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La forza segue la forza. È più

di e h c a n cro

difficile, diceva Fabio Massimo, adunare nelle avverse guerre la prima coorte che tutto un esercito

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Ugo Foscolo di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 26 GENNAIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Mossa a sorpresa dell’Udc che spiazza destra e sinistra. Il sindaco di Bologna si dimette per il “Cinzia-gate”

Sorpresa, i forni sono tre Il Pd tramortito dal successo di Vendola (e dal caso Delbono).Nel Pdl forti dissensi sulla linea Fitto. Casini lancia in Puglia la candidatura di Adriana Poli Bortone per sfidare il bipolarismo in crisi di Errico Novi

ROMA. «Ora chi ha tanto parlato di politicaq dei “due forni” sarà contento: i forni sono diventati tre»: Pier Ferdinando Casini spariglia il tavolo delle elezioni in Puglia e candida Adriana Poli Bortone: l’ex ministro ed ex amatissima sindaco di Lecce sarà la candidata dell’Udc che contenderà la poltrona di governatore della Puglia a Nichi Vendola che ha vinto le primarie della sinistra e a Rocco Palese che è stato candidato da Raffaele Fitto (e da Berlusconi) per il Pdl. Insomma, l’Udc sconfessa tutti i suoi critici, tutti coloro che avevano straparlato di opportunismo e di politica della convenienza elettroale e punta direttamente a un nuovo progetto di Italia, che oltrepassi il bipolarismo ingessato da Pdl e Pd: superando gli schieramenti tradizionali, questa candidatura guarda al futuro.

UNA REGIONE-LABORATORIO

DA BARI A BOLOGNA

Ora il voto utile è quello per il Centro

Il crack democrat si chiama territorio

di Giancristiano Desiderio

di Franco Insardà

vero: ora i forni sono tre. E i candidati non del «terzo forno», ma del «forno moderato» o centrale si chiamano Savino Pezzotta in Lombardia e Adriana Poli Bortone in Puglia: nomi importanti e di buona esperienza politica e amministrativa. La vittoria di Nichi Vendola alle primarie del Pd non è solo una sconfitta di Massimo D’Alema e di Pierluigi Bersani, ma anche la smentita del disegno politico in cui credeva Berlusconi: l’oscuramento dell’Udc e della politica dei cattolici liberali. C’è, invece, l’affermazione del disegno uguale e contrario: la visibilità di Pier Ferdinando Casini e l’affermazione della scelta dell’essere cattolici e liberali al di là della finta necessità di aggregarsi di qua o di là. Quando non ci sono le condizioni a destra né a sinistra, i moderati scelgono di giocare da soli.

ROMA. Adriana Poli Bortone è fiera della sua corsa, anche se non se ne nasconde i pericoli: «I sondaggi che ci sono stati su giornali locali a grandissima tiratura e in molte tv del territorio possono a buon diritto essere considerate le primarie del centrodestra. E queste primarie le ho vinte io. Il centrodesa locale però ha preferito far prevalere le logiche di casta del territorio piuttosto che quelle democratiche. La scelta che hanno fatto è il frutto di questa visione».

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ROMA. Il Pd è sotto sopra, da Bari a Bologna. ILa vittoria di Nichi Vendola alle primarie è stata commentata con eleganza da Pierluigi Bersani: «Saremo con lui, ma la nostra linea non cambia. Bisogna aprirsi a nuove alleanze». Che, però, in Puglia sembrano precluse dalla decisione di Pier Ferdinando Casini di andare da solo. D’altra parte, l’alleato Idv non ha giocato una buona partita sul tavolo di Bologna: Antonio Di Pietro è stato il primo a gioire dopo la decisione di Flavio Delbono di dimettersi da sindaco di Bologna in seguito al cosiddetto «Cinziagate». Liberal ha chiesto a tre commentatori politici, Biagio De Giovanni, Paolo Pombeni e Gioavvani Sabbatucci, di analizzare questa doppia crisi. a pagina 4

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Parla Adriana Poli Bortone, l’outsider che può vincere

«Così sconfiggerò le due oligarchie» di Riccardo Paradisi

Il presidente della Cei interviene sulla crisi dell’etica pubblica

«L’organizzazione Usa è patetica» ha detto il nostro sottosegretario

L’appello di Bagnasco La bacchetta di Hillary La Clinton contro Bertolaso: «Haiti non è L’Aquila, basta con queste polemiche da bar sport»

«All’Italia servono serietà e riforme condivise. Sogno una nuova generazione di politici cattolici» di Guglielmo Malagodi

ROMA. In politica c’è bisogno di una nuova generazione di credenti che «pur nel travaglio della cultura odierna e attrezzandosi a stare sensatamente dentro ad essa, sentono la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti, e per essa sono disposti a dare il meglio dei loro pensieri e dei loro progetti»: è l’appello del presidente della Cei Angelo Bagnasco.

IL CARDINALE RICONFERMATO

Bertone, il Papa ha un alter ego a conferma del cardinale Bertone come Segretario di Stato ha un doppio significato: risulta confermata la linea sobria seguita da Papa Benedetto nel governo della Chiesa e ne esce consolidata la ricaduta italiana.

ROMA. «Basta con queste polemiche da bar sport: Haiti non è L’Aquila». Hillary Clinton ha risposto in modo duro a Guido Bertolaso, il monarca italiano della Protezione Civile, il quale aveva pontificato in dirteta tv a proposito di una gestione «patetica degli aiuti da parte degli Usa». Secondo la logica di Bertolaso, arrivare sul luogo del disastro per farsi vedere dai fotografi è male; fare la stessa cosa in collegamento con la tv italiana, invece, è roba da encomio.

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di Luigi Accattoli

L

a pagina 10 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

di Alessandro D’Amato

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

16 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Moderati. Maggioranza presa in contropiede. «La nostra è un’indicazione contro il populismo», dice il leader dell’Udc

Il Laboratorio Puglia

Mossa a sorpresa di Casini che lancia l’ex sindaco di Lecce dopo la vittoria di Vendola alle primarie e la candidatura di Palese per il Pdl di Errico Novi

ROMA. A ricordarlo è la diretta interessata, Adriana Poli Bortone. «Tutti i sondaggi sottoposti a Berlusconi mi davano per vincente». Vero. È il presidente del Consiglio ad aver cercato fino all’ultimo di orientare i suoi verso l’ex sindaco di Lecce. Senza riuscirci. Con un colpo fulmineo, a poche ore dal diluvio vendoliano, è invece Pier Ferdinando Casini a impadronirsi della candidata moderata più forte per la Puglia. «Lo abbiamo sempre detto, un progetto nuovo che ci comprendesse non era identificabile con il progetto Vendola, perciò l’Udc correrà da sola e la candidata sarà la senatrice Adriana Poli Bortone, leader di Io Sud», spiega il numero uno dell’Udc in conferenza stampa.

Non c’era nulla di più semplice anche per il Pdl. La soluzione è stata lì fino all’ultimo, a un passo dall’essere afferrata. Invece i dirigenti del partitone unico si sono avvitati in un lungo week end di riunioni, prima a Roma quindi durante il convegno di Arezzo. Hanno scelto «in modo prepotente» secondo la lettura dell’ex ministro alle Risorse agricole: hanno indicato il deputato Rocco Palese, vicinissimo a Raffaele Fitto e capo dell’opposizione in Consiglio regionale nell’ultimo quinquennio. Il paradosso risiede nel fatto che la dirigenza del Pdl lavora ormai da settimane per illustrare a Berlusconi la necessità dell’alleanza con l’Udc, dopodiché finisce per lasciarsela sfuggire proprio di fronte alla candidatura che l’avrebbe resa più naturale: la Poli Bortone è stata eletta infatti sotto le insegne berlusconiane nel 2008, ha mostrato interesse per il progetto della Costituente di centro già al seminario di Todi, poco meno di un anno fa, e di recente aveva comunque ricomposto i dissapori con Fitto. Avrebbe rappresentato dunque la sintesi ideale, il nome per mettere effettivamente Vendola in minoranza con una coalizione moderata. Il Pdl si è invece fatto sfuggire di mano la situazione, ha ufficializzato l’investitura per Palese domenica quando le notizie sulla schiacciante vittoria

Il senso di una decisione che punta direttamente al futuro del Paese

Questa volta il voto utile è quello per il Centro di Giancristiano Desiderio vero: ora i forni sono tre. E i candidati non del «terzo forno», ma del «forno moderato» o centrale si chiamano Savino Pezzotta in Lombardia e Adriana Poli Bortone in Puglia: nomi importanti e di buona esperienza politica e amministrativa. La vittoria di Nichi Vendola alle primarie del Pd non è solo una sconfitta di Massimo D’Alema (e poi di Pierluigi Bersani), ma anche la puntuale smentita del disegno politico ed elettorale in cui credeva Silvio Berlusconi: l’oscuramento o la scomparsa dell’Udc e, per essere più completi ed incisivi, della politica dei cattolici liberali. C’è, invece, l’affermazione del disegno uguale e contrario: la visibilità di Pier Ferdinando Casini e l’affermazione della scelta dell’essere cattolici e liberali al di là della finta necessità di aggregarsi di qua o di là. Quando non ci sono le condizioni per realizzare un bipolarismo mite e ragionante e prevalgono le scelte radicali, tanto a destra quanto a sinistra, i moderati scelgono di giocare da soli.

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venienza politica e culturale esprime il valore della presenza della “unione” di centro: fino a quando la democrazia dell’alternanza sarà questa militarizzazione delle coscienze e dei linguaggi che si è instaurata, i cattolici liberali non si faranno assorbire in una logica politica che chiede il sacrificio dell’intelletto. Il Pdl nella versione berlusconiano-leghista si dovrà abituare a questa realtà: i suoi confini non coincidono con il centro politico, ma iniziano proprio là dove inizia il centro politico. La scelta dell’autonomia in Puglia e in Lombardia risponde a una strategia nazionale che è ben visibile nella scelta delle alleanze nelle altre regioni. Le risposte che verranno dal territorio, non semplicemente in termini di vittoria e sconfitta, ma nei casi della presenza delle singole forze politiche renderà più chiara la vulnerabilità e incompletezza del bipolarismo estremo o sbilanciato.

La scelta dell’Udc è non solo legittima, ma anche necessaria per poter contrastrare la normalizzazione berlusconiano-leghista

È ciò che prima di tutto e di tutti proprio Berlusconi non avrebbe voluto perché sa che ora il voto per l’Udc e Adriana Poli Bortone è il vero e unico voto utile per battere Nichi Vendola. L’alter ego di Raffaelle Fitto - Rocco Palese - è fin troppo palese (mi si concesso il facile ma reale gioco di parole) che non abbia frecce elettorali e politiche al suo arco. Il voto utile è il voto per il “forno moderato”. La risposta data sul campo è sempre la migliore e più attendibile. La candidatura della Poli Bortone, per il modo in cui è maturata e l’esperienza dell’ex ministro ed ex sindaco di Lecce e, non ultimo, per la sua pro-

La democrazia dell’alternanza, del resto, si basa su un principio molto semplice: non la scomparsa del centro - come ingenuamente o con arroganza si dice - ma per così dire lo sconfinamento del centro a destra e a sinistra in modo tale che la politica moderata e ragionante sia la stessa regola che fa funzionare il sistema dell’alternanza. La “anomalia”di Casini, dell’Udc e dei cattolici liberali è la cartina di tornasole del bipolarismo all’italiana: non funziona perché è incompleto, non si fonda su valori bipartisan e vuole arruolati e non partecipanti o liberi cittadini. Ha davvero poco senso dire, come hanno fatto in questi giorni i berlusconiani e qualche ex di An, che Casini non sceglie o sceglie in modo incoerente: è evidente, infatti, non solo che la scelta di Casini è legittima, ma è necessaria se non si vuole lasciare campo libero alla normalizzazione berlusconiano-leghista. A Berlusconi non dispiace essere contrastato dalla sinistra, ma non tollera o tollera male essere contraddetto dai moderati. Perché si evidenzia la sua contraddizione.

del governatore uscente ai danni di Francesco Boccia hanno cominciato a diffondersi. Coordinatori e maggiorenti di via dell’Umiltà adesso si trovano spiazzati di fronte al sorpasso di Casini, frastornati dalla lentezza delle loro stesse decisioni.

Evapra in un attimo anche il mantra anti-centrista delle ultime settimane, quello sull’impraticabilità del «doppiofornismo». «Sarete ora tutti contenti, vi piace tanto la politica dei due forni e ora i forni in questo caso sono tre», ironizza Casini con i cronisti. Battuta evidentemente rivolta ai censori della maggioranza che hanno preferito perdersi in anatemi anziché discutere di politica. Difficile non notare come il vertice del Pdl si sia perso un po’ per strada da quando Berlusconi, anziché esercitare la leadership si è assegnato l’inedito ruolo del blocker. Né si può ignorare come lo stesso Cavaliere avesse trovato Rocco Palese «troppo folk» per i suoi gusti, oltre a riscontrarne nei sondaggi la debolezza rispetto all’ex sindaco di Lecce. Persino Vendola, ebbro di vittoria, si è abbandonato a considerazioni sul centrodestra che «fuori della ridotta leccese (anche Palese è salentino, nda) non riesce ad attingere ad alcuna energia, non riesce a promuovere uno straccio di classe dirigente». Al di là del campanilismo interprovinciale resta il panorama di un Pdl spiazzato e perplesso di fronte al clamoroso gol incassato dall’Udc in contropiede. Sopravvive, questo sì, qualche riflesso condizionato come quello di Daniele Capezzone, che anziché ammettere lo scacco politico dichiara inopportuno «recitare troppe parti in commedia come l’onorevole Casini tenta di fare». Si contano, è vero, peana per Palese da parte di alcuni parlamentari pugliesi, dal sottosegretario Alfredo Mantovano all’altro leccese Ugo Lisi. Ma si nota anche una certa irrequietudine, per esempio dietro le parole di Sandro Bondi – che domenica scorsa non ha partecipato al rush finale dell’investitura a Palese: «Penso che l’Udc dovrebbe riflette-


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«Il clan Fitto ha ignorato persino Berlusconi. E Vendola parla bene ma governa male»

La sfida di Poli Bortone: «Sconfiggerò le due caste» di Osvaldo Baldacci

ROMA. Adriana Poli Bortone dunque si candida alla presidenza della Regione Puglia con il sostegno dell’Udc. Ministro delle Risorse agricole nel primo governo Berlusconi, due volte sindaco di Lecce, la professoressa Poli Bortone lancia la sua sfida a Nichi Vendola. Ma anche al candidato ufficiale del centrodestra: il consigliere regionale Rocco Palese, un fedelissimo del ministro Fitto. Il percorso per arrivare alla sua candidatura è stato tortuoso senatrice Poli Bortone. Tortuoso e faticoso perché da un lato Casini voleva giustamente mantenere un impegno assunto con D’Alema e stava percorrendo la strada dell’alleanza moderata in Puglia mantenendo l’ impegno fino alle primarie. Dall’altra parte io avevo aperto un dialogo con il Pdl immaginando un’intesa che eventualmente comprendesse L’Udc se l’esito fosse stato quello che poi le urne delle primarie hanno sancito, ossia la vittoria di Nichi Vendola e la sua candidatura alla presidenza della Regione. Insomma il tentativo era quello di fare un’operazione a largo raggio, cercando di intercettare e rappresentare i nuovi fermenti che in Puglia ci sono. Invece lassù qualcuno non mi amava evidentemente. Lassù a Roma? Eppure parte del centrodestra spingeva per lei. Salvatore Tatarella, il fratello di Pinuccio, diceva pochi giorni fa che per il centrodestra sarebbe stato un suicidio non candidarla. E anche Berlusconi era favorevole al suo nome. So benissimo che il presidente era disponibile alla mia candidatura e devo dire che a lui io non ho davvero nulla da rimproverare. Era il primo a voler allargare questa alleanza, un’operazione che se realizzata avrebbe avuto un significato simbolico straordinario di attenzione alle tematiche sempre trascurate del meridione. Non solo, avrebbe anche recuperato al centrodestra in Puglia

un’alleanza moderata con l’Udc e di conseguenza una platea di elettori. Ma da Roma non agisce solo Berlusconi, agisce anche chi in Puglia ha interessi di rappresentanza immediati su cui intende mantenere un’esclusiva escludendo altri. In particolare chi come me ha un grande consenso. È appunto quello che diceva Tatarella. Salvatore Tatarella è un esponente che vive sul territorio, ne ha il polso, ne sente l’umore. E del resto i sondaggi che sono stati fatti in regione attestavano tutti che ero io la più suffragata. Ma evidentemente per qualcuno i sondaggi non dovevano contare stavolta. Il ministro Fitto ha inteso bruciare l’intesa tra il mio movimento ”Io Sud”, Udc e Pdl, già sei minuti prima che si

le primarie dalla sinistra radicale di Vendola? Io penso proprio di si.Vede, qui badano alla capacità amministrativa e politica delle persone. Non c’è più un elettorato vischioso, ideologico, sicchè anche l’elettorato di sinistra che per la Puglia chiede un governo realista e fattivo potrebbe far parte di questo progetto. Come sindaco di Lecce io ho sempre collaborato con le altre città della Puglia, facendo cose importanti, per esempio insieme al sindaco Pd di Bari Emiliano. Del resto questa disponibilità a fare scelte sulle persone poteva essere un elemento positivo, per creare posizioni nuove e dinamiche sul territorio. Lo ha capito solo l’Udc. Ora quale sarà il rapporto con l’Udc? Si baserà su valori comuni innanzi tutto. Io sono una donna di destra, non posso dimenticare la mia formazione, i temi della socialità, della famiglia. Ma io credo che queste battaglie di fondo, che riguardano i valori non negoziabili, siano le stesse dell’Udc. A cui mi legano anche l’attenzione per le identità territoriali, il rispetto della diversità e della dignità della persona. Ora vi lega anche l’obiettivo di mandare a casa Vendola e governare insieme la Puglia. Obiettivo prioritario quello di battere Vendola. Per costruire un area moderata di governo il cui embrione è proprio l’alleanza che si è stabilita in Puglia. Un ‘alleanza nuova, dinamica, che lancia a Vendola la sfida che Fitto ha già perso una volta e non si vede perché dovrebbe vincere ora candidando un suo discepolo. Vendola si batte entrando nel merito dei programmi e delle cose ma anche con l’entusiasmo e l’investitura popolare. Qual è il merito delle cose non fatte da Vendola? Vendola espone in ogni occasione un lungo elenco di cose fatte che vede realizzate soltanto lui. La realtà è che in Puglia si registra un occupazione diminuita, le infrastrutture non sono state costruite, c’è un’incertezza gigantesca nella gestione dei rifiuti, sono stati sbagliati i tempi e i modi della programmazione territoriale.Vendola è un uomo intelligente, anche un oratore affascinante. Ma governare e parlare sono cose diverse.

Sono una donna di destra, non posso dimenticare la mia formazione: socialità e famiglia. Ma io credo che queste battaglie di fondo, che riguardano i valori non negoziabili, siano le stesse dei centristi

re seriamente sulla propria scelta azzardata di allearsi con la sinistra», dice il ministro, preoccupato in realtà che l’ostinazione sulla linea Fitto apra in Puglia una prospettiva moderata davvero alternativa a quella del suo partito.

È questa infatti la risultante delle quarantott’ore più frenetiche che la politica pugliese abbia vissuto negli ultimi anni: il laboratorio c’è eccome, non è quello sperimentato con

chiudessero le urne del Pd, immaginando la vittoria di Vendola e Casini libero dal suo impegno assunto con D’Alema. Ha fatto il nome di questo suo fedelissimo e ha creduto di chiudere così la partita. Eppure la partita è aperta. Il suo può essere il voto utile per mandare a casa Vendola e utile anche a un centrodestra vuole una candidatura più rappresentativa del territorio, alternativa a quella delle alchimie romano-territoriale Vede i sondaggi che ci sono stati su giornali locali a grandissima tiratura come La gazzetta del mezzogiorno e in molte tv del territorio possono a buon diritto essere considerate le primarie del centrodestra. E queste primarie le ho vinte io. Il centrodestra locale però ha preferito far prevalere le logiche castali del territorio piuttosto che quelle democratiche. La scelta che hanno fatto è il frutto di questa visione. Da questo punto di vista il voto alla mia candidatura sarà utile soprattutto a far passare un principio: la selezione della classe dirigente deve passare per il territorio non essere stabilito a tavolino. Potrebbe essere quello per lei un voto utile anche per l’elettorato della sinistra moderata e riformista battuta al-

Qui sopra, Massimo D’Alema e immaginato Adriana con Boccia, ma si tratta di un esperiPoli Bortone. mento altrettanto d’avanguardia. È A sinistra, la Puglia la regione in cui il confuso empirismo del Pdl è chiamato a mi- Pier Ferdinando Casini surarsi senza alibi con il Centro moe, nelle foto derato. Con la scelta di Palese, dice Casini, «il Popolo della libertà è con- piccole, dall’alto, Nichi Vendola vinto dell’autosufficienza». D’altra e Rocco Palese parte il Pd ha subito «una scelta del popolo della sinistra», prevalsa sul «progetto riformista del centrosinistra, che già aveva avuto successo

alle Provinciali». C’è stata disponibilità a costruire un percorso moderato e riformatore con chi era stato pronto a parlarne, cioè con il Pd: di più l’Udc non avrebbe potuto. Il leader centrista non manca di ringraziare Boccia e D’Alema, che «si sono assunti la responsabilità di illustrare una linea certo minoritaria rispetto al populislmo imperante oggi: nella vita si può vincere e si può perdere, ma quando si perde, se si sostengono delle buone ragioni, si

merita sempre rispetto». Non manca nemmeno una stoccata a chi tra i democratici non si era certo mobilitato per incoraggiare l’intesa con l’Unione di centro e oggi pretende da quest’ultimo la convergenza su Vendola: «Sono appelli ipocriti, riflettano su ciò che la loro scelta comporterà», dice Casini. E si riferisce chiaramente all’occasione, persa dalla sinistra riformista, di costruire insieme un laboratorio che ora è tutto nelle mani del Centro.


