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La forza senza intelligenza

ISSN 1827-8817

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rovina sotto il suo stesso peso Quinto Orazio Flacco

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 23 GENNAIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Casini conclude a Roma l’Assemblea della Costituente: «Più ci attaccano e più dimostrano la nostra insostituibilità»

C’è un solo forno: il Centro

Hanno bisogno del pane centrista (voti e cultura politica) in quasi tutte le regioni.Eppure c’è chi rovescia la frittata,accusando l’Udc di opportunismo.La verità è che i fornai del bipolarismo non ce la fanno più di Franco Insardà

DOSSIER

ROMA. Pier Fedinando Casi-

Il boom in Cina Nuovo padrone o tigre di carta?

Una nuova apertura del presidente

La garanzia di Fini: «Il processo breve può ancora essere cambiato»

ni lo ha detto con chiarezza nel corso dell’Assembla della Costituente, ieri, a Roma: «Più polemizzano con noi e più ci rafforzano». La prossima settimana, saranno definite le candidature dell’Udc, ma la questione del “due forni”non si pone: è solo lo strumento con il quale il bipolarismo cerca di scaricare la sua crisi sui centristi. a pagina 2

«Non andiamo con chi vince, vero è che vince chi si allea con noi»

Il mondo ha accolto con sorpresa i dati del Pil 2009 di Pechino (+ 8,7 in piena crisi). Molti vedono la conferma della leadership del XXI secolo. Altri sostengono che il gigante asiatico abbia i piedi d’argilla...

di Aldo Bacci

servizi da pagina 11• a pagina 15

di Errico Novi

ROMA. Gianfranco Fini prova a fare il garante della giustizia sul processo breve. «Non è ancora detta l’ultima parola: la legge è migliorabile e il Parlamento dirà la sua» ha detto ieri il presidente della Camera. Fini, di fatto, ha ribadito quello che era trapelato sui giornali a proposito delle decisione prese nel corso del faccia a faccia di giovedì: il testo del ddl non è «blindato». Ci sarebbe spazio per alcune modifiche: «Ora c’è il secondo round al Parlamento, ci sarà una discussione e il giudizio va dato solo alla fine dell’iter» ha aggiunto il presidente della Camera. a pagina 4

PARLA ROCCO BUTTIGLIONE

ROMA. «Noi non accettiamo lezioni di corenza da nessuno»: Rocco Buttiglione è molto duro. «C’è chi gridava viva Mussolini e ora grida viva i partigiani. Chi gridava viva Stalin e ora grida viva l’America. Chi celebrava i riti celtici e ora brandisce il crocifisso come un’arma. Noi siamo gli unici coerenti, gli unici che mantengono saldi i propri principi». E in forza dei propri valori, i centristi sono inseguiti da destra e da sinistra: perché garantiscono il successo elettorale. a pagina 3

Google, la Cina attacca ma Obama risponde

Gli intellettuali della Laguna e una città tra passato e futuro

Com’è incerta Venezia

di Guglielmo Malagodi

Viaggio nella Serenissima tra Cacciari e Brunetta

WASHINGTON. La Cina attacca, Obama risponde. Ie-

di Riccardo Paradisi

ROMA. Renato Brunetta ha lanciato la sfida: metà ministro e metà sindaco di Venezia. Perché «l’èra Cacciari è finita», ha spiegato. Cacciari ha già detto che lui di ricandidarsi sindaco non ha nessuna intenzione. Il problema è capire come finisce la sua «èra», se bene o male, insomma. liberal lo ha chiesto ad alcuni intellettuali veneziani celebri, di tutti gli orientamenti politici. Renata Codello è la sovrintendente ai Beni storici e architettonici e vanta una lunga, fruttuosa collabora-

seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

zione con il Comune e con Cacciari. Cesare De Michelis, anima storica della casa editrice Marsilio invece ha un giudizio altamente negativo: Cacciari non ha fatto gran ché per Venezia. Francesco Dal Co, uno dei nostri massimi studiosi di architettura, segnala l’esempio di onestà della giunta Cacciari che «non ha eguali in Italia». Infine Stenio Solinas, inviato del Giornale e scrittore, punta sulle larghe vedute di Cacciari contro l’illusione dell’iperattivismo. a pagina 8

NUMERO

15 •

WWW.LIBERAL.IT

Tensione fra i due Paesi, interviene la Casa Bianca

• CHIUSO

ri Pechino ha replicato duramente all’intervento di Hillary Clinton contro la censura su internet, definendolo «dannoso» per i rapporti tra i due Paesi e invitando gli Stati Uniti a rispettare gli impegni presi dai rispettivi leader per lo sviluppo delle relazioni bilaterali. In serata, è arrivata la contro-replica del presidente americano. «Preoccupato» dai cyber-attacchi sferrati contro Google, Obama chiede «risposte» alla Cina. «Come il presidente ha detto - ha aggiunto il vice-portavoce della Casa Bianca, Bill Burton - rimangono le preoccupazioni per le violazioni della sicurezza sul web che Google attribuisce alla Cina. Come ha detto ieri la Clinton, stiamo tutti aspettando le risposte della Cina». In un’intervista rilasciata a liberal l’ex ambasciatore americano alle Nazioni Unite, John R. Bolton, dichiata che «il colosso di Mountain View ha fatto bene a fare quelle dichiarazioni, perché non si possono fare affari con chi viola troppo palesemente le regole del gioco». INTERVISTA A JOHN BOLTON a pagina 15

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 23 gennaio 2010

prima pagina

Programmi. Ribadita la strategia dell’Udc: no alle pretese leghiste, rivendicazione dell’unità nazionale e dell’autonomia

Il forno del Centro

Pier Ferdinando Casini: «Più polemizzano con noi e più ci rafforzano. Entro la settimana prossima saranno definite le candidature» di Franco Insardà

ROMA. Il cielo limpido di Roma e un freddo pungente sono la cornice ideale per chiarire le idee. Soprattutto a quelli che tentano di coinvolgere l’Udc e il suo leader nell’ormai stucchevole teatrino della politica fatto di insinuazioni, attacchi e insulti. «Tanto rumore per nulla. Non è cambiato nulla. Più polemizzano con noi, più ci rafforzano. Le intimidazioni non ci faranno cambiare la nostra posizione, che è quella di rimanere al Centro» ha detto soddisfatto Pier Ferdinando Casini, alla fine del Consiglio nazionale dell’Unione di Centro, e ha aggiunto che «le polemi-

sfatti, pacche sulle spalle tra vecchi amici che si ritrovano in un momento particolare legato anche all’assoluzione di Calogero Mannino, al quale è stata espressa la solidarietà di tutti. «È una sentenza di valore politico e storico - ha detto Rocco Buttiglione - perché dimostra che non è vero che la Dc era uguale alla mafia». La consapevolezza che, come ha detto Savino Pezzotta, «può esistere una nuova possibilità nello scenario politico italiano. Dobbiamo valorizzare il nuovo che rappresentiamo e la sua alta capacità attrattiva». Il riferimento dell’ex segretario della Cisl non SAVINO PEZZOTTA era soltanto a Dorina Bianchi, Enzo Carra e Renzo Lusetti che «I forni fanno hanno lasciato il Partito depane diverso. A mocratico per riconvolte bisogna giungersi al partito scegliere il pane di Casini, ma anintegrale per che ai Liberal demotivi di salute, mocratici Daniema quello la Melchiore e che ha troppa Italo Tanoni, a crusca, cioè Gianni Rivera ad esempio ad Antonio troppa Lega, Satta. Un può risultare gruppo che indigesto» unisca laici, cattolici e moderati che contro di noi non fanno altro che con l’obiettivo dirafforzare la nostra posizione nel siste- chiarato di smanma politico e nel Paese». tellare il bipolariLa consapevolezza di aver imboccato la smo che, come ha strada giusta si manifesta negli inter- detto Ferdinando venti degli esponenti centristi e si respi- Adornato, «ha milira tra i dirigenti nazionali e regionali tarizzato la politica che affollano la sala conferenze della italiana, ma che sta sede di Confcooperative. Volti soddi- mostrando tutta la

sua insufficienza a garantire governabilità al Paese». Pezzotta ha messo in evidenza l’indipendenza dei centristi nella politica italiana: «Siamo la normalità della democrazia e le nostre scelte preoccupano chi, attraverso il bipartitismo, vorrebbe dominare tutti». E Adornato ha rilanciato: «L’Udc è l’unico partito libero d’Italia che può fare scelte autonome. Siamo scomodi, ma leali. A livello nazionale né di qua né di là, nelle regioni di qua e di là, mettendoci nei panni dei cittadini che sceglieranno il governatore che avrà il programma migliore. Non siamo andati con il miglior offerente, ma con il miglior o peggior “sofferente”». Una scelta difesa da tutti e che, come ha detto il segretario del partito,

Lorenzo Cesa è «tutto fuorché opportunistica, nessuno può darci lezioni di moralità, perché nessuno ha fatto scelte così limpide e trasparenti come noi. Ma, soprattutto, nessuno può accusarci di

LORENZO CESA «Il sistema bipolare non dà più risposte al Paese. Ci attaccano con la storia del doppio forno per screditarci ma noi, al contrario, siamo il partito della coerenza»

essere cacciatori di poltrone, di utilizzare il doppio forno per fare scorpacciate di potere. Gli stessi che prima ci attaccano e poi ci vengono a chiedere di allearci con loro, Non dimentichiamoci che in cinque regioni abbiamo i nostri candidati governatori». Ma la “politica dei due forni”per Pezzotta «non è amorale, perché si scePIER FERDINANDO CASINI glie il candidato sulla base dei valori e dei principi del suo pro«Le polemiche contro di noi gramma. Dipende dalla qualità non fanno altro che rafforzare del pane prodotto. E, quando si la nostra posizione nel sistema è costretti a scegliere un pane politico e nel Paese. con la crusca, si cerca di evitare E sono molto importanti quello che ne ha troppa, perché le continue, nuove adesioni non è buono», una metafora, alla Costituente di Centro» quest’ultima, indirizzata ai fornai di via Bellerio.


prima pagina Il presidente dell’Udc Buttiglione ha fatto un’analisi diversa: «Noi abbiamo aperto il nostro forno e loro sono venuti, se avessimo voluto gli assessori li avremmo potuti avere facilmente». Enzo Carra propone di andare oltre e di puntare a un progetto da realizzare nei prossimi anni: «La storia dei due forni ci ha stancato e al pane occorre aggiungere proteine, come, appunto, le riforme». Dorina Bianchi, testimoniando l’entusiasmo di molti per il progetto centrista, ha invitato a «far esplodere le perplessità e le difficoltà interne di Pdl e Pd». E le riflessioni della Bianchi sono state condivise anche dall’altro nuovo arrivato Renzo Lusetti, che definendo lo stato attuale del Pd «come i Balcani dopo la morte di Tito, e il Pdl cementato solo dal potere» ha concluso il suo intervento, omaggiando il suo storico mentore Ciriaco De Mita, e, riferendosi alla libertà e all’autonomia dell’Udc, ha citato la canzone di Edoardo Bennato “Venderò”. Una autonomia rivendicata da Casini secondo il quale, grazie ai demeriti degli altri e alla scelta del suo partito di non accettare ultimatum, oggi l’Udc è indispensabile al centrosinistra e al centrodestra. «Siamo fondamentali ha detto Casini - perché Pdl e Pdl sono delle tigri di carta sotto il ricatto di due

FERDINANDO ADORNATO «Il bipolarismo è fallito e ha militarizzato la politica italiana. Per questo la scelta dell’Udc è: a livello nazionale né di qua né di là, a livello regionale di qua e di là»

tigri vere: la Lega e il partito di Di Pietro». Il leader dell’Udc ha ricordato le battaglie contro il Carroccio sul federalismo fiscale e le quote latte e le divisioni nel Pd tra i cattolici e sulla giustizia: «Si critica sempre l’Udc, ma quando si va poi in Parlamento su temi delicati, come quello della giustizia, sulla mozione dell’Udc si realizza l’unità di tutto il Parlamento. Le ricette buone le diamo noi, come quella sul legittimo impedimento». Casini non si è neanche sottratto alle domande su Berlusconi. «No, non ci siamo sentiti, ma se dovesse servire ci sentiremo» ha risposto. E su un eventuale incontro con il premier ha liquidato l’argomento dicendo: «Ci sono altri mezzi, c’è il telefono, la mail, non ci sono solo gli incontri. Sono elezioni regionali e le scelte si fanno a livello locale. Sicuramente con Berlusconi ci vedremo prima delle prossime elezioni politiche» ha concluso con ironia, non prima di aver dichiarato sull’incontro tra il presidente del Consiglio e Gianfranco Fini: «Non vedo qual è la notizia. Sono due leader, è normale che si parlino». Le scadenze delle regionali è, però, l’argomento all’ordine del giorno e Casini non si è sottratto: «Scenderò personal-

mente in campo a sostegno della Polverini», mentre sulla Calabria si è detto ottimista di trovare un’intesa con il Pdl «perché ci lega un comune impegno nella contestazione e nella critica forte della giunta Loiero». Anche sul caso Puglia la posizione dell’Udc è chiara e ceorente: «Se Vendola vince le primarie non faremo l’alleanza

DORINA BIANCHI «Il sistema bipolare è fallito: a questo punto il nostro compito è far esplodere le difficoltà interne di Pdl e Pd per traghettare il Paese verso il futuro»

con il centrosinistra. In quel caso l’area riformista subisce uno smacco e non faremo sconti» ha detto Casini che ha aggiunto: «Entro la prossima settimana chiuderemo tutto. C’è una gigantesca campagna mediatica contro l’Udc che ci fa ben sperare, perché vuol dire che la nostra linea è giusta e dà fastidio. I nostri elettori non ci hanno chiesto di iscriverci né con il Pd né con il Pdl, ma di difendere la nostra autonomia». Autonomia ribadita nel documento votato all’unanimità dalla direzione nel quale, si legge che «l’Unione di Centro prosegue in vista delle imminenti elezioni regionali la propria iniziativa politica, iniziata nel contesto delle elezioni politiche del 2008 all’insegna dei propri valori costitutivi: vita e famiglia. Unità nazionale; presidenti e programmi anche differenziati Regione per Regione; riaffermazione rigorosa della nostra autonomia nei confronti di quanti ritengono di costituire già oggi soggetti politici definitivi, tra i quali si dovrebbe necessariamente scegliere, costituiscono di conseguenza le linee politiche strategiche dell’Unione di Centro. L’unità nazionale costituisce pertanto la premessa necessaria della nostra linea politica anche e soprattutto nelle imminenti elezioni regionali. Ne consegue la radicale avversione dell’Unione di Centro a qualunque pretesa leghista. L’Unione di Centro si ispira infatti al-

ENZO CARRA «La storia dei due forni ci ha stancato e poi al pane occorre aggiungere proteine. Come, per esempio, le riforme istituzionali che ormai non possono più aspettare»

l’autonomismo sturziano che vuole le Regioni nella Nazione e non consente in alcun modo di considerare le Regioni quale base di partenza per la costruzione di un’altra Nazione».

23 gennaio 2010 • pagina 3

«Non accettiamo lezioni di coerenza»

«Siamo noi l’unico partito-laboratorio» Rocco Buttiglione: «Potevamo andare da soli, ma gli altri sono venuti a cercarci» di Aldo Bacci

ROMA. Il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione è soddisfatto dell’Assemblea della Costituente di centro tenuta ieri mattina a Roma. Onorevole, siete sotto attacco da destra e da sinistra, ma i due forni funzionano? Ma quali due forni! Esiste un solo forno: il nostro, l’unico oggi capace di sfornare idee, progetti, valori. E anche l’unico che fa vincere. Noi eravamo pronti ad andare da soli, e andremo da soli in molte importanti realtà italiane. Sono gli altri che sono venuti a cercarci, sono gli altri che hanno bisogno di noi, che vengono sul nostro territorio, sulle nostre posizioni. Non c’è nessuna alleanza strategica nazionale in corso, ma se localmente ci sono convergenze in cui alle nostre condizioni, sui nostri contenuti, possiamo caratterizzare in positivo l’amministrazione di un territorio, questo è un bene per i cittadini. C’è chi vi accusa di andare con chi vince per opportunismo. Accusa inconsistente che scredita chi la formula. Intanto non siamo noi ad andare con chi vince, ma molto spesso vince chi viene con noi. Poi la storia recente dimostra a quante poltrone abbiamo saputo rinunciare per difendere la nostra libertà e le nostre idee. Infine se avessimo voluto essere opportunisti avremmo chiesto presidenti di regione, e ce li avrebbero dati. E avremmo chiesto assessori in Emilia Romagna, in Lombardia, in Toscana, in Veneto, e ce li avrebbero dati. Ma noi non siamo il partito degli assessori, noi puntiamo ai contenuti, alle vere esigenze degli italiani, a partire dalla più grave: il lavoro. E puntiamo a trasformare questo sistema politico bipolare che sta fallendo. In questo senso la Puglia è un laboratorio? Grazie a noi per la prima volta si è arrivati alla resa dei conti tra la sinistra massimalista e quella riformista. Ne seguirà un chiarimento, e magari potrà nascere un nuovo centro-sinistra. Ma di laboratori ce ne sono al-

meno due: non dimentichiamo il Lazio, dove col nostro contributo può nascere un nuovo e migliore centrodestra. Vedremo quale dei due processi evolutivi si compirà. Due esperimenti opposti. E tutti continuano a chiedervi: ma alla fine andrete di qua o di là? Non si pone un problema di coerenza? Non accettiamo lezioni di coerenza da nessuno. C’è chi gridava viva Mussolini e ora grida viva i partigiani. Chi gridava viva Stalin e ora grida viva l’America. Chi celebrava i riti celtici e ora brandisce il crocifisso come un’arma. Noi siamo gli unici coerenti, gli unici che mantengono saldi i propri principi, i propri valori, la propria tradizione politica. Il bipolarismo cerca di nascondere questa semplice verità, e di distruggere questa tradizione. Ma sta fallendo. Pdl e Pd quando ci chiedono le alleanze riconoscono di fatto di non essere autosufficienti, e ammettono l’esistenza di un terzo soggetto con cui bisogna fare i conti. Quel soggetto che hanno cercato di eliminare, che criticano ma di cui hanno bisogno. Il centro ha ancora un ruolo nella politica di questo Paese? Lo dimostrano i fatti, non dobbiamo più dimostrarlo noi, sono gli elettori ad averlo consacrato. E poi se non ci fosse un centro ragionevole e moderato si arriverebbe allo scontro aperto tra due opposte fazioni che non si riconoscono vicendevolmente la legittimità di esistere. Inoltre lo dicono la storia e la logica. Faccio un esempio: perché un elettore moderato, un cristiano, un laico alla Croce o alla Bobbio devono essere costretti a scegliere tra i loro valori sacrificandone alcuni? Perché scegliere tra chi sostiene la difesa della vita e chi è più attento alla solidarietà? Noi sosteniamo entrambe le cose, e così è con sicurezza e accoglienza, legalità e giustizia, così come siamo insieme contro lo statalismo ma anche e soprattutto contro chi attenta all’unità d’Italia.

C’è chi gridava viva Mussolini e ora grida viva i partigiani. Chi gridava viva Stalin e ora grida viva l’America. Questa è coerenza?


politica

pagina 4 • 23 gennaio 2010

Cessato allarme. Spazio alla legge sul legittimo impedimento, mentre la “bomba” sulla ragionevole durata verrà tenuta da parte

La garanzia di Fini

Nuova rassicurazione del presidente della Camera: «Sul processo breve il giudizio va dato alla fine, a Montecitorio ci sarà una discussione seria» di Errico Novi

ROMA. C’è un segnale che vale più degli altri. Alla lectio brevis chiestagli dall’università romana di Tor Vergata Gianfranco Fini risponde sul processo breve con aria distesa, persino ironica. Lo sguardo irrigidito dell’intervista a Fabio Fazio, quella in cui il presidente della Camera aveva avvertito che la legge sulla “ragionevole durata” avrebbe avuto via libera solo in cambio di risorse per la giustizia, ebbene quel tono sepolto e ultimativo non c’è più. Perché la bomba ormai è stata disinnescata: sul provvedimento appena arrivato a Montecitorio «il giudizio andrà dato alla fine», ricorda Fini, ora «c’è il secondo round alla Camera e il dibattito sarà serio». Nessun timore, fugato l’allarme che aveva messo il co-fondatore del Pdl sulla difensiva rispetto a Silvio Berlusconi. Quasi certamente infatti in quello che Fini chiama «secondo round» verrà cancellata la norma che applica i termini del processo breve anche alle vicende giudiziarie in corso. Svanirà in particolare il complicato passaggio grazie al quale i due procedimenti aperti a carico di Berlusconi, quello per Mills e l’altro sui diritti Mediaset, sarebbero rientrati sotto la mannaia della prescrizione.

rimbecca subito: «Ieri sera hai visto Santoro, eh?…». E poi entra nel merito: «Rispetto a quanto dissi da Fazio è accaduto qualcosa in più perché in Finanziaria c’è stata una prima cospicua risorsa per la giustizia. È un primo passo ma va nella direzione giusta». E appunto nel testo uscito dal Senato «qualcosa è migliorato: ci sono alcune questioni che meritano di essere approfondite». Meglio attendere che «l’iter sia concluso, visto che il nostro è un sistema di parlamentarismo perfetto, per dare un giudizio complessivo: comprendo le ragioni della polemica», dice Fini, «ma a volte sono più legate alla

«Rispettate il silenzio di Napolitano», dice la Terza carica dello Stato. Che richiama anche alla necessità di «ascoltare l’opposizione»

Quella di Fini è in ogni caso una garanzia. Assicurata con il sorriso sulle labbra a un uditorio composto da studenti, ma anche da personalità come il presidente della Consulta Francesco Amirante e il costituzionalista Giovanni Guzzetta, promotore del referendum che proprio a Tor Vergata ha la sua cattedra. È un giovane universitario a chiedere al presidente di Montecitorio se avrebbe confermato la richiesta dello scambio tra processo breve e maggiori risorse fatta a Che tempo che fa.Fini lo

propaganda che a una reale lettura dei testi».

