dio. Ma quasi ogni giorno si fanno passeggiate nei dintorni. Tre giorni fa abbiamo incontrato un gruppo in cui si trovavano due signore, una delle quali aveva un cappello di paglia simile al tuo. Non potresti credere che strano effetto mi ha fatto. Ma il viso non era simile al tuo! Prenderò con me il libricino di Mantes. Lo rileggeremo insieme. Ti amo tanto per tutto questo amore e per tutto questo talento che metti ai miei piedi. Che cosa ho mai fatto per meritare tante ricchezze? Mai nessuno mi darà tutto quello che mi dai tu. Nella tua forza dovresti essere sicura che un’altra non potrà mai raggiungere la potenza che hai tu. Non ti parlo più di quella degna Mme Foucaud poiché è un soggetto che ti addolora. Farai che che vorrai. Gustave Flaubert a Louise Colet
ACCADDE OGGI
PD AMBIGUO E TRASFORMISTA. INTERVENGA BERSANI L’Italia dei Valori è un partito corretto, ma pretende altrettanta correttezza dai propri alleati. Come al solito, la Sicilia viene utilizzata come laboratorio politico per sperimentare nuove alleanze, nel segno del più becero trasformismo. Il Lombardo ter è frutto di accordi sotto banco e di alchimie inimmaginabili al momento delle elezioni, grazie alle quali il partito di Bersani si è portato al governo della regione, senza alcuna legittimazione. Le elezioni hanno uno scopo ben preciso e l’unica maggioranza legittimata a governare è soltanto quella che esce vittoriosa dalle urne. È inammissibile, quindi, che un partito, al quale gli elettori avevano assegnato un ruolo di opposizione, oggi governi insieme ai propri avversari politici. L’Idv non è più disponibile ad assistere inerte a questi comportamenti che di ambiguo, ormai, hanno ben poco. Se questa è la rotta che il Pd vuole mantenere in futuro, invito l’on. Bersani a dichiararsi apertamente, altrimenti voglia intervenire per porre fine a questa incresciosa vicenda, assumendosi l’obbligo morale di ritornare alle urne.
Lettera firmata
NON IDONEE LE MISURE DECISE SUGLI SPAZI PER GLI ANIMALI DA CIRCO Spesso, quando si pensa agli animali al circo, si crede che l’unico grande motivo di sofferenza per loro sia l’addestramento e il compiere umilianti e innaturali esercizi. Bisognerebbe invece anche soffermarsi sul fatto che,
e di cronach di Ferdinando Adornato
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20 gennaio 1949 Harry S.Truman viene re-investito come 33° presidente degli Usa 1952 Edgar Faure diventa primo ministro di Francia 1953 Dwight D. Eisenhower diventa il 34° presidente degli Stati Uniti 1954 Viene fondata la National Negro Network, composta da 40 stazioni radiofoniche 1958 Elvis Presley riceve la cartolina di leva 1961 John F. Kennedy diventa ufficialmente il 35° presidente degli Stati Uniti 1964 Viene pubblicato Meet the Beatles, il primo album dei Beatles uscito negli Usa 1969 Viene scoperta la prima pulsar, nella Nebulosa del Granchio 1975 Michael Ovitz fonda la Creative artists agency 1977 Jimmy Carter diventa il 39° presidente 1981 Ronald W. Reagan diventa il 40° presidente degli Stati Uniti 1986 Regno Unito e Francia annunciano i piani per la costruzione del tunnel della Manica 1989 George H. W. Bush diventa il 41° presidente Usa
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
quando gli animali non sono in pista né per lo spettacolo né per essere addestrati, restano dei veri e propri prigionieri. Gli spazi a loro destinati sono ridottissimi, rispetto a quelli di cui necessiterebbero. Inoltre non si può pensare che, anche gli animali nati in cattività, possano annullare i propri istinti e si trovino a loro agio in ambienti completamente diversi da quelli che gli apparterrebbero in natura. Nessun essere vivente nato in gabbia potrà mai “abituarsi” a restarci, ma la prigionia crea in ogni caso enorme sofferenza. Per le tigri e gli altri animali feroci ci sono anguste e sempre troppo piccole gabbie, l’elefante viene immobilizzato con pesanti catene alle zampe, i cavalli legati a dei pali con corte corde, per non parlare delle piccole vasche dove vengono detenuti animali come ippopotami o rinoceronti. Una ricerca rivela che nessun etologo ha potuto ritenere davvero idonee le misure decise dalla legge italiana circa gli spazi destinati agli animali da circo, basti ricordare che gli elefanti sono animali che possono arrivare a camminare anche per 30 chilometri al giorno, mentre in un circo hanno poco più di qualche metro. Inoltre, sono animali abituati a vivere in branco e non a stare in completo isolamento. Un altro elemento da non sottovalutare è il contesto innaturale in cui questi animali sono costretti a vivere, luoghi assolutamente non adatti alla loro costituzione etologica, dove soffrono per situazioni climatiche e ambientali spesso a loro ostili.