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Inchiesta. Biagio De Giovanni, Paolo Pombeni e Giovanni Sabbatucci sulla crisi di gestione e di progetto dei democratici

Il Pd scopre le sue Leghe Il centralismo democratico di una volta era troppo, ma ora il partito di Bersani non controlla più i suoi «leader locali». Da Bari a Bologna di Franco Insardà

ROMA. C’erano una volta i partiti.

laboratorio pugliese. Naturalmente Ora invece c’è il territorio che detta nulla in politica fallisce definitival’agenda politica all’intero Paese. E mente, ma è senza dubbio uno stop visto il suo osservatorio limitato – importante». tutto locale – non fa che presentare Per il professor Giovanni Sabbatucci una somma di egoismi, senz’ alcun «è giusto che in un ordinamento tencoordinamento tra quello che serve al denzialmente federale anche le realtà Nord e quello che chiede il Sud. Va da locali abbiano voce in capitolo, essensé che l’effetto è il caos, lo stesso che do le più adatte per selezionare eleè alla base dell’esplosione della spesa menti validi. Bisogna, però, anche pubblica – ormai BIAGIO DE GIOVANNI pari al 50 per cento del Pil – o Queste primarie dell’assenza di confuse più infrastrutture che un segno strategiche. di grande La vittoria di Nidemocrazia chi Vendola alle sono la riprova primarie pugliesi di un partito su Francesco che non esiste. Boccia non è il Definirei il Pd: prevalere di un il nichilismo esponente radipolitico cale su uno riformista. Non è neppure l’esito scontato di una guerra fratricida interna evidenziare che si tratta di una sconalla sinistra, che Santi Apostoli non fitta della politica e di una vittoria di ha voluto evitare. Dietro questo risul- una strumento come quello delle pritato si legge la volontà del territorio marie rispetto a una legittima facoltà di chiudersi a riccio pur di respingere dei partiti di scegliere i propri candidati. E questo mi piace meno». le influenze nazionali. La lettura della crisi del professor Non è per forza un male che la po- Paolo Pombeni punta sul «mancato litica locale difenda le sue prerogati- connubio tra il veltroniano partito deve dalle imposizioni dall’alto. Peccato gli elettori e la sopravvivenza del vecche nello specifico l’obiettivo del la- chio apparato dei funzionari. Oggi c’è boratorio Puglia era testare un fronte una direzione che incita i cittadini a Pd-Udc, che a oggi rappresenta l’uni- una politica dipietrista e pretende poi ca alternativa al berlusconismo e alla di avere il mandato per una politica di crisi che attanaglia il Paese. tipo più realstico. Questo è stato il Al termine della direzione del Pd il corto circuito». segretario, Pierluigi Bersani, ha Ma, come se non bastassero i probleconfermato «pieno e convinto soste- mi pugliesi, su Pierluigi Bersani si è gno a Vendola». E ha aggiunto che abbattuta anche la tegola delle dimis«in almeno dieci regioni abbiamo sioni del sindaco di Bologna, Flavio definito o stiamo definendo candi- Delbono. «A Bologna - osserva Pombeni - si è fatto lo GIOVANNI SABBATUCCI stesso discorso di mettere al verPer il Pdl tice dei profesBerlusconi sionisti della popiù che litica. Quando ho una droga sollevato dubbi, è una coperta inascoltato, sulla per le divisioni scelta di Delbointerne, no un membro ma sulla sua della direzione leadership del Pd ha chiesto non esistono che venissi reconcorrenti darguito». Sul banco degli imputati c’è il dature che rappresentano fortemen- meccanismo delle primarie che, sete l’identità del Pd». condo il professor Sabbatucci «è in «La vittoria di Vendola - secondo il partenza compromesso dal dato delprofessor Biagio De Giovanni - ha un l’incertezza del corpo elettorale». effetto traumatico per una certa stra- Mentre per De Giovanni «queste pritegia politica e finisce per gettare una marie confuse sono tutt’altro che un fortissima ombra su quello che era il segno di grande democrazia, ma la ri-

Il caso-Bologna alle estreme conseguenze

Delbono si dimette e Di Pietro esulta di Andrea Ottieri

BOLOGNA. Arriva alle estreme conseguenze, la battaglia d’amore e di rabbia che Cinzia Cracchi da mesi combatte contro il suo ex Flavio Delbono. Il sindaco di Bologna ha rassegnato le dimissioni in seguito alle indagini che la magistratura conduce sulle presunte spese sostenute dalla Cracchi con il denaro delle missioni di Delbono, all’epoca vice-presidente della Regione. «Per me Bologna viene prima di tutto – ha spiegato Delbono -. Per senso di responsabilità seguirò modi e tempi che dovranno tenere presenti il bene prioritario per la città, a partire dal fatto che nei prossimi giorni inzierà in aula l’esame per l’approvazione del bilancio 2010». Si conclude così, dunque, un’altra vicenda imbarazzante per la sinistra italiana, dopo il caso-Marrazzo che tanta disaffezione ha prodotto già in quelli che una volta erano i militanti. I vecchi comunisti non ci sono proprio più: la loro presunta «diversità», un tempo proclamata come uno scudo divino, ha lasciato il passo a imbarazzi e intrallazzi. Stavolta, però, a restare ferita è una delle città-simbolo della sinistra occidentale: Bologna. Qualunque sia la verità che sarà accertata dalla magistratura (la sostanza dei reati che si ipotizzano per l’ormai ex-sindaco è piuttosto modesta), resta il problema di un partito che non sa più scegliere la sua classe dirigente neanche lì dove per decenni l’aveva formata. E di sicuro lo strappo dei week-end di Delbono con Cinzia Cracchi peserà come un macigno su ciò che resta del Pd. Chino e famelico su questi resti, chi gioiva di più, ieri, era Antonio Di Pietro che addirittura si è assunto il merito del gesto di Delbono: «Non avete idea di quante ore, quanti giorni e quante notti abbiamo passato per convincere la coalizione ad assumersi questa responsabilità». Dopo di che ha invocato le primarie per la scelta del nuovo candidato-sindaco. Ma, come sempre ultimamente, a gestire la rovina di questa sinistra sarà il Pdl: il governo ha incaricato il ministro Sacconi di gestire la crisi bolognese.

Il sindaco cade per l’inchiesta sui week-end con Cinzia Cracchi fatti a spese della Regione

prova di un partito che non esiste. Definirei il Pd: il nichilismo politico. L’errore di D’Alema sta nell’agire come se ci fossero ancora i partiti e e quindi di agire per schemi mentali che non esistono più nella realtà. Se i partiti non ci sono più e non ci sono più, vengono meno quelle strutture in grado di formare le classi dirigenti e di individuare nei territori le personalità emergenti, come facevano tutti dalla sinistra, al centro, alla destra».

Il ruolo diverso dei partiti e le cause del corto circuito tra centro e periferie per Paolo Pombeni è da ricercarsi nel fatto che i partiti pur non esistendo più nel loro ruolo primario «sono ancora fortissimi in quelle strutture alle quali la “politica-politicante” fa riferimento, avendo in mano la distribuzione delle cariche». La vicenda pugliese, ma anche le rivendicazioni leghiste rendono sempre più evidente la forza del territorio rispetto a Roma, anche se per De Giovanni «la Lega è un caso a parte, perché è l’unico partito esistente in Italia, con un suo radicamento territoriale, una sua classe dirigente e la capacità di formarla sui territori. È stata l’origine della crisi di sistema». Sul ruolo della Lega concorda anche Sabbatucci, mentre l’aver «tolto qualsiasi meccanismo proporzionale, impedito la formazione di liste competitive e l’invenzione dei listini bloccati sono forme di inquinamento della politica» per Pombeni. Pensare al Pd e proiettare la sua crisi sul Pdl viene quasi spontaneo, ma i distinguo ci sono e vanno fatti. «La leadership carismatica di Berlusconi - dice De Giovanni - c’è perché non esistono i canali di mediazione. In questo caso il leader consente che il meccanismo, pur con le sue contraddizioni, funzioni, nel Pd, dove un leader non c’è, invece, si fanno le primarie con questi risultati». E per Sabbatucci «il Pdl ha due vantaggi: la leadership di Berlusconi e a nessuno è mai venuto in mente di fare le primarie. Ma nonostante la leadership forte vanno registrate a livello locale delle resistenze rispetto ad alcune scelte. Berlusconi più che una droga per il Pdl è una coperta per le divisioni interne e poi quando si parla di leadership nazionale non esistono concorrenti. E questo è l’elemento forte di compattezza». Mentre il professor De Giovanni va oltre sostenendo: «Escluderei che il Pdl possa fare la stessa fine del Pd, prima di tutto perché è al governo, e questo rappresenta un collante enorme. Paradossalmente il Pdl è più partito del Pd in quanto l’anima di An e le articolazioni territoriali dell’ex Forza Italia hanno più consistenza. Insomma dove c’è una leadership


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Come in Puglia anche nelle Marche le candidature sono frutto di veti locali

Il territorio, un guaio anche per il Pdl

Il caso del sindaco di Fano Aguzzi: con l’Udc avrebbe fatto vincere il centrodestra. Ma non l’hanno voluto di Riccardo Paradisi l territorio non è un problema grande come la Puglia solo per il Pd. Anche nel Pdl, laddove s’allenta l’interesse nazionale, soprattutto in regioni a prescindere consegnate alla sinistra come le Marche (o l’Umbria), i quadri locali apparecchiano strategie che sembrano rispondere a interessi locali svincolati dalle strategie nazionali. Quello che è avvenuto nelle Marche – e che sembra aver colto di sorpresa Silvio Berlusconi, ignaro fino all’ultimo di quanto stava accadendo - vale la pena di essere raccontato. Perché è una storia che aiuta a capire quali dinamiche possono mettersi in moto quando il grande occhio di Roma è concentrato altrove.

I

che unisce qualcosa si costruisce. I processi iniziano dall’alto e non viceversa: un partito non si può fare senza una leadership politica. Purtroppo il dramma del Pd è di non avere una leadership e neanche il congresso ha risolto questo empasse. Il caso della Bonino è clamoroso. Lei si è candidata e il Pd, dopo qualche settimana, non avendo alternative l’ha sostenu-

PAOLO POMBENI A Bologna si è preferito uno indicato dal partito. Ho sollevato dei dubbi, e un membro della direzione Pd ha chiesto che venissi richiamato

ta. Non discuto ovviamente sulle qualità della Bonino, ma sulla condizione di grossa difficoltà del Pd che denotano uno sfacelo politico. La realtà lo ha inventato, quindi ne aveva bisogno. È stato l’unica innovazione del sistema politico negli ultimi quindici anni, sinistra compresa. È

molto difficile ricostituire partiti,Tangentopoli ha prodotto l’azzeramento delle culture politiche oltre che dei partiti storici. Se il federalismo andrà avanti, ma non è detto vista la crisi e le difficoltà economica, può accadere che i territori diventino i padroni della politica». Sul futuro del Pdl è ottimista anche Paolo Pombeni secondo il quale: «Berlusconi rappresenta un modello di successo e tutti cercano, anche inconsapevolmente di imitarlo. Il Pdl non avendo tradizione alle spalle, non ha apparati pesanti di partito da sistemare e pesca dalla società civile le personalità che gli servono». E dalla Campania arriva la voce di Antonio Bassolino: «Penso che anche in Campania le primarie innanzitutto di coalizione, se possibile, e comunque con le forze che le ritengono uno strumento importante siano la scelta più giusta da fare». La ciliegina sull’amara torta di Bersani.

Facciamo un passo indietro. Alle elezioni europee dello scorso giugno i dati relativi alla Regione Marche fanno parlare della possibilità di un sorpasso del centrodestra sul centrosinistra. È un sorpasso di misura che deve tenere conto del contributo determinante della lega e delle liste civiche che nella regione hanno una rete di consenso significativa e sono il bacino di raccolta del malcontento di vasti settori del centrosinistra. Il sorpasso sarebbe invece netto se per le regionali il centrodestra siglasse un accordo con l’Udc e riuscisse a individuare un candidato autorevole capace di attrarre il consenso. Un nome c’è ed è quello del sindaco di Fano Stefano Aguzzi che infatti comincia a circolare da subito. Una candidatura efficace per il governo delle Marche, soprattutto perché Aguzzi viene dalle fila degli ex Ds e ha con sè una porzione vasta della rete di liste civiche marchigiane. Insomma è uno che nella società civile ha una vasta rete di relazioni ed è uno che può sfondare a sinistra ed erodere consenso anche in territori solitamente proibiti al centrodestra. Insomma sarebbe, quella di Aguzzi, la scelta più razionale, quella verso la quale spingono i quadri del Pdl, la mossa giusta con cui il centrodestra potrebbe finalmente raggiungere l’eterno miraggio del governo della regione. Invece i problemi sorgono proprio in questo momento. Aguzzi pone delle condizioni alla sua candidatura: intende presentarsi con una lista civica e vuole un’alleanza organica con l’Udc da costruire individuando da subito un percorso di interlocuzione con il Centro, teso arrivare a un’intesa elettorale. Gli esponenti di punta locali del Pdl cominciano a sollevare obiezioni. Niente liste civi-

che, l’alleanza con l’Udc non è necessaria. Il deputato Pdl Carlo Ciccioli, leader del centrodestra marchigiano assieme al coordinatore regionale Remigio Ceroni, assicura che il Pdl può vincere anche senza Udc: «I continui sondaggi promossi dallo staff di Berlusconi, anche nelle Marche, danno in crescita il Pdl e dimostrano che il partito vincerebbe le elezioni anche senza l’Udc, purché i centristi vadano da soli». Di più: si cominciano a proporre candidature alternative, si fa il nome di Federico Vitali ex presidente di Assindustria Marche, figura politica che ha nel suo curriculum rapporti di collaborazione con Gian Mario Spacca, il governatore uscente della regione di nuovo alla testa della coalizione di centrosinistra.Viene anche fatto girare il nome di Otello Lupacchini, magistrato e scrittore fermano, figura di grande levatura senza però effettivo pesp politico nella Regione. Fonti interne al centrodestra marchigiano ostili a questa politica parlano di candidature che servono a creare falsi scopi, l’obiettivo reale è logorare Aguzzi. Che infatti capisce il gioco e comincia a fare lunghi passi indietro. Arriva il giorno del vertice a Roma tra Berlusconi e i leader marchigiani del Pdl: siamo allo scorso 14 gennaio

Il premier stesso ha chiesto al sindaco di Fano di candidarsi. Lui ha rifiutato, «Troppi ostacoli dentro il Pdl»

Al Cavaliere viene esposta la situazione e fatti i nomi diVitali e Lupacchini come potenziali candidati alla Regione. Il premier dice loro però che il candidato giusto è Aguzzi, è lui l’uomo su cui puntare. Il coordinatore regionale Remigio Ceroni prende tempo. A un certo punto Berlusconi rompe gli indugi e chiama al telefono il sindaco di Fano. Dopo una battuta iniziale: «Hai bisogno di un buon tricologo, ti presenterò il mio, gli chiede di candidarsi. Aguzzi risponde che è troppo tardi, che la sua candidatura è stata troppo osteggiata, che la Lega s’è messa di traverso, che i ponti di collegamento con l’Udc sono stati bombardati ad arte. Insomma, dice Aguzzi al premier, non ci sono più le condizioni. A questo punto si ritirano i candidati della rosa e si cerca di rimediare lanciando la candidatura di un altro amministratore locale, l’ex sindaco di Civitanova Erminio Marinelli. Tra martedì e mercoledì il Pdl dovrebbe ufficializzare il suo nome. Anche i coordinatori nazionali Ignazio La Russa e Denis Verdini danno la candidatura di Marinelli sicura al 95%. Qualche analogia con la Puglia c’è.


diario

pagina 6 • 26 gennaio 2010

Brutte figure. Il segretario di Stato Usa commenta con distacco gli insulti del capo della protezione civile italiana

Hillary bacchetta Bertolaso

«Basta polemiche del lunedì: un terremoto non è come il football» ROMA. «Roba da Processo del Lunedì». Non ha citato Aldo Biscardi, il segretario di Stato Hillary Clinton (anche perché probabilmente non sa neppure chi sia), eppure questa traduzione (fantasiosa) delle parole con cui ha risposto a Guido Bertolaso, italiano responsabile della Protezione Civile, sembra davvero la più adatta. Ma che aveva detto, di biscardiano, Bertolaso? Nulla di così sorprendente: si era semplicemente, da italiano, fatto riconoscere. Collegato dalla capitale haitiana con la trasmissione In mezz’ora di Raitre, aveva parlato, a proposito della gestione dell’emergenza di Haiti, di situazione “patetica”, che «si sarebbe potuta gestire molto meglio. Una volta arrivati sul luogo di un disastro, si pensa subito a mettere un grande manifesto con lo stemma della propria organizzazione, a fare bella figura davanti alle telecamere, piuttosto che mettersi a lavorare per portare soccorso a chi ha bisogno». Insomma, secondo la logica di Guido, arrivare sul luogo del disastro per farsi vedere dai fotografi è male; fare la stessa cosa in collegamento con la tv italiana, invece, è roba da encomio. Una logica tutta sua. Che però non è piaciuta né punto né poco al segretario di Stato Hillary Clinton, la quale ha pesantemente ironizzato sulle accuse fatte dal sottosegretario alla Protezione Civile: «Mi sembrano quelle polemiche che si fanno il lunedì dopo le partite di football», ha dichiarato il capo della diplomazia Usa, forse

ni è tornata poi a ringraziare «il grande aiuto e la collaborazione che l’Italia sta dando a Haiti». «C’è un grande impegno internazionale per portare gli aiuti ad Haiti», ha aggiunto la Clinton spiegando che però «non è possibile farlo senza un supporto militare”, e rispondendo così indirettamente sia alle critiche di Bertolaso che a quelle di Fidel Castro e Chavez, che in questi

«Haiti non è L’Aquila», ammonisce la Clinton per rispondere all’italiano che aveva definito «patetica» l’organizzazione Usa sull’isola memore di quello che le è toccato vedere in televisione durante qualche viaggio in Italia, o invece, più probabilmente, riferendosi alle infinite discussioni sull’errore del Quaterback che si fanno in America commentando il giorno dopo le partite. «Roba da Bar dello Sport», insomma, come ha tradotto qualche agenzia di stampa trovando forse la formula più adatta e incisiva.

La Clinton che, prima di partite per la conferenza di Montreal ha ricevuto al Dipartimento di Stato Franco Fratti-

ha fatto proposte importanti al governo e al presidente di Haiti sulla sorte di tanti bambini e sulle linee di evacuazione. Poi qualcuno gli ha chiesto di parlare da giornalista e lui ha attaccato frontalmente l’America e le organizzazioni internazionali. In queste ultime dichiarazioni il governo italiano non si riconosce», aveva detto il ministro degli esteri al Corriere della Sera. Più sfumata la posizione di Altero Matteoli, ministro delle Infrastrutture: «Che la Protezione civile italiana sia di altissimo livello ce lo riconoscono in tutto il mondo e questo dimostra che il Governo italiano per Haiti ha fatto il massimo mettendo a disposizione un uomo dell’esperienza di Guido Bertolaso. Noi siamo a disposizione per fare fino in fondo la nostra parte e il fatto che il Governo abbia scelto di inviare ad Haiti il nostro uomo più rappresentativo lo conferma».

di Alessandro D’Amato

giorni avevano accusato gli Usa di aver occupato militarmente l’isola con la scusa del terremoto. Il segretario di Stato Usa ha quindi spiegato che, anche nel colloquio con Frattini, si è affrontato il tema: «Il ministro italiano ha ricordato che anche l’Italia sta inviando una nave militare e una squadra di carabinieri», ha concluso la Clinton elogiando gli sforzi del paese per sostenere Haiti. Frattini ieri si era comunque già fortemente dissociato a mezzo stampa dalle parole del responsabile della Protezione Civile: «Bertolaso

A Montreal il Mondo prepara il «dopo»

Summit per gli aiuti MONTREAL. Si è aperta in Canada la conferenza sulla ricostruzione di Haiti, 13 giorni dopo il devastante terremoto che ha fatto circa 150mila morti. Partecipano le delegazione di una ventina di Paesi e di organizzazioni internazionali - tra cui le principali istituzioni finanziarie mentre hanno deciso di boicottare i lavori Bolivia, Nicaragua e Venezuela, che accusano gli Stati Uniti di aver «invaso» l’isola. Per Washington c’è il segretario di Stato Hillary Clinton, mentre per la Francia il ministro degli Esteri Bernard Kouchner. In questo contesto l’Arabia Saudita, in base a «precise direttive da parte del Custode delle due Sacre Moschee, re Abdullah bin Abdulaziz al Saud» ha provveduto ad effettuare una donazione di 50 milioni di dollari a favore della missione umanitaria

impegnata ad Haiti, «donazione che è stata erogata sul fondo delle Nazioni Unite indicato dal segretario generale Ban Ki-moon», come hanno reso noto fonti ufficiali.

Prima dell’apertura della Conferenza, poi, il premier di Haiti, Jean-Max Bellerive, ha detto che il suo Paese è in grado di prendere in mano le redini della ricostruzione. «Lo stato haitiano sta in lavorando condizioni difficili ma è pronto a assicurare la leadership che la popolazione che aspetta», ha detto il premier. «Haiti ha bisogno del sostegno massiccio a medio e lungo termine dei suoi partner e della comunità internazionale», ha detto il premier. La necessita’immediata è quella di soddisfare le esigenze vitali delle vittime, come l’acqua, il cibo e gli aiuti medici».

