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Una parola muore appena

di e h c a n cro

detta: dice qualcuno. Io dico che solo in quel momento comincia a vivere

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Emily Dickinson di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 28 GENNAIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Dal Papa a Obama,da Napolitano a Angela Merkel.Tutto il mondo unito ricorda l’Olocausto:«Perché non ritorni»

Il Giorno della Memoria offesa Il nuovo Hitler di Teheran minaccia Israele: «Vi distruggeremo» Elie Wiesel coperto d’applausi a Montecitorio: «La Corte dell’Aja processi Ahmadinejad» Shimon Peres per la prima volta a Berlino: «L’Iran è contro i principi della Carta dell’Onu» di Enrico Singer er il mondo è stato il Giorno della Memoria, per il regime iraniano è stato il giorno della vendetta. Mentre tutti celebravano l’orrore della Shoah, Khamenei di dichiarava certo di poter vedere «la distruzione Israele». E Elie Wiesel gli ha risposto: «Ahmadinejad istiga a commettere crimini contro l’umanità, dovrebbe essere arrestato e processato dalla Corte dell’Aja».

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Il discorso di Wiesel alla Camera Il discorso di Peres al Bündestag

«Il nostro passato non diventi il futuro dei nostri figli»

«Auschwitz: ci sono ancora mostri in libertà»

Italiani: uno su dieci è antisemita, uno su due diffida degli ebrei di Osvaldo Baldacci

di Shimon Peres

di Elie Wiesel «Auschwitz è stato lo spartiacque della storia: il silenzio non aiuta la vittima ma l’aggressore». Il testo del discorso che Elie Wiesel ha pronunciato ieri alla Camera davanti ai deputati. a pagina 6

Clamorosi dati di una ricerca Cdec resa nota da Frattini

«Bisogna fare il possibile perché i nazisti ancora vivi abbiano la giusta punizione». Il testo del discorso che ieri il presidente israeliano ha tenuto a Berlino. a pagina 8

ROMA. Solo il 56 per cento degli italiani non nutre sentimenti antisemiti, ma addirittura il 44 per cento mostra in qualche modo ostilià agli ebrei e, all’interno di questo enorme numero, c’è un 12 per cento di nostri concittadini che è chiaramente e consapevolmente antisemita. Verrebbe da pensare che sessanta-

cinque anni sono passati inutilmente, stando ai risultati della ricerca condotta dal Centro di documentazione ebraica contemporanea e rilanciata ieri dal ministro Frattini, in coincidenza con la Giornata della Memoria, per rilanciare l’amicizia dell’Italia nei confronti di Israele. a pagina 4

Ieri pomeriggio l’incontro tra il Cavaliere e Lorenzo Cesa

Cambio di rotta nel discorso sullo Stato dell’Unione

Economia, Obama ci ripensa Berlusconi scarica Palese «Ora congeliamo la spesa pubblica». Sì dei repubblicani, no dei democratici di Guglielmo Malagodi Nel discorso sullo Stato dell’Unione (in programma oggi alle 3 del mattino, ora italiana), Barack Obama cercherà di portare «più speranza» agli americani «arrabbiati e delusi». Questo, almeno, è quanto anticipato ieri da Robert Gibbs, portavoce della Casa Bianca, intervistato durante Good Morning America.

L’attacco del Premio Nobel

di Errico Novi

Così Barack tradisce Barack Un congelamento della spesa? Sarebbe questa la brillante risposta del Team Obama alla sua prima, seria, sconfitta politica? È un atteggiamento terrificante da ogni punto di vista lo si voglia guardare.

ROMA. «Troviamo una soluzione sulla Puglia per evitare la vittoria di Vendola». Silvio Berlusconi lo ha chiesto non ai suoi dirigenti ma al segretario dell’Udc Lorenzo Cesa. Nell’incontro a Montecitorio il premier ha espresso forte gradimento per Adriana Poli Bortone e scaricato di fatto il candidato indicato da Raffaele Fitto, Rocco Palese. Ma deve fare i conti con le resistenze del ministro e degli altri quadri del Pdl.

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di Paul Krugman

a pagina 18 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

«Così vincerebbe Vendola». Ora il premier cerca l’accordo in extremis con l’Udc

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

18 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Silvio Berlusconi e Rocco Palese

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Jihad. Mentre il mondo era impegnato nel ricordo e nella condanna della Shoah, Teheran incitava all’annientamento

David e il nuovo Hitler

Nel Giorno della Memoria Khamenei torna a minacciare Israele. Wiesel: «L’Aja processi Ahmadinejad». Peres: «L’Iran tradisce l’Onu» di Enrico Singer l Giorno della Memoria e il giorno della minaccia. Il ricordo del più orribile oltraggio alla dignità dell’uomo «perché il nostro passato non diventi il futuro dei nostri figli», come ha detto Elie Wiesel in Parlamento, e il perverso augurio di «vedere presto la distruzione di Israele» lanciato dalla guida suprema della rivoluzione islamica iraniana, Ali Khamenei. Se

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ALI KHAMENEI

immediatamente pubblicate sul sito web dell’ayatollah che, con Ahmadinejad, è impegnato a ricompattare la Repubblica islamica in nome della guerra santa contro Israele anche per superare le difficoltà politiche interne che le manifestazioni dei giovani delle scorse settimane hanno portato in piazza. Le parole di Khamenei somigliano molto a quelle di Ahmadinejad, ma contengono anche un elemento di ulteriore minaccia: quel riferimento ai «tempi della distruzione d’Israele» che dipenderanno dall’atteggiamento degli altri Paesi islamici, suona come un invito a creare un vero e proprio “fronte dell’intranzigenza” che non promette nulla di buono sulla strada dei rapporti tra Teheran e l’Occidente.

«Sicuramente, verrà il giorno in cui saremo testimoni della distruzione di Israele» c’era bisogno di un’aòtra conferma della necessità di non dimenticare la Shoah, questa è arrivata ieri nel sessantacinquesimo anniversario dell’ingresso dei soldati russi nel campo di sterminio di Auschwitz. E non è certo un caso che l’ayatollah Khamenei abbia scelto proprio questa giornata per rinnovare una minacia che il presidente Mahmoud Ahmadinejad ha pronunciato più volte arrivando a dire che Israele dovrebbe essere «cancellata dalle carte geografiche» e a definirere l’Olocausto come un «mito».

Ali Khamenei ha invocato la scomparsa di Israele incontrando il presidente della Mauritania, Mohammed Ould Abdel Aziz, che era arrivato in visita a Teheran. «Verrà il giorno in cui le nazioni della regione vedranno la distruzione del regime sionista. I tempi dipendono soltanto dal modo in cui i Paesi islamici si muoveranno», ha detto la guida suprema del regime iraniano che ha anche invitato la Mauritania a «troncare le relazioni diplomatiche con Israele». Le frasi di Khamenei sono state

Elie Wiesel, nel suo discorso alla Camera dei Deputati (che pubblichiamo nelle pagine seguenti) ha fatto un riferimento diretto ai capi del regime iraniano. «Come si può trattare con il presidente di una nazione che non riconosce la Shoah né il diritto di Israele ad esistere? La mia idea, non so se sia praticabile, è che Ahmadinejad dovrebbe essere arrestato e tradotto davanti alla Corte penale internazionale dell’Aja per incitazione a commettere crimini contro l’umanità», ha detto lo scrittoELIE WIESEL

ri, è stato l’ospite d’onore delle manifestazioni del giorno della memoria in Italia. Quando ha raggiunto la tribuna della presidenza per pronunciare il suo discorso, tutti i deputati si sono alzati in piedi e hanno applaudito a lungo. Ad ascolatralo c’era anche Il presidente, Giorgio Napolitano, e il premier, Silvio Berlusconi. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, lo ha presentato come «la personalità più adatta a ricordare il massacro di sei milioni di ebrei e di altre centinaia di migliaia di persone uccise in quanto diversi, sottouomini, nel deliro nazista». Lo scrittore, che è premio Nobel per la Pace, ha detto che la giornata della memoria deve essere dedicata non solo al ricordo, ma anche alla riflessione, alla presa di coscienza perchè il silenzio non aiuta mai la vittima ma sempre l’aggressore. «Se Auschwitz non ha guarito il mondo dall’antisemitismo - si è chiesto Wiesel - che cosa potrà guarirlo?». Elie Wiesel ha dedicato un passaggio del suo discorso anche alla questione israelo-palestinese dicendosi fiducioso che la pace, alla fine, arriverà: «Se Israele è stato capace di stringere la pace con la Germania, certamente sarà capace di farlo con i suoi vicini».

Shimon Peres, mentre Elie Wiesel parlava a Roma, era al Bundestag di Berlino, primo presidente dello Stato d’Israele a intervenire nel Parlamento tedesco dopo la riunificazione della Germania nel 1990. Ed anche Peres ha denunciato «il pericolo che il regime iraniano rappresenta per tutto il mondo». La lezione che dobbiamo imparare dalla Shoah, è che non dobbiamo mai più permettere l’emergere di «dottrine razziste, di sentimenti di superiorità, di cosiddette autorità divine che incitano a uccidere, violare la legge, negare Dio». Il presidente israeliano si è detto anche vicino a chi protesta in Iran: «Siamo

«Ahmadinejad istiga crimini contro l’umanità: andrebbe arrestato e processato» re ebreo che è uno dei sopravvissuti di Auschwitz e che, ie-

con i milioni di iraniani che si concluso il suo appello in tederibellano contro la dittatura e la sco con queste parole: «Prego violenza. Come loro respingia- Dio affinché non si ripetano mo un regime fanatico che con- mai più tali terribili tragedie». traddice i princiGIORGIO NAPOLITANO pi della Carta dell’Onu, un regime che minaccia la distruzione, con impianti nucleari e missili, che propone il terrore nel suo e in altri Paesi». Shimon Peres, che ha 86 anni e ha avuto i nonni e uno zio bruciati vivi in una sinagoga a Vishneva, in Bielorussia, ha poi invitato i tedeschi a dare la Il Papa, poi, in italiano, ha agcaccia ai criminali di guerra giunto che il Giorno della Menazisti ancora in vita perché la moria si celebra in ricordo di loro cattura e e il loro processo tutte le vittime di quei crimini, costituirebbe una lezione per la specialmente dell’annientagioventù di oggi. «Non si tratta mento pianificato degli ebrei, di una vendetta ai nostri occhi, e in onore di quanti, a rischio ma di un’opera educativa per le della propria vita, hanno pronuove generazioni, perché pos- tetto i perseguitati, opponensano ricordare, mai dimentica- dosi alla follia omicida». Prima del discorso di Elie SHIMON PERES Wiesel in Parlamento, il momento più solenne della giornata in Italia si è svolto al Quirinale alla presenza del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, del presidente della Camera, Fini, e dello stesso scrittore.

«Bisogna continuare a ricordare, affinché ciò che è stato non abbia mai più a ripetersi»

«Il mondo deve dire che, a questo punto, l’Iran contraddice i prinicipi della Carta dell’Onu»

re e non avere mai il minimo dubbio sul fatto che non esiste un’alternativa alla pace, alla riconciliazione e all’amore».

Anche il Papa è intervenuto sulla Shoah. Di fronte a un gruppo di pellesgrini arrivati dalla Germania, nell’udienza generale di ieri, Benedetto XVI ha parlato in tedesco per denunciare «l’orribile crimine che la megalomania disumana e l’odio razzista dell’ideologia nazista portarono in Germania». Il Pontefice ha detto che il ricordo della Shoah deve spingere gli esseri umani a sentirsi «una grande famiglia» e a rispettare in modo «assoluto la dignità della persona e della vita umana». Benedetto XVI ha

Giorgio Napolitano ha detto che la Shoah è «una tragica esperienza, ancora carica di insegnamenti e di valori per le nuove generazioni» e ha salutato il premio Nobel per la Pace come «la voce più alta che potessimo aspirare ad avere con noi in questa giornata, testimone della lotta per la causa della libertà e dei diritti umani, della mutua comprensione e della pacifica convivenza tra i popoli». Proprio alla convivenza pacifica Napoliticano ha dedicato una frase significativa parlando del «riconoscimento dei diritti dei popoli che vivino in quella regione e, in modo specifico, del diritto del popolo ebraico e dello Stato di Israele a vivere in sicurezza». Anche Silvio Berlusconi che ha poi partecipato alla ceriminia alla Camera dei deputati, ha inviato un messaggio in cui evidenzia che «il ricordo è un


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dovere, perché tutto ciò non possa più accadere». Il premier ha invitato «tutti, ma soprattutto i giovani» a visitare la mostra “Auschwitz-Birkenau” che è stata allestita al Vittoriano a Roma e che sarà aperta al pub-

BENEDETTO XVI

cittadina che i tedeschi chiamavano Auschwitz dove fu costruito il più grande campo di sterminio nazista dove furono uccisi più di un milione di ebrei ed è proprio qui che ieri si è svolta una delle più toccanti manifestazioni del Giorno della Memoria. Alla cerimonia hanno partecipato 150 sopravvissuti, forse gli ultimi, oltre alle autorità civili e religiose. La delegazione polacca era guidata dal presidente Lech Kaczynski e dal primo ministro Donald Tusk. Israele era rappresentato dal premier Beniamin Netaniahu. Grande assente il presidente russo, Dmitri Medvedev, che pure era stato invitato da Kaczynski. Mosca è stata rappresentata dal ministro dell’Istruzione, Andrei Fursenko, che ha anche inaugurato un mostra permanente russa che ricorda la liberazione del campo da parte dei soldati sovietici il 27 gennaio 1945.

«La memoria della Shoah contro gli ebrei susciti il rispetto della dignità di ogni persona» blico, ad ingresso libero, da oggi al 21 marzo.