100%animalisti
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
atti. Andrebbe dunque istituito una sorta di comitato di controllo provinciale sugli atti di tutti gli enti pubblici ricadenti in quella data provincia, sarebbe un passo in avanti dopo la eliminazione dei Co.re.co. Naturalmente questo sarebbe solo l’inizio di un processo democratico che dovrebbe portare la pubblica amministrazione ad essere sempre più efficiente e realmente vicina alle istanze dei cittadini; partendo dall’ineleggibilità per tutti coloro che siano stati condannati in primo grado nella gestione della cosa pubblica, ai cui imputati, per il ruolo sociale ricoperto, garantirei una maggiore celerità nel processo attinente la gestione dell’ente da loro amministrato, con un limite temporale nella conclusione del procedimento. Seppur gli altri gradi di giudizio possono dimostrare il contrario, è necessario che anche i partiti, dunque, attuino una carta etica, che sia garanzia di rinnovamento e oggettività per ridare credibilità all’intero sistema. Luigi Ruberto C I R C O L I LI B E R A L MO N T I DA U N I
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PAGINAVENTIQUATTRO Tutto quello che c’è da sapere su Salvatore Meloni detto “Doddore”, l’uomo che già anni fa si autoproclamò «Presidente della Repubblica di Mal di Ventre» A fianco e in basso l’Isola di Serpentara, che ieri è rimasta invenduta perché non edificabile, ma teatro anche di una buffa occupazione da parte di un già noto indipendentista sardo
Aste. Un indipendentista s’è accampato sull’isola (che non è edificabile) per evitarne la vendita all’incanto
E il Braveheart sardo “occupa” SERPENTARA L’ di Marco Ferrari
unico a cui interessa è l’indipendentista Doddore Meloni, fresco occupante di Serpentara, l’isolotto dell’Area marina protetta di Capo Carbonara, a Villasimius, in provincia di Cagliari, sulla costa sudest della Sardegna. Mentre il suo vessillo sventolava sul brullo e deserto scoglio con la sinuosa forma di una biscia adagiata sul mare, al Tribunale di Cagliari andava in scena la terza asta di vendita di Serpentara, anche questa volta deserta. Nessun presente, nessuna mano alzata. A spaventare eventuali acquirenti non è tanto il prezzo base di 600 mila euro fissato da un privato e da una società immobiliare romana dichiarata fallita, quanto il fatto che è inedificabile facendo parte, assieme all’altro isolotto dei Cavoli e alla secca dei Berni, dell’area protetta di Capo Carbonara. Un’ipotetica cordata di potenziali acquirenti sostenuta da un istituto di credito sardo, svelato dall’indomito Meloni, non ha neanche allungato il naso oltre la sala udienze.