Le parole di Bertolaso erano state esecrate l’altroieri anche dall’Onu: “Non condivido assolutamente quello che dice Bertolaso”a proposito della situazione degli aiuti trovata ad Haiti definita “patetica“, ha detto Roberto Dormino, uno dei capi della logistica Onu ad Haiti, a Radio Capital. E poi è anche sceso nel tecnico, per spiegare quali sono le differenze con le altre tragedie: «Col terremoto dell’Aquila sono potuti confluire centinaia e centinaia di migliaia di militari, potevano essere requisiti tutti i mezzi pubblici», ha ricordato Dorminio ai microfoni di Radio Capital. «Qui che cosa facciamo confluire? A PortAu-Prince non c’è nulla. Non ci sono né strutture né mezzi. Qui non c’è un parco veicoli che può essere utilizzato. Non c’è un taxi, né una macchina o un camion. Più di tanto non si può fare. Il governo non esiste, le frontiere sono aperte. È tanto facile dire è “patetico”. Se le Nazioni Unite fossero state in Italia quando c’è stato il terremoto avremmo fatto la stessa cosa che ha fatto Bertolaso. Qui invece arrivano solo persone ma mancano le macchine», ha sottolineato Dormino. D’altra parte, anche Hillaru Clinton ha sottolienato che Haiti non è L’Aquila e che le infrastrutture di un paese poverissimo sono molto diverse da quelle di un paese occidentale. Cosa che evidentemente a Bertolaso sfugge.


diario

26 gennaio 2010 • pagina 7

Secondo Eurispes scendono il governo e la scuola

Il Sindaco di Torino: «Sono sereno, il mio lavoro continua»

Cresce ancora la fiducia degli italiani in Napolitano

Una lettera con proiettile a Chiamparino «contro la tav»

ROMA. Aumenta la fiducia de-

TORINO. Lo scontro sulla rea-

gli italiani nel presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: crede in lui il 70% della popolazione. In leggero calo, invece, la fiducia verso l’operato del governo, che cala dal 27,7% dello scorso anno al 26,7%. Male anche la scuola, i sindacati e i partiti che non godono della piena fiducia della popoalzione. Crescono invece i giudizi favorevoli nei confronti della magistratura. Sono questi i dati più rilevanti del sondaggio Eurispes sulla fiducia degli italiani nelle istituzioni contenuto nel rapporto Italia 2010 che verrà presentato venerdì prossimo. In termini assoluti, il dato è positivo: la fiducia nelle istituzioni, infatti, è salita in un anno di ben 28,5 punti percentuali, passando dal 10,5% del 2009 al 39% del 2010. Di pari passo è diminuita del 10% la quota di italiani che esprimono un calo della fiducia, che si attesta al 45,8%.

lizzazione del treno ad Alta Velocità in Piemonte assume contorni sempre più inquietanti: una busta con un proiettile calibro 9 e una lettera, definita farneticante dalla Digos e a tratti sgrammaticata scritta a mano in stampatello, appunto con riferimenti alla Tav, è stata inviata al sindaco di Torino Sergio Chiamparino che in questi giorni se è molto impegnato in favore della Tav. La busta, sulla quale al posto del francobollo c’era la scritta «La Tav la paga Berlusconi e Ferrentino», è arrivata in municipio insieme alla posta ordinaria. La lettera, con un proiettile appiccicato al suo interno, inizia con le parole «Caro sindaco» e fa poi riferi-

Insomma, il 70% degli italiani si fida di Napolitano, con un aumento di 6 punti percentuali rispetto all’anno scorso: il capo dello Stato è sempre più un punto di riferimento per gli italiani. Questo vale soprattutto per gli over 65, che gli accordano la fiducia nel 73,3% dei casi e tra coloro che hanno tra 45 e 64 anni (73,7%). In ogni caso, il

Fiat frena le perdite ma la Borsa non si fida Il 2009 chiude i conti in rosso, ma meglio del previsto di Francesco Pacifico

ROMA. Visti i tempi che corrono, un rosso da 800 milioni di euro può apparire anche un successo. Soprattutto se accompagnato dal ritorno al dividendo e dalla conferma degli obiettivi per il 2010. Ieri Sergio Marchionne ha presentato i conti di Fiat del 2009 e nonostante risultati migliori del previsto non è riuscito a convincere del tutto il mercato.

A Piazza Affari il titolo ha registrato una battuta d’arresto, arrivando persino a perdere il 4% mentre il manager rispondeva alle domande degli analisti. Jp Morgan invece ha confermato il suo giudizio “buy”, a riprova che sta per ripartire in tutta la sua virulenza la guerra tra l’amministratore delegato del Lingotto e le agenzie di rating. Al momento sono in pochi a scommettere che, come ha ripetuto anche ieri Marchionne, «saranno confermati gli obiettivi per il 2010». Ci credono invece i suoi azionisti, visto che il consiglio di amministrazione di Torino ha deliberato di staccare una cedola pari a 0,17 euro per i titoli ordinari e pari a 0,325 euro per le risparmio per un ammontare complessivo di 237 milioni di euro. Una decisione che, per Fiat, «riflette la normalizzazione dei mercati dei capitali quale fonte di finanziamento per il gruppo, nonché la convinzione che il gruppo ha la capacità di continuare a generare utili». Sempre ieri il Cda ha approvato i conti per l’anno appena trascorso. E in quello che il presidente Montezemolo ha definito «un anno particolarmente difficile» si registra una perdita netta di 800 milioni di euro, mentre migliora rispetto alle previsioni l’utile della gestione ordinaria: 1,1 miliardi contro i 3,4 miliardi dell’annata record 2008. Calo meno consistente per i ricavi del gruppo, pari a 50,1 miliardi, ma lontani del 16% rispetto ai 59,6 miliardi del 2008. Da notare però che nel quarto trimestre le entrate sono aumentate del 3,6% sullo stesso periodo del 2008. Più in generale, Fiat Group Automobiles ha chiuso l’anno appena trascorso con un utile della gestione ordinaria di 470 milioni di euro (691 milioni nel 2008), Cnh di 337 milioni (1.122 milioni) e Iveco di 105 milioni (838 milioni). Meglio delle

previsioni l’indebitamento netto industriale, pari a 4,4 miliardi di euro a fronte dei 5,9 di fine 2008, con la liquidità in crescita a 12,4 miliardi (3,9 miliardi nel 2008). Dato quest’ultimo che garantisce lo stock d’investimenti per i prossimi anni. Per il 2010 è previsto un utile netto fra 200 e 300 milioni di euro, ricavi in crescita fra il 3 e il 6 per cento, un utile della gestione ordinaria di 1,5 miliardi. Target che però presuppongono la conferma degli ecoincentivi in tutto il Vecchio Continente. «Senza i quali», aggiunge il manager italo-canadese, «in Europa si scatenerebbe una guerra tra i costruttori». In ogni caso,Torino si dice «in grado di conseguire un utile della gestione ordinaria superiore a un miliardo di euro» e di recuperare «risorse finanziarie più che adeguate per una transizione a quello che ci si aspetta essere un contesto di mercato normalizzato nel 2011 e negli anni successivi». Proprio sulla capacità di agganciare la ripresa si è soffermato l’Ad torinese, parlando alla comunità finanziaria: «Il 2009 è stato un anno incredibilmente difficile per tutti i costruttori», tuttavia si sono registrati «nel quarto trimestre risultati in linea con il 2008».

Il Lingotto (+3,6 per cento i ricavi) torna a correre. Il mercato, però, teme che le aspettative non siano confermate

consenso tocca tutte le fasce di età e non scende mai al di sotto del 60%. Di contro, diminuisce la fiducia nel governo: i pareri positivi sono il 26,7% contro il 27,7% dell’anno precedente. Il dato - precisa Eurispes - è comunque costante negli ultimi anni, sia che si tratti di un governo di centrodestra che di uno di centrosinistra. Infine, insieme al presidente della Repubblica, l’istituzione che quest’anno acquista nuovo credito è la magistratura. Il consenso è in crescita da 5 anni e oggi quasi un italiano su due dà fiducia ai magistrati. Infine la scuola continua a perdere consensi: il 52,7% dei ragazzi tra i 18 e i 24 anni ha dichiarato di avere poca fiducia.

Un messaggio di ottimismo, al quale ne ha fatto subito un altro molto atteso dagli investitori: «Il 2010 sarà un anno di transizione e stabilizzazione, con tutti i settori che miglioreranno rispetto al 2009». Gli occhi dei mercati sono focalizzati su Chrysler. Nel 2014 l’alleato americano di cui Fiat possiede per ora il 20% (ma potrà salire fino al 35 al raggiungimento di determinati obiettivi) avrà un fatturato di circa 68 miliardi di dollari e un utile operativo di circa 5 miliardi. Quindi ha conferma volumi di vendita previsti nel 2014 a 2,8 milioni di vetture (+40% sul 2008 e oltre il doppio sul 2009). Secondo Marchionne il turn around «sta andando bene. Dobbiamo superare il 2010, un anno di transizione. Quindi portare il marchio anche in Cina». Con il Sudamerica (spinto dal Brasile) diventa centrale l’Asia, anche per il crollo delle immatricolazioni in Europa: -12%, che vedrà in Germania un ulteriore -4 per la fine degli eco-incentivi.

mento ai sondaggi preliminari in corso in questi giorni e alla posizione favorevole all’opera del primo cittadino. «Sono assolutamente sereno» ha commentato tuttavia il sindaco Chiamparino sottolineando che questo episodio «non cambia in alcun modo il mio impegno sulla Tav. Credo che lettere come questa, così come gli incendi ai presidi siano in realtà del tutto estranei agli schieramenti favorevoli e contrari alla Tav che civilmente si sono manifestati e confrontati in questo fine settimana». La lettera è al vaglio della Digos che ne vuole valutare l’attendibilità.

Intanto, il coordinamento unitario delle confederazioni artigiane Confartigianato, Cna e Casartigiani del Piemonte ha aderito all’iniziativa in favore del progetto Tav promossa proprio dal sindaco di Torino Sergio Chiamparino e dal sottosegretario ai Trasporti Bartolomeo Giachino. Secondo le confederazioni artigiane piemontesi «non si può perdere la connessione alla nuova rete ferroviaria europea. È necessario che la Torino-Lione venga realizzata affinché‚ il Piemonte possa essere inserito in una delle principali direttrici dell’allacciamento ferroviario attraverso l’Europa».


mondo

pagina 8 • 26 gennaio 2010

Dissidenti. Sul nome del professore condannato al carcere per aver scritto Charta 08 si apre una contesa che rischia di spaccare il governo di Pechino

Sfida al Dragone Gli eroi della Marcia: «Liberate Liu Xiaobo» E il Dalai Lama rilancia: «Diamogli il Nobel» di Vincenzo Faccioli Pintozzi

PECHINO. Una sfida aperta al potere del dragone, una prima crepa scricchiolante nel monolitico sistema di potere che regna ad est e a ovest della Grande muraglia cinese. Sembra retorica, forse un’esagerazione, ma non lo è. La lettera aperta indirizzata al governo cinese che chiede la revisione del processo che ha condannato a 11 anni di prigione Liu Xiaobo, docente cinese dissidente e autore di Carta 08, è una prima assoluta all’interno del palcoscenico sociale e politico della Grande Cina. La lettera è stata firmata da quattro alti dirigenti del Partito comunista, noti per le loro visioni liberali, che pur senza nominarlo ritengono Liu innocente. Si tratta di eroi della Lunga Marcia, totem che il Partito comunista riteneva intoccabili e iper-sostenitori, che invece hanno rovesciato la questione: «State condannando uno che lotta per gli stessi ideali che avevamo noi». Come dire, i traditori della Rivoluzione di Mao siete voi, non Liu. Nel frattempo, 9 personalità internazionali, fra cui 5 Premi Nobel per la Pace, chiedono al comitato di Stoccolma di dare proprio al professore asiatico il prossimo Premio. Un segnale da tempo atteso di un risveglio della comunità internazionale, che sembrava prona ai de-

Cresce sempre di più il movimento di sostegno, anche interno al Paese, alla lotta portata avanti dagli autori del testo. E il governo non sa più che fare sideri dell’unica grande super-potenza economica sopravvissuta alla crisi dei mercati finanziari che ha sconquassato il 2009. La lettera aperta è stata pubblicata sul sito internet del Centro indipendente cinese Pen, che opera per la libertà di informazione nel Regno di Mezzo. Patrick Poon, vice presidente del gruppo, spiega: «I quattro dirigenti formano da anni la fronda liberale del Partito. Da tempo sostengono delle riforme politiche all’interno del Paese, che dovrebbero andare di pari passo con quelle economiche». La lettera non chiede direttamente il rilascio di Liu, ma He Fang – uno dei dirigenti che l’ha firmata, membro onorario dell’Accademia cinese per le scienze sociali – dice al telefono: «Lo scopo del testo è chiedere la revisione della sentenza contraria a Liu, e il suo rilascio. Inoltre, chiediamo la salvaguardia della Costituzione e il rispetto della libertà di parola». L’arrestato, noto professore universitario, un anno fa ha presentato al governo (insieme ad altre 300 firme) una petizione pubblica – nota come “Charta 08”– in cui si chiede al Paese di realizzare i desideri di democrazia e libertà presenti nella storia recente della Cina. Il rispetto dei diritti

La proposta di un gruppo di campioni della democrazia mondiale

«Il nostro appello a Stoccolma» Dalai Lama, Vaclav Havel, Desmond Tutu, André Glucksmann l giorno di Natale dello scorso anno, il professore universitario e scrittore Liu Xiaobo – uno dei più noti attivisti per i diritti umani – è stato condannato a undici anni di galera. Liu è uno degli autori principali di Charta ‘08, una petizione ispirata a quella Charta ’77 pubblicata in Cecoslovacchia, che chiede al governo cinese di rispettare la propria Costituzione e le proprie leggi. Il testo chiede l’indizione di libere elezioni per le cariche ufficiali, libertà di religione e di espressione, e l’abolizione delle leggi “anti-sovversione”. Per il suo coraggio e per la chiarezza di pensiero relativa al futuro della Cina, Liu merita il Premio Nobel per la pace 2010. Ci sono due motivazioni principali per cui noi riteniamo che Liu sia il miglior candidato a quel prestigioso premio. La prima, e più importante, è che il dissidente si posiziona su quel sentiero già percorso da altri premiati: quello della lotta per i diritti umani. Alcuni di coloro che hanno ricevuto il riconoscimento sono la prova evidente di questo assunto: Martin Luther King, Lech Walesa e Aung San Suu Kyi sono soltanto alcuni esempi possibili. Noi siamo convinti che i concetti messi su carta da Liu e dai suoi colleghi nel dicembre del 2008 siamo universali e senza tempo. Quegli ideali – il rispetto per i diritti e per la dignità umana e la responsabilità dei cittadini tesa a garantire che il governo li assicuri – rappresentano le più alte aspirazioni dell’umanità. Se la Commissione per il Nobel decidesse di riconoscere il coraggio e il sacrificio di Liu nell’articolare questi ideali, non otterrebbe soltanto di risvegliare l’attenzione dell’opinione pubblica sull’ingiustizia della sentenza a undici anni di galera comminata a Liu.

I

Se gli dessero il premio, infatti, aiuterebbero ad amplificare dentro la Cina i valori umanistici e universali per i quali Liu ha speso così tanto tempo. La seconda ragione per cui Liu merita il Premio ricalca l’intenzione originale espressa da Alfred Nobel quando lo ha istituito. Lavorando per promuovere in Cina i diritti umani, le riforme politiche e la democratizzazione, Liu ha dato un contributo significativo a quei valori di pace e fraternità fra le nazioni che Nobel aveva

in mente quando, oltre un secolo fa, ha fondato il Premio. Ovviamente, la democratizzazione non garantisce automaticamente un miglior sviluppo della situazione mondiale. Ma facilita un pieno e rigoroso dibattito pubblico su questioni chiavi come le politiche interne ed estere di una nazione. Questa conversazione attiva ed esplorativa, la base della democrazia, è la miglior carta su cui un governo può puntare se vuole prendere la miglior decisione possibile in ogni argomento. L’impegno di Liu per portare la democrazia in Cina è, soprattutto, teso al beneficio della popolazione cinese.

Il suo coraggio e il suo esempio possono aiutare a far sorgere una nuova alba di partecipazione della Cina negli affari internazionali, grazie a una società civile e indipendente aiutata dalla presenza di media indipendenti e cittadini liberi. Fondamentalmente, è per questi due motivi che crediamo che Liu sia il miglior Premio Nobel per la Pace 2010. Conferendogli uno dei maggiori onori al mondo, la Commissione darebbe ancora una volta un segnale di quanto siano importanti i diritti umani, la democrazia, la pace mondiale e la solidarietà internazionale. Il durissimo verdetto contro Liu una condanna alla galera sulla base di accuse costruite a tavolino e non sostenute da alcuna prova reale - è stato pronunciato come una sentenza esemplare, un avvertimento a quei cinesi che volessero seguire la sua strada. Siamo convinti che esistano momenti in cui uno straordinario impegno civile, come quello di Liu, necessiti una risposta esemplare. E dargli il prossimo Premio Nobel per la Pace sarebbe precisamente la risposta che il suo coraggio merita.

Un ritratto di Liu Xiaobo, il dissidente condannato a undici anni di galera per aver scritto Charta ’08. In basso Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama


mondo

26 gennaio 2010 • pagina 9

Il più grande dissidente cinese spiega: il regime comunista ha infranto i sogni del popolo

Sono tutti segnali di una nuova rivoluzione di Wei Jingsheng e vogliamo parlare del futuro sviluppo democratico di Cina e Vietnam dobbiamo fare un’analisi di entrambe le nazioni, così come dobbiamo capire lo sviluppo internazionale di entrambe. E quindi dobbiamo accettare e capire le condizioni dei due Paesi, che siano a noi favorevoli o sfavorevoli, per guidare le nostre azioni. La principale caratteristica sociale che accomuna Cina e Vietnam è che, nonostante entrambe si siano trasformati in Stati capitalisti con monopolio burocratico, sono in qualche modo diverse dalla Russia e dai Paesi dell’Europa orientale. La differenza maggiore è che entrambe le nazioni asiatiche sono ancora sotto il dominio di una dittatura comunista mono-partitica. Senza la competizione di un sistema multipartitico, a entrambi i Paesi manca quello sviluppo più rilassato che permette discorsi e pubblicazioni libere; cosa che invece esiste in Russia e nei Paesi dell’est Europa. In Cina e Vietnam è molto difficile per l’opposizione sopravvivere all’interno dei Paesi, e quell’opposizione che invece se ne è andata trova molto complicato partecipare alla politica interna. Di conseguenza, questa situazione rappresenta un grande ostacolo per noi. Le agenzie speciali del Partito comunista sono divenute molto efficienti. Con il distanziamento fra interno ed esterno piazzano i loro agenti, camuffano le nostre direttive, fomentano gli scontri e a volte arrivano a costringere l’opposizione nelle trappole che hanno piazzato. Questo rende molto difficile una trasformazione, o una rivoluzione, condotta da un’organizzazione di opposizione che sia ben organizzata e ben pianificata. Nel momento attuale, la forma principale di opposizione viene dalla popolazione, che si muove in maniera autonoma con azione decentralizzate contro la tirannia e l’iper-ingrandimento dell’economia.

S

umani – fra cui la libertà religiosa - è mostrata come l’unica via per salvaguardare il progresso economico raggiunto da Pechino e per correggere le devianze dittatoriali, di corruzione e di squilibrio sociale ed ecologico. Per questo è stato condannato lo scorso 25 dicembre a 11 anni, con l’accusa di “sovversione anti-statale”. Subito dopo il pronunciamento della sentenza, oltre 200 personalità cinesi hanno chiesto di essere arrestati insieme a Liu, dato che «ne condividono in pieno le idee». Ora questa lettera aperta dimostra che anche all’interno del Partito ci sono membri che ne condividono la battaglia. Scritta da Hu Jiwei, ex direttore del governativo Quotidiano del Popolo, è firmata da dirigenti intorno agli ottanta anni: una sorta di protezione contro le molestie del governo.

Fra questi vi sono Li Pu, ex vice direttore dell’agenzia ufficiale Xinhua, e Dai Huang, ex redattore della stessa. La parte più dura del testo recita: «Se i giudici violano la Costituzione e non hanno alcuna conoscenza della storia del Partito, fanno accuse false e scorrette che colpiscono seriamente l’immagine della nazione e del Partito, allora diventa difficile sostenere che la Cina è un Paese governato dalla legge e con una società armoniosa». Gli autori spiegano inoltre: «La prova più usata contro Liu Xiaobo dai giudici che la notte di Natale lo hanno condannato riguarda la sua richiesta di istituire una Repubblica federale. Ma questo è uno slogan corretto, uno di quelli che veniva usato nei primi giorni del Partito comunista cinese». Proprio questa dicotomia viene spesso usata dai dissidenti cinesi che operano negli anni successivi a Tiananmen. Contrariamente a quanto si pensa, infatti, il movimento studentesco chiedeva la fine della corruzione nel governo e solo in seconda battuta la democrazia; gli altri campioni della dissidenza hanno sempre chiesto semplicemente il rispetto dei canoni inseriti nella Costituzione dallo stesso Mao. Ma il mondo, e con esso la Rivoluzione cinese, è cambiato: e i leader di Pechino, come spiega molto bene Wei Jingsheng, non hanno più nulla degli originali. Nel frattempo, cresce la campagna per assegnare proprio a Liu Xiaobo il prossimo Nobel per la pace. Una richiesta sottoscritta, tra gli altri, dal Dalai Lama, da Vaclav Havel e da Desmond Tutu. Un Premio veramente meritato.

presta così tanta attenzione a questi strumenti, e si impegna così tanto per bloccare le informazioni che arrivano sia dai mezzi di informazione che da internet. Dall’altro lato, data la mancanza dei diritti umani di base, gli sforzi combinati del governo e dell’economia tesi a rinforzare la soppressione dei mezzi di informazione non fa altro che rafforzare l’opposizione. E quindi le forze di trasformazione di nazioni come Cina, Vietnam e Corea del Nord provengono per la maggior parte dalle classi

a basso costo, e in questo modo Pechino è riuscita a controllare la politica e il mondo accademico dell’Ovest.Tramite l’economia, infatti, la Cina è stata in grado di costringere il mainstream occidentale ad arrendersi agli interessi dei comunisti, svendendo il proprio sistema di valori.