Va avanti invece il legittimo impedimento, norma messa a punto dalla commissione Giustizia della Camera, con una sintesi tra la proposta iniziale del Pdl Enrico Costa – che lasciava qualche margine di incertezza sullo stop ai tempi di prescrizione – e gli aggiustamenti suggeriti da Michele Vietti dell’Udc. «È quella l’unica possibilità che ha Berlusconi di venirne fuori», ripete Pier Ferdinando Casini alla Costituente di Centro riunita in mattinata a Roma. Il legittimo impedimento dovrebbe essere il preludio a un successivo intervento costituzionale sul ripristino dell’immunità, come continua a suggerire Gaetano Pecorella. In ogni caso la legge sul processo breve sembra destinata a galleggiare

molto a lungo tra i due rami del Parlamento, in attesa che si trovino ulteriori strumenti per snellire l’impressionante carico di procedimenti incompiuti. A meno che la situazione giudiziaria di Berlusconi non precipiti: solo in quel caso, e a quel punto con l’accordo di Fini, la contestatissima proposta verrebbe ritirata fuori, con tutto il suo corollario di codicilli studiati apposta per renderla applicabile al premier.

Il vero passo in avanti consiste nel sostanziale rinsavimento della maggioranza, apparsa fino al pranzo di giovedì scorso tra il presidente del Consiglio e l’ex leader di An agitata da una sorta di bulimia isterica: sembrava che sulla necessità di approvare le norme sulla “ragionevole durata” non potesse valere alcuna obiezione, né quelle sul rischio di mandare all’aria i processi per mega-truffe come Parmalat né altre riguardanti il caso, per esempio, della Thyssen. Ancora ieri d’altronde il

deputato del Pd Antonio Boccuzzi, superstite al rogo delle acciaierie torinesi, definiva l’approvazione della legge Gasparri «un pugno in faccia per migliaia e migliaia di vittime del lavoro che non vedrebbero giustizia». Decisivo il segnale di cessato pericolo dei legali del premier: allo stato attuale è impossibile, persino senza la norma sul legittimo impedimento, che i magistrati milanesi riescano a ottenere una rapida condanna di Berlusconi per il caso Mills.

Sollevato per primo dalla fine di una specie di tunnel politico-parlamentare, Fini concede a Tor Vergata anche una lunga dissertazione su democrazia dell’alternanza, governo decidente, neccesità di aggiornare i partiti «che non saranno mai più come nel secolo scorso» senza dimenticare il ruolo delle fondazioni, e persino sulla necessaria rappresentanza da dare alle lobby – questione peraltro centrale nel corso in cui è

Mediatrade: il pm chiude le indagini

MILANO. Il pubblico ministero della

A sinistra, Angelino Alfano. Sopra, Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. A destra, Bettino Craxi. Nel box, Piersilvio Berlusconi

procura di Milano, Fabio De Paquale, ha chiuso l’ultimo filone di inchiesta sulle presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv di Mediaset.Tra gli indagati, circa una decina, figura anche Silvio Berlusconi, suo figlio Piersilvio e Fedele Confalonieri. L’indagine è nata nel 2007 in seguito all’esame di alcuni documenti provenienti da un sequestro effettuato in Svizzera nel 2005 a una società riconducibile all’imprenditore Frank Agrama e da perquisizioni fatte presso Rti (società del gruppo Mediaset). Nell’autunno del 2007 Berlusconi era stato iscritto nel registro degli indagati per concorso in appropriazione indebita.


politica

23 gennaio 2010 • pagina 5

La riabilitazione (dopo la rimozione), ma sempre per salvare il bipolarismo

Bettino Craxi, l’uso della memoria

Tutto è funzionale a coprire il fallimento strutturale della Seconda repubblica e della sua classe dirigente di Enrico Cisnetto alla rimozione alla riabilitazione, ma non è detto che serva. Ho assistito in questi giorni al recupero della memoria di Bettino Craxi a dieci anni dalla morte, e pur non essendo mai stato socialista, ho provato grande piacere nel vedere che dalla primigenia fase di condanna e disprezzo e da quella successiva di rimozione, si sia finalmente passati alla stagione del ricordo e della valutazione storica dell’uomo politico e dello statista. Ho visto in tv la bellissima ricostruzione preparata da Minoli, ho partecipato personalmente alla manifestazione organizzata a Roma da Luca Josi in cui è stato proiettato un filmato-intervista inedito girato ad Hammamet qualche tempo prima della scomparsa di Craxi. Ho ascoltato molte dichiarazioni, ho letto con piacere la bella lettera inviata dal Capo dello Stato alla vedova. Ma più il momento celebrativo cresceva d’intensità, e più montava in me la sensazione che era in atto un terribile scambio: la riabilitazione di Craxi, o quantomeno della sua memoria, in cambio dell’oblio non solo sul ruolo della Prima Repubblica - come ha giustamente denunciato Stefano Folli in un’intervista a questo giornale ma anche sul fallimento della Seconda circa tutti gli obiettivi di superamento dei vecchi difetti della politica, a cominciare dal finanziamento dei suoi costi. E sì, perché in realtà intorno al ricordo di Craxi a dieci anni dalla morte si è formata una strana “santa alleanza” tra coloro che gli sono stati vicini a suo tempo e che poi hanno scelto di stare con Silvio Berlusconi, cioè il maggior beneficiario del vuoto apertosi con la decapitazione del leader socialista e dell’intera classe dirigente della Prima Repubblica - sto parlando della cosiddetta componente socialista del Pdl - e coloro che allora lo avversarono, predisponendo le condizioni politiche per l’operazione Mani Pulite, e che oggi lo riabilitano senza pagar dazio. E la convergenza tra i craxiani di ieri e berlusconiani di oggi con la sinistra forcaiola ieri e commemorativa oggi sta proprio nella comune difesa della Seconda Repubblica e del suo fallimentare bipolarismo, di cui non a caso i due “partiti” sono stati e continuano ad essere i protagonisti.

D

lecitamente e illegalmente, che sono riecheggiate un po’ in tutte le commemorazioni di questi giorni, invece di suonare come monito a verificare l’oggi e la sua differenza con ieri sono semplicemente parse come il testo di una ingiallita pagina di storia remota. Quelle parole volevano dirci che le tangenti erano consustanziali alla democrazia nata con la repubblica. Ma qualcuno in questi anni e tanto più in questa circostanza celebrativa ha dato risposte esaurienti alle domande, conseguenti a quel messaggio politico, circa il come e il perché ci fossero partiti finanziati prevalentemente dall’estero, con ciò mettendo in pericolo l’indipendenza nazionale?

Oppure qualcuno ha calcolato se le somme arrivate ai partiti dal sistema delle partecipazioni statali, considerate un furto a danno dei cittadini, fossero maggiori o minori del valore del patrimonio di quelle aziende “bruciato” dopo che sono state privatizzate, come insegna il caso Telecom? E oggi c’è qualcuno che potrebbe alzarsi dal suo scranno parlamentare e sostenere, senza temere di essere considerato spergiuro, che l’attuale finanziamento pubblico è sufficiente a sostenere i costi della politica e che dunque non ci sono ambiti, tipo la sanità, da cui i partiti e il personale politico attingono denaro? E c’è qualcuno che ha colto l’occasione del decennale di Craxi per valutare quanto faccia più male alla democrazia tra il vecchio sistema di finanziamento occulto delle campagne elettorali dei candidati impegnati a prendere le preferenze e quello attuale in cui alla mancanza di scelta da parte dei cittadini corrisponde l’oligarchia ristrettissima di chi sceglie la nomenclatura e di chi paga il conto della propaganda collettiva e dei leader? Insomma, tutto è funzionale a non fare i conti di come è andata a finire la storia che ci è stata raccontata all’inizio degli anni Novanta: lo è la riabilitazione di Craxi (da parte della sinistra), lo è la reiterazione della sua condanna morale (Di Pietro e soci, Lega), lo è la voglia di relegarlo nella toponomastica (Pdl). E già, perché in realtà il fatto che la vicenda di Tangentopoli non si sia ancora consumata e che continui a vivere nella lotta politica senza quartiere (e senza cervello) che il bipolarismo armato ha generato, serve a tutti i protagonisti della Seconda Repubblica. Serve alla loro sopravvivenza. Ma certo non serve al Paese. (www.enricocisnetto.it)

Per l’ennesima volta l’obiettivo è quello di non fare realmente i conti con la storia di Tangentopoli che ci è stata raccontata all’inizio degli anni Novanta

stata inserita la lezione della Terza carica dello Stato. La quale si affretta a chiarire che le sue considerazioni non possono essere interpretate in nessun modo come «uno strappo» rispetto alla maggioranza. Ma certo è difficile convincersi che il discorso sia privo di valenza politica contingente: «L’ideale della democrazia può essere interpretato in modi diversi», dice tra l’altro il co-fondatore del

Il co-fondatore del Pdl avverte: «Non interpretate ogni mio discorso sulla democrazia come uno strappo con il governo» Pdl, «alcuni pensano che essa richieda soltanto la regola aurea della maggioranza, altri invece pensano che un sistema democratico si possa definire tale solo se è molto sensibile alla volontà». E il presidente della Camera si dice «fermamente

convinto che il compito della politica sia quello di promuovere la democrazia partecipativa: idea che intende unire la responsabilità politica con un alto grado di riflessione e un impegno generale allo scambio di ragioni».

Ecco il passaggio che ha un senso contingente e qualifica la specificità del profilo di leader che Fini continua as disegnare, anche con un intervento dichiaratamente «accademico» come quello di ieri: il presidente della Camera cita il filosofo statunitense John Rawls quando dice che «nella vita quotidiana scambiare opinioni con gli altri diminuisce la nostra parzialità e allarga i nostri orizzonti». E allora, dice Fini, «un governo che si basa legittimamente sul potere costituito e sui voti è un governo autenticamente democratico se sa anche riconoscere le ragioni e le argomentazioni degli altri. Sembra banale ma in tante circostanze ci si accorge che tanto banale non e». Non vorrà essere un messaggio, ma nei fatti lo è.

Così le terribili ma veritiere parole pronunciate da Craxi alla Camera, poco prima della generale disfatta, circa la comune responsabilità di aver creato un sistema finanziato il-


diario

pagina 6 • 23 gennaio 2010

Quattroruote. Harald Wester, responsabile di Maserati e Abarth, è diventato il nuovo amministratore delegato

Alfa e Fiat, separati in casa

Il cambio al vertice del Biscione prelude alla nascita del «polo del lusso» on un semplice cambio al vertice, ma forse il primo passo verso una riorganizzazione dei marchi del gruppo Fiat dopo la conquista di Chrysler. Da ieri, il marchio più problematico di casa, Alfa Romeo, ha un nuovo amministratore delegato: Harald. J. Wester, che sostituendo Sergio Cravero dirigerà la parte relativa alla pianificazione del product portfolio. Questo cambiamento era nell’aria, in quanto il marchio acquistato dalla casa torinese negli anni Ottanta era ammalato da diverso tempo. Lo stesso Sergio Marchionne, Ceo di Fiat, aveva sollevato diversi dubbi sulla sopravvivenza del Biscione. Anche a fronte degli ingenti investimenti negli ultimi anni che non hanno dato i risultati sperati: malgrado una spesa vicina a miliardo di euro, il modello di punta dell’Alfa, la 159, non è riuscita a raggiungere gli che erano stati previsti dal management. Lo scorso anno l’Alfa ha venduto circa 110 mila veicoli, in leggero aumento rispetto al 2008. Questi piccolo miglioramento potrebbe tuttavia ingannare. Il marchio ha la debolezza di essere solo europeo e in gran parte italiano; infatti il 50 per cento delle vendite sono effettuate in Italia e al di fuori del nostro Paese la quota di mercato è intorno allo zero virgola qualcosa.

N

Negli scorsi giorni, Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera aveva riaperto il dibattito sul

manager, che già è amministratore delegato per i marchi Abarth e Maserati. In questo modo il rilancio di Alfa Romeo sarà maggiormente motoristico e tecnologico piuttosto che d’immagine. Cambieranno probabilmente molte cose per il marchio; infatti attualmente Alfa Romeo utilizza le stesse piattaforme di Fiat nella produzione di autoveicoli. Con questo cambio al vertice probabilmente si vuole creare un polo

Gli investimenti che dovevano lanciare la 159 non hanno dato i frutti sperati e il mercato americano rappresenta ancora un’incognita futuro dell’Alfa. Uno shift del marchio dal gruppo Fiat è stato richiesto e sperato diverse volte dai mercati finanziari. Dopo l’affidamento dell’incarico a Wester parte dei dubbi trovano una risposta. Il manager ha dell’importanti competenze in ambito motoristico e tecnologico, mentre sembra averne meno in ambito di marketing, al contrario del predecessore Cravero. In pratica con questa nomina si è vista un’inversione nella strategia del marchio di “lusso” della casa automobilistica torinese. Che andrà oltre il rilancio da un punto di vista d’immagine della gestione Cravero. Il Biscione andrà direttamente sotto i ferri del nuovo

fatto che tutte e tre hanno saputo globalizzarsi. Anche negli Stati Uniti i volumi di vendita di questi marchi sono importanti. Proprio negli scorsi anni si è parlato di un’eventuale entrata del marchio Alfa Romeo nel mercato americano. Questi rumors sono stati amplificati nel momento in cui Fiat ha deciso di acquistare Chrysler, dopo la caduta del colosso di Detroit. È oramai certo il lancio della 500 a dicembre del 2010 tramite i concessionari Chrysler, mentre non è ancora chiarissimo quando e se avverrà il lancio di modelli Alfa negli Stati Uniti. La 500 potrebbe incontrare il gusto di una nicchia di consumatori americani nelle grandi città, ma difficilmente potrebbe riuscire a fare grandi numeri. Alfa Romeo invece avrebbe bisogno di un grande lancio, ma come lo stesso Marchionne ha ammesso le risorse, in questi anni di crisi, sono limitate.

di Andrea Giuricin

del “lusso”che per molto tempo è stato nella mente dei principali azionisti e dirigenti di Fiat.

Riuscirà Alfa Romeo a fare quel salto verso le cosiddette “tedesche” che rappresentano il lusso e la qualità nel mondo? Questo cambiamento al vertice sembra comunque intravvedere un tentativo diverso da quello effettuato negli scorsi anni. Certo sarà molto difficile riuscire a trovare una competitività globale contro colossi come Daimler, BMW o Audi. Tutte e tre le tedesche hanno venduto in Europa sei volte di quanto abbia fatto Alfa Romeo, ma quel che più rende difficile questa sfida è il

Colaninno presenta un nuovo progetto

Piaggio va a elettricità ROMA. È in arrivo un futuro elettrico per Piaggio? «Noi, oltre al coraggio, abbiamo anche un po’ di follia». Ha risposto cosi’ il presidente e amministratore delegato di Piaggio, Roberto Colaninno, alla domanda se Piaggio avrà il coraggio di fare l’auto elettrica. Poi, a chi gli chiedeva maggiori dettagli, in occasione della firma di un accordo con Enel per lo sviluppo della mobilità elettrica, Colaninno ha spiegato che «il mercato ci invita ad andare avanti e Piaggio sta andando avanti; ma ci sono passi che vanno misurati con capacità finanziarie e sistema Paese. Sono passaggi che non si possono fare da soli e noi ci stiamo muovendo in una logica di alleanze e sistema Paese. Oggi i mercati stanno chiedendo soprattutto veicoli urbani che devono soddisfare alcune caratteristiche: inquinamento, spazi occupati, prezzo e flessibilità. E io penso a città come San

Paolo, Il Cairo, Shanghai, ma anche Milano e Roma». Colaninno ha poi aggiunto: «La follia non è un termine che rappresenta solo la componente irrazionale, ma è un termine per dire che oggi serve un certo coraggio per affrontare progetti che vogliono risolvere le esigenze di soggetti e mercati. Se si pensa di poter essere in grado di risolverli allora non è una follia. Se non siamo in grado, allora diventa una follia». Quanto a Piaggio, il presidente ha aggiunto che «il gruppo ha percepito che oggi è nata l’esigenza di una domanda da parte di un segmento di mercato significativo. Abbiamo già un quattroruote commerciale, il Porter elettrico, che il mercato ha apprezzato molto: ne abbiamo in Europa 5mila in circolazione. Il mercato ci invita ad andare avanti ma serve collaborazione. Noi ci stiamo muovendo in questo senso».

Una seconda domanda è forse più interessante porsi: Alfa Romeo verrà separata da Fiat? È un primo passo verso quello scorporo della parte auto dal gruppo, che potrebbe anche rimodulare il ruolo degli Agnelli. A queste domande è ancora più complicato rispondere, ma ancora una volta, la nomina di Wester potrebbe dare un indizio. Infatti la creazione del polo del “lusso”, Maserati, Abarth, Alfa Romeo va in questa direzione. Si guarda a un gruppo omogeneo, sulle basi delle caratteristiche tecniche degli autoveicoli. E l’uscita di questi asset dal perimetro Fiat avrebbe il vantaggio di garantire denaro fresco per il rilancio di Chrysler in fase d’integrazione con il marchio italiano. In ogni caso molto dipenderà dal mercato e dall’andamento di Alfa Romeo nei prossimi mesi. Lo sanno bene a Pomigliano d’Arco, che rischia di subire lo stesso trattamento di Termini Imerese. In Sicilia lo stabilimento di Fiat è ormai a fine corsa, in quanto Marchionne ha preso la decisione forte e decisa di guardare al mercato. Lo stabilimento campano potrebbe subire la stessa sorte nel 2011 e molto dipenderà dalle scelte dello stesso amministratore delegato sul marchio Alfa. In ogni caso il Biscione aveva bisogno di un rilancio e la nomina di Wester cambia molti degli scenari futuri.


diario

23 gennaio 2010 • pagina 7

Quella di Tosti considerata solo una scusa per non lavorare

Il segretario Cgil chiede più soldi per la cassa integrazione

Rimosso il giudice che disse no al crocifisso

Epifani: sciopero contro il caro-fisco

ROMA. Rimozione dall’ordine

REGGIO EMILIA. Raddoppiare

giudiziario. È la durissima sanzione inflitta dalla sezione disciplinare del Csm al giudice di Camerino Luigi Tosti, il magistrato noto alle cronache come il «giudice anti-crocifisso». Tosti era già stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio dal 2006, e ora, dopo il verdetto di ieri mattina, non potrà più vestire la toga. Tosti non ha tenuto udienze per tutto il periodo compreso dal maggio 2005 al gennaio 2006. Il magistrato si era difeso spiegando di averlo fatto per la presenza del crocifisso nell’aula giudiziaria, che lui contestava, e aveva spiegato che finché il crocifisso non fosse stato rimosso avrebbe continuato con questo comportamento. Una posizione che ha convinto la sezione disciplinare del Csm a ricorrere al più drastico provvedimento.

il periodo di disoccupazione per chi perde il lavoro e portarne i massimali a mille euro. Sono queste le due richieste al Governo, avanzate dal segretario della Cgil Guglielmo Epifani, in tema di ammortizzatori sociali. «Noi avevamo chiesto il raddoppio della cassa integrazione ordinaria - ha detto - il governo ha trovato una via bizantina per risolvere il qualche modo il problema. Il punto più delicato che vedo sono i tempi della disoccupazione, perché un lavoratore che perde il lavoro oggi ha diritto a 8-10 mesi di disoccupazione, a seconda dell’età, e con una crisi come questa bisognerebbe almeno raddoppiare il tempo della disoc-

Tosti, dunque, era accusato di aver violato «i doveri istituzionali e professionali di diligenza e di laboriosità, con grave e reiterata inosservanza delle disposizioni relative alla prestazione del servizio giudiziario», come si legge nel capo di incolpazione redatto dalla Procura generale della Cassazione, poiché si era «sottratto ingiustificatamente ed abitualmente dalle relative funzioni a lui conferite» nono-

Colpo di Scotti e Pomicino al viceregno di Lombardo Via dall’Mpa tutti i deputati eletti a nord dello Stretto di Ruggiero Capone

ROMA. Ancora una volta rottura lungo la direttrice Napoli-Palermo. Questa volta a fare i conti in tasca al vicereame di Sicilia non c’è il principe Caracciolo ma Vincenzo Scotti che, già separatosi da mesi dall’Mpa, considera Raffaele Lombardo alla stessa stregua di Antonio Bassolino. Scotti, che ha conservato la carica di sottosegretario agli Esteri tra le proteste dei lombardiani, non usa mezze misure, ripone nello stesso girone infernale sia il governatore siciliano, fondatore dell’Mpa, che quello della Campania, uomo del Pd. Forse l’accostamento dell’ex ministro dell’Interno deriva dalla reciproca solidarietà che politicamente sta scorrendo tra i due presidenti di regione. In ogni caso Scotti è riuscito a suggellare il divorzio dal viceré di Palermo: lo ha fatto nella conferenza stampa tenuta ieri con i parlamentari Elio Belcastro (calabrese), Luciano Sardelli (pugliese), Arturo Iannaccone e Antonio Milo (campani) in cui ha presentato “Noi Sud”.