Anche Obama ha fatto sentire la sua voce dagli Usa in un messaggio video inviato per il Giorno della Memoria, a un Forum internazionale sull’Olocausto che è in corso a Cracovia, in Polonia. Barack Obama ha lanciato un appello affinché «non si abbassi mai la guardia contro l’antisemitismo e non si accetti mai un ruolo di testimoni passivi del male». Ad appena 50 chilometri da Cracovia c’è la

Angela Merkel aveva incontrato il premier israeliano Netanyahu pochi giorni fa a Ber-

lino nella prima riunione congiunta fra i governi dei due Paesi che si è tenuta sul suolo tedesco. «Essere qui, 65 anni dopo l’Olocausto, come primo ministro dello Stato indipendente d’Israele è un momento storico», aveva detto Netanyahu. E la signora Merkel aveva sottolineato «la responsabilità storica che la Germania ha per l’esistenza e per il futuro d’Israele». Riferendosi alle nuove minacce dell’Iran, ieri, Angela Merkel ha aggiunto che «il prossimo mese di febbraio sarà il momento giusto per definire la linea dell’Europa sulle sanzioni contro il regime di Teheran» che dovrebbero poi essere di-

BARACK OBAMA

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desco ed israeliano, la seconda dopo quella di Gerusalemme nel 2008, hanno partecipato dieci ministri per ognuno dei due Paesi. Con Netanyahu sono arrivati a Berlino, fra gli altri, i ministri degli Esteri, Avigdor Lieberman, della Difesa, Ehud Barak e dell’Industria, Benyamin Ben Eliezer.

Anche una polemica, a parte le nuove minacce del regime iraniano, non poteva mancare in questa così giornata particolare. A suscitarla sono state le dichiarazioni di un vescovo cattolico polacco che ha detto che gli ebrei si sono «impossessati dell’Olocausto per farne un’arma di propaganda». Le parole del vescovo Tadeusz Pieronek, ex capo della conferenza episcopale polac-

«Tutti devono rifiutarsi di diventare testimoni del male ovunque si presenti» scusse dall’Onu. Alla riunione congiunta tra i governi te-

GIANFRANCO FINI

«Dobbiamo sapere che chi vuol distruggere Israele, vuole diustruggere gli ebrei» ca, hanno provocato preoccupazioni tra i responsabili delle comunità ebraiche in Polonia e in Italia dopo essere state pubblicate su un sito web. Successivamente Pieronek è apparso alla tv polacca per dire che le sue dichiarazioni sono state travisate e ha negato di avere pronunciato, in particolare, la frase a lui attribuita «l’Olocausto in quanto tale è un’invenzione degli ebrei». Il vescovo ha detto anche di non avere autorizzato la diffusione dell’intervista in cui, in sostanza, afferma che «non è corretto espropriare questa tragedia per scopi di propaganda perché la giornata della memoria dovrebbe tenersi anche per le vittime del comunismo e per i cristiani perseguitati».


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La realtà. Il Centro di documentazione ebraica contemporanea analizza i comportamenti quotidiani: il risultato è clamoroso

Antisemiti tra di noi

Frattini presenta una ricerca shock: un italiano su dieci odia gli ebrei, uno su due ne diffida. E a Roma compaiono nuove scritte razziste di Osvaldo Baldacci

ROMA. Italia Paese antisemita? Forse più di quanto si pensi, se un’indagine sostiene che il 44% degli italiani nutre dei pregiudizi verso gli ebrei. È quindi quanto meno lecito porsi la domanda nel Giorno della Memoria, quando autorità e media si affannano in una rincorsa di dichiarazioni e commemorazioni, e poi si scopre che tra la gente la percezione potrebbe essere diversa. Emergono indagini e sondaggi che danno un quadro preoccupante del contesto italiano, e a conferma si ripetono episodi incommentabili.

Proprio ieri, mentre il Paese cercava di ricordare le tante vittime della follia nazista, sui muri di via Tasso a Roma, dove si trovava la prigione gestita dalle SS, sono comparse scritte antisemite e negazioniste: «Olocausto propaganda sionista» e «27/01: ho perso la memoria», accompagnate dalle svastiche. È stata imbrattata anche la targa di marmo del Museo della Liberazione, nel 1999 attaccato anche con una bomba. In via Cavour anche una scritta, l’ennesima, contro il presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici. E ieri un quotidiano ha rivelato il caso delle bustine di zucchero di Scandiano (Reggio Emilia) con una barzelletta antisemita, con tema proprio lo sterminio. Il distributore si è difeso dicendo che non conosceva il contenuto delle barzellette, e che le bustine sono prodotte a Como, per cui sebbene il caso è scoppiato in Emilia, le stesse bustine potrebbero circolare nell’indifferenza in molti bar del centro-nord. Questi recentissimi episodi non sono casi isolati. Secondo un rapporto dello Stephen Roth Institute di Tel Aviv sono stati 69 gli incidenti anti-semiti registrati in Italia nel 2008, rispetto

ai 53 dell’anno precedente. Secondo l’Osservatorio antisemitismo negli ultimi due mesi si sono registrati episodi significativi a Torino, Vicenza, Pisa, Milano e Roma.

Ieri le Commissioni riunite della Camera Esteri e Affari Costituzionali hanno dato il via ad un’indagine conosciti-

Giovanni Maria Flick, presidente del museo dell’Olocausto di Roma

«Bisogna tenere alta la guardia, la radice della Shoah è ancora viva» di Francesco Lo Dico la cronaca recente a confermare quanto sia importante ricordare l’Olocausto. Episodi di ignobile idiozia come il furto della scritta posta ad Auschwitz, rendono bene l’idea di quanto sia meschina l’illusione di cancellare la memoria con un atto furtivo, o di venderla al mercato dell’orrore. Quella scritta peraltro è una bestemmia: ma se il lavoro nei lager rendeva liberi di morire, la memoria del lager invece rende liberi di vivere. Liliana Segre, una sopravvissuta che ha sperimentato di persona quei vagoni della morte che partivano dal binario 21 della stazione di Milano, ha spiegato quanto sia necessario tenere alta la guardia. Bisogna ricordare. La memoria rende liberi».

«È

Giovanni Maria Flick è diventato presidente onorario del Museo della Shoah di Roma lo scorso anno, dopo aver lasciato la presidenza della Corte costituzionale. E in occasione della Giornata della Memoria appena trascorsa, racconta a liberal la sua attività al servizio della causa. «La legge sulla memoria nata nel 2000 è la sintesi di due principi ispiratori – spiega Flick –. Alla Camera si accentuò allora la riflessione sulle corresponsabilità italiane. Al Senato si approfondirono maggiormente i collegamenti tra quella tragedia alle altre aggressioni ai diritti umani. Il Giorno della Memoria è il terreno di incontro di queste due istanze. E la base di partenza, dalla quale muove l’istituzione del museo della Shoah e del museo dell’identità della cultura ebraica a Ferrara, cui hanno fatto seguito il museo della Shoah di Roma e il binario 21 di Milano. Un continuum che è volto ad appuntare concretamente nella memoria alcune delle tappe tremende che punteggiarono lo sterminio. È essenziale creare una geografia del ricordo». Fu proprio dieci anni fa che si scelse il 27 gennaio per commemorare l’ecatombe. «Possiamo ricordare il giorno

in cui sono stati aperti i cancelli di Auschwitz, il 16 ottobre, giorno della deportazione di Roma, il 6 dicembre del ’43, il giorno in cui si misero in moto i treni del binario 21, o le leggi razziali del ‘38. Ma la scelta di questo o quell’evento, non muta le cose. La geografia del ricordo di cui parlavo poc’anzi, è utile a dilatare il tempo della memoria, a distribuirlo in questi luoghi di riflessione connessi tra loro dalla necessità di non dimenticare la sofferenza». L’oblio o la stortura restano però sempre in agguato. «Ha ragione chi dice di temere che il passare del tempo possa comportare il rischio di disperdere la memoria e di consentire la diffusione di sempre crescenti fandonie negazioniste – avverte il presidente –. Primo Levi testualmente diceva:“Spaventa quello che potrà accadere tra una ventina d’anni, quando tutti i testimoni saranno spariti. Allora i falsari avranno via libera e potranno affermare o negare qualsiasi cosa”. Vent’anni sono passati, da quando Levi diceva queste cose, e quel pericolo non è ancora scongiurato. Ma possiamo evitarlo se trasformiamo il ricordo in radice e in identità». Il pensiero si rivolge subito alle nuove generazioni. «Finché un giovane andrà ad Auschwitz e avrà un pugno nello stomaco, si potrà dire che la missione della memoria è stata compiuta, ma per fare questo occorre continuare il percorso intrapreso dieci anni fa». Un sentiero non privo di insidie.«Bisogna evitare le trappole – ammonisce Flick –.Trappole come la memoria selettiva, quella rancorosa e quella a comando. E mettersi al riparo da un particolare disturbo della memoria, che attraverso l’inflazione del ricordo trova una scappatoia per dimenticare le tragedie del presente». La cronaca italiana recente, punteggiata da gravi episodi xenofobi, fa sorgere inquietanti interrogativi. «L’Olocausto è un fatto irripetibile – dice il presidente – non solo per le dimensioni quantitative ma perché al male si aggancia la scientificità dell’orrore. La Shoah è unica, ma la radice della Shoah è sempre viva e possono sempre ripetersi purtroppo le condizioni per il suo verificarsi».

va sull’antisemitismo, e il ministro degli Esteri Franco Frattini ha fatto riferimento ai pericoli ancora attuali. E ha fatto riferimento anche a un altro pericolo che in Italia è più vivo. Quello dell’«assuefazione civile», che rappresenta in Italia «il nuovo antisemitismo sul quale riflettere e vigilare». Un antisemitismo strisciante, fatto di «battute e accondiscendenza» verso espressioni antisemite. Per il ministro, che cita uno studio riportato dal Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec), ben il 44% degli italiani ha mostrato in qualche modo atteggiamenti ostili agli ebrei, e tra questi, il 12% ha mostrato, secondo la ricerca, «sentimenti antisemiti». Gli studi che cercano di capire quanto sia realmente diffuso oggi l’antisemitismo in Italia non danno risultati rassicuranti, mostrando un paese carico di pregiudizi. Secondo un sondaggio dell’associazione «Monferrato Cult», organizzatrice del Festival di cultura ebraica, un italiano su tre giudica gli ebrei poco simpatici. Uno su quattro non li considera «italiani fino in fondo”. Per 42 italiani su cento gli ebrei sono “simpatici”. Per il 32 per cento non lo sono affatto mentre 26 su cento non si pronunciano. Certo, c’è un forte tasso di variabilità in questi pregiudizi, e molto dipende da cosa si intende per ostilità antiebraica. Però i pregiudizi ci sono.

La ricerca citata da Frattini e condotta dall’ISPO con il Cdec (www.cdec.it) mostra che solo il 13% degli italiani respinge nettamente ogni stereotipo, mentre il 43% (per lo più con una conoscenza scarsa degli ebrei) non prende alcuna posizione. E in quasi metà degli italiani rimane invece qualche pregiudizio o atteggiamento ostile agli ebrei. Questo 44% mescola diversi tipi di pregiudizi vecchi e nuovi. Il 10% condivide gli stereotipi antiebraici definiti «classici»: gli ebrei non «sono italiani fino in fondo», «non ci si può mai fidare del tutto di loro» e «sotto sotto sono sempre vissuti alle spalle degli altri». Un altro 11% diffida degli ebrei perché ritiene che «gli ebrei sono ricchi e potenti», «controllano e muovono la politica, i media e la finanza » ed inoltre «sono più fedeli ad Israele piuttosto che al Paese in cui sono nati». Il 12% si concentra di più su tematiche contemporanee per giustificare la propria antipatia: «tutti gli ebrei strumentalizzano la Shoah per giustificare la politica di Israele», «parlano troppo delle loro tragedie trascurando quelle degli altri», «gli ebrei si comportano da nazisti con i palestinesi ». Queste persone hanno anche un atteggiamento fortemente ostile allo Stato d’Israele. Una vera ideologia antiebraica si trova infine nel gruppo restante, un 11% di italiani che più propriamente si possono definire davvero antisemiti: condividono tutti gli stereotipi sopra elencati.Tra costoro


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«È colpa di ideologie e luoghi comuni» Parla Anna Foa, storica e testimone della realtà ebraica contemporanea di Gabriella Mecucci

ROMA. Di nuovo le scritte antisemite: questa volta riappaiono a via Tasso a Roma, dove ha sede il museo della Liberazione, proprio nella Giornata della Memoria. Ne parliamo con Anna Foa, acutissima testimone della realtà ebraica contemporanea e autrice di due importanti saggi storici: Ebrei in Europa e Diaspora. Perché questa inquietante recrudescenza? Sono scritte molto brutte e pericolose. Mi sembra fra l’altro molto strano che si sia riusciti a farle senza lasciar traccia.Via Tasso è infatti un obiettivo molto prevedibile: anche in passato è stato scelto come un luogo dove manifestare l’odio verso gli ebrei. E poi proprio il giorno della memoria... Qualcuno dovrebbe aver notato gli autori, o forse ci sarebbe voluta una maggiore sorveglianza. E dei contenuti delle scritte cosa dice? Sono pericolose e rappresentative di tutti gli stereotipi antisemiti più diffusi. Hanno imbrattato i muri con slogan come: “Olocausto uguale propaganda sionista”. Oppure: “Talmud razzista”. Quest’ultimo rientra proprio nell’antisemitismo più tradizionale, classico, quello antitalmudico di fine Ottocento e poi molto utilizzato anche dai nazisti. Il Talmud - questa le tesi - è razzista perché contiene bestemmie e attacchi al cristianesimo. Il primo slogan, quello in cui si sostiene che l’Olocausto è solo propaganda sionista, si rifà invece al negazionismo storico, del tipo di quello fortemente sostenuto dall’Iran. Ciò che più mi impressiona è che chi ha fatto le scritte sa bene di cosa parla. Sono frutto di una ideologia antisemita strutturata. I dati forniti dal centro di docu-

la maggioranza è o di estrema destra o di estrema sinistra.

