L’uomo è in grado di fare
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ciò che non è in grado di immaginare. La sua testa solca la galassia dell’assurdo
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René Char di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 21 GENNAIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Inaspettata sconfitta di Marta Coakley: raccoglie solo il 47% perdendo 15 punti rispetto alle presidenziali dello scorso anno
La rivoluzione di Boston
Dopo 58 anni di dinastia Kennedy,Scott Brown strappa ai democratici il seggio del Massachusetts. Obama in crisi:la riforma sanitaria è a rischio e il messaggio che gli arriva dagli elettori è clamoroso Aspre polemiche a palazzo Madama
di Andrea Mancia
venta il 41° voto repubblicano al Senato, togliendo così al partito del presidente Obama quel preziosissimo sessantesimo seggio che finora ha consentito alla maggioranza di aggirare l’ostruzionismo dell’opposizione sulla riforma del sistema sanitario nazionale.
Passa al Senato il processo breve: l’ennesimo errore IL PRIMO DISCORSO LA TESI DEL POLITOLOGO salva-premier Fukuyama: «Barack «Ho vinto contro cott Brown è il nuovo senatore junior del Commonwealth del Massachusetts, dopo aver conquistato il seggio che fu prima di John F. Kennedy e poi di suo fratello Ted, saldamente in mano democratica da oltre mezzo secolo. Brown, soprattutto, di-
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Scott Brown
si è sopravvalutato» lo statalismo»
Berlusconi: «Altro che incostituzionale, i tribunali sono plotoni d’esecuzione» di Franco Insardà
ROMA. «Il disegno di legge sul processo breve non è incostituzionale perché nei tribunali ci sono i plotoni d’esecuzione». Così il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha festeggiato l’approvazione, da parte del Senato, del ddl sul «processo breve» che adesso passerà al vaglio della Camera. Il risultato della votazione era scontato, ma ha suscitato comunque polemiche. Il Comitato Intermagistrature ha definito il disegno di legge «un’amnistia di fatto per i delitti commessi prima del 2 maggio 2006, grazie alla norma transitoria che riguarda i procedimenti in corso e un vero e proprio colpo di spugna, che assicurerà una completa impunità per molte insidiose forme di delinquenza diffusa in danno di persone deboli». Lo stesso rilievo è argomentato dal senatore centrista Gianpiero D’Alia in un’intervista a liberal. Fermo il commento di Bersani: «Si lasciano senza giustizia migliaia di vittime per salvare uno solo».
di Laure Mandeville
di Scott Brown
WASHINGTON. «Obama si è sbagliato sulla sua elezione. La maggioranza che si è espressa in suo favore nel 2008 non voleva tanto spostare le linee della politica a sinistra, come invece avvenne con Roosevelt, quanto esprimere un voto di protesta contro Bush». È la tesi impietosa del politologo amercano Francis Fukuyama.
BOSTON. Tutto è cominciato con me, il mio camioncino e pochi appassionati volontari. Ed è terminato con l’Air Force One. Non mi interessa che il presidente mi abbia criticato, sono cose che capitano in una campagna elettorale. Ma quando ha criticato il mio camioncino, ha oltrepassato il limite.
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Continuano le liti sulle alleanze alle Regionali
Una novità italiana: le elezioni a perdere Nel Pdl (vedi Lazio) e nel Pd, (vedi Puglia) in molti tifano perché alcuni dei propri candidati non vincano di Marco Palombi
ROMA. Saranno “elezioni a perdere”: dalla Puglia al Lazio, all’interno del Pdl e del Pd molti giocano contro i propri candidati. Lo dimostrano le fronde incrociate di settori del centrodestra contro la Polverini e di un pezzo di Pd contro Boccia. a pagina 8
Il leader del secondo partito olandese, accusato di istigazione all’odio, divide il Paese
Un nuovo reato: vilipendio dell’Islam Cominciato ad Amsterdam il controverso processo contro Geert Wilders LE IDEE NON SI COMBATTONO IN TRIBUNALE
Condannatelo e sarà Primo ministro di Daniel Pipes
Il leader del partito per la Libertà Geert Wilders
di Luisa Arezzo l più blasonato quotidiano olandese De Telegraaf lo ha definito il “processo del secolo”. È cominciato ieri e l’attesa, non solo nei i Paesi Bassi, era diventata spasmodica. Il motivo è semplice: dopo questo processo potrebbe essere reato criticare duramente l’islam.
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hi è il più importante uomo politico europeo vivente oggi? Io dico esplicitamente che è Geert Wilders. Perché più di tutti è in grado di occuparsi della sfida islamica che il Vecchio Continente si trova ad affrontare. La sfida islamica consta di due componenti: da un lato c’è l’indebolimento della fede cristiana nella popolazione europea combinato a un inadeguato tasso di natalità e a una timidezza nei confronti della propria identità culturale; dall’altro c’è l’aumento
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dell’afflusso di immigrati musulmani che sono devoti, prolifici e in possesso di un dogmatico senso del proprio retaggio culturale. Questa situazione solleva profondi interrogativi riguardo al futuro dell’Europa: manterrà la propria civiltà storica o diventerà un continente a maggioranza musulmana dominato dalla sharia, la legge islamica? Geert Wilders interpeta i sentimenti di quegli europei che desiderano salvare la loro identità. a pagina 14
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Stati Uniti. La visita in extremis di Obama nello stato non salva Marta Coakley. A rischio la riforma sanitaria del Congresso
Waterloo, Massachusetts Come e perché è maturata la sconfitta dei democratici: Scott Brown è riuscito a diventare il simbolo di una clamorosa rivolta anti-statalista di Andrea Mancia
stata una notte più breve del previsto, quella che ha visto consumarsi in Massachusetts la più clamorosa batosta elettorale ai danni del partito democratico degli ultimi quindici anni. Già alle 9 della sera (le 3 del mattino, in Italia), Fox News ha assegnato la vittoria al candidato repubblicano, Scott Brown. Gli altri network hanno aspettato un po’ più a lungo, ma quando, verso le 10, anche Associated Press ha effettuato la chiamata, la percezione della disfatta democratica era ormai considerata un dato di fatto. Poi, da lì a qualche minuto, l’evento storico si è compiuto. La candidata democratica Marta Coakley ha riconosciuto la sconfitta, il quartier generale del Gop (già su di giri da qualche ora) è esploso come un petardo nella notte del 4 luglio e Scott Brown è diventato il nuovo senatore junior del Commonwealth del Massachusetts, conquistando il seggio che fu prima di John F. Kennedy e poi di suo fratello Ted, saldamente in mano democratica da oltre mezzo secolo. Brown, soprattutto, diventa il 41° voto repubblicano al Senato, togliendo al partito del presidente Obama quel preziosissimo sessantesimo seggio che, secondo i regolamenti del Congresso Usa, consente alla maggioranza di aggirare qualsiasi pratica ostruzionistica dell’opposizione.
È
L’INCUBO DI BARACK Tutto era iniziato il 4 gennaio, quando il sondaggista Scott Rasmussen ha pubblicato una sorprendente ricerca sulle elezioni suppletive del Massachusetts, fino a quel momento considerate poco più di una formalità per i democratici. Il sondaggio di Rasmussen, invece, registrava un vantaggio per la Coakley inferiore ai dieci punti percentuali (9, per l’esattezza) che aveva in un primo momento provocato l’ilarità degli analisti, soprattutto democratici, che consideravano del tutto irrealistico uno scarto così ridotto. Per comprendere pienamente l’entità dell’evento sismico che si è verificato nella notte tra martedì e mercoledì, bisogna fare un breve excursus nella storia elettorale dello stato nel dopoguerra. In quella che i conservatori chiamano con disprezzo People’s Republic of Massachusetts (Repubblica Popolare del Massachusetts), JFK ha vinto a fatica le elezioni per il Senato nel 1952 (51-48), ma da quella data in poi il distacco tra democratici e repubblicani è sempre stato elevatissimo.Tanto che il risultato migliore per il Gop l’aveva ottenuto Mitt Romney (poi diventato governatore) che nel 1994 - anno favorevolissimo al Gop - aveva perso contro Ted Kennedy con “soli” 17 punti percentuali di scarto.
La débacle dei Kennedy Il seggio di JFK e Ted conquistato dal Gop È dal 1952 che il seggio senatoriale ora conquistato da Brown stava inamovibilmente nelle mani del clan Kennedy, di JFK prima e dell’ineffabile“Ted”dopo; da trent’anni la rappresentanza del Massachusetts al Senato di Washington era un monolite monocolore Democratico, e pure ostaggio della componente più smaccatamente progressista del Partito Democratico. Che un Repubblicano come Brown abbia dunque infranto questa cortina di ferro è un fatto davvero eccezionale. Per molti aspetti, Brown è un vir novus. Sì, in loco lo si conosce discretamente, le cronache mondane rimbalzano il suo nome da un bel po’, ma resta vero che per la politica di livello nazionale è ancora un “signor nessuno”.
Che quindi sia un uomo così, più vicino alla gente di quanto s’immagini e più espressione del popolo di quanto si sospetti, a sbaragliare quelle gioiose macchine da guerra con ingranaggi ben oliati che in Massachusetts marciano alla guida di timonieri consumati (in tutti i sensi) e in una tornata elettorale tanto importante è un segnale politico di una forza straordinaria. In poche settimane, il “parvenu” Brown ha polverizzato il “mito” che già manda cattivo
Nel seggio non di proprietà diretta della dinastia Kennedy, invece, John Kerry nel 2002 è riuscito addirittura a correre senza oppositori. E appena un anno fa, Kerry aveva sconfitto Jeff Beatty 65-30: trentacinque punti percentuali e oltre un milione di voti di vantaggio.
IL PANICO DEL PARTITO Data per scontata la vittoria, i democratici hanno praticamente fermato la loro poderosa macchina elettorale in Massachusetts appena dopo la vittoria della Coakley alle primarie. Ma non hanno tenuto conto di almeno due fattori: la crescente opposizione nazionale al piano di riforma sanitario faticosamente approvato dal Congresso e la protesta montante della popolazione nei confronti della politica economica della Casa Bianca, maturata con il dilagare dei Tea Party in ogni angolo della nazione (Massachusetts compreso). Il sondaggio di Rasmussen è stato frettolosamente archiviato come una bizzarra “anomalia statistica”. E i democratici hanno continuato a dormire sonni ancora più tranquilli. L’incubo, invece, era appena iniziato.
odore di “Ted” Kennedy, ma soprattutto ha distrutto ciò che un uomo come lui ha per decenni rappresentato in politica.
Vale a dire l’intrallazzo, il maneggionismo, l’inciucismo alternato volentieri al radicalismo ideologico, il binomio doppiopetto e sozzura, lo spregio della giustizia anzi del Paese intero in nome dei propri porci comodi, la politica annaffiata oltre ogni ragionevole soglia di tolleranza da caterve di denari viziati, vizianti e viziosi, nonché quella cosa da voltastomaco che è il vedere un fantastiliardario atteggiarsi a buon samaritano lasciando cadere dal vetro fumé della limousine qualche spicciolo per gli homeless, meglio-che-niente si dirà e invece no, la logica è che darne un po’ ai disperati li sottrae al fisco. Tipo Una poltrona per due, per intenderci. Brown invece è un ruspantello di provincia, magari un po’frescone ma piuttosto genuino, né ricco né povero, middle class come la maggior parte degli americani, proprietario e lavoratore, avvocato e militare, tocco di finto scandalo che non guasta mai e alla bisogna istinto politico dalla parte giusta. Mica san Giorgio cavaliere, ma oggi alla politica tutta basterebbero semplicemente uomini politici autentici, non dei superman. Marco Respinti
Ad appena una settimana dal voto, infatti, è arrivato un altro fulmine a ciel sereno: secondo il sondaggista democratico Tom Jensen di Public Policy Polling, infatti, Brown era adalla davanti dirittura Coakley (anche se solo dell’1%) e stava riuscendo a monopolizzare il voto degli indipendenti, strappando addirittura il consenso di qualche elettore tradizionalmente democratico. Se il partito di Obama aveva avuto buon gioco nel definire Rasmussen come un sondaggista vicino ai repubblicani, Jensen non poteva certo essere considerato un “guastatore” del nemico, vista la sua storica vicinanza, anche professionale, con il partito democratico. E il fulmine si è presto trasformato in un acquazzone fuori stagione.
ARRIVANO I RINFORZI La Casa Bianca e i vertici del partito, consapevoli che una sconfitta in Massachusetts avrebbe tolto alla maggioranza
il 60° voto del Senato necessario a frenare ogni velleità di filibustering da parte del Gop, sono entrai immediatamente (si fa per dire) in emergency mode. Bill Clinton e i suoi surrogati si sono precipitati nello stato a fare campagna per la Coakley. A ventiquattr’ore dall’apertura delle urne, si è scomodato addirittura il presidente, anche se già iniziavano a circolare memo interni dell’amministrazione che accusavano di inettitudine la candidata democratica e memo interni della campagna Coakley che accusavano la Casa Bianca di scarso impegno. Mentre i repubblicani di tutti gli Stati Uniti si chiedevano, sbigottiti, se fosse davvero arrivato il momento della “liberazione” atteso da oltre mezzo secolo, gli attivisti dei Tea Party battevano lo stato palmo a palmo, sconfiggevano clamorosamente liberal e progressive proprio sui loro terreno preferito (guerrilla marketing, fundraising online e controllo dei social network) e smentivano ancora una volta chi li considera custodi un po’ ottusi della “purezza”conservatrice, appoggiando con tutta l’energia possibile un candidato in alcuni casi eterodosso rispetto al baricentro ideologico del movimento.
IL CROLLO VERTICALE Negli ultimi giorni della campagna elettorale, malgrado tutto, Brown inizia una surge statistica con pochi precedenti nella storia americana. I sondaggisti che registrano un vantaggio per Brown - a volte minimo, a volte più consistente - si moltiplicano. E perfino gli istituti di ricerca più vicini al partito democratico si arrendono all’ipotesi di una gara combattuta sul filo di lana. Un’eventualità, per il Massachusetts, semplicemente fantascientifica fino a un paio di settimane prima. In realtà, chiuse le urne e contati i voti, tutto è stato più semplice del previsto. Il turnout discreto dei democratici a Boston, provocato dal tentativo di “nazionalizzare” in extremis la sfida, è stato dai numeri schiacciato straordinari ottenuti dal Gop nei sobborghi di Bay State, dove il candidato repubblicano è riuscito non solo ad energizzare la base conservatrice, ma a smuovere la tradizionale apatia dell’elettorato “indipendente”, che si è spostato con percentuali “bulgare” dalla parte di Scott Brown, che alla fine ha vinto con 5 punti percentuali e oltre 100mila voti di distacco. Ma qualsiasi considerazione locale scompare di fronte all’impatto di queste elezioni sul panorama politico nazionale. Dopo le sconfitte di novembre in Virginia e (soprattutto) New Jersey, Obama si trova di fronte a un ambiente politico estremamente ostile: il suo job approval
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«La mia elezione è stato un referendum sull’Obamacare»
«Da qui partirà la rivoluzione»
Il discorso d’investitura di Brown: «Se abbiamo vinto in questo stato, possiamo vincere ovunque» di Scott Brown asciate che vi racconti quando ho capito per la prima volta che un qualcosa di grande stava avendo luogo in questa campagna elettorale. Stavo guidando e d’un tratto ho scorto un cartello fatto a mano che incitava a votare Scott Brown; era un cartello che non avevo messo io. Questa nostra piccola campagna era destinata ad avere ben più successo di quanto tutti noi avremmo mai potuto pensare, ed il nostro messaggio è andato ben oltre al nome impresso su quel cartello.
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Il nuovo senatore junior del Massachusetts, il repubblicano Scott Brown. Nella pagina a fianco, Ted Kennedy (a sinistra) e Marta Coakley (a destra) è ormai stabilmente al di sotto della linea di galleggiamento del 50%; il suo partito perde regolarmente le sfide nel congressional generic ballot; la riforma sanitaria è a rischio; la sua politica ecomomica ha indici di approvazione che sfiorano il 30%; i potenziali candidati democratici alle elezioni di mid-term (incumbent compresi) fanno a gara nel ritirarsi dalla co,petizione; i repubblicani, che sembravano definitivamente usciti di gioco, sono più motivati e combattivi che mai; i
Tea Party raccolgono libertarian, indipendenti e conservatori in un unico movimento di protesta anti-statalista, diffuso e sul piede di guerra. «La situazione, forse, è peggio di come ce le immaginavamo», ha ammesso ieri l’analista-blogger democratico Nate Silver, che fino all’ultimo minuto si rifiutava di credere all’eventualità di una vittoria repubblicana in Massachusetts. E il “peggio”, probabilmente, per Obama e i democratici deve ancora arrivare.
La vendetta di Federer Quella sfida fallita del 2000 a Dick Gephardt La vittoria di Brown è senza dubbio storica, sia come sia il futuro. Brown è riuscito in una singolare tenzone di alto valore politico e morale come prima non era praticamente mai successo. Non era successo al bravo William J. Federer, per esempio, omonimo di un bravo tennista come Brown lo è di un bravo calciatore.
Quel Federer storico e saggista prestato alla politica che in novembre ha sottoscritto la “Dichiarazione di Manhattan” che unisce protestanti evangelicali, cattolici e ortodossi americani in una sfida elegantemente “di piazza” all’establishment egemonizzato dai progressisti sui temi di difesa della persona umana. Insomma il Federer semisconosciuto che nel 2000 cercò di battere in Missouri l’allora leader della minoranza Democratica alla Camera, il potentissimo Richard “Dick” Gephardt, perdendo con onore una sfida impari ma moschettiera. Federer fu al tempo sostenuto da William H.T.“Bucky”Bush, zio del presidente George W. Bush jr., dal leader repubblicano della Camera Richard“Dick”Armey, dal fuoriclasse Repubblicano, rea-
ganiano, cattolico e antiabortista Alan Keyes (negro, più nero e più autentico di Obama), dalla madrina del femminismo antifemminista Phyllis Schlafly, dal popolare opinionista David Limbaugh (fratello minore del popolarissimo commentatore radiofonico Rush), dal presidente della Corte Suprema dell’Alabama Roy S. Moore (famoso perché si ostina a mantenere in piedi il monumento ai Dieci Comandamenti nel tribunale che presiede), dal grande Chuck Norris, dal rocker conservatore Ted Nugent e dal noto radiopredicatore James C. Dobson jr., di “Focus on the Family”.
La vittoria di Brown oggi vendica tutti i Federer sconfitti di ieri, ma soprattutto incorona il popolo americano che cerca, che sceglie e che premia tipi come loro. Quando i Repubblicani puntano sui conservatori vincono. Il ripasso della lezione di storia parte dal Massachusetts. Dietro Brown, infatti, spunta il popolo dei “Tea Paty”, cioè il movimento della rivolta fiscale ma non solo, torna la “Right Nation”, sogna an(m.r.) cora l’America.
Tutto è cominciato con me, il mio camioncino e pochi appassionati volontari. Ed è terminato con l’Air Force One in visita straordinaria a Logan. Non mi interessa che il Presidente Obama sia venuto qui ed abbia espresso critiche nei miei riguardi, sono cose che capitano in una campagna elettorale. Ma quando ha criticato il mio camioncino, ha oltrepassato il limite. Noi avevamo una macchina elettorale spaventata e confusa, mentre per loro era solo l’inizio di un anno elettorale pieno di sorprese. Verranno sfidati più e più volte in tutto il paese. Se c’è inquietudine in Massachusetts, allora c’è inquietudine dappertutto. E ora lo sanno. In ogni angolo del nostro stato ho incontrato molte persone, le ho guardate negli occhi, ho stretto loro la mano, e ho chiesto il loro voto. Non mi sono curato della loro affiliazione partitica, ed esse non si sono curati della mia. È stata una naturale comunione di idee ad unirci. Una cosa è certa, gli elettori non vogliono il piano di riforma sanitaria da mille miliardi di dollari che è stato imposto al popolo americano. Questo provvedimento non è stato dibattuto in modo aperto e franco. Comporterà un aumento delle imposte, infliggerà un duro colpo al programma Medicare, lederà alcune categorie professionali e farà sprofondare il nostro paese nel vortice di un mostruoso debito pubblico. Non è nell’interesse del nostro stato e del nostro paese. Possiamo fare di meglio. Quando sarò a Washington, lavorerò al Senato con i Democratici ed i Repubblicani al fine di rivedere il progetto di riforma sanitaria in modo aperto ed onesto. Niente più riunioni a porte chiuse o accordi sanciti dietro le quinte da una leadership partitica avulsa dalla realtà. Niente più costi nascosti, tasse celate, pensate per garantire alcuni
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interessi particolari; provvedimenti dell’ammontare di vari trilioni di dollari, il cui onere ricadrà sulle spalle dei nostri figli. Per quanto concerne l’assistenza sanitaria, dobbiamo ripensare quanto fatto finora, operare insieme al fine di condurre in porto una riforma equa. Ancora una volta, possiamo fare di meglio. Lavorerò al Senato per riportare il governo dalla parte di quei cittadini che creano occupazione, e dei milioni di cittadini che necessitano un lavoro. E, come ci ha insegnato il Presidente John F. Kennedy, questo avviene mediante una generale riduzione della pressione fiscale per le persone e le attività produttive, misura che consentirà la creazione di nuovi posti di lavoro e stimolerà il sistema economico (...). Consentitemi inoltre di ribadire, e mi rivolgo a coloro che puntano ad indebolirci, la mia convinzione che la nostra Costituzione e le nostre leggi esistano per proteggere questa nazione – non garantiscono diritti e privilegi ai nemici in tempo di guerra. Nell’affrontare i terroristi, i dollari destinati alle tasse dovrebbero finanziare l’acquisto di armi necessarie a fermarli, e non di certo le parcelle degli avvocati che li difenderanno. L’aumentare le tasse, il voler controllare il nostro sistema sanitario ed il garantire nuovi diritti ai terroristi fanno parte di un programma sbagliato per il nostro paese. Ciò che ho imparato nel corso di questa campagna elettorale è che i nostri leader politici si sono allontanati dalla gente, sono diventati insofferenti al dissenso, si sentono a proprio agio solo nelle segrete stanze a siglare accordi. E possiamo fare di meglio.