Il divorzio dall’Mpa era però maturato in Campania, quando a ottobre scorso Lombardo aveva mandato il siciliano Giuseppe Pistorio a commissariare l’Mpa locale guidato da Scotti. «Il governatore siciliano lo ha sempre temuto, sia per il carisma politico che per la capacità di rapportarsi con chiunque dimostri di saper governare - spiegano i dissidenti - un timore che s’è trasformato in invidia». Chiacchiere di corridoio riferiscono che Lombardo sarebbe andato su tutte le furie quando, durante un incontro tra Regione Sicilia e governo di Malta, i dignitari maltesi si sarebbero sperticati in elogi verso il sottosegretario agli Esteri: Scotti è anche rettore del Link Campus, Università di Malta. Lombardo s’è sentito cinto d’assedio dall’ingombrante sottosegretario, quindi lo ha estromesso dal partito. Ma i defenestrati dall’Mpa hanno reso pan per focaccia a Lombardo, rammentando come il governatore siciliano abbia imposto «di tenere una condotta dannosa per le regioni del Mezzogiorno, costringendo più volte i parlamentari a una condotta ambigua, come nel caso del non voto sulla Finanziaria». Pretesto di rottura anche nelle ultime dichiarazioni di Lombardo sulla «solidarietà ai governatori meridionali del centrosinistra». Da lì il lungo incontro tra Scotti e Paolo Cirino Pomicino, gran regista della “scissione”: i due storici democristiani partenopei hanno di fatto eretto un muro politico sullo Stretto di Messina.A capitanare il passaparola anti-Mpa (ed a favore di Noi Sud) c’è nell’hinternald campano Antonio De Vita, vicesindaco di Solofra. All’avellinese Arturo Iannaccone si deve l’azzeramento dei consiglieri Mpa in Campania e Basilicata: Franco Brusco è stato il primo lucano ad abbandonare Lombardo. Come se non bastasse, il deputato pugliese Sardelli ha già garantito “Noi Sud”nell’intesa con il Pdl per la Puglia. E qualcuno fa notare come, proprio in Puglia, “Noi Sud” potrebbe coprire la scena a “Io Sud”, il movimento di Adriana Poli Bortone propagandato come opzione meridionale in antitesi all’Mpa.

Il nuovo movimento denominato Noi Sud per togliere spazio alla Poli Bortone. L’ex ministro del Bilancio è il vero regista

stante fosse stata promossa l’azione disciplinare nei suoi confronti, «con dichiarazione di rifiuto di tenere l’udienza manifestata nello stesso giorno o nell’immediata prossimità», così determinando, si sottolinea ancora nel capo d’accusa, «la necessità delle relative sostituzioni». In tal modo, spiega la Procura generale della Cassazione nell’incolpazione, rilevando che «tale condotta era persistita nonostante la messa a disposizione da parte del Presidente del Tribunale di un’aula priva di simboli religiosi»,Tosti «è venuto meno al dovere fondamentale di svolgimento della funzione» ed ha «compromesso la credibilità personale ed il prestigio dell’istituzione giudiziaria».

Il nuovo movimento ha subito reclutato dunque tutti gli espulsi dall’Mpa. «Esplulsione come atto dovuto», dicono i fedelissimi di Lombardo. Ma Iannaccone e gli altri rammentano appunto che «Lombardo è come Bassolino, entrambi hanno raddoppiato i centri regionali di spesa, alla faccia della crisi economica e dei forti indici di disoccupazione regionale». I fuoriusciti esibiscono prove documentali: tra le altre cose Lombardo ha aumentato le indennità regionali di dirigenza. Dati inoppugnabili, ma i siciliani eletti alla Camera rimangono comunque col governatore. Si tratta dei fedelissimi Carmelo Lo Monte, Angelo Lombardo, Roberto Commercio e Federico Latteri: per quelli di “Noi Sud” è «gente disposta a seguire Lombardo ovunque, persino nelle allenze regionali col Pd di Bersani». E mentre voci siciliane accreditano che Lombardo abbia parato il colpo imbarcando altri del Pd, i deputati di Scotti hanno già siglato intese elettorali col Pdl. «In Campania, Puglia, Calabria e Basilicata ci saremo - spiega Luciano Sardelli e andremo col Pdl».

cupazione, perché un lavoratore che viene messo sulla strada, non trova lavoro rapidamente con una crisi come questa. E anche stare mesi e mesi a 650700 euro non è un bello stare. Siccome spesso il ministro dice che i soldi ci sono si potrebbe tranquillamente aumentare il massimale della disoccupazione almeno a mille euro».

Sulla questione del fisco per i dipendenti e i pensionati, la Cgil è pronta allo sciopero generale, ha annunciato Epifani. «Abbiamo presentato e inviato al governo una nostra proposta dettagliata di riforma fiscale ha spiegato - dove per riforma si intende una cosa semplice: trasferire il peso del fisco dal lavoro dipendente e dai pensionati alle altre forme di reddito, di rendita e di patrimonio. L’unica cosa che non si può fare è perder tempo, perché anno dopo anno il drenaggio fiscale asciuga sempre più le retribuzioni dei lavoratori. Se per tre anni il governo non fa nulla, quando arriveremo alla fine di questa legislatura per un lavoratore medio ci saranno tre punti di tasse in più ed altri invece pagheranno meno. Questo è il punto che non si può reggere e su questo faremo un’iniziativa molto forte. Anche lo sciopero generale».


politica

pagina 8 • 23 gennaio 2010

L’inchiesta. La battaglia in Laguna vista da Renata Codello, Francesco Dal Co, Cesare De Michelis e Stenio Solinas

Com’è incerta Venezia La città è sospesa tra il modello Cacciari e la promessa dell’iperattivismo di Brunetta di Riccardo Paradisi era Cacciari a Venezia è finita» dice il ministro della pubblica Amministrazione Renato Brunetta, che della città lagunare vorrebbe essere il futuro sindaco, un sogno che da veneziano ha sempre coltivato. Difficile dar torto a Brunetta sulla fine del ciclo Cacciari visto che Cacciari stesso ha già detto che lui di ricandidarsi sindaco non ha nessuna intenzione.

verno alla sovrintendenza senti un’altra musica. Renata Codello è la sovrintendente ai Beni storici e architettonici. La sua, ci tiene a specificare, è l’opinione di un tecnico, non vuole fare valutazioni politiche. Ma per una città come Venezia la sovrintendenza ai beni storici è evidentemente un nodo strategico. «La collaborazione con l’amministrazione comunale è stata masCESARE sima e a tutto campo DE MICHELIS e sono numerosi i Ma l’attivissimo ministro inprogetti portati a ter«Quello tendeva dire qualcosa di più polimine». In effetti comdi Cacciari non tico e di meno scontato: «In città pongono un lungo è stato un ciclo regna la disillusione, io invece voelenco che la Codelvirtuoso, glio infondere a Venezia il coraglo cita a memoria: tutt’altro. gio che oggi manca, fare delle «L’apertura al pubHa inseguito scelte. Non aver paura del turiblico del museo di un pragmatismo palazzo Grimaldi, smo ma governarlo ed espanderdiffuso lo. A Venezia si possono creare l’apertura del museo che alla fine circa 40 mila posti di lavoro di d’arte contemporanon ha prodotto nea alla Punta della qualità…». Un giudizio severo molto» quello del ministro e però magari dogana e palazzo interessato vista la necessità di Grassi. Il completasegnare un dato di discontinuità. mento del restauro Più utile dunque per ricavare un sciplinato meglio il turismo se- di una sede prestigiosa della giudizio più equanime dell’era condo De Michelis: «Ha fatto più biennale a Palazzo Giustiniani a Cacciari ascoltare l’opinione di alberghi e bed and breakfast lui dicembre dell’anno scorso. La chi non ha particolari interessi a di quelli che sono stati fatti nella realizzazione della biblioteca fare un bilancio di parte del go- storia dell’umanità. Risultato: i tu- nella Manica lunga alla fondaverno lagunare del doge filosofo. risti attratti sono troppo pochi ri- zione Cini. La realizzazione di Il primo a farlo con liberal è Cesa- spetto a quelli che si possono por- un nuovo auditorium….un lungo re de Michelis, mente della casa tare qui con una simile quantità elenco di opere realizzate in un editrice Marsilio, intellettuale ve- di strutture attivate». momento economico difficile per neziano sempre in prima linea tutti». Ci sono altri esempi che in nei dibattiti sulla città: «Che Cac- Insomma Cacciari si sarebbe sovrintendenza elencano: i piani ciari sia senza eredi lo dimostra- mosso senza uno sguardo d’in- di adeguamento delle scuole, con no le primarie del Pd. Persino il sieme «Ora – dice l’editore – au- tempi di programmazione e reacandidato di Cacciari Giorgio Or- guriamoci che la svolta sia quel- lizzazione significativi, l’avvio in soni dice che bisogna cambiare. la giusta. Renato (Brunetta Ndr) un anno tutta la qualificazione ha molte doti per po- dell’isola del Lido. L’isola della STENIO terlo fare. La cosa Giudecca poi ha cambiato volto SOLINAS fondamentale da diventando una zona residenziasuggerirgli è impara- le qualificata. Anche il polo di «Cacciari re ad ascoltare di più Mestre è stato riqualificato. E tutè una persona un territorio che ha to questo, dicono in sovrintenintelligente bisogno di ascolto. denza, è avvenuto in stretta cole un sindaco Ciò che dobbiamo laborazione con la giunta Cacelegante: fare non è una cosa ciari. Il turismo a Venezia sarà sicuramente indolore, è una cosa poi caotico come dice De Michemeglio di chi complicata. Sottrar- lis ma i dati del 2009 parlano di vorrebbe re Venezia al suo de- un aumento netto di presenze in importare uno stino di marginalità albergo dell’8,1 per cento e del stile iperattivo è possibile ma non è 30% di presenze in più alla Bienma inutile» scontato, non lo si fa nale. Ad avere uno sguardo che con delibere o tatti di bilancia elogi e critiche per Cacimperio ma con un ciari è l’inviato del Giornale SteNon so se lo dice per opportuni- progetto condiviso dalle catego- nio Solinas, autore dei più signismo. So però che quello di Cac- rie produttive economiche. Se si ficativi libri di viaggio scritti in ciari non è stato un ciclo virtuoso, calano le decisioni dall’alto, co- Italia negli ultimi dieci anni. Solitutt’altro. Sarà perché condizio- me l’alta velocità, che per Vene- nas è anche stato insieme a Marnato e frenato dai Verdi e da zia è una necessità imprescindi- co Tarchi l’animatore e l’ideologo Rifondazione comunista ma il bile, ci troveremo anche qui i no- della Nuova Destra, il movimensuo inseguimento di un pragma- tav». Se invece vai a raccogliere to di pensiero che negli anni Ottismo diffuso non ha generato un parere su questi anni di go- tanta con la nuova sinistra di

«L’

molto. L’evento più clamoroso è stato il ponte di Calatrava che ci hanno messo un’eternità a realizzare. Cacciari è stato un solista che cercava di tenere assieme una maggioranza mai esistita se non per ragioni di sopravvivenza. Un suo stesso collaboratore oggi dice che è stato sbagliato fare il quadrante a Tessera». Non è vero nemmeno che Cacciari abbia di-

Un fenomeno di antimodernità connaturato alla decadenza veneziana. È ovvio che nel 21 secolo una città che continua a muoversi con ritmi di vita dell’800 è un controsenso, ma è un controsenso che se governato potrebbe conservare Venezia per come la conosciamo. Dopo di che nel corso degli anni questa decadenza si è radicalizzata ed è aumentata Solinas a Venezia abita per nel senso che tutta una serie di lunghi periodi ormai da cinque elementi di vita quotidiana sono anni. Il suo bilancio su quest’ulti- venuti sempre meno. E questa è ma legislatura Cacciari ha la l’accusa maggiore che si può fare complessità del giornalista d’in- a Cacciari: non essere riuscito a chiesta e dell’osservatore raffina- introdurre contromisure che perto. «Premetto che io ho un pregiu- mettessero la conservazione di dizio positivo su Cacciari, un uo- un tessuto cittadino autentico: la mo intelligente, un sindaco ele- sopravvivenza dell’ artigianato, gante. Una persona sicuramente una maggiore vita giovanile, una più interessante di chi magari presenza accettabile di librerie – vorrebbe importare a Venezia ce ne sono solo due – e di cineuno stile iperattivo con pretese ri- ma…Insomma a me sembra un solutorie. Come se Venezia non paradosso che una città che ospifosse costituzionalmente una ta un festival del Cinema abbia città ingovernabile, una città de- un solo cinematografo». cadente e decaduta che prima di L’idea diVenezia città evento o casalvarsi dall’acqua alta dovrebbe pitale della cultura poi lascia il guardarsi da quelli che la voglio- tempo che trova secondo Solinas: no salvare e che magari se ne «Il vissuto culturale di una città non sono le kermesFRANCESCO se o le grandi ristrutDAL CO turazioni, pure importanti, è piuttosto «Onestamente la salvaguardia del credo che siano tessuto culturale e cirare in Italia le vile della città. Si è amministrazioni pemesso che la città pubbliche si svuotasse dei suoi in grado abitanti – siamo sotto di vantare i 60mila residenti – e un bilancio dei suoi caratteri didi trasparenza e stintivi, si è trasforonestà come le mato tutto in negozi giunte Cacciari» di ciarpame. Non ho mai visto una politica dei prezzi che pervengono fuori con lampi di genio mettesse a una realtà universitacome i vaporetti sotterranei. Se ria di avere magari un calmieraVenezia è una città unica è per- mento degli affitti. La diaspora da ché oggi rimane l’unica fuga pos- Venezia – continua Solinas – è dosibile dalla modernità, un luogo vuta proprio al costo troppo alto dove i ritmi non sono scanditi della vita, dall’impossibilità di dalla meccanica e dalle macchine trovare luoghi e spazi per vivere ma da un ritmo ancora umano. in una maniera normale.Vero so-

Cacciari aveva imbastito un proficuo dialogo oltre i vecchi steccati. Tanto che nel ‘93 quando Cacciari si presentò sindaco Tarchi, si diceva convinto che uno come lui «si rende ben conto che non si può costruire un Paese migliore creando un netto solco tra destra e sinistra, ma solo realizzando buoni programmi».


politica

23 gennaio 2010 • pagina 9

Il centrosinistra è diviso: in corsa anche Fincato e Bettin

Cercasi candidato: il Pd ricomincia da tre

Domani le primarie decideranno su chi puntare. In pole c’è Giorgio Orsoni appoggiato anche dai centristi di Valentina Sisti

VENEZIA. Il Pd di Venezia si appella alle prima-

no stati aperti decine di alberghi ma non uno studentato, un circolo ricreativo, un negozio da fruttivendolo». «Venezia è una città unica» ripete anche Francesco Dal Co, storico dell’architettura – con una gestione legislativa più complessa di ogni altra città. Si pensi solo che la via principale che l’attraversa è gestita dallo Stato e non dal sindaco: se un taxi corre troppo veloce la multa può comminarla la polizia di Stato e non i vigili urbani. E anche per quanto riguarda i provvedimenti per la salvaguardia fisica della città vale lo stesso discorso. Amministrare Venezia significa tenere conto di questa complessità e implica una capacità di avere rapporti con istituzioni plurali e differenziate mantenendo uno sguardo d’insieme. Per questo credo che una figura come quella di Cacciari è stata indispensabile. Ha avuto un’idea forte di Venezia mantenendo la capacità di muoversi su più livelli».

Va anche considerato un altro elemento delle giunte Cacciari dice Dal Co: «Si parla tanto di questione morale, di trasparenza. Beh credo siano rare le amministrazioni che presentino un bilancio di trasparenza e onestà quelle di Cacciari». Ma Venezia è anche il dramma di Marghera che dopo la dismissione del chimico lascia dietro di se un eredità pesantissima. È un problema che Dal Co non rimuove ma che cerca di inquadrare nella sua più vera cornice: «Ho letto l’intervento di Francesco Giavazzi sul Corsera. Perché, diceva, non trasformare il waterfront di Marghera in un bel complesso residenziale? Io ho conosciuto Roul Gardini che diceva esatta-

RENATA CODELLO «Con questo Comune abbiamo realizzato molti progetti: abbiamo riqualificato tutto il Lido e abbiamo cambiato volto alla Giudecca»

mente la stessa cosa: «è una follia usare il più bel waterfront del mondo per metterci delle industrie chimiche”. Giusto. Peccato che queste enormi zone industriali hanno terreni non acquistabili per l’enorme costo del loro disinquinamento. Detto questo il richiamo del recupero di Marghera c’è sempre stato nelle amministrazioni Cacciari. L’altro tema su cui Cacciari ha continuato a concentrarsi è la città di Mestre su cui sono stati fatti interventi importanti di riqualificazione. Cacciari ha anche puntato sul disegno di una grande area di nuovo sviluppo urbano nei pressi dell’aeroporto che è il quarto d’Italia, collocato in maniera favorevole per venire incontro al territorio del nordest. Un polo che nascerà, perché è questa l’ultima delibera che Cacciari ha voluto vedere approvata malgrado forti opposizioni interne alla sua giunta». C’è qualcos’altro che a Dal Co preme segnalare: «Venezia ha una struttura di assistenza degli anziani e di accoglimento degli immigrati di prim’ordine, tra le migliori d’Europa». «Invece di fare il conto col bilancino del farmacista – è la conclusione – mi sembra più saggio un bilancio dell’amministrazione Cacciari fatta con uno sguardo largo. Venezia è una città che richiede molta intelligenza per essere governata».

rie per superare l’impasse della scelta dell’antiBrunetta. Anche se spera fino all’ultimo che Massimo Cacciari ci ripensi, l’unico forse in grado di sbarrare il passo per davvero a quello che potrebbe rivelarsi un «sindaco a ore», almeno nella definizione dello stesso sindaco-filosofo. La spaccatura si è verificata all’interno della stessa area bersaniana. Con la maggior parte che sostiene Giorgio Orsoni, avvocato e procuratore di San Marco, vicino a Cacciari e ben stimato dalla Curia, sostenuto anche da Italia dei valori e Udc, e dall’altra, invece, una minoranza che spinge per Laura Fincato, ex sottosegretaria socialista agli Esteri e ora assessore: ma entrambi domani sfideranno anche l’ex prosindaco di Mestre Gianfranco Bettin dei Verdi, sociologo e scrittore, appoggiato dalla mozione Marino, Comitati, Verdi e Rifondazione. Anche se gli esponenti del Pd diVenezia preferiscono parlare di «candidature trasversali».«Bisogna dare il merito in queste primarie che si è saputo superare le divisioni congressuali», dice un politico locale vicino a Bersani.