Come risultato, l’Occidente ha continuato a infondere sangue nelle nazioni comuniste ed ha assunto una politica tollerante e indulgente nei confronti dei nuovi capitalisti-burocrati dei Partiti. Questa politica ha raggiunto il picco nel corso dei 16 anni di presidenza divisi fra Bill Clinton e George W. Bush. La relazione esistente fra le democrazie dell’Ovest e le dittature dell’Est si è trasformata nel tempo da un carattere di confronto a uno tollerante, di aperta cooperazione. Anche se la politica di distensione occupa ancora il pensiero primario, l’economia occidentale è in recessione a causa proprio delle sue “trasfusioni” nelle nazioni comuniste durate più di un decennio. Mentre gli industriali di Oriente e Occidente ottengono superprofitti, gli stipendiati dei due mondi non ottengono alcun beneficio dello sviluppo economico. Invece di espandersi il mercato si contrae, e questo è alla base della recessione. Quindi le nazioni occidentali dovrebbero abbandonare la politica di distensione con le nazioni comuniste e ricominciare a confrontarsi con esse, partendo proprio dalla protezione del mercato. L’opposizione all’estero ha un compito primario: continuare a usare i media per mobilitare in maniera positiva la spinta verso la democrazia e la libertà. Questo nuovo scopo si opporrà a quel nazionalismo che, di natura, verrà mobilizzato dal Partito comunista. Utilizzando il potere della società internazionale, potremo spingere per delle riforme del sistema di redistribuzione della ricchezza e per una rivoluzione politica nelle nostre nazioni. Questa battaglia commerciale andrà a beneficio di quei lavoratori a stipendio e al capitale privato. In conclusione permettetemi di essere chiaro: se si ha uno sviluppo economico su base capitalista, ma non si hanno diritti di parola e di informazione, la cosiddetta “rivoluzione colorata pacifica e razionale”è soltanto un miraggio. Nella migliore delle ipotesi, una fantasia bella ma irrealizzabile.

Mentre gli industriali di Oriente e Occidente ottengono super-profitti da Cina e Vietnam, gli stipendiati dei due mondi non ottengono alcun beneficio dal boom economico

Gli strumenti di informazione di massa sono il principale strumento con cui mobilitare la popolazione. Le tradizionali organizzazioni segrete hanno infatti un raggio d’azione molto limitato, su scala ridotta. E quindi una mobilitazione massiccia della popolazione può dipendere soltanto dagli strumenti di informazione di massa. Questo è il motivo per cui il regime comunista del Partito cinese

sociali più basse e medie. I mezzi con cui si intende ottenere questa trasformazione, però, non sono limitati soltanto a forme pacifiche. L’opposizione violenta sta diventando sempre più spesso il modo principale con cui le società vengono costrette al cambiamento. Infatti, data anche l’intima connessione fra i rappresentanti del mondo politico e quelli del mondo economico, il governo ha perso la propria posizione di giudice sulle dispute economiche. Le lotte all’interno dei governi sono divenute sempre più violente, molto più che in ogni altro tempo o circostanza. Sta emergendo sempre di più una connessione (quasi di routine) fra la criminalità e i militari, che rende la società sempre meno stabile e ancora più complicata. Negli ultimi decenni, lo sviluppo internazionale è divenuto sempre meno favorevole alle forze di opposizione di nazioni come Cina e Vietnam. Il “modello Cina” inventato da Deng Xiaoping è stato in grado di attrarre gli investimenti e i capitalisti occidentali grazie a una forza lavoro


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panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Perché ora Bondi non si fida più dei restauratori? hi, dopo aver frequentato e superato un triennio e una specializzazione vuole fare il restauratore non lo può più fare. Perché? Perché il ministero dei Beni culturali evidentemente non si fida della qualità della laurea rilasciata dalle università italiane. La doccia gelida è il decreto del ministero dei Beni culturali 53/2009: il titolo di restauratori non si acquisisce solo con la laurea. È necessario superare un concorso, una prova di idoneità, probabilmente “una tantum”. Da 4 mesi si è scatenato un braccio di ferro tra i giovani ex restauratori e il ministero che evidentemente li vuole restaurare. Col seguente risultato: un megaricorso al Tar Lazio esercitato da 50 ex studenti napoletani che si addiziona agli altri 5 presentati in tutta Italia.

C

Il dicastero guidato da Sandro Bondi, nel frattempo, ha congelato la data del concorso almeno fino a settembre. Dal canto suo, il tribunale amministrativo probabilmente rimetterà la questione alla Corte costituzionale. Insomma, c’è confusione. «È un paradosso che al Sud si vadano a togliere possibilità di formazione ai giovani in un campo come il terziario avanzato - commenta l’avvocato Giambattista Iazeolla, che difende i laureati napoletani -. Di questo passo l’Accademia potrebbe ridursi a formare solo restauratori dal punto di vista culturale e non pratico, cioè finalizzato al mondo del lavoro». Il cruccio dei ricorrenti al Tar è anche un altro: il concorso riguarda solo i laureati e non gli allievi delle scuole Icr (Istituto centrale del restauro di Roma) e Opd (opificio delle pietre dure di Firenze) che una volta diplomati sono restauratori a tutti gli effetti. La genesi di un simile provvedimento, il decreto applicativo del testo unico del 2004, contestatissimo dalle nuove leve, trova fondamento nella necessità di eliminare i restauratori improvvisati e privilegiare chi affronta un impegnativo corso di studi. Lodevole proposito, quello del decreto. L’effetto collaterale però è che si crea un collo di bottiglia, la prova una tantum, ed enormi sacche di precariato. Precariato, già: nelle more dell’esame i laureati non stanno con le mani in mano. A nero, spesso e (mal)volentieri, vanno a bottega, inquadrati con contratti a progetto magari come collaboratori al restauro (grado inferiore). Quando non si svolge opera presso privati la gran parte dei lavori passa per il settore pubblico e quindi le Soprintendenze. Enti, questi ultimi, che in punta di diritto potrebbero liquidare con un categorico «non si può» anche ditte di restauro impegnate da anni su basiliche e palazzi antichi. Il motivo è sempre lo stesso: senza «permessi» (cioè qualifica formale) niente appalto. All’estero la situazione cambia: con lo stesso diploma di laurea italiano in Belle Arti, si viene riconosciuti restauratori. Così in Germania, Spagna, Svizzera e diverse altre nazioni di area Ue. Insomma, ci sono ragioni e torti di qua e di là. Ma ciò che più colpisce è che un ministero - Beni culturali - non si fida di quanto fa un altro ministero - Pubblica istruzione - e chiede ai laureati di superare un concorso.

«Una nuova classe dirigente per i cattolici in politica» Angelo Bagnasco lancia un appello davanti alla Cei di Guglielmo Malagodi

ROMA. Dal presidente della Cei Angelo Bagnasco è arrivato un incoraggiamento «ai cattolici impegnati in politica ad essere sempre coerenti con la fede che include ed eleva ogni istanza e valore veramente umani». In questo contesto, ha detto Bagnasco, è auspicabile che «questa stagione contribuisca a far sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che, pur nel travaglio della cultura odierna e attrezzandosi a stare sensatamente dentro ad essa, sentono la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti, e per essa sono disposti a dare il meglio dei loro pensieri, dei loro progetti, dei loro giorni». E cioè restando fedeli «ai valori che costituiscono il fondamento della civiltà, la vita umana comunque si presenti e ovunque palpiti, la famiglia formata da un uomo e una donna e fondata sul matrimonio, la responsabilità educativa, la solidarietà verso gli altri, in particolare i più deboli, il lavoro come possibilità di realizzazione». Le parole di Angelo Bagnasco sono risuonate all’interno del Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana che si è aperto ieri a Roma. «Sogno – ha ammesso il porporato - italiani e credenti che avvertono la responsabilità davanti a Dio come decisiva per l’agire politico. So che per riuscire in una simile impresa ci vuole la Grazia abbondante di Dio, ma anche chi accetti di lasciarsi da essa investire e lavorare. Ci vuole una comunità cristiana in cui i fedeli laici imparino a vivere con intensità il mistero di Dio nella vita, esercitandosi ai beni fondamentali della libertà, della verità, della coscienza. Se questo è un sogno – ha concluso - so che ad esso ci si può avvicinare anzitutto attraverso le circostanze ordinarie dell’esistenza, le tappe apparentemente anche più consuete, ma che racchiudono in se stesse la cadenza del progetto che avanza».

nomico, incamminata verso una fase di prudente ma indubitabile recupero. L’Italia, che già mentre la crisi imperversava ci è parsa almeno in parte al riparo dagli scossoni più violenti, oggi sembra aver colto con una certa prontezza la via della ripresa». Il cardinale ha sottolineato che questo risultato è possibile «grazie ad una serie di salvaguardie del nostro sistema economico e finanziario complessivo, che sono state rafforzate, ma anche grazie all’intraprendenza delle nostre imprese che hanno saputo fronteggiare l’inasprimento delle condizioni del mercato attraverso il riposizionamento strategico del proprio impianto produttivo».

Ma poi Bagnasco si è soffermato a lungo sulla tragedia di Rosarno. I fatti terribili successi in Calabria di recente e le parole del Papa hanno messo in moto nell’opinione pubblica una riflessione sull’umanità degli immigrati – ha detto Bagnasco - che nessuna «ruspa» potrà facilmente rimuovere. «Ritengo - ha detto il cardinale - che l’opinione pubblica nazionale abbia con l’occasione potuto avviare una riflessione che nessuna ruspa può facilmente rimuovere. Voci sagge - ha aggiunto - si sono alzate per dire cose importanti, da non scordare. Io vorrei riprendere le parole essenziali che il Pontefice ha usato per centrare il cuore del problema: “Bisogna ripartire dal significato della persona. Un immigrato è un essere umano, differente per provenienza, cultura e tradizioni, ma è una persona da rispettare e con diritti e doveri, in particolare, nell’ambito del lavoro, dove è più facile la tentazione dello sfruttamento, ma anche nell’ambito delle condizioni concrete di vita”. Niente può farci dimenticare questa verità - ha commentato il presidente dei vescovi italiani -: l’immigrato è uno di noi; noi italiani siamo stati a nostra volta immigrati, e prima di noi lo è stato Gesù. Bisogna partire da qui, e mai staccarsi da questa consapevolezza che va incardinata nei pensieri personali e collettivi degli adulti, come dei giovani e dei bambini. Dio è il garante della profondità e della “risonanza” in noi del volto dell’uomo, di ogni uomo» ha concluso Bagnasco. «Questo naturalmente vale in ogni angolo della terra, e vale anche per la violenza patita dai cristiani in alcuni Paesi, tanto più se si manifesta nei giorni più cari alla tradizione evangelica».

A Rosarno si è consumata una grande tragedia: «Ci siamo dimenticati che tutti siamo stati emigranti. Gesù per primo»

Tanti sono stati i temi affrontati da Bagnasco nella sua prolusione, dall’ambiente all’effetto nefasto di certa stampa sui comportamenti sociali; dalla centralità della famiglia all’economia disastrata dal cattivo esempio di certi esponenti finanziari. «La situazione economica che non poco ci ha preoccupato nella stagione precedente - ha detto Bagnasco appare oggi, se guardiamo allo scenario macroeco-


panorama

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Venerdì è stata resa nota la decisione del Pontefice di continuare a puntare sull’uomo scelto tre anni e mezzo fa

Bertone: il Papa ha un alter ego La conferma del porporato alla Segreteria di Stato segna la continuità nella Chiesa di Luigi Accattoli a conferma del cardinale Bertone come Segretario di Stato, arrivata con l’Osservatore romano di venerdì, non ha sorpreso nessuno ma ha comunque un doppio significato che merita di essere indagato: ne risulta confermata la linea sobria e personalissima seguita fino a oggi da Papa Benedetto nel governo della Chiesa e ne esce consolidata la ricaduta italiana di quel governo, che vuol dire alleggerimento del pressing legislativo sulla maggioranza di governo.

L

Considero fortunata la combinazione Raztinger-Bertone per il tipo umano, diversissimo, che i due incarnano. Perché tanto è concentrato, riservato e razionale il Papa; quanto è pragmatico, estroverso e improvvisatore il Segretario. Così Bertone può non solo accompagnare le decisioni del papa ma può provare a contemperarle e integrarle con il suo consiglio. L’arcivescovo Tarcisio Bertone è stato per oltre sette anni (dal 1995 al 2003) il più diretto collaboratore del cardinale Ratzinger alla Congregazione per la dottrina della fede: è a motivo di quell’esperienza che Benedetto XVI l’aveva scelto – tre anni e mezzo addietro – per la Segreteria di Stato. Ma l’apprezzamento del cardinale Ratzinger per le sue “doti”, donde la “chiamata” a quel ruolo di diretto collaboratore, risale a molto prima, a quando “don Bertone” era solo un“consultore”della Congregazione e ha

una data precisa di manifestazione pubblica: nel 1988 il cardinale l’aveva inserito nel gruppo di periti che l’aiutò nelle trattative con il vescovo tradizionalista Marcel Lefèbvre. Di tutto questo il Papa ha voluto fare memoria nella lettera di conferma, nella quale ricorda «il lungo cammino della nostra collaborazione», il «delicato lavoro da lei svolto per costruire il dialogo con Monsignor Marcel Lefebvre» e persino «la visita a Vercelli che fu per me

motivo di un rinnovato incontro con un grande testimone della fede, San Eusebio di Vercelli». Qui non abbiamo date consegnate alle biografie ufficiali, ma possiamo immaginare che divenuto nel 1991 arcivescovo di Vercelli, l’intraprendente Bertone abbia avuto come suo ospite il cardinale tedesco che da giovane si era occupato anche del“padre della Chiesa”Eusebio di Vercelli. Infine il Papa ricorda il calore umano che caratterizza Bertone e qui sono sicuramente d’accordo quanti – anche minimamente – l’hanno frequentato: «Ho sempre ammirato il suo “sensus fidei”, la sua preparazione dottrinale e canonistica e la sua“humanitas”, che ci ha molto aiutato a vivere nella Congregazione per la Dottrina della Fede un clima di autentica familiarità».

I due collaborano insieme fin dai tempi ormai lontani della Congregazione della fede

Salesiano verace, appassionato di sport, amante del canto, dotato di una bella voce impostata, Bertone è atipico come figura ecclesiastica. È più informale, più libero nel linguaggio, più accessibile rispetto al tipico cardinale italiano. La sua specializzazione è il diritto canonico. Su incarico del cardinale Ratzinger, quand’era segretario della sua Congregazione si è occupato della pubblicazione del terzo segreto di Fatima (2000) e del caso Milingo (2002). Si sapeva che il cardinale Ratzinger ne apprezzava il senso pratico, la rapida capacità di esecuzione e la semplicità del tratto. Ma an-

che il carattere gioviale l’ha reso caro al futuro Papa. Figlio di padre organista, Bertone è un appassionato di musica. Quand’è libero, suona il piano e canta. Durante la vicenda Milingo, almeno una volta gli capitò di cantare, durante una cena, presente il vescovo esorcista, cantautore rinomato, il quale commentò: «Ha cantato anche monsignor Bertone, che ha una bella voce». Credo che nella sua nomina a Segretario di Stato abbia agito un’astuzia della Provvidenza, o della storia, che ha voluto l’estroverso Bertone accanto al severo Ratzinger. Così come aveva posto il prudente Casaroli accanto all’audace Wojtyla. Le sue sono attitudini complementari a quelle di papa Benedetto e dunque quando i due concordano possiamo essere sicuri che sono state ben viste ambedue le facce della medaglia. La sua permanenza alla Segreteria di Stato può essere vista con favore da chi in Italia abbia a cuore un’evoluzione del rapporto Stato-Chiesa verso una maggiore reciproca autonomia delle due entità. È nota la sua convinzione che quel rapporto debba stare di più nelle mani “diplomatiche” della Santa Sede che in quelle “pastorali” della Conferenza episcopale. Finchè sarà lui il Segretario di Stato non torneremo alla pressione continuata dell’episcopato sulla politica che abbiamo avuto negli ultimi anni della gestione Ruini-Betori. www.luigiaccattoli.it

Nutella. Il gigante della cioccolata italiana rinuncia ad acquistare la britannica Cadbury

Ferrero, quando piccolo è bello di Alessandro D’Amato

ROMA. «Se Ferrero fosse stata quotata, avrebbe avuto i mezzi finanziari per comprarsi Cadbury»: a parlare così, qualche giorno fa, è Claudio Costamagna, banchiere d’affari ex Citigroup e Goldman Sachs, durante la presentazione del libro Italian Bankster. Parole indirettamente confermate dal presidente di Cadbury, Roger Carr, il quale, commentando sul Sole 24 Ore il passaggio del gigante del cioccolato britannico al colosso americano Kraft, ha dichiarato: «L’ho detto prima e lo ribadisco ora: avrei preferito vendere all’accoppiata Hershey-Ferrero. Ma non c’è mai stata un’offerta concreta. Cadbury non aveva bisogno di Kraft, ma Kraft aveva bisogno di Cadbury. Credo che il gruppo italiano – ha spiegato – fosse genuinamente interessato, ma la voglia del padre (Michele Ferrero) di infilarsi in una complessa transazione era obiettivamente scarsa, avendo sempre preferito la crescita organica». E in effetti l’intuizione di Carr sembra corrispondere al vero, visto che qualche

cronaca giornalistica ha puntato il dito proprio sulle divisioni interne della famiglia, poi rientrate, con i figli pronti all’internazionalizzazione e il padre invece per nulla disposto a rischiare un’impresa troppo grande per dimensioni, visto che Cadbury (di cui Ferrero aveva puntato non il settore cioccolato, che sarebbe an-

stribuire un euro di dividendo alla controllante lussemburghese Ferrero International Sa.

Eppure è vero che soltanto la Borsa avrebbe fornito, di suo, i mezzi per permettere a Ferrero un acquisto così importante, che l’avrebbe definitivamente proiettata nell’alveo dei “grandissimi” dell’alimentare. Magari Cadbury non sarebbe stato l’acquisto giusto, ma è difficile non cogliere, nella scelta della famiglia, una tendenza al “piccolo è bello” che va benissimo quando si parla di imprese mediograndi, è meno efficace nella gestione degli aspiranti grandi. Forse è vero che Cadbury non valeva una messa. Ma quando ci sarà qualcosa che la varrà, si riuscirà a farsi trovare pronti?

Soltanto la Borsa avrebbe potuto fornire agli italiani i mezzi per fare un acquisto che li avrebbe proiettati definitivamente tra i “grandissimi” dato ad Hershey, ma la pastiglieria) ha il doppio dei dipendenti del gruppo di Alba. In questo caso, poi, c’è da dire che non è certo Ferrero l’azienda di cui si può dire che i proprietari si stanno approfittando senza investire: l’anno scorso sono arrivati ricavi per 2,47 miliardi e utili per 139 milioni, ma la famiglia ha deciso riportare a nuovo l’intero profitto, quindi di non di-


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otremmo dire che in Italia solo con l’istituzione del “Giorno della Memoria”è stato deciso di ammettere finalmente la necessità di ricordare gli ebrei vittime della Shoah insieme ai non ebrei che fecero di tutto per salvare i perseguitati della furia nazista? Non so se è possibile dare una definizione temporale così precisa, ma certamente in questi ultimi anni l’attenzione verso le vicende risalenti ormai a più di 60 anni fa si sta sempre più ampliando. Sarà perché ci rendiamo conto che i testimoni diretti dell’olocausto stanno “sparendo”(Miep Gies, una delle persone olandesi che nascosero Anna Frank e la sua famiglia, è morta lo scorso 11 gennaio)? Mi auguro non solo per questo e che la ragione più profonda sia altra. Primo Levi (che nel 1947, pubblicando in sole 2.500 copie con la piccola casa editrice De Silva Se questo è un uomo, comunicò al mondo, forse per primo, l’orrore con gli occhi del testimone), nel 1987, morendo, lasciò detto non di «non dimenticarlo», ma di «non dimenticare». Accanto alle cronache delle mostruosità raccontate da chi tornò dai campi, le vicende degli ebrei che si nascosero, che fuggirono cercando di scampare alla follia tedesca, si sono recentemente arricchite di una nuova e inedita testimonianza in modo del tutto imprevisto e “rocambolesco”. Nel 1995 muore Gunvor Hofmo, scrittrice norvegese considerata una delle più importanti poetesse moderne. Nel 1998 Jan Erik Vold, raccogliendo del materiale per una biografia della Hofmo, trova tra le sue carte un voluminoso pacco contenente diari, lettere, fotografie e disegni, appartenenti a una giovane ebrea rifugiata in Norvegia. Dopo 10 anni di accurato lavoro editoriale Vold pubblica gli scritti di Ruth Meier (in Italia Fuori c’è l’aurora boreale. Il diario di Ruth Meier, giovane ebrea viennese, Salani Editore). La giovane viennese era fuggita dopo l’annessione dell’Austria alla Germania. A Oslo terminò gli studi superiori, lavorò e conobbe intellettuali, poeti e artisti. Fu la modella per una statua di Gustav Vigeland, ora alVigeland Park di Oslo. Il 26 novembre 1942 fu fatta imbarcare dai tedeschi sulla nave Donau con altri 540 ebrei e deportata ad Auschwitz. Il 1° dicembre fu gasata a soli 22 anni. La stretta amicizia con la Hofmo (che invano tentò nel 1953 di pubblicare parte dei diari) ha permesso oggi di ritrovare i diari che la Meier aveva scritto dai 12 anni, riempiendo 8 quaderni con racconti, confessioni, riflession. Il suo talento letterario, nell’osservazione e nell’approfondimento di temi come l’amicizia, l’amore e la giustizia, ricorda quello di scrittrici come Hannah Arendt o Susan Sonntag. La sua forza comunicativa potrebbe essere paragonabile a quella di un ben più noto Diario.