Nel più recente rapporto redatto per la Stephen Roth Institute e pubblicato su www.osservatorioantisemitismo.it, si segnalano altri dati interessanti. Una cosa che torna spesso in evidenza è la connessione tra il nuovo antisemitismo e l’avversione allo Stato di Israele. In questo senso il rapporto fa riferimento al fenomeno del-

mentazione ebraica di Milano segnalano un aumento dell’antisemitismo che tocca il 12% degli italiani. Ma l’ostilità o comunque la diffidenza verso gli ebrei riguarderebbe nientemeno che il 44%. Dentro questa percentuale ci sono non solo gli stereotipi classici, ma anche quelli più legati all’odio verso Israele... Quel 12% segnala un dato in leggera crescita e comunque superiore a una media considerata fisiologica nelle società contemporanee che viene fissata intorno al 10%. Quel 44% invece mi sembra un dato particolarmente elevato. Non so con quali criteri sia stata fatta la ricerca e quindi mi resta difficile valutare. È comunque la percentuale più alta che mi è capitato di sentire. Credo che quando si parla di questi argomenti occorra sempre essere molto prudenti nel maneggiare i dati, anche perché possono diventare

Chi ha fatto quelle scritte sa bene di cosa parla: sono frutto di un odio ben definito e strutturato

una sorta di avallo dell’ostilità verso gli ebrei: siamo in tanti, abbiamo ragione. L’atteggiamento fanaticamente antisraeliano e filopalestinese, che pure è molto diffuso, non figura invece negli slogan di via Tasso. Se si va in internet e in certi blog si scopre che questo orientamento è stato assunto anche da alcuni gruppi cattolici più tradizionalisti. In alcuni soggetti la negazione dell’Olocausto sta in compagnia - come nel caso di un vescovo polacco - di una scelta marcatamen-

l’immigrazione musulmana in Italia e alla posizione dei gruppi più fondamentalisti. Inoltre elenca una serie di episodi di atteggiamenti a diverso titolo ostili agli ebrei, comprese espressioni di personaggi politici e di giornalisti di sinistra e di destra. Secondo la ricerca, i 69 episodi antisemiti del 2008 includono vandalismo, graffiti offensivi (21, di cui 9 a Roma) e email di insulti e minacce (33, ma 28 da una stessa persona). L’episodio più grave a maggio l’ag-

te filopalestinese. La ricerca del Cdec registra poi anche un’ostilità nei confronti degli ebrei legata ad alcuni luoghi comuni, come quelli che riguardano la loro ricchezza, la loro presenza dominante nella finanza internazionale... Questo è probabilmente l’atteggiamento più diffuso: è l’idea che transita nelle barzellette. Il rabbino che viene dipinto come l’avaro. Questi stereotipi sono i più difficili da combattere perché li sostengono persone che non si rendono nemmeno conto di essere antisemiti. Se qualcuno li accusasse di questo, risponderebbero che non è vero. Si tratta però di luoghi comuni dovuti a leggerezza, a ignoranza, mentre gli altri atteggiamenti antisemiti o comunque ostili trovano il loro fondamento in un’ideologia. E come valuta la nuova, pesante minaccia iraniana contro gli ebrei e contro Israele? La considero una minaccia molto seria. L’Iran è ben armato e con Israele vuole distruggere gli ebrei. Non vogliono solo annientare il sionismo, ma azzerare il cuore dell’ebraismo. È una linea molto pericolosa. E poco conta che talora venga agitata per fini interni. Perché nel mondo arabo è così diffuso l’antisemitismo? Coesistono anche qui atteggiamenti diversi. C’è chi vede Israele come uno stato colonialista. E c’è chi invece ha profondamente radicata - e questa è la componente più pericolosa - l’idea che

gressione a un 14enne su un treno ligure. In gennaio la profanazione di tombe nel cimitero di Scandiano (RE).Vengono poi segnalati come tendenza generale i cori antisemiti durante incontri sportivi, non solo da parte di ultras e skinheads, ma anche dell’estrema sinistra, ma in questo ambito viene registrato un solo episodio maggiore, in una partita tra Barga e Ghivizzano. Segnalati poi gli incidenti e le aggressioni occorse durante marce politiche,

l’ebreo deve essere sottomesso. L’esistenza e la forza di Israele, che li ha sconfitti in guerra più volte, è per costoro il ribaltamento della convinzione che l’ebreo è un essere inferiore. Si tratta di un mondo abituato a tale stato di cose e che quindi non può sopportare la nuova situazione, che rappresenta secondo la sua mentalità - il rovesciamento dell’ordine delle cose. Si può essere antisionisti senza essere antisemiti? Teoricamente è possibile. In pratica la mescolanza è molto forte e l’antisionismo si esprime attraverso il linguaggio dell’antisemitismo. Sono passati 10 anni dall’istituzione della Giornata della Memoria, è tempo di bilanci. Questa scelta è stata giusta? Ha avuto un ruolo positivo? Più volte ho espresso alcuni dubbi sul proliferare di iniziative, sulla loro istituzionalizzazione. Va forse compreso meglio quale tipo di memoria stiamo sollecitando. Questa riflessione parte proprio dal mondo ebraico. Nonostante ciò la Giornata della Memoria ha avuto un ruolo positivo: ha moltiplicato le conoscenze, ha fatto sì che la Shoah diventasse un tragedia che riguarda tutta la società: non è una faccenda solo degli ebrei che si ostinano a piangere il loro lutto.Ttrasformare il ricordo dello sterminio in memoria socialmente condivisa, è un passaggio di grande rilevanza. Ci sono poi dei rischi, questo aumento di antisemitismo può essere uno dei rischi. La memoria si ufficializza e può produrre un rifiuto. Su questo dobbiamo riflettere tutti.

per lo più contro Israele.Viene poi ricordata l’opposizione di intellettuali e politici di sinistra alla scelta di Israele come ospite d’onore alla Fiera del Libro di Torino, e, fatto più grave, la comparsa su Internet di una “lista di proscrizione”di 162 professori universitari ebrei. Il report ricorda anche la pubblicazione di 9 libri a vario titolo ostili agli ebrei, e fa riferimento ai più numerosi siti web con contenuti antisemiti, alcuni islamici.


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Il documento/1. Il testo del discorso che Elie Wiesel ha pronunciato ieri alla Camera davanti ai deputati

Il passato non sia il futuro «Auschwitz è stato lo spartiacque della storia: il silenzio non aiuta la vittima ma l’aggressore. Perciò bisogna ricordare per insegnare» di Elie Wiesel ignor presidente del Consiglio dei ministri, onorevoli deputati e senatori e presidente della Corte Costituzionale, sopravvissuti, membri della comunità ebraica, come non dirvi della mia grande emozione nell’essere qui. Mia moglie Marion ed io, presidente Fini, le siamo profondamente grati del calore e dell’accoglienza e della sincerità delle sue parole e ci congratuliamo con l’Italia. Abbiamo partecipato a tante cerimonie, abbiamo visitato tanti Paesi dove viene celebrata la memoria e posso dirvi che qui questo Paese costituisce un modello perché abbraccia tutte le sfere della società, la commemorazione in Italia.

S

Abbiamo assistito oggi a una cerimonia in cui il presidente della repubblica Napolitano ha dato dei premi a studenti, bambini, e quando vedi i bambini ovviamente non puoi che sorridere e ti senti anche profondamente coinvolto. Ieri abbiamo visto

l’inaugurazione della mostra sull’Olocausto e quindi vogliamo ringraziarvi perché tutti noi siamo impegnati per ricordare. Siamo qui per ricordare. E allora ricordiamo insieme quest’epoca della storia che ha avvolto nelle tenebre la speranza dell’uomo. Un’epoca in cui gli assassini hanno torturato, tormentato, isolato, affamato e ucciso sei milioni di uomini, donne e bambini non per qualcosa che avevano fatto o detto o scritto o posseduto ma semplicemente perché erano i discendenti di un popolo antico, l’unico popolo dell’antichità che sia sopravvissuto all’antichità stessa.

Dove inizia la memoria? Per l’ebreo che sono, sento un profondo senso di riflessione, gratitudine e rispetto ed è con questi sentimenti che vi parlo perché Roma per noi occupa un ruolo speciale. Gerusalemme e Roma hanno memorie che si intrecciano, i saggi della Giudea venivano a Roma per perorare di fronte agli

imperatori romani la causa del loro popolo e oggi io sono qui, uno dei loro eredi e discepoli che sono qui di fronte a voi, leader di questa nazione straordinaria, io numero A 7713. E sono qui a portarvi un

messaggio su eventi che sono avvenuti duemila anni più tardi. Proprio in questi giorni, sessantacinque anni fa, mio padre Schlomo, figlio di Nissel e Lisse Wiesel (numero A

7712) è morto di inedia e malattia nel campo di sterminio di Buchenwald.

C ’ er a n o i t a l i a n i a Buchenwald? Non ricordo, ma ad Auschwitz ce ne erano e

ricordo un certo Luigi, timido, gentile e introverso. Non parlava il tedesco nè lo yiddish e senz’altro non parlava il polacco: sembrava più perso di altri. Ho incrociato forse

Primo Levi che poi è diventato mio amico, come lei presidente Fini ha già detto: a un certo punto siamo stati assegnati alla stessa baracca, ma non era presente nella marcia della morte verso i vagoni che ci hanno portato a Buchenwald perché è rimasto in ospedale.

B u c h e n w a l d . R i c o r d o la notte che siamo arrivati, molti erano morti per strada, ricordo i vagoni aperti sul treno, ricordo la tormenta di neve, molti sono morti ma alcuni con le loro ultime forze gridavano «ascolta Israele, Dio è il nostro Dio, Dio, lì». Io ero uno studente devoto e non ho potuto reprimere il desiderio di unirmi agli altri a questo appello ai cieli e sinceramente non posso spiegare perché. Ricordiamo. Nel 1945 la Germania praticamente aveva già perso la guerra contro gli alleati. L’ultima grossa battaglia nelle Ardenne è finita con una sconfitta tedesca e ciononostante le guerra di Hitler contro il popolo ebrai-


prima pagina co è continuata senza sosta. I sei campi di sterminio in Polonia erano stati liberati ma non i campi in Germania e in Austria. Gli ebrei erano ancora oggetto di distruzione. Ma perché?

Levi dice che ad Auschwitz non c’era luce. Più tardi mi hanno chiesto in un intervista: «Quando andrà in cielo, quali saranno le parole che dirai a Dio?». Io dirò un’unica parola: «Perché?». Ma questa domanda non dobbiamo farla solo a Dio, ma anche alle sue creature: perché Hitler e i suoi accoliti nati nel cuore del cristianesimo hanno fatto quello che hanno fatto? Perché volevano ad ogni costo distruggere l’ultimo ebreo sul pianeta. Oggi riuniti per ricordare quell’avvenimento che non ha precedenti nella storia ci si potrebbe chiedere: perché riaprire vecchie ferite, perché infliggere un tale dolore ai giovani? Per i morti è troppo tardi, sì, e ciò che è stato fatto non può essere annullato. Neanche Dio può annullare ciò che è stato fatto. Tanta paura, dolore. Il tormento non può essere dimenticato, ma può essere ricorda-

to. In che modo possiamo aprire i nostri cuori e le nostre anime al ricordo e ancora conoscere la speranza?

Oggi dovremmo dedicare la giornata non solo al ricordo ma anche alla riflessione, alla presa di coscienza. In che modo la storia giudicherà il comportamento del mondo, il comportamento dell’Italia. Ci sono state persone coraggiose e nobili - in Italia e altrove - che hanno cercato di aiutare gli ebrei. Alcuni ci sono riusciti e meritano la nostra profonda gratitudine. Mia moglie Marion e la sua famiglia sono stati salvati da una giovane coppia italiana a Marsiglia e oggi è il compleanno di mia moglie che è qui con noi. E quindi io devo agli italiani e a Marsiglia la mia felicità e quella di mia moglie. Ma quanti hanno corso il rischio? Quanti hanno aperto la propria casa a una famiglia ebrea, a un ebreo che aveva di fronte la prigione e la deportazione? Ai più bassi livelli della poli-

tica e il più alto livello della spiritualità il silenzio non aiuta mai la vittima: il silenzio aiuta sempre l’aggressore. Per molti di noi Auschwitz resta uno spartiacque nella storia. C’è un prima e un dopo: mai prima di allora tanti bambini tante famiglie sono stati uccisi da uomini spesso istruiti, colti che continuavano a manifestare la loro ammirazione per Goethe, per Schiller, per Bach e Beethoven e per Dante.

Ma che ne fu della loro umanità? Erano disumani? Forse sarebbe un’ipotesi troppo semplicistica, ma bisogna chiedersi cosa ha provocato quella metamorfosi. Negli anni io ho letto ogni libro su quell’epoca, in ogni lingua che conosco, cercando di capire. In che modo il male ha potuto raggiungere una tale profondità e una tale grandezza. Non sono in grado di spiegare la passività di chi è rimasto a guardare a tutti i livelli. Non era così difficile salvare una vita umana. Non sarebbe stato così difficile all’inizio del 1944 bombardare i binari che portavano ad Auschwitz, ma per motivi inspiegabili e ingiustificabili quei binari non sono stati bombardati. Perché? Ho fatto questa domanda a diversi presidenti americani e nessuno mi ha dato una risposta valida. Anzi, avevo paura della loro risposta. Ma forse perché allora le vittime che avrebbero potuto essere salvate erano ebrei ungheresi, non era facile neanche capire le vittime. Come mai tanti sono riusciti aggrapparsi alla loro fede nel buio del ghetto nell’orrore dei campi? Dove hanno trovato la forza di ricostruire la loro vita sulle rovine del loro passato? Nelle sue memorie di Treblinka un superstite ha scritto: «Sarò mai capace di ridere ancora?». A Birkenau Sanmar Gradowski, membro del Sonder Commando, si chiede: «Sarò mai in grado di piangere ancora?». Eppure i sopravvissuti in Italia, Francia, America Israele, dopo la guerra sono riusciti a elaborare il lutto e la rabbia e a creare uno stato ebraico sulla terra degli avi. Solo tre anni corrono tra Auschwitz e la rinascita di Gerusalemme e la nascita dello stato sovrano ebraico.