Ad essere favorito, l’avvocato veneziano, sulla cui scelta pesa anche la possibilità di un accordo con l’Udc, che si è detto favorevole ad appoggiarlo. «È moderato, cattolico ed è vicino alla nostra storia e tradizioni, in cui si rispecchia il popolo veneto», conferma il portavoce nazionale Antonio De Poli, che corre anche per la presidenza della Regione. Se dalle primarie, invece, dovesse risultare vincente Bettin o la Fincato, l’Udc si riunirebbe immediatamente il giorno successivo per decidere se appoggiare ugualmente il candidato del Pd o correre piuttosto da solo. Ma il ministro Brunetta sarebbe comunque in testa, almeno stando ai risultati di un sondaggio realizzato da Crespi Ricerche, che dà Bettin al 43 per cento, di poco superiore al 42 per cento che otterrebbero Orsoni e la Fincato. «A Venezia dobbiamo iniziare un nuovo ciclo con una nuova squadra formata per la metà da giovani quarantenni e con alleanze nuove - aveva dichiarato l’avvocato veneziano al momento di scendere in campo -. L’apertura al centro dell’Udc ad esempio è indispensabile». Ma quando, qualche giorno fa, durante un confronto con gli altri due candidati nella sala del Cenobio dei Tolentini, ha invocato l’alleanza con il partito di Pier Ferdinando Casini, dalla sala si sono levati parecchi fischi. Nessuno dei tre concorrenti, a dire il vero, è riuscito a scaldare gli animi. E Cacciari, da parte sua, ha fatto sapere che la decisione è irrevocabile. Un minuto dopo la fine

del suo mandato farà i bagagli, lasciando Ca’ Farsetti: tornerà ad insegnare all’università di San Raffaele. Orsoni ha partecipato alla costituente del Pd ma non è iscritto al partito. Sessantatre anni, docente universitario di diritto a Ca’ Foscari, specializzato in diritto amministrativo, ex assessore al Patrimonio al Comune di Venezia e attuale consigliere della Fondazione Teatro La Fenice, è appoggiato anche dal sindaco di Padova Flavio Zanonato. Ma anche Bettin, 55 anni, sociologo e consigliere regionale dei verdi, ex deputato, ricercatore per anni all’università di Padova, narratore e saggista, ha incassato l’appoggio di una pattuglia di scrittori e registi, tra cui Andrea Zanzotto, Alessandro Baricco e Antonio Tabucchi. Con Bettin, però, il Pd teme il rischio di sbilanciare troppo il partito verso sinistra, rivivendo la stessa situazione delle elezioni comunali del 2000. Allora, aveva sfidato Brunetta, portando alla vittoria di Paolo Costa al ballottaggio, con il 56 per cento, proprio grazie al contributo determinante del 16,3 per cento di voti, ottenuta del sociologo verde al primo turno.

Anche l’unica donna, la Fincato, 59 anni, assessore ai Progetti speciali e ai Lavori pubblici della terraferma nella Giunta Cacciari, appoggiata dai socialisti, è riuscita a conquista-

Il sindaco uscente ha detto e ripetuto in mille occasioni che la sua esperienza politica è conclusa: dopo le elezioni tornerà alla sua cattedra all’università di San Raffaele re parte del mondo della cultura, tra cui Mario Geymonat, Agar Brugiavini ed Emanuela Bassetti di Marsilio. Ma in lei molti vedono l’espressione di una stagione politica che sta volgendo al termine. «L’epoca Cacciari è finita – si lascia sfuggire un altro bersaniano della città lagunare -. È arrivato il momento di cambiare».


panorama

pagina 10 • 23 gennaio 2010

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

La scuola è fallita. Meglio l’apprendistato uesta storia dell’apprendistato è molto più importante e istruttiva di quanto non si immagini. Il governo Prodi aveva portato a 16 anni la durata dell’obbligo scolastico. Ora, invece, sembra che si faccia un passo indietro dal momento che con l’anno finale di apprendistato la scuola sembra finire a 15 anni. Ma perché al ministero della Pubblica istruzione pensano di dover introdurre l’anno finale di apprendistato e di spostare di fatto a 15 anni l’obbligo scolastico? Perché si è scoperto che i ragazzi tendono a lasciare la scuola prima d’averla finita. In linguaggio tecnico si chiama “dispersione scolastica”. Che fare? L’apprendistato.

Q

Bisogna, dunque, fare attenzione. Il governo non intende ricorrere all’anno di apprendistato per accorciare nuovamente gli anni di obbligo scolastico; né intende sottrarre i ragazzi alla scuola anzitempo per indirizzarli al lavoro, bensì fa ricorso all’escamotage dell’anno di apprendistato per cercare di trattenere ancora i ragazzi in un ambiente protetto e comunque scolastico. Ha poco senso, quindi, criticare l’apprendistato sostenendo che in questo modo si allontano i ragazzi dalla scuola e si nega loro un diritto: lo studio. Perché i ragazzi si sono già allontanati dalla scuola, prima spiritualmente e poi fisicamente. L’apprendistato è un modo per tentare il loro recupero. Ma, appunto, è solo un modo, ossia un escamotage. In altre parole, non funziona. E perché non funziona? Per lo stesso motivo che c’è alla base della dispersione scolastica: la scuola non dà ciò che promette: la preparazione e il lavoro. La critica che va mossa all’idea dell’apprendistato non può essere ideologica o, peggio, «per partito preso», ma deve entrare nel merito. Se, infatti, l’ultimo anno scolastico è un buon anno di apprendistato, allora, ben venga, dal momento che è senz’altro meglio l’apprendistato della cattiva scuola; se, invece, l’apprendistato è solo un escamotage, allora, meglio lasciar perdere e concentrarsi su quello che è il vero problema di fondo: perché la scuola italiana crea dispersione scolastica così alta? Il motivo è da ricercarsi nel fenomeno della universalizzazione della scuola secondaria. Si è creduto, in altre parole, di dover concepire la scuola superiore come una sorta di piccola università: si sono moltiplicate le materie di insegnamento fino all’inverosimile e si è creata una sorta di scuola superiore indistinta che risponde al nome di liceizzazione. Capovolgendo il detto comune si potrebbe dire che con una fava si sono persi due piccioni: da una parte il liceo e dall’altra l’istituto professionale. La scuola superiore di secondo grado non dà né preparazione umanistica né buoni tecnici: il motivo della crescita progressiva dell’abbandono scolastico è da ricercarsi prima di tutto in questo fallimento della scuola. Perché restare a scuola se la scuola è solo un parcheggio burocratico? Per impedire la dispersione non c’è altra strada da seguire: reintrodurre la distinzione, pratica e teorica, tra liceo e istituto professionale e industriale.

2015, Milano si mette in mostra (senza idee) Solo progetti vaghi per la grande passerella dell’Expo di Pier Mario Fasanotti scadenza ravvicinata sbucano dal cilindro delle quasi-idee alcune proposte bizzarre, o comunque così discutibili da indurre a immaginare che coloro che le formulano siano quasi mossi da agitazione motoria più che da fermento intellettuale e progettuale. Questo pseudo-laboratorio di marca infantile dov’è? A Milano. Si è parlsto della «Fine del modello Milano». Prima domanda: è mai esistito tale modello? Sì, solo se ci si riferisce al fermento, sgangherato ma vitalissimo, degli anni Sessanta: città sostanzialmente accogliente, laboriosissima e rigorosa, quindi fedele all’eredità asburgica. Ma non si va oltre, tanto è vero che l’emblema architettonico del futuro è da 40 anni il grattacielo Pirelli. Sotto quell’originale cemento armato un gran chiacchiericcio sulla presunta vocazione europea della città e una buona dose di isterismo nel rivendicare il vanto di capitale morale del paese. Ma nessuno visita mai, non dico Parigi o Londra ma Barcellona o Lisbona?

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Avendo in mente il passato storico meneghino, è inevitabile ricordare che la terra lombarda è stata governata - per 180 anni! dagli spagnoli. Sì, proprio quelli delle “grida” manzoniane: la compulsione a dire salvo poi dimenticare lo scoordinato afflato vocal-legislativo. Questa abitudine, assieme alla “guapperia” iberica che in milanese significa esser “bauscia”, ha purtroppo calpestato la sobrietà e la severità (transnazionale e non meschinamente leghista!) di Maria Teresa di Vienna. Milano era considerata bella città per via dei Navigli. In occasione dell’Expo del 2015 ci sono progetti di vie d’acqua. Intanto i miseri filamenti “veneziani”sono rifugio di topi, occasione per discariche. Un parcheggio sotto la Darsena? Tutti o quasi d’accordo. Poi il dietrofront, poi il ripensiamoci, poi, poi. Anni fa si immaginò, su quei Navigli contornati per lunghi tratti da casermoni orribili anni Settanta, un bateau-mouche. Alla francese. Ma l’acqua era sporca e poca. In queste ultime ore la Provincia ci fa sapere che la sperimentazione del trasporto via acqua, dal 5 dicembre ai primi di gennaio, ha contato cento passeggeri al giorno. Risultato: un assessore ha annunciato di «dare seguito al servizio a partire da maggio». Il sogno urbanistico è di collegare Milano a Venezia attraverso canali. Stupenda idea, realistica solo nei calendari con le immagini

della Milano ottocentesca. Sono cinquant’anni che si parla sempre della stessa cosa.

Sorpresa, sorpresa: anche a Milano nevica. La minaccia metereologica agita sindaco e vice-sindaco. Quest’ultimo, l’onesto De Corato, aspettando 40 centimetri di neve ha lanciato un appello involontariamente comico: «Milanesi, lasciate a casa le auto!». Già, ma quali sono i collegamenti tra l’hinterland e la città? Mediocri, lenti, sempre sul punto di fermarsi per cattiva manutenzione. Precisazione di De Corato: io intendevo che si lasciassero le macchine ai margini della città. Ottimo, anche se tardivo. In ogni caso: dove lasciare le auto? Giusto partorire nottetempo le europeissime rotonde in periferia, ma i parcheggi? Ogni giorno arrivano da “fuori” circa settecentomila persone, ognuna in una scatoletta di latta. Metro leggere, e facili da installare, non se ne vedono. Ma De Corato, con una Moratti sempre più timida e silenziosa con i guai che ha in Giunta, rilancia.Tangenziali a pagamento (idea della Provincia), ma che siano tali anche a Roma e in altre città. Spunta sempre il timor panico - un vero “complesso” freudiano - d’essere umiliati dalla Capitale e dai suoi “privilegi”. Il vice-sindaco è persona che ragiona. Peccato che faccia autogol dichiarando: «Col pedaggio ci sarebbe una fila che arriverebbe fin dentro la città, con problemi al traffico». Si pensa a un mega-parcheggio sotto la chiesa di Sant’Ambrogio. Già Vittorio Sgarbi inorridì. Oggi Dario Fo parla apertamente di «sfregio». E più in generale dichiara: «Ognuno suona a modo suo, senza uno spartito comune, senza un progetto».

Dai Navigli ai parcheggi, la città finge di discutere ma poi non c’è qualcuno che decida

E di progetti si sente l’assenza anche sul fronte sociale e umanitario. Il punto di riferimento morale di Milano non è il sindaco, ma il cardinale Tettamanzi, il vescovo. Solo lui solleva il discorso morale dall’asfalto leghista, che alcuni vorrebbero quasi elettrificato per allontanare chi ha cultura e colore della pelle diverse. «Milano ha ancora gli occhi chiusi e incapaci di aprirsi» ha detto. Don Gino Rigoldi è ancora più severo: «L’accoglienza a Milano? Un imbroglio». Reazione del Pdl e della Lega: «Omelie politiche». Ma con quale diritto si vuole imbavagliare una tensione morale? Con quale preveggenza si ignora l’ipotesi che il “caso Rosarno” non scoppi anche nella banlieu milanese?


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ggi a un passo dal Giappone. Domani a un passo dall’America. Per poi cadere nel baratro delle crisi tipiche dei capitalismi maturi, perché non sempre si possono mantenere i ritmi produttivi necessari a creare ricchezza e benessere per 1,3 miliardi di abitanti. A Pechino non hanno preso bene la notizia che il Pil cinese, tempo qualche settimana, scavalcherà quello nipponico: 4.900 miliardi di dollari contro i 4.600 la previsione dell’ufficio statistico, che assieme con l’ennesima rivalsa verso lo storico nemico porta con sé scenari molto tetri per tutto il mondo industrializzato.

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CINA BOOM Nuovo padrone o tigre di carta?

La Cina sempre più prossima a essere la seconda potenza al mondo appare un Dragone dai piedi di Argilla. E come per l’America precedente alla crisi, la sua fragilità sta nelle iniezioni di finanza necessaria a farne il motore propulsivo della ripresa mondiale. Che un paio di punti di Pil in quell’8,7 per cento registrato nel 2009 come nel 9,5 per cento con il quale si dovrebbe chiudere l’anno in corso sono di carta, dovuti a speculazione. Che non si può addebitare tutto il surplus di produzione allo stimolo da 400 miliardi di dollari deciso nel 2008 per aggredire la crisi. Nel 2009, Mentre l’Europa e l’America erano aggredite da una crisi nata proprio in Asia, il Paese cresceva del 6,2 per cento nel primo trimestre, del 7,9 per cento nel secondo, del 9,1 per cento nel terzo fino alla doppia cifra del quarto, 10,7 per cento. Da due anni le massime istituzioni politiche e finanziarie continuano a suggerire un tetto alla crescita: intorno all’8. Ma frenare lo sviluppo non è meno complesso di contenere le nascita: e il Dragone corre in maniera forsennata ormai da un decennio. Infatti, più che alle facili illusioni regalate dalla statistica, a Pechino si guarda al fatto che il Paese è cinquant’anni luce dalla grandezza del Giappone moderno. E non a caso il Pil medio è di 3.292 dollari contro i 38.578 nipponici, mentre c’è un differenziale di quasi 100mila brevetti ogni 100 abitanti (67.948 contro 164.954). Secondo l’analista americano James Chanos – uno dei pochi a prevedere in anticipo il crack Enron – Pechino è seduta su una grande bolla che sta per scoppiare. Che sia di natura immobiliare o borsistica, nessuna lo sa. Così, agli stranieri che hanno investito in Cina qualcosa come 50 miliardi di dollari, non resta che sperare nelle sterminate riserve monetarie (le prime al mondo con un valore 1.100 miliardi di dollari), nella capacità di vendere all’ingrosso in Europa una magliettina di cotone a 30 centesimi di euro, di costruire infrastrutture in tutto il mondo. In quella che il premio Pulitzer americano, Thomas Friedman, ha definito «la capacità di reazione della Cina». In grado – e ha rafforzato questa

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Nel 2009 il Pil di Pechino ha toccato quota 8,7 per cento (in piena crisi). Oggi tratta alla pari con Usa e Ue. Il ritmo della produzione è tanto sostenuto da scavalcare la Germania come primo esportatore al mondo. Ma dietro al successo c’è un boom drogato dalle speculazioni finanziarie e immobiliari. Che rischiano di tramutarsi in bolle di Francesco Pacifico

sua opinione dopo un recente viaggio a Hong Kong – di allontanare tutti gli scenari apocalittici immaginati in Occidente. Ma basterà? Proprio l’Occidente era convinto fino a qualche anno fa che il più grande Paese del mondo sarebbe imploso, eroso dalle decina di migliaia di proteste – 4 milioni in dieci anni secondo l’Accademia delle Scienze sociali, non certo una fonte indipendente – che quasi sempre vengono soffocate nel sangue. Le previsioni più comuni dicevano che prima e poi le varie guerre civili e sociali con uiguri, tibetani, attivisti democratici, falunghisti, protestanti, cattolici, poveri strappati alle campagne e disoccupati avrebbero riscritto i confini del più grande Paese del mondo. Che il desiderio di comprarsi una macchina, il cibo americano o semplicemente usare la carta igienica come si fa nel resto del mondo avrebbero spazzato via il comunismo meglio di una martellante campagna politica. Non è che le tensioni sociali siano sparite d’incanto. Anzi. È dell’altro ieri la notizia che

La Cina sta per diventare la seconda economia al mondo. Eppure dietro i 4.900 miliardi di Pil e una crescita che nel 2009 ha superato l’8,7 per cento si annidano pericolose criticità: sovraproduzione industriale che coinvolge il 75 per cento delle imprese, domanda di nuove case vicine sempre più alla saturazione, boom di liquidità che potrebbe causare l’esplosione di pericolose bolle finanziarie. Tra l’eccesso di carta e mutui concessi con troppa leggerezza il Dragone cinese potrebbe presto dover fronteggiare gli stessi problemi che hanno messo in ginocchio l’America. La soluzione naturale sarebbe un aumento dei tassi d’interessi ma al momento manca la volontà politica

300mila persone saranno costrette a lasciare la loro casa nella zona della diga delle Tre Gole, quella che taglia in due il fiume Azzurro, per limitare l’inquinamento del bacino. E non si fermano neppure i rimpatri in massa di braccianti verso le campagne, dalle quali vengono strappati ogni qualcosa c’è maggiore richiesta di manodopera in fabbrica o nei cantieri. Eppure l’Occidente sembra guardare alla Cina con altre categorie. Albert Edwards, brillante e giovane strategist di SocGen, ultimamente ha avvertito i mercati che è imminente l’implosione della Cina. Collasso dovuto al crollo delle esportazioni, che a sua volta genererà l’esplosione della disoccupazione, il malcontento sociale e via via la caduta del regime. E non basterà a raddrizzare le cose neppure fare la stessa svalutazione che Hu Jiintao ha negato qualche settimana fa a un Barack Obama venuto direttamente a Pechino a sancire il G2. Sulla stessa linea anche il politologo George Friedman, che nel suo The Next 100 Years segna anche la data di cotanto sconquasso: nel 2050 la Cina. Anno, per la cronaca, nel quale la potenza eurasiatica dominante sarà la Turchia, che a differenza della Cina può far pesare una posizione (non soltanto geografica) più vicina al vecchio mondo e uno sviluppo meno dirompente. Seconda economia al mondo, primo esportatore con un saldo da 1.070 miliardi dopo aver scavalcato la Germania qualche settimana fa, è proprio dai livelli di produzione che bisogna partire per capire luci e ombre della Cina moderna. O meglio, dalla sua sovrapproduzione.


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«L’Occidente non ha interesse a destabilizzare il dragone: alle porte abbi Da un lato c’è la necessità di accaparrarsi di una quantità esorbitante di materie prime (petrolio su tutte) per tamponare l’imbarazzante gap tecnologico. Dall’altro, e per motivi spesso non prettamente economici, la Cina ha assorbito il 31 per cento delle esportazioni asiatiche, trascinando i destini di Paesi come Taiwan e le Filippine, ma legando a sé realtà più strutturate come Giappone, Corea del sud e Australia. Tutto questo surplus di materiali – oltre a fare la gioia degli speculatori sulle commodities – ha costretto l’economia del Dragone a raddoppiare la velocità delle sue fabbriche o ad aprire cantieri anche fuori dai confini patri. E distorsione dopo distorsione si è arrivati al punto che la capacità di produzione inattiva in settori strategici come acciaio, automobili, cemento e l’alluminio coinvolga il 75 per cento delle imprese. Emblematico al riguardo il settore dell’auto. Nonostante nel 2009 si sia registrato un boom di immatricolazioni pari a 13,6 milioni di vetture – tanto da farne il primo mercato al mondo – il governo teme che quest’anno almeno un terzo delle macchine e dei camion prodotti restano invenduti perché in surplus rispetto alla domanda interna. Se questo succede in un Paese che ha sentito meno di altri la crisi e che ha cento milioni di ricchi, che cosa succederà in un’Europa e in un’America che ancora scontano la congiuntura? Sembra passato un secolo da quando gli Usa – anche sotto il ricatto soft di titoli di Stato americani in mano cinese pari a quasi 900 miliardi di dollari – compravano fino al 65 per cento della produzione cinese. Ma quei tempi difficilmente torneranno e il primo ha saperlo è il governo di Pechino. Che non ha caso si trova a dover fronteggiare un problema tipico delle economie mature: cosa fare con l’eccesso di flottante, i tanti soldi guadagnati grazie alla sovracapacità produttiva? Il primo effetto da combattere è l’inflazione, cresciuta dell’1,9 per cento in un anno. E che certo non aiuta un Paese dove è così ampio il divario tra ricchi e poveri e dove i consumi sono pari soltanto al 37 per cento del Pil. Ma liquidità fa sempre rima con bolle speculative. La prima, quella che fa più paura, è di natura immobiliare. L’inurbanizzazione coatta ha spostato a una tale velocità le popolazioni rurali dalla campagna alle nuove coatta che negli ultimi due mesi i cantieri aperti sono cresciuti del 75 per cento rispetto a dodici mesi prima, mentre le vendite sono salite tra dicembre e novembre del 43 per cento. E proprio la mole degli investimenti spinge all’insù il prezzo delle case, mentre un calo delle esportazioni di converso può far ridurre la domanda. Si rischia la saturazione. E la cosa potrebbe essere alimentata dall’eccessiva liquidità sui prodotti finanziari di riassicurazione dei mutui, come dimostrano le altalenanti quotazioni dei listini locali. Soltanto alla Borsa di Shanghai, che una capitalizzazione superiore a mille miliardi di dollari, i fondamentali sono sopravvalutati tra il 20 e il 30 per cento. Il rischio quindi è rivedere in Asia quanto avvenuto in America con i subprime. La dottrina vorrebbe a questo punto una rivalutazione della moneta, ma Pechino ha paura di giocarsi la velocità di crescita su cui regge il sistema. Così ci si accontenta di portare il tetto massimo dei mutui per le seconde case al 60 per cento del valore e aumentare di mezzo punto le riserve bancarie sui depositi. Impensabile non soltanto in Cina dove l’usura è attività buona e degna: infatti, e negli ultimi tre giorni, le Borse di tutto il mondo sono crollate.