P

Come la Hofmo, numerosi furono coloro che aiutarono i perseguitati. Dal 1962 a oggi l’elenco dei “Giusti tra le nazioni” (i non-ebrei che hanno agito in modo eroico a rischio della propria vita per salvare la vita anche di un solo ebreo dal genocidio nazista) annovera più di 22.000 persone (quasi 500 gli italiani).Tra queste la storia della polacca Irena Sendler ha dell’incredibile: per come si svolsero i fatti e per il ritardo con cui fu resa nota la sua vicenda. Dalla storia della vita di Irena è stato tratto un film-tv, The Courageous Heart of Irena Sendler, prodotto in America nel 2009. Indipendentemente dal titolo, molti lo chiameranno “Sendler list”, in riferimento allo Schindler list, di Steven Spielberg. Non è un gioco di parole, è solo l’assonanza tra il nome dell’imprenditore te-

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Viaggio nella Polonia antisemita, mentre il mondo si prepara a

«Schindler’s lis Ricordando Miep Gies, Gunvor Hofmo e Irena Sendler: tre eroine che misero a rischio la propria vita pur di salvare il maggior numero di ebrei dalla persecuzione nazista di Dianora Citi desco che salvò 1.100 ebrei e il nome della donna polacca, socialista, assistente sociale, cattolica senza essere bigotta, che strappò alla morte 2.500 bambini rinchiusi nel ghetto di Varsavia. Irena, terminata la guerra, riprese la vita di sempre. Ritornò nel cono d’ombra del regime parasovietico, portandosi addosso ferite tremende, morali e fisiche, infertele durante la prigionia, periodo durante il quale lei non parlò e non tradì nessuno, nemmeno sotto tortura. Quando i nazisti l’avevano

Numerosi furono coloro che in gran segreto aiutarono i perseguitati: dal 1962 a oggi, l’elenco dei Giusti tra le nazioni annovera più di 22.000 persone (di questi, quasi 500 gli italiani)

catturata, non sapevano di trovarsi dinanzi a un esponente importante dell’organizzazione clandestina polacca Zegota, e non riuscirono mai a trovare quel barattolo di latta nel quale Irena aveva infilato, mese dopo mese, le indicazioni anagrafiche dei bambini che era riuscita a far passare oltre lo sbarramento del ghetto e a far affidare a famiglie di estrema fiducia.

Solo anni dopo, nel suo modesto appartamento nella capitale polacca cominciò la sfilata dei sopravvissuti che nella donna riconobbero la loro seconda madre, la persona che aveva custodito, su strisce di carta sottilissime, l’identità di ciascuno dei “salvati”. Oltre alla vita Irena aveva “salvato”il nome vero, l’identità e l’appartenenza familiare di origine. La vita di questa donna, morta ultranovantenne nel maggio 2008, è narrata da Anna Mieszkowska nel libro Nome in codice Jolanta (Edizioni San Paolo), quasi totalmente imperniato sull’intervista alla Sendler, fino ad allora restia a parlare con i giornalisti, “così imprecisi”, dei quali non ebbe mai buona opinione.

Irena aveva sempre minimizzato il proprio eroismo. Quando gli israeliani nel dicembre 1965 la riconobbero “Giusta tra le nazioni”, la figlia Janina rimase sorpresa: «La mamma non mi aveva parlato della sua attività. Solo ora ho compreso che cosa ha fatto». Nel 1983 è stato piantato il suo alberello alloYad Vashem. Nel 1991 le fu conferita la cittadinanza onoraria di Israele. Nel 2003 il Parlamento polacco e il premier del suo paese s’inchinarono al suo altruismo, conferendole la massima onorificenza polacca, l’Ordine dell’Aquila Bianca. I principi morali appresi dalla Sendler erano così saldi che la ragazza aveva trovato del tutto naturale aiutare il prossimo bisognoso di soccorso: «Mio padre morì quando avevo sette anni. Ho sempre ricordato però quel che diceva, che le persone si dividono in buone e cattive. La nazionalità, la razza e la religione non hanno importanza. Solo questo conta, che persona si è. Il secondo principio che mi è stato insegnato è il dovere di porgere la mano a chiunque sia nel bisogno». Molto particolare è la genesi del “caso Sendler”, una vecchietta che dal 1945 continuava a vivere a Varsavia senza aver mai scritto una qualche memoria personale.Tutto iniziò in America, nella scuola di Uniontown, 150 chilometri da Kansas City. Qui quattro ragazze, dai 13 ai 16 anni idearono un progetto per le “Olimpiadi della Storia”. Avevano letto un articolo comparso nel 1994 sul giornale U.S. News & World Report, dopo la prima del film Schlinder list. Vi si menzionava una certa Irena Sendler che aveva salvato 2.500 bambini ebrei, alcuni dei quali in fasce. L’insegnante, Norman Conrad, ebbe qualche dubbio: «Non è che ci sia uno zero di troppo? Verificate». Le studentesse scoprirono che non c’erano inesattezze numeriche e cominciarono a documentarsi. Allestirono, sul solco della vita eroi-

ca di Irena, uno spettacolo teatrale intitolato Olocausto. La vita in un barattolo. Fu un successo travolgente. La pièce venne rappresentata anche a New York. Le ragazze ottennero dalle autorità israeliane l’indirizzo di Irena e cominciò così la fitta corrispondenza. Fino ad arrivare all’incontro, il 23 maggio 2001. Il professor Conrad aveva predisposto la visita ad Auschwitz e una lunga passeggiata a Varsavia perché le ragazze potessero vedere anche il giardinetto di via Lekarska 9 con l’albero di mele, sotto al quale la Sendler aveva sotterrato il barattolo con la lista dei bambini salvati. A poco a poco viene dissotterrato anche quel pezzo di vita eroica di Irena. Diciassettenne si era iscritta alla facoltà di legge. Era il tempo «delle orribili risse antisemite». Irena, intimamente educata alla non discriminazione, si sedeva sempre tra i compagni israeliti e un giorno venne punita perché


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a celebrare il decimo anniversario del “Giorno della Memoria”

st» al femminile

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verso i quali lasciare il ghetto. Irena utilizzò quei “buchi” e di notte spingeva i bambini in zona proibita. Appena fuori c’era un medico, o un volontario o un membro dell’organizzazione segreta pronti a prenderli in custodia, portarli in un istituto, dove potevano stare tre giorni, essere sfamati e lavati e poi affidati a famiglie non ebree. Iniziò così la fuga degli innocenti. Furono salvati 2.500 bambini. Se molto piccoli, col pericolo che strillassero a un posto di blocco, li si calmava prima con qualche farmaco. Qualcuno metteva su un camion un cane che abbaiava di continuo: distraeva i nazisti. Alcuni furono nascosti nelle autopompe dei vigili del fuoco. Poi c’erano i percorsi fognari e vari altri cunicoli sotterranei. Il Palazzo del tribunale aveva due entrate: una dalla parte del ghetto e l’altra dalla parte ariana. Grazie all’aiuto e all’umanità di pompieri, infermieri e semplici uscieri i bambini attraverso il Palazzo raggiungevano la salvezza.

La Polonia “socialista” conobbe nel 1968 l’ultima persecuzione antisemita, in cui si combinarono motivi tratti dai due totalitarismi più pericolosi del 900: fascismo e stalinismo

cancellò la scritta «lato destro ariano» dal suo libretto. Riuscì a laurearsi, nel giugno 1939. Si era già sposata con Mieczyaslaw Sendler. Successivamente divenne assistente sociale e operatrice del Dipartimento contro le malattie contagiose.

28 settembre 1939: capitolazione della Polonia. I nuovi padroni proibirono qualsiasi tipo di aiuto o assistenza agli ebrei, per passare poi a decretare la pena di morte anche per chi avesse soltanto fatto dell’elemosina a un giudeo. Irena si accorge che lo sterminio dei bambini, a cominciare dall’estate del ’41, era diventato «uno degli scopi bellici di Hitler». I bambini ebrei, venivano fucilati o bruciati vivi. Il problema era come salvarli. Nasce l’organizzazione segreta Zegota. Per gli ebrei di Varsavia era d’obbligo portare al braccio la stella di David. Quando il ghetto

venne chiuso, il 16 novembre 1940, dentro c’erano 400mila persone, delle quali 130mila deportate con la forza. Un’ordinanza proibiva agli ebrei di lasciare il ghetto e ai polacchi di prestare loro aiuto. In caso di violazione, pena di morte: per entrambi. Racconta Irena: «Il mio lasciapassare di assistente sociale mi permetteva di entrare nel ghetto. Ma entrata mi mettevo al braccio la fascia con la stella di David. Da parte mia era un gesto di solidarietà». Non tutto filò liscio. Un giorno si dimenticò di togliersi“il marchio”giudeo e uscì così in territorio ariano: «Un gendarme tedesco subito si gettò su di me per picchiarmi, mentre un poliziotto polacco cominciava a strapparmi di mano il lasciapassare. Mi trovai in pericolo». La scampò dopo aver convinto l’agente polacco a telefonare a un’alta autorità (sua amica), che confermò che la Sendler era

nel ghetto per ordine suo. Un’altra volta venne aggredita da un poliziotto ebreo. Sì, c’erano anche quelli nel ghetto e non sempre si comportavano diversamente dai famigerati “kapo” dei campi di concentramento. Assieme ad altre donne, Irena, che si faceva chiamare Jolanta, si prendeva cura dei bambini affamati e soli: i genitori erano stati fatti salire sui treni della morte, diretti nei campi e non sarebbero tornati. Il problema era scegliere: «Non era possibile liberarli tutti. Bisognava salvare quelli che si aveva l’occasione di mettere in salvo», racconta Irena-Jolanta. L’“azione”scattò nell’inverno del 1942, quando le condizioni di vita nel ghetto diventarono insopportabili. Una grande quantità di bambini dilagò nei quartieri di Varsavia a chiedere l’elemosina. La maggior parte erano piccoli ebrei, abili a trovare pertugi attra-

Nella prefazione Moni Ovaia ci spiega che «la Sendler è stata a lungo dimenticata per ragioni ideologiche. Lei donna di sinistra non è stata riconosciuta dalle istituzioni del suo paese perché troppo democratica e indipendente per essere omologata, troppo “amica degli ebrei” per non essere scomoda in un paese i cui vasti strati della popolazione hanno continuato a nutrirsi di cultura antisemita anche dopo lo sterminio nazista. La Polonia“socialista”ha conosciuto nel 1968 l’ultima persecuzione antisemita dell’Occidente. Dopo che tre milioni di ebrei polacchi erano passati per i camini, il governo di Gomulka costrinse 342 mila cittadini ebrei a lasciare il paese con 30 chili di bagaglio a persona, e la comunità ebraica di Polonia, la più luminosa e spirituale di tutta la Diaspora fu pressoché ridotta all’estinzione». Insomma, dell’antisemitismo era imbarazzante parlare nella seconda metà degli anni Sessanta. «Un antisemitismo», scrive Ovaia, «nel quale si combinavano motivi tratti dai due totalitarismi più pericolosi del secolo XX: il fascismo e lo stalinismo». A questo proposito solo un breve accenno all’ultimo libro di Marco Patricelli, Il volontario (Laterza), che narra la storia di Witold Pilecki, intellettuale polacco, ufficiale di cavalleria, unico uomo fattosi rinchiudere volontariamente ad Auschwitz, riuscito ad evaderne, ma finito poi stritolato dallo stalinismo dopo aver combattuto il nazismo.


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Reportage. Il risultato delle scorse elezioni ha frenato la spinta di Hezbollah e Amal, che devono fare i conti con il governo

La guerra di parole Un viaggio nell’eterno conflitto del Libano, dove i media sono potenti quanto le armi dal nostro inviato Pierre Chiartano

NAQOURA. La miccia sciita sembrerebbe essersi bagnata in Libano. Ma il condizionale è d’obbligo nel Paese dei cedri e della porpora fenicia. A Naqoura, la base delle Nazioni Unite corre per più due chilometri lungo la costa. Fermandosi poche centinaia metri dalla Blue line. Un limes che nel villaggio di Ghajjar arriva a dividere in due una casa. Una linea convenzionale che separa il compound Onu da Israele, dai suoi binocoli e dalla tante antenne dell’elint, sigint e telint che scrutano e sorvegliano uno dei confini più caldi della regione. Mentre gli F16 della Iaf pattugliano dall’alto. La pioggia di questa stagione è fastidiosa, ma ci si fa presto l’abitudine. Arrivando da Tiro, check point della Lebanon armed force (Laf) si alternano a piccole piantagioni di banane e sconnessi agglomerati urbani che sembrano accampamenti. La presenza di Hezbollah, il partito di Dio si sente a sud del fiume Litani,

dove la maggioranza è sciita. «Qua la stampa locale è in divisa, faziosa, non racconta i fatti, dice come la devi pensare. Se scrivono che c’è il sole - in una giornata di pioggia - la gente non apre l’ombrello» racconta il tenente colonnello Diego Fulco, responsabile della pubblica informazione per Unifil 2, la missione Onu in Libano. I baschi blu sono arrivati dopo l’ultimo conflitto nel 2006 tra Israele ed Hezbollah. Nell’era della comunicazione, anche

terzo incarico consecutivo al comando della missione internazionale l’ha capito bene. Lo sanno il colonnello Gerardo Restaino e i 331 militari italiani che ci accolgono nella base di Naqoura. I rapporti con i media libanesi, arabi, israeliani e internazionali sono la chiave per far capire alla gente cosa stanno a fare in Libano tanti militari che vengono da 29 Paesi diversi. Web, radio e produzione di brevi filmati trasmessi dalle tv locali, fanno

Il tenente colonnello Diego Fulco racconta: «Qua la stampa locale è in divisa: non racconta i fatti, dice come la devi pensare. Se scrivono che c’è il sole e piove, la gente non apre l’ombrello» per le missioni militari all’estero i rapporti con i media sono un elemento strategico. Se ne sono accorti gli americani, prima col generale David Petraeus poi con McChrystal in Afghanistan. Se ne sono resi conto gli inglesi, dopo le roventi critiche del colonnello McKay. Il generale Graziano al

parte del complesso lavoro che gli uomini della comunicazione in divisa hanno messo in campo per conquistare menti e cuori dei libanesi. Che siano sciiti, sunniti, maroniti o drusi poco importa «il messaggio va selezionato, perché c’è una diversa percezione di carattere geopolitico - continua Fulco -

in più dobbiamo vedercela col sistema propagandistico di Hezbollah che è una macchina che funzione molto bene».

Devo ammettere, aggiunge, «che la situazione sta cambiando e la responsabilità di governo hanno indotto i membri del Partito di Dio a comportamenti più equilibrati. Di recente c’è stato un incidente stradale: un nostro carro, trasportato da un mezzo della Laf, è finito addosso all’auto del figlio di un noto esponente del movimento sciita. Qualche

E intanto Israele tratta..

Il premier Netanyahu smentisce un attacco al Paese dei cedri un luogo comune, purtroppo confermato dai fatti, pensare che quando dal Medioriente giungono poche notizie significa che siamo alle porte di una nuova crisi. La calma prima della tempesta, quindi. Tuttavia lo scenario odierno offre gli spazi per confutare questa convinzione. È passata inosservata la presa di posizione del Primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, quando lo scorso sabato ha pubblicamente sconfessato le dichiarazioni di un membro del suo staff, l’ex generale Yossi Peled, relative all’imminenza di un nuovo scontro fra Tzahal, le Forze Armate israeliane, ed Hezbollah, il movimento sciita più influente a Beirut. Israele, ha detto il “falco” della politica israeliana, «è alla ricerca di un accordo di pace con il Libano così come con tutti gli altri Paesi vicini». Parole, quelle di Netanyahu, che suggeriscono la sua disponibilità a non

È

di Antonio Picasso lanciare provocazioni che comprometterebbero i delicati equilibri che in questo momento si sono venuti a creare nel contesto mediorientale.

Netanyahu, forte delle esperienze belliche negative in cui si era imbattuto il suo predecessore, Ehud Olmert, non ha intenzione di dare il via a operazioni militari preventive senza una più che giustificata motivazione. La sola linea di intransigenza si concentra sulla questione degli insediamenti, in merito ai quali è evidente che Israele non è disposta a trattare. A Beirut la dichiarata distensione di Netanyahu è stata presa come un’opportunità per procedere sul cammino della normalizzazione politica interna, oltre che nella ricostruzione economica del Paese. Ieri, un editoriale dell’Orient-Le Jour, il quotidiano in lin-

gua francese più letto di tutto il Paese dei cedri, non nascondeva il proprio stupore di fronte a questo atteggiamento del Paese vicino. Anzi, ricostruendo l’evoluzione delle più recenti schermaglie tra il governo libanese e quello israeliano, giungeva alla conclusione che, senza l’intervento di Netanyahu, si sarebbe potuti giungere a un nuovo punto di rottura.

La minaccia di Peled era stata anticipata da interventi simili, da parte di altri e più influenti membri dell’esecutivo israeliano. Primi fra tutti quello del vice Ministro della Difesa, Matan Vilnaï, il quale aveva ribadito le preoc-

anno fa avrebbero cavalcato l’episodio per attaccare la nostra presenza. Questa volta sono intervenuti proprio per evitare disordini». Ricordiamo anche che l’onda lunga degli uomini di Nasrallah si è affievolita, dopo le ultime elezioni dell’estate 2009. Sia Hezbollah che Amal, l’altro partito sciita, hanno entrambi perso consensi e poltrone nel Parlamento di Beirut. Mentre tutti si aspettavano una vittoria.

Molti analisti vicini all’attuale premier Saad Hariri - fi-

Il premier israeliano Bibi Netanyahu. In alto, un soldato del contingente Unifil. Sotto, guerriglieri di Hezbollah


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glio di Rafiq, il premier assassinato nel 2005 - sono convinti che la sfida di portarli al governo ne abbia finalmente incrinato l’immagine. Un conto è raccogliere consensi, gridando contro Israele e il “complotto sionista”, un’altra è amministrare con oculatezza un territorio povero, ma difficile. «Abbiamo a che fare con un panorama mediatico altamente sviluppato, con numerose testate; eccessivamente politicizzato, dove gli operatori della comunicazione sono molto scaltri; fortemente polarizzato e che gode di una scarsa credibilità, proprio a causa dei motivi che ho elencato» afferma il Public information officer del generale Graziano e dei quasi 2.300 italiani stanziati in Libano.

Niente è facile da queste parti, ma neutralità, credibilità e coerenza, alla lunga, pagano. E tra le tante campane che suonano nelle orecchie dei libanesi quella dei baschi blu sembra diventare, giorno dopo giorno, un punto di riferi-

oriente, l’ottimo lavoro degli italiani che per primi hanno creduto nell’approccio integrato tra militari e civili e tra armi e comunicazione, non deve farci dimenticare che il Paese resta una polveriera. Israele ha consegnato le mappe con “le strisciate delle zone di lancio delle cluster bomb” degli ordigni che rilasciano fino ad 800 piccole bombe antiuomo.

Facilitando così il lavoro di bonifica. Mentre la Maritime la task force con fregate e corvette italiane, turche e greche garantisce l’interdizione navale lungo le costa e l’addestramento della marina libanese. Se, qualche tempo fa, il 2010 veniva considerato come un anno “da vivere pericolosamente” per la pace della regione, oggi, qualche motivo in più per sperare esiste. Anche se gli M4 dei carabinieri del Tuscania che ci accompagnano ovunque potrebbero suggerire un clima diverso. Claudio Graziano lascerà il 28 gennaio l’incarico di Force commander

Nei 64 chilometri dove opera, l’ottimo lavoro del contingente italiano non deve farci dimenticare che il Paese resta una polveriera. Anche se forse con la miccia più umida di prima mento. In un posto dove la parola opinione pubblica è un concetto aleatorio. «Chiaramente tutto il nostro lavoro è finalizzato a contribuire alla sicurezza delle truppe sul terreno e a creare un clima favorevole all’applicazione della risoluzione 1701 dell’Onu» spiega il Pio. Qua, tra Tiro, Tibnin e Marjayum, un’area di 64 chilometri di lunghezza per 40 chilometri di profondità verso

cupazioni che spesso animano l’opinione pubblica e ancora di più la classe dirigente israeliana in merito al potenziale riarmo di Hezbollah, il quale andrebbe contro le disposizioni della risoluzione delle Nazioni Unite nota con il numero 1701.

Per tutta risposta, da Beirut era giunta una nota ufficiale del Primo ministro libanese, Saad Hariri, che sottolineava l’apprensione del suo governo in merito all’intensificarsi dei sorvoli sul territorio libanese da parte delle Israeli Defence Forces, anch’essi in violazione del documento Onu. Lo scambio di battute aveva provocato una nuova impennata del livello di allerta. Tutto questo avveniva appunto in maniera silenziosa e fuori dal quadrante internazionale focalizzato su altre priorità: Afghanistan prima e Haiti subito dopo. L’intervento di Netanyahu forse ha reciso l’eventualità che la tensione salga ulteriormente. Israele vuole concentrarsi sui problemi interni e su come affrontare l’Autorità palestinese da un posizione di forza

nell’ambito dei negoziati, al fine di ottenere il risultato più vantaggioso possibile. Non può permettersi di conseguenza di sprecare energie politiche e tanto meno risorse militari in uno scontro al nord con il “Partito di Dio”.

Quest’ultimo a sua volta è evidente che si sta rendendo conto della opportunità messa a disposizione dalla partecipazione nel governo Hariri con due suoi ministri. Per il movimento guidato da Hassan Nasrallah, questo significa incidere sulla Ammi-

accusato il “Partito di Dio” di traffico internazionale di droga per finanziarie le sue attività operative. Il Portavoce di Hezbollah, Ibrahim Mussawi, ha smentito però il settimanale tedesco. Da un lato questo ostacolo non alleggerisce l’immagine negativa che Hezbollah si è fatto nel corso degli anni. Dall’altro la trasformazione di quest’ultimo, da movimento a partito politico a tutti gli effetti, appare essere un fenomeno più che consolidato, almeno nell’ambito della sua dirigenza a Beirut. Diverso è il discorso che bisognerebbe fare in merito a quello che succede nel Sud del Paese, dove l’influenza e le attività operative delle milizie restano ancora elevate. A poco più di un mese dalla nascita del governo Hariri, la coalizione di unità nazionale della quale fa parte il movimento sciita sembra reggere. Questo significa che, nell’ambito delle forze politiche libanesi, si sta verificando una evoluzione positiva i cui risultati concreti sono la convivenza all’interno dell’esecutivo e la conseguente concertazione per la

La sola linea di intransigenza si concentra sulla questione degli insediamenti, in merito ai quali è evidente che Tel Aviv non è disposta a trattare. A Beirut la distensione sembra piacere nistrazione libanese non più mediante il ricorso alle sue milizie e attraverso quella sorta di “Stato parallelo” che Hezbollah è riuscito a costruire nel Libano del Sud, ma anche a livello nazionale e istituzionale. Un punto negativo in questo percorso è la recente inchiesta di Der Spiegel, che ha

di Unifil 2, con un’eredità che dimostra ancora una volta «che gli italiani avevano ragione» come ha più volte ribadito il capo di stato maggiore, Vincenzo Camporini. Ragione a fornire una risposta articolata alla complessità delle missioni militari internazionali. Ragione ad anteporre alla forza delle armi - che comunque serve - quella di un dialogo supportato dalla conoscenza.

stabilità del Paese, sia al suo interno sia rispetto ai governi vicini. Sono passati solo due anni dalla morte di Imad Mughniyeh, il Responsabile della Sicurezza di Hezbollah ed esponente della sua frangia più intransigente, ucciso a Damasco in un attentato il 12 febbraio 2008. Sempre in seguito a un’esplosione, tre anni prima, il 14 febbraio 2005, moriva a Beirut il padre dell’attuale premier libanese, Rafiq Hariri, anch’egli già Capo di governo. Finora le celebrazioni delle due ricorrenze sono state l’occasione per mostrare le spaccature e i rancori mai sopiti tra le forze in campo.