In che modo le vittime di ieri sono riuscite a realizzare tutto ciò nel nome dell’umanità? Forse qualcuno ha la risposta: io non ce l’ho. Ma forse ricordando i morti noi diamo un insegnamento vitale ai vivi, un insegnamento sulla vita e sulla morte, sul buio e la luce, la crudeltà e la com-

passione. Insegniamo a chi vuole ascoltare che quello che accade a una comunità riguarda tutti, e che nessun essere umano è solo nel mondo di Dio, ma che solo Dio è solo e non dobbiamo permettere a nessuna vittima del destino o prigioniero della società di sentirsi solo, respinto, rifiutato, abbandonato.

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un testimone diventa un testimone. E quindi, parlamentari, diventate i nostri testimoni; leader dell’Italia, diventate nostri testimoni.

Io debbo confessare però che nutro anche una certa frustrazione. I testimoni hanno parlato, e poco o niente è cambiato nel mondo. Il mondo si è rifiutato di sentire, di imparare. Altrimenti come possiamo comprendere la Cambogia, il Ruanda, il Darfur, l’antisemitismo oggi. Se Auschwitz non ha guarito il mondo dall’antisemitismo, cosa potrà guarire il mondo dall’antisemitismo? Io parlo dell’antisemitismo.

La storia oggi vive grandi stravolgimenti la nostra generazione è segnata dal disorientamento e dalla sfiducia. I giovani abbracciano il fanatismo religioso che a volte porta anche a missioni suicide. Gli attentati suicidi sono assassini, omicidi e devono essere condannati come crimini contro l’umanità. Io rivolgo un appello a voi, presidente Fini e presidente Berlusconi: potreste essere i primi nel mondo a introdurre un disegno di legge che designi l’attentato suicida come crimine contro l’umanità. Questo non fermerebbe le mani degli assassini ma potrebbe fermare i complici. Chi insegnerà ai giovani che noi dobbiamo educare il diritto di tutti i bambini a vivere una vita sicura se non noi che abbiamo visto la parte peggiore dell’uomo? Io so che molti sopravvissuti sono preoccupati da cosa ci succederà quando l’ultimo sopravvissuto non ci sarà più. Io non sono tanto preoccupato perché credo che chiunque ascolti Elie Wiesel, Premio Nobel per la Pace, che ieri ha visitato la Camera dei Deputati della Repubblica italiana. Wiesel, sopravvissuto all’Olocausto, ha chiesto di allontanare l’Iran dalle Nazioni Unite. Nella pagina a fianco, l’Aula in piedi accoglie l’ingresso del Nobel e della moglie

Come si può trattare con il presidente di una nazione come Ahmadinejad, che è il primo a negare l’Olocausto e che vuole distruggere uno Stato membro delle Nazioni Unite? Come osa?

Io ho visitato tanti Paesi del mondo e un’idea - non so se realizzabile - è che dovrebbe essere arrestato e tradotto di fronte alla corte dell’aia e accusato di incitamento a crimini contro l’umanità perché la paura esiste ancora. Le guerre civili, la fame, milioni di bambini muoiono di malattia e di violenza: in Medioriente c’è un grande tumulto. La pace fra israeliani e palestinesi è ancora un sogno, ma arriverà. Se Israele ha potuto stringere la pace con la Germania, senz’altro sarà in grado di farlo con i suoi vicini. Creiamo un’occasione e mandiamo un appello a coloro che tengono in prigione Shalit. Voi avete la credibilità per farlo, quest’uomo da tre anni vive in prigione e però c’è la speranza. La speranza deve esserci. Guardiamo l’Europa che è diventata un simbolo della solidarietà internazionale: la Germania e la Francia erano da sempre nemici, si uccidevano per pochi chilometri di territorio, ma oggi sono convinto che tra questi due Paesi non ci sarà mai più la guerra, o tra l’Italia e la Francia. Cosa abbiamo imparto dal passato? Che il razzismo è stupido e che l’antisemitismo è un’infamia, che la nostra umanità è definita dal nostro atteggiamento verso l’altro, che dobbiamo scegliere tra cadere nella provocazione del nemico e il nostro dovere morale nei confronti gli uni degli altri. La scelta è tra il nichilismo e il senso tra la paura e la speranza. Questa scelta appartiene a ciascuno di noi. Per concludere siamo profondamente commossi da voi tutti per questa giornata. Io ho sempre creduto che la vita non è fatta di anni ma di singoli momenti e questo momento conterà nelle nostre vite. Quindi noi non viviamo nel passato ma il passato vive nel presente e il nostro dovere rimane quello di umanizzare il destino, il mio e il vostro destino, ricordiamolo. Qualsiasi cosa noi facciamo e qualsiasi cosa diciamo agli altri colleghi, qualsiasi siano i nostri obiettivi, non dobbiamo consentire che il passato diventi il futuro dei nostri figli. Grazie.


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Il documento/2. Il testo del discorso che ieri il presidente israeliano ha tenuto al Bundestag di Berlino

Berlino, oggi ti chiedo... «Vogliamo che la Germania e il mondo facciano tutto il possibile perché i criminali nazisti ancora vivi abbiano la giusta punizione» di Shimon Peres gregi signori, io mi presento qui davanti a voi come presidente dello Stato di Israele, la casa del popolo ebraico. Mentre il mio cuore si infrange nel ricordo dell’atroce passato, i miei occhi vedono un futuro comune per un mondo che è ancora giovane, un mondo libero da ogni odio. Un mondo in cui le parole “guerra” e “anti-semitismo”saranno prive di significato. Nella tradizione ebraica che ci accompagna da migliaia di anni, esiste una preghiera in aramaico che viene recitata per commemorare i defunti: in memoria di padri e madri, di fratelli e sorelle. Le madri che si sono viste strappare via i figli dalle braccia e i padri che hanno visto con orrore i loro bambini spinti nelle camere a gas e divenire fumo dei crematori non hanno avuto il tempo di recitare o ascoltare questa antica preghiera. In questa occasione la voglio recitare io, qui e ora, per onorare i sei milioni di ebrei che sono divenuti cenere: «Sia esaltato il Suo nome, che ha creato secondo la Sua volontà. Possa venire il Suo regno, la Sua redenzione e il Suo Messia. Possa venire nel corso delle nostre vite e in quella della Casa di Israele, velocemente e presto». La preghiera finisce con le parole che sono divenute un simbolo nello Stato di Israele, un sogno nel mondo ebraico: «Possa Lui, che ha creato la pace, nella Sua compassione portare la pace su di noi e su Israele». Leader e rappresentanti della Germania, nello Stato di Israele e nel resto del mondo i sopravissuti all’Olocausto stanno gradualmente abbandonando il mondo dei vivi. Il loro numero diminuisce ogni giorno.

E

Allo stesso tempo donne e uomini che hanno preso parte alla più odiosa attività sulla terra – quella del genocidio – vivono ancora in Germania e nel suolo europeo, così come in altre parti del mondo. La richiesta che vi faccio è questa: per favore, fate tutto il possibile per portarli davanti alla giustizia. Ai nostri occhi questa non è vendetta, ma una lezione d’educazione. È un’ora di grazia per le giovani generazioni, dovunque esse vivano. Possano questi capire e ricordare che,

qualunque cosa accada, c’è sempre un’altra soluzione alla guerra: esiste la pace, la riconciliazione, l’amore. Oggi, Giornata internazionale per la memoria delle vittime dell’Olocausto, è il giorno in cui 65 anni fa il sole ha rivelato per la prima volta i frutti di sei anni malvagi: la distruzione del mio popolo. In quello stesso giorno c’era

ancora la cenere e il fumo, sopra il campo di AuschwitzBirkenau. Ma il 27 gennaio del 1945, in qualche modo troppo tardi, il mondo ha scoperto che sei milioni di ebrei non erano più fra i vivi. Questa Giornata non rappresenta soltanto un memoriale per le vittime, ma anche la tragedia derivata dall’aver procrastinato un intervento. Questa è la lezione che il mondo dovrebbe aver imparato dopo essere stato disattento davanti alle fiamme e a quella macchina della morte che ha operato giorno dopo giorno, anno dopo anno, senza opposizione alcuna.

Tre anni prima, il 20 gennaio del 1942, un gruppo di uomini si riunì non lontano da qui per tratteggiare e coordinare “la soluzione finale” decisa per la “questione ebraica”. Adolf Eichmann lavorò in maniera diligente a un documento che identificava la parte della po-

polazione destinata alla deportazione e quella che andava sterminata. Il suo tratto aveva tratteggiato la popolazione ebraica dell’intero continente europeo. Dai tre milioni che vivevano fra Polonia, Ucraina e Unione Sovietica ai duecento che si trovavano nella piccola Albania. Undici milioni di persone, undici milioni di ebrei de-

stinati a morire. I nazisti fecero un lavoro che condusse ad Auschwitz, agli inceneritori e alle camere a gas.

Oggi, riveriti ospiti, io sono davanti a voi come rappresentante dello Stato degli ebrei, lo Stato dei sopravvissuti, lo Stato di Israele. Posso vedere, in questo stesso istante, l’immagine del mio rispettato nonno, il rabbino Zvi Melzer. Sono stato benedetto dalla possibilità di essere suo nipote, lui che era mia guida e mentore, l’uomo che mi ha insegnato la Torah. Lo vedo, con i suoi occhi profondi e scuri, mentre avvolto nel suo tallith (lo scialle della preghiera ebraica) guida la sua congregazione nella preghiera in sinagoga nella città dove sono nato: Vishniev, in Bielorussia. Lo ricordo ancora quando mi accmpagnò alla stazione dei treni, avevo undici anni e partivo per il mio villaggio di Eretz Israel: abbracciandomi, mi disse «Ra-

gazzo mio, rimani sempre un ebreo». È l’ultima l’ultima volta che l’ho visto: quando i nazisti sono arrivati a Vishniev, ordinarono a tutta la congregazione di riunirsi in sinagoga.

Mio nonno apriva la marcia, insieme alla sua famiglia, avvolto nello stesso tallith nel quale io bambino mi avvolge-

vo. Le porte vennero chiuse dietro di loro, e il fuoco venne appiccato alla struttura di legno. Nessuno sopravvisse. L’Olocausto ha posto delle questioni dolorose, che arrivano a chiedersi quanto sia profonda l’anima di un uomo. Quanto può essere crudele un uomo? E fino a quando può tacere un popolo che ama la cultura e rispetta l’intelletto? Una delibera razionale può essere distrutta? Come può una nazione considerarsi “superiore”e definire gli altri “inferiori”? E perché i nazisti vedevano nell’esistenza degli ebrei un pericolo? Avevano divisioni, gli ebrei? Carri armati o razzi? Gentili signori, l’odio dei nazisti non può essere semplicemente definito anti-semita. Questa è la definizione comunemente usata, ma non spiega in pieno la rabbia bestiale che ha motivato il regime nazista o la sua ossessiva voglia di estirpare gli ebrei. L’obiettivo della guerra era quello

di conquistare l’Europa, non di distruggere un popolo. E se come popolo eravamo un pericolo terribile per Hitler, questo pericolo non era militare, ma morale. Nasceva dal convincimento che ogni uomo è immagine di Dio, che siamo tutti uguali agli occhi di Dio e tutti uguali su questa terra. Fin da quando nasciamo, ci viene comandato di non uccidere, di amare il prossimo e la pace. I nazisti cercarono di demonizzare questo aspetto. Hanno bruciato mio nonno in una sinagoga, insieme ai suoi fratelli: le fiamme hanno bruciato il loro corpo, ma non il loro spirito. I nazisti hanno cercato di dipingere gli ebrei come parassiti, ratti, propagatori di malattie.

I nazisti hanno cercato di dimenticare, e indurre gli altri a dimenticare, i valori della giustizia e della pietà. Come ebreo porto e porterò per sempre con me il dolore dell’Olocausto dei miei fratelli e sorelle. Come israeliano sono amareggiato per il tragico ritardo nella creazione di uno Stato ebraico, che ha lasciato il mio popolo senza un porto sicuro. Come nonno non posso definire la perdita di un milione e mezzo di bambini: la più grande perdita di potenziale umana e creativa mai avvenuta nella storia, una realtà che avrebbe potuto cambiare la faccia e il destino di Israele. Io sono orgoglioso che il nostro popolo sia stato il grande nemico del male nazista. Sono orgoglioso dell’eredità dei nostri padri, che si sono diametralmente opposti alla dottrina del razzismo. E sono orgoglioso per Israele, la riposta morale e storica al tentativo di sradicare il popolo ebraico dalla faccia della Terra. L’Olocausto deve essere sempre prominente nei nostri pensieri e nella coscienza dell’umanità, un perpetuo avvertimento. Così come un monumento alla santità della vita, all’uguaglianza fra gli uomini, alla libertà e alla pace. Lo sterminio degli ebrei europei non dovrebbe essere considerato come un “buco nero” del passato. L’Olocausto non deve divenire una barriera contro la fede. Ogni tanto mi chiedo: ma se le vittime dello sterminio avessero ancora una voce, una voce


prima pagina unica, cosa direbbero? Ci direbbero di guardare avanti. Di essere ciò che loro non sono potute essere, di creare di nuovo ciò che è andato perduto. Il contributo degli ebrei tedeschi alla loro nazione in campi come la scienza, la cultura e l’economia è stato enorme, sproporzionato se si pensa alle dimensioni di quella comunità. Nelle migliaia di anni della loro esistenza, gli ebrei dell’Europa sono andati avanti insieme alle forze del continente.