I dollari delle tasse devono finanziare la guerra al terrorismo, non le parcelle degli avvocati dei terroristi
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Pensavano che avreste accettato le loro ambizioni. Pensavano di possedere il vostro voto. Ritenevano impossibile una loro sconfitta. Ma stasera, voi e solo voi avete detto loro chiaro e tondo ciò che pensate (...). Quanto è avvenuto in questa consultazione elettorale può avvenire in ogni luogo d’America. Noi siamo testimoni, voi ed io, della verità che gli ideali, il duro lavoro, e la forza dei nostri cuori possono prevalere su qualsiasi macchina politica. (...) Ho molto da imparare al Senato, ma so chi sono e so chi servirò. Sono Scott Brown, vengo da Wrentham, guido un camioncino, e non sono il senatore di nessuno, eccetto che il vostro senatore.
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Dopo Boston. L’autore della «Morte della storia»: «I democratici avevano vinto grazie ai centristi. Ora riforme più difficili»
L’errore di Mr. Obama
«Un anno fa gli americani lo votarono per protestare con Bush, non per cambiare il Paese»: il tracollo secondo Francis Fukuyama di Laure Mandeville
WASHINGTON. Francis Fukuyama è professore di Scienze Politiche all’Università John Hopkins di Washington. È stato considerato uno dei pensatori più originali e controversi di fine millennio, soprattutto in virtù del suo saggio dedicato a lla «Fine della storia» che – in primo luogo proprio negli Usa – ha ottenuto elogi e critiche quasi in egual misura. È l’interlocutore ideale per analizzare il primo anno di presidenza Obama alla luce della terri-
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Aveva promesso di essere «al di là degli schieramenti»: invece su sanità e crisi economica si è contraddetto
”
bile sconfitta nel feudo dei Kennedy. Qual è, a suo avviso, il bilancio del primo anno di presidenza di Obama? Obama si è indubbiamente sbagliato sul significato della sua elezione. La larga maggioranza che si è espressa in suo favore nel 2008 non voleva tanto spostare le linee della politica americana a sinistra, come invece avvenne con Roosevelt, quanto esprimere un voto di protesta contro George W. Bush. Gli hanno dato il proprio voto anche numerosi elettori indipendenti e centristi, che solitamente votano per i repubblicani. Equivocando il risultato elettorale, Obama ha immediatamente varato ambiziose riforme sociali: il piano di rilancio economico, il salvataggio dell’industria automobilistica e poi il capitolo Sanità hanno indotto molti a ritenere che egli non attuasse la linea «al di là degli schieramenti politici» che aveva promesso. È questa la ragione per cui incontra ben presto tanta resistenza. Durante la campagna elettorale, gli analisti hanno posto spesso l’accento sul desiderio di cambiamento della società ame-
ricana: lei ritiene che questa società non sia pronta a grandi scombussolamenti? Sì, è proprio così. I giovani che lo hanno votato non sono stati numerosi quanto si dice. Una gran parte degli elettori di Obama è in realtà costituita dai centristi. Ma forse tale errore di valutazione del Presidente consentirà infine al nostro paese di operare una trasformazione di ampio respiro. Se il Presidente riuscirà a strappare la riforma della Sanità al Congresso, avrà ottenuto un grande risultato. La gente capirà che darà luogo a notevoli vantaggi e che gli attuali timori sono infondati. Non è forse vero che le grandi riforme vanno spesso controcorrente? È vero. Ma si sbaglia ad assimilare il contesto in cui si situa Obama a quello del 1932. Roosevelt aveva ricevuto realmente il mandato di realizzare un cambiamento profondo. Lo stesso dicasi per Reagan, ma non per Obama. Non vi sono possibilità
L’amarezza del figlio di Ted: «Ma non era il nostro seggio»
Patrick Kennedy: «Ha perso la Coakley, non i democratici» di Jake Sherman
BOSTON. Il figlio di Ted Kennedy sostiene che una vittoria repubblicana nella corsa a quello che era il seggio in senato di suo padre è il segno che gli americani sono alla ricerca di sangue. Quando sono arrivati i risultati elettorali martedì sera, Patrick Kennedy ha dichiarato che era chiaro che gli elettori cercavano 1un ragazzo in lacrime» per tutti i lavori persi e le case ipotecate. «È come ai tempi dei romani quando i prigionieri venivano condotti al Colosseo e si aprivano le gabbie dei leoni», ha dichiarato Kennedy ai giornalisti. «Cioè, gli americani cercano il sangue e non lo stanno trovando quindi vogliono protestare e effettivamente non li si può biasimare. Ma francamente, il fatto è che abbiamo ereditato questa situazione caotica e sta diventando la nostra». Kennedy non si era impegnato completamente nella battaglia per il seggio, ha detto, perché «non aveva mai voluto che qualcuno pensasse per un solo momento» che fosse il seggio della sua famiglia. «Non era il seggio di mio padre; era il seggio del Massachusetts» ha ripetuto più volte. «Mio padre fu onorato di occuparlo ogni sei anni per la popolazione del Massachusetts che continuava a votarlo». Ma Kennedy ha offerto anche una critica caustica ai democratici e forse anche un vero e proprio schiaffo alla candidata democratica Martha Coakley, che molti nel partito stanno accusando per la perdita del seggio che era rimasto al padre di Kennedy per più di quattro decenni. Mentre ha affermato che la svolta verso il repubblicano Scotto Brown rappresenta un «voto generale di protesta», ha dichiarato anche che ogni candidato ha l’obbligo di fare il proprio meglio per la causa. «Occorre prospettare le nostre strategie politiche e io credo che i cittadini del Massachusetts siano ricettivi verso la politica progressista dei democratici, ma – vedete – questa deve essere proposta con chiarezza». «È una questione di comunicazione – ha detto – bisogna giocare duro; bisogna essere un buon politico, bisogna farsi avanti e raccontare come stanno le cose. E quando gli elettori saranno a conoscenza, risponderanno». Inoltre, ha detto che i democratici non sono mai stati molti d’aiuto nel sostenere i candidati con un messaggio unificato. «Faccio parte di un partito non organizzato – ha detto –: Il partito Democratico. Sapete, questa è la natura della bestia. Bisogna affrontarla».
che la riforma Clima sulla riduzione delle emissioni di Co2 venga approvata entro l’anno? A mio avviso, non ve n’è alcuna, con l’attuale Congresso. E lo stesso dicasi per la riforma del sistema d’immigrazione, che è fattibile ma non è attualmente possibile. Strappare la riforma della Sanità costituirebbe già un risultato eccezionale. È da 50 anni che tutti i Presidenti provano a vararne una. Alcuni asseriscono che Obama non abbia la capacità di Lyndon Johnson di ammansire il Congresso… Forse, ma bisogna comprendere che il Congresso è cambiato molto e che la vita politica è oggi molto più polarizzata. Tale polarizzazione è dovuta al fatto che l’elettorato dei diversi schieramenti si nutre delle informazioni fornite dai media che fanno riferimento alle loro aree ideologiche. Essa si spiega anche con la scomparsa degli uomini dell’epoca di Reagan, che erano dei repubblicani centristi, molto meno estremisti di quelli odierni. Quali sono i risultati ottenuti dal Presidente in politica estera? Ha fatto la cosa più facile da fare: modificare il tono della diplomazia americana e dimostrare che essa non fa affidamento sulla sola forza militare. Ha mostrato segnali di apertura verso l’Iran e la Corea del Nord che, come era facilmente prevedibile, non hanno avuto grande successo. Ma ciò gli consentirà di tornare ad attuare una politica più dura. Per il momento, non è possibile parlare di successi ed insuccessi. Forse la politica afgana avrebbe potuto essere più prudente, ma non è neppure irragionevole. Personalmente, non sono favorevole al ritiro dall’Afghanistan, ma non sono certo che sia bene inviare ancora un numero elevato di soldati. Negli anni Ottanta, la riduzione del numero di soldati dell’esercito operata dai democratici ha spinto i militari ad effettuare un migliore addestramento degli alti gradi locali. Il rischio legato all’invio di altre truppe risiede nel fatto che i militari americani non sentano chiaramente l’emergenza in loco: abbiamo 18 mesi per iniziare a passare la mano. Se
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L’analisi di uno dei maggiori studiosi di flussi elettorali Usa
Qualcuno dica a Barack di cambiare politica
Il presidente non ha esperienza di governo: non è facile prevedere se farà come Jimmy Carter o come Roosevelt di Jay Cost presidenti compiono alcuni errori politici. Tutti i presidenti. È inevitabile. È una regola nella vita politica degli Stati Uniti d’America. Barack Obama ha fatto degli errori nel corso dell’ultimo anno. Ha fatto un errore di valutazione dello stato d’animo del Paese. Ha mal valutato la capacità del Congresso di legiferare nel minimo rispetto dell’interesse nazionale. E ha compiuto un errore di valutazione in ordine alla gravità della recessione – del suo impatto sull’occupazione e, in ultima analisi, sulla coscienza pubblica. Il risultato elettorale in Massachusetts è il primo prezzo da pagare per gli errori politici compiuti. I repubblicani, che si riprendano o meno la Camera dei Rappresentanti il prossimo anno, registreranno comunque un notevole incremento nella Camera bassa. Ne dubitano soltanto i democratici più caparbi e persino quelli iniziano a cambiare opinione.
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Barack Obama dovrà ripensare la sua strategia. Accanto, Francis Fukuyama. Nella pagina a fianco, George W. Bush e Patrick Kennedy
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Israele dall’attaccare l’Iran? L’Amministrazione Obama non ha alcun interesse a che scoppi un conflitto armato con l’Iran, ma non ritengo che abbia né la capacità, né la volontà politica di fermare Israele. Questa Amministrazione si è ridotta a limitare i danni. Se l’Iran decide di continuare il suo programma nucleare, avremo notevoli difficoltà a gestire le conseguenze militari di tale scelta. Tale impotenza non è forse indice del declino dell’ordine americano e, più in generale, di quello occidentale? Se la crisi dovesse degenerare, è effettivamente ciò che verrà dimostrato. Ma se Obama non viene riacciuffato dall’Iran o dal Pakistan e riesce a varare la riforma della Sanità, potrebbe senz’altro diventare un grandissimo Presidente. © Le Figaro
Il rischio d’insuccesso in Iran e Pakistan è notevole, come quello di una guerra nel Golfo Persico: l’opzione militare di Israele è reale si dimostrerà un insuccesso, bisognerà andarsene. L’Afghanistan potrebbe rappresentare la trappola che porterà al fallimento la Presidenza Obama? Non sul breve periodo. Il rischio d’insuccesso in Iran e Pakistan è notevole. Il rischio di una guerra nel Golfo Persico è reale, perché è probabile che gli iraniani superino quella che gli israeliani considerano essere la linea rossa. Un’azione militare israeliana costituisce una reale possibilità. Gli americani non hanno la capacità di dissuadere
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no in auge di Bill Clinton del 1995-96, nessuno avrebbe dovuto esserne davvero sorpreso. Infatti, Clinton aveva già fatto diverse volte lo stesso tipo di rentrée, riprendendosi dopo aver perso la scommessa elettorale come Governatore dell’Arkansas nel 1980, quindi rientrando in gioco dopo lo scandalo nelle primarie del 1992. Ma Obama è un mistero, sebbene abbia scritto due autobiografie su se stesso. I Democratici devono sperare che Obama introduca dei cambiamenti, che l’ultima sparata della Casa Bianca sia soltanto una sparata, appunto.
Secondo il giornale online The Politico, un Consigliere del Presidente avrebbe asserito: «Questo non è un momento tale da indurre il Presidente o chiunque lavori con lui ad esprimere alcun dubbio. Al contrario, rafforza il nostro convincimento di voler lottare duramente». I democratici devono sperare che si tratti semplicemente di discorsi roboanti, studiati per consentire alla Casa Bianca di prendere tempo e decidere quali siano i prossimi passi da compiere. Se invece il Presidente pensa davvero quanto sopra, saranno guai seri per il resto del mandato, perché significherebbe che è troppo testardo o arrogante per apportare i correttivi necessari. Significherebbe che è più corretto assimilarlo a Jimmy Carter che a Franklin Roosevelt. In tutta franchezza, noi dobbiamo sperare che si tratti soltanto della smargiassata di una Casa Bianca che ha già dato prova di spavalderia. Barack Obama resterà in carica per i prossimi tre anni, indipendentemente dal risultato delle elezioni per il Congresso del mese di novembre, indipendentemente da come governerà e indipendentemente dall’andamento dei consensi nei confronti del suo lavoro. Dobbiamo sperare che questo signore mai collaudato prima, privo di esperienza e giovane che il Paese ha elevato alla carica più alta dello Stato abbia abbastanza buon senso per riconoscere il messaggio trasmessogli ieri dal Massachusets, per capire i messaggi dello stesso tenore che gli verranno inviati a novembre ed ordinare ai suoi collaboratori di apportare i correttivi necessari.
Tutti i presidenti hanno commesso errori ma solo i grandi hanno saputo imparare dalle lezioni che hanno ricevuto dall’elettorato
Nessun presidente è immune da tali errori di valutazione. Molti grandi uomini hanno formulato giudizi errati. Thomas Jefferson, ad esempio, condusse una politica estera miope a detrimento degli interessi americani, nello sciocco tentativo di punire Gran Bretagna e Francia. James Madison – il padre della Costituzione – fu responsabile dell’ingresso del Paese nella guerra del 1812. Abraham Lincoln tollerò troppo a lungo la presenza di generali incompetenti, dubitando del proprio istinto e formulando soltanto deboli esortazioni a combattere il nemico in maniera più decisa. Franklin Roosevelt credette che la stragrande maggioranza di voti ottenuti in occasione della rielezione del 1936 lo autorizzasse a modificare sensibilmente la composizione della Corte Suprema e a epurare il suo partito degli aderenti dissenzienti. Furono tutti grandi uomini, in onore dei quali abbiamo a ragione eretto grandiosi e imponenti monumenti. Ma restano pur sempre degli uomini, che hanno compiuto grandi errori.
Ciò che prova davvero il valore di un presidente è il modo in cui gestisce i pasticci una volta che ci si è cacciato. Continuerà a seguire la stessa linea d’azione, sperando contro ogni speranza che, in qualche modo, lo stesso vecchio comportamento ingeneri risultati diversi? O riconoscerà di aver fatto degli errori, cercherà di trarne degli insegnamenti e, quindi, opererà dei cambiamenti? È questo che contraddistingue un talento politico superiore. Francamente, non so cosa farà ora Obama. Ha una biografia politica talmente scarna che nessuno può davvero prevederlo. Guardando indietro al grande ritor-
Osserviamo attentamente Obama nelle prossime settimane. Come reagirà a questa sconfitta al Senato? Cosa farà nel settore della Sanità? I messaggi che gli giungono lo indurranno a modificare il suo atteggiamento notoriamente aggressivo? Le risposte a tali domande ci diranno molto sull’individuo ancora misterioso che attualmente ricopre la carica di Presidente degli Stati Uniti d’America.
diario
pagina 6 • 21 gennaio 2010
Riforme. Silvio Berlusconi alza la voce per festeggiare il sì del Senato al disegno di legge sul processo breve
«Basta plotoni d’esecuzione» L’affondo di Gianpiero D’Alia: «Questa è un’amnistia mascherata» ROMA. Nel giorno in cui ha incassato il via libera dal Senato alle norme sul processo breve il presidente del Consiglio non risparmia critiche alla magistratura e annuncia di non aver ancora deciso se presentarsi in tribunale per i processi che lo vedono coinvolto. Denuncia la mancanza di parzialità: «I miei avvocati - ha detto Berlusconi al termine di un incontro con il cardinale Ruini - insistono nel dirmi di non andare, perché se andassi mi troverei di fronte non delle Corti giudicanti, ma dei plotoni di esecuzione». E a chi gli chiedeva se ritenesse possibile che nel testo vi fossero profili di incostituzionalità, il premier ha prima detto di non potersi pronunciare, ma poi ha aggiunto: «Non credo: è l’Europa che ci chiede tempi certi nei processi ed è la Costituzione che ci dice che i processi devono avere tempi ragionevoli». Non la pensa allo stesso modo Gianpiero D’Alia, capogruppo dell’Udc a Palazzo Madama, che in questi giorni nei suoi interventi in Aula è stato molto duro. Presidente, come andrà a finire? La maggioranza ha i numeri per fare qualsiasi “porcheria”, mi auguro che cambino questa legge. Siamo d’accordo ad affrontare il tema della ragionevole durata dei processi e di questo ci saremmo voluti occupare. Ci rendiamo anche conto che c’è una sorta di accanimento giudiziario nei confronti di Berlusconi, ma non è questo il modo per affrontare questi problemi.
di Franco Insardà
al governo che non si occupa dei problemi del Paese perché impegnato a peregrinare nelle aule giudiziarie italiane. Presidente perché parla di amnistia? La norma transitoria approvata, che prevede l’applicazione ai processi in corso di tempi massimi di durata, determina, di fatto, il condono tombale per alcuni reati, compiuti prima del 2 maggio del 2006, data limite per l’indulto. Se questi processi durano da più di
«Con il legittimo impedimento l’Udc aveva proposto una via d’uscita,anche per non dare alibi al governo che non si occupa dei problemi del Paese» Qual è? Questa voglia della maggioranza di confondere tutto non per riformare la giustizia, ma per estinguere una serie di processi creerà un danno al Paese. Da fine ottobre il Parlamento è bloccato su questa questione, invece di occuparsi della crisi economica e dei bisogni delle famiglie. L’Udc aveva proposto una via d’uscita. A differenza delle altre forze di opposizione ci siamo fatti carico di trovare una soluzione per sgombrare il campo al conflitto tra il premier e la magistratura. Anche per non dare alibi
due anni si estinguono automaticamente. Con quali effetti? Poiché per gli stessi fatti non è possibile esercitare nuovamente l’azione penale si tratta sostanzialmente di un’amnistia. Lei ha anche sottolineato l’incostituzionalità della legge. Si vuole approvare una amnistia mascherata, senza le regole che la Costituzione prevede per questo provvedimento. Cioè la maggioranza qualificata dei due terzi. Ci ritroveremo un’altra norma che non servirà a risolvere i problemi giu-
diziari del premier? Anche questa sarà dichiarata incostituzionale come è stato per il lodo Alfano e quello Schifani. Contemporaneamente produrrà l’effetto di estinguere non solo i processi di Berlusconi, ma anche tutta un’altra serie di processi. Cancellerà il sistema giudiziario sottraendo alle vittime dei reati qualsiasi possibilità di avere giustizia. Secondo il sottosegretario Francesco Giro le sue dichiarazioni finali, dopo aver sostenuto che i democristiani sono stati demonizzati e falcidiati dalla magistratura, sarebbero incomprensibili. Non credo che Giro abbia compreso il senso delle mie parole. Ho voluto precisare che l’onorevole Mannino, pur avendo dovuto penare 17 anni per vedere riconosciuta la sua estraneità ai fatti, non si è mai sognato di farsi delle leggi “porcheria” come questa. E lo stesso comportamento hanno avuto tutti i leader democristiani. Giro, poi, dimostra anche di non conoscere la norma approvata in Senato. In che senso? Non sa che la durata fissata per certi processi, come quello subito da Mannino, è esattamente uguale al tempo che è servito a stabilirne l’estra-
neità: sedici anni. Mannino non se ne sarebbe potuto avvalere e non si possono utilizzare persone perbene come lui per giustificare nefandezze come quelle che stanno facendo. Lei è stato molto critico con la Lega. Bossi, che in più di un’occasione ha detto che i democristiani, i socialisti e i comunisti andavano fucilati, ha riconosciuto in Aula che tutto quello che è stato fatto contro la Dc e i suoi leader era sbagliato. Riconoscendo, quindi, l’errore della loro politica del cappio. Ora attendiamo che ci chiedano pubblicamente scusa. Ha attaccato il Carroccio anche sulle norme relative ai procedimenti contabili. Si tratta di un vero colpo di spugna, introdotto, con un emendamento del relatore, direttamente in Aula, senza passare per la commissione. Che cosa prevede? I giudizi di primo grado davanti alla Corte dei Conti dura
due anni, se il danno contestato non supera i 300mila euro, e tre anni negli altri casi. Anche qui c’è una norma transitoria che prevede l’applicazione per i processi in corso di primo grado che durano da più di cinque anni. Norma che punta a “salvare” alcuni esponenti del governo e della Lega. Lei ha ricordato ai leghisti che non potranno più utilizzare il loro cavallo di battaglia su Roma ladrona. La Lega si è scoperta garantista per salvare qualcuno dei suoi e, sostanzialmente, sacrificando il federalismo fiscale. Perché? Verrebbe meno il principio fondamentale, tanto sponsorizzato dalla Carroccio e al quale non abbiamo mai creduto, sul maggiore controllo da parte dei cittadini della gestione del denaro pubblico. Con questa norma non ci sarà più alcun giudice contabile in grado di celebrare seriamente un processo. Ma a quale imputato eccellente della Lega si riferisce? Per una questione di stile non faccio nomi, anche se sono noti e i diretti interessati non mi risulta che abbiano fatto delle smentite. Abbiamo una cultura politica diversa, non ci piacciono gli attacchi personali, anche se potrebbero essere la legittima reazione a quelli subiti oggi come nel passato. Il procuratore della Corte dei Conti del Lazio ritiene che i processi pendenti in primo grado verranno quasi tutti estinti. È così. Ma c’è un altro aspetto ancora più grave, perché il giudizio resta affidato alle decisioni del procuratore presso la Corte dei Conti, che in base alla quantificazione che farà del danno determinerà la durata del processo. Secondo il senatore Valentino varrà soltanto per i processi futuri. Il relatore ha dovuto, a denti stretti, ammettere in Aula che non è così. Quale messaggio arriva agli amministratori locali? Che possono fare quello che vogliono, tanto non li controllerà più nessuno. La Lega si è sempre lamentata dello sperpero del denaro pubblico, sostenendo che pagava Pantalone. Ormai anche Pantalone è andato in ferie e non paga più nessuno.