I prossimi rispettivi anniversari potranno essere la cartina di tornasole della situazione interna libanese. Se Hariri da un lato e Nasrallah dall’altro riuscissero ad adottare toni più moderati nei loro discorsi, vorrebbe dire che il Libano sta imboccando la strada per la normalizzazione politica e per il mantenimento degli equilibri anche con Israele. La pace è ancora lontana, ma il silenzio di questi giorni potrebbe andare davvero contro tutte le previsioni più pessimistiche.


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Urne. I candidati sono 22, per un elettorato di 14 milioni. Ma la corsa è fra due ggi lo Sri Lanka elegge il nuovo presidente e non si preannuncia una giornata semplice. Dall’inizio della campagna elettorale sono stati registrati centinaia di casi di violenza, e almeno cinque morti. Dunque un voto molto teso. I candidati sono 22 per circa 14 milioni di elettori, ma di fatto a contendersi la poltrona di questa strategica isola sudasiatica - in bilico tra le sfere d’influenza occidentale e cinese - sono il presidente uscente, l’ultranazionalista singalese Mahinda Rajapaksa, e l’ex comandante dell’esercito, anch’egli singalese, Sarath Fonseka. Ribattezzato dallo stesso presidente “il miglior condottiero militare al mondo” al tempo della comune lotta contro i Tamil. Un’amicizia finita all’indomani di quella vittoria, quando il presidente in carica accusò Fonseca di ordire un colpo di stato. Per chi ancora non lo avesse compreso, insomma, i due candidati sono i principali protagonisti della vittoria sulle Tigri tamil (avvenuta lo scorso maggio), di cui entrambi si contendono il merito, ma anche i massimi responsabili dei crimini di guerra commessi contro la popolazione civile tamil, ma di questo, e certo non è un caso, entrambi si rimpallano la colpa. Come sottolinea Asia Times, i due hanno molto in comune.

O

«Entrambi sono dei radicali di etnia sinhala ed entram-

Lo Sri Lanka al voto fra sangue e sfollati Il presidente in carica sfida il generale Fonseka, sostenuto dagli Stati Uniti di Luisa Arezzo

mo uomo forte dello Sri Lanka, per ironia della sorte, saranno gli sconfitti e umiliati tamil - il 14 per cento dell’elettorato - che ora si trovano a scegliere tra chi ha ordinato una guerra genocida contro di loro e chi l’ha condotta con cinico zelo. Non stupisce dunque che la maggior parte dei tamil abbiano deciso di disertare le urne. In partico-

Dall’inizio della campagna elettorale sono stati registrati centinaia di casi di violenza, e almeno cinque morti su cui si sta indagando bi sono dei guerrieri. Hanno affrontato il conflitto etnico dell’isola come un problema di terrorismo da risolvere militarmente piuttosto che politicamente. E Fonseka è stato il braccio della guerra contro le Tigri tamil (Ltte) voluta da Rajapaksa». L’elettorato singalese è spaccato in due tra chi voterà il presidente e chi il generale (quarant’anni tra le file dell’esercito e l’immagine di “uomo pulito” che lo ha reso per la maggioranza dei cingalesi il simbolo della lotta alla corruzione). Quindi a decidere chi sarà il prossi-

lare i 300mila tamil del nord sfollati dalla guerra, di cui 100 mila ancora rinchiusi nel campo di prigionia militare di Malik Farm.

Sulla carta, i voti dei tamil che si recheranno effettivamente alle urne dovrebbero andare al generale Fonseka, il quale è riuscito a incassare il sostegno ufficiale del principale partito politico della minoranza tamil: l’Alleanza nazionale tamil (Tna), storica formazione considerata il braccio politico dell’indipendentismo armato dell’Ltte, ma

Gli sfidanti non parlano del dramma dei profughi

Il tabù dei tamil COLOMBO. Un tema che nessuno dei candidati ha mai affrontato è quello delle numerose violazioni dei diritti umani commesse dall’esercito non solo durante la battaglia finale contro le Tigri, ma anche all’indomani della guerra. Secondo l’Onu, il governo di Colombo avrebbe preso tutti i profughi “liberati” dopo la sconfitta dei ribelli (quasi 300mila persone ridotte allo stremo) per imprigionarli in campi profughi militari circondati da filo spinato. In questi campilager, ai quali Onu e Croce Rossa non hanno libero accesso, si starebbero consumando abusi e crimini di ogni genere: i rifugiati, soprattutto vecchi e bambini, morirebbero per denutrizione, malattie e per mancanza di assistenza umanitaria e cure mediche, le donne subirebbero violenze ses-

suali, gli uomini verrebbero torturati durante gli interrogatori e molti sarebbero spariti. Da giugno 2009 ad oggi, l’Onu ha denunciato la sparizione di oltre 13mila persone. Il governo ha dichiarato di aver individuato e arrestato 10 mila “terroristi”tra il profughi. Nessuno può uscire da questi campi: chi prova a sgattaiolare fuori anche solo per procacciarsi cibo o legna da ardere viene fucilato dai soldati, anche se si tratta di donne o bambini. Il 7 settembre, il portavoce dell’Unicef in Sri Lanka è stato espulso dal Paese per aver denunciato la drammatica situazione. Sommerso dalle proteste, il presidente Rajapakse lo scorso 11 settembre ha annunciato la liberazione di circa 10mila profughi: in realtà erano stati trasferiti in un campo, più a nord.

ora su posizioni ultramoderate e solo vagamente autonomiste - e per questo sempre meno popolare tra i tamil. Alla Tna, guidata dal vecchio Rajavarothiam Sampanthan, Fonseka ha promesso in caso di vittoria la liberazione e il reinsediamento di tutti gli sfollati tamil, il rilascio dei prigionieri politici, la smilitarizzazione dei territori tamil ‘riconquistati’ dall’esercito, la concessione di una parziale autonomia al tamil eelam, la patria tamil, e in generale la fine delle politiche discriminatorie che stanno alla radice del problema tamil. Ma soprattutto ha avuto la scaltrezza di accusare pubblicamente Gotabaya Rajapaksa, fratello del presidente e ministro della Difesa, come vero responsabile dei crimini di guerra al quale lui era costretto ad obbedire. Alla fine, però, il generale Fonseka povincere trebbe non tanto per i voti tamil - che comunque saranno pochi - quanto per quelli dei singalesi meno nazionalisti e stanchi della sfacciata corruzione che ha caratterizzato l’amministrazione Rajapaksa.

A favore dell’ex capo dell’esercito potrebbe giocare anche il desiderio della comunità internazionale - in particolare degli Stati Uniti – di sostenere un cambio di regime a Colombo, per porre fine a una presidenza che si è progressivamente smarcata dall’influenza occidentale, stringendo rapporti di amicizia con l’Iran e soprattutto con la Cina, cui Rajapaksa ha concesso la costruzione di un grande porto (per ora solo ad uso commerciale) sulla costa meridionale dello Sri Lanka, ad Hambantota. Ma se l’esito del voto si presenta incerto, è abbastanza sicuro che chi vincerà sarà obbligato a rispondere delle accuse di crimini contro l’umanità commessi durante il conflitto contro i ribelli Tamil. Le Nazioni Unite, Stati Uniti ed alcuni Paesi europei hanno severamente criticato il governo dello Sri Lanka per avere detenuto circa trecentomila civili Tamil in campi di prigionia controllati dall’esercito. E hanno sempre sostenuto che il raggiungimento della vera pace nell’area potrà avvenire solo dopo che la giustizia avrà fatto il suo corso.


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L’amministrazione annuncia l’esecuzione di Alì il chimico

Il governo di Beirut: «Incidente, nessuna prova di attentati»

Baghdad, attacco contro la green zone: 34 vittime

Volo etiope si schianta in Libano: 91 morti

BAGHDAD. Dopo un periodo di

BEIRUT. Tragedia aerea sui cieli del Libano. Un Boeing 737 della Ethiopian Airlines partito dall’aeroporto di Beirut e diretto verso la capitale etiope, Addis Abeba, è precipitato in mare con 91 persone a bordo, 83 passeggeri e 7 membri di equipaggio. Fonti aeroportuali hanno riferito che il volo Et409 ha perso i contatti con la torre di controllo 5 minuti dopo il decollo e si è inabissato nel mar Mediterraneo poco al largo della costa. Il direttore dello scalo libanese dell’Ethiopian Airlines, citato dal portale di notizie Naharnet, ha poi reso noto che non ci sono superstiti. Le fonti riferiscono di aver avvistato una palla di fuoco in mezzo al mare. La polizia

relativa tranquillità, Baghdad è tornata ieri sotto attacco. Ci sono state tre potenti esplosioni nel centro della capitale irachena, vicino alla green zone, la zona verde ad alta sicurezza. Una strage: l’ultimo bilancio parla di 31 morti e 42 feriti. Secondo fonti della sicurezza, le vittime sono in gran parte civili iracheni. È stato colpito, probabilmente con autobombe, il quartiere dei grandi alberghi dove alloggiano giornalisti e stranieri. La prima esplosione è avvenuta lungo la via Abu Nawas, di fronte alla green zone, molto vicino agli hotel Palestine e Sheraton. Colpito anche un club privato dove era in corso una riunione politica in vista delle elezioni politiche di marzo. Gli altri attacchi avrebbero preso di mira gli hotel Babel e Hamra, tutti frequentati da occidentali. Nella capitale irachena torna dunque la violenza, a meno di due mesi dalle elezioni legislative in programma il 7 marzo, nonostante il rafforzamento capillare delle misure di sicurezza. L’ultimo attentato a Baghdad risale all’8 dicembre, quando in cinque attentati simultanei morirono 127 persone e 448 rimasero ferite. Sembra improbabile un collegamento con l’esecuzione, avvenuta sempre ieri, di Ali Hassan al

Aung San Suu Kyi, si avvicina la libertà La giunta sembra pronta a rilasciare la leader di Aldo Bacci er Aung San Suu Kyi ancora un anno di detenzione e poi la prospettiva della libertà. Secondo diversi testimoni un ministro del governo birmano ha reso noto che la leader dell’opposizione sarà rimessa in libertà a novembre, alla scadenza dei suoi attuali arresti domiciliari, finora più volte prolungati. Tre testimoni hanno affermato di aver sentito il ministro dell’Interno fare questo annuncio dinanzi a imprenditori e politici locali ed altre centinaia di persone a Kyaukpadaung, città che si trova a 565 chilometri a nord dell’ex capitale del Myanmar, Yangon. Un annuncio positivo per la più famosa detenuta politica del mondo per la cui liberazione molti leader mondiali si sono più volte spesi, con maggior o minore convinzione, ma un’affermazione che maschera anche risvolti meno positivi. Tanto che la stessa “Signora della Birmania”l’avrebbe smentito. Non solo perché alla possibile liberazione mancano ancora molti mesi, e molto può succedere nel frattempo tra smentite e retromarce, ma anche perché tra le cose che accadranno nel frattempo sono in agenda anche le prime elezioni dopo 20 anni. E Aung San Suu Kyi allo stato delle cose non potrà parteciparvi. Infatti il ministro dell’Interno Maung Oo ha detto, in un meeting con funzionari locali, che la 64enne vincitrice del premio Nobel per la pace sarà rilasciata a novembre, cioè un mese dopo le previste elezioni parlamentari. Le elezioni politiche sono previste ad ottobre: l’ultima consultazione risale al 1990 e venne annullata dal regime dopo la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia (Nld) di Suu Kyi. Dieci giorni fa la giunta militare birmana ha confermato di voler procedere al voto e ha rassicurato l’Asean (Associazione dei Paesi del Sudest asiatico), di cui fa parte, che le elezioni saranno libere, trasparenti e credibili, come parte della transizione del Paese verso la democrazia. Ciononostante molti ritengono che il voto servirà solo a coprire il regime, e l’impossibilità di partecipazione per San Suu Kyi e altri dissidenti sembra confermare que-

P

sta direzione. Suu Kyi, agli arresti per 14 degli ultimi 20 anni, è stata condannata a ulteriori 18 mesi di detenzione lo scorso agosto, dopo che un americano era riuscito a nuotare fino alla sua residenza, violando così i termini degli arresti domiciliari e la legge che protegge lo stato dalla presenza di “elementi sovversivi”. La strumentale condanna aveva destato grande clamore, anche perché nell’occasione la leader della Nld era stata un soggetto del tutto passivo rispetto al gesto dell’uomo.

Il Myanmar, ex Birmania, specie negli ultimi anni è stato al centro di numerose tensioni ed episodi che hanno attirato l’attenzione critica della comunità internazionale. Il regime rosso e allo stesso tempo militare è considerato una delle più rigide dittature dell’Asia, ed è sottoposto a numerose sanzioni internazionali. Oltre alla lunga opposizione della Lega Nazionale per la Democrazia, e oltre alla lotta dura contro alcune minoranze etniche, la Birmania è nota all’opinione pubblica occidentale per la “rivoluzione zafferano” dell’autunno 2007, portata avanti da studenti e monaci buddisti per motivi economici e politici e repressa nel sangue dalla giunta militare. Allora al Paese vennero imposte sanzioni ma poi, come troppo spesso accade, il tutto venne dimenticato e il Myanmar riprese i suoi affari di gas, legname e pietre preziose con Paesi come la Cina, la Francia, la Thailandia e l’India.Venne poi il 2008 con il ciclone tropicale Nargis che devastò il Paese causando più di 80mila morti: si scatenò una gara di aiuti internazionali, anche con la speranza che il regime cogliesse l’occasione per concessioni democratiche. Secondo alcuni le prossime elezioni sarebbero il frutto del lavorio diplomatico di quei giorni, ma secondo altri la giunta militare riuscì invece a sfruttare gli aiuti internazionali per diventare ancor più arbitro della sopravvivenza della popolazione. Nel 2009, secondo Human Rights Watch, in Birmania il tasso di abusi e di violenze è cresciuto rispetto agli anni precedenti.

La scarcerazione è prevista per novembre in modo da impedire al Nobel per la Pace la partecipazione alle elezioni politiche

Majid, detto «Alì il chimico», il braccio destro dell’ex presidente Saddam Hussein. Ali Kamil Hassan al-Majid, cugino e genero dell’ex presidente iracheno Saddam Hussein, condannato a morte quattro volte per crimini contro l’umanità e impiccato oggi, era considerato uno dei più feroci esponenti del deposto regime.

Già condannato a morte nel giugno del 2007 per genocidio del popolo curdo, nel 2008 per la repressione degli sciiti durante la guerra del Golfo del 1991, nel 2009 per le uccisioni di sciiti del 1999, era soprannominato «Ali il Chimico» per l’attacco con gas nervini contro la cittadina di Halabja.

esclude che si sia trattato di un attentato terroristico e il disastro sarebbe avvenuto con tutta probabilità a causa del maltempo. Al momento del decollo su Beirut era in corso un forte temporale con pioggia battente e fulmini.

Il presidente libanese Michel Suleiman ha detto di non credere all’ipotesi del sabotaggio. «Per il momento l’ipotesi del sabotaggio è improbabile. Comunque le indagini sveleranno la causa dell’incidente», ha detto Suleiman in conferenza stampa. Il ministro dei trasporti libanese Ghazi al-Aridi ai giornalisti presenti all’aeroporto, insieme ai familiari dei passeggeri accorsi dopo aver saputo dell’incidente ha riferito che «il luogo dove è precipitato l’aereo è stato localizzato a tre chilometri e mezzo a ovest del villaggio di Na’ameh». Tra i passeggeri c’erano 55 libanesi, 22 etiopi, due britannici e un canadese, un russo, un francese, un iracheno e un siriano. Anche Marla Pietton, moglie dell’ambasciatore francese in Libano, si trovava sul velivolo, come confermato dall’ambasciata francese. Per il governo libanese le pessime condizioni del tempo sembrano essere la causa della caduta in mare, del Boeing 737.


cultura

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Eredità. Anche“Flash Gordon” e “Le cronache di Narnia” nella pellicola sui Na’vi. Che intanto a Pechino, nonostante la censura, incassa 102 mln di dollari

Tutti i padri di “Avatar” Da “John Carter di Marte” a Tolkien: le vere fonti di Cameron che sta sbancando anche la Cina di Maurizio Stefanini entre ero lì in piedi a meditare, distolsi lo sguardo dal panorama rivolgendolo al cielo, dove miriadi di stelle formavano un fastoso baldacchino alle meraviglie terrene. La mia attenzione ben presto si concentrò su una grossa stella rossa che sfiorava il lontano orizzonte. Mentre la fissavo, per un attimo il suo fascino mi travolse… era Marte, il dio della guerra, e per me, per un combattente, era sempre risultato irresistibilmente affascinante. Mentre lo fissavo, in quella notte già avanzata, sembrò chiamarmi attraverso l’inimmaginabile vuoto, lusingarmi, attirarmi come il magnete attira una particella di ferro. Il mio desiderio si fece più intenso, irresistibile; chiusi gli occhi, tesi le braccia verso il dio della mia intima vocazione, e mi sentii attirare con la subitaneità del pensiero attraverso l’inesplorata immensità dello spazio. Per un attimo provai la sensazione d’un gelo estremo, e fui avvolto dalla tenebra più assoluta». Capito? «Aprii gli occhi su uno strano, fantastico paesaggio. Sapevo di trovarmi su Marte; neppure per un attimo avevo messo in dubbio i mio equilibrio mentale o il fatto che non stavo sognando. Non dormivo, non avevo bisogno di pizzicarmi questa volta; la mia coscienza interiore mi diceva che mi trovavo su Marte con la stessa chiarezza con cui la vostra v’informa che siete sulla Terra. Voi non mettereste in dubbio questo fatto; e neppure io lo feci».

«M

È un viaggio nello spazio che avviene in un romanzo del 1912, e in qualche modo prenavi spaziali. Un po’ come Hank Morgan, il protagonista di Un Americano alla Corte di Re Artù di Mark Twain, per effetto di una botta in testa aveva fatto un fit-

tizio viaggio nel tempo dagli Stati Uniti del 1879 all’Inghilterra del 528, sei anni prima che nel 1895 Herbert George Wells inventasse nell’omonimo romanzo il concetto di Macchina del Tempo. Ma già Hegel insegnava che dopo l’antitesi la sintesi finisce per recuperare l’originaria tesi, e così il lettore potrà avere l’idea che la tesi pretecnologica coincida poi con la sintesi post-tecnologica dell’ultimo kolossal Avatar (che nel frattempo, come sperato dal regista Cameron, sta affondando ai botteghini Titanic persino in Cina, dove nonostante la censura, il record è di 102 milioni di dollari). Un viaggio in un altro pianeta attraverso la mente, che si reincarna in un altro corpo.

E infatti è proprio così. L’ha confessato lo stesso Cameron: l’idea di Avatar, cui stava lavorando dal 1994, gli era venuta proprio da John Carter. John Carter di Marte di Edgar Rice Burroughs: saga in ben 11

A destra, un fotogramma di “Avatar”. A sinistra, le locendine della trilogia del “Signore degli Anelli”. Nella pagina a fianco: Christopher Lambert nei panni di Tarzan; una locandina del film “Tarzan”; i due capitoli de “Le cronache di Narnia”

libri, che comunque nel nostro Paese sono editi da Nord. Eppure, in realtà le gesta di John Carter le conosciamo tutti. Ma lasciamo che sia lui stesso a presentarsi. «Sono molto vecchio, non so esattamente quanto. Forse ho cento anni, forse più; ma non posso dirlo perché non sono mai in-

meno: posso soltanto scrivere qui, come può scriverla un soldato di ventura, la cronaca degli strani eventi che mi sono accaduti nei dieci anni durante i quali il mio corpo privo di vita è rimasto celato, agli occhi di tutti, in una caverna dell’Arizona». Un soldato di ventura. «Alla fine della Guerra

A confessare lo spunto principale è stato lo stesso regista canadese: l’idea di “Avatar” gli era venuta proprio dall’opera di Edgar Rice Burroughs, saga di 11 volumi scritta tra 1912 e 1943 dall’autore di Tarzan delle Scimmie volumi scritta tra 1912 e 1943 dallo stesso autore di Tarzan delle Scimmie. O meglio: fu lo stesso autore di John Carter di Marte che dopo aver infine raggiunto a 37 anni l’agognato successo letterario con lo spadaccino del Pianeta Rosso decise di non accontetarsene, ma in capo a sei mesi fu capace di immaginare anche l’altra portentosa saga. Portentosa saga, che alla fine fuori dagli Usa ha quasi finito per cancellare John Carter. In Italia tutti conoscono Tarzan, ma solo pochi appassionati conoscono John Carter. E probabilmente neanche tutti ne hanno letti poi i

vecchiato come gli altri uomini e non ricordo neppure di avere avuto un’infanzia. Fin dove la mia memoria arriva, ricordo di essere sempre stato adulto: un uomo di circa trent’anni. Oggi il mio aspetto è identico a quello di quaranta e più anni fa, eppure sento che non posso continuare a vivere per sempre; che un giorno affronterò la vera morte dalla quale non c’è più resurrezione. Non so perché dovrei temere la morte, io che sono morto due volte e sono sempre in vita, ma tuttavia, al suo pensiero, provo lo stesso orrore che provate voi, che non siete mai morti. Ed è a causa di questo terrore della morte, credo, che sono cosi convinto che morirò. E, a causa di questa mia convinzione, mi sono deciso a scrivere la storia degli anni della mia vita e della mia morte. Non so spiegare il feno-

di Secessione mi trovai in possesso di molte migliaia di dollari (confederati) col grado di capitano di cavalleria di un esercito che non esisteva più, servitore di uno Stato che era scomparso con le speranze del Sud. Senza padrone, senza un centesimo, e con i miei soli mezzi di sostentamento, senza più una guerra da combattere, decisi di partire verso il sudovest, tentando di recuperare le mie fortune perdute cercando l’oro».