Un welfare ci salverà Quello che inizia non è il secolo della Cina, che ne sarà comunque uno dei grandi protagonisti. Paolo Savona ne spiega limiti e contraddizioni, ma avverte: «Pechino ha molti punti a favore» di Vincenzo Faccioli Pintozzi

ROMA. Quello iniziato «non è il secolo cinese. Sarebbe più corretto parlare di secolo a maggior presenza della Cina». È l’opinione di Paolo Savona, economista di fama internazionale e presidente di Unicredit-Banco di Roma, che un’intervista a liberal spiega i limiti del colosso asiatico ma ne sottolinea anche i pregi, come per esempio quello relativo a un welfare «non basato sull’assistenzialismo, ma sulla produzione». Il professor Savona, che conosce molto bene la realtà sociale ed economica della Cina, mette in guardia anche l’Unione europea e i suoi limiti miopi rispetto alla nuova realtà asiatica: «Per realizzare l’Europa abbiamo rinunciato alla sovranità monetaria e alla sovranità di regolare il mercato. Eppure non riusciamo a ottenere un’unità politica, che ci consentirebbe di trattare in modo vantaggioso con Pechino. Ma, dato questo stato di cose, sono loro a vincere la sfida». Professore, la sfida fra Stati Uniti e Cina sulla questione di Google rientra in un balletto fra potenze che va avanti da anni. E Pechino sembra emergere sempre di più come protagonista, politico ed economico, del nuovo secolo. Sarà veramente un secolo cinese?

La Cina non vuole esportare il suo modello all’estero.È una fortuna,dato che esiste già il problema dei Paesi con base religiosa islamica, che invece lo vogliono fare

Da un punto di vista giornalistico potrebbe anche andare bene, come definizione. Certamente, la Cina sta diventando un interlocutore importante, sia dal punto di vista geopolitico che geoeconomico. Però questo non significa che l’emergere del Paese mette in secondo piano gli Stati Uniti, l’Europa o il Giappone. Il secolo, invece che “cinese”, potrebbe essere descritto in maniera migliore come il secolo “a maggior presenza” cinese. Lei conosce molto bene la realtà cinese. Da un punto di vista economico è evidente una maggior presenza di Pechino nel mondo; ma da un punto di vista culturale, c’è interesse da parte della Cina a esportare il proprio modello? Per fortuna, non intendono farlo. E dico per fortuna perché il mondo ha già il problema dei Paesi con base religiosa islamica, che invece vogliono esportare il proprio stile di vita. Il fatto che la Cina non adotti lo stesso atteggiamento rappresenta dunque una fortuna per noi. Però allo stesso tempo non intendono, o forse non possono, importare il modello occidentale al di là delle già notevoli influenze che questo modello – soprattutto dal lato economico – ha già


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biamo già l’islam radicale»

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condo lei è necessaria una democratizzazione del territorio o semplicemente una migliore re-distribuzione delle risorse sul territorio? Se devo giudicare i piedi di tutto il mondo, possiamo dire che tutti gli Stati li hanno d’argilla. Basta pensare al caso di Rosarno per l’Italia, alle banlieues francesi, ai problemi dell’Inghilterra e a quelli degli Stati Uniti. Proprio qui si stanno verificando delle restrizioni alle libertà personali, e non soltanto quelle tradizionali relative alla libertà di movimento degli individui. Proprio in questi giorni infatti si parla di restringere la libertà di iniziativa bancaria. Questo ha le sue ragioni, ma comunque configura una restrizione della libertà. Se poi andiamo a parlare di body scanner, ci troviamo nella stessa situazione. Naturalmente, il problema della Cina è diverso an-

di quell’aziena. E quei 380 milioni di utenti di internet che si rivolgono alla “offerta nazionale”, per definirla così, sono un grosso problema per gli americani. Ha ragione Google nel dire che la severità con cui la Cina limita la sua libertà di espansione rientra nel campo dei diritti umani. In Occidente si può organizzare una rivolta di piazza, un qualcosa quindi che tocca non soltanto l’ordine pubblico nazionale ma a volte persino internazionale (come nel caso degli incontri di G8, G20 o come la Conferenza internazionale sul clima a Copenhagen, che avrebbe dovuto trovare il sostegno delle piazze e invece se le è trovate contro), rappresenta un utilizzo di questo strumento per organizzare rivolte. E questo non può essere accettato. Neanche dalla Cina, per i motivi che ho detto prima: i cinesi oggi non sono in grado di controllare un’improvvisa apertura dei sistemi di libertà. Equivarrebbe, in quel Paese, a una rivoluzione. Ma il resto del mondo ha interesse a vedere la destabilizzazione della Cina, data l’esistenza del problema islamico? Io penso di no. Naturalmente, coloro i quali conducono battaglie per i

Ogni Paese dell’Unione porta avanti la propria politica indipendente rispetto a Pechino, e se la gestisce bilateralmente. Ma questa è la fine dell’ideale europeo

avuto. Si può dire che la Cina ha imitato in tutto il modello economico statunitense. Tuttavia, per una serie di motivi e di circostanze, che possono essere di tipo antropologico come pure di tipo “politico immediato”, non possono certamente passare da un giorno all’altro alla tutela dei diritti umani. Io penso che la Cina si muoverà in quella direzione, come d’altra parte è già successo a Taiwan. Quell’isola è l’applicazione simbolo, che va studiata. Chiang Kai-shek andò al vertice con duemila “mandarini”, duemila alti vertici dello Stato: nella fase iniziale fu una dittatura severissima (che l’Occidente giunse al punto di sbeffeggiare), ma che lentamente è arrivata a concedere delle libertà.Tanto che oggi Taiwan ha recepito completamente sia i modelli economici che la filosofia dello Stato. In Cina questo, oggi, non è possibile perché perderebbe il controllo su larghe fasce della popolazione, su centinaia di milioni di persone che ovviamente ritengono, come succede in Italia fra Roma e Milano, che la capitale e Shanghai stiano assorbendo troppe risorse senza preoccuparsi del resto del territorio. Cosa che, in linea di massima, non mi sembra vera. Quindi la politica interna di Pechino ha delle falle? La Cina è definita un gigante dai piedi d’argilla: se-

In apertura, un cittadino cinese e la sua caratteristica bicicletta. Sopra, dall’alto: l’insegna di un negozio della capitale cinese, Pechino. Operai al lavoro mentre aggiustano delle bombole di ossigeno. I giardinieri curano un monumento militare dedicato a Mao Zedong. Nella pagina a fianco, il professor Paolo Savona

che da questo punto di vista. Io penso che le autorità cinesi, pur difendendo il potere del Partito unico, alla fine non si illudano – come hanno già fatto per l’economia - di poter non concedere qualcosa di quello che noi chiamiamo “lo stato del benessere”, il welfare. Oggi, e io mi sono permesso di stabilire un parallelismo con la nota aggiuntiva di Ugo La Malfa, la distribuzione del reddito loro non la vogliono realizzare come abbiamo fatto noi: prendendo ai ricchi per dare ai poveri (ammesso che così sia stato). I cinesi stanno offrendo opportunità, infrastrutture su cui si innesta l’iniziativa privata della popolazione. Quindi oggi preferiscono offrire, per usare il linguaggio di La Malfa, il mobile prima di costruire il soprammobile. Offrire opportunità e non assistenza, per ottenere una distribuzione del reddito attraverso la produzione e non la tassazione. La questione relativa alla denuncia di Google ha luci ed ombre. Per i cinesi, non ha nulla a che fare con i diritti umani: è semplicemente un colosso che ha perso la sfida e se ne vuole andare con un guizzo d’orgoglio. Che idea si è fatto di tutto questo? Certamente i vincoli all’operatività di Google in Cina colpiscono lo sviluppo

diritti umani sono altamente rispettabili: ma una cosa è la filosofia che ispira la nostra azione, è un’altra cosa è la realpolitik. Sulla questione Google è intervenuta Hillary Clinton; per le problematiche dell’area emerge sempre di più il peso dell’Asean. L’Unione Europea, invece, sembra sempre meno preparata a trattare con la Cina? C’è una ricetta per risvegliare i Ventisette? Io credo che oggi una ricetta, chiamiamola così, non esista. Almeno non in forma unitaria e comunitaria. E il problema è proprio questo: ogni Paese europeo porta avanti la propria politica rispetto a Pechino e se la gestisce bilateralmente. Ma questa è la fine dell’ideale europeo. L’articolo di ieri apparso sul Messaggero a firma di Carlo Azeglio Ciampi è molto chiaro, in proposito. In sostanza, l’ex presidente della Repubblica dice: ci siamo privati della sovranità monetaria - e io aggiungerei in modo esplicito che ci siamo privati della sovranità di regolare il mercato, che sono le due sovranità attribuite una alla Bce e l’altra alla Commissione europea – però l’abbiamo fatto in vista dello scopo di raggiungere un’unità politica. Non possiamo tornare indietro sulle scelte già fatte, perché succederebbe il finimondo, ma sia ben chiaro che queste non operano a favore degli interessi europei fino a che non si raggiungere l’unità politica. E per questo scopo non si vede una forte spinta nazionale: alle elezioni europee non si decide in base alla volontà di mettere in comune le sorti del continente. Si ragiona ancora sugli egoismi di settore o di impresa. Di questa situazione si avvantaggia soltanto la Cina.


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utto sembra costruito in Cina. La scritta made in China compare ovunque e sui prodotti più svariati, dai capi d’abbigliamento agli articoli tecnologici. Sembra inevitabile allora che prima o poi arrivi il turno anche delle automobili cinesi, proprio come già avvenuto con giapponesi e coreane. O meglio non proprio. Le caratteristiche del boom cinese non trovano precedenti: capitali provenienti da tutto il mondo, manodopera a basso costo e un forte coordinamento dell’espansione economica da parte della politica, costituiscono un mix dirompente capace di provocare anche nel mondo dell’auto un vero e proprio scompiglio. Non subito però.

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Sono anni che si attende lo sbarco in forze delle auto low-cost cinesi sulle coste statunitensi ed europee, ma per quanto si allunghi il collo per scrutare l’orizzonte finora non si è mai avvistato nessuno. La compagnia cinese Chery nel 2005 aveva annunciato un piano faraonico di 250 mila veicoli da esportare in terra statunitense entro il 2007, di cui ad oggi se ne saranno viste scorrazzare per l’America appena una manciata. Nel 2007 la Brilliance Auto ha deciso di abbandonare i sogni di conquista del mercato europeo dopo aver fatto registrare il peggiore risultato nella storia dei crush test. La Saic, che nel 2005 ha comprato l’inglese Rover, ha da poco riposto nel cassetto il progetto di inondare l’Europa di modelli a basso costo da costruire nello storico stabilimento di Longbridge in Inghilterra. Nanche oggi lo sbarco sembra imminente, e per sostenere questa tesi si possono riportare un po’ di numeri. Al salone dell’auto di Detroit ancora in corso partecipa un’unica compagnia cinese, la Byd, finanziata da Warren Buffet e specializzata nella costruzione di veicoli a batteria. A dicembre l’Acea (la European Automobile Manufacturer’s Association) ha comunicato che le esportazioni di auto cinesi in Europa nel periodo gennaio-settembre 2009 sono state appena 745, un numero insignificante rispetto alle 700 mila auto esportate dalla Corea del Sud. Anche l’export nel resto del mondo ha registrato bassi volumi, subendo un vero e proprio tracollo dovuto alla vertiginosa crescita del mercato interno che ha costretto le aziende cinesi a riversare in casa le auto destinate all’estero. In tutto le esportazioni di auto cinesi sono calate del 57% rispetto al 2008, toccando quota 150 mila. Gli ostacoli ad un’esportazione su larga scala sono diversi. Prima di

Dopo i vestiti, la tecnologia, i giocattoli e l’oggettistica, fra poco sarà la volta delle automobili

L’invasione del made in China Nel 2009 Pechino ha esportato solo 745 auto in Europa, ma le cose cambieranno presto: i prodotti low-cost sono destinati a diventare di casa nei mercati di tutto l’Occidente di Renato Calvanese

tutto i cinesi devono conformarsi alle ferree regole sulla sicurezza e sulle emissioni nocive. Attualmente infatti non c’è nessun veicolo cinese che si avvicini anche lontanamente agli standard imposti dall’Europa e dall’America. Altro ostacolo rilevante è quello economico. La costruzione di una rete di vendita e di post vendita in un altro continente non è una passeggiata, soprattutto in un momento in cui la maggior parte delle risorse delle industrie cinesi vengono impegnate nella conquista di un mercato interno in crescita strepitosa e altamente competitivo. Il 2010 infatti sarà l’anno in cui le motor company di tutto il mondo combatteranno per l’enorme mercato cinese. Gm ha già dichiarato guerra ai marchi casalinghi annunciando il prossimo lancio della Chevrolet New Sail al prezzo di 6000 euro. La Volkswagen sta allargando la capacità di produzione del suo impianto nello Chengdu da 150 mila a 300 mila unità, e anche la Toyota, restia finora all’idea di un’auto low-cost, ne ha annunciato la costruzione a breve.

Il pericolo di un’invasione sembrerebbe finalmente scampato, ma non è così. Mentre i marchi automobilistici cinesi sono trattenuti in patria da una strenua lotta per le quote di mercato, qualcun altro già da tempo ha iniziato ad esportare la sua pro-

duzione cinese nel mondo. L’attuale maggior esportatore dalla Cina con una quota del 25% è la casa giapponese Honda, che in uno dei suoi impianti nel Guagzhou produce solo auto destinate all’estero, tra cui anche la Jazz per l’Europa. Anche GM nel 2009 aveva annunciato l’intenzione di costruire in Cina una small car da destinare al mercato americano, ma il progetto è stato bloccato dall’opposizione del Congresso. Cosa voglia dire produrre un auto in Cina per un costruttori è presto detto: un’ora di lavoro nella linee di assemblaggio di Detroit costa 55 dollari, 30 in Germania, 5 in Polonia, 2 in Cina. Con questi costi è inevitabile che l’invasione di auto cinesi prima o poi avverrà. I giapponesi hanno impiegato trent’anni per affermarsi sul mercato americano. Ai coreani di Hyundai ne sono bastati appena dieci. Ai cinesi probabilmente ne serviranno ancora meno.

Le case automobilistiche giapponesi hanno impiegato trent’anni per affermarsi sul mercato Usa. Ai coreani di Hyundai ne sono bastati appena dieci. Ai cinesi probabilmente ne serviranno ancora meno perché hanno costi di produzione molto più bassi

In apertura, una veduta della città meridionale di Guangzhou, nella ricca provincia meridionale del Guangdong. La foto evidenzia il tasso altissimo di inquinamento che copre i cieli delle città industriali del Paese asiatico, uno dei principali motivi di scontro fra gli abitanti e il governo centrale. Per evitarlo, Pechino ha chiesto più volte ai suoi cittadini di evitare, per quanto possibile, l’uso di mezzi privati. Tuttavia, persino all’interno del governo c’è chi contesta invece l’eccessiva industrializzazione delle aree naturalistiche del Paese. Proprio per questo motivo, Pechino ha rischiato di vedersi annullare le Olimpiadi del 2008


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Ci sono troppe crepe nel sistema interno del dragone asiatico

«Google ha ragione. Pechino esagera»

L’ex ambasciatore americano all’Onu risponde alle critiche cinesi al discorso di Hillary Clinton di Massimo Fazzi

WASHINGTON. La Cina «ha molti punti importanti in sospeso, ci sono troppe crepe nel suo sistema interno. Ecco perché io non credo che il prossimo secolo possa essere cinese: sia dal punto di vista politico che da quello economico hanno troppi problemi da risolvere, prima di poter diventare un vero protagonista del palcoscenico mondiale». Lo dice John R. Bolton, l’ex ambasciatore americano alle Nazioni Unite, in un’intervista a liberal. Il leader repubblicano risponde anche alla questione Google: «I cinesi si sono costruiti una reputazione nel campo del furto della proprietà intellettuale: credo che la questione del gigante informatico non sia puramente legata alla questione dei diritti umani, ma sia anche motivata da una sana voglia di evitare furti». E sul discorso di Hillary Clinton, Bolton conclude: «Ha fatto bene a reagire così. Bisogna farsi rispettare, se si vuole ottenere qualcosa da Pechino. Le lezioni che abbiamo imparato nel passato forse ora stanno dando i frutti sperati». Ambasciatore, cosa pensa del prossimo secolo? Sarà la Cina il nuovo protagonista mondiale? Io non credo. Penso che quel governo e quella società abbiano troppi punti in sospeso, troppe crepe nel suo sistema sociale ed economico. Ecco perché io non credo che il prossimo secolo possa essere cinese: sia dal punto di vista politico che da quello economico hanno troppi problemi da risolvere, prima di poter diventare un vero protagonista del palcoscenico mondiale. Bisogna augurarsi che li risolva, nel minor tempo possibile, per il benessere di tutto il pianeta e del suo equilibrio geopolitica. Cosa pensa della denuncia fatta da Google? Ritiene che sia veramente relativa ai diritti umani, o non nasconde piuttosto una natura economica? I cinesi si sono costruiti una reputazione nel campo del furto della proprietà intellettuale: credo che la questione del gigante informatico non sia puramente legata alla questione dei diritti umani, ma sia anche motivata da una sana voglia di evitare furti. Più che una ritirata, io penso che la decisione di Google rappresenti un notevole passo in avanti, un’aggressiva mossa tesa a pretendere sincerità nella gestio-

ne degli affari. Ci sono stati in precedenza altri esempi di industrie che hanno lasciato la Cina, ma quella di Mountain View rappresenta una sorta di prima assoluta: soprattutto per il peso globale che ha nello scenario mondiale. Va poi considerato che la presunta interferenza del governo cinese nel sistema di posta di Google rappresenta un nuovo spiraglio sull’inadeguata protezione fornita da Pechino alla proprietà intellettuale. Ed è un campanello d’allarme sulla situazione dello stato di diritto in quel Paese, dove diritti umani, libertà religiosa e scontri etnici sono nuvole che coprono la reputazione locale da tempo. Il governo americano e le ditte Usa devono fare anche in Cina quello che fanno naturalmente in tutto il resto del mondo: difendere con vigore i propri interessi. Si possono firmare dei contratti con Pechino, ma soltanto se questo dimostra di rispettare e soddisfare gli interessi che a noi stanno a cuore. È incomprensibile che gli americani abbiano atteso tanto: forse Google ci ha educato. Cosa pensa dell’intervento di Hillary Clinton? Il Segretario di Stato americano ha fatto bene a puntare il dito contro Pechino? Per anni, le amministrazioni statunitensi di entrambi i colori hanno mantenuto sostanzialmente lo stesso punto di vista sulla questione. Analisti ed “esperti”hanno più volte sostenuto che non si sarebbe dovuto premere troppo sulla Cina su alcuni argomenti: fra questi ricordiamo la manipolazione di valuta, la questione del nucleare nordcoreano, la situazione dei diritti umani o del Tibet. L’argomento a sostegno di questa teoria era che Pechino «non sarebbe stata contenta della cosa». Ovviamente, questo modo di fare non soltanto non ha prodotto risultati, ma ha implicitamente incoraggiato il governo cinese a continuare sulla propria strada. Queste strategie di “amicizia”non hanno ottenuto altro che dare alla Cina, gratis, quello che desiderava. Portare Pechino sul campo di battaglia, in alcune occasioni, avrebbe ottenuto di più. Per questo penso che la posizione assunta dalla Clinton, e per esteso dall’amministrazione Obama, sia corretta: far capire che non ci si inginocchia sempre non farà altro che segnalare con forza che i tempi sono cambiati per tutti.