diario
21 gennaio 2010 • pagina 7
La polizia costretta a caricare i manifestanti: uno è stato ferito
L’intervento alla consegna dei premi Qualità Italia al Quirinale
Val di Susa, nuovi scontri ai lavori per la Tav
Napolitano: «Ancora difficoltà ma siamo un Paese vivo»
TORINO. Ieri ci sono stati mo-
ROMA. Un’Italia ancora alle prese con la crisi economica ma ben viva e intenzionata a uscirne nel migliore dei modi. È questo il ritratto del nostro Paese tracciato ieri dal presidente della Repubblica Napolitano, consegnando al Quirinale i premi “Leonardo2009”, alla presenza tra gli altri del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Letta, del ministro per lo Sviluppo Economico Scajola e della presidente di Confindustria Marcegaglia. «Ci sono ancora difficoltà che non si devono sottovalutare, intervenendo là dove è necessario», ha detto il capo dello Stato. Ma al tempo stesso, Napolitano non ha mancato di sottolineare che «siamo un Paese vivo che si batte con
menti di tensione e anche una carica di allegerimento delle forze dell’ordine a Condove, in valle di Susa, dove in mattinata sono proseguiti i sondaggi per l’analisi del terreno in previsione dei contestati lavori per l’alta velocità ferroviaria TorinoLione. Un gruppo di No-Tav è venuto in contatto con polizia e carabinieri che stavano presidiando il cantiere con le trivelle per i carotaggi in azione nel comune di Chiusa San Michele. I dimostranti hanno tentato di attaccare dei manifesti No-Tav sugli scudi in plastica degli agenti provocando la loro reazione. La carica è durata pochi minuti e ha causato il lieve ferimento di uno dei dimostranti che è stato portato all’ospedale di Susa in ambulanza. Anche due poliziotti sono rimasti contusi. Inoltre, in tarda mattinata i manifestanti, all’altezza di Sant’Antonino di Susa, hanno occupato i binari bloccando il transito del Tgv, il treno ad alta velocità francese che collega Milano con Parigi passando da Torino e Lione. Dopo le 14 la circolazione è ripresa regolarmente lungo la linea TorinoBardonecchia. Anche il Tgv proveniente dalla Francia è potuto ripartire. «La polizia ha chiuso il passaggio a livello tra Condove e Chiusa San Michele
Il grande business dell’energia nucleare Enea e Confindustria si preparano alla riconversione di Francesco Pacifico
ROMA. Il governo – Stefano Saglia docet – sogna un Umberto Veronesi per la sicurezza del nucleare. L’Enel e Confindustria hanno promesso un giro d’affari di oltre 30 miliardi, del quale «il 70% destinato al Pil interno». Ma sono in molti a dubitarne. Forse la stessa Ansaldo, cioè l’unico sistemista nostrano. L’Enea si candida a fare da pivot nel campo della ricerca.Tanta volontà di recuperare il tempo perduto, ma molta confusione su regole e competenze. È questo il bilancio della due giorni – martedì il vertice Enel in Confindustria, ieri il workshop organizzato dall’Enea – con la quale l’impresa e il mondo della ricerca hanno accettato la nuova sfida energetica italiana.
Emblematiche al riguardo le parole pronunciate dal sottosegretario allo Sviluppo, e con delega all’energia, Stefano Saglia al convegno organizzato da Enea. Auspica infatti “un nome autorevole come quello di Umberto Veronesi” per la futura agenzia per la sicurezza nucleare. Promette che a regime un megawatt – ma «se le banche daranno una mano» – costerà 40 euro, la metà dei 65 attuali. Eppoi garantisce che si arriverà a un’intesa con le Regioni, che non ci sono liste precostituite sui siti. Questi i buoni propositi della politica. Eppure c’è da fare i conti con i ritardi sull’istituzione dell’Agenzia per la sicurezza, ferma per un’altra istruttoria del ministero, o con l’assenza di un tavolo con gli enti locali sui futuri siti. Non a caso il responsabile energia di Confindustria, Massimo Beccarello, ieri ha notato: «Il tema delle regole è quello che ci preoccupa. Perché se le regole non ci sono, non riusciremo a fare nulla». Aggiunge il commissario dell’Enea, Giovanni Lelli: «Finora i tempi sono stati rispettati. Ma soltanto con tempi certi si creerà la consapevolezza del processo che stiamo vivendo. Altrimenti non si andrà oltre le contrapposizioni». E spiega: «Nell’accezione comune chi è favorevole alle rinnovabili è contrario al nucleare. Eppure bisognerebbe spiegare che sono pezzi di uno stesso settore, che un impian-
to fotovoltaico ha una resa limitata nel tempo rispetto all’atomo».
Proprio su questo fronte Lelli disegna uno scenario con quattro pilastri, nel quale l’Enea «deve essere l’interfaccia dell’Agenzia. Accanto al committente che è l’Enel, al sistemista che oggi è Areva e che in futuro potrà essere Ansaldo, il ruolo di Enea è quello di introdurre nel sistema scienza e conoscenza». Soprattutto come certificatore delle tecnologie nucleari. «Il processo di qualificazione è uno dei principi cardini delle progettazione e della realizzazione delle centrali. Certo un’impresa che lavora all’estero può certificarsi anche altrove, ma perché disperdere all’estero know how?». Al nuke day di Confindustria il dato che ha più fatto rumore è stata l’annuncio di Enel che c’è un giro d’affari da 32 miliardi. Ma su questo versante va registrato ieri lo scambio di battute tra Roberto Adinolfi (Ad di Ansaldo Nucleare) ed Elio Morgani (responsabile ingegneria di Enel). Spiega Adinolfi: «Bisogna alzare il numero delle aziende italiane competenti». Facendo intendere che il modello che si sta per sviluppare è quello di Edf». E al sistemista Areva. Promette Morgani: «Il modello è di Enel, faremo scouting verso tutte le imprese italiane». E infatti la controllata di Finmeccanica confida che, non essendoci un general contractor unico, ci sia la possibilità di poter fare business anche con le commesse dell’isola nucleare.
Oltre alla costruzione delle centrali, ci sarà da fare investimenti importanti per la sicurezza e per lo stoccaggio
– ha spiegato Lele Rizzo, leader No-Tav - ma noi salendo sul treno siamo riusciti comunque ad arrivare alla stazione di Condove».
La battaglia dei No Tav domani farà da passerella a Beppe Grillo, atteso a Susa, appunto al presidio No-Tav all’Autoporto, per incontrare e portare la propria solidarietà a quanti manifestano contro la realizzazione della linea ferroviaria. Come spiega il “Movimenti 5 stelle Piemonte” che organizza l’evento, «Grillo sarà a Susa per portare solidarietà al popolo valsusino che resiste alla logica affarista e mafiosa delle Grandi Opere Inutili e dannose per l’economia e l’ambiente».
Non dovrebbe mancare know how per la costruzione del deposito delle scorie, al quale si vuole affiancare un centro di ricerca. Luigi Brusa, responsabile ingegneria di Sogin, nota che «una centrale a regime produce poche scorie, che si possono contenere anche dentro un Tir. Di conseguenza, sarà sufficiente l’impianto di superficie da 100mila metri cubi, già previsto per il materiale più sensibile dei vecchi impianti». Inutile dire che i problemi sono altri e riguardano tempi e consenso locale. «In Slovenia - fa notare Brusa, hanno costruito un sito di stoccaggio in due anni».
tutte le sue energie che ha tante risorse da spendere e che merita che queste risorse siano pienamente sostenute dall’azione pubblica e pienamente valorizzate nel confronto con il resto del mondo».
Napolitano ha osservato poi che «il Made in Italy è una componente importante dell’azione di governo, volta a rafforzare l’immagine e la competitività italiana». Il presidente della Repubblica ha consegnato anche il premio alla carriera alla senatrice a vita Rita Levi Montalcini e il premio speciale“Leonardo”alla Protezione civile, rappresentata da Guido Bertolaso. Il riconoscimento speciale, assegnato per la prima volta dal comitato Leonardo presieduto dall’imprenditrice Luisa Todini, va alla Protezione civile quale «straordinaria espressione dell’eccellenza, delle capacità e della solidarietà del nostro Paese, di cui fanno parte tutti corpi organizzati dello Stato, a partire dal Corpo nazionale dei Vigili del fuoco, dalle Forze armate, dal Corpo forestale dello Stato, dalla Guardia di finanza, dalla Croce rossa che, grazie allo straordinario impegno professionale di Guido Bertolaso, hanno deciso di aiutare gli altri, mettendo le proprie competenze al servizio del Paese con generosità, umanità e passione».
politica
pagina 8 • 21 gennaio 2010
Alleanze. Sul «caso-Udc» Berlusconi fa politica del doppio forno: «Io direi di no, ma certe cose le decide il partito...»
Le elezioni a perdere Paradosso Regionali: nel Pdl e nel Pd molti si schierano contro i propri candidati di Marco Palombi
ROMA. Le prossime regionali oramai divenute una sorta di informali elezioni nazionali di mid term - si stanno caratterizzando per una novità assoluta nella politica italiana: il gioco a perdere di una parte rilevante del corpaccione scomposto dei due partiti politici maggiori. Pdl e Pd, in assenza di una univoca cultura politica, di una missione nazionale, di un’accettabilmente comune visione della società, si stanno disfacendo in una guerra per bande francamente imbarazzante: l’umiliazione subita dall’apparato di Forza Italia all’interno del Popolo della Libertà, gli strascichi di un congresso lacerante
per i democratici, hanno incancrenito anche le interminabili trattative per decidere i candidati, nella totale dimenticanza che il punto finale dovrebbe essere il governo del territorio. I prescelti in molte regioni, in particolar modo nel centro sud, individuati con difficoltà e spesso contro i partiti locali, ora si ritrovano nella particolare situazione di doversi preoccupare, più che di strappare voti all’avversario, di tenersi quelli della loro coalizione. La telenovela pugliese tra Vendola e Boccia già lo dimostra, ma se si guarda al caso del Lazio, questo nuovo scenario acquista una sua plasticità evidenza.
Renata Polverini era appena stata indicata che già aveva ottenuto un violento attacco da parte del berlusconiano barricadero Feltri: «È soltanto un Guglielmo Epifani in gonnella» Emma Bonino e Renata Polverini, comunque la si pensi due personalità di buon livello, arrivano a correre per la seconda regione italiana grazie all’abilità manovriera di aree decisamente minoritarie del loro schieramento, imposte con la forza dei fatti a partiti dubbiosi quando non recalcitranti: la segretaria dell’Ugl, ad esempio, ha beneficiato del movimentismo del presidente della Camera Fini scalzando non solo i candidati berluscones, ma anche personalità ex An più gradite al sindaco di Roma Gianni Alemanno; la leader radicale, invece, s’è inserita genialmente in quella sorta di violenta terapia di gruppo che è diventato il Pd laziale dopo lo scandalo Marrazzo. L’investitura ufficiale ottenuta dalle due però - cosa inconcepibile in un partito del Novecento ma anche solo tra persone serie non ha messo la parola fine alla guerriglia per bande.
Sì bipartisan per un «filtro» antimafia ROMA. I rappresentanti di tutti i gruppi politici presenti alla commissione antimafia chiedono di utilizzare le norme previste dalla legge istitutiva per attuare un «filtro» sulle liste delle candidature per le prossime elezioni regionali. Legge istitutiva alla mano, i rappresentanti di tutti i gruppi, su input del vicepresidente Fabio Granata (Pdl), hanno avanzato la proposta che già la prossima settimana la commissione decida di rendere operativo il comma della legge che assegna all’organismo di inchiesta il compito di indagare anche riguardo «alla selezione dei gruppi dirigenti e delle candidature per le assemblee elettive». A sostenere la richieste, nel corso di una conferenza stampa, sono stati, oltre a Granata, Angela Napoli (Pdl), Laura Garavini (Pd), Gianluca Buonanno (Lega), Luigi Ligotti (Idv) e Mario Tassone (Udc). Secondo i rappresentanti di tutti i gruppi, si tratta di fare «un passo avanti nella lotta alle mafie». Infatti all’esame dell’Ufficio di presidenza della commissione ci sarà a breve all’approvazione di un «protocollo di monitoraggio» sulle candidature nei consigli regionali in cui si voterà a marzo. «Stiamo ottenendo risultati straordinari nel contrasto alle mafie affermano i parlamentari promotori dell’iniziativa ora serve che la politica ponga in essere un tassello ulteriore nel progetto di liberazione dalle mafie, depurando le rappresentanze politiche da zone grigie e compiacenti».
Polverini, tanto per dire, non aveva ancora un comitato elettorale ma s’era già beccata un paio di violenti attacchi da Vittorio Feltri, interprete sempre più sopraffino degli spiriti animali del berlusconismo barricadero: «Un Guglielmo Epifani in gonnella», l’ha definita il direttore del Giornale. Di più: «Votarla? Non se ne parla nemmeno», è una che «dà fuoco alle polveri ma non brucia», che «conta nei salotti televisivi buoni», che «appena può strizza l’occhio a sinistra», che «ha saputo cavalcare abilmente
possibile - dice - che l’Udc si allei con Renata Polverini nel Lazio e poi faccia una campagna elettorale che è tutta contro il governo. Se non interviene un chiarimento definitivo per me sarà molto difficile riconoscermi nella candidatura di Renata». Così, sostiene Giro, si sancisce «la morte politica del Pdl» e «io chiederò a Silvio Berlusconi di rifondare Forza Italia, di tornare allo spirito precedente alla svolta del predellino del 2007, quando il nostro partito si fuse con An». Le reazioni a livello nazionale
Nel centrosinistra, alla fine tutti staranno con Emma Bonino, ma nessuno in modo convinto. A parte la frattura dei cattolici, i partiti minori avevano pensato di mettere in campo altri nomi successi e amicizie», «fa promesse che non manterrà». E infine, orrore, «il suo turbo si chiama Gianfranco Fini». Si dirà, è un direttore di giornale e non un politico. Solo che nemmeno pezzi del Pdl romano hanno mancato di farsi sentire pubblicamente. Francesco Giro, uno che prima faceva il coordinatore di Forza Italia nel Lazio e adesso fa il sottosegretario (e anche uno che si voleva candidare), ha attaccato la sua candidata dove poteva, cioè nell’accordo stretto con l’Udc superando i veti ispirati da Silvio Berlusconi: «Non è
sono state tutte a sostegno della candidata, ma a Roma e nel Lazio la situazione è molto diversa: più di un dirigente locale proveniente da Fi non ha intenzione di spendersi più di tanto per una “presidente” in cui non si riconosce e che, è il timore, cancellerà definitivamente gli azzurri dalla mappa del potere regionale. Queste, per così dire, inclinazioni dell’animo, hanno un riscontro nei primi numeri arrivati a via dell’Umiltà un paio di giorni fa, secondo cui Polverini attrae meno voti, circa un 4%, della coalizione che la appoggia.
politica
21 gennaio 2010 • pagina 9
Assenti. Al convegno di Arezzo la fondazione finiana non ci sarà
E Fare Futuro diserta la convention del Pdl di Riccardo Paradisi al Pdl non si torna indietro”e già il titolo del convegno di Arezzo del prossimo week-end, organizzato da due generali del Pdl Maurizio Gasparri (presidente dei senatori Pdl) e Ignazio la Russa (ministro della Difesa e coordinatore del Pdl) ha un suo senso specifico e sottilmente polemico. Considerato che ormai da qualche mese c’è chi rispetto all’approdo unitario del Pdl indietro vorrebbe tornarci eccome. Verso Forza Italia e lo spirito del Predellino come diceva per esempio il sottosegretario alla Cultura Francesco Giro appena ieri, irritato dalla disinvoltura con cui la candidata alla regione Lazio Renata Polverini e l’ex leader di An Gianfranco Fini,“il rivendicatore della collegialità decisionale”, trattano a tu per tu con l’Udc senza passare per i momenti superiori del partito.
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Dato preoccupante specialmente per una candidata scelta soprattutto per il suo appeal mediatico.
Emma Bonino, per parte sua, non ha di questi problemi, anzi risulta per il momento un valore aggiunto rispetto al disastrato centrosinistra laziale. Resta però che la maggior parte dei partiti che la appoggiano la considerano un’estranea se non un’avversaria. Per non restare che al solo Pd: gli ulivisti e l’area che la congresso ha appoggiato Marino criticano il fatto che la scelta della ex ministro sia avvenuta senza ricorrere alle primarie, i cattolici sono abbastanza inorriditi per le difficoltà a cui sono esposti nei rapporti con le gerarchie ecclesiastiche (queste ultime atterrite dalla possibile vittoria di un’anticlericale dichiarata nella città eterna), i vincitori del Congresso – Bersani, cioè, ma anche D’Alema e Enrico Letta – nella Bonino vedono in carne e sangue il profilo della loro impotenza. Pierluigi Castagnetti ha addirittura sostenuto che così si arriva ad «un divorzio definitivo con l’elettorato cattolico, perdipiù in una regione particolare come il Lazio». Lunare la posizione di Paola Binetti: «Farò campagna contro Bonino», ha detto annunciando pure che uscirà dal partito in caso di vittoria. E ancora. Rifondazione comunista e Sinistra e libertà, che pure alla fine la ap-
Gianfranco Fini, ai tempi di An, con i suoi «colonnelli»: La Russa, Alemanno, Ronchi e Gasparri. A destra, Italo Bocchino. Nella pagina a fronte, Renata Polverini poggeranno, sanno che il profilo liberista e liberale della radicale sconcerta il loro elettorato e tutta l’area dei movimenti (con cui a Roma c’è una profonda contaminazione). La stessa cosa può dirsi per Italia dei Valori, che arriverà a sostenere Bonino dopo una serie interminabile di tentennamenti e persino un accenno di candidatura del senatore Stefano Pedica. La vicepresidente del Senato, poi, s’è pure persa per strada la pattuglia dell’Api, che dovrebbe candidare Linda Lanzillotta con l’obiettivo di prendere “centomila voti”(parola di Rutelli). Anche nel caso Bonino, però, va conteggiata la variabile “impegno” degli alleati: specialmente in provincia una candidata senza soldi come lei avrebbe bisogno di un supporto massiccio dei caudillos democratici che difficilmente otterrà. Sono le elezioni a perdere, quelle in cui non è tanto importante battere l’avversario esterno, ma il nemico interno, dimostrargli che si ha ragione o, almeno, che non l’aveva neanche lui. Poi ci sono quelli che si aspettavano di più, quelli che temono di essere oscurati, quelli che ci vogliono provare alla prossima, quelli che pensano ai direttori delle Asl…
Ma c’è anche chi vorrebbe tornare indietro verso Alleanza nazionale come hanno minacciato i finiani a più riprese in questo lungo periodo di costante fibrillazione tra i confondatori del partito unitario. Soprattutto durante il grande freddo intercorso tra il Cavaliere e il presidente della Camera nei giorni in cui nel Pdl le due correnti non trovavano la quadra sulle forme e il merito con cui presentare il pacchetto giustizia e le norme salva premier in Parlamento. ”An è un partito in sonno – dicevano i falchi di Fini – non induceteci in tentazione ché Gianfranco ci mette cinque minuti a richiamare in vita simbolo e strutture del partito. E se ci presentiamo agli elettori prendiamo almeno il sette per cento”. Acqua passata fino a un certo punto. Visto che anche più recentemente, all’inizio di gennaio, Carmelo Briguglio e Fabio Granata, colonnelli finiani siciliani, sostenevano che erano in pericolo i motivi di convivenza nel Pdl: «Se nel Pdl non sarà possibile trovare forme di sintesi politica bisognerà andare oltre la vecchia dicotomia destra-sinistra. C’è una fronda antifiniana nel Pdl non governata da Berlusconi che rende difficile l’elaborazione di una linea politica coerente con una moderna forza riformista europea. Oggi come oggi la quota del 70 per cento del Pdl agli ex Forza Italia e del 30 agli ex di An non conta nulla, perchè non rappresenta le idee di Fini». Gasparri risponde che in quel trenta per cento di rappresentanza di ex An ci sono esponenti di destra che sarebbero più rappresentati nelle loro idee se stessero nella quota del settanta per cento. Come a dire che è questio-
ne di punti di vista. Il convegno di Arezzo che riunirà parlamentari, ministri e vertici del partito, associazioni e fondazioni di area – dice Gasparri – sarà un evento inclusivo e non esclusivo. Non riguarderà cioè solo l’area di ex An che si ritrovava nella corrente di Destra protagonista, la componente che faceva capo appunto a Gasparri e La Russa e che nella città toscana si dava appuntamento quasi ogni anno. Ad Arezzo sono stati invitati tutti i parlamentari del Pdl, e tra i più di 1200 che hanno aderito ci saranno il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, il presidente dei deputati Pdl Fabrizio Cicchitto, il vicepresidente dei senatori Gaetano Quagliariello, il ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini, il sindaco di Roma Gianni Alemanno, il ministro della gioventù Giorgia Meloni e poi Altero Matteoli ministro alle Infrastrutture, Andrea Ronchi e Italo Bocchino, il primo sottosegretario agli esteri il secondo vicepresidente dei deputati Pdl. Insomma quasi tutti i principali esponenti del Pdl. Convegno non esclusivo, nel senso che gli organizzatori non hanno voluto escludere nessuno. Come a dire che chi non ci sarà, come per esempio la fondazione Fare Futuro, è perché all’invito rivolto a tutti i deputati del Pdl qualcuno non ha voluto rispondere.