Dall’età d’oro spagnola a quella tedesca. Gli ebrei europei sono stati strumenti d’avanzamento e sviluppo di scienza, tecnologia, letteratura e arte. Questo è stato possibile perché, ogni volta che sono stati banditi dalle loro nazioni, gli ebrei si sono convertiti alla vita nomade. Ed ecco che sono divenuti bravi nella letteratura, nelle lingue e nelle scienze. Basti pensare a nomi, soltanto per citare i tedeschi, come Albert Einstein, Sigmund Freud, Martin Buber, Karl Marx, Herman Cohen, Hannah Arendt, Heinrich Heine, Moshe Mendelson, Rosa Luxemburg, Walther Rathenau, Stefan Zweig e Walter Benjamin. Ora siamo da-

re Konrad Adenauer, padre della Federazione democratica tedesca, che strinse la mano a David Ben-Gurion, padre fondatore e primo premier di Israele. Il 27 settembre del 1951, dal podio del Bundestag, Adenauer parlò della responsabilità tedesca per i crimini del Terzo Reich contro il popolo ebraico e decise di dare un risarcimento a Israele per la perdita delle proprietà degli ebrei tedeschi. La decisione del governo di Israele di trattare direttamente con quello tedesco provocò una ridda di reazioni che non si sono più scatenate. Le vittime dell’Olocausto, con i numeri dei campi della morte ancora tatuati sulle braccia, erano fra coloro che lanciarono sassi davanti al Parlamento israeliano. Fra questi c’erano anche alcuni fra i più stretti sostenitori di Ben-Gurion. Ma quel leader aveva preso la sua decisione: c’è una nuova Germania, e con questa dobbiamo discutere non soltanto del passato ma del futuro. Il Parlamento diede la sua approvazione, e i pagamenti fatti da Berlino aiutarono la ripresa economica di Israele e contribuirono ad accelerarne lo sviluppo.

All’epoca sono stato onorato

vanti a una nuova lezione: la lezione del “mai più”. Mai più un senso di superiorità. Mai più una dottrina razzista. Mai più una presunta autorità divina a incitare, uccidere, rinnegare Dio. Mai più lassismo nei confronti di dittatori, nascosti dietro maschere ideologiche, che portano avanti slogan di distruzione. Le minacce che parlano di annullare popoli e nazioni sono infatti rinate in un’epoca di armi di distruzione di massa: queste si trovano in mani irresponsabili, guidate da pensieri irrazionali che parlano una lingua non veritiera. Per prevenire un nuovo Olocausto, dobbiamo educare i nostri bambini a rispettare la vita umana e promuovere i rapporti fra i popoli basandosi sulla pace. Rispettare le culture individuali e i valori universali.

Cibo per gli affamati, acqua per gli assetati, aria per respirare. Quando nacque lo Stato di Israele, noi ricordiamo che verso di noi venne un inaspettato aiuto: quello del Cancellie-

di essere, un giovanotto, assistente di Ben-Gurion: più tardi divenni il suo vice presso il ministero della Difesa. A quel tempo ho imparato che mentre Israele costruiva la propria casa doveva anche difendere i suoi figli. E anche in questo caso trovammo in Germania un orecchio attento, pronto ad equipaggiarci con sistemi di difesa. Si svilupparono allora dei legami unici fra i nostri due Paesi. L’amicizia nata allora non si è sviluppata negando o mettendo da parte la memoria dell’Olocausto, ma si è nutrita proprio delle ore oscure del nostro passato. Nella decisione comune di guardare avanti insieme, verso un orizzonte fatto di speranza e ottimismo. Tikkun Olam, mettere a posto insieme il mondo. Il ponte costruito in quell’epoca è cresciuto grazie a mani doloranti e spalle che già portavano addosso il peso della memoria: è per quello che le sue fondamenta morali sono così forti. Abbiamo costruito per i nostri fratelli e le nostre sorelle un memoriale vivente, con innaffiatoi che hanno trasformato il deserto in campi di orchidee. Con laboratori che hanno generato nuove vite, con forze di difesa pronte

a fare il proprio mestiere e garantire la nostra sopravvivenza. Sono stati i pilastri di una democrazia senza compromessi. Noi credevamo, e continuiamo a credere, che la nuova Germania avrebbe fatto qualunque cosa per assicurarsi che il nuovo Stato non dovesse una volta di più combattere per la pro-

pria esistenza. O almeno, non da solo. Nella nostra epoca non alzeranno più la testa dittature come quella nazista. David Ben-Gurion aveva predetto la nascita di una Germania diversa, e aveva ragione. Da Konrad Adenauer, che ha trovato un linguaggio comune con Israele, a Willy Brandt, che si è inginocchiato in memoria degli eroi del ghetto di Varsavia a tutti voi, membri del Bundestag: avete rafforzato la fondazione di quell’amicizia. Voi, presidente Kholer, siete venuto al Parlamento di Gerusalemme e qui avete detto: «La responsabilità dell’Olocausto fa parte dell’identità della Germania intera».

E noi questo l’abbiamo molto apprezzato.Voi, Cancelliere Merkel, avete conquistato con la vostra sincerità e il vostro calore i cuori della nostra nazione. Avete detto al Senato e al Congresso americano che «un attacco a Israele equivale a un attacco alla Germania», e noi questo non lo dimentichiamo. Sono passati quasi sessant’anni dalla fondazione dello Stato di Israele. Abbiamo combattuto e vinto nove guerre, abbiamo fatto a pace con Egitto e Giordania. Siamo rimasti una nazione piccola in dimensioni e povera di risorse materiali. La nostra terra è arida, ma siamo riusciti a sviluppare un moderno modello di agricoltura fra i migliori al mondo. La maggior parte della popolazione ebraica oggi vive in Israele. Siamo l’unico posto della regione dove i Il presidente dello Stato di Israele Shimon Peres durante la visita al Bundestag, il Parlamento di Berlino. Nella pagina a fianco, il cimitero ebraico di Praga

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cittadini parlano la stessa lingua che veniva parlata nello stesso luogo, ma quattromila anni fa. La nostra traccia morale è incapsulata nei Dieci Comandamenti, un documento scritto tremila anni fa che non richiede alcun cambiamento ed è la base della cultura occidentale. Israele è uno Stato ebraico e democratico. Qui vivono un milione e mezzo di cittadini arabi, con diritti uguali. Noi non permettiamo la discriminazione nei confronti di nessuno, in base alla fede o alla nazionalità. Abbiamo superato la crisi economica globale e siamo tornati a crescere. La nostra cultura è moderna e tradizionale allo stesso tempo. La nostra democrazia è sempre in movimento, senza tregua. Le vittorie di Israele non eliminano i pericoli che affronta. Noi non ru-

biamo terra che non è nostra, e non vogliamo dominare su altri popoli. Ma abbiamo anche il diritto di chiudere gli occhi. La nostra ambizione nazionale è chiara e distinta: fare pace con i nostri vicini. Israele sostiene il principio della soluzione “dei due Stati”. Abbiamo già pagato il prezzo per le nostre guerre, e non esiteremo a pagarne un altro per la pace. Anche oggi siamo pronti a cedere dei territori, pur di arrivare alla pace con i palestinesi e permettere loro a stabilire uno Stato indipendente, prospero e pacifico. Come i nostri vicini, ci identifichiamo con i milioni di iraniani che si rivoltano alla dittatura e alla violenza. Come loro, respingiamo un regime fanatico che contraddice la Carta delle Nazioni Unite. Un regime che minaccia distruzione, insieme a centrali nucleari e missili che lanciano la paura nella nostra e in altre n azioni. Questo regime è un pericolo per il mondo intero. Vogliamo imparare dagli europei, che hanno testimoniato circa mille anni di guerre e amarezze sul loro territorio ma sono riusciti a sostituire le ostilità dei loro padri in fratellanza.

Sarebbe bello imparare dalla loro esperienza e sognare un Medioriente in cui nazioni che partono dai conflitti dei loro padri raggiungono la pace per i loro figli. Mettere in piedi un’economia regionale moderna, che possa combattere nuove e comuni minacce: fame, desertificazione, malattia e terrore. Promuovere la cooperazione scientifica per migliorare lo standard di vita e la qualità della stessa. Il Dio comune a tutti noi è un Dio di pace, non di guerra. Sono qui davanti a voi come un uomo che crede che sia nel vostro, e nel nostro, potere creare una nuova storia. Le minacce che vengono rivolte verso Israele non porteranno via il nostro cuore dalla pace. Sono il figlio di un popolo che aspira in tutti i modi a contribuire a un mondo illuminato e lucido, dove gli uomini compiono atti da esseri umani. La Giornata mondiale della memoria dell’Olocauso è un giorno di comunione e riflessione. Un’ora di educazione e speranza. Sono partito citando il Kaddish e voglio chiudere con la Hatikva: «Nel cuore ebreo, uno spirito ebreo ancora canta. E gli occhi guardano a Oriente, verso Sion. La nostra speranza non è perduta, la nostra speranza di essere una nazione libera nella nostra terra, la terra di Sion e Gerusalemme». Permettiamo a noi stessi, permettete a voi stessi, di sognare e realizzare i sogni che fate.


panorama

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Inverno caldo. Piovono critiche su Marchionne per le due settimane di cig ROMA. Una decisione inopportuna, oppure un vero e proprio ricatto. Non usano mezzi termini né Claudio Scajola né Raffaele Bonanni per protestare contro la scelta di Fiat, annunciata l’altroieri in concomitanza della decisione di pagare il dividendo agli azionisti, di effettuare due settimane di cassa integrazione in tutti gli stabilimenti italiani tra la fine di gennaio e i primi di febbraio. E se il responsabile dello Sviluppo economico e il segretario della Cisl ci vanno giù duri, critico è anche il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, che parla di decisione presa “unilateralmente” dall’azienda, che mette in pericolo i tavoli di trattativa aperti con le organizzazioni dei lavoratori.

Scajola, in vista del discorso ancora aperto su Termini Imerese, ha comunque espresso l’augurio «che si possa riannodare il filo». Più conciliante, rispetto a quella espressa martedì, anche la posizione del ministro del Lavoro Maurizio Sacconi. Il governo lavorerà “per riannodare il filo del dialogo” con la Fiat e a questo sarà dedicato l’incontro previsto per venerdì al ministero dello Sviluppo Economico, ha assicurato Sacconi. Ma il punto è economico, e sarà difficile venirne a capo se nessuna delle parti in causa cede. Il ministro dello Sviluppo del governo Berlusconi si è infatti oggi improvvisamente accorto di una situazione di distorsione della concorrenza nel settore auto: «È evidente che gli incentivi sono una droga e che quindi, a lungo, destabilizzano il mercato», ha detto Scajola. È per questo, ha spiegato il ministro, che il governo intende concedere per il 2010 «incentivi di minore entità e per un periodo

Il governo dichiara guerra alla Fiat Sacconi: «La chiusura è sbagliata». Scajola: «Bisogna rivedere gli incentivi» di Alessandro D’Amato

in una nota - rimarrà sino a quando verrà ripristinato il flusso delle merci». L’altroieri i familiari dei 13 dipendenti della Delivery Email, che da otto giorni protestano su uno dei capannoni dello stabilimento in difesa del loro posto di lavoro, avevano bloccato l’ingresso degli automezzi. Il sindaco di Termini Imere-

«Per il 2010 daremo aiuti in quantità minore e per un periodo minore», minaccia adesso il ministro delle attività produttive più breve, in modo che si arrivi ad esaurire il percorso degli incentivi insieme ad un rinnovamento del parco-auto del Paese». Ma senza gli aiuti, Fiat non riterrà più conveniente economicamente tenere aperti gli impianti: è evidente che una soluzione che salvaguardi tutto ad oggi non c’è.

Intanto si è fermata ieri la produzione delle automobili a Termini Imerese. «La sospensione delle consegne - ha detto il Lingotto

se, Salvatore Burrafato, invita alla calma ma ammette: «Temo che la situazione possa degenerare». Critici anche Giorgio Cremaschi della Fiom («Scandaloso pagare i dividendi mentre chiudono le fabbriche») e Paolo Ferrero della Federazione della Sinistra, che torna folkloristicamente a chiedere la nazionalizzazione dell’azienda, mentre Giuseppe Lumia del Pd chiede al governo di non sottostare ai ricatti dell’azienda, e ai parlamentari si-

«È il momento di una grande riforma»

Tremonti tra tasse e alibi ROMA. «È arrivato il momento in Europa e in Italia per riflettere su una grande riforma fiscale non credo che la via giusta sia quella dei piccoli rattoppi interni». Lo ha detto il ministro dell’Economia Giulio Tremonti nel corso di una trasmissione televisiva. Ma ha aggiunto che si tratta di una sfida tutt’altro che agevole: «Un taglio delle tasse non è facile per l’alto debito pubblico dell’Italia e la tensione sui mercati finanziari. La lotta all’evasione si fa anche riducendo le aliquote, ma non è una cosa facile per la tensione sui mercati finanziari e il debito pubblico, che è il terzo debito al mondo. Quando dicono che siamo flemmatici, vorrei vedere loro al nostro posto. Un conto è fare salotto un conto è fare attività di go-

verno». Conclusione con citazione: «Quintino Sella diceva che “il bilancio pubblico contiene le virtu e i vizi di un Paese. Ho come l’impressione che il bilancio pubblico italiano riflette davvero tutte le virtu e anche tutti i vizi dell’Italia”. Credo nella riduzione delle aliquote e nel coinvolgimento in modo serio dei Comuni nella lotta all’evasione», ha continuato Tremonti. «È una minoranza che dichiara redditi sopra i 100.000 euro mentre la vendita di auto di classe elevata è quattro volte tanto. Un sistema con aliquote così elevate è un alibi per non pagare le tasse. Se tu paghi la metà, io continuo a chiederti il doppio, così tu paghi almeno la metà». Infine, per la lotta all’evasione fiscale Tremonti non crede al redditometro.

ciliani di non votare per il rinnovo degli incentivi. Sorprende invece, relativamente, la presa di posizione di Loris Casadei, presidente dell’Unrae, l’unione dei produttori esteri di auto: «Il blocco della produzione negli stabilimenti Fiat ha una logica di mercato e interventi di breve periodo come gli incentivi non avrebbero senso, sarebbe come mettere le stampelle a uno stabilimento che non regge. Voglio bene sia al Governo che alla Fiat e non credo che il discorso degli incentivi sì o no sia legata al mantenimento dei siti Fiat in Italia - spiega Casadei -. Credo che Marchionne abbia dimostrato una precisa logica industriale e non possa cedere sulle politiche competitive e industriali che ha previsto per piccole iniziative come quelle degli incentivi: la chiusura di Termini Imerese ha una logica di mercato».