Il virginiano John Carter inizia a questo modo il racconto di come parte per l’Arizona. E lì, per sottrarsi all’inseguimento di una tribù di indiani, si nasconde in una grotta. E nella grotta cade in una misteriosa trance, che lo porta appunto sul Pianeta Rosso. Barsoom, come lo chiamano i suoi abitanti. Una volta lì, è subito preso pri-


cultura Carter, addirittura a Jeddak dei Jeddak, imperatore dell’intero pianeta. L’Americano alla Corte di Re Artù, però, è avvantaggiato dalle sue superiori conoscenze scientifiche e tecnologiche. L’Americano sul Pianeta Rosso, invece, deve ammettere che benché in chiara decadenza quegli alieni conoscono una tecnologia ben più avanzata della sua, anche se forse non troppo più di quella del XXI secolo. Pallottole esplosive, aerei, sottomarini, medicamenti portentosi, anche se poi i marziani preferiscono combattere con le armi bianche e spostarsi in groppa o al traino di animali. Qualche incongruenza: come quella che d’altronde accanto ai marziani verdi a quattro braccia, alle feroci scimmie bianche e ai mostruosi uomini pianta vede anche marziani rossi, neri, bianchi e gialli in tutto simili a noi, e le donne con seni prorompenti, eppure ovipare.

gioniero da un gigantesco guerriero con le sembianze mostruose: verde, alto quattro metri, con quattro braccia e due zanne alte fino agli occhi, e a cavallo di una creatura alta tre metri con otto zampe, che lo minaccia con una lunghissima lancia. Se vogliamo, lì la sua sorte è ancora ricalcata su quella dell’Hank Morgan di Mark Twain: anche lui, subito catturato da un Cavaliere della

Tavola Rotonda. E come l’ingegnere polispecializzato del Connecticut Hank Morgan, anche il capitano di cavalleria virginiano John Carter una volta avuto il tempo di acclimatarsi riuscirà subito a farsi valere e scalare di grado. Morgan, fino a primo ministro.

Dejah Thoris, la meravigliosa “Principessa di Marte” dalla pelle rossa che dà il titolo al primo romanzo della seria e che per giunta come tutti i marziani va in giro praticamernte nuda, è descritta con forme da pin-up che le più recenti trasposizioni e fumetti hanno reso particolarmente conturbanti. Ma dovrà appunto deporre due uova per fargli il figlio Carthoris e la figlia Tara. Ma, insomma, «è del poeta il fin la meraviglia», come insegnava il Cavalier Marino. Quello che dà a John Carter una marcia in più, invece, è l’effetto della minor gravità marziana sui suoi muscoli terrestri. E così lo vediamo spiccare salti di decine di metri, uccidere nemici con un semplice cazzotto, sterminare interi eserciti a colpi di spada ruotante. Una specie di Conan il Barbaro? Esatto! È per questo che diciamo che John Carter in realtà lo abbiamo letto tutti. Basta leggere le gesta dello spadaccino che diventa signore di un pianeta in decadenza popolato da strani barbari e dove avvengono magie misteriose, anche se nel suo caso sono magie tecnologiche. Ed ecco qui, appunto, Conan il Barbaro! Ma poi c’è il terrestre che va su un pianeta alieno dove la tecnologia convive con un’etica feudale, diviso tra esseri semiferini dai colori di pelle più improbabile, concupito da principesse seminude che gli diventano amiche o nemiche a seconda del modo in cui le corrisponde, e che mette però i suoi muscoli al servi-

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zio di ideali umanitari e missionari di tipo chiaramente yankee: malgrado il pedigree sudista. E questo chi è, se non Flash Gordon? E ci sono squadre di esseri diversi ma uniti da una comune amicizia e una comune missione, in viaggio per

luoghi sinistri. E non è il Signore degli Anelli? Con gli avanti e indietro tra la Terra e l’altro mondo, diventano le Cronache di Narnia. E c’è una fabbrica di aria per rifornire l’esausta atmosfera marziana. Non l’abbiamo visto in Atto di forza da Philip Dick, di Paul Verhoeven e con Arnold Schwarzenegger? Ci sono le differenti condizioni di un pianeta rispetto a quelle di provienienza, che fanno di un alieno un superuomo. Superman, appunto. C’è l’intera idea del cappa e spada magico in ambito fantascientifico: come si dice in inglese, sword and sorcery più science fiction, uguale planetary romance. Che poi unito alle navi spaziali diventa space opera: Star Wars, come Guerre Spaziali. E c’è il cinema western, con i suoi duelli nel deserto e le sue storie d’amore con le principesse dalla pelle rossa: anche se, per la verità, sono i marziani verdi con quattro braccia i veri omologhi degli indiani. Apparenti barbari, che sotto la scorza di ferocia nascondono in realtà incredibili risorse di cavalleresca lealtà e generosità. E qui ne capiamo di più se scopriamo che Burroughs aveva fatto il tempo a fare il soldato a Fort Grant in Arizona negli ultimi

tempi del Far West vero, ed aveva conosciuto gli Apaches di Geronimo da vicino. Secondo alcuni, è proprio Geronimo il prototipo di Tars Tarkas: il guerriero verde che dopo averlo catturato diventerà il più fedele amico di John Carter. Particolare singolare e politically correct ante litteram, per gli Stati Uniti dell’epoca. Benché l’eroe sia un sudista, i marziani neri sono da lui ritenuti i “più belli”. I marziani rossi, i più vicini alla nostra etica, risultano essere una razza meticcia nata dalla fusione tra bianchi, neri e gialli. Alla fine, il virgianiano diventerà re di tutte le razze affratellate. E semmai la razza più destestabile e riottosa a questo ideale democratico sarà proprio quella dei bianchi, ostinati a voler mantenere la propria superiorità col mantenimento di una spaventosa religione oscurantista. Altri debiti sono invece dichiarati. Cameron a parte, Ray Bradbury confessa nella descrizione del pianeta mortente di John Carter lo spunto per le sue Cronache Marziane. E lo stesso hanno fatto John Norman con le sue Cronache di Gor e Arthur Charles Clarke. Insomma: dopo Jules Verne, Herbert George Wells e Il Mondo Perduto di Conan Doyle, è la saga di John Carter di Marte la quarta grande fonte a cui ha attinto tutta la fantascienza moderna. Fino a Avatar, e dopo, perché proprio per il centenario di A Princess of Mars nel 2012 uscirà John Carter of Mars.

Il film di cui si anticipa che diventerà un nuovo mito del cinema come appunto Avatar, e l’inizio di una possibile saga tipo Star Wars, Cronache di Narnia o Signore degli Anelli. Regista Andrew Stanton: quello di Alla ricerca di Nemo e A Bug’s Life. Attori Mark Strong, già in Il mio ragazzo è un bastardo e XMen le origini: Wolverine, come John Carter. Lynn Collins, direttamente da True Blood e anch’essa in X-Men le origini: Wolverine, sarebbe la principessa rossa Dejah Thoris. E Willem Dafoe, dal Gesù Cristo dell’Ultima tentazione al Goblin di Spider-Man, è il guerriero verde a quattro braccia Tars Tarkas. A riprova del successo previsto The asylum, la famosa società produttrice di mockbuster, ha già lanciato l’anno scorso via dvd una Princess of Mars presentata come «la storia che ha ispirato Avatar». John Carter è l’oriundo italiano Antonio Sabàto: reduce da pubblicità di intimo per Calvin Klein, video con Janet Jackson, soap operas in quantità, e anche un Padre papà tv con Maria Grazia Cucinotta. La principessa è Traci Lord: celebre ex-pornostar, per la verità ormai più che quarantenne.


cultura

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o, con buona pace dei darwiniani integralisti, fra l’uomo e la scimmia ci sono almeno due differenze fondamentali. È la tesi che sostiene un delizioso libretto, con la prefazione di Sergio Valzania, del grande Nicolò Tommaseo. Il titolo è L’uomo e la scimmia. Si tratta di una perorazione polemica e appassionata del fine linguista, cattolico fervente, amico di Rosmini e canzoni a favore dell’unicità umana. L’autore del Dizionario della lingua italiana scende in campo per difendere un amico e collega, Raffaello Lambruschini, che dalle colonne della Nazione ha attaccato duramente una conferenza, tenuta a Firenze dallo scienziato russo Alessandro Herzen: “Sulla parentela fra l’uomo e la scimmia”.

N

Sull’evoluzionismo ancora oggi si discute con accanimento. Più di ogni altro lo fanno i protestanti americani che sostengono “il disegno intelligente”: la stratosferica complessità degli organismi – secondo loro – dimostra l’esistenza di un disegno. Esattamente come un aereo presuppone un progetto di un ingegnere. L’ingegnere in questione è Dio. Del resto, in Italia, uno scienziato come Giuseppe Sermonti dice chiaro e tondo che «le creazioni più complesse non possono essere frutto del caso». D’altro canto però nientemeno che Giovanni Paolo II ha dato una patente di attendibilità al darwinismo sostenendo che «oggi nuove conoscenze conducono a non considerare l’evoluzionismo una mera ipotesi». Insomma, pur fra critiche e senza fare sconti agli

Libri. Sergio Valzania cura la prefazione del pamphlet del celebre linguista

Non siamo scimmie, parola di Tommaseo di Gabriella Mecucci errori e ai “buchi”di Darwin, le sue teorie vengono prese in seria considerazione. Lo ricorda Sergio Valzania nella sua introduzione al volumetto di Tommaseo. Queste tesi sono solo sullo sfondo però della dura polemica che l’autore ingaggia con Herzen. Sia il padre dell’evoluzionismo sia il linguista italiano ragionavano non avendo nel loro bagaglio culturale le novità derivanti dalle scoperte scientifiche di tutto il Novecento. Grazie a queste – ricorda Valzania, «la discontinuità, che appare evi-

Nella foto grande, un’illustrazione di Michelangelo Pace. Qui sopra, la copertina di “L’uomo e la scimmia”

dente con la comparsa dell’uomo sulla terra, viene sottolineata anche da quanti si dichiarano d’accordo con l’impianto darwiniano». Il famoso natura non facit saltus risulta sbagliato anche per i paleontologi. E non è un caso che Stephen Jay Gould, darwiniano non ortodosso, sia l’inventore della ”teoria dell’equilibrio punteggiato” che proprio su questo snodo importantissimo mette in discussione l’evoluzionismo classico. Ma torniamo al nostro Tommaseo e alla sua accorata perorazione sulla differenza radicale fra l’uomo e la scimmia. Questa viene definita in base a due argomenti, assolutamente moderni, che depongono contro la parentela stabilita da Herzen. Il primo argomento viene definito dall’autore «di natura filologica». La differenza fra l’essere umano e gli animali, o fra l’uomo e la scimmia, se vogliamo rispettare il gioco intellettuale nel quale la disputa si colloca, viene individuata nella capacità del primo di formulare astrazioni, ossia di un linguaggio dotato non solo di un vocabolario, ma anche di una grammatica e di una sintassi. «Tesi non molto diverse – commenta Valzania – sono state sostenute ad esempio da uno dei maggiori biologi del Novecento, Ernst Mayr,

La differenza fra l’uomo e l’animale, viene individuata nella capacità del primo di formulare astrazioni proprie del linguaggio il quale ha concluso che certamente, da un punto di vista zoologico, l’uomo è un animale, ma un animale unico, che differisce da tutti gli altri per così tanti aspetti fondamentali da giustificare una scienza separata, dedita al suo studio».

Il secondo argomento con cui Tommaseo propone l’unicità dell’umano è quello del libero arbitrio. «La libertà, dal punto di vista etico-teologico, è la condizione che giustifica – spiega Valzania – l’esistenza di una morale. Su questa si fonda il diritto a punire i colpevoli, in quanto hanno scelto il male mentre avrebbero potuto – in piena libertà – scegliere il bene». Senza la responsabilità individuale, direttamente collegata al libero arbitrio, non può esistere pena. Solo se puoi scegliere sei giudicabile. Altrimenti, non è possibile. Questo principio molto moderno ha delle implicazioni immense.

La libertà viene poi vista da Tommaseo come discrimine non solo sul piano etico, ma anche su quello politico. Una delle lettere (sono dieci in tutte) in cui si articola il pamphlet, si rivolge direttamente alle donne. La loro dipendenza dal maschile e dunque la loro mancanza di libertà «può interrompersi solo fuori da un contesto deterministico». Soltanto la possibilità di una scelta libera e consapevole, fra opzioni diverse ma entrambe realizzabili, offre alla donna l’opportunità di sfuggire a un destino nel quale «tutte le sue vecchie catene debbiansi ribadire col far credere a lei ch’essa è schiava di una invincibile necessità». E anche questo approccio testimonia dell’assoluta modernità di Niccolò Tommaseo: «Una concezione deterministica troppo chiusa – argomenta Valzania – il rifiuto di ogni principio etico, la riduzione dei rapporti fra gli uomini e le donne a pura convenienza e sopraffazione sembrano allo scrittore dalmata un vincolo inaccettabile: la sua formazione romantica gli suggerisce piuttosto di cercare nella propria sensibilità risposte che la ragione non sembra in grado di fornire».

Il problema che, in ultima analisi, pone Tommaseo, è che – si creda o no all’evoluzionismo – la risposta a problemi di natura morale, o sentimentale, o politica non si trova nella scienza, la quale non era e non può essere l’unica forma di conoscenza. È impossibile negarne l’importanza e il grande apporto, ma sarebbe pazzesco utilizzarla là dove non può essere utilizzata. E la persona – con tutte le sue sfaccettature – è proprio il luogo dove non può essere lasciata da sola.


spettacoli

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Musica. In Italia tutti pazzi per “Combo”, il nuovo album di Palma e dei suoi Bluebeaters che strizza l’occhio agli anni Sessanta

Giuliano I, imperatore dello Ska di Matteo Poddi l vintage? Un vero e proprio culto per molti. E non si tratta solo di moda e di fashion victims. Anche gli amanti della buona musica, infatti, guardano sempre più spesso al passato e la riscoperta del vinile ne è la dimostrazione. C’è addirittura un gruppo che per i titoli di ben due dischi ha scelto termini “vintage” per definire il cd musicale quali The album e Long playing. Stiamo parlando di Giuliano Palma & The bluebeaters il cui stesso nome è un omaggio alla musica del passato e in particolare alla casa discografica inglese (Blue Beat Records) che per prima negli anni Sessanta cominciò a distribuire i singoli ska provenienti dalla Giamaica.

I

Vocazione internazionale ma radici ben piantate nella tradizione melodica italiana, come dimostra la scelta della cover del primo 45 giri di Lucio Battisti Per una lira che è anche il primo singolo estratto da questo nuovo lavoro. E pensare che è iniziato tutto per caso nel 1993 quando, in occasione di un concerto organizzato a Torino, Giuliano Palma, all’epoca frontman dei Casino Royale, si esibisce per la prima volta insieme ai “Fratelli di Soledad” con il brano Sangue negli occhi. Ma quella one night stand segna l’inizio di un percorso che culmina nel 1999 quando Giuliano Palma decide di proporsi al pubblico come solista e ha la possibilità di riprendere un progetto al quale per molto tempo si era potuto dedicare solo occasionalmente. Nasce così una live band composta da un gruppo di amici uniti dalla passione per il rock steady americano degli anni Sessanta, una variante dello ska che spianò la strada alla musica reggae, e per il soul americano. L’intento però non è quello di rivolgersi solo agli addetti ai lavori ma di puntare al grande pubblico. Così le cover di brani celebri quali Messico e nuvole di Paolo Conte, Do you believe in love di Cher e Tutta mia la città degli Equipe 84 diventano dei veri e propri tormentoni dal sound talmente attuale da insinuare negli ascoltatori il dubbio che si tratti di inediti. E dopo tante cover arriva nel 2007 con Boogaloo, il primo inedito: The Marvin Boogaloo scritta da Giuliano Palma insieme al chitarrista della band Fabio Merigo e dedicata al Bull Terrier del cantante scomparso in quel periodo. Combo di inediti ne contiene ben quattro, segno di una fiducia sempre maggiore nelle capacità espressive della coppia Palma-Merigo che infatti firma anche il primo dei nuovi brani di Combo: Dentro tutti i miei sogni, un pezzo che fin dalle sue prime note si presenta arioso

In questa pagina, un’immagine dell’artista Giuliano Palma e la copertina del nuovo album “Combo”, realizzato come sempre assieme alla band The bluebeaters. Il disco contiene quattro inediti e diverse cover

grazie all’impatto sonoro della band di diciotto elementi ingaggiata per la registrazione di questo disco. Un pezzo che ha anche il primato di essere l’unico brano in battere di Combo. Quanti ricordi, invece, è una canzone tipicamente “sanremese”ispirata a Gino Paoli che ha visto la partecipazione anche del produttore Carlo Ubaldo Rossi (come per Dentro tutti i miei sogni) e di Malika Ayane per la stesura del testo. Con Un grande sole, il secondo singolo

Tutti e quattro gli inediti si mimetizzano tra le dodici cover che completano la tracklist. Si va dall’omaggio agli esordi di Lucio Dalla con la già citata Per una lira ad una vera e propria pietra miliare della musica internazionale come Sunny, brano di Bobby Hebb del 1966 rivisitato da moltis-

Tanti gli omaggi nazionali e internazionali contenuti nel disco, da “Per una lira” di Dalla a “She’s not there” degli Zombies, da “L’appuntamento” della Vanoni a “Love potion n° 9” dei Clovers estratto dall’album, Giuliano Palma torna a sperimentare il gusto della collaborazione artistica ma stavolta il prescelto non è Neffa, con il quale aveva scritto la title-track di Aspettando il sole, bensì Samuel Romano dei Subsonica. «Dimmi che non finirà in un mattino di nuvole, dimmi che non te ne andrai se non ci sarà il sole» recita il ritornello di quello che è forse il pezzo più trascinante dell’intero album. Il ritmo si fa più lento invece nell’ultimo inedito di Combo scritto con Emiliano Pepe e La Pina e intitolato Semplice. «Semplice come è quando bello ridere per quel niente di speciale che capisci solo tu», canta Giuliano Palma con quel tono scanzonato e rilassato che solo una canzone reggae riesce ad esprimere così bene.

simi artisti quali Johnny Rivers e Frank Sinatra, per poi tornare in Italia con la versione in levare di Il cuore è uno zingaro, canzone di Claudio Mattone portata al successo da Nicola di Bari e da Nada. E l’omaggio agli anni Sessanta continua con She’s not there dei The Zombies, con From Russia with love, rivisitazione della colonna sonora di uno dei film della fortunata saga dell’agente segreto James Bond Dalla Russia con amore del 1963 e con Love potion n° 9 dei The Clovers. Ma le citazioni cinematografiche non si esauriscono con James Bond come dimostra A transylvanian Lullaby, ispirata al tema del film Frankenstein Junior.

Strizza invece l’occhio agli anni Settanta la cover de L’appuntamento di Ornella Vanoni da poco reinterpretata dalla stessa cantante insieme a Carmen Consoli, e agli anni Ottanta Lonely summer nights degli Stray Cats. La leggerezza dello ska invece alleggerisce il punk-rock di I don’t mind dei Buzzococks.Vera chicca dell’album Solo te, solo me, solo noi, tributo alla ver-

sione italiana di Yester me, yester you, yesterday scritta e cantata da Stevie Wonder.

Tanti gli omaggi contenuti in un album che dimostra quanto sia in fermento la scena musicale italiana. Tanti i generi attraversati con disinvoltura e leggerezza dallo ska, al pop, dal soul all’ r’n’b passando per il rock steady e northern soul, vere specialità della band. Tanti gli appuntamenti live in giro per l’Italia anche durante la registrazione dell’album alla ricerca di un coinvolgimento sempre più forte da parte del pubblico. Combo è un disco che mette allegria, una scarica di energia, la colonna sonora perfetta per un viaggio in macchina verso un posto caldo, pieno di vita e di gente di tutti i tipi. Ha un respiro internazionale pur non essendo il frutto di una strategia di marketing elaborata a tavolino. A prevalere su tutto è il gusto per gli arrangiamenti, per i suoni, per la melodia al di là dei limiti spaziali e temporali. Perché in fondo le belle canzoni non hanno tempo.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal “Washington Post” del 25/01/2010

L’attacco (vile) alla Rete di Patrick Govern l network mondiale conosciuto come internet ha prodotto una vasta espansione della libertà di parola e dell’accesso alle informazioni in giro per il mondo. Ma, per quanto riguarda Paesi come Cina e Russia, è anche divenuto uno strumento per agitare vessilli di guerra sotterranea contro altre nazioni, compresi gli Stati Uniti. Si tratta di un tentativo evidente per rubare segreti e piantare disagio. Per quelle nazioni e per un pugno di altri regimi autoritari, infatti, la libertà insita dentro internet rappresenta una minaccia. E questa deve essere contrastata tramite la censura, l’imprigionamento di coloro che usano la Rete per esprimere idee e opinioni, e lo spionaggio interno. Il governo americano ha avuto a che fare con queste minacce per diversi anni. Eppure, non è stato fatto abbastanza per sostenere politicamente la libertà di internet: questa sarebbe dovuta diventare da tempo una questione da sollevare all’interno delle relazioni diplomatiche e commerciali. Si sarebbe dovuta ottenere la censura internazionale per coloro che violano la libertà di internet. E questo è il motivo per cui il discorso pronunciato la settimana scorsa dal Segretario di Stato americano Hillary Rodham Clinton è stato così importante.