Se vogliamo gli affari con la Cina, dobbiamo pretendere che quel governo rispetti i nostri standard

Obama ribatte: «Preoccupato, voglio spiegazioni dal governo cinese» di Guglielmo Malagodi

WASHINGTON. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama «è preoccupato» per la controversia tra Pechino e il colosso tecnologico americano Google, che ha puntato l’indice contro la Cina per i cyber attacchi ai danni del portale. «Come ha detto, il presidente resta preoccupato per la falla nelle misure di sicurezza informatica che Google ha attribuito alla Cina - ha detto il portavoce della Casa Bianca Bill Burton - come ha detto il segretario di Stato Hillary Clinton, quello che chiediamo alla Cina è di dare risposte». Obama risponde co-

sì alle accuse di Pechino, che ieri per bocca del ministero degli Esteri ha definito l’intervento della Clinton «dannoso» per i rapporti bilaterali. Gli «irragionevoli attacchi degli Usa», ha aggiunto il ministero, «negano la realtà. Chiediamo agli Stati Uniti di rispettare i fatti e smettere di utilizzare la cosiddetta libertà su internet per formulare accuse senza fondamento. Internet in Cina è aperta e siamo il Paese più attivo nello sviluppo della Rete. Vogliamo però che non ci si intrometta».


mondo

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Lotta per la democrazia. Il regime li opprime, ma grazie a internet e ai social media riescono a far sentire la propria voce

«Ecco cosa vuole l’Onda» Parla un leader degli studenti iraniani: «Nuove elezioni, rispetto della legge e libertà di stampa» di Giampiero Ricci Iran è scosso da un grande movimento di opinione popolare. Un movimento che, giorno dopo giorno, non smette di chiedere al duo Khamenei-Ahmadineiad riforme e più libertà. Le proteste dell’Onda Verde sono state soffocate nella violenza e attraverso l’uso indiscriminato dell’arresto politico di attivisti o anche solamente studenti. Sebbene il riflesso dello scontro di piazza sembri tradursi all’interno del regime solamente in tensioni politiche più radicali ma circoscritte al dualismo già presente all’interno della Repubblica Islamica (riformisti contro conservatori), la vera notizia di questa stagione in Iran è l’impegno militante delle giovani generazioni che scendono nelle strade del Paese e sul web, usando la tecnologia come le marce e i sitin, mettendo così in scacco il regime come durante i giorni della festa religiosa dell’Ashura. Il movimento non ha un leader unico come referente ma alcuni speaker che usano sul web delle identità virtuali, degli “avatar”. Uno di loro è @Bsalamati, con cui abbiamo avuto l’opportunità di commentare gli ultimi sviluppi della protesta. Mr @Bsalamati ci racconta come è iniziato tutto? Tutto è cominciato con le elezioni presidenziali nel giugno 2009. Quello che fu annunciato come il risultato delle elezioni fu uno shock per molti. Ma le elezioni non furono la sola causa. Anche l’atteggiamento brutale del governo e della milizia pro-governo dei basij contro i protestanti intensificò la situazione. Tutto il mondo è rimasto scioccato dalle immagini della morte di Neda, ma scorrendo le newsletter del movimento è possibile leggere di diversi casi di abusi dei diritti umani a danno di studenti o anche semplicemente giovani. Vuole segnalare in particolare di uno o più casi? Il caso di Neda è diventato universalmente conosciuto solamente perché la sua morte è stata registrata, ma come lei ha giustamente detto ci sono stati molti altri casi di martiri. Nessuno sa esattamente quanta gente è stata uccisa o imprigionata durante le proteste. Alcuni di loro sono di-

L’

ventati più conosciuti degli altri: Neda Agha Soltan, Sohrab Arabi, Taraneh Mousavi, Ali Mousavi... L’opposizione rivendica più di 70 persone martirizzate, ma il governo riconosce un numero di morti tra i 25 e i trenta. Qual è il messaggio che il movimento manda al Paese? Invece di proporre o diffondere una particolare ideologia, noi piuttosto preferiamo farci portavoce degli iraniani. Quello che noi stiamo principalmente stiamo provando a fare è di diffondere le loro parole, le loro ansie ed aspettative attraverso Facebook,Twitter,YouTube e altri social media, mentre passeggiamo spalla a spalla con loro per le strade per superare questo periodo.

che se è fatta da nostri membri, il che è una buona cosa! Nessuna società è perfetta, ma ogni società dovrebbe essere aprta alla critica e provare a migliorare se stessa. E ciò è esattamente quanto accaduto nei giorni seguenti l’Ashura. Dozzine di articoli sono stati scritti su questo tema e la discussione sopra quanto accaduto durante l’Ashura ancora continua. È possibile leggere di membri del movimmento che fanno autocritica e provano a risolvere i problemi sorti attraverso discussioni ragionevoli e dibattiti pubblici. Sfortunatamente, ad ogni modo, il governo ha commesso enormi crimini a partire dal 12 Giugno ed invece di sen-

Abbiamo sempre preferito percorrere la strada della non-violenza, ma non puoi restare inerme mentre i basij e la polizia anti-sommossa ti stanno sparando addosso All’inizio abbiamo assistito a proteste non-violente, mentre durante i giorni della festività dell’Ashura, sono scoppiati ovunque scontri con le forze di sicurezza e contro le milizie basij, qual’è la sua testimonianza? Il movimento verde è sempre stato interessato a esprimersi mediante proteste non-violente, e posso riferire con sicurezza che il moviemento verde è un movimento pacifico. Anche durante i giorni dell’Ashura, credo di poter dire che il movimento verde è stato pacifico. La gente stava provando a portare avanti un’altra protesta nonviolenta ma è stata trasformata in violenza dal governo. Non puoi aspettarti che la gente semplicemente stia inerme senza far nulla aspettando che i basij e le forze di polizia antisommossa gli cominci a sparare addosso o la picchi duramente! Il movimento verde ha sempre provato ad organizzare manifestazioni non-violente, ma sfortunatamente è il governo che non vuole lo siano. Dal momento che sono parte del movimento verde, so per certo che i suoi membri condannano ogni tipo di violenza, an-

Lo sforzo diplomatico russo

Rammarico di Mosca per il “no” all’Aiea Mosca si rammarica che Teheran abbia rifiutato di accettare le proposte dell’Aiea sul combustibile nucleare iraniano. «Esprimiamo rammarico per il fatto che l’Iran non ritenga possibile accettare la formula proposta dall’Aiea per la produzione di combustibile per un reattore di ricerca a Teheran», ha dichiarato il capo della diplomazia russa Serghiei Lavrov in una conferenza stampa a Mosca. «Tuttavia occorre compiere sforzi supplementari sia su questo problema sia in senso più vasto, ossia sulla ripresa dei negoziati su tutti gli aspetti del programma nucleare iraniano. Il nostro obiettivo è chiaro: vogliamo che la comunità internazionale non abbia alcun dubbio sul carattere esclusivamente pacifico di questo programma». Lavrov ha poi sottolineato che il consiglio di sicurezza dell’Onu può esaminare prossimamente l’adozione di misure supplementari nei confronti dell’Iran: «È chiaro che può farlo, ma io spero che tutti saranno guidati esclusivamente dagli interessi del rafforzamento del regime di non-proliferazione».

tirsi responsabile, il governo ha sempre negato ogni cosa ed ha intensificato la repressione. Questa è la differenza tra un movimento pacifico e matura ed un governo non intelligente e selvaggio. Le proteste stanno crescendo? Possiamo aspettarci una seconda rivoluzione? È difficile predire il futuro. Ma oramai le proteste hanno preso piede anche nelle piccole città e nei villaggi. Le proteste generalmente si concentravano a Teheran e in qualche altra grande città, ma ora molte città nella maggior parte delle provincie stanno protestando. Fino a che punto il movimento sente di dover andare avanti? Chiamare i sostenitori del movimento verde “moharebs” è solamente uno dei numerosi trucchi attraverso i quali il governo vuole da una parte giustificare il carattere brutale della sua repressione, dall’altra provare a dividerci. Posso fare qualche esempio. Pochi mesi fa il governo decise di fondare un altro “partito verde”, ma non ottenne sostegno e fallì. Poi il 16 di Azar (6 dicembre, giornata dello studente) i membri di questo presunto partito bruciarono in piazza immagini raffiguranti l’Ayatollah Kohmeini, il fondatore del regime della Repubblica Islamica. E adesso il governo ci dichiara mohareb. In questo modo il governo trova la scusa per giustificare la sua brutalià e per dividere il movimento verde tra quelli che sono pro-Khomeini e quelli che sono contro, tra quelli che sono religiosi e quelli che sono secolarizzati. Ciò che posso dire è che alla fine queste tattiche non hanno funzionato perché la gente in Iran conosce bene i loro metodi. E’ chiaro d’altra parte che noi dobbiamo essere molto attenti a non perdere la nostra unità. Questo è quello che mette loro più paura.


mondo

Si dice che i conservatori siano divisi al punto che qualcuno sarebbe favorevole al compromesso, esiste la possibilità che il Leader Supremo l’Ayatollah Khamenei sacrifichi Ahmadinejad? Tutto quello che posso dire è che è possibile. Il sacrificio di Ahmadinejad potrebbe fermare le proteste? Non credo. È da qualche mese che vengono dirette proteste contro lo stesso Leader Supremo. Non si sentono quasi più slogan contro Ahmadinejad. La gente ha realizzato che sino a quando Khamenei sarà al potere quanto accaduto potrebbe ripetersi. Inoltre, è stato il Leader Supremo che ha direttamente ordinato alle forze di sicurezza, la guardia rivoluzionaria e ai basij di essere brutali. Perciò è lui il responsabile per tutto questo casino. È sia un leader incredibil-

che ciò che è successo a partire da Giugno sia solamente una contesa politica interna al regime, ma qual’è invece l’obiettivo reale del movimento e degli studenti? Non metterei la cosa in questi termini! Credo che tutti quelli che pensano si tratti soltanto di una contesa politica tra partiti all’interno del Paese, non hanno osservato attentamente molte parti del movimento e degli eventi post-elettorali. Penso che ciò che abbiamo osservato sin dall’inizio sia stata gente che è andata per la strada basandosi unicamente su di una propria personale decisione. Nessuno ha chiesto alla gente di protestare. Anche Mousavi nella sua diciassettesima asserzione («Uccideteci, noi cresceremo solamente più forti»), sostiene il fatto che l’intero movimento sia portato avanti dal popolo e non da qualsiasi figu-

La richiesta immediata è la liberazione di tutti i prigionieri politici, dei giornalisti e degli attivisti, la fine delle esecuzioni di innocenti e la concessione all’opposizione dell’accesso ai media pubblici

mente incapace che un assassino. Perciò non penso che rimuovendo Ahmadinejad si risolverebbe alcun problema. Stanno sorgendo distinguo all’interno della burocrazia politica e militare? Non sono a conoscenza di fatti intervenuti all’interno delle autorità, ma posso testimoniare che ci sono attualmente molte persone che hanno anche votato per Ahmadinejad alle elezioni ma adesso stanno sostenendo il movimento verde, e lo fanno per via della violenza di cui il governo ha dimostrato di esser capace. In Occidente molti osservatori internazionali pensano

ra politica. E io penso che il popolo ha fatto propri gli slogan che canta. Si può sostenere che l’asserzione di Mousavi si il risultato minimo ricercato dal movimento verde (1. Un governo soggetto al controllo del Parlamento e della Magistratura; 2. Nuove elezioni; 3. Liberazione e amnistia per i prigionieri politici; 4. Libertà di stampa; 5. Tutela delle libertà politiche e di associazione). Qual è la posizione circa i programmi nucleari del suo governo? Dovremmo aspettare e vedere cosa la Casa Bianca intente fare in pratica. Ma per adesso, le san-

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zioni hanno semplicemente peggiorato la situazione della gente comune, senza avere alcun effetto sul governo. Quanto alla questione nucleare, posso esprimere solamente una mia opinione circa i programmi nucleari dell’Iran e tutto quello che posso dire è che ogni nazione dovrebbe avere il diritto di utilizzare pacificamente la tecnologia nucleare. Nei sogni del vostro movimento c’è posto per una riforma radicale della costituzione della repubblica? Se sì in quale senso? Uno dei cambiamenti più importanti che la gente sta cercando di ottenere è la rimozione del principio del “Velayate Faghih”, che dà poteri pieni al Leader Supremo. Come ho detto prima, sono oramai mesi che la gente ha messo in discussione questo principio. Questo sembra essere diventato il punto centrale della lotta. In una ipotetica nuova repubblica, con una nuova costituzione, quale tipo di relazione ritieni debbano essere informati i rapporti con Paesi come Israele, l’Iraq e la Siria? Naturalmente è interessi di ognuno evitare che ci siano conflitti. Cosa il movimento studentesco continuerà a chiedere al governo? Ci sono differenti azioni che gli studenti in particolare e il movimento verde in generale hanno chiesto che vengano presi. Ma tra tutti la più immediata è la liberazione di tutti I prigionieri politici, dei giornalisti e degli studenti attivisti, la fine delle esecuzioni di innocenti e la concessione all’opposizione dell’accesso ai media pubblici. I leader dell’opposizione Mousavi e Karroubi hanno perso il controllo del movimento? Non è corretto ritenere Mousavi e Karoubi quali leader del movimento secondo il significato letterale del termine. Loro non sono mai stati leader del movimento. Loro hanno sempre provato a parlare per conto della gente, invece di guidarla in qualche direzione. Tuttavia devo ammettere che essi non rappresentano la voce di tutti i sostenitori del movimento. Ma credo siano stati di grande aiuto per il movimento verde. In conclusione secondo il movimento studentesco esiste una reale possibilità di uscita da questo clima che si è creato di battaglia senza fin? Non descriverei quello che sta accadendo in Iran come apparentemente una battaglia senza fine. Non è possibile aspettarsi che problemi sociali e politici siano risolti dalla mattina alla sera. Io credo che gli studenti in particolare e le persone in generale stiano compiendo un lavoro relativamente buono. Dobbiamo soltanto rimanere vigili su cosa il governo sta facendo e provare a non perdere la nostra unità. Così facendo prevarremo.


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Terrorismo. Giovedì a Londra vertice Tra Usa, Europa e arabi moderati caldo, subito dopo il fallito attentato del giorno di Natale sull’aereo AmsterdamDetroit, Barack Obama aveva avvertito che la lotta alle centrali di al-Qaeda nello Yemen sarebbe stato il nuovo fronte caldo della guerra al terrorismo. Perché proprio nello Yemen era stato addestrato e armato il kamikaze nigeriano, Umar Farouk Abdulmutallab, che avrebbe dovuto far esplodere in volo il jet della Delta Airlines. Qualcuno aveva anche ipotizzato un blitz militare in grande stile visto che l’appoggio già fornito da tempo al governo yemenita - soprattutto con l’impiego dei droni, gli aerei senza pilota - non aveva dato i risultati sperati. Da allora poco è cambiato: gli scontri tra l’esercito regolare e le formazioni di ribelli e terroristi sono quotidiani, appena tra giorni fa è stata annunciata l’uccisione di un capo quaedista, subito dopo smentita, e ognuno, in sostanza, ha tenuto i suoi capisaldi. Ma il momento delle scelte si avvicina: giovedì prossimo, a Londra, ci sarà un vertice internazionale dedicato alla crisi nello Yemen che dovrebbe approvare una strategia condivisa per affrontare questa ennesima emergenza.

A

Al vertice di Londra, organizzato dal premier britannico, Gordon Brown con gli Usa, la Ue e l’Onu, parteciperanno rappresentanti del presidente yemenita, Abdullah Saleh, e di Paesi-chiave della regione: l’Arabia Saudita, gli Emirati arabi uniti e il Qatar. Dal summit, come sempre avviene in queste occasioni, usciranno due livelli di decisioni: quello ufficiale, pubblico, sarà dominato dagli interventi economici e dagli impegni politici per stabilizzare la situazione nel

Obama per lo Yemen punta su Riyadh Washington vuole ottenere dall’Arabia Saudita un impegno «diretto e coordinato» nella crisi di Enrico Singer

la monarchia saudita si considera il principale paladino della fede sunnita, sia perché è convinta che dietro i ribelli Houthi ci sia l’Iran, suo avversario di sempre nella corsa al primato nel mondo islamico.

L’azione saudita, fino a un certo punto, è stata omogena alla visione americana della

La Casa Bianca spera che re Abdullah, più che combattere i ribelli sciiti nel Nord del Paese, concentri l’azione contro gli uomini di Osama Paese, ma il più importante sarà quello riservato che non troverà spazio nei documenti conclusivi e che sarà dedicato al nuovo ruolo che Washington si attende da Riyadh. In sostanza Obama spera in una svolta dell’atteggiamento del re Abdullah: da anni l’esercito saudita appoggia direttamente quello yemenita contro i ribelli Houthi - di fede sciita che controllano parte del Nord dello Yemen proprio lungo la frontiera con l’Arabia. È un conflitto che Riyadh combatte sia perché

crisi yemenita. L’interesse di Washington - e dell’Occidente in generale - è di favorire la stabilizzazione del Paese uscito dall’unficazione tra Yemen del Nord e Yemen del Sud nel 1990, ma percorso ancora dalle spinte separatiste del Sud e dalla rivolta della minoranza sciita delle tribù Houthi nella regione Nordoccidentale. Per questo le operazioni militari che l’Arabia Saudita conduce con la sua aviazione, ma anche con forze di terra, contro i ribelli sciiti guidati da tre generazioni dalla famiglia

Non solo al-Qaeda è all’attacco contro Sana’a

La rivolta degli Houthi Si fanno chiamare Shabab almoumineen: giovani credenti. Qualcosa di simile ai Taliban, gli studenti coranici afghani. Ma sono sciiti e di una minoranza che vive nel Nord dello Yemen (nella zona indicata in verde nella cartina) nella regione abitata dagli zaidi, una setta islamica dominata dalla tfamiglia Houthi. Dal patriarca Badr al Din el Houti a suo figlio Hussein (ucciso nel 2005 dall’esercito regolare yemenita) fino a suo nipote Abdul Malek, attuale capo di una rivolta di cui poco si parla, ma che è il nodo della crisi che attraversa il Paese. Perché a destabilizzare il governo di Sana’a non c’è soltanto al-Qaeda.Anzi, gli scontri più sanguinosi sono quelli che hanno per teatro la regione settentrionale. Gli Houti combattono contro il presidente Saleh che prese il potere la prima volta spodestando proprio un leader zaida. Il conflitto ha raggiunto la massima intensità tra il 2004 e il 2005. Ma ora lo scenario è di nuovo esplosivo. Abdullah Saleh, eletto per un se-

condo mandato nel settembre 2006, ha preso sul serio la minaccia: l’esercito ha schierato tank e artiglieria attorno a Sa’ada (la principale città del Nord) e ha iniziato a bombardare le postazioni ribelli. Que-

sto conflitto, in cui si è inserita l’azione dei terroristi di al-Qaeda, è uno degli aspetti dello scontro interno al mondo islamico che oppone la maggioranza sunnita del Paese alla minoranza sciita e s’intreccia a questioni tribali e territoriali. E che, dall’esterno, è appoggiata da una parte dall’Arabia Saudita e, dall’altra, dall’Iran. (e.sin.)

al-Houthi - prima Badr alDin, poi suo figlio Hussein ed ora il nipote Abdul Malek - sono state sempre sostenute dagli Usa. Adesso, però, nella crisi è entrato di prepotenza un nuovo protagonista: al-Qaeda. Che ha trovato nelle zone del Nord fuori dal controllo delle forze governative un comodo terreno per impiantare le sue basi. Anche se da posizioni molto diverse, terroristi di Osama bin Laden e ribelli Houthi hanno creato un’alleanza di fatto che Washington vorrebbe spezzare. E qui cominciano le divergenze di vedute tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita.

La priorità di Riyadh rimane la lotta contro gli Houthi. Negli Usa, invece, cresce la convinzione che l’unico modo per far saltare l’alleanza tra ribelli sciiti e terroristi di al-Qaeda sia quello di disinnescare politicamente la questione Houthi. «Credo che non sia vincente una soluzione puramente militare e spero che si possa arrivare a un cessate-il-fuoco con i ribelli», ha detto Jeffrey Feltman che è una degli assistenti di Hillary Clinton per il Medio Oriente. Anche Christopher Boucek, analista del Washington’s Carneige Endowment for International Peace, è dell’opinione che «il conflitto con gli Houthi sta accelerando il collasso economico dello Yemen e che, per questo, va chiuso al più presto». Per convincre l’Arabia Saudita a combattere più i terroristi di al-Qaeda che i ribelli sciiti, Obama ha mandato a Riyadh uno dei suoi consiglieri per la sicurezza, il generale Jim Jones, che ha incontrato anche re Abdullah e il principe Sultan che si occupa personalmente della crisi yemenita. Il generale Jones ha incontrato anche il viceministro degli Interni saudita, principe Mohammed bin Nayef che nell’agosto scorso è sfuggito per miracolo a un attentato, e gli ha trasmesso un rapporto dell’intelligence americana dal quale risulta che il commando che tentò di ucciderlo faceva parte della stessa cellula di al-Qaeda che ha poi organizzato a Natale l’azione suicida contro il jet della Delta. Tutto questo, naturalmente, dovrebbe servire per spingere Riyadh a coordinare il suo impegno diretto nello Yemen con gli Stati Uniti. La speranza di Barack Obama è che l’accordo su una nuova linea d’azione possa essere formalizzato nel vertice di Londra. Con la benedizione dell’Europa e dell’Onu.