E del resto Gasparri in una recente intervista all’Occidentale lo ha detto chiaramente: «Noi non abbiamo invitato le fondazioni, abbiamo scritto ai parlamentari del Pdl, quindi se un parlamentare è anche promotore di un’associazione, di una fondazione può rispondere e aderire. Abbiamo determinato un lungo elenco di promotori, ci sono tante associazioni e singoli parlamentari che hanno aderito, penso all’associazione di Tatarella, all’Ircocervo di Cicchitto che recentemente ha istituito una fondazione, penso a Isabella Bertolini e molti esponenti dell’ex Fi». I temi su cui si concentrerà il dibattito sono cittadinanza e valori etici. Temi su cui i finiani hanno scelto strade diverse rispetto alla maggioranza del partito. È vero, alcuni finiani ad Arezzo ci saranno: Bocchino per esempio e Ronchi ma che accanto a tutte le fondazioni del centrodestra non ci sia la finiana fare futuro è un elemento non secondario. Come il fatto che ad Arezzo, come prevede Gasparri, emergerà con chiarezza «che le posizioni prevalenti al congresso fondativo su molti temi sono le stesse in cui si oggi si riconosce larga parte del Pdl e che dovranno essere affermate nelle sedi politiche».
I temi su cui si concentrerà il dibattito sono cittadinanza e valori etici. Temi su cui i finiani hanno scelto strade diverse rispetto alla maggioranza del partito
panorama
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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Non ci sono più le maestre di una volta... talia Futura, la fondazione presieduta da Luca Cordero di Montezemolo, ha presentato a Napoli il rapporto sulla scuola elementare «Maestri d’Italia». L’idea di parlare di scuola iniziando dagli insegnanti è giusta. La scuola è prima di tutto insegnamento. Tuttavia…
I
Proprio a Napoli va avanti da mesi la vicenda della sostituzione di Alberto Bottino alla direzione dell’ufficio scolastico regionale della Campania. La scuola italiana è, purtroppo, una grande macchina burocratica che, causa la sua elefantiasi, non è neanche in grado di avvicendare in tempi utili i direttori degli uffici. Intanto nella scuola vera, quella fatta di banchi e cattedre, è ormai da tempo finito il primo quadrimestre e, nelle scuole che adottano il trimestre, tra poco finirà il secondo trimestre, ma ancora non sono state decise tutte le immissioni in ruolo e l’anno in corso si prepara a girare l’ultima curva. I sindacati protestano per i tagli, tutelano i precari, ma cercare nel sindacato la cura per la scuola è come curare questo tipo di malato con una delle sue molte malattie. Nella scuola il 97 per cento delle risorse economiche va via in stipendi, ma c’è anche un altro numero che può dare il senso della mostruosità di cui parliamo: al ministero dell’Istruzione fanno capo una cosa come un milione e 300mila dipendenti. La scuola italiana è l’azienda più grande del Paese, ma non solo è improduttiva, è anche a rischio collasso. Si può capire, allora, la scelta di “Italia Futura” di non partire dal “sistema”, bensì dai suoi protagonisti e, parlando di scuola primaria, dei “maestri d’Italia”. Scriviamo maestri, ma in realtà si tratta quasi esclusivamente di maestre. Anzi, la maestra è una figura educativa tipicamente italiana. Sono proprio le “maestre d’Italia” che tra Ottocento e Novecento, con stipendi da fame, permettono la costruzione di una scuola laica nazionale interrompendo il monopolio dell’insegnamento ecclesiastico. Parlare di maestri, insegnanti, docenti per discutere della scuola è senz’altro un buon metodo. I docenti “sono” la scuola. Però, quando si pone la domanda “come insegnare?” la scuola dei docenti si divide in scuole. È avvenuto anche con la presentazione del rapporto di “Italia Futura” sulle maestre: meglio le “montessorine” o il rigore formativo? Le maestre, giustamente, rivendicano il loro diritto a dire come insegnare e cosa fare per migliorare la scuola e cosa fare per garantire la cattedra ai precari. Tuttavia, c’è qualcosa che non torna. In Italia, infatti, la libertà dell’insegnante trova un suo preciso limite nell’esistenza del monopolio statale dell’istruzione. Docenti e maestre vogliono decidere la didattica, ma non sono disposti a rischiare e fondare delle scuole rinunciando al valore legale del titolo di studio e uscendo dal monopolio statale dell’istruzione che ormai non si regge più in piedi. È il vero limite del dibattito italiano sulla scuola immobile: perché la scuola è una creazione della società prima che dello Stato.
Quella riforma mancata del Fondo monetario Con la crisi doveva diventare l’autorità mondiale, ma poi... di Gianfranco Polillo era una volta la grande crisi. E, sull’onda emozionale di una caduta senza precedenti del reddito mondiale, adeguati propositi di riforma. Dagli assetti monetari internazionali, ai rapporti tra Stati e Continenti: tutto sembrava tornato ad essere in discussione. E c’era chi già preconizzava l’avvento di una moneta mondiale che ponesse fine al predominio del dollaro, come unico equivalente universale per gli scambi internazionali. La fine di un signoraggio, grazie al quale la più forte potenza occidentale, chiusa nel suo splendido isolamento, poteva dominare le proprie contraddizioni interne, dopo aver chiamato il resto del mondo a pagare un conto salatissimo. A sostegno di questa impostazione era, del resto, l’analisi di quanto era avvenuto. Gli Usa, dalla fine degli anni ’90 erano cresciuti ad un ritmo che smentiva le antiche profezie dei più grandi economisti: da Karl Marx e John Maynard Keynes, uniti nel teorizzare l’inevitabile rallentamento delle economie più mature. Il più forte paese dell’Occidente non solo sembrava immune dal virus del ristagno, ma aveva mostrato una vitalità sorprendente. Peccato che i nuovi profeti del pensiero unico non vedevano il rovescio della medaglia. Un’economia che cresceva grazie, se non esclusivamente, al debito e al suo finanziamento da parte del resto del mondo: Cina in testa.
C’
un nuovo dirigismo statuale per accelerare la riconversione produttiva dei paesi sconvolti dalla crisi e rimodellare il relativo welfare.
Al centro di questa lunga campagna soprattutto le grandi istituzioni internazionali: il Financial stability forum, presieduto da Mario Draghi, poi trasformatosi nel Financial stability board e il Fondo monetario internazionale. Quest’ultima istituzione, per la verità sonnacchiosa e polverosa almeno negli ultimi anni, sembrava essere destinata a divenire la stella polare del nuovo ordine internazionale. Se il dollaro doveva essere sostituito da qualcosa che mantenesse un carattere di universalità, questa poteva essere soltanto costituita dai «diritti speciali di prelievo»: una moneta simbolica ed evanescente affidata alle cure del Fondo stesso. E vi fu un momento in cui questa prospettiva sembrò sul punto di decollare: tant’è che la Cina, il massimo creditore del Tesoro americano, esercitò una forte pressione per trasformare quell’istituzione, da sempre al servizio dell’Occidente (soprattutto degli Usa), in un una struttura se non proprio più democratica, almeno più aperta alle istanze della rappresentanza. Battaglia che produsse solo un topolino e una redistribuzione minimalista delle quote di potere interno. Con la conseguenza di determinare il definitivo naufragio di ogni visione universalistica. Del resto la fragilità di fondo di quell’ipotesi era evidente. Battere moneta costituisce la prerogativa più forte dello Stato moderno: attività che è manifestazione assoluta di sovranità. Come poteva un’Istituzione, sebbene resa più democratica nella distribuzione del potere, esercitare quei poteri sovrani? Non poteva.
Si è dimostrata vana l’ipotesi di «governare» il dollaro dall’esterno. Come pure trovare una nuova moneta di riferimento
Poi quel sogno tranquillizzante si è infranto sotto l’incalzare della crisi, alimentata da quegli stessi animal spirits che, negli anni precedenti, avevano supportato l’economia: grandi imprese multinazionali, istituzioni finanziarie «troppo grandi per fallire», manager onnipotenti dalle retribuzioni milionarie, da giustificare con l’argomento ch’erano loro – i nuovi sacerdoti – a creare valore per i propri azionisti e quindi per i rispettivi Paesi. Solo allora, mentre le banche più indebitate fallivano e per altre lo Stato interveniva con operazioni finanziarie senza precedenti nella storia degli ultimi cento anni, si scopriva il moral hazard, l’entità di una speculazione senza ritegno, la fragilità complessiva dell’intero sistema. Al panico di quei giorni seguirono i grandi propositi di riforma: nuove regole internazionali per scongiurare quegli eventi, controlli più stringenti sull’attività delle banche, meno leva finanziaria e più sostegno all’economia reale, l’insorgere di
Passato quel momento, il Fondo monetario è tornato ad essere quello di sempre. Un organismo in grado di esercitare una qualche influenza, specie nei confronti dei meno potenti della Terra. Ma nulla a che vedere con le ipotesi immaginifiche ch’erano state avanzate. Nessuna sorpresa. La grande crisi, con il trascorrere dei mesi, si è dimostrata essere meno grande di quanto all’origine si era pensato. Nessun crollo del sistema capitalista, né il ripetersi degli avvenimenti del ’29; ma una caduta congiunturale seppure più aspra del passato. E con i primi accenni di ripresa, tutto sembra tornare come prima. Almeno fino alla possibile prossima crisi.
panorama
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La più grande compagnia aerea asiatica ha chiuso in perdita il bilancio per la terza volta
Lezione giapponese per Alitalia La Japan airlines verso il fallimento pilotato. In vista di un autentico rilancio di Alessandro D’Amato la quinta più grande bancarotta nella storia del paese, la prima che non coinvolge società finanziarie. La Japan Airlines (Jal) ha avviato le procedure legali per la bancarotta protetta e ha presentato un piano di risanamento che prevede il licenziamento di 15.600 dipendenti, pari a un terzo dell’organico, entro marzo 2013. La compagnia ha reso noto che in ogni caso non sarà interrotto il servizio e continuerà a volare.
È
Jal, nata nel 1951, è la più grande compagnia aerea asiatica, anche se ha chiuso in perdita tre anni di bilancio su quattro nell’ultimo periodo. L’Entreprise Turnaround Inizative Corporation, un fondo d’investimento statale, è stato incaricato dal governo giapponese di far ripartire il vettore, e investirà 3,3 miliardi di dollari in quella che sembra un’impresa titanica, viste le misure da “cura di cavallo”prese dall’esecutivo del Sol Levante. Il piano di ristrutturazione prevede anche la vendita o la chiusura di metà delle controllate della società per raccogliere liquidità e ridurre i costi operativi del 25%. Tra gli altri punti, si legge in una nota, figurano la cancellazione di 14 rotte internazionali e di 17 nazionali, oltre che il delisting di Borsa dei titoli Jal a partire da mercoledì. I debiti della Jal assommano a circa 16 miliardi di dollari, pari a 11,1 miliardi di euro. La
compagnia di bandiera giapponese ha inoltre chiesto ai creditori di rinunciare a circa 730 miliardi di yen sui debiti accumulati al 30 settembre scorso. La procedura di bancarotta permette a Jal di beneficiare di fondi pubblici per 300 miliardi di yen (2,3 miliardi di euro), altri 350 saranno messi a disposizione dalla Banca Giapponese per lo Sviluppo, anch’essa statale. Secondo il governo giapponese l’operazione permetterà a Jal «una riorganizzazione trasparente». Il presidente Haruka Nishimatsu ha presentato le dimissioni e
un nuovo consiglio di amministrazione sarà nominato all’inizio di febbraio, ha reso noto la compagnia. Che procederà a una drastica riduzione di tutte le attività non-core (hotels e shopping center, ad esempio) e alla monetizzazione dei guadagni per reinvestirli nel core business. Le previsioni dell’azienda vedono un ritorno al pareggio di bilancio per il marzo 2012.
Il Financial Times, prendendo a prestito un gioco di parole di sicuro effetto, è molto critico sulle scelte del governo su Jal e parla addirittura di un nuovo modo di fare harakiri: il riferimento, nemmeno tanto velato, è alla miriade di attività di indotto che la compagnia metterà in crisi a causa di un ridimensionamento che è considerato dal quotidiano finanziario esagerato per la condizione del vettore. L’FT critica anche le scelte finanziarie: i futures impegnati nell’acquisto del carburante finiranno per creare altri danni e perdite, la stessa sorte prevista per le obbligazioni della compagnia. È una gestione quantomeno originale di una crisi aziendali, scrivono ancora sul Financial Times, che mette in primo piano gli stakeholders (il governo, i lavoratori) rispetto agli azionisti (gli shareholders). Eppure la ristrutturazione del vettore asiatico,
Il risanamento prevede il licenziamento di un terzo dei dipendenti entro marzo 2013
nella sua drammaticità, colpisce anche per la differenza di gestione delle crisi del settore aereo predisposta in Europa, come quella di Alitalia.
Jal rinuncerà a un terzo della sua forza lavoro, si tiene pronta ad affrontare due anni di “rosso” operativo, ma se i creditori e gli azionisti saranno trattati di certo con un rispetto molto simile ai “metodi” occidentali, è anche vero che l’investimento economico nel rilancio sarà di tutto rispetto, e non a fondo perduto: Jal, senza interrompere il servizio, vedrà entrare nelle sue casse in varie modalità quasi nove miliardi di dollari. Un modo per ripartire che dovrebbe permettere una visione a medio termine piuttosto tranquilla, che darà ai manager la possibilità di gestire per il meglio. Più significativa ancora è la richiesta ai creditori di rinunciare al conquibus: una presa di posizione forte, che differenzia ancora di più dall’atteggiamento di chi, come è successo in Italia, ha scelto invece il più forte creditore per organizzare il piano di salvataggio. Una decisione che, come è normale che sia, ha portato alla salvaguardia dei debiti finanziari rispetto alle altre “caratteristiche” da sacrificare. Jal riparte come Alitalia, la sua storia ha qualche affinità (anche in negativo) con quella del vettore italiano. Ma le differenze si notano di più.
Conti. Sulla crescita del Pil nel 2010, Corrado Passera non è ancora ottimista
I banchieri smentiscono Tremonti di Dario Ferri ul Pil i banchieri sono più pessimisti del ministro. L’altroieri, al termine della riunione dell’Ecofin a Bruxelles, Giulio Tremonti ha fatto sapere che è intenzionato, come tutti gli altri responsabili economici dell’Europa, a rivedere al rialzo le stime sul prodotto interno lordo fino all’1%. «Metteremo un 1 nelle previsioni di crescita del piano di stabilità», ha detto, aggiungendo: «Non sono un fanatico dei decimali, potremmo mettere un altro numero: siamo costretti a fare previsioni». Con massima cautela, anche i commercianti la pensano come il responsabile di via XX Settembre: «Anche il nostro ufficio studi prevede per il 2010 la crescita del Pil di un punto e anche i consumi si attesteranno intorno a questo dato», ha detto Carlo Sangalli, presidente di Confcommercio. «Comunque non si tratta ancora - ha aggiunto Sangalli - di una crescita stabile e duratura. Bisogna fare in modo che si arrivi a questo passaggio, quindi bisogna mettere in campo le risorse che questo Paese
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ha, supportando le imprese, «in particolare le piccole e medie che costituiscono più del 95% della struttura produttiva del nostro Paese».
Meno entusiasta invece è sembrato Corrado Passera, amministratore delegato di Banca Intesa e banchiere “di riferi-
simi. Ed è difficile dargli torto, visto che una delle cause strutturali delle difficoltà dell’economia italiana, anche in tempi pre-crisi, è stata proprio l’incapacità di produrre un incremento del Pil duraturo e superiore rispetto ai grandi altri partner europei. Insomma, se il ministro punta ai decimali, il banchiere non si rallegra più di tanto per numeri positivi, sì, ma comunque non decisivi nell’ottica di un miglioramento delle condizioni economiche del Paese. L’Ottimismo è dei politici, il realismo rimane appannaggio dei manager. Che poi tra i due ultimamente, soprattutto dopo il ‘no’ di Intesa ai Tremonti bond e l’emissione di obbligazioni da parte di Ca’ de’ Sass considerate «debito» dal ministero, è un fatto. Ma è anche un’altra storia. Forse.
«Con questa crescita non si esce dai problemi» ha detto l’ad di Banca Intesa commentando le parole del ministro in margine all’Ecofin mento” del governo in occasione dell’intervento di salvataggio su Alitalia. A margine dell’esecutivo Abi riunitosi a Milano, ad una domanda sulle prospettive economiche del Paese, Passera ci è andato giù duro: «Con questa crescita non si esce dai problemi», ha detto il banchiere riferendosi proprio al basso incremento del Pil previsto sia per quest’anno che per i pros-
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entinaia di milioni di persone moriranno di fame, perché la crescita della popolazione mondiale supererà la produzione di cibo e altre risorse essenziali per l’uomo. È il 1968: con la pubblicazione di The Population Bomb («la bomba demografica»), il biologo statunitense Paul Ralph Ehrlich, come già fece l’economista inglese Thomas Malthus alla fine del Settecento, preconizza la catastrofe umanitaria. Perché la pressione demografica sarà capace, tra gli anni Settanta e Ottanta, di mietere più vittime di una bomba atomica. Secondo molti economisti, questa teoria catastrofista sarebbe stata smentita dai fatti, grazie al progresso tecnologico e alla globalizzazione. Oggi siamo 6 miliardi e 830 milioni; saremo 9 miliardi e 150 milioni intorno al 2050, quando il tasso di crescita della popolazione, secondo l’Onu, sarà prossimo allo zero. Se il Pil mondiale aumenterà, come da previsioni, tra i due e i tre punti percentuali all’anno, la produzione crescerà più della popolazione. Questo vuol dire che non dobbiamo preoccuparci di quanti siamo, ma di come la popolazione è composta e distribuita. Quattro cambiamenti epocali riguarderanno la popolazione
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Nei prossimi anni sarà necessario aumentare moderatamente le tasse, innalzare l’età pensionistica ed eliminare i bonus sanitari per i più abbienti mondiale nei prossimi 40 anni: il peso demografico dei Paesi industrializzati scenderà di circa il 25 per cento, spostando il potere economico nei Paesi in via di sviluppo; l’invecchiamento nel Primo Mondo renderà necessaria la domanda di manodopera straniera; la crescita della popolazione sarà concentrata in quelli che oggi sono i Paesi più poveri e giovani, a maggioranza musulmana, che offrono poche opportunità formative e lavorative; infine, la popolazione urbana supererà quella rurale, con le maggiori città concentrate nelle zone più povere del pianeta. Un’evoluzione che pone l’umanità di fronte a problemi non meno allarmanti di quelli previsti da Ehrlich: questa l’opinione di Jack Goldstone, autorevole sociologo statunitense, esperto di politica internazionale e movimenti sociali. Che li analizza nel saggio The New Population Bomb («La nuova bomba demografica») pubblicato sull’ultimo numero del magazine Foreign Affairs.
IL DECLINO DELL’EUROPA All’inizio del diciottesimo secolo, circa il 20 per cento della popolazione mondiale viveva in Europa (compresa la Russia). La rivoluzione industriale provocò un cospicuo aumento dei residenti e il conseguente flusso migratorio verso l’America. Alle soglie della prima guerra mondiale, la popolazione era quadruplicata in Europa, dove abitavano più persone che in Cina. Con le ex colonie dell’America settentrionale, costituiva il 33 per cento della popolazione totale. Questo andamento s’interruppe dopo la Grande Guerra, con il miglioramento delle condizioni di vita negli altri continenti: all’inizio di questo secolo, la popolazione di Europa, Stati Uniti e Cana-
Gli studi economici e demografici prevedono uno scenario molto complesso per il 2050: a Ovest saremo sempre di meno e sempre più anziani mentre la popolazione dei Paesi a reddito basso sarà giovane, produttiva e urbanizzata.
La nuova bomba demogra
Così la chiama il sociologo Usa John Goldstone: l’Occidente in crisi, l’Oriente in clamorosa crescita. È il profilo del Ventunesimo secolo di Patrizio Cairoli da rappresentava solo il 17 per cento di quella mondiale. E nel 2050 scenderà al 12 per cento. Il declino dell’Occidente assume contorni ancor più netti se si considerano i dati sulla produzione. Goldstone cita l’economista britannico Angus Maddison, secondo cui Europa, Stati Uniti e Canada producevano, all’inizio del 1800, cir-
ca un terzo del Pil mondiale. A metà del Novecento, il loro prodotto era il 68 per cento di quello mondiale (a parità di potere d’acquisto). Questo andamento ha poi subìto una brusca inversione: nel 2003, si era già scesi al 47 per cento. E se il tasso di crescita tra il 2003 e il 2050 dovesse essere lo stesso del trentennio 1973-2003, il loro Pil costituirebbe meno
del 30 per cento di quello globale. Secondo la Banca Mondiale, entro il 2030 la classe media dei Paesi in via di sviluppo sarà maggiore dell’intera popolazione di Europa, Stati Uniti e Giappone. D’ora in avanti, a guidare la crescita economica saranno i Paesi di recente industrializzazione, come Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico e Turchia.