I

La signora Clinton ha infatti reso in maniera ammirevolmente chiaro che coloro che abusano della situazione, come la Cina, non avranno più un libero accesso alla diplomazia statunitense o ai grandi forum internazionali. Il governo di Pechino merita infatti un’attenzione particolare; in parte perché una larga porzione dei cyber-attacchi contro i settori militari degli Stati Uniti e altre agenzie governative vengono proprio da lì, e in parte a causa delle restrizioni che questo impone alle compagnie americane che offrono servizi relativi a in-

ternet ai cittadini cinesi. L’annuncio pubblicato da Google, secondo cui ci sarebbero stati molti attacchi ai propri server originati dal governo cinese, ha riportato finalmente la questione in prima fila. La Clinton ha chiesto a Pechino di investigare e spiegare questi attacchi, ha sostenuto la posizione di Google e ha chiesto alle altre aziende Usa di sostenere la stessa posizione. Questo è divenuto un appello urgente per Microsoft e Apple, due compagnie che continuano a censurare i propri contenuti al pubblico cinese.

L’amministrazione e il Congresso dovrebbero ora esplorare quali passi possano essere intrapresi per assicurarsi che questo modo di fare si interrompa, insieme alla censura imposta dai regimi. La Clinton ha aggiunto che – oltre a difendere le proprie compagnie e il cyber-spazio – Washington prenderà le misure adeguate ad aiutare i dissidenti e coloro che operano i diritti umani, oltre a tutti coloro che combattono la censura governativa. Fino ad oggi, il governo e il Dipartimento di Stato si sono dimostrati negligenti in quest’area. Non ha speso, o ha speso male, il denaro che il Congresso voleva spendere per abbattere i firewall. Un gruppo noto come “Consorzio globale per la libertà di internet”, non è riuscito a ottenere denaro nonostante abbia provato di essere riuscito ad abbattere la censura telematica di Cina e Iran. Un rappresen-

tante del Dipartimento di Stato ha dichiarato che al gruppo non è stato dato alcun aiuto perché «ha dei legami con il gruppo del Falun Gong, che in Cina è illegale. Se lo avessimo sostenuto, Pechino sarebbe impazzito». Ma altri dirigenti dicono che questo non è il caso, e che sperano che il Consorzio chieda di ottenere i prossimi fondi che verranno stanziati dal governo. D’altronde, non importa chi verrà finanziato e chi no: è molto probabile che Pechino “impazzirà”comunque. Un comunicato del ministero cinese degli Esteri, emesso in risposta al discorso della Clinton, ha già sostenuto che la questione «potrebbe danneggiare le relazioni fra Cina e Stati Uniti». E forse questo è quello che avverrà.

D’altra parte non è neanche pensabile che, parlando di libertà per internet, si permetta alla leadership comunista di Pechino di continuare a violarla senza pagare alcun prezzo per il proprio operato. Ognuno, d’ora in avanti, dovrà rispondere delle proprie azioni in Rete.

L’IMMAGINE

“Avatar”, il kolossal tridimensionale antiamericano, antimilitare, antitecnologico Avatar di James Cameron, grande kolossal dalle discutibili contraddizioni etiche e morali. Si usa la “tecnologia” più sofisticata per produrre, inventare e raggiungere il pianeta Pandora, distante 4 anni luce, ma poi si condanna l’umanità con la sua tecnologia. Più che antiamericano e antimilitare (è sicuramente pro nativi Na’vi). Avatar è incredibilmente anti-tecnologico. Per la prima volta (neppure in Star Trek, sembra vero) pare che la scienza e la tecnologia vengano debitamente e chiaramente distinte nei loro metodi e finalità, annullando per sempre la concezione marxista, che le voleva sinonimi perfetti in nome di non si da bene che cosa. E in Cina il film sbanca i botteghini. Eppure il potere demiurgico di creare da zero un pianeta, i suoi abitanti, la sua flora e la sua fauna, comporta dei rischi. All’umanità la realtà vera potrebbe sfuggire di mano. La fantascienza può entusiasmare sulle possibilità del futuro e metterci in guardia sui pericoli che possiamo ritrovarci di fronte. Ma in Avatar è ancora una speranza.

Nicola Facciolini

I BIMBI DI HAITI. E GLI ALTRI? Grande è la commozione per la strage di bambini ad Haiti: si parla di migliaia e migliaia di piccole vittime innocenti. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, l’aborto uccide ogni anno 50.000.000 (cinquantamilioni!) di bambini; perché per loro nessuno si commuove?

Pietro Castagneri

HAITI E LA NATURA La vicenda di Haiti dimostra che la natura non si può sconfiggere, perché quando decide di ribellarsi la sua scure funziona come una roulette russa. Si dovrebbe nel frattempo riflettere sulla necessità di spendere denaro per incentivare la prevenzione ambientale, che non significa prevedere terremoti e ca-

taclismi, ma mettersi nelle condizioni adatte a sostenere eventi del genere. Saranno parole facili e scontate, ma se non esiste nessuno capace di coordinare gli aiuti umanitari, chi coordina le analisi preventive sui territori a rischio?

Br

AGLI AFFAMATI SOLO UN TERZO DEL BILANCIO FAO Gli attuali 6,8 miliardi di terrestri aumentano di 100 milioni all’anno. Il numero degli affamati ha raggiunto 1,02 miliardi nel 2009 (Fao, Rapporto sulla fame nel mondo, 2009). La Fao – Organizzazione per l’alimentazione dell’Onu – destina direttamente agli affamati solo un terzo del suo bilancio. I restanti due terzi sono spesi in burocrazia e amministra-

Sport estremi Pensate che il golf sia uno sport poco avventuroso? Forse è perché non avete mai assistito a una partita del Leopard Creek Country Club di Malelane, in Sud Africa. Qui non si rischia di annoiarsi, in mezzo al campo infatti, scorre il Crocodile River, un fiume pieno zeppo di coccodrilli. Niente di più facile che ritrovarsene uno sotto il naso

zione. In particolare, il 15% del bilancio viene distribuito al personale, costituito da dirigenti (con contratto a parte); e, inoltre da 1.600 tecnici e 2.000 impiegati, il cui compenso unitario varia da 24mila a 84mila euro netti annui, più il benefit per l’alloggio. Due anni fa, A. Wade - presidente del Senegal – lanciò la battuta provocatoria: “La Fao deve chiudere”.

Gianfranco Nìbale

EMERGENZA PAESI POVERI Il terribile terremoto di magnitudo 7,3 della scala Richter che martedì 12 gennaio ha messo in ginocchio Haiti, lo stato più povero del continente americano. Un bilancio provvisorio stima superiori a 100.000 le vittime, con oltre 3 milioni di persone coinvolte nel sisma. Le organizzazioni umanitarie e i governi di tutto il mondo stanno organiz-

zando i soccorsi in favore della popolazione coinvolta. La rete “Agire”è mobilitata con una raccolta fondi nazionale. Assicurare la sopravvivenza dei bambini, proteggerli dai rischi di abuso e sfruttamento, organizzare corsi per l’inserimento a scuola: sono, invece, gli obiettivi del progetto di Cifa per i bimbi poveri di Neak Loeung.

Lettera firmata


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Il tuo non è dolore, è viperinità Cara piccola Nininha, ho ricevuto la tua lettera cattiva, e non capisco come non ci siamo incontrati ieri l’altro. Differenza di orologi? Non credo, perché non mi è parso, arrivando alla Baixa, che il mio orologio andasse indietro o avanti. Ti scrivo solo poche righe per dirti che domani a mezzogiorno in punto sarò in fondo alla Avenida das Cortes. Tu vai in ufficio di Rua da Victoria alla una. Dovresti avere tempo a disposizione. Il problema è che tu abbia una compagnia. Ma ad ogni modo io ti aspetterò fino alle dodici e un quarto. Ti auguro di star meglio. Ma il tuo non è dolore, è viperinità, cioè cattiveria. Hai più di mille ragioni per essere offesa, irritata con me. Ma la colpa è stata poco mia: è stata di quel Destino che condanna il mio cervello a uno stato che, se non irreversibile, certo necessita diun trattamento accurato, come non so se potrò avere. Ho l’intenzione di ricoverarmi in una clinica il mese prossimo, per vedere se riesco a trovare una cura che sista abbattendo sul mio spirito. Non so quale sarà il risultato della cura, non riesco a prevederlo. Non mi aspettare mai, se ti apparirò ancora sarà di mattina, quando ti rechi in ufficio. Dopo di tutto di cosa si è trattato? Mi hanno scambiato per Alvaro de Campos! Fernando Pessoa a Ophélia Queiroz

ACCADDE OGGI

RIBALTONE IN SICILIA C’è una coppia di fatto in Sicilia, quella tra Mpa e Pdl Sicilia che ha generato un figlio, il Pd. Ebbene, questo matrimonio non s’aveva da fare perché mancava la benedizione degli elettori siciliani, ma di loro non si è tenuto conto. Non è un matrimonio d’amore ma di interesse, anzi di affari di bottega, piccola e grande bottega. L’economia in Sicilia è in ginocchio, più esattamente in recessione, e a dirlo sono l’Istat e Bankitalia, con la disoccupazione che avanza, con la produttività che cala ma anche, purtroppo, con sempre più giovani che lasciano la Sicilia e con sempre più imprese che chiudono i battenti. Ma questo a Lombardo non importa, preoccupato com’è di sopravvivere a se stesso e di soddisfare la sua sete di potere. La sua giunta è come una squadra di calcio che fa retrocedere la Sicilia. Un team calcistico che ha due allenatori, Dell’Utri e Lumia, e che schiera i seguenti giocatori, Micciché, Lombardo, Granata, Cardinale, Venturi, Cracolici, Genovese, Russo, Lenza, Pistorio e Scalia. Non c’è Lupo in squadra perché speriamo che si ravveda anche se siamo pessimisti. È la squadra del Ribaltone-Sicilia: ritiriamola e mandiamola a casa perché nessuno l’ha iscritta a questo come a nessun altro campionato.

Als

EMMATAR ASSAGGIO DI UN INQUIETANTE FILM PER I CITTADINI Aborto, depenalizzazione delle droghe leggere, messaggi offensivi sul Santo Padre: definire angosciante “Emma-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

26 gennaio 1950 L’India promulga la sua costituzione, formando una Repubblica, e Rajendra Prasad giura come suo primo presidente 1956 VII Giochi olimpici invernali a Cortina d’Ampezzo 1962 La sonda Ranger 3 viene lanciata per studiare la Luna. La mancherà di 35.000 chilometri 1965 L’hindi diventa lingua ufficiale in India 1978 Porta questa data la tessera 1816, gruppo 17, fascicolo 0625 della loggia P2, con il codice E.19.78: intestatario Silvio Berlusconi 1979 La “prima” Fininvest (Società per azioni) si fonde con la seconda (Società a responsabilità limitata), e il capitale sociale viene aumentato a 52 miliardi di lire, pari a 80 milioni di euro del 2005 1980 Israele ed Egitto allacciano relazioni diplomatiche 1986 Viene avvistata la cometa di Halley 1988 - Il musical Il Fantasma dell’Opera viene rappresentato per la prima volta a Broadway

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

tar”, lo spot promozionale di pessimo gusto della candidata della sinistra, è dire poco. Il problema è che è solo un assaggio del film ben più inquietante che i cittadini laziali potrebbero vedere in caso di vittoria di Emma Bonino. D’altro canto in questa campagna elettorale non mancano gli effetti speciali. Come spiegare, altrimenti, l’ubiquità della Bonino, sfidante della Polverini e tuttavia capolista in Lombardia? Pensare che questa armata Brancaleone, faticosamente raccolta intorno alla leader radicale, riesca a governare un solo giorno nel Lazio è davvero fantascienza.

Barbara

PROCESSO BREVE, LO STATO VOLTA LE SPALLE AI CITTADINI Questa maggioranza ha decretato la fine della giustizia italiana, creando un gravissimo danno economico e sociale al Paese. Il processo breve rientra tra le leggi che il governo aveva in agenda da tempo per garantire l’impunità di alcuni politici e pochi amici incuranti degli effetti nefasti di un simile provvedimento, che cancellerà migliaia di processi, privando di ogni tutela le vittime dei reati. Gravissima è, inoltre, la norma sull’estinzione dei reati contabili, che lascerà impuniti i tanti politici che hanno rubato e sprecato denaro pubblico e che, adesso, non dovranno più rimborsarlo, in barba agli onesti cittadini. E’ discutibile che, in un paese civile e democratico, argomenti di questo genere possano essere approvati.

Antonino Denaro

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

LA CHIUSURA DEL CERCHIO Nel passo di approfondimento sulla “Democrazia Religiosa” di Mazzini all’interno de Un patto per ricostruire il senso dello stato e l’unità nazionale, Ferdinando Adornato scrive che «Manzoni, Cattaneo, Rosmini, Mazzini, Ricasoli sono un’ennesima testimonianza della grande vicinanza tra i diversi pensatori del nostro Risorgimento e la filosofia pubblica affermata negli Stati Uniti. Molto minori sono invece le sintonie con il giacobinismo della rivoluzione francese. Aspetto del quale il Novecento non ha riflettuto con la dovuta attenzione». È un passaggio emozionante perché rende del tutto evidente che proprio nella fase del nascere dell’Italia, c’erano tutti i presupposti affinché il nostro Paese potesse diventare quello che la stragrande maggioranza degli italiani in cuor suo oggi desidera. È una traccia che rivaluta il senso della tradizione, e cioè la necessità di connettersi con il passato per avere la prospettiva di un futuro migliore di quello che si prospetta. È del tutto evidente che senza questa connessione, ogni opera politica è fragile, poggia sul nulla o su fondamenta che hanno già dimostrato il loro fallimento storico. Come quindi non poter a nostra volta non connettere queste parole di Adornato con altri concetti espressi alcuni anni fa: «L’inganno partì da Parigi. Dalla locanda Procope, in rue de l’Ancienne Comédie, raduno storico degli Enciclopedisti, e poi attraverso l’opinione pubblica rivoluzionaria, si diffuse il verbo di questa religione politica. Ma intanto, a Filadelfia, più o meno con gli stessi obiettivi, si erano già poste le basi di una religione civile che assegnava potere alla morale pubblica, non alla ragione. Non organizzava verità assolute perché conosceva i limiti dell’umano e riteneva, peraltro, di aver ricevuto il proprio mandato dalla divina Provvidenza. Il modello americano gettò semi culturali meno astratti e totalizzanti di quelli francesi. Eppure gli europei continentali, di quel modello, non hanno mai fatto gran conto. Allora Adornato, fuori dal coro, denunciò la superiorità di Filadelfia su Parigi. Oggi della superiorità dei Padri intellettuali del Risorgimento, come veri nostri Padri Fondatori sulle ideologie del XX secolo. È quindi una vera e propria chiusura del cerchio. Il pensiero si trasforma in azione. È un riprendere il filo di un’Italia rimasta troppo a lungo di minoranza, l’altra Italia, che come un fiume carsico, ora riemerge. Esce allo scoperto come una fonte che sgorga improvvisamente su un terreno pieno di macerie e frane causate dalle ideologie totalitarie del XX secolo e quindi da coloro che oggi cercano ancora di evitare il confronto con la tradizione. Perché è una fonte che può dissetare tutti gli italiani di buona volontà per ricostruire il senso dello Stato e dell’unità nazionale. Anche perché quelle che allora sembravano divisioni poco conciliabili, ora, dopo quasi due secoli, sono invece piccole diversità e risorse foriere di unità e forza. Leri Pegolo C I R C O L I LI B E R A L PO R D E N O N E

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Muse. Cantando e recitando, la giovane Gainsbourg comincia la scalata al mito della «prèmiere dame»

Charlotte e Carlà, duello di Alfredo Marziano ell’Antichrist di Lars von Trier, discusso “horror pornografico” che le è valso il riconoscimento di migliore attrice a Cannes 2009, GainCharlotte sbourg era una strega assatanata di sesso, sangue e morte che perde tragicamente il piccolo figlio, si mutila per punizione i genitali, infierisce con altrettanta ferocia sul corpo del marito e viene alfine da questi uccisa. I giorni passati con Beck in studio di registrazione prima e dopo le riprese, a Los Angeles, le saranno sembrati una vacanza premio, una salutare boccata d’aria fresca dopo l’inferno del set tedesco: anche se le stimmate del suo ruolo cinematografico più scomodo e impegnativo di sempre le sono rimaste evidentemente sulla pelle e il disco che ne è nato trasmette un senso di cupa inquietudine fin dal titolo (IRM, l’acronimo che in medicina identifica l’immagine a risonanza magnetica).

N

Nel fascino emaciato, nella silhoutte sottile e nella flebile emissione vocale Charlotte assomiglia molto a mamma Jane Birkin, l’inglesina Swingin’ London che si innamorò dell’orco francese Gainsbourg. Ma è soprattutto il dna di papà Serge, il maudit impenitente perduto troppo presto, ad aleggiare insistente sulla sua vita e sulle sue scelte artistiche dai tempi in cui, undicenne, duettava con lui sul rasoio di una scabrosa pop song intitolata Lemon Incest. È il suo terzo disco appena, questo (ai tempi di Charlotte Forever, nel 1986, aveva tredici anni), ma potrebbe spalancarle una nuova vita professionale dopo che il precedente 5:55, tre anni fa, ha scalato le classifiche francesi. Là gli Air, campioni dell’electro pop

d’Oltralpe, l’esteta Neil Hannon dei Divine Comedy, l’esistenzialista Jarvis Cocker ex Pulp e Nigel Godrich produttore dei Radiohead. Qui Beck, il camaleonte del rock losangeleno che ad ogni mossa muta pelle e si mimetizza in una fitta boscaglia di suoni sempre diversi. Insomma: il suo charme le apre molte porte, ma mademoiselle Gainsbourg sa giocare le sue carte (e ha gusto musicale: ascoltatevi la sua Just Like A Woman, sulla colonna sonora del fantabiopic dylaniano I’m Not There di Todd Haynes).

E succede che IRM sia un disco a tratti sorprendente, stuzzicante, spesso coraggioso. Vero, quando la chanteuse e il suo pigmalione indugiano troppo in territori indie folk provocano qualche sbadiglio, e certi languidi sussurri su tappeto di chitarra acustica arpeggiata evocano pericolosamente il fantasma della première dame Carla Bruni in Sarkozy. Però il resto sa scuo-

Wait, che potrebbe regalare alla coppia un hit da classifica. L’ombra di Serge, le nuvole azzurrine delle sue Gauloises e l’aroma del suo whisky incombono spesso, Charlotte è la prima a saperlo, anche se Beck (grande ammiratore del francese) fa di tutto per distanziarsi da quella figura ingombrante e pure da se stesso. Il biondino californiano, con la voracità che gli è propria, si è gettato a capofitto nell’impresa scrivendo di getto testi e musiche, suonando quasi tutti gli strumenti, arrangiando e producendo. Sentendosi forse come Lou Reed al cospetto di Nico, la musa dei Velvet Underground. O come Serge di fronte a Jane, massì. Solo che la sua Charlotte non è una bambola compiacente, piuttosto uno specchio in carne, sangue e ossa che non ha pudore ad evocare anche l’autobiografia più intima: a ripetute risonanze magnetiche Charlotte si è sottoposta davvero, nel settembre del 2007, quando una caduta dagli sci d’acqua le causò una pericolosa emorra-

a PARIGI Un film-cult a metà tra sesso e horror, poi un nuovo disco che a volte sembra voler fare il verso a quelli della Bruni-Sarkozy: ormai la Francia ha consacrato una icona trasgressiva gia cerebrale risolta con un intervento chirurgico d’urgenza.

tere l’orecchio, con quel suo cuore di tenebra che pulsa tra percussioni tribali nordafricane e chitarre elettriche bluesy alla White Stripes, un dondolante glam-boogie come sarebbe piaciuto a Marc Bolan e ai T. Rex e folate di elettronica glaciale, cartoline polverose dalla Manchester anni Ottanta (la title track, con l’inquietante rumore di fondo di uno scanner medico in funzione, ricorda i Joy Division disperati di Ian Curtis) e dalla Bristol anni Novanta (il trip-hop dei Portishead) con i versi di Guillame Apollinaire (recitati in La collectioneuse) a fare da bussola e tracciare il filo di ispirazione.

Troppo dark, troppo intellettuale, troppo impegnativo? Niente paura, IRM frequenta anche il pop orchestrale (Le chat du Cafè des Artistes è una cover di un pezzo anni Sessanta proveniente dal Quebec), melodie fragili e delicate e una deliziosa, svagata marcetta pianistica, Heaven Can Qui accanto Charlotte con il padre Serge Gainsbourg. Sopra, Carla Bruni e, a sinistra, Charlotte oggi

«Ho voluto essere per lei una specie di ‘condotto’, cercando di costruire qualcosa che le assomigliasse», ha spiegato il produttore alter ego al giornalista Nick Kent. «Volevo assumere una sorta di trasparenza, diventare praticamente invisibile in modo che l’attenzione fosse concentrata solo su di lei». Detto fatto: chi segue le gesta del wonder boy californiano faticherà a ritrovare tracce di Mellow Gold e di Mutations, di Sea Change e di Midnite Vultures, di quella sua musica cangiante e sempre inafferrabile. L’alchimia ha funzionato, l’“osmosi” a cui mr. Hansen agognava si è concretizzata, il processo di transfert si è compiuto (i versi iniziali di IRM, con quell’accenno ai “buchi nella testa”, Beck li ha scarabocchiati su un foglio senza sapere nulla del brutto incidente capitato alla sua partner musicale). Charlotte, per prima, voleva sorprendersi e c’è riuscita: talmente rinvigorita nell’ego, dopo questa esperienza, che ora si sente pronta ad affrontare anche i palcoscenici musicali e a mettersi in viaggio con una band. Ad esibire in pubblico, per la prima volta, se stessa: forse ancora più difficile e imbarazzante che recitare nuda e sottoporsi alle torture fisiche e psicologiche di Lars von Trier.


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