Un sostegno deciso arriva anche dalla Confindustria: «Non sono sorpreso, se non si vendono le macchine la Cig è normale», dice Alberto Bombassei, vicepresidente degli industriali; «Una multinazionale non può non tener conto della globalizzazione”, gli fa eco Diana Bracco. Intanto la Giovane Italia, l’organizzazione junior del Popolo della Libertà, in oltre 30 città italiane lancerà oggi una «provocatoria campagna di embargo popolare per boicottare i prodotti Fiat» a seguito dell’annunciata chiusura dello stabilimento di Termini Imerese e delle due settimane di cassa integrazione in tutti gli stabilimenti. Ad unirsi alla protesta delle città siciliane, come Termini , Palermo, Agrigento, Caltanissetta, Enna e Messina, anche Milano, L’Aquila, Perugia, Vicenza, Alessandria, Novara, ed altre. I militanti della Giovane Italia, scrive l’Adn Kronos, inviteranno i cittadini a boicottare attivamente l’azienda guidata da Marchionne non acquistando più automobili, camion, trattori e mezzi industriali di produzione. «L’embargo popolare – dichiara il movimento giovanile Pdl in una nota – deve essere allargato anche ai prodotti riconducibili al gruppo Fiat nel campo dei editoria, banche e finanza, dismettere eventuali titoli azionari o partecipazioni a fondi che possano identificarsi con la Fiat, ritirare i loro risparmi e chiudere i rapporti con gli istituti bancari che hanno Fiat fra gli azionisti».


panorama

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Il partito democratico è sempre più in bilico tra il populismo (di stampo meridionale) e la strategia politica

Il Pd apre il «laboratorio veneto» Orsoni a Venezia e Bortolussi alla Regione contraddicono il pasticcio pugliese di Antonio Funiciello

ROMA. L’unico a parlare di laboratorio Veneto è stato finora Pierpaolo Baretta, uno dei più intelligenti sindacalisti degli ultimi anni, già segretario generale aggiunto della Cisl e oggi deputato democratico. Un metodo, quello del «laboratorio Veneto», che ha portato alle primarie veneziane per la scelta del candidato alla carica sindacale della città, con la vittoria di Giorgio Orsoni, e al voto nella direzione regionale del Pd che ha scelto come candidato presidente Giuseppe Bortolussi. Due ”esterni” di lusso in una regione molto esigente e particolarmente insoddisfatta del personale politico espresso dal Pd, almeno a considerare gli ultimi risultati elettorali. Alle europee dello scorso giugno il Pd totalizzò il 20% dei consensi pari a poco più di mezzo milione di voti effettivi: 200mila voti in meno della somma di Ds e Margherita alle europee del 2004 (6 punti percentuale in meno). Il Veneto reagì giustamente così alla scelta di un capolista come Luigi Berlinguer che con la realtà sociale ed economica del Nord Est laborioso non aveva nulla a che fare. Questa volta, invece, nonostante le resistenze poste da Roma, il Pd ha accettato investire in queste elezioni scegliendo, per il comune capoluogo e l’amministrazione regionale, due candidati veneti doc che sanno come parlare ai loro concittadini.

luto come suo successore da Massimo Cacciari. Avvocato e docente universitario, Orsoni è un rappresentante di quella borghesia veneziana che si sente a suo agio nel modello di sviluppo regionale, perché ha contribuito a favorirne la graduale affermazione. Che Orsoni possa godere dell’appoggio dell’Udc è un dettaglio importante, ma la sua forza sta nell’essere un anti-Brunetta che convince proprio in virtù del suo radicamento sociale e culturale. È, per altro, il

potenziale successore di Cacciari più credibile poiché più in linea con la sua esperienza di governo di ormai tredici anni. Non a caso Orsoni è stato aspramente osteggiato dal magistrato Felice Casson, che fu scelto da Fassino come candidato sindaco di Venezia cinque anni fa, salvo poi essere battuto clamorosamente da Cacciari. Eppure se Orsoni rappresenta una scelta non convenzionale per il Pd a Venezia, la decisione più importante è stata quella assunta dal Pd nell’indicare Giuseppe Bortolussi, leader degli artigiani di Mestre, candidato alla presidenza della regione.

Ma anche qui i dirigenti locali hanno vinto la battaglia con Roma per restare legati ai loro elettori

Per Bortolussi parla il suo curriculum. Prima che ne diventasse il leader, la Cgia di Mestre era un’associazione locale, molto presente sui problemi di città e provincia, ma praticamente sconosciuta fuori i confini veneti. Con Bortolussi è diventata un punto di riferimenti non solo per i suoi associati, ma per tutto il circuito nazionale imprenditoriale, sindacale e sociale. Bortolussi ha puntato tutto sul centro studi della sua associazione che, in breve tempo, è arrivato a rivaleggiare con gli uffici studi più prestigiosi d’Italia. Mentre il suo leader diventava uno dei più apprezzato assessori del sindaco Cacciari, con l’importante delega al commercio e alle attività produttive. Bortolussi viene dal PCI, ma negli anni re-

Giorgio Orsoni è stato fortemente vo-

centi è stato uno dei critici più irreprensibili della linea economica Bersani-Visco del centrosinistra prodiano. Nei confronti del secondo esecutivo Prodi è stato spesso durissimo, muovendo critiche radicali nei confronti delle sue scelte, del suo approccio politico, delle sue parole d’ordine. Altro discorso col Pd di Veltroni. Bortolussi è uno degli ispiratori e collaboratori, infatti, della piccola rivoluzione copernicana operata da Enrico Morando, per conto di Veltroni, sulle politiche fiscali del centrosinistra. Dietro il ribaltamento dell’assunto vischiano ”pagare tutti per pagare meno” in ”pagare meno per pagare tutti”, il Pd di Veltroni si guadagnò così il plauso e la collaborazione degli artigiani di Bortolussi, che si fecero sentire alle elezioni. I numeri amano parlare da soli: se in Veneto alle politiche del 2006 Ds e Margherita avevano conquistato insieme 680mila voti - il 23% dei consensi - alle politiche del 2008 il Pd ne contò 770mila: un incremento netto di 90mila voti e quattro punti percentuale (27%). Candidare Orsoni e Bortolussi è oggi la strada giusta per non lasciare che in Veneto la Lega e il Pdl marginalizzino, ancor prima socialmente che politicamente, il Pd. Quantunque al Nazareno avessero idee diverse su chi candidare. Ma stavolta i veneti hanno impedito che le incertezze e le reticenze romane trasformassero il laboratorio Veneto nel circo Barnum pugliese.

A volte ritornano. Il governatore della Campania sta facendo di tutto per correre di nuovo

Le primarie variabili di Bassolino di Marco Palombi e primarie variabili – cioè da qualche parte sì e da qualche altra no continuano ad essere la cifra dell’avvicinamento del Pd alle regionali. In questi giorni, alla lista di chi vuole far scegliere il popolo visto che le elites non riescono a mettersi d’accordo, si sono aggiunti i democratici di Campania e Umbria. È a Napoli, però, che s’annuncia la novità più clamorosa: Antonio Bassolino, che da mesi fa terra bruciata attorno ad ogni candidato, ha fatto sapere che se si sceglie la via delle primarie sarà lui stesso a correre contro Vincenzo De Luca. E vincerà, dicono.

Sulla sfida in Umbria pesa il diktat di Walter Veltroni che vuole far vincere il suo candidato: Mauro Agostini, ex tesoriere del Pd

Il viceré di Napoli ha già spiegato ai vertici nazionali del Pd quanto segue: il candidato va scelto dall’assemblea regionale del partito che si riunisce oggi e dev’essere Andrea Cozzolino, assessore regionale che gli garantirebbe di continuare a comandare. Se invece, come appare sempre più probabile, si andrà alle primarie il 7 febbraio come chiede il sindaco di Salerno, Bassoli-

antimafia di grido. Il fronte anti-Bassolino, però, è altrettanto duro: De Luca non si farà da parte visto che ritiene d’essersi meritato il ruolo di successore con le critiche rivolte al viceré fin dagli anni del consenso bulgaro; l’Api di Francesco Rutelli lo appoggia senza riserve, ad Italia dei Valori non è sgradito e, soprattutto, è il campione di un pezzo rilevante della minoranza in-

L

no lo sfiderà in prima persona. Si chiuderà così - con la risurrezione dell’appannato protagonista della primavera napoletana la lunga teoria dei candidati mandati a schiantarsi contro le pagine dei giornali: Cozzolino e Ennio Cascetta tra i fedelissimi, poi il segretario regionale Enzo Amendola, i rettori di ogni genere o grado e i pm

terna che non vuole sentir parlare né del governatore né di un uomo a lui vicino.

Quanto all’Umbria le primarie sono la strada già tracciata vista l’impuntatura della minoranza. E’stato nientemeno che il redivivo Walter Veltroni l’uomo chiave della vicenda visto che martedì è andato da Dario Franceschini e gli ha detto chiaro: o in Umbria si va alle primarie o esco da Area democratica, ovvero la componente che ha sostenuto al congresso proprio l’ex segretario. La minoranza sostiene infatti Mauro Agostini, tesoriere del Pd nell’era Veltroni, contro Catiuscia Marini, ex sindaco di Todi ma soprattutto vicina alla presidente uscente Rita Lorenzetti. «Gli umbri sceglieranno Catia dice una fonte - perché sanno che così continuerà a governare Rita».


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re lutti in rapida successione hanno rattristato il mondo dei cultori della fantascienza. Il 16 gennaio è scomparso, 83enne,Takumi Shibano, il padre dello sci-fi nipponico, traduttore tra l’altro d’Isaac Asimov e di Arthur C. Clarke. Il 17 si è spenta a Milano Nicoletta Razzi, 70 anni compiuti il giorno di capodanno, indimenticata protagonista dell’altrettanto indimenticato A come Andromeda, apripista del fantastico televisivo italico da cui, per noi tutti, tutto partì. E lo stesso giorno ha concluso la propria avventura terrena pure ErnestoVegetti, 66 anni, il mastro tassonomo della fantascienza nostrana, gran alchimista di rassegne e di bibliografie, deus ex machina di quella miniera d’oro che è il Catalogo della SF, Fantasy e Horror, realizzato con Pino Cottogni ed Ermes Bertoni, il quale si concede generoso e gratuito ai navigatori della rete al sito www.fantascienza. com/catalogo. E allora l’occasione è propizia per un pensierino su sorti e contenuti di un genere letterario popolarissimo, persino danaroso, di serie B solo per gli snob e sotto sotto assai diverso da come consuetamente lo immaginiamo o comunque ce lo presentano.

T

Prendi infatti per esempio Philip K. Dick (1928-1982), il visionario scrittore statunitense dall’esistenza rottamata che il cinema saccheggia volentieri, talvolta con risultati eccellenti da Atto di forza al cult di Ridley Scott Blade Runner. Sembra un “compagno”, passa per essere tale, forse lo era pure e in Italia ci ha giocato anche il fatto che un vero esperto del genere come lo è l’ex sindacalista cigiellino e poi sindaco di Bologna, Sergio Cofferati, ne ha accompagnato le edizioni firmando prefazioni e postfazioni per la romana Fa-

il paginone Tutto inizia in piena era reaganiana con il “Prometheus Award” della Lfs,

La riva destra de È nel pensiero conservatore e libertarian che la science-fiction, soprattutto americana, trova gli spunti narrativi (e gli autori) migliori di Marco Respinti

nucci. Era un antimaccartista, un consumatore di anfetamine, un guru del cyberpunk o meglio un suo antesignano blasonato, eppure in poche penne come in quella di Dick risuona assordante la domanda di significato sull’esistenza, che non si sa se è sogno oppure son desto, se è lei, la vita, che imita l’arte o viceversa, ma che, malattia mortale per eccellenza giacché il suo culmine è la dipartita da questo mondo, non può essere raffazzonata con qualche surrogato banale. Tutta la produzione dickiana e così, e per certo queste sono cose a cui il materialismo dialettico non sa proprio come rispondere, tale per cui persino un Dick urla al mondo la sua alterità non-ideologica. Le opere degli scrittori, del resto, sono sempre più grandi delle loro biografie, e questo è un gran bene.