L’INVECCHIAMENTO DELLA POPOLAZIONE I figli del baby boom sono invecchiati, l’aspettativa di vita è aumentata. Così oggi la percentuale di over 60 in Canada, Stati Uniti e Unione Europea è tra il 15 e il 22 per cento, e raggiunge il 30 per cento in Giappone. Nel 2050, circa il 30 per cento di americani, canadesi, cinesi ed europei avrà oltre 60 anni, come anche più del 40 per cento di giapponesi e sudcoreani. Con il risultato che questi Paesi avranno sempre più pensionati e meno lavoratori - solo l’Europa ne avrà circa 120 milioni in meno - con conseguenze negative su crescita economica e spesa sanitaria. Per questo, molti Paesi industrializzati stanno affrontando il tema della riforma pensionistica. Necessario, secondo Goldstone, aumentare moderatamente le tasse, innalzare l’età pensionistica ed eliminare i bonus sanitari per i più abbienti. In ogni caso
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tanti; ora ne hanno 886 e potrebbero averne 475 milioni in più nel 2050, quando l’aumento nei sei maggiori Paesi industrializzati dovrebbe essere di circa 44 milioni.Tra i 48 Stati a maggior crescita demografica, 28 sono a maggioranza musulmana o hanno almeno il 33 per cento della loro popolazione di fede islamica. Già questi dati rendono lampante la necessità di migliorare le relazioni tra mondo islamico e Occidente. Povertà, tensioni sociali e radicalizzazioni ideologiche, rileva Goldstone, potrebbero avere degli effetti devastanti in molti angoli del mondo.
L’ESPANSIONE URBANA
afica Qui sopra, il Sahara; a destra, uno scorcio di New York. In alto, un parcheggio di biciclette a Pechino e in basso la metropolitana di Tokio gli over 80 e 90, bisognosi di assistenza e cure costose, saranno sempre di più. E anche se i sessantenni e i settantenni continueranno a lavorare, avranno bisogno di curare la loro salute. Così una larga porzione della già ridotta crescita economica di questi Paesi servirà a pagare sanità e pensioni. È la dimostrazione che anche il progresso, in questo caso rappresentato dalla maggiore aspettativa di vita, può causare degli effetti negativi.
Il 2010 sarà probabilmente il primo anno nella storia in cui la popolazione urbana avrà superato quella rurale. Se nel 1950 meno di tre persone su 10 vivevano in città, nel 2050, secondo le stime dell’Onu, saranno più di sette. Paesi a basso reddito di Asia e Africa stanno vivendo una rapida urbanizzazione, a causa della minore manovalanza necessaria nei campi e delle maggiori opportunità lavorative nell’industria e nel settore terziario. Già oggi, quasi tutti i maggiori agglomerati urbani si trovano nei Paesi a basso reddito: da Mumbai a Città del Messico, da Nuova Delhi a Shanghai, da Calcutta a Karachi. Nel 2050, vivranno in città 3 miliardi di persone in più. Questa urbanizzazione potrebbe essere destabilizzante. Lo sviluppo sta avvenendo in Paesi che hanno un Pil notevolmente più basso di quello che avevano i Paesi industrializzati al tempo della loro urbanizzazione. Negli Stati Uniti, per esempio, un tale sviluppo si ebbe quando il reddito annuo pro capite era di circa 13.000 dollari (in dollari del 2005). Oggi in Pakistan, Nigeria e Filippine è compreso tra i 1.800 e i 4.000 dollari. Secondo le ricerche di Richard Cincotta e altri demografi, i Paesi con una popolazione giovane sono più soggetti a fermenti civili e meno capaci di creare o sostenere le istituzioni democratiche. Inoltre, è probabile che una forte urbanizzazione produca violenze e povertà di dickensiana memoria. Nei prossimi decenni, nella peggiore delle ipotesi, questo rapido sviluppo potrebbe causare problemi e crisi simili a quelli affrontati in Europa nel diciannovesimo secolo, rivoluzioni comprese. E soprattutto, rinfocolare il terrorismo internazionale.
GIOVENTÙ E ISLAM NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO
DISINNESCARE LA BOMBA
Europa, America del Nord e Asia nordorientale hanno dunque una popolazione sempre più anziana, mentre nove ragazzi su dieci con meno di 15 anni vivono “nell’altro mondo”. Circa il 70 per cento della crescita demografica, di qui al 2050, avverrà in 24 Stati classificati dalla Banca Mondiale, nel 2008, come Paesi a reddito basso o medio basso, ovvero inferiore ai 3.855 dollari pro capite annui. Molti Paesi in via di sviluppo hanno poche possibilità di soddisfare la richiesta di lavoro della giovane e crescente popolazione, sempre più attratta dalle economie più avanzate, dove manca l’offerta per i lavori manuali e meno redditizi. La maggior parte di questa nuova manodopera vive in Paesi a maggioranza musulmana, destinati a una continua crescita demografica. Bangladesh, Egitto, Indonesia, Nigeria, Pakistan e Turchia – oggi i sei Stati musulmani più popolosi - nel 1950 avevano complessivamente 242 milioni di abi-
Per allontanare questi potenziali pericoli, serviranno delle misure radicali. Tre interventi globali disinnescarono, secondo Goldstone, la bomba di Ehrlich: il controllo del tasso di riproduzione, lo sviluppo di nuove tecnologie per l’efficienza agricola e del commercio internazionale. Diversi gli interventi necessari oggi. Le istituzioni che guidano il “governo mondiale” devono adeguarsi all’invecchiamento del mondo industrializzato, alla concentrazione della crescita economica e demografica nei Paesi in via di sviluppo e all’aumento dei flussi migratori. Durante la Guerra Fredda, il pianeta fu diviso in tre: un “Primo Mondo” costituito dalle democrazie industrializzate, un “Secondo Mondo”dei Paesi industrializzati a regime comunista e, infine, un “Terzo Mondo” formato dai Paesi in via di sviluppo.L’obiettivo, all’epoca, era quello di evitare o gestire i conflitti tra i primi due, cercando di attrarre nel proprio
Il 2010 sarà probabilmente il primo anno nella storia dell’uomo in cui la popolazione urbana avrà superato quella rurale
campo i Paesi del Terzo Mondo, con guerre e iniziative diplomatiche. Alla fine della Guerra Fredda questa suddivisione fu abbandonata, nell’illusione che gli Stati Uniti potessero da soli, o con l’aiuto di Europa e Cina, mantenere la Pax Americana. Una visione anacronistica del mondo, nota Goldstone, frutto dell’incapacità di comprendere l’andamento demografico in atto. Ecco
allora una nuova tripartizione: un “Primo Mondo” con i Paesi industrializzati di Europa, America del Nord e della costa pacifica dell’Asia, che subiscono l’invecchiamento della propria popolazione; un “Secondo Mondo” formato dai Paesi di nuova industrializzazione, economicamente dinamici e con una popolazione mista di giovani e anziani; un “Terzo Mondo”di Stati in via di urbanizzazione, caratterizzati da governi deboli, povertà e una popolazione molto giovane, che cresce a ritmo vertiginoso. Da questo schema emerge il ruolo centrale, nel nuovo ordine mondiale, dei Paesi del “Secondo Mondo”, non solo per guidare la crescita economica, ma per la cooperazione e la sicurezza internazionale, data la loro vicinanza geografica e culturale ai Paesi del Terzo. Per questo il G-8 è un organismo sorpassato; il G-20, progressivamente più importante, è il riconoscimento dell’esistenza di nuove potenze economiche, come Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico e Turchia, che non possono più essere escluse da istituzioni internazionali che vogliano conservare la loro legittimità. Di un radicale cambiamento ha bisogno anche la Nato: la sua struttura, modellata sulla Guerra Fredda, è incapace di rispondere adeguatamente alle minacce contemporanee. Per questo dovrebbe considerare l’importanza strategica di invitare nell’alleanza Brasile e Marocco, piuttosto che l’Albania. Ma i Paesi industrializzati devono agire anche a livello nazionale. Prima di tutto, devono incoraggiare le famiglie ad avere più figli, come fatto recentemente, con alcune riforme, da Francia e Svezia. Anche se è difficile sapere quali politiche possano davvero incoraggiare la fertilità. Più importante, per questo, è l’immigrazione. Gestito correttamente, il flusso migratorio porta benefici ai Paesi industrializzati così come a quelli in via di sviluppo, dove i migranti spediscono i soldi guadagnati e spesso tornano a vivere, arricchiti da esperienze scolastiche e lavorative. Dal 1800 in poi, la crescita economica non si era mai verificata al di fuori di Europa, Stati Uniti e Canada. Mai era successo che la loro popolazione fosse così anziana. Mai che la popolazione dei Paesi a reddito basso fosse così giovane e urbanizzata. Ma questo sarà il mondo nel ventunesimo secolo. Dobbiamo rendercene conto. E trovare le alternative a strutture politiche, economiche e sociali ormai obsolete.
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Strappo. Wilders, 46 anni e quasi il 17 per cento dei voti, da ieri in tribunale: «Ho detto quello che milioni di persone pensano»
Criticare l’Islam è reato? Processo al leader del secondo partito olandese che ha definito il Corano «un libro disgustoso» di Luisa Arezzo l più blasonato quotidiano olandese De Telegraaf lo ha già definito il “processo del secolo”. È cominciato ieri: il 20 gennaio 2010. La data era fissata da tempo e l’attesa di questi mesi, per i Paesi Bassi, si è rivelata spasmodica. Il motivo è facilmente spiegabile: dopo questo processo potrebbe essere reato criticare duramente l’islam. Perché il tribunale penale di Amsterdam giudicherà Geert Wilders, il leader del Partito per la Libertà, accusato di istigazione alla discriminazione e all’odio. Wilders è, a detta di molti olandesi, l’erede naturale di Pim Fortuyn, il dandy populista ucciso nel 2002 da un balordo, che attirava le folle con i suoi propositi razzisti e invitava i connazionali a cambiare modo di vivere, dimenticando il culto del Paese della Tolleranza per chiudere le porte a un’immigrazione selvaggia. Capello biondo tinto e sguardo furbo, Wilders ha abbandonato il partito Liberale conservatore (Vvd) nel 2004 per formare il suo Partito per la Libertà (Pvv) che alle ultime elezioni europee, nel 2009, ha conquistato il
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16,7 per cento dei voti, classificandosi secondo partito olandese dietro ai cristianodemocratici. Il suo cavallo di battaglia è la lotta senza quartiere all’islamizzazione dell’Europa. E prima di tutto, della sua Olanda. «Il Corano chiama i musulmani a sottomettere, perseguitare, uccidere (ebrei, cristiani, non-credenti), a violentare le donne e a imporre uno Stato musul-
parole furono solo un lauto antipasto. Il pranzo, quello vero, arrivò poco dopo: con la messa in onda su Internet del suo cortometraggio Fitna. In quel preciso momento scattò l’indignazione e la reazione del mondo musulmano. Perché il suo lavoro non era un film qualunque. Ma una precisa accusa al fondamento dell’Islam, il Corano, un libro «disgustoso e fascista», come
L’accusa è di istigazione alla discriminazione e all’odio. «Sono agguerrito e mi difenderò a testa alta». L’opinione pubblica si divide e il governo trema. In allarme le ambasciate nei Paesi musulmani mano», ha scritto l’8 agosto del 2008 nel giornale Volkskrant, in una lettera aperta agli olandesi dal titolo «Il troppo è troppo».
«Ba sta Is la m in O landa ; basta immigrati musulmani; basta costruire moschee: proibite il Corano nelle scuole e anche nelle moschee!». Già questa, in un piccolo Regno risvegliato bruscamente da secoli di tradizione all’accoglienza, è stata una bomba. Ma per Geert Wilders, quelle
l’ha definito Wilders un anno fa, in una lettera aperta in cui ha paragonato il Corano al Mein Kampf, libro-ideologia di Adolf Hitler. Il filmato terminava con la frase: “Stop all’islamizzazione. Difendiamo la nostra libertà”. Il suo proposito - proiettarlo in sede di Assemblea al Parlamento Europeo - non andò in porto. Tanto da indurlo ad accusare l’istituzione di censura. «Mi sembra di essere alla Mecca invece che a Strasburgo», aveva detto.
In tutto il mondo, da Amman a Londra, non si contano più le azioni legali contro di lui. E numerosi siti in arabo offrono una lauta ricompensa per chi riuscirà a uccidere Wilders, meglio se decapitarlo. Ma fino a quando L’Alto consiglio, la più alta istanza giudiziaria olandese, non decise di criminalizzare le sue idee antislamiste (e qui va ricordato che il nome di Wilders era in cima alla lista dei
“bersagli” inchiodata sul petto di Theo van Gogh, il regista assassinato nel 2004 a causa del cortometraggio Submission), mai si era pensato di poter arrivare a un processo. «La libertà di espressione rischia di essere sacrificata sull’altare dell’islam», disse Wilders in quell’occasione. «Ci sarà un processo politico, perché ho detto quello che milioni di olandesi pensano. Ma sono super agguerrito e com-
«È il politico europeo più coraggioso e se sarà condannato diventerà ancora più forte tra la gente»
Perché sto dalla parte di Geert hi è il più importante uomo politico europeo vivente oggi? Io dico esplicitamente che è Geert Wilders. Perché più di tutti è in grado di occuparsi della sfida islamica che il Vecchio Continente si trova ad affrontare. La sfida islamica consta di due componenti: da un lato c’è l’indebolimento della fede cristiana nella popolazione europea combinato a un inadeguato tasso di natalità e a una timidezza nei confronti della propria identità culturale; dall’altro c’è l’aumento dell’afflusso di immigrati musulmani che sono devoti, prolifici e in possesso di un dogmatico senso del proprio retaggio culturale. Questa situazione solleva profondi interrogativi riguardo al futuro dell’Europa: manterrà la propria civiltà storica o diventerà un continente a maggioranza musulmana dominato dalla sharia, la legge islamica?
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di Daniel Pipes Geert Wilders, 46 anni, fondatore e leader del Partito della libertà (Pvv), interpeta senza rivali i sentimenti di quegli europei che desiderano mantenere la loro identità storica. Ecco perché lui e il Pvv si differenziano dalla maggior parte degli altri partiti europei nazionalisti e contrari all’immigrazione. Il Pvv è ultraliberale ed è espressione del tradizionale conservatorismo, senza però affondare le radici nel neo-fascismo, nell’antisemitismo o in altre forme di estremismo. .
È un leader carismatico, astuto, di sani principi e senza peli sulla lingua, che ha saputo costruire rapidamente la forza politica più dinamica dei Paesi Bassi. Pur pronunciandosi su un’ampia gamma di argomenti, l’Islam e i musulmani costituiscono
il suo cavallo di battaglia.Vincendo la tendenza dei politici olandesi ad essere cauti, Wilders definisce Maometto «un diavolo» e chiede che i musulmani «strappino metà del Corano» se vogliono risiedere in Olanda. Più in generale, Wilders considera che l’Islam stesso sia il problema e non solo la virulenta versione di esso che viene chiamata islamismo. Questo cominciò a diventare chiaro, in Olanda, per la prima volta una decina di anni fa quando Pim Fortuyn, un professore omosessuale ex-comunista ed ex socialista cominciò a rendersi conto che i suoi valori e il suo stile di vita erano irrevocabilmente minacciati dalla sharia. Fortuyn anticipò Wilders nel chiedere uno stop all’immigrazione musulmana nei Paesi Bassi con lo slogan l’Olanda è piena e fondò un suo partito politico. Dopo l’assassinio di Fortuyn, nel 2002, per mano di un estremista di sinistra, Wilders ne raccolse
mondo
batterò a testa alta». L’accusa è gestita dalla sinistra antirazzista e progressista che fa capo a Nederland Bekent Kleur, a cui si sono associati i dirigenti di Amnesty International. È la crema del progressismo olandese ad aver portato Wilders in tribunale. Il direttore di Nederland Bekent Kleur, René Danen, sul quotidiano Nrc Handelsblad non molto tempo fa scrisse in un editoriale: «Chiamate Wilders per quello che è: un razzista». A rappresentarlo in tribunale, ieri, c’era uno dei più celebri avvocati, Bram Moszkowicz, che ha annunciato di voler chiamare a deporre «specialisti internazionali della libertà di parola». Moszkowicz è un corsaro della lotta all’antisemitismo e una certa sinistra estrema lo chiama già il leader della “lobby pro Israele”. A fronteggiare Wilders ci sarà l’avvocato di origini surinamesi e di estrema sinistra, Gerard Spong, che commentò così la decisione del tribunale di portarlo sul banco degli imputati: «Questo è un giorno di gioia per tutti i seguaci dell’islam».
Manifestazioni contro (foto grande) e a favore (sopra) di Geert Wilders che da ieri (foto a fianco) è sotto processo ad Amsterdam. Sotto (da sinistra): l’avvocato difensore, Bram Moszkowicz, quello dell’accusa, Gerard Spong, e il regista Theo van Gogh ucciso nel 2004
l’eredità politica e il suo gruppo di sostenitori. Da allora il Pvv ha ottenuto dei successi importanti a livello elettorale fino ad ottenere il 6 per cento dei seggi nelle elezioni politiche del novembre 2006 e, addirittura, il 16 per cento nelle europee che si sono svolte nel giugno del 2009.
Oggi i sondaggi mostrano che il Pvv sta continuando la sua marcia nel consenso degli elettori e che sta conquistando, almeno nelle intenzioni di voto, le dimensioni del più grande partito del Paese. E se Geert Wilders diventasse primo ministro, potrebbe assumere un ruolo di stimolo e di guida su questo delicatissimo tema per tutta l’Europa. Ma sulla sua strada ci sono delle difficoltà oggettive. La scena politica frammentata dei Paesi Bassi implica fa sì che il Pvv sia costretto a trovare dei partner disposti a formare una coalizione governativa e questo è un compito difficile, visto che la sinistra e i musulmani hanno demonizzato Wilders nel tentativo di isolarlo come un «estremista di destra». Senza alleanze, il Pvv dovrebbe ottenere la maggioranza dei
seggi in Parlamento, e questa è una prospettiva remota. Wilders deve anche superare le sleali tattiche dei suoi avversari. In particolare, l’offensiva giudiziaria che, dopo due anni e mezzo di scaramucce preliminari, ha avuto come risultato l’apertura del processo per incitamento all’odio e alla discriminazione per le sue dichiarazioni contro i musulmani. Il processo contro Wilders si è aperto appena ieri ad Amsterdam e se, al termine del dibattimento verrà condannato, sarà costretto a pagare un’ammenda fino a 14mila dollari oppure dovrà
guardie del corpo e cambia di continuo abitazione per motivi di sicurezza. C’è allora da chiedersi: in questa vicenda chi è esattamente la vittima dell’incitamento all’odio?
Sebbene non sia d’accordo con Wilders riguardo l’Islam - personalmente combatto gli islamisti con tutte le mie forze, ma rispetto la religione - mi schiero con lui contro questo processo. Rifiuto la criminalizzazione delle divergenze politiche, in particolar modo i tentativi di contrastare un movimento politico che ha una sua base popolare attraverso le corti di giustizia. Lo faccio perché sono convinto di quanto sia importante difendere la libertà di poter esprimere in pubblico le proprie opinioni anche su chi si considera un avversario, soprattutto in un momento di così forte contrasto. Ma, per ironia della sorte, se Wilders venisse multato o finisse in carcere, questo probabilmente lo rafforzerebbe politicamente tra gli elettori e aumenterebbe le sue possibilità di diventare capo del governo del suo Paese.
Interpreta i sentimenti di chi vuole difendere la propria identità dal pericolo dell’islamizzazione. Non si possono combattere le idee nelle aule di giustizia: la libertà d’opinione non è un crimine scontare 16 mesi di reclusione. Inutile dire che questo processo è uno shock per l’opinione pubblica olandese, non soltanto perché l’imputato è il politico di maggiore spicco del Paese, ma anche perché, proprio a causa delle minacce che ha ricevuto, Wilders si muove sempre accompagnato da
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«Anche le idee più estreme devono poter essere dette nello spazio pubblico e non in un’aula di tribunale», spiegò mesi fa Tom Zwart, esperto di diritti umani dell’Università di Utrecht e fra i giuristi proWilders, seppur lontano dalle sue posizioni, al Foglio. «La Corte suprema olandese e la Corte europea dei diritti umani hanno ribadito che i politici possono dire quel che vogliono, anche se offende o sciocca. L’unico motivo per mettere a tacere una persona è se le sue idee lo mettono in pericolo o gettano in pericolo altre persone, come gridare “al fuoco” in un teatro affollato. Che ti piacciano o no, le idee di Wilders hanno piena legittimità. Il suo processo è al di fuori della legalità». In Olanda il dibattito è incandescente. Bisogna lasciar fare in nome della nostra sacrosanta libertà d’espressione o mettere un veto su quest’eccesso di provocazione? Gli olandesi sono angosciati. E il mondo politico trema. Il governo ha allertato le ambasciate olandesi di tenersi pronte a chiudere, il presidente delle associazioni islamiche invita a rispondere con mezzi legali e persino l’Iran ha minacciato ripercussioni in tutto il mondo musulmano e una chiusura dei suoi rapporti con l’Olanda.
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Massacri. Sono già oltre duecento i morti nello Stato di Plateau local. Globale e allo stesso tempo locale. È la parola chiave per comprendere le cicliche crisi nigeriane che anche in questi giorni stanno facendo centinaia di morti a Jos, nello Stato di Plateau. Scontri che si sono estesi a Kuru Karama, Bisiji, Sabongidan e Kanar. Ogni volta che scoppiano, violenti e feroci, l’opinione pubblica occidentale resta come stupita e attonita, dimentica che lo stesso macabro spettacolo si è ripetuto costantemente negli ultimi anni. Le notizie di queste ore raccontano di uno degli Stati federali uscito fuori controllo, con bande armate che si affrontano per le strade, centinaia di morti e decine di migliaia di sfollati. Che la situazione sia più grave del solito sembrano indicarlo la durata degli scontri, che in passato si era attestata sui due, tre giorni, e l’imposizione del coprifuoco per tutte le 24 ore, cosa che non ha precedenti, ma che allo stesso tempo è virtuale poiché nessuna milizia armata ne tiene minimamente conto.