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Maxi-retata della polizia in molte zone del Paese

Allarme dell’Unicef: «Almeno 15 bambini spariti dagli ospedali»

Arrestati in Turchia 120 sospetti terroristi

Sisma Haiti, da ieri non si scava più tra le macerie

ANKARA. Nelle prime ore di

PORT-AU-PRINCE. Si assotti-

ieri la polizia anti-terrorismo turca, nel corso di una vasta operazione condotta in diverse regioni della Turchia contro al Qaeda, ha arrestato 120 persone sospettate di essere connesse alla rete del terrore islamista. Lo ha reso noto l’agenzia di stampa Anatolia. Le unità anti-terrorismo hanno operato in 16 città, fra le quali Ankara, Istanbul, Bursa (a nord-ovest), Malatya, Van (ad est), Mersin (a sud) e Gaziantep (a sud-est). Fra i militanti arrestati nella città di Van, ci sarebbe uno studente che avrebbe cercato di riunire dei militanti di al Qaeda in Afghanistan facendo proseliti nel campus di un’università locale e su Internet. Mentre tra gli arrestati nella provincia di Gaziantep, ce ne sarebbe uno accusato di aver frequentato un campo di addestramento in Afghanistan.

gliano le speranze di trovare qualcuno vivo sotto le macerie del terremoto di Haiti. Dal Pentagono ieri hanno fatto sapere che «le ricerche oramai sono concluse». «Bisogna accettare il fatto che le possibilità di trovare qualcuno vivo sono molto basse» ha detto Joe Zahralban del South Florida Urban Search and Rescue Team. D’altra parte anche le operazioni di aiuto a Haiti ancora soffrono di «una generale mancanza di coordinamento». «Gli aiuti spiega il presidente René Preval, intervistato da El Pais - sono arrivati a Haiti in maniera spontanea, provenienti da tanti paesi. E ora che sono qui, la cosa più importante è il coordina-

Lunedì scorso la polizia antiterrorismo turca ad Ankara aveva arrestato circa 34 sospetti. In seguito, venticinque di questi sono stati incriminati dalla magistratura turca. Nel 2003 una cellula di al Qaeda è stata ritenuta responsabile di 4 attacchi bomba a due sinagoghe di Istanbul, al consolato e ad una banca britannica. In

Scudo missilistico, nuove tensioni tra Russia e Usa? Il Cremlino conferma il rafforzamento della Flotta del Baltico di Antonio Picasso i riapre il dossier sul disarmo nucleare. O forse no. L’altro giorno, l’agenzia stampa russa Ria Novosti, citando una fonte anonima, parlava di un «rafforzamento degli elementi di superficie, sottomarini e di aviazione della Flotta baltica in risposta all’intenzione degli Stati Uniti di dispiegare i suoi missili Patriot in Polonia». La smentita del ministero della Difesa russo è stata però immediata: «Tutte le misure legate al riarmo e all’ammodernamento in corso nella nostra Marina militare, compresa la Flotta del Baltico, rientrano nel quadro del nuovo assetto delle Forze Armate».

S

L’essenza è quanto mai equivoca: ammette che effettivamente siano in corso operazioni di aggiornamento difensivo, tuttavia considera la questione come irrilevante dal punto di vista mediatico. D’altra parte, un intervento di questo tipo, proprio come reazione ai programmi di riarmo degli Stati Uniti, era già stato preventivato dal Primo ministro russo Putin, alla fine dell’anno, durante la sua visita alla base navale militare di Vladivostock. «Il problema è che i nostri partner americani stanno realizzando uno scudo missilistico e noi no», aveva spiegato il Premier, aggiungendo: «Per preservare gli equilibri la Russia è costretta a ridefinire il suo sistema di armamenti in senso speculare a quello di Washington». Putin si era presentato volutamente polemico e aggressivo. Dalle sue dichiarazioni traspariva l’intenzione di rivedere i piani militari, come pure l’accusa alla Casa Bianca di essere la responsabile del mancato accordo per il disarmo nucleare. Secondo Putin quindi, lo scudo missilistico che il Pentagono vorrebbe installare in Europa orientale sarebbe tutt’altro che difensivo e punterebbe diritto sul territorio russo. La posizione di Washinton appare effettivamente fluida. Durante il summit bilaterale di Mosca MedvedevObama del 6 luglio 2009, era emersa l’intenzione di riavviare i negoziati sulla riduzione delle testate nucleari. L’accordo preso a Mosca prevedeva un taglio iniziale di 700 unità da parte di entrambi in Paesi, con la previsione di arrivare

presto alla firma di uno “Start 3”. Teniamo conto che attualmente le stime attribuiscono 15mila testate alla Russia e circa 10mila agli Usa. Il banco delle trattative era saltato però quando a novembre la Polonia, membro Nato, aveva firmato un accordo con gli Usa per lo spiegamento dei Patriot sul suo territorio.Varsavia mirava a ottenere un tornaconto concreto per il proprio impegno in Iraq e Afghanistan. Il desiderio del governo polacco era ottenere la protezione dell’alleato statunitense per i propri confini con la Russia. Vista la situazione e tenuto conto che l’amministrazione Bush aveva già ventilato la partnership con la Polonia, la Presidenza Obama non era riuscita a cambiare rotta. Pacta servanda sunt, deve aver pensato allora Washington. Soprattutto se i patti sono presi con un membro della Nato. Washington quindi si era assunta una responsabilità morale nei confronti di Varsavia. La scelta però collideva con le decisioni di disarmo reciproco assunte anche con Mosca. Da qui il disappunto di Putin, che ha fatto notare che anche gli accordi con la Russia andrebbero rispettati. Detto questo, nonostante il recente accavallarsi di toni di aggressività del Premier russo e di smentite ufficiali sul rafforzamento della Flotta del Baltico, sembra che le relazioni tra la Casa Bianca e il Cremlino si mantengano all’insegna della trasparenza.

Secondo l’agenzia “Ria Novosti” sarebbe la risposta all’intenzione degli Stati Uniti di dispiegare i missili “Patriot” in Polonia

quell’occasione morirono 63 persone, tra le quali un console britannico, ed altre rimasero ferite. Per quegli attentati, nel 2007 sono stati arrestati 7 uomini, fra i quali un siriano ritenuto responsabile di aver organizzato e finanziato le operazioni terroristiche. Intanto la Germania ha fatto sapere che non estraderà verso la Turchia un dirigente del Pkk a causa delle gravi pene che rischia in quel Paese. Lo ha deciso la Corte costituzionale tedesca, con sede a Karlsruhe, accogliendo il ricorso del curdo rovesciando una decisione a lui avversa presa dalla corte d’appello regionale a Hamm(Nord Reno-Vestfalia) nel giugno scorso.

Per la prima volta nella storia infatti, Mosca ha invitato i rappresentanti di Francia, Gran Bretagna e Usa a partecipare alla “Parata della vittoria”, il 9 maggio, in occasione del 65esimo anniversario della sconfitta del Terzo Reich. All’evento saranno presenti i rispettivi Capi di Stato e di Governo: Brown, Obama e Sakozy. Il fatto che sulla Piazza Rossa sfileranno militari di tre Paesi della Nato è di per sé un’eccezione. Resta il dubbio però se questo nasca dalla disponibilità di Medvedev nel tendere la mano ai partner occidentali, o dalle intenzioni di Putin di trasformare il 9 maggio in una manifestazione di forza dell’Armata russa di fronte agli stessi leader.

mento tra tutti, governo, americani, Onu, agenzie di distribuzione dei generi alimentari...Riconosco che esiste una mancanza generale di coordinamento in questo». Quanto al disordine che regna nella città di Port-au-Prince e al tentativo di molti di lasciare la capitale, Preval ha assicurato: «Aiuteremo la gente che lo desidera ad andare via».

Nel caos generale in cui versa il Paese, poi, almeno 15 bambini rimasti feriti nel sisma sarebbero scomparsi in diversi ospedali di Haiti. È la terribile denuncia fatta dall’Unicef che sospetta «che i piccoli siano stati rapiti da criminali che alimentano una tratta di bambini che passa da Santo Domingo», ha detto Jean Claude Legrand, esperto per la tutela dei minori dell’agenzia dell’Onu. Ha ricordato inoltre che subito dopo il devastante terremoto era stato lanciato l’allarme su un possibile aumento di questi rapimenti, tesi ad alimentare un mercato delle adozioni illegali. Intanto è arrivato ad Haiti il capo della Protezione civile Guido Bertolaso. Con lui un team interforze composto da Vigili del Fuoco e personale delle Forze Armate, della Croce Rossa Italiana e del Dipartimento della Protezione Civile.


cultura

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Riletture. Fra tutti i testi di Shakespeare ce n’è uno che resiste a qualunque tentativo di alterazione critica o storica: è la tragedia della gioventù

Il prezzo dell’Amore Agli adolescenti «Romeo e Giulietta» continua a piacere: qual è il segreto (o il mistero) di questo mito eterno? di Franco Ricordi a fama e la fortuna di Romeo e Giulietta sono assolutamente meritate: è un testo di straordinaria potenza, vivacità e ironia, che ci parla anche molto da vicino di questa nostra Italia così bella e difficile, ma pure tragicamente teatrale. Ed è questa l’occasione migliore per ribadire quanto il nostro Paese sia importante e fondamentale nella drammaturgia shakespeariana: l’Italia è, insieme all’Inghilterra, il campo d’azione di Shakespeare. E se si contano anche le tragedie romane insieme a tutte le implicazioni storiche e geografiche del medioevo e del rinascimento italiano, potremmo senza esitazioni definire Shakespeare come poeta “Anglo-Italiano”. In quest’ambito dovremo pure riconoscere come il Lombardo-Veneto sia senza dubbio la regione d’Italia più implicata e indagata dalla fantasiosa ma pur sempre concreta geografia del Bardo. Verona e Mantova sono i campi d’azione dei più celebri innamorati di ogni tempo, il cui soggetto è stato tradotto in opera lirica, balletto, cinema, musical, tanto che pure il personaggio di Tony Manero interpretato da John Travolta nel celebre La febbre del sabato sera dimostra di conoscere il suo autore: «Romeo e Giulietta è di Shakespeare, non di Zeffirelli» dice alla sua ignorante amica che aveva attribuito la paternità del testo al nostro celebre regista.

L

E anche se snobbato e a volte addirittura preso in giro da certa critica avanguardistica, che pensava di poterne legittimare soltanto una lettura dissacratoria alla Carmelo Bene, il testo ha resistito fortemente a ogni tentativo di riduzione o alterazione (e non soltanto in Italia, ma in tutto il mondo) che è stato perpetrato negli ultimi cinquant’anni.

È uno di quei casi in cui, come ha scritto giustamente Harold Bloom, Shakespeare crea l’umanità; i suoi personaggi sono delle vere e proprie forze della Natura, e risulta assai difficile e rischioso avversarli: la Natura si ritorce contro tali aggressioni, spesso gratuite, e immancabilmente si vendica. Così la città di Verona, con le sua mura e la sua interna Arena, viene a rappresentare l’idea stessa del mondo-teatro: «Non c’è mondo

Anche il Tony Manero della “Febbre del sabato sera” apprezzava l’universalità di un’opera che sapeva non attribuire solo a Franco Zeffirelli fuori dalle mura di Verona!» grida disperato Romeo a Frate Lorenzo, quando nel IV atto è stato bandito dal Duca per aver ucciso Tibaldo. E già dalla primissima scena Verona ci appare come luogo deputato di scontro e inevitabile odio fra quelli che potremmo definire i “due partiti avversari”, i Capuleti e i Montecchi. Subito scoppia la prima rissa, sedata dall’arrivo del Principe (personag-

gio estremamente discutibile, quasi un antesignano della moderna strategia della tensione). E l’arrivo di Romeo sul luogo, lui che è ancora in pena d’amore per il rifiuto costante da parte di Rosalina, ci informa subito sulla situazione: «Qui l’odio ci fa molto combattere, ma l’amore di più». Tuttavia Romeo accetterà di recarsi alla festa in casa Capuleti, i suoi nemici storici, ma soltanto nella speranza di rivedere la sua adorata Rosalina. In realtà fra Capuleti e Montecchi c’è anche una connivenza sociale, un blocco di potere degli anziani pur nell’avversità, che come vedremo si ritorcerà contro il destino dei giovani. Una situazione di crisi in cui “i vecchi non riescono a morire e i giovani non riescono a nascere”. Ep-

Da sinistra in senso orario: una messinscena di “Romeo e Giulietta” del ’64, con Giancarlo Giannini e Annamaria Guarnieri; il balcone a Verona; i due mitici amanti in un quadro; i protagonisti del film di Zeffirelli tratto dall’opera di Shakespeare

pure dovremo considerare l’età giovanissima della madre di Giulietta (sui 28 anni, verosimilmente) visto che la figlia non ha ancora 14 anni e di molti altri personaggi, al di fuori di Frate Lorenzo e della Nutrice. Quest’ultima è, insieme a Mercuzio, uno dei personaggi più belli, forti ma anche meschini della vicenda: se infatti all’inizio si mostrerà tanto affettuosa e premurosa nei confronti della sua padroncina, alla fine la abbandonerà consigliandole anzi

di sposare il Conte Paride, e ripudiare il matrimonio appena avvenuto con Romeo. Ma intanto nella notte la giovane compagnia dei Montecchi, cui si aggiunge Mercuzio che è parente del Principe, si recano in casa Capuleti; e prima di arrivare Romeo e Mercuzio dibattono sull’essenza dell’amore e del sogno, laddove l’amico di Romeo si impone con la celebre tirata della Regina Mab, la fantasiosa e allucinata descrizione dell’origine dei sogni (citata da Freud) che è il primo momento divertentissimo, ironico e folgorante di tutta la tragedia. Anche se di lì a poco ci sarà il primo incontro di Romeo con Giulietta che non esitiamo a definire magico: tanto più che il primo bacio corrisponde alla “rima baciata” dei versi di Shakespeare.

Seppure timidamente, è nato un amore che sfiderà il mondo intero. Subito i due ragazzi se ne avvedono: hanno venduto il loro cuore al loro peggior nemico. Ma Romeo, alla fine della festa, non lascerà casa Capuleti e, come tutti ricorderanno, dà luogo alla prima grande scena del balcone; anche se debitore di Boccaccio e della novellistica italiana, bisognerà riconoscere che Shakespeare qui anticipa tutto il più grande teatro dell’età romantica. Romeo e Giulietta è forse il primo grande testo del romanticismo europeo, e senza dubbio il binomio di Amore e Morte ci si presenta nel suo stadio più grande, assoluto, giovane e maturo al contempo. E così Romeo, ancora inebriato d’amore, si reca fidu-


cultura

cioso alla cella di Frate Lorenzo, suo padre spirituale. E in tale personaggio, caratterizzato da Shakespeare anche come Frate alchimista alla Bertolt Schwarz, si annida purtroppo tutta l’ipocrisia che sarà fatale ai giovani: il Frate, illudendosi di poter avvicinare politicamente le due famiglie rivali, sarà il primo colpevole della morte di Romeo e Giulietta. Nel frattempo Mercuzio, Benvolio e altri amici dei Montecchi vanno oziando per la città; la giornata è calda e insicura, Benvolio teme qualche pericolo, e proprio in quel momento arriva Tibaldo di casa Capuleti; questi aveva già notato la presenza di Romeo alla festa della sera prima, anche se ancora nessuno ha saputo della nascita del grande amore. Sopraggiunge Romeo e, dopo una scaramuccia verbale, si passa allo scherzo delle armi. Ma lo scherzo si tramuta presto in realtà e, quasi senza che se ne accorga, Mercuzio rimane ferito a morte da Tibaldo. Prima di morire Mercuzio ironizza sulla sua ferita, tanto che nessuno capisce se sia scherzando o meno, ma poi la sua ultima battuta è chiara: «Maledette le vostre famiglie!». Mercuzio è morto e Tibaldo è vivo e trionfante! E allora ecco che Romeo assume per la prima volta il volto del vero uomo e, dopo un duello all’ultimo sangue, trafigge Tibaldo. Sopraggiunge il Principe (che in Mercuzio ha perduto un suo parente) e non trova altra maniera di fare giustizia se non con il bando di Romeo. Da quel momento, con la morte di Mercuzio che rap-

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presenta pure l’ala ferita e spezzata della giovinezza, il testo sprofonda sempre più in una vera descensa ad inferos. Non più ironia, non più divertimento, tutti i personaggi si rattristano e si incupiscono sempre più.

Romeo è costretto a partire per Mantova, e nella celebre seconda scena del balcone - «Vuoi già andartene? Non è ancora giorno» - si percepisce già il finale della tragedia, tanto che gli stessi protagonisti appaiono impalliditi l’uno all’altro, quasi che il sangue fosse risucchiato dalle loro sventure. Romeo parte per Mantova, e non si rivedranno più se non nel sonno della morte. Nel frattempo Capuleti, il padre di Giulietta (personaggio di squallore e cinismo portentosi), ha organizzato le nozze di sua figlia con il Conte Paride. Non sa niente della storia di Romeo, e così impone alla figlia il matrimonio con Paride, anche per avvicinarsi al Principe (di cui Paride è parente). Giulietta tenta di dilazionare il matrimonio, ma viene messa alle strette e così finge di accettare. La Nutrice le aveva comunicato la morte di Tibaldo per mano di Romeo, ma proprio in quella situazione Giulietta si dimostra per la prima volta una grande donna: «Parlerai male di tuo cugino?» grida la Nutrice. «Dovrò parlare male di mio

L’Italia è con l’Inghilterra il campo d’azione del Bardo e il Lombardo Veneto è la regione più implicata nella sua geografia marito?», replica duramente Giulietta con una maturità fino ad allora inaspettata. Ma proprio qui si inserisce il rovinoso stratagemma di Frate Lorenzo, che consiglia a Giulietta di fingersi morta attraverso il suo filtro, per poi resuscitare quando Romeo fosse di nuovo a Verona. La giovane accetta il suo consiglio e, dopo un terribile monologo degli orrori, ingoia il filtro del Frate e, il giorno fissato per le nozze, diviene quello del suo funerale. Nel frattempo Romeo si trova a

Mantova, dove acquista da uno speziale un potentissimo veleno. Ma Frate Lorenzo non riesce ad avvisarlo della sua messinscena, e così Romeo ritorna a Verona convinto che Giulietta sia morta: va a trovarla presso la tomba di famiglia, dove si imbatte nel giovane Paride che viene da lui ucciso, e quando vede Giulietta morta non esita a bere il potente veleno. Giulietta si ridesta, vede accanto a lei Romeo morto, e non esita anche lei a fare altrettanto. Il risultato è evidente: il grande giovane amore schiacciato dalle strategie e dalle connivenze politiche degli anziani. Alla fine il Principe, che non «perde il suo posto» e gioca addirittura sul fatto di aver perduto ben due parenti a causa di tale diatribe, deve riconoscere per forza come «tutti siamo puniti». Per la prima volta i due vecchi Capuleti e Montecchi si stringono la mano,

sempre per ordine del Principe, e soltanto davanti ai cadaveri dei loro figli pervengono a una apparente ancorché cinica riconciliazione.

Una storia terribile, di Amore e Morte, tanto più candida, giovane, semplice e alla portata di tutti. Un testo che si può definire epocale per la sedimentazione che ha conseguito e tuttora consegue: persino i bambini delle scuole medie inferiori, quando vengono forzatamente portati a teatro nelle stanche e artificiose repliche mattutine, non resistono al fascino di Romeo e Giulietta e seguono la vicenda con attenzione, apprensione e trepidazione. Tanto che quando Romeo sta per bere il veleno gli gridano sempre «No! Non farlo!». Ed è forse questa la prova più bella e assoluta dello straordinario testo che Shakespeare ci ha regalato.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal “Daily Times” del 22/01/2010

Pakistan: pace impossibile? di Fareed Sharouk l Segretario americano alla Difesa Robert Gates ha fatto un annuncio importante. Ha detto infatti che al Qaeda può fomentare una guerra fra India e Pakistan, un’ammissione franca sul ruolo e l’importanza dei protagonisti di un’area complicata in cui la pace è sempre in agenda. Gates ha sottolineato che i terroristi che fanno parte del “sindacato qaedista”– in cui rientrano i pakistani del Tehrik-i-Taliban, i talebani afgani e il Lashkar-e-Tayyaba – stanno cercando di destabilizzare “non soltanto Afghanistan e Pakistan, ma potenzialmente l’intera regione, provocando un conflitto persino fra Delhi e Islamabad”. La vera incognita riguarda la capacità dei due vicini a resistere a queste macchinazioni. Dall’Irlanda allo Sri Lanka, un fatto noto ai negoziatori di pace che operano per tutto il mondo è che esistono elementi più aggressivi in ogni lato delle parti coinvolte in un negoziato, e che questi compiono attività di sabotaggio. Coloro che operano contro la pace indopakistana hanno cercato e cercano in maniera consistente di mettere dei bastoni fra le ruote degli operatori di pace. Soltanto per fare alcuni esempi si potrebbero ricordare il massacro degli indù avvenuto in Kashmir nell’aprile del 2006, gli attentati alle ferrovie di Mumbai avvenuti nel luglio dello stesso anno o la tragedia del Samjhota Express del febbraio 2007.