Oggi però vanno di moda gli alieni simpatici, accattivanti, buoni, addirittura migliori di noi soprattutto quanto più simili ad animali e a vegetali che non a esseri umani. Un tempo non era così. L’extraterrestre era il nemico giurato, vedi La guerra dei mondi di Orson Welles; ma non, come vorrebbe il politicamente corretto, giacché figura letteraria della xenofobia più impenitente, bensì perché l’alieno simboleggiava il contrario stesso dell’umana natura: più sant’Ignazio di Loyola, insomma, che il terzomondismo sciatto. C’è rimasto solo The XFiles a tenere alto il testimone di questo topos irrinunciabile, ma a guardar bene dentro la fantascienza alcune varianti sul tema, peraltro classicissime, ci riportano al medesimo concetto. L’idea, cioè, che l’“altro”, il quale invade la sfera del privato, è il nemico più pernicioso di tutti, soprattutto quando ha le fattezze, la potenza e gli strumenti dello Stato predone, della politica espropriatoria, della schiavitù fiscale. Esiste cioè, ed è diffusissima nel mondo anglosassone e in specie nordamericano, una fantascienza deci-

samente antisocialista, anzi positivamente libertarian che mette al centro la persona e fuori, addirittura contro, il resto, e che se casomai fa uso di ambientazioni e di strumentazioni marziane, venusiane, extragalattiche, tecnologiche o avveniristiche, lo fa solo per squisita e deliberata metafora. Libertarian, si è detto, però, il che non è traducibile con il nostro “libertario”. Lungi dall’essere sinonimo di “libertino”, il libertarian a stelle e strisce è colui che impernia tutto sulla salvaguardia di life, liberty, and property, e che quindi per stesso ciò finisce vicino ai conservatori “sociali”, persino agli antiabortisti, sempre ai difensori del diritto naturale. Figuriamoci cosa ci farebbe accanto a un radicale delle nostre latitudini. Nulla di tutto questo esisterebbe, pe-

È diffusissima nel mondo anglosassone una fantascienza decisamente antisocialista, positivamente libertarian, che mette al centro di tutto l’individuo (umano) raltro, se non vi fosse la Libertarian Futurist Society (Lfs), che sta a Mount View in quella California dove o sei un progressista stucchevole o sei un conservatore danaroso (tipo al sud, nella Orange County), quindi un libertarian e un tradizionale, se è vero com’è vero che lo stato dove nel novembre 2008 i progressisti han regalato fior di voti a Barack Hussein Obama è lo stesso stato dove nella stessa data ha vinto il referendum di chi non vuole i “matrimoni”gay.

La Lfs è in giro dal 1982, in piena era Ronald W. Reagan (1911-2004), il governatore californiano alfiere del libero mercato e della riduzione fiscale che sbarcò alla Casa Bianca portandosi seco tutto il proprio armamentario immaginifico di uomo di media, e quindi di narrazioni, e l’aura del cow-boy. Il cow-boy è del resto l’emblema stesso del fai-date del West, affatto selvaggio giacché una legge là c’era, quella del self-made man e delle sue pistole, il cow-boy che è l’antenato stesso dell’imprenditore capitalista del secolo XX, pio-

niere, uomo di frontiera, cavaliere solitario senza macchia né paure, e in questo pure un po’hidalgo ispanico, ché tutto negli Usa viene da lì. Perfetto come background per la fantascienza, che infatti fiorisce più negli States che altrove. Ora, la Lfs assegna ogni anno il Prometheus Award al miglior libro di fantascienza anarco-capitalista, l’altro nome dei libertarian, perché, se è vero che Prometeo rubò il fuoco agli dèi, è pure vero che al tempo Zeus era un despota perfetto a cui dell’uomo fregava ben poco, preso com’era a inseguire pulzelle da sciupare. Creato nel 1979 dal fantascrittore L. Neil Smith (prima ancora cioè che la stessa Lfs nascesse, la quale poi se n’è fatta carico), il Premio ha incoronato nel 2009 Cory Doctorow per Little Brother, storia del giovane studente Marcus Yallow che fa valere i propri diritti costituzionali subendo di tutto ma menandone pure a destra e a manca, dopo essere stato arrestato dal governo nel bailamme seguito a un clamoroso attacco terroristico e quindi trattato coi piedi.


il paginone

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che premia giganti del calibro di Heinlein, Anderson, LeGuin, Turtledove, Stephenson e Pratchett

ella fantascienza

dove osano le aquile, insomma, con la Destra libertaria che si riconcilia alla Destra tradizionalista in un visione del mondo ben sintetizzata dal titolo del libro di F. Paul Wilson, An Enemy of the State, vincitore, guarda caso, dell’Hall of Fame 1991. Come non sentirvi infatti l’eco del classico dei classici del pensiero libertarian, quelll’Our Enemy the State con cui Albert Jay Nock unì anarchismo, cultura classica e cristianesimo, libro mastro edito in italiano da Liberilibri di Macerata con il titolo Il nostro nemico lo Stato (1995)?

La distopia libertarian sposa peraltro volentieri pure il preraffaellita William Morris (1834-1896) e il positivista H.G. Wells (1866-1946), che però, secondo altri, si lega tropo allo scientismo socialistico, Jack Vance (pure lui da noi lanciato dall’Editrice Nord) ed Eric Frank Russell (1905-1978), poi David Brin e Jerry E. Pournelle, già pubblico sostenitore del senatore Repubblicano conservatore e libertarian Barry M. Goldwater (19091998), in corsa nel 1964 per la Casa Bianca, sconfitto, ma volano dei successi, conservatori e libertarian e cow-boy

Lo scudo missilistico antisovietico di Reagan fu soprannominato “Star Wars”, come il film del 1977 in cui Harrison Ford interpreta Han Solo, cow-boy delle galassie

Yallow organizzerà poi i concittadini per sfuggire al controllo dello Stato. Come The Matrix, molto meglio di The Matrix. A scorrere la lista dei passati vincitori viene del resto fuori l’Olimpo della fantascienza: Vernor S. Vinge, Bradford S. Linaweaver, l’ucronista Harry Turtledove della saga di Videssos decenni fa scoperta in Italia dall’Editrice Nord di Milano, Kenneth M. “Ken” MacLeod, Neal Stephenson, F. Paul Wilson, pure il glottoteta britannico Terry Pratchett del Mondo Disco, il Poul Anderson caro alla Destra tradizionalista, e James P. Hogan. Accanto al Prometheus, nel 1983 la Lfs ha creato un secondo premio annuale, l’Hall of Fame Award, atto a incoronare i classici. Ed ecco che qui sfilano altri bei nomi, anzi eccelsi: il padre di tutto George Orwell (1903-1950), il grande Anthony Burgess (1917-1993), Sinclair Lewis (1885-1951), l’attore-sceneggiatore Patrick McGoohan (1928-2009) di quel serial tivù fine anni 1960, Il prigioniero (sta tornando in un remake), che è l’emblema stesso della rivolta dell’individuo contro

l’oppressione, Ursula K. LeGuin e Robert A. Heinlein (1907-1988). Ebbene, i libri della LeGuin sfilano eleganti pure dagli scaffali del mobilio Ikea, giacché sono passioni irreprimibili del suo patròn, l’imprenditore svedese Ingvar Feodor Kamprad, definito “fascio-libertarian” da certa stampa epperò tra i pochissimi a possedere un deposito di merci proprio dentro lo Stato d’Israele.

Kamprad marca il territorio della propria produzione industriale privata sfoggiando sia la LeGuin sia la romanziera russa naturalizzata statunitense Ayn Rand (Alisa Zinov’evna Rozenbaum, 1905-1982), sacerdotessa di una scuola di pensiero libertarian tutta particolare al cui centro sta una versione curiosa ma non stupida di giusnaturalismo, che molti considerano la madrina del fantastico antisocialista. Heinlein invece è un piatto fisso della musica heavy-metal dei britannici Iron Maiden, i quali non disdegnano del resto nemmeno C.S. Lewis (1898-1963) e G.K. Chesterton (1874-

1936), scrittori cristianissimi apparentati con la fantascienza. A inizio carriera, i Maiden hanno pure dedicato un brano omonimo a The Prisoner di McGoohan, e il loro cantante, Bruce “ugola d’oro”Dickinson è pure un abile scrittore proprio di fantascienza, oltre che provetto schermidore, calciatore, pilota professionista di aerei con cui ha portato a casa connazionali da Libano e Afghanistan in fiamme, nonché simpatizzante, pur sospettoso (ma come dargli tutti i torti?), del Partito Conservatore di Albione.

Nella “Hall of Fame” della Lfs vi sono persino Hans Christian Andersen (1805-1975) e J.R.R.Tolkien (1892-1973), incoronato nel 2009 come cantore dell’irriducibilità fra libertà e tirannia, dell’idea antica quanto Lord Acton (18341902) che il potere assoluto corrompe in modo assoluto e della lotta condotta dagli uomini comuni (gli hobbit) per scongiurare alla propria piccola grande patria l’orrore del buio totalitario. Là

di Reagan. Come scordare che lo scudo missilistico antisovietico di Reagan fu soprannominato “Star Wars”, e che nel primo, insuperato Star Wars del 1977 un giovanissimo Harrison Ford impersona Han Solo, cow-boy delle galassie, individualista e generoso, colt alla fondina travestita da folgoratore di futura generazione? E Pournelle, classe 1933, è famoso per essere stato un protegé di due conservatori tradizionalisti doc quali Russell Kirk (1918-1994) e Stefan T. Possony (1913-1995). Kirk? Fu tra i primi e più ascoltati consiglieri proprio di Goldwater, assieme ad altri fra cui la Rand, e lui stesso scrittore di storie di fantasmi, che stanno a un passo dalla fantascienza. Fu peraltro buon amico del Ray Bradbury autore di quel must che è Fahrenheit 451, nonché entrambi saggisti che non hanno a suo tempo fatto mancare le propria penne alle pagine di Chronicles: A Magazine of American Culture, periodico diretto a Rockord, Illinois, dal classicista Thomas J. Fleming, casamadre di un incontro organico tra conservatori e libertarian, la cui dirigenza è poi finita in gran massa per convertirsi al cattolicesimo.

La fantascienza più autentica è insomma un intreccio di “ordine e libertà”, persino di law and order, giacché il diritto non coincide di per sé solo con “lo Stato”. Ecco come gli anarchici americani sono capaci di essere uomini di ordine. Grande mistero, l’America, dove impera un “Dio, patria, famiglia, individuo” laico, libero e non bacchettone che impartisce sommesso e lieve più buone lezioni etiche a milioni di lettori che non mille prediche telefonate. Fantasia al potere.


politica

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Avvitamenti. Casini invita il partito a convergere sulla Poli Bortone, ma Fitto e i dirigenti locali non ci stanno: «Siamo in campagna elettorale»

Palese smentita Il premier: «Con lui perdiamo». E apre all’Udc Ma il muro del Pdl è più duro del previsto di Errico Novi

ROMA. È una questione di orgoglio. Di bandiera. Anche se non si capisce bene a questo punto di quale bandiera si tratti. Di quella del Pdl? Del solo Raffaele Fitto e del suo candidato Rocco Palese? L’unica cosa certa è che dopo l’invito di Pier Ferdinando Casini a realizzare «una convergenza più ampia su Adriana Poli Bortone» le resistenze da vincere sono più nel partito che in Berlusconi. Il presidente del Consiglio incontra Lorenzo Cesa e non manca di esprimere «un forte gradimento», come racconta il segretario dell’Udc, sull’ex sindaco di Lecce. Al Cavaliere è sempre più chiaro che i suoi in Puglia sono incappati in un clamoroso scivolone. Vorrebbe riportare gli eventi a domenica scorsa, a quegli ultimi minuti prima della fine delle primarie, quando la sua dirigenza con un improvviso colpo di acceleratore ha deciso di non attendere più un accordo con l’Udc e Io Sud e di designare Palese. Potesse, il premier azzererebbe tutto e darebbe l’immediato via libera all’intesa sulla senatrice uscita da An. Adesso è difficile, perché si tratta di sconfessare i suoi, in particola-

re Fitto e i quadri locali, in buona parte schierati con il ministro. Ma anche questo stallo imposto dagli equilibri interni contribuisce al malumore di Berlusconi.

In poche ore infatti il premier ha verificato la rigidità del apparato burocratico di via dell’Umiltà, tutto schierato in difesa della scelta a tavolino com-

A fianco, Adriana Poli Bortone. Sopra, Raffaele Fitto e Silvio Berlusconi. In basso a sinistra, Giorgio Stracquadanio. A destra, Michele Vietti e Mercedes Bresso

Tra ex forzisti come Azzollini cresce lo scetticismo sull’ipotesi del “terzo uomo”. Cesa intanto ufficializza le intese su Caldoro in Campania e Scopelliti in Calabria piuta in Puglia. Rigidi, ostinati ma non abbastanza veloci da evitare che Casini scegliesse per primo la soluzione migliore. Vacilla tutto l’armamentario dialettico con cui finora via dell’Umiltà ha deplorato la strategia centrista: a che serve intestardirsi sugli anatemi doppiofornisti se poi il forno del Centro funziona meglio? Di questo Berlusconi parla prima Cesa nell’incontro a Montecitorio, nella Sala del governo, e gli chiede di «trovare una soluzione» perché «così vince Vendo-

la». Poi ne discute in un lungo vertice a Palazzo Grazioli, dedicato per metà alla giustizia e al guardasigilli Alfano, per l’altra metà alle Regionali. Non basta per ora a sciogliere il rebus pugliese, come conferma Gaetano Quagliariello alla fine del briefing. E così dopo a via del Plebiscito arriva anche Raffaele Fitto. Le resistenze dei quadri locali, dello stesso Fitto, di quel corpaccione diventato domenica scorsa ad Arezzo anche una corrente sembrano per ora più forti di Berlusconi.