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Le semplificazioni giornalistiche parlano di scontri religiosi tra cristiani e musulmani. Cosa in parte vera che non spiega, però, le dinamiche del folle furore che alimenta una endemica guerra civile. Nel nord della Nigeria i morti degli scontri etnicoreligiosi (e politici) sono stati migliaia solo nell’ultimo decennio, con chiese e moschee date alle fiamme, villaggi distrutti, popolazioni espulse. È accaduto nel settembre 2001 a Jos, nel novembre 2008 sempre a Jos, nel luglio 2009 a Maiduguri e nel dicembre del 2009 a Bauchi. Con un’inquietante ravvicinarsi delle esplosioni di pogrom armati. Le scuse possono essere le più varie:
Non solo religione negli scontri in Nigeria C’è un’endemica guerra civile etnico-economica dietro i combattimenti tra musulmani e cristiani di Osvaldo Baldacci
sulmano. Un’altra ipotesi è che fosse in corso una violenta disputa sulla costruzione di una moschea nel quartiere cristiano di Nassarawa Gwon. Il tema del contendere è il territorio, con la costruzione di case o moschee che segnano un’avanzata rifiutata dalla controparte. Il bilancio è già molto pesante e l’impressione è che peggio-
Il vero tema del contendere è il territorio e una chiesa o una moschea sono il segno di un’avanzata che la controparte non accetta una violenza, una calunnia, una profanazione, persino il concorso di Miss Universo che doveva essere tenuto in Nigeria. Stavolta sembra che la miccia che ha dato alle fiamme l’intero Stato di Plateau non sia per nulla chiara. Lo stesso arcivescovo di Jos, monsignor Ignatius Ayau Kaigama, ha smentito all’agenzia Fides alcune delle voci che circolavano: che fosse stata attaccata e data alle fiamme una chiesa cattolica, o che fosse stato dato l’assalto al cantiere della casa in costruzione di un mu-
rerà: martedì i musulmani dicevano di avere contato duecento cadaveri nella principale moschea e non c’è un bilancio di parte cristiana. Inoltre la gente si è chiusa in casa proprio perché gli scontri proseguono e si temono le milizie armate, a volte travestite con uniformi.
Ragioni globali e ragioni locali dietro questa crisi. Il vicepresidente nigeriano, Goodluck Jonathan, che sostituisce il presidente musulmano Umaru Yar’Adua, rico-
Il sistema federale non risolve la spinte centrifughe
Un gigante e duecento clan La Nigeria è un gigante dell’Africa, con i suoi 150 milioni di abitanti divisi in 200 clan e il suo enorme peso economico. Inoltre, indipendente dal 1960, dal 1999 è una democrazia che sembra solida, anche grazie ai suoi precedenti democratici tra il 1977 e il 1983. Allo stesso tempo, però, il Paese subisce molte spinte centrifughe, nonostante i suoi 36 Stati godano di larga autonomia. Tristemente famosa è rimasta la guerra del Biafra. Oggi i principali problemi si concentrano nel Nord islamico, più povero e arretrato e tentato di abbandonarsi nelle braccia del fondamentalismo, e nel Sudest cristiano, la ricca e travagliata regione del Delta del Niger. Qui si concentra il petrolio nigeriano, ma parte della popolazione degli Stati locali ritiene di non riceverne i benefici e si ribella al governo centrale. I guerriglieri del Mend sono diventati famosi in Europa e negli Stati Uniti per i sequestri di occidentali e per gli assalti alle piattaforme petrolifere, tanto da spingere alcune compagnie a ritirarsi dal Paese. A dimostrazione che le contrapposizioni interne sono più etniche, politiche ed economiche che non religiose, la classe dirigente nigeriana si basa su un accordo tra élite cristiana e musulmana che da tempo condividono il potere centrale, anche nell’alternanza dei ruoli. (o.ba.)
verato da novembre in Arabia Saudita per problemi cardiaci, ha dichiarato che il governo è determinato a trovare una «soluzione permanente» alla crisi di Jos: «Questa è una crisi di troppo. Il governo valuta che è assolutamente inaccettabile, reazionaria ed è una minaccia per l’unità del Paese». E in effetti è vero. La Nigeria è uno Stato federale composito, attraversato da molteplici pulsioni indipendentiste che hanno portato a guerre civili, scontri locali e lunghe guerriglie. In Nigeria convivono 200 diverse etnie, e cristiani e musulmani sono in numero più o meno pari, i primi prevalenti al Sud, i secondi al Nord. Senza tenere conto non solo dei numerosi culti animisti, ma anche e soprattutto delle diverse contaminazioni sincretistiche.
Lo Stato di Plateau è un vero snodo tra il Nord islamico e il Sud cristiano, e in questo Stato le due realtà si trovano faccia a faccia in una costante contrapposizione che è etnica e politica su cui viene steso un velo identitario di tipo religioso. I primi motivi delle violenze a Jos sono locali, addirittura di tipo tribale atavico, cui si sommano i nuovi interessi politici ed economici. Gli autoctoni della regione sono principalmente agricoltori e allevatori cristiani di etnia Tarok e Tiv, ai quali da un secolo si sono sovrapposti coloni musulmani di etnia Fulani e Kanuri che parlano hausa, una lingua degli islamici dell’Africa occidentale. L’equilibrio demografico è stato alterato e ora è più o meno in parità. I “cristiani” non vogliono perdere i loro diritti e privilegi di fronte alla pressione islamica, questi ultimi vogliono vedere riconosciute le loro realtà e i più estremisti vorrebbero acquisire vantaggi imponendo la legge islamica come è successo in dodici altri Stati della Nigeria. Il Plateau, poi, è anche uno Stato chiave, ed ecco che il suo controllo fa gola ad ancora maggiori interessi economici. Si può allora intravedere come i problemi chiaramente locali si intreccino agli interessi globali. Tra cui gioca un ruolo anche il fondamentalismo islamico. In quest’area della Nigeria ha storicamente un forte radicamento e si connette ai suoi referenti in Nord Africa e in Sudan, fino alla Somalia. È non è un caso l’aumento delle violenze dal 2001. Le tensioni da queste parti, dunque, non possono lasciare indifferenti chi teme la crescita di questo fenomeno.
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La popolazione sull’orlo del collasso, mentre il governo fa finta di nulla
Allarme bomba in Germania: voli bloccati e terminal chiuso
Crisi in Corea del Nord: torna il baratto ed è subito caos
Un computer esplosivo: a Monaco scatta l’allarme
SEOUL. Come predetto dagli
MONACO. Allarme bomba al-
economisti di tutto il mondo, la disastrosa riforma valutaria decisa da un giorno all’altro dal regime di Pyongyang ha assestato l’ultimo colpo al sistema economico della Corea del Nord. Ormai la popolazione sopravvive solo grazie al baratto mentre attende che il governo dia il nuovo cambio ufficiale della moneta interna. Lo confermano esuli nordcoreani che ora vivono al Sud. Uno di loro è riuscito a contattare la famiglia e racconta: «Li ho chiamati per sapere come stavano, volevo mandar loro del denaro. Mi hanno detto che la situazione è indescrivibile, terribile come mai prima d’ora: vivono soltanto grazie al baratto».
l’aeroporto di Monaco, parzialmente evacuato dopo la scoperta di alcune tracce di esplosivo all’interno di un computer portatile. L’allarme, come ha subito riferito la polizia tedesca, ha provocato la fuga del proprietario del laptop all’interno dell’area di sicurezza. Insomma, la sindrome-attentati a questo punto arriva anche nel cuore dell’Europa, dopo aver fatto ripiombare nella paura gli americani (e aver provocato un giro di vite nella sicurezza degli aeroporti statunitensi) in seguito al fallito attentato di Natale. Dunque, ieri a Monaco tutti e due i livelli del Terminal II sono stati completamente bloccati, men-
Secondo un tacito patto fra i nordcoreani, il baratto si basa sui vecchi prezzi. In pratica, se una gallina valeva 1.500 won e un chilo di grano 900, oggi una gallina viene scambiata con poco meno di due chili di cereali. Per ora, spiega il fuggiasco, «i prezzi statali non sono stati resi pubblici. Quindi la popolazione pensa che vendere per tenere in casa del denaro rappresenti una perdita. Ecco perché si affidano al baratto». Una fonte di AsiaNews aggiunge: «Siamo davanti a una crisi umanitaria che renderà inevitabile l’aumento
Quote rosa di Assad per rafforzare il regime Nel governo siriano entra la terza donna ministro di Antonio Picasso n Siria, la nomina di una donna, Lima Asi, alla guida del ministero dell’Economia lascerebbe intendere che il pachidermico regime di Damasco abbia intrapreso una nuova strada verso lo sviluppo politico e sociale del Paese. Una strada fatta di ringiovanimento della propria immagine di fronte alla comunità internazionale e di adeguamento del partito Baath alle esigenze di democrazia e di riforme imposte dalla globalizzazione. Queste sono le considerazioni più immediate che si possono trarre.Vista da una prospettiva diametralmente opposta però, la scelta potrebbe rappresentare l’ultimo anello di una catena di contraddizioni che caratterizzano da sempre il regime siriano.
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conservazione del regime sia di fronte alle crescenti e variegate forze di opposizione interna, sia nei rapporti con i governi occidentali con cui Damasco è tornata a dialogare da nemmeno due anni.
La scelta è stata voluta espressamente dal Presidente, Bashar el-Assad, il quale ha dato il via al settimo rimpasto di governo, dal 2003 a oggi, dell’esecutivo presieduto da Mahammad Naji al-Atri. Il fatto di aver posto una donna – la terza nella compagine governativa – come responsabile di un dicastero così influente ricalcherebbe le intenzioni di proseguire sulla strada delle riforme da lui più volte indicata. Lima Asi è una personalità che vanta già una stima consolidata all’interno dell’establishment siriano. Sunnita, 54 anni, laureata in Economia all’Università di Damasco. Dal 2002 al 2004 è stata vicemnistro delle Finanze e successivamente ha assunto l’incarico di ambasciatore in Malesia rimanendo a Kuala Lumpur proprio fino a quando Assad non l’ha richiamata a Damasco per questa nomina. Nel corso di otto anni di attività politica di alto livello, la Asi ha saputo costruirsi una credibilità professionale. In questo modo ha eseguito gli ordini di scuderia di Assad, il quale aveva bisogno di una personalità che rispondesse a determinati prerequisiti per quel dicastero: una donna, stimata presso la classe dirigente nazionale e altrettanto conosciuta all’estero. Quella di Assad è una mossa che si inserisce in un piano sistematico e di lungo periodo il cui ultimo fine è la
L’obiettivo del presidente siriano è di mantenere il potere saldamente nelle sue mani, in quelle della sua famiglia e nell’ambito della minoranza religiosa alawita, della quale fa parte. Assad sa di essere perennemente sotto osservazione da parte della maggioranza sunnita del Paese, da coloro che rimpiangono l’intransigenza e il “pugno di ferro in guanto di velluto” con cui il padre Hafez sapeva governare e gestire i rapporti diplomatici, ma anche dagli osservatori stranieri che vedono nella Siria un esempio di regime autoritario tipico del Medio Oriente. Nominare Lima Asi ministro dell’Economia significa rispondere con un solo colpo a tutti questi attacchi.Vista dalla prospettiva di Damasco è la dimostrazione che il regime sia tutt’altro che contrario ad assegnare ruoli decisionali alle donne. Già nell’aprile 2009, Kawkab al-Sabah Dayeh è diventata ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro. Assad così ha la possibilità di replicare alle critiche straniere attraverso una sorta di “quota rosa” nel suo governo. D’altra parte, questa decisione de motu proprio, quindi per nulla democratica, è anche un messaggio a tutti coloro che giudicano Assad troppo debole e che ne mettono in discussione lo spessore decisionale. Si è trattato quindi di una nomina strumentale a tutti gli effetti, che esula dal piano di riforme politiche, economiche e sociali necessarie per il Paese, ma che non sono mai state formulate in modo concreto. Volendo ricorrere a un paragone, si può ricordare che, lo scorso agosto, anche il presidente iraniano Ahmadinejad aveva inserito nel suo governo tre donne. Il gesto avrebbe dovuto confutare le accuse di oscurantismo del suo regime. Al contrario provocò lo sgomento in seno alle frange più intransigenti degli ayatollah. Assad corre lo stesso rischio?
Lima Asi scelta per guidare l’Economia: una mossa per dimostrare apertura all’esterno e forza a chi lo giudica debole
del crimine. Prima, infatti, lo Stato garantiva alcuni beni e servizi fondamentali e quindi era inutile, ad esempio, rubare i vestiti che comunque venivano forniti dal Partito comunista. Ora, invece, tutto è barattabile: questo vuol dire che tutto vale qualcosa, e c’è sempre qualcuno disposto a usare la forza per avere più degli altri». Secondo le fonti, i nordcoreani iniziano inoltre a dissentire con la propaganda governativa. La situazione sembra dunque avviarsi verso la totale disfatta. L’unica incognita rimane l’esercito: solo grazie ai militari sarebbe possibile un allontanamento dal potere della dinastia dei Kim, ma fino a che il “Caro Leader” sarà in vita è difficile che avvenga.
tre si scatenava una vera e propria caccia all’uomo per cercare lo sconosciuto che ha fatto scattare l’allarme. L’uomo, infatti, è fuggito subito dopo che il suo laptop era risultato positivo al controllo per esplosivi all’interno del terminal della Lufthansa dando così la sensazione che la sua intenzione fosse proprio quella di provocare un attentato.
A questo punto, passeggeri e dipendenti del terminal sono stati fatti uscire e sono cominciati i classi, accurati controlli della sicurezza. Chi stava sugli aeroplani è stato fatto scendere e i check-in sono stati sospesi: insomma, l’allarme ha provocato inevitabili ritardi: un portavoce dell’aeroporto di Monaco, il secondo per importanza in Germania, ha detto che circa 12 voli interni e internazionali sono stati cancellati. Il terminal della compagnia di bandiera tedesca, infatti, è stato letteralmente sigillato per cercare di bloccare il proprietario del computer esplosivo. La polizia non è riuscita a fornire dettagli sulla nazionalità della persona fuggita, ma un portavoce della sicurezza dell’aeroporto ha precisato che lo scanner potrebbe non essere tarato per riconoscere alcuni agenti chimici.
cultura
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Tra gli scaffali. Pubblichiamo ampi stralci dell’introduzione che la scrittrice fece alla prima edizione de “La guerra in Val d’Orcia”, oggi ripubblicato da Longanesi
Le radici della Comunità L’invasione tedesca, la guerra civile e la ricostruzione sociale della campagna toscana nelle parole di Iris Origo di Iris Origo uesto diario non è stato scritto per il pubblico, ma per lasciare alle nostre bambine - qualora io fossi stata arrestata o deportata in Germania - una descrizione della vita che esse, troppo piccole ancora per ricordarla, hanno condiviso con noi, durante i diciotto mesi in cui lotta partigiana e guerra erano alle nostre porte...
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...All’inizio di questo diario, nel gennaio 1943, Antonio - mio marito - ed io, vivevamo già da quasi vent’anni alla Foce, nelle crete senesi della Val d’Orcia, dirimpetto al monte Amiata e a pochi chilometri da Chianciano e Montepulciano. Ci eravamo stabiliti in quella zona nel 1924, mossi da un irresistibile entusiasmo giovanile, per «bonificare» la terra di quella vallata e far rinverdire e biondeggiare di grano quelle terre grigie e rugose, per costruire strade e case e scuole, per rimboschire le alture, e per far rifiorire un po’ di civiltà tra quella gente abbandonata a se stessa da tanti secoli. I primi passi furono difficili, anche per la nostra inesperienza, ma dopo la costituzione, per iniziativa di mio marito, del Consorzio di bonifica della Val d’Orcia, fu possibile fare dei progetti non soltanto per la nostra proprietà ma per tutto il comprensorio, e ottenere anche degli aiuti statali. Nel 1943 i venticinque poderi della Foce erano diventati cinquantasette, tutti retti a mezzadria e tutti già collegati da strade ai centri vicini e alla fattoria, dove accanto alla villa e all’abitazione del fattore, stavano le cantine, il frantoio, i granai, la latteria e gli stanzoni delle macchine e, a poca distanza, una delle quattro nuove scuole, il dopolavoro con lo spaccio, l’asilo infantile e un ambulatorio con un’assistente sanitaria residente. Intorno alla fattoria c’erano le botteghe e le case del falegname, del
fabbro e di qualche operaio. Nella nostra villa - una casa cinquecentesca senza pretese, con i riquadri di cotto, un giardino all’italiana e una stupenda veduta della Val d’Orcia - abitavano allora, oltre a noi e alla nostra gente di casa, la nostra bambina di due anni e mezzo,
della signorina Berrettini, maestra dell’asilo («la Tata»), e di sua madre («la Nonna»), coadiuvate dalla signorina Guidetti, l’assistente sanitaria. Nel Castelluccio, un piccolo castello trecentesco a mezzo chilometro dalla villa, c’era la chiesa parrocchiale con l’abitazione del parroco, e anche quelle del «guardia» e dei muratori; ed è lì che, in seguito, presero stanza per sei mesi cinquanta pri-
che non si realizzavano mai. Insieme, siamo stati cacciati dalla Foce, e insieme, dopo l’arrivo degli alleati, vi siamo tornati, a seppellire i morti, a raccogliere le messi, a iniziare lo sminamento e a ricostruire le case coloniche distrutte. Piccole comunità come la nostra formavano allora - come devono aver formato in tante altre guerre del passato - tanti microcosmi compatti, preoccupati anzitutto della propria sopravvivenza...
L’intellettuale angloamericana si prodigò per salvare i bambini sfollati e per impedire che gli stranieri catturassero prigionieri in fuga e partigiani
Benedetta, e la sua bambinaia svizzera, Schwester Marie Blaser: poi in giugno nacque la seconda bambina, Donata. Nell’inverno del ’43, abbiamo trasformato l’asilo infantile in «Casa dei Bambini» e vi abbiamo accolto prima dodici e poi ventitre bambini sfollati da Genova e Torino, affidati alle cure
gionieri di guerra inglesi con la loro scorta militare italiana... Tutto ciò non costituiva, evidentemente, un villaggio, ma era già un piccolo mondo a se, e durante la guerra questa piccola comunità, sempre in gran parte sufficiente a se stessa, lo è divenuta quasi interamente, come le piccole comunità del Medio Evo, unita da una rete di interessi, di ansie, di timori e di speranze comuni.
Insieme abbiamo fatto i piani per nascondere ai tedeschi l’olio, i prosciutti, il formaggio, abbiamo veduto cadere le prime bombe sui ponti della Val d’Orcia e ascoltato, pieni di speranza, le voci degli sbarchi alIris Cutting, scrittrice e intellettuale anglo-americana, leati in Toscana sposò il marchese italiano Antonio Origo e con lui dal 1945 visse nella tenuta La foce, nella campagna toscana. Fra il 1943 e il 1944, gli anni terribili della guerra civile e dell’invasione straniera, Iris tenne un intenso diario dove raccontò il prodigarsi della sua famiglia per salvare i bambini sfollati e per impedire che i tedeschi catturassero prigionieri di guerra in fuga e partigiani. “Guerra in Val d’Orcia” è la narrazione senza retorica di un impegno civile e di un eroismo quotidiani. La prima edizione uscì in inglese, la seconda dopo venti anni in italiano. Oggi Longanesi ristampa il racconto con una introduzione di Sergio Romano. Pubblichiamo ampi stralci dell’introduzione che Iris Origo fece alla prima edizione italiana e che figura anche nell’edizione ora in uscita.
il libro
...Sotto certi aspetti, in quei primi mesi, la vita era più facile in campagna che in città. Per nutrirci avevamo quasi tutto: il pane fatto con la nostra farina, della quale potevamo trattenere un quin tale e mezzo a persona sul raccolto requisito dall’ammasso, polli, tacchini, conigli, verdura, frutta, latte e miele, e lo squisito formaggio pecorino. Per riscaldarci, oltre ad un’esigua razione di lignite, avevamo la legna dei boschi e i noccioli delle olive. Fabbricavamo il nostro sapone coi resti dei grassi di cucina, bucce di patate e soda. Quando cominciò a mancare la benzina, facemmo camminare la macchina col gasogeno, servendoci del carbon dolce delle nostre carbonaie. Poi, perdurando la guerra, tutto cominciò a scarseggiare. Nel 1944, prima i tedeschi e poi i marocchini portarono via o uccisero il trenta per cento del nostro bestiame, seicento pecore, tutti i polli e tutti i tacchini: i tedeschi bruciarono le arnie. Senza zucchero, dovemmo rinunciare a far marmellate, tranne quelle di uva e di certe piccole susine dolci di Montepulciano. Ma ci restava sempre della farina, del frumento e del granturco, qualche prosciutto e dei salami (sepolti sotto il pavimento del frantoio) come pure legumi e verdura, e così abbiamo passato bene l’inverno, sebbene avessimo da nutrire ventitre bambini in più. Il problema del vestiario era piu` complesso. Nel ’43 mi era riuscito ancora di comperare coperte, vestiti, pantaloni e camicie sulle bancarelle dei mercati fiorentini,
per i nostri bambini sfollati come per i soldati italiani sbandati e i prigionieri di guerra evasi, ma erano sempre insufficienti alle richieste. Le scarpe, poi, erano diventate un problema insolubile. Abbiamo comperato del cuoio in borsa nera e il ciabattino di fattoria ne ha fabbricato qualche paio, adattando anche punte di pelle a zoccoli di legno. I piccoli sfollati portavano spesso scarpe fatte in casa, e maglioni e calze di lana delle nostre pecore, filata in fattoria, e la stessa lana serviva a far golfini per i neonati dell’ospedale di Montepulciano, dove erano state accolte molte puerpere sfollate da Livorno e da Grosseto. Per i pannolini servivano vecchie lenzuola e fodere di tenda; e, per le pantofole, vecchi pezzi di feltro e di tappeto. Il filo, però, era assai scarso e, nell’estate del 1944, i tedeschi, prima di ritirarsi dalla Foce, portarono via tutto quello che ci restava, perfino i vestiti invernali dei bambini, così che abbiamo dovuto ricominciare tutto daccapo.