I

Fortunatamente, la parte indiana si è esercitata nel campo della pace e in tutte e tre le occasioni non ha permesso che venisse seriamente messo in discussione il processo di pace. Ma dopo l’attacco più serio e brutale, quello avvenuto contro gli alberghi di Mumbai nel 2008, i cospiratori che non vogliono l’accordo sembrano aver raggiunto lo scopo. Ora,

tutto quello che resta da fare è preparare e portare a termine un altro attentato come quello: sarà questione poi di attimi vedere scatenarsi una guerra fra India e Pakistan. O almeno, questo è quello che fanno pensare le reazioni indiane quando si verificano incursioni sul territorio nazionale da parte di gruppi pakistani. Delhi e Islamabad devono guardarsi in faccia e considerare quanto sia nei loro interessi ingaggiare una nuova guerra. Quella indiana è un’economia emergente, e il suo governo ha cercato di creare nuove politiche di pace con i propri vicini. Questo modo di fare e di agire sembra l’unico corretto, se si vuole sopravvivere nel mondo competitivo con cui ci troviamo a fare i conti.Eppure, l’India continua ad agitare una retorica da guerra, e questo si spiega soltanto con il timore che il Pakistan possa in un certo senso “patrocinare”degli elementi sovra-statali, incaricati di spargere disastri e sangue nei Paesi a lui confinante. Islamabad, da parte sua, si è completamente chiamato fuori dalle attività di coloro che ha definito “attori non-statali”: eppure, gli attentatori di Mumbai avevano dei chiari legami con il Pakistan. Questo è stato sufficiente per far mantenere vivo il sospetto negli animi di Delhi, Washington e tutto il resto del mondo. Questi pensano che non sia stata detta tutta la verità su quegli attacchi, e ritengono che quanto meno alcune sezioni del mondo istituzionale pakistano stiano ancora sostenendo i fon-

damentalisti islamici. Se vuole veramente la pace, come dice, il Pakistan deve affrontare ed eliminare tutti quegli elementi che hanno in testa ancora il jihad. Se esistono sul territorio delle parti collegate con lo Stato che sono, o sono state, coinvolte con il mondo dei mercenari e del loro credo di sangue devono essere guardate molto da vicino. Gli eventi attuali mostrano che una politica lassista è divenuta troppo pericolosa per tutti coloro che vogliono raggiungere degli scopi, che siano strategici o di altra natura.

È inoltre imperativo che tutte le istituzioni dello Stato – militari, di intelligence o di governo – si ripuliscano dagli errori del passato, stringano una nuova pace fra di loro e si coordinino per sconfiggere il nemico comune. Soltanto dopo aver fatto questo il Pakistan potrà convincere il mondo che coloro che agiscono con il terrore sono veramente elementi “non statali”. È nell’interesse di Islamabad fare pace con i suoi vicini. Stesso discorso vale per l’India, e per tutti coloro che sono implicati in questi dialoghi. È in gioco la salvezza dell’area.

L’IMMAGINE

Come è possibile che nel 2010 permanga e proliferi la discriminazione sessuale? Vorrei dare un consiglio di buon senso a tutti i giornalisti, a chi si occupa di comunicazione, e in genere, a tutte le persone. Al tg ho sentito questa notizia: «in Italia due donne hanno scoperto una proteina speciale...».Tempo fa ho sentito una notizia analoga: «scoperto il vaccino XY da tre italiani, tra loro due donne» Ora, troppo spesso se le protagoniste della notizia sono donne non si dice il loro mestiere, ma il loro sesso! Ma che modo di comunicare è? Avete mai sentito dire: «l’inter ha vinto per 3 a 0, uno dei marcatori è nero» oppure «scoperta la cura per il virus Z, uno dei medici è ebreo». Insomma, se la discriminazione razziale e religiosa non è più un fattore quotidiano della nostra vita, lo si vede anche da queste piccole cose. Mentre, nel bene o nel male, una certa discriminazione sessuale permane e lo si vede proprio da queste forzature. Parliamo quindi di calciatori, insegnanti, medici e chi se ne importa se sono uomini o donne, l’importante è che siano brave persone, e che siano felici del proprio lavoro.

Fabio Barzagli

EASYJET E LA MEMORIA EasyJet si scusa sinceramente con tutte le persone che si sono sentite offese dalle immagini inappropriate scattate al Memoriale dell’Olocausto di Berlino e che compaiono in un servizio fotografico all’interno dell’inflight magazine della compagnia aerea di questo mese. Il giornale è prodotto da Ink, una società esterna, ed easyJet non era a conoscenza delle immagini che sarebbero apparse sul numero di novembre. Come conseguenza dell’accaduto, la compagnia sta rivedendo il proprio rapporto con l’editore e ha immediatamente ritirato tutte le copie del giornale dagli aerei.easyJet, che avvicina ogni giorno tante culture e religioni diverse, è molto rammaricata per

questo servizio fotografico che giudica insensibile e sconsiderato, il cui fine avrebbe dovuto essere quello di mettere in risalto i luoghi d’interesse di Berlino e sicuramente non quello di offendere qualcuno.

Ufficio Stampa easyJet

Arte in punta di piedi Dopo tante ore passate a decorarli, speriamo che questi “artigli” non si spezzino! Smalti e limette sono accessori decisamente superati per i fanatici della nail art, una forma di body art che trasforma le unghie in veri e propri “quadri” decorati con strass, fiocchetti, piume e perline. Quella per gli unghioni decorati è una passione tutta nipponica

PROBLEMI DEL SURPLUS IMMIGRATORIO L’oligarchia - politica, religiosa, economica, sindacale e “intellettuale”- tende a preferire le migrazioni di massa. Non il popolo: il 16% dei britannici è favorevole all’immigrazione, il 47% contrario. Spesso si esagera il fabbisogno di lavoratori immigrati. L’eccedenza migratoria ostacola la crescita della meccanizzazione e della produttività. Per ritardare la

cessazione d’attività improduttive e superate, si ricorre allo schiavismo d’immigrati. A lungo andare, gli immigrati costano per abitazione, istruzione, assistenza, “mediazione culturale”, incomprensioni linguistiche; nonché per gli oneri aggiuntivi, relativi a criminalità, tumulti e carcerazione. Gli immigrati ottengono più assistenza sociale di quanta

ne finanzino: sono relativamente poveri e presentano un’elevata disoccupazione, come pure un basso tasso medio di partecipazione alla forza lavoro. Anche gli immigrati invecchieranno e potranno accentuare la crisi dell’assistenzialismo dispendioso. Gli immigrati si lamentano, ma stanno meglio che nei Paesi originari. Essi spediscono “rimesse”,

cioè soldi nelle aree di provenienza, soldi il cui potere d’acquisto non si riversa a beneficio diretto della nazione ospitante. L’immigrato accampa aspettative e pretese: si emancipa e può diventare il signor “Conosco i miei diritti”, secondo l’esperienza narrata da Oriana Fallaci. Senza l’adeguata considerazione dei doveri.

Franco Padova


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Un’altra delle piccole miserie della vita umana

CICCHITTO… IL CECCHINO Bordate d’altri tempi (ovviamente i tempi del Cinghialone) quelle sparate da Fabrizio Cicchetto alla Camera dei Deputati nel dibattito sull’attentato a Berlusconi. Strano. Mentre il Capo dal San Raffaele spargeva a piene mani rassicurazioni e gesti di amore e di perdono, qualche parallelo più in giù, nella Città Eterna che troppe ne ha viste, il mite Fabrizio si trasformava in “bravo manzoniano” ad attaccava a testa bassa. Che sia un gioco delle parti o una rappresentazione della casa degli specchi dove nulla è come sembra? Strano. Proprio Fabrizio Cicchetto, specializzato nel diffondere messaggi rassicuranti, proprio Fabrizio Cicchetto sempre in linea con i toni conciliatori del presidente della Repubblica, proprio Fabrizio Cicchetto, il reduce di tante battaglie, il socialista passato senza colpo ferire (forse proprio per questo) dai fasti craxiani alla corte dell’Uomo di Arcore, proprio Fabrizio Cicchetto il mite. Perché? Perché proprio lui, tanto per rimanere in clima manzoniano, ad accendere la miccia, ad esacerbare glia animi, e a scatenare una sorta di caccia all’untore, una corrida sanguinolente, una indicazione di reità? Non abbiamo una risposta, ma pos-

Sebbene Mauve mi assicuri che, lavorando qui per qualche mese e poi ritornando da lui, diciamo in marzo, sarò in grado di eseguire disegni vendibili, mi trovo ora in un periodo molto difficile. Aumentano le spese per lo studio, i modelli, i materiali da disegno e da pittura, e ancora non guadagno nulla. È bensì vero che papà mi ha detto che non devo preoccuparmi per le spese necessarie e anche che è molto soddisfatto di quanto ha saputo da Mauve sul mio conto e degli studi e dei disegni che ho portato a casa sua, ma mi dispiace dover pesare su di lui. Spero che tutto possa andare a finire bene, ma comunque è una grave preoccupazione per me. Da quando sono qui papà non ha potuto trarre da me alcun vantaggio e più di una volta, ad esempio, mi ha comperato un paio di pantaloni e una giacca, di cui avrei preferito fare a meno. Non è che non voglia che papà spenda denaro per me, ma il fatto è che gli indumenti in questione non mi vanno affatto bene e quindi mi servono poco o nulla. Beh, questa è un’altra delle piccole miserie della vita umana. Inoltre, come già ti ho detto, detesto non essere completamente libero e, sebbene non debba rendere i conti a papà proprio al centesimo, lui sa sempre quanto spendo. Vincent Van Gogh al fratello Theo

ACCADDE OGGI

NON SERVIRSI DELLE STATISTICHE PER UNA LOTTA POLITICA AL GOVERNO Che la disoccupazione sia in crescita non lo nega nessuno, ma non è corretto assumere il dato delle domande presentate all’Inps, come se dietro ad ogni pratica ci fosse una persona in carne ed ossa. Molte domande, soprattutto nei settori dove il fenomeno della stagionalità è più frequente, possono riguardare le stesse persone che le ripetono in diversi periodi. È il caso allora di avere equilibrio e di non servirsi delle statistiche per condurre una lotta politica al governo. Lo stesso discorso vale per le ore di cassa integrazione, che sono sicuramente aumentate e di tanto, ma il cui uso effettivo è stato pari a circa il 60% di quelle richieste ed autorizzate.

Francesco Giuliano

GARANZIA LEGALE E CATENE DI PRODOTTI ELETTRONICI L’Antitrust ha aperto un’istruttoria contro le principali catene di distribuzione di prodotti elettronici: non applicherebbero la legge sulla garanzia, grazie alla quale i venditori, quando non funziona il prodotto acquistato devono garantire riparazione, sostituzione o resa dei soldi. Migliaia sono le segnalazioni che pubblichiamo sul nostro sito Internet. Il trucco dei commercianti si basa sul fatto che esistono due garanzie sui prodotti: quella dei produttori: mediamente un anno e normata dai medesimi produttori, con tempi, modi e costi indicati nei depliant che vengono allegati al prodotto; quella di legge: due anni, fornita dai commercianti sui vizi di produzione e/o conformità. Regolata dal codice del consumo, è molto chiara: il

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

23 gennaio 1918 Viene fondata l’Armata Rossa

1920 I Paesi Bassi rifiutano di consegnare l’ex Kaiser Guglielmo II di Germania agli Alleati 1932 Viene pubblicato il primo numero de La Settimana Enigmistica 1933 Nasce l’Istituto per la ricostruzione industriale, con decreto regio, a capo del quale Benito Mussolini chiama Alberto Beneduce 1937 A Mosca, 17 importanti esponenti comunisti vengono processati con l’accusa di aver partecipato ad un piano guidato da Leon Trotsky per rovesciare il regime di Joseph Stalin e assassinarne i capi 1941 Charles Lindbergh testimonia davanti al Congresso e raccomanda che gli Usa negozino un patto di neutralità con la Germania nazista 1943 Seconda guerra mondiale: i britannici riprendono ai tedeschi la città di Tripoli 1950 La Knesset approva una risoluzione che dichiara Gerusalemme capitale di Israele

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

venditore deve prendere direttamente in carico il problema e risolverlo in tempi congrui e senza costi per il consumatore. Invece, è un continuo boicottaggio, negando questo diritto e rimandando i consumatori ai centri assistenza dei produttori (spesso lontani dai luoghi dell’acquisto), nonché tempi biblici per risolvere i vari problemi.Ai consumatori quasi sempre non resta che agire con raccomandata a/r di messa in mora con cui intimare e ottenere il rispetto della legge. Questo del diniego alla garanzia legale è il maggiore e più reiterato illecito nei rapporti tra consumatori e commercianti. I marchi coinvolti nell’istruttoria dell’Antitrust sono Mediaworld, Unieuro, MarcoPoloExpert, Euronics e Trony.

Aduc

IN ITALIA IL LAVORO VA OFFERTO PRIORITARIAMENTE AGLI ITALIANI Vanno escluse penalizzazioni d’italiani nell’assegnazione di case pubbliche. Inoltre, deve essere stroncato il ricorso al lavoro in nero di stranieri schiavizzati. Le opportunità di lavoro che sorgono in Italia vanno offerte innanzi tutto a italiani. Questi sono eredi e discendenti di quei genitori e avi che hanno generato il benessere italiano, mediante virtù, sacrificio, fatica, parsimonia, investimento, etica del lavoro e mentalità produttiva. Analogamente, il premier laburista Gordon Brown ha affermato: «Posti di lavoro britannici a favore di lavoratori britannici» British jobs for british workers! -, avendo constatato i molteplici inconvenienti dell’eccedenza immigratoria.

Franco Padova

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

siamo fare delle supposizioni, per quanto la cosa non ci diverta affatto. E quello che ne viene fuori - ahimè purtroppo scendendo nel girone malefico dei convincimenti andreottiani, per cui a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina - è che siano del tutto false le dichiarazioni circa la durata della legislatura, la volontà di fare le riforme ed altre fandonie ad uso e consumo dei gonzi, e che in realtà molto si pensi a elezioni anticipate, a un redde rationem finale, ad un cupio dissolvi di sapore medievale. Chi non sta con me peste lo colga, come recitava Amedeo Nazzarri in altri tempi. Una sorta di chiamata alle armi per spaccare ancora in due il Paese, tra buoni e cattivi (sempre i comunisti e chi sta con loro), una riedizione del “veltrusconismo” in salsa rivisitata. Preoccupa molto, in questa fase, dopo tante delusioni e dopo tanti tentativi di cancellazione della nostra esperienza politica, l’accorato appello rivolto a Casini e all’Udc, quasi un tentativo di metterci con le spalle al muro, un po’strumentalmente profittando del clima di umana solidarietà manifestata senza remore. Quindi attenzione e prudenza. Caveo danaos ed dona ferentes…. Pino Lucchesi C I R C O L I LI B E R A L LU C C A

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PAGINAVENTIQUATTRO Il caso. Nasce una «lega» per un campionato senza i neri

Non solo Nba. Ora negli Usa il basket va di Francesco Napoli ome dire: un po’bisogna pure capirli gli americani di oggi se vengon fuori con una trovata di questo genere. Hanno appena varato l’All-American Basketball Alliance, il primo campionato professionistico di basket riservato esclusivamente a giocatori di razza bianca che prenderà le mosse a partire da giugno. Detto, fatto. È iniziato un gran can can e polemiche a non finire. Ma come: nel paese di Abraham Lincoln e di Martin Luther King, di una guerra fratricida montata proprio attorno ai temi del razzismo tra nord e sud, e del Klu Klux Klan? Sì. Certo, ora che perfino il loro Presidente è un nero, si potrà ben comprendere questa particolarissima necessità, né più né meno, facendo solo un po’ di tara, pari a quella di qualche frescone politico di turno quando propone un campionato di calcio della Padania o amenità di stessa matrice che per fortuna, e chiudo sulla nostra patria, sembrano iniziative in via di estinzione.

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Credo poi che siccome nelle leghe professionistiche americane più note la prevalenza degli atleti di colore è davvero preponderante, con qualche eccezione europea molto osannata - come quelle degli italiani Gallinari Danilo da Sant’Angelo Lodigiano (in forza ai New York Knicks) e di Bargnani Andrea da Roma (nei Toronto Raptors) - qualcuno ci abbia pensato su, forse è anche spinto da qualche ufficio marketing non ancora identificato, ed ecco che mette in piedi l’AABA. Regole per entrare in questa lega: oltre 10 mila dollari d’ingresso, la principale è che tutta la rosa sia formata da giocatori rigorosamente nati negli Stati Uniti, e quindi niente mezzo sangue portoricani o cubani sia ben inteso, ed avere entrambi i genitori di razza bianca caucasica. Caucasica? A me risultava ancora un aggettivo di natura geografica, pertinente dunque al Caucaso, a quell’area tra Europa orientale e Asia con le tristemente note Cecenia e Ossezia (del sud e del nord), ma sono andato un po’ a fondo

e ho letto che questo particolare aggettivo ha col tempo acquisito altri significati, specialmente in occidente e negli Usa in particolare.

Nelle terra d’oltremare è venuto a essere un sinonimo, politicamente corretto, di bianco, fatto salvo poi, guarda come son strambi questi americani, che gli abitanti del Caucaso non sono di carnagione molto chiara né di altezza elevata. E passi per il colore, ma con l’altezza come la mettiamo nome visto che gli appartenenti caucasici alla AABA altro non devono fare che giocare a basket dove, notoriamente, l’altezza è mezzo successo? Allora questi della

America, e in particolare nello sport, i veri americani, e quindi i bianchi, stanno cominciando a essere una minoranza». Non ci sarà spazio per il razzismo, come dice lui, ma io in queste espressioni le leggo. E poi quando questo fantastico essere (intendo con questo aggettivo parlare di un appartenente a una sfera della fantasia di difficile comprensione) vien fuori con amenità del tipo che visto che i neri sono ormai padroni della Nba solo per questo succede che - il riferimento è a risse in campo e al caso Arenas, giocatore dei Washington Wizards che teneva armi nell’armadietto in spogliatoio – “uno va alla gara e deve aver paura

in BIANCO La motivazione ufficiale è ambigua: «Niente razzismo in tutto ciò. Il problema è che in America i veri americani, ossia i bianchi, stanno diventando una minoranza» lega AABA credono ancora nella validità scientifica del concetto di “razza” visto che il termine caucasica si affibbia a una specifica razza di Homo sapiens. E pertanto quando la questione è approdata ad Augusta, perché questa città della Georgia (contea di Richmond), era stata scelta come sede di una delle 12 squadre dell’AABA, il sindaco locale Deke Copenhaver ha bocciato la proposta dichiarando di essere «un sostenitore grande della validità delle leghe professionistiche minori. Però, in tutta coscienza, non posso appoggiare un’iniziativa che va contro lo spirito d’integrazione per promuovere il quale stiamo lavorando duramente». Ovvio, no?

Eppure il geniale capoccia dell’AABA, tal Don Lewis, ha replicato sostenendo che «non c’è spazio per l’odio e il razzismo in ciò che stiamo facendo. Il problema è che in

d’essere minacciato e perfino attaccato sugli spalti”. Già, psignor Lewis si accomodi in uno dei nostri stadi calciopedatori per sentire esplosioni a go go.

La cosa giusta l’ha detta Mathis Donte, da Houston (Texas) e italiano di passaporto per avere sposato una calabrese, capitano di colore della Snaidero Udine, gloriosa società del basket italiano del profondo nordest, che continua a non credere alla notizia: «È un’idea stupida – ha commentato, messo davanti al dispaccio d’agenzia –. Ci sono altre cose più importanti da risolvere al mondo, per esempio il terremoto ad Haiti. Non ho mai sentito un’idea del genere, suvvia siamo nel 2010... Nessuno vuole giocare a street ball anziché a basket, quello si pratica nei play-ground assieme agli amici. Partecipare a una lega del genere significa buttare soldi nel cesso. Soltanto negli Usa tutto è possibile».


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