Andato a vuoto il terzo tentativo di vendita, il responsabile dell’Ufficio unico dei notai di Cagliari Giovanni Orrù, aprendo le braccia, ha deciso di rimettere gli atti al giudice istruttore, il quale dovrà convocare i due proprietari per trovare diverse modalità di messa all’incanto. Neppure il Comune di Villasimius, il cui consiglio comunale nell’aprile scorso si era dichiarato interessato all’acquisto, ha mosso un dito. Il sindaco Salvatore Sanna, in carica dal giugno scorso, un’idea in proposito ce la ha: l’acquisti la Regione Sardegna e la passi in gestione all’Area marina protetta tutelando il patrimonio naturale e faunistico, l’importante torre spagnola settecentesca e il fortino-bunker costruito nella seconda guerra mondiale. L’isola di 134 ettari è formata, come l’isola dei Cavoli, da masse granitiche, è coperta da un’interessante macchia mediterranea e si eleva fino a 54 metri sul livello del mare, punto più alto dove svetta la Torre di avvistamento San Luigi. Davanti alla parte settentrionale dell’isola, disposte a semicerchio, si trovano altre isolette, sempre di natura granitica, chiamate i Variglioni. Per sventare colpi di mano l’indipendentista Doddore Meloni, sabato scorso, aveva
il riconoscimento internazionale. Aveva anche fabbricato la sua bandiera nazionale, rosso e blu in bande orizzontali con al centro sei figure e la scritta Repubblica Malu Entu. Dettava proclami e decreti ai suoi cinque compagni d’occupazione dal palazzo presidenziale, una tenda campeggio di colore blu piantata sulla spiaggia di Cala Nuraghe, nella piccola isola di 81 ettari, nel comune di Cabras, nell’oristanese. Baffi risorgimentali, occhi chiari, un dente dorato, il corpulento presidente - un metro e novanta per cento chili - noto a tutti col nomignolo di “Doddore”ha però dovuto fare armi e bagagli da Mal di Ventre finché non ha messo gli occhi su Serpentara.
preso tenda e attrezzi e si era installato nelle folate vento di Serpentara come un magico Braveheart dei mari dal cuore impavido. Non è la prima impresa della sua fulgida carriera di indipendentista dato che si era già autoproclamato presidente della Repubblica di Mal di Ventre, un altro scoglio minacciato di vendita, da cui era stato sloggiato con il suo plotoncino di adepti nel febbraio 2009 dopo cinque mesi di strenua resistenza solo grazie all’intervento della guardia forestale e della capitaneria di porto suscitando le pubbliche ire del leghista Borghezio. Salvatore Meloni, 66 anni, autotrasportatore di Terralba, era arrivato a scrivere al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon e al Presidente del Consiglio Berlusconi annunciando, sulla base del principio di autodeterminazione dei popoli sancito della Carta di San Francisco, l’autoproclamata Repubblica di Malu Entu e chiedendone
L’amore e la passione per l’indipendentismo sardo ha già causato parecchi guai a Meloni con un centinaio di capi d’imputazione sulle spalle e una condanna negli anni Ottanta, in base al Codice Rocco, a nove anni di prigione per cospirazione contro lo Stato, reato non contestato neppure a esponenti delle Brigate Rosse, Nar e Rosa dei Venti. Ha conosciuto, come l’irlandese Bobby Sands, il carcere più duro, otto mesi di isolamento, case circondariali di Pisa, Oristano, Nuoro, Cagliari. Ha accettato di rispondere a una delegazione parlamentare e di parlare in italiano invece che in sardo chiedendo in cambio gli arresti domiciliari. Solo un Pm su nove ha consentito che si esprimesse nella parlata dei suoi antenati. Fondatore di una cooperativa “Patria Sarda”, salumi, dolci e liquori, ha quindi fatto nascere un partito, il Par.i.s., pieno di puntini per non confonderlo con la metropoli colonialista francese, che va ad aggiungersi ad altri quattro raggruppamenti sardisti, sognando di emulare l’Ossezia del Sud e l’Abkazia e di stringere un patto con altre aspiranti indipendenti come l’isola di Tavolara e il principato di Seborga. Gli è andata male con l’isola di Mal di Ventre e ora ritenta con Serpentara, ostinato e duro come il granito su cui poggia il corpo, la notte, sdraiato nel suo sacco a pelo che contiene tanti grandi e infiniti sogni.