Le vicende narrate in questo diario non sono affatto eccezionali. Moltissimi altri italiani ne hanno vissute di simili e, alcuni, di assai peggiori. Per quanto, negli ultimi mesi dell’occupazione tedesca, l’ombra della
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A sinistra, la copertina del libro “Guerra in Val d’Orcia” (Longanesi), e un’immagine della scrittrice Iris Origo. Sopra, uno scatto dei piccoli sfollati che la Origo curava nella “Casa dei Bambini” (al centro, la scrittrice con la figlia Donata in braccio). A fianco e sotto, una foto del giugno 1944: carri armati Sherman americani, aggregati alle forze francesi, percorrono la Val d’Orcia Gestapo non fosse mai molto lontana, e le loro spie e le spedizioni punitive arrivassero spesso sino alla nostra vallata, le nostre ansie sono state certamente meno intense e meno continue di quelle sofferte da chi nascondeva prigionieri alleati o partigiani in casa propria, nel cuore stesso di Roma o Milano, o occultava munizioni e trasmetteva informazioni, temendo, ad ogni colpo di telefono o a ogni passo che risuonava sulle scale, qualche nuova insidia.
I nostri problemi e quelli dei nostri vicini erano semmai d’altra natura: nascevano dall’obbligo continuo di scegliere non fra coraggio e viltà o fra bene e male, ma fra doveri e responsabilità egualmente urgenti ma in contrasto fra loro. Era necessario ricordare che l’ospitalità data a un prigioniero di guerra poteva attirare un grave pericolo sulla famiglia colonica che lo aveva accolto e che la medicazione di un partigiano ferito ne costituiva uno non meno grave per l’assistente sanitaria; e quando, nelle ultime settimane prima della liberazione, cittadini innumerevoli arrivavano con mezzi di fortuna da Roma, implorando farina e olio per i loro bambini e i loro malati, non dovevamo per que-
sto dimenticare le esigenze dei bambini e dei partigiani che bisognava pur continuare a nutrire. Quando qualche testa calda di partigiano sparava contro un carabiniere da dietro una siepe o disarmava due soldati tedeschi nell’osteria di un villaggio, scomparendo poi nei boschi e lasciando la popolazione inerme alla mercè delle rappresaglie tedesche, toccava a noi l’in-
faticosa e portava a perpetui esami di coscienza. Al termine di ogni giornata, la prudenza ci induceva a chiedere: «Ho fatto troppo?» e l’entusiasmo o la compassione: «Non avrei potuto fare di più?».
C’è da domandarsi quale motivo spinse il contadino italiano, dal Garigliano al Po, dai monti degli Abruzzi a quelli del Piemonte, ad aiutare così generosamente i prigionieri di guer-
Fra il ’43 e il ’44 la Origo scrisse un diario. Una narrazione senza retorica di impegno civile ed eroismo quotidiani
grato compito di far capire il probabile risultato di questi metodi o, successivamente, di difendere gli innocenti. Inoltre poiché le condizioni locali cambiavano continuamente - questi nostri doveri restavano inevitabilmente in conflitto.
Ogni incidente doveva essere risolto lì per lì, secondo la sua gravità. A lungo andare questa ginnastica era diventata molto
ra alleati. Sarebbe errato, credo, attribuire al loro slancio motivi politici o persino patriottici. Vi è stato, è vero, un certo sentimento antitedesco e antifascista, specialmente tra i contadini i cui figli erano stati arruolati contro la loro volontà, o che cercavano di evitare il loro richiamo. Ma la ragione vera era molto più semplice. È stata descritta da un partigiano italiano come «il legame più semplice fra uomo e uomo: quello di chi ha bisogno e chiede e di
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chi lo aiuta come può. Nessuna commozione o atteggiamento fuori luogo». E un ufficiale inglese, il maggiore Patrick Gibson, che come prigioniero di guerra evaso doveva la vita a tali aiuti, non si è espresso molto diversamente. «Per tutta l’Italia», ha scritto, «si è ripetuto questo miracolo: la dignità e il senso profondo di solidarietà umana di gente modesta che non vedeva nei prigionieri fuggiaschi i rappresentanti di una potenza da propiziare o da contrastare, ma soltanto uomini bisognosi di aiuto».
Dei settantamila prigionieri di guerra alleati che presero il largo in Italia l’8 settembre, quasi la metà riuscì a salvarsi, passando il confine in Svizzera o in Francia o raggiungendo le proprie formazioni in Italia, e ognuno di questi fuggiaschi deve la vita alla complicità di una lunga catena di coraggiosi umili soccorritori. «Non avrebbero potuto fare di più per noi», mi scrisse il generale O’Connor, prigioniero evaso dal Castello di Vincigliata a Firenze. «Ci nascosero, ci dettero denaro, cibo e vestiario, e sempre a rischio della loro vita. Noi inglesi abbiamo un grande debito di riconoscenza verso tutti quegli italiani il cui aiuto è stato il nostro unico mezzo per sopravvivere ed infine per metterci in salvo». Durante quei mesi cruciali, nei quali siamo stati tutti uniti dalle stesse ansie e gli stessi pericoli e le strutture sociali avevano perso la loro importanza, gli uomini tornarono alle più antiche tradizioni di ospitalità e di spontanea fratellanza. Nessun egoismo interessato. Tutt’al più qualche massaia che aveva il figlio in un lontano campo di prigionieri, in India o in Australia, può aver pensato, mentre scodellava la minestra o rifaceva il letto dello straniero in casa sua: «Forse laggiù qualcuno sarà buono col citto mio». Tenere questo diario non è stato sempre facile. Nei primi mesi i fogli stavano per solito infilati tra le pagine dei libri illustrati delle mie bambine, perché ritenevo poco probabile una perquisizione nella loro stanza da gioco. Più tardi, una parte del diario, insieme ad alcune carte e ai miei gioielli, fu
sotterrata in giardino... ... Rileggo queste pagine dopo vent’anni, e non mi sembra che ci sia molto da aggiungere. Abbiamo potuto restituire ai loro genitori, sani e salvi, tutti i bambini sfollati che ci sono stati affidati. Una di loro è tornata qui brevemente come maestra: parecchi altri ci mandano ancora loro notizie e fotografie dei loro figli. In seguito i loro posti nella «Casa dei Bambini» sono stati occupati da tanti altri bambini, bisognosi anch’essi, per ragioni diverse, di un tetto o di un aiuto, e che giocano ora con i miei nipotini, come i primi giocavano con Benedetta e Donata. Dal punto di vista agricolo e sociale, però, molte cose sono cambiate. La costituzione di laghi artificiali ha permesso l’irrigazione di vaste zone e ora prati verdi nella pianura e vigne e oliveti sui versanti hanno tolto al paesaggio il suo aspetto lunare. Strade nuove, asfaltate e alberate, collegano la Val d’Orcia con la Val di Chiana e sono percorse da operai che non hanno più da fare decine di chilometri a piedi per recarsi al lavoro, ma vanno in Vespa o addirittura in Seicento. La mezzadria, e i rapporti umani - buoni o discutibili - che ne nascevano, sta sparendo. In seguito al grande esodo dalla campagna, solo quindici dei cinquantasette poderi della nostra fattoria sono ancora retti a mezzadria. Per il resto prevale il conto diretto. Vi sono grandi stalle nuove per il bestiame, molte nuove macchine, molti meno uomini: è in corso un processo completo di meccanizzazione e di industrializzazione. I paesetti sulle falde del monte Amiata sono quasi deserti, le chiese semivuote. Anche la Val d’Orcia nel bene e nel male - segue il corso della storia. Gli avvenimenti narrati in queste pagine debbono, perciò, esser guardati nella cornice di un mondo ormai tramontato, come tramontati sembreranno, forse, molti miei apprezzamenti...
...Dopo vent’anni, mantengo sempre la stessa speranza, anche se, purtroppo, l’unità e la solidarietà delle ore di crisi non sono sempre durate oltre i pericoli che le avevano suscitate. Alle tragedie della guerra fecero seguito gl’inganni e le malversazioni del dopoguerra: denunce, tradimenti e vendette, lotte di classe e di partito. Ma non v’è epoca che non produca atti singoli di bontà e di comprensione umana, tra un uomo e il suo vicino. Si tratta soltanto di allargare sempre più, se possibile, la cerchia dei «vicini». Sul muro esterno del Castelluccio abbiamo murato, nel 1950, una lapide per ricordare i caduti di questa zona, e abbiamo nominato indistintamente militari e civili, adulti e bambini, evitando le parole «combattente» o «nemico»: Tu che passi e guardi la pace di questa valle sosta e ricorda i nostri morti.
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n incontro frizzante e istrionico, all’insegna delle donne e dell’amore, dell’universo femminile e del ruolo della donna nella società occidentale. È quello con Pietrangelo Buttafuoco, grande affabulatore che racconta e seduce. Come nel suo ultimo libro, Fimmini. È comunque il sottotitolo – “ammirarle, decifrarle, sedurle”– a dare la cifra del libro, stampato per le edizioni Mondatori. Pietrangelo Buttafuoco, catanese, classe ’63, con Mondadori aveva già pubblicato nel 2005 Le uova del drago e nel 2008 L’ultima del diavolo. Recentemente ha scritto e condotto il programma di approfondimento culturale Il grande gioco per Raidue. In Fimmini compone un quadro dove i ritratti di donne si alternano alle tecniche di seduzione e lasciano spazio agli aneddoti sui grandi amatori del secolo passato. Con invidiabile maestria e levità, racconta la trama del libro, le ragioni che l’hanno spinto a scriverlo, le storie vissute e le donne che l’hanno ispirato. Un omaggio, a tratti irriverente, ma appassionato e sempre divertente, alla donna, farfalla effimera dei salotti mondani e matriarca nel focolare domestico. E non mancano le trans, che di recente hanno occupato le prime poltrone della comunità mediatica. Sulle quali Buttafuoco dice: «Anni ed emancipazioni per approdare all’involuzione del femminile. Signore che si comportano come uomini ed è per questo che fanno le cose più maschie: fumano, ostentano, si sbatacchiano, sbattono al muro la più ghiotta tra le prede di una sera. Nel segno maldestro della rappresentazione caricaturale. Anni e dibattiti sul femminismo per piegare le donne alla deturpazione botulinica del corpo e farle simili a indistinti transessuali». Nel libro, che comunque non è stato scritto con un intento discriminatorio, maschilista, o “machista”, c’è anche la visione di una donna innamorata, in trepidante attesa di un “uomo” che riesce a trovare il tempo, inviandole un sms, per una botta e via. Buttafuoco ha voluto dedicare il libro a tre donne che a suo dire non rappresentano l’harem personale ma le tre sante di Sicilia: Agata, Lucia e Rosalia. E indica come una «straordinaria metafora della verità la figura di una madre che allatta il bambino al seno»“Fimmini” è un pamphlet irriverente. Il sottotitolo è fondamentale. Fimmini è un libro che ho costruito in virtù di una fotografia che ritrae Letizia Ortiz e Carla Bruni durante una visita di stato della famiglia reale spagnola all’Eliseo. Appena l’ho vista, ho sentito dentro di me ruggire la lingua madre e l’unica pa-
U
Libri. Buttafuoco racconta il suo irriverente pamphlet sulle donne
Uomo, nel tuo futuro c’è una “fimmina” di Antonella Folgheretti rola che mi è venuta fuori è stata appunto questa: «fimmini». Rimuginandoci sopra ho capito che quella foto è un bellissimo modo che lo Spirito del tempo ha scovato, tra i tanti, per raccontare oggi le donne. Ovvero le fimmini, quelle che si mettono l’uomo in tasca con un niente, perché un niente è l’uomo
davanti al fruscio di un loro vestito. Prendiamo l’esempio di Carla Bruni: è lei che fa importante l’uomo che l’accompagna, non è il tipo di donna che sceglie uomini importanti. Lei rappresenta l’apoteosi di uno stile sofisticato, occidentale, moderno, laico, sfrontato. In lei tutto quello che è il corredo ma-
“
Sono molte le figure femminili descritte, da Brigitte Bardot a Rachele Mussolini, da Ava Gadner a Franca Florio. Una sorta di prontuario per l’uomo, anzi, per il maschio. Un maschio ormai latitante nell’orizzonte sociale contemporaneo, per-
Dopo anni di Beatles e Rolling Stones non sappiamo che l’avvenire nasce in Oriente, dove urla e grida la vita, dove la donna determina la vita quotidiana della società. Proprio come al Sud Nella foto grande, un’illustrazione di Michelangelo Pace. Qui accanto, Pietrangelo Buttafuoco. A destra, la copertina di “Fimmini”
gico, potente e sacrale della donna ruggisce oltremodo e conquista quegli spazi che invece sono negati alle caricature del femminile a cui ci siamo abituati noi, specialmente noi italiani che, grazie alla televisione, abbiamo dovuto subire la mostrificazione dell’ideale femminile.
”
ché non è più in grado di raccontare e rappresentare neppure la propria responsabilità. Beninteso, questa è una dimensione tutta propria della società occidentale. Noi che ci siamo sobbarcati epoche intere a colpi di Beatles e Rolling Stones non sappiamo invece che il futuro si apparecchia in quell’Oriente dove innanzitutto urla e grida la vita, dove la presenza del femminile determina la vita quotidiana della società. I modelli uomo-donna meridionali, mediterranei, mediorientali sono superiori senz’altro ai prototipi contemporanei offerti dall’Occidente. Le sue pagine, forse per effet-
to di questa convinzione, sono cavallerescamente irrispettose verso la moderna relazione uomodonna.Soprattutto quando ragiona su come sedurre una donna di sinistra. Ma sì, e non potrebbe essere altrimenti per una relazione improntata allo svilimento erotico a uso e consumo dell’ideologia post-sessantottina della parificazione sessuale o alle glorie della cosiddetta società aperta. La donna di sinistra? È innanzi tutto una femmina, da conquistare applicando savoir-faire e un briciolo di galanteria “talebana”, che sopprima qualsiasi suo potere di decisione sentimentale. La “fimmina”, come sembra sottolineare in talune pagine, è soprattutto madre. Nella sua totalità, sì. Perché se l’aggancio è la seduzione, il legame saldo e forte consiste nella paternità e nella maternità. Il sentimento ha una radice spirituale, fa cantare il cuore. Ma badiamo bene, la mia non è un’operazione nostalgica, anche se nel libro racconto di donne del passato. La donna contemporanea ha una grande potenza sacrale, iconica. È un archetipo. Il femminile, infatti, riesce a prescindere da mode e consuetudini. Lei è particolarmente legato alla Sicilia. Come vede la donna siciliana? La Sicilia è il luogo dove ancora persiste ed esiste la donna portatrice di valori, di una identità forte. Non a caso ho dedicato il libro a tre sante patrone siciliane, per sottolineare la santità, la regalità, la femminilità. La donna siciliana appartiene a quel grande contesto immaginale e spirituale qual è il Mediterraneo ed è una delle poche personalità a godere di un sano e robusto matriarcato. Le faccio un esempio. Oggi sono andato a fare una visita di cortesia ad una signora, in là con gli anni, a Castelvetrano. Sebbene malata, era padrona in casa sua, con uno sguardo assoggettava i tanti parenti che la circondavano. In altre parti d’Italia sarebbe stata dentro un ospizio. Ecco, i siciliani hanno questo vantaggio. Sembra avere nostalgia della seduzione come arte. Mi piace il corteggiamento come si usava, la galanteria forte e rude, cioè da “masculo”. Sono un tradizionalista e non temo di ribadire che rimpiango la donna come la natura l’ha fatta. Ma non dispero: la femmina sta tornando.
cultura
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(Dis)integrazioni. La stampa Usa censura i fatti di Rosarno: «L’Italia di oggi è un paese xenofobo in preda alla malavita»
Pane, amore e xenofobia di Anna Camaiti Hostert
Qui accanto, un fotogramma dei drammatici fatti di Rosarno, che hanno scatenato insubordinazioni e tumulti culminati nel respingimento di centinaia di immigrati regolari dal paese calabrese. In basso, il Ku Klux Klan, congrega razzista fondata nel 1865, oggi risorta
riots di Rosarno dei giorni scorsi hanno suscitato grande indignazione e un’attenta riflessione sulla complessa situazione italiana da parte della stampa internazionale. La violenza nei confronti degli immigrati neri, le condizioni igieniche spaventose in cui sono costretti a vivere, le loro reazioni nei confronti dell’assalto dei cittadini di un paese povero e controllato dalla ‘ndrangheta, fanno dei gravi episodi di intolleranza razziale un elemento che fa discutere in tutto il mondo, dando dell’Italia un’immagine non troppo lusinghiera e indicando il tipo di lacerazioni che il flusso di immigrazione sta provocando nel tessuto sociale del nostro paese. L’Italia vi appare come una nazione divisa tra accettazione dell’altro e xenofobia. I processi di integrazione che altri paesi europei come le Francia, l’Inghilterra e in tempi più recenti la Germania, senza contare gli Stati Uniti, hanno affrontato e in gran parte risolto seppure con crescenti difficoltà e contraddizioni sembrano ancora lontani dall’orizzonte italiano. Perfino il Papa si è pronunciato per ribadire la dignità umana degli immigrati e per condannare la violenza nei loro confronti, esplicitando che le differenze di origine, di cultura e di tradizioni di questi individui non sono sufficienti a privarli del rispetto e dei loro diritti.
I
I più grossi giornali americani hanno descritto un paese scosso da forti contraddizioni, da tensioni razziali e non ancora capace di affrontare un multiculturalismo comunque inevitabile. Un paese, come ricorda il Wall Street Journal, citando l’
I processi di integrazione che altri paesi europei hanno in gran parte risolto sembrano ancora lontani dall’orizzonte italiano Osservatore romano, che ha avuto un passato coloniale e ha registrato, sotto il Fascismo, gravi episodi di intolleranza razziale che avrebbero dovuto rappresentare un deterrente al loro ripetersi. E assieme al Los Angeles Times e al New York Times imputa alla malavita organizzata, che detiene tutte le leve del potere economico in quella zona depressa del sud d’Italia, la responsabilità dei disordini dovuti al lavoro a basso costo e allo sfruttamento dei lavoratori immigrati clandestini.
Il New York Times registra inoltre con qualche perplessità
il parallelo tracciato da Repubblica tra le violenze contro gli immigrati neri da parte della popolazione locale e quelle del Ku Klux Klan negli anni ’60 e denuncia, assieme al Washington Post, le crescenti difficoltà dell’Italia a divenire una società davvero multietnica perché, a detta del primo ministro Berlusconi, non corrisponde all’idea che il governo ha del paese. Il quotidiano della capitale americana mette inoltre a confronto le affermazioni del capo del governo con quelle del Cardinale Tarcisio Bertone che ha invitato alla pace, alla riconciliazione e all’accettazione reciproca. In tutta la stampa d’oltreoceano è presente comunque un distinguo tra le affermazioni dei rappresentanti governativi, siano essi il primo ministro o il ministro dell’interno e quel-
le dei rappresentanti delle gerarchie vaticane e delle organizzazioni internazionali: i primi indicano le difficoltà dell’integrazione e le seconde invocano tolleranza, condizioni di vita più umane e un rifiuto della violenza. È inoltre interessante notare che il parallelo con i linciaggi dei neri americani e del razzismo made in Usa compiuto un po’ troppo superficialmente da alcuni quotidiani italiani e da alcuni giornalisti televisivi si rivela inaccurato almeno per due ordini di motivi. Il primo è costituito dal fatto che, seppure ve ne siano stati altri, questi episodi di razzismo non sono condivisi dalla stragrande maggioranza degli italiani e avvengono nel sud d’Italia dove la situazione è complicata dall’accoppiamento tra un sottosviluppo endemico peggiorato adesso dalla crisi economica e i tentacoli di una malavita organizzata che controlla e regola dunque l’andamento, l’umore e le intempedi ranze quelle popolazioni. In passato gli abitanti di Rosarno avevano aiutato gli immigrati
di colore portando loro cibo, coperte e quant’altro di cui avessero bisogno. Negli Stati Uniti i fenomeni di razzismo erano presenti ovunque, non solo nelle zone del sottosviluppo, e rappresentavano un senso comune generalizzato basato su un immaginario collettivo
che sui neri proiettava l’ombra di una società puritana, rigida e intollerante. Bastava solo essere nero e transitare al momento sbagliato nel luogo sbagliato per essere vittima, senza alcuna colpa, di gravi episodi di violenza o per perdere la vita. Non dimentichiamo che in America sono esistiti la segregazione e le discriminazioni che tenevano divisi i neri dai bianchi
Il secondo da un rifiuto dell’altro che, a differenza di quello nei confronti dei neri americani la cui integrazione rappresentava lo sgretolamento di un’economia, di una società e di una cultura dominata interamente dai bianchi, è invece costruito da noi semplicemente sulla paura di un ulteriore degrado e di un peggioramento della già precaria situazione economica.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da “Yedioth Ahronoth” del 20/01/10
Israele, la nuova Sparta di Eitan Haber a prima istintiva reazione israeliana alla dichiarazione del primo ministro Benjamin Netanyahu che tutto Israele ha bisogno di essere circondato da una barriera si può riassumere con questa esclamazione: Oh no, questa è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Tale risposta sarebbe del tutto comprensibile. Ogni bambino israeliano, e anche ogni bambino ebreo in tutto il mondo, è nato insieme a immagini di barriere e recinzioni. Le recinzioni dei campi di sterminio della seconda guerra mondiale. Queste immagini vengono automaticamente associate agli sguardi delle persone dietro le recinzioni; lo sguardo negli occhi delle persone che camminano verso le camere a gas e i forni crematori. Pertanto, la proposta di circondare l’intero paese con una recinzione inizialmente suscita una reazione di paura e di rifiuto; la sensazione di un ghetto o di uno Stato fortezza.Tuttavia, ripensandoci, dopotutto quasi tutte le comunità stabilitesi qui durante il mandato britannico si circondarono, in primo luogo, con un muro e una torre di guardia. Prima ancora di costruire il primo tetto, avevano già una recinzione e una torre, al fine di difendere la comunità contro gli attaccanti arabi.