L’investitura di Palese «è condivisa con entusiasmo dal partito e dal territorio», dice il ministro agli Affari regionali. E non è solo. Un nome di esperienza del Pdl pugliese come Luigi Vitali si appella a questioni di metodo: «L’unica possibilità di pacificazione del centrodestra sta in un passo indietro di tutti e due gli attuali candidati. Palese ha le stesse credenziali della Poli Bortone, in questo momento, se c’è da chiedere un sacrificio va chiesto a entrambi». Anche se Berlusconi preferisce la senatrice? «È chiaro che al presidente spetta l’ultima parola e che la mia opinione verrebbe comunque superata dalla sua», dice un altro deputato pugliese di estrazione forzista come Antonio Distaso, «ma non credo sia giusto

dire che Palese deve per forza fare un passo indietro. Si è detto che noi del Pdl abbiamo preteso di imporre un nostro nome, ma io a questo punto potrei dire lo stesso dell’Udc».

Vuol dire che non si esce più dalla logica per cui, se accordo dev’esserci, si realizza solo su un terzo uomo? Possibile che una candidatura sia esclusa non per ragioni di merito ma per principio? Su questo Distaso non è categorico: «È l’approccio che deve cambiare: se deve esserci un dialogo questo deve avvenire senza imposizioni, né da parte nostra né dal partito di Casini». Il vicecoordinatore regionale del Pdl, che nelle scorse settimane è stato a sua volta in ballottaggio con Pa-

Giorgio Stracquadanio: si corre per vincere le elezioni non per tutelare gli equilibri interni del Pdl. Sbagliato chiudere ai centristi

«Rocco? È una candidatura d’apparato» di Riccardo Paradisi

ROMA .«In Puglia è scaturita una candidatura tutta di apparato, resa pubblica con parole degne di un politburo: “I Coordinatori Nazionali del Pdl, sentito il Presidente Silvio Berlusconi, d`intesa con il Coordinamento Regionale della Puglia e con il Ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, ha designato Rocco Palese quale candidato per la Presidenza della Regione Puglia”. E da quando in qua il ministro degli Affari Regionali conta più del primo ministro? Forse perché è pugliese e quella regione è il suo protettorato personale secondo logiche dalemiane? Misteri dei partiti». A parlare, anzi a scrivere così sul suo famoso e battagliero Predellino online è Giorgio Stracquadanio, esponente movimentista del Pdl e da qualche giorno molto polemico verso la nomenklatura del partito. Il Pdl dunque ha sbagliato a tirar fuori dal cilindro una candidatura d’apparato in Puglia Stracquadanio? Possiamo fare un ragionamento che per ora prescinda dalle candidature e investa la questione del metodo? Ci mancherebbe Bene. la domanda che io pongo, un po’ retoricamnte è questa:

qual è il primo obiettivo di un partito politico? Risposta: quello di vincere le elezioni e realizzare il suo programma. Lapalissiano. Non per tutti evidentemente. Qualcuno infatti crede che più che vincere sia importante partecipare. Ma le elezioni non sono le olimpiadi. Il prologo è molto chiaro Bene, usciamo di metafora allora. In Puglia il Pdl ha sbagliato perché ha deciso la sua strategia prima che maturassero tutti gli elementi del quadro. Si è scelta la candidatura di Rocco Palese prima che si chiudesse la partita delle primarie, dove ha stravinto Vendola. Ora, un partito politico che voglia esser tale, è quello che le decisioni le prende sulla realtà effettuale delle cose non seguendo un suo schema ideologico. Il quadro è che in Puglia fallisce il progetto Bersani di costruire un’intesa con l’Udc. Lo dimostra il fatto che oggi il segretario del Pd sancisce un patto di ferro con l’Idv di Antonio Di Pietro, una scelta che chiude la porta in faccia ad ogni ipotesi di dialogo sulle riforme e soprattutto all’alleanza con il Centro. Ora la domanda è: come fa un gruppo dirigente di un partito serio a non prendere atto delle mutate condizioni politiche? Come si fa a mante-


politica

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Le strategie centriste spiegate dal vice capogruppo Udc alla Camera

«Ecco perché in Piemonte abbiamo scelto la Bresso»

Michele Vietti: «Ha escluso la sinistra radicale e sottoscritto con noi un patto per la tutela della vita e della famiglia» di Francesco Capozza

lese, fa un discorso ragionevole, alla fine del quale però dovrà pur esserci una soluzione. «Può trovarla solo Berlusconi», dice il presidente della commissione Bilancio del Senato Antonio Azzollini, barese e anche lui di provenienza azzurra. Rispetto a Vitali e Distaso, è decisamente più scettico sulla possibilità di trovare un candidato alternativo sia alla Poli Bortone che a Palese: «Non ho ancora sentito alcuna ipotesi in campo», dice. Qualche perplessità insomma c’è, nonostante il candidato voluto da Fitto dica di essere «già in campagna elettorale» e definisca «tatticismi» i tentativi di ritrovare unità tra i moderati. A portare acqua al suo mulino arrivano anche i primi comitati locali, ma almeno in una parte del Pdl si diffonde la netta sensazione di aver imboccato una strada senza uscita. «Speriamo di andare tutti insieme, che si

riesca a trovare un accordo», dice per esempio il deputato foggiano Antonio Pepe, «bisogna aspettare la trattativa, nelle mani di Fitto e Berlusconi».

Nel frattempo tra Pdl e Udc si profilano intese in altre regioni: dopo il faccia a faccia con Berlusconi, Cesa infatti ha confermato il sostegno a Peppe Scopelliti in Calabria, e dopo qualche ora ha dato il crisma dell’ufficialità anche all’accordo su Stefano Caldoro in Campania: «Nelle prossime ore terremo una conferenza stampa per illustrare le scelte in queste regioni». Resta congelata la situazione in Liguria: a Montecitorio Berlusconi illustra anche le attese di Sandro Biasotti, presente all’incontro, ma per l’Unione di centro, che dai dirigenti locali di Genova riceve richieste per un’intesa con il Pd, tutto resta congelato fino a domani.

ROMA. «Penso che nessuno scelga di andare a comprare il pane sulla base del fatto che la panetteria si trova sul lato destro o sul lato sinistro della strada. La scelta si fa in base alla qualità del pane». Michele Vietti, avvocato sabaudo e parlamentare di lungo corso, sceglie la sottile ironia per spiegare i motivi che hanno portato l’Udc ad appoggiare, in Piemonte, Mercedes Bresso, governatrice uscente e in un primo momento invisa ai centristi. «A noi non piace né il pane cotto dalla premiata ditta “Berlusconi & Bossi”, né quello del Pd con troppe spezie dipietriste o peggio della sinistra radicale». Per il vice capogruppo Udc alla Camera, il partito si è guadagnato il diritto di non mangiare pane «saltando dalla finestra» del bipolarismo che «pretendeva di obbligare tutti ad approvvigionarsi da uno dei due». La corsa solitaria dell’Udc alle politiche del 2008 «ci ha collocato all’opposizione di Berlusconi (come lo eravamo stati di Prodi), ma distinti dal Pd». E questa scelta, com’è noto, è stata confermata alle Europee e alle Provinciali dell’anno scorso. Il ragionamento che si fa dalle parti di via dei due Macelli è questo: le elezioni regionali si votano con un turno solo, il che impone di fare le alleanze prima, pena l’irrilevanza della presenza centrista. Perciò, confida qualcuno, specie dove sulla carta l’Udc è decisiva per vincere, è stata vincente la politica dei “due forni”. In pratica quella lanciata

nere la mappa che si è presa per orientarsi quando il terreno su cui ci si muove è un altro? Insomma chi non capisce che questo è il momento per aprire un dialogo serio con l’Udc non ha senso politico. Ha fatto bene Berlsuconi a incontrare Cesa, fa male chi continua a parlare di una candidatura d’equilibrio in Puglia. Equilibrio di chi? Del partito evidentemente. Sguardo miope di gruppi dirigenti che non amano il rischio, e pensano che sia meglio consolidare la propria posizione, anche in un eventuale sconfitta, piuttosto che rischiare la vittoria. Ma questo è irragionevole. Lo è sempre, lo è in particolare in un partito che ha fatto del rifiuto dei metodi della vecchia politica un manifesto della sua esistenza. La moralità politica sta nella nettezza delle scelte, nella coerenza. Invece l’avere come primo riferimento la coesione tra Forza Italia e An o la compattezza del quadro dirigente, significa rovesciare le priorità. La cosa principale è il consenso tra la gente. Perché il dato vero, quello che resterà, è chi vincerà le prossime regionali. Tutto il resto è polvere. Che viene spazzata via dal tempo. A cosa serva l’unità di un gruppo dirigente sconfitto devo ancora capirlo Insomma quella di Palese è una candidatura sbagliata. Vendola ha messo in campo un’idea della Puglia, noi che facciamo rispondiamo con un atteggiamento politicista? Io non so chi sia il miglior candidato in Puglia, sospetto che sia la Poli Bortone. So con certezza però che Vendola ha già mobilitato 200 mila elettori per le primarie e tu non puoi contrapporgli lo scrupoloso capogruppo alla regione perché così rinforzi il tuo fortino locale. È assurdo. E purtroppo non capita solo in Puglia.

quelli che vedono nel partito di Casini il fulcro del cerchiobottismo). «Viceversa la presidente Bresso ha fatto una scelta di discontinuità rispetto al governo del Piemonte, accettando di escludere dagli accordi di programma e di giunta la sinistra radicale e sottoscrivendo con noi un patto in cui tra gli obiettivi di legislatura figura la “centralità della persona che impone la tutela della vita, della salute, della libertà di educazione, la sussidiarietà che porta a valorizzare la famiglia e le associazioni di volontariato, la solidarietà».

Se a tutto questo si aggiunge una scelta inequivoca a favore della Tav e delle grandi infrastrutture, una politica energetica che comprende il nucleare sicuro, «ecco perché abbiamo scelto, in quella regione, il “forno” sul lato sinistro della strada». Di fronte a questo ar-

Dalla Lega Nord ci separa praticamente tutto: non siamo “padani” ma italiani; non siamo secessionisti ma per l’unità nazionale; non siamo xenofobi ma per un’integrazione controllata

dall’Udc è una sfida: siete disponibili a far aggiungere il nostro lievito al vostro pane per renderlo più saporito e digeribile? Tradotto in altri termini: siete disponibili a ridimensionare la vostra componente massimalista e a dar vita ad una alleanza con il centro che riequilibri in senso moderato la vostra coalizione? «In Piemonte, come in Veneto - rimarca Vietti - il centrodestra ha risposto con la candidatura di un leghista. Dalla Lega Nord ci separa tutto: non siamo “padani”ma italiani; non siamo lombardo- veneti ma piemontesi; non siamo secessionisti ma per l’unità nazionale; non siamo per le ronde ma per le forze di polizia; non siamo xenofobi ma per un’integrazione controllata; non parliamo alla pancia ma alla testa; non cavalchiamo le paure ma dipaniamo la complessità dei problemi; difendiamo il crocifisso ma non lo diamo in testa agli immigrati; non facciamo del cristianesimo una patacca da ostentare; non predichiamo il federalismo fasullo ma pratichiamo le autonomie locali; non siamo giustizialisti a corrente alternata». Sembrerebbe un elenco della spesa, ma a ben vedere corrisponde esattamente a quello che l’Udc dice da tempo (con buona pace di

roccamento a destra, da una parte, e alla disponibilità a dar vita, dall’altra, a una innovativa e riformatrice alleanza di centro-sinistra, l’Udc non poteva avere dubbi. «A chi ci richiama alla coerenza con i valori cattolici vogliamo ricordare che li abbiamo garantiti con il patto elettorale, vincolando anche gli alleati ad astenersi da interventi normativi contrari a questi principi». L’Udc non dimentica come tra i “valori non negoziabili”sia il Cardinale di Torino sia il Presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti hanno incluso il «diritto di immigrazione e il dovere di accoglienza». «Non riconosciamo certamente alla Lega - conclude Vietti - esperta di riti celtici e di culto del Dio Po, il diritto di rilasciare patenti di cattolicità e, con umiltà e senza pretese di monopolizzare la rappresentanza dei cattolici». Cerchiamo, è il ragionamento di Vietti, di declinare il nostro impegno politico nel rispetto della ispirazione cristiana che appartiene alla nostra storia e della dottrina sociale che appartiene alla nostra cultura.


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Sviluppo. In Svizzera il presidente riceverà il “Premio allo Statista Globale” mpagabile Lula! L’uomo che riesce a tenere assieme Porto Alegre e Davos... Parte in Svizzera il quarantesimo Forum Economico Mondiale di Davos. Accusato di non essere riuscito ad assicurare quella governance e quella progettualità per cui era stato pensato e che avrebbe potuto evitare la crisi; tacciato di aver imposto un “pensiero unico”poi fallito; l’assise nata apposta per “migliorare lo stato del mondo” cerca adesso di confrontarsi con il nuovo scenario: con un rapporto che mira a ripristinare la fiducia nelle banche e nelle istituzioni finanziarie e aiutare i governi a “ripensare, ridisegnare e ricostruire” l’architettura finanziaria mondiale. Proteggere il valore degli investimenti, stabilire un processo indipendente per gestire la proprietà azionaria, restringere l’influenza dei governo sulle istituzioni private a livello di board, essere realistici sull’incentivare e garantire il valore delle istituzioni, aumentare la trasparenza della performance finanziaria a livello pubblico sono le linee di azione consigliate dal documento, per un’uscita “non traumatica” e “made in Europe”. Discorso introduttivo di Sarkozy e 2.500 leader da oltre 90 Paesi del mondo, tra cui 30 capi di Stato e di governo e 60 ministri.

I

Nel frattempo, a Porto Alegre, è già partita la decima edizione di quel Forum Sociale Mondiale che proprio nella città brasiliana era stato inventato come alternativa da sinistra al “pensiero unico di Davos”, e che era poi migrato in altre sedi. Una decima edizione che potrebbe constatare il modo in cui a Davos si stia ormai ragionando su temi un tempo caratteristici del Foro So-

Luiz Inàcio Lula, l’uomo dei due mondi Protagonista del Forum di Porto Alegre e ospite di quello a Davos, da ieri al via di Maurizio Stefanini

naugurazione del