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Allora, cosa c’è di sbagliato in questo? Dopotutto, abbiamo lodato questi primi muri e queste torri di guardia. Abbiamo scritto canzoni e drammi su di essi. Una recinzione e una torre di guardia sono diventate uno dei simboli più importanti di Israele, nella storia dello stato nascente.Volevamo essere come Atene. E in terzo luogo: Cos’è tutto questo clamore? Dopotutto, ormai quasi tutto il paese è già recintato, nascosto dietro barriere elettroniche. Nelle alture del Golan, di fronte alla Siria, abbiamo una recinzione; vi è anche una recinzio-
ne alla frontiera con il Libano; nella valle del Giordano, di fronte alla Giordania, vi è un’altra recinzione; la Striscia di Gaza è circondata da una recinzione. I progetti vengono da lontano: e sarebbe sbagliato affidare l’intera responsabilità di questa scelta al premier Netanyahu. Non è infatti lui l’autore di questo nuovo progetto.
L’idea è stata ponderata per diversi anni, e sembra risalire almeno al 2005, quando un progetto chiamato “Sand-Clock” fu per la prima volta messo a punto dal ministero della difesa israeliano. Da allora, il Centro di ricerca e informazione del parlamento israeliano ha preparato una serie di rapporti sulle minacce presenti alle frontiere con la Giordania e l’Egitto, raccomandando la chiusura del confine con l’Egitto. Inoltre, diverse commissioni del parlamento hanno discusso la questione del confine meridionale. E, infine, il governo di Ehud Olmert ha esaminato una serie di progetti per chiudere il confine, compreso il progetto Sand-Clock. Ci sono voluti diversi anni per elaborare e approvare un progetto definitivo, perché sono state considerate diverse opzioni, tenendo conto delle condizioni geologiche e topografiche della linea di confine. Vi è anche un recinto (e in parte un muro) che si estende per decine di chilometri e separa la Giudea e la Samaria dallo Stato di Israele. Allora, qual è il problema? Ora verrà costruita una recinzione che si estenderà per centinaia di chilometri lungo il confine tra Israele e l’Egitto, e il lavoro sarà completo – tutto il territorio di Israele sarà recintato. Ma
forse questo è il nocciolo della questione: Speravamo che almeno una frontiera sarebbe davvero diventata una frontiera di pace, una frontiera senza una barriera, una sorta di sbocco per uno stato che sta venendo soffocato dalle recinzioni. Eppure, anche questo piccolo e poco realistico sogno sta per esserci sottratto.
Concludendo, una nota finale: è questo che è così triste. Un intero paese vive dietro le recinzioni, circondato in tutte le direzioni da oceani di nemici. Il pensiero che questo è il nostro destino può spingere una persona normale verso la follia. E così, stiamo assistendo alla creazione della nuova Sparta qui, la Sparta di oggi; eppure avremmo tanto voluto essere come Atene.
L’IMMAGINE
Pat Robison»: «Il terremoto di Haiti è stato provocato da un patto col diavolo» Secondo il telepredicatore americano Pat Robison «il terremoto di Haiti è stato provocato da un patto con il diavolo che il paese stipulò nel 1804 per ottenere l’indipendenza dalla Francia». Ha precisato, inoltre, che «il patto ha avuto l’effetto voluto: gli haitiani sono indipendenti, ma da allora sono stati maledetti». Anche se “googlando”in rete, la notizia del patto segreto degli haitiani con il principe delle tenebre sembra confermata. Fa sorridere, tuttavia, analizzando a fondo alcuni aspetti della società haitiana. È peregrino chiedersi perché dopo duecento anni di indipendenza il popolo haitiano non è ancora riuscito a darsi stabilità politica e ricchezza? È normale che in quel Paese il cristianesimo non abbia minimamente attecchito? E, soprattutto, come si spiega che il vudù e la magia nera siano circoscritte in quel ristretto lembo di terra? Cinica fantateologia? Dopotutto, la ritardata consacrazione della Russia al Cuore Immacolato suggerita dalla Madonna a Fatima, non portò i milioni di morti che tutti sappiamo?
Gianni Toffali - Verona
Si è costituito il Forum nazionale -Ambiente, Salute, Legalità. Ne fanno parte tutti quei comitati, associazioni e semplici cittadini, sensibili alle tematiche ambientali. Un nuovo paradigma è necessario per affrontare le emergenze territoriali, e così i fondatori si sono dotati di un centro di servizi tecnico-legale per supportare chi chiede aiuto nelle varie vertenze locali. Gli argomenti trattati: i rifiuti, le energie rinnovabili, il nucleare, le acque, l’amianto, le grandi infrastrutture, nonché tutti gli aspetti della promozione e dell’ecologia profonda in generale. Un’attenzione particolare sarà data agli effetti sanitari inerenti a tali tematiche.
Lettera firmata
TRIVELLAZIONI NEI MARI DI PUGLIA Un’interrogazione urgente al presidente della Regione sarà presentata dal gruppo regionale dell’Udc sul tema delle autorizzazioni relative alle trivellazioni nei mari pugliesi. Avremo così notizie sulle autorizzazioni già concesse ed in itinere per le indagini geofisiche e per le perforazioni dei pozzi esplorativi finalizzati all’attività estrattiva di gas e petrolio nei mari pugliesi. L’Udc chiede inoltre alla giuntaVendola perché il rappresentante della regione Puglia nella commissione nazionale per la valutazione di impatto ambientale sia stato insediato dal ministro dell’Ambiente con circa un anno di ritardo, e come mai la
Che cos’è questo? Che cosa vi sembra? Provate a indovinare ecco qualche indizio: una sua prima, rudimentale versione iniziò a circolare a New York negli anni ’50; ha qualcosa in comune con i piedini delle sedie; in alcuni casi, se ne servono anche i chirurghi; può far sparire alcuni graffi, ma non si può usare sulle ferite risposta: (la punta di un pennarello al microscopio)
UN NUOVO PARADIGMA SOCIALE
regione Puglia non si sia adoperata per rendere tempestiva tale nomina. Questa inerzia ha infatti consentito che tutti i dossier riguardanti la Puglia fossero trattati dalla commissione per la valutazione di impatto ambientale in assenza del nostro rappresentante regionale. Perché la regione Puglia non ha emesso alcun parere, pur previsto dalla
legge, relativo all’impatto ambientale delle ricerche della Northern Petroleum, autorizzate dal governo e riguardanti un tratto di circa 250 chilometri al largo delle coste pugliesi. L’attività di ricerca consistente in un bombardamento ad aria compressa dalle navi verso i fondali marini, con il metodo air-gun (cannoni ad aria) è finalizzata
alla scoperta di cavità sottomarine con possibili giacimenti petroliferi e di gas; alle ricerche dovrebbe seguire la realizzazione di pozzi esplorativi. È legittimo il sospetto che i bombardamenti già effettuati siano la causa dello spiaggiamento e della morte dei nove cetacei sulla costa di Cagnano Varano.
Carlo Laurora
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
I tuoi occhi: neri come la notte, lucidi come topazi Dimmi una cosa, quella che più ti piace, ed io la farò, sia pur difficile e dolorosa.Vuoi, per esempio, che domani sera io venga a Firenze senza dir nulla a nessuno? Vuoi che mi tagli una mano e te la mandi, dentro una scatola, per la posta? Le tue rose, le tue rose! Come sarei felice se potessi tenerle qui davanti a me mentre lavoro. Tu l’hai sempre con i miei occhi cilestri. T’inganni, non son punto cilestri, non hanno nessun colore, mutano a giorni come fa l’acqua del mare. Non lo sai? Ora per esempio (mi guardo allo specchio) son neri con un piccolissimo orlo verde d’intorno; qualche volta son bianchi quasi; qualche altra giallastri come quelli del gatto; e via... I tuoi non mutan mai; son sempre lì profondi come l’anima tua, neri come la notte, lucidi come topazi; e son sempre anche qui nel mezzo del mio cuore vivi e brucianti... il resto lo sai. Fuori piove a dirotto!Si starebbe tanto bene ora insieme, in questa penombra, a bisbigliare, con le mani intrecciate! A proposito, ci haiuno sgabello piccino costì? Perché quando verrò, io voglio sedermi su quello ai tuoi piedi: io ne vo matto. A casa la mamma ne ha fatto fare uno apposta per me; e quando vengono le signore io mi siedo sempre lì, nel mezzo del circolo, come una bestia rara. Gabriele d’Annunzio a Teodolinda Pomarici
ACCADDE OGGI
FACCIA A FACCIA POLVERINI BONINO Renata Polverini ed Emma Bonino hanno posto le basi per un faccia a faccia, un confronto che le candidate vorrebbero basare sui programmi. In questo contesto, le associazioni della società civile che, in occasione delle regionali hanno dato vita ad un nuovo “soggetto politico”che non intende candidarsi, hanno presentato alla stampa un programma elettorale, mentre le associazioni si mettono a disposizione delle candidate Polverini e Bonino per la realizzazione di un faccia a faccia. Dalla sanità ad una seria politica della casa fino alla riqualifica dei centri urbani e periferici, dalla sicurezza stradale alla sicurezza alimentare, dalla legalità alla lotta all’usura e alla criminalità organizzata, dalla tutela dell’ambiente alla difesa dei diritti degli animali, dalla semplificazione amministrativa alla tutela dei consumatori, queste sono le tematiche contenute nel programma elettorale delle associazioni.
Monia Napolitano
È UNA QUESTIONE ETICA Per quanto riguarda i lavoratori stranieri, almeno un milione di permessi aspettano il rinnovo mentre l’attesa media è pari a 10 mesi contro i 20 giorni previsti per legge. Si spiega così l’esistenza di una «zona grigia» tra lavoro regolare e irregolare, che dipende principalmente da carenze normative e da disfunzioni della pubblica amministrazione. Uno Stato che vuole contrastare la clandestinità e le nuove for-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
21 gennaio 1911 Prima edizione del Rally di Monte Carlo
1919 Riunitosi a Dublino, il Sinn Féin adotta la prima costituzione irlandese 1921 Fondazione del Pci a Livorno 1924 Vladimir Lenin muore. Josif Stalin inizia ad eliminare i suoi rivali per assicurarsi il ruolo di leader 1925 L’Albania si proclama Repubblica 1941 Seconda guerra mondiale: truppe australiane e britanniche attaccano Tobruk in Libia 1950 Alger Hiss viene condannato per falsa testimonianza 1954 Il primo sottomarino nucleare, il Uss Nautilus, viene varato a Groton da Mamie Eisenhower 1968 Un B-52 precipita in Groenlandia: delle quattro bombe nucleari a bordo, una non venne mai ritrovata 1969 Un reattore nucleare sperimentale sotterraneo a Lucens Vad, rilascia radiazioni in una caverna che venne sigillata 1976 Il Concorde entra ufficialmente in servizio
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
me di schiavismo deve mettersi nelle condizioni di far rispettare le leggi che le sue istituzioni hanno posto a disciplina e a tutela del lavoro regolare degli immigrati. È una questione etica, ancor prima che giuridica.
Francesco Giuliano
LE NECESSITÀ DEL BUON GOVERNO Sul taglio delle tasse c’è molto da dire, raccogliendo in primis il dissapore di tutti, perché la piaga dell’erario nel nostro Paese la conosciamo bene, e fin quando non cambieranno i metodi, non cambierà la realtà. Potremmo aggiungere anche la valutazione moderata, che almeno non si sono introdotti nuovi balzelli, in linea con le primissime prerogative dell’esecutivo. Una sola cosa resta certa però, che il premier doveva essere quanto più chiaro, perché la sua coerenza sta a cuore a noi come le sue stesse deduzioni. Allora nasce necessaria la presenza di quella chiarezza, collegialità e concertazione, che sono state non solo le premesse e le precisazioni dialettali, di uomini illustri come il presidente della Camera Fini; ma sono il contenuto della sua stessa chiarificazione con il premier, perché tali premesse non saranno mai adoperate per creare una faglia nell’attuale maggioranza, ma sono solo il modo migliore di ricordare che se si vuole conquistare il podio della democrazia diretta, occorre parlare agli italiani a 360 gradi, tenendo conto cioè delle necessità da tutti richiamate.
Bruno Russo
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
BASILICATA TRA PRESENTE E FUTURO Il turismo, con l’agricoltura e l’industria, è un settore strategico per lo sviluppo della Basilicata. Soprattutto il turismo di prossimità rappresenta uno snodo importante per richiamare non solo l’attenzione delle regioni contermini ma quelle dell’intero Paese e del Mediterraneo. La “Basilicata oltre confine” rappresenta ancora la giusta politica per accattivarsi, sul mercato che conta, le attenzioni di chi intende fare un turismo di qualità rivolto alla cultura, all’ambiente, all’archeologia, al sole. In Basilicata queste cose esistono, ma è necessario che vengano ripetute e rilanciate con dovizia dalle parti sociali che fanno tendenza. Per questo si è convenuto di organizzare una tavola rotonda per il giorno 23 gennaio presso l’Aula Magna dell’università degli studi della Basilicata. Saranno presenti per dare il loro puntuale contributo il professore Mauro Fiorentino, rettore dell’università degli Studi della Basilicata, la scrittrice Lillina Zaza Padula, il direttore dell’Apt, Giampiero Perri, Raffaele Di Nardo, già presidente della regione Basilicata, Gennaro Straziuso, assessore regionale alle Attività Produttive, Vincenzo Viti, assessore regionale all’Agricoltura, Pasquale Lamorte, presidente della Camera di Commercio, Prospero De Franchi, presidente del consiglio regionale e Vito de Filippo, presidente della giunta regionale. Il tutto sarà coordinato dal direttore del Quotidiano di Basilicata dott. Paride Leporace. Gaetano Fierro COPENHAGEN: MISSIONE INCOMPIUTA Hanno fallito gli europei, hanno fallito tutti gli altri. Sono prevalsi gli interessi nazionali. La conferenza di Copenhagen sarà ricordata per la tragica assenza di qualcuno capace di guidare gli altri. I Ventisette hanno un magro alibi. Se l’America non correva e la Cina frenava, cosa potevano fare loro, da soli, con la proposta di tagliare il Co2 del 20% entro il 2020, coraggiosa e unica nel panorama internazionale? Non basta. Alla fine si sono lasciati scivolare verso la debacle, non hanno puntato i piedi. Lo dimostra una seconda foto. Quella con Obama, Lula e gli altri leader di peso del pianeta nella quale mancano proprio gli europei. Dov’erano? E chi doveva esserci? Almeno due debolezze di fondo della banda comunitaria sono state messe a nudo dalla Conferenza di Copenhagen. La prima è che l’Unione ha parlato di clima mentre gli altri discutevano di politica. La seconda riguarda la sottigliezza della leadership comunitaria, perché non è immediato dire chi avrebbe dovuto esserci di fianco al presidente Usa e quello brasiliano. II timido Reinfeldt? Toccava a lui e sarebbe stato un match impari. Barroso? Ci sarebbe andato, ma non è il suo ruolo. Sarkozy? Merkel? Brown? Non ne avevano titolo. L’assenza è spiegata. L’Europa si è dimostrata ancora una volta incapace di trasformare le sue ricchezze e potenzialità in risultati concreti. Usa e Cina ne hanno fatto polpette. La fine del vertice l’hanno decretato loro con India e Sudafrica. Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
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PAGINAVENTIQUATTRO Anniversari. Il mondo del jazz si prepara a festeggiare il grande musicista Django Reinhardt, a cento anni dalla nascita
Il «genio zingaro» della di Adriano Mazzoletti uesto mese di gennaio 2010 tutto il mondo del jazz celebra il centesimo anniversario della nascita di Django Reinhardt. Forse il più geniale e originale musicista jazz europeo. La breve vita di questa chitarrista semianalfabeta, nato in una “roulotte” in Belgio, dove a causa di un incendio perdette l’uso di due dita della mano sinistra (quella che agiva sulla tastiera della chitarra), che ottenne gloria e celebrità in Francia è ben conosciuta. Poco o nulla si sa invece dei suoi rapporti con il nostro Paese, dove soggiornò brevemente solo tre volte.
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La prima nel 1915, aveva solo cinque anni, quando con la famiglia, allo scoppio della guerra, fuggì dalla Francia per recarsi ad Algeri. Il viaggio in “roulotte”subì alcune soste a Livorno e Roma. Per vedere Django in Italia, come musicista, bisognerà attendere oltre trent’anni, quando il famoso Quintette du Hot Club de France non esisteva più. Giunse a Milano la vigilia di Natale 1948, con il suo compagno di sempre Stephane Grappelli, per un ingaggio all’Astoria, celebre locale in via S. Maria Beltrade. Il complesso, formato per l’occasione, aveva le caratteristiche del celebre quintetto dell’Hot Club de France. Stephane, Django, tre chitarristi, gli italiani, Franco Cerri, Piero Visani, Armando Camera e Ubaldo Beduschi al contrabbasso. La loro presenza all’Astoria non fu pubblicizzata adeguatamente. Sulla stampa quotidiana e nelle locandine, i nomi dei due musicisti francesi erano stampati a caratteri minuti, sotto quello, a caratteri cubitali, di Bruno Quirinetta, primo di una lunga serie di complessi-spettacolo che, intorno al 1950, presero il sopravvento sui musicisti e complessi swing. Il tiepido successo costrinse Django e Grappelli a lasciare Milano dopo circa quindici giorni per l’interruzione anticipata del contratto. Si trasferirono a Roma per un nuovo ingaggio al Jicky Club della Rupe Tarpea. La Rupe si trovava alla fine di via Veneto, a pochi metri da piazza Barberini. Grappelli ricorda che tutto il “bel mondo” romano, nonché gli attori più importanti del cinema, si precipitavano ogni sera ad ascoltarli. Incontrarono Anna Magnani, Dado Ruspoli, Porfirio Rubirosa, Totò “Principe Antonio De Curtis”. Vennero accompagnati anche in questa occasione da musicisti italiani, il pianista triestino Gianni Safred, Carlo Pecori contrabbasso e Aurelio De Carolis alla batteria, tutti con grande esperienza ma abituati a contesti musicali assai diversi. Il quintetto fu bersaglio di contestazioni da parte di qualche cliente che pretendeva di ascoltare altri tipi di musica. Una sera venne richiesto Ménilmontant, celebre canzone di Charles Trénet. Felici di accontentarlo, la eseguirono, ma la loro versione non fu gradita e il cliente chiese di ripeterla. Django e Stéphane risuonarono quel motivo, ma ancora una volta quell’interpretazione non piacque per nulla. Infuriato, il cliente si tolse una scarpa e la tirò ai musicisti. Ma Django e soprattutto Stéphane avevano troppa esperienza di night, di clienti stupidi, invadenti e maleducati, e di proprietari poco onesti per lasciarsi sorprendere. L’ingaggio perciò trascorse senza ulteriori incidenti. Durante il soggiorno a
CHITARRA Ritratto in chiave italiana del più originale interprete europeo del jazz: dalle tappe a Roma e Milano (in roulotte) fino alle incisioni al Centro di produzione Rai grazie all’aiuto del collaboratore Livorness
Roma Django non abitò mai in albergo. Gli era stata riservata una camera all’Hotel Alexandra esistente ancor oggi in via Veneto, ma non vi mise mai piede. Preferì essere ospite in una “roulotte” di alcuni “rom” che avevano le giostre a piazzale Clodio. I due musicisti francesi furono an-
che invitati diverse volte a casa di Armando Trovajoli, con il quale suonarono spesso, ma non risulta siano state effettuate registrazioni, anche perché erano assai rari, all’epoca, i possessori di apparecchi adeguati.
Nell’occasione il collaboratore della Rai Christian Livorness fece loro incidere 87 brani al Centro di produzione Rai di via Asiago. Quelle registrazioni, che in seguito Livorness cedette a La Voix de son Maître e in parte a Rca, furono oggetto di diverse edizioni e di recensioni e critiche spesso discordanti, riguardo ai musicisti italiani, anche se Gianni Safred era un eccellente pianista altamente apprezzato. Dopo poche settimane i due tornarono in Francia, ma nel febbraio 1950 Django ritornò a Roma per una scrittura in un altro locale notturno, l’Open Gate, questa volta con i francesi André Ekyan, Raph Schecroun, Alf Masselier e Roger Paraboschi. Quel periodo fu caratterizzato ancora una volta da una serie di registrazioni radio patrocinate da Livorness. Vennero realizzati trenta brani, in quattro sedute, nelle prime due settimane di aprile. Da allora Django non tornò più in Italia, sarebbe scomparso a Fontainebleau il 16 maggio 1953 all’età di 43 anni. Era nato - in una roulotte di gitani di passaggio in quel momento a Liberchies in Belgio - esattamente cento anni fa, il 23 gennaio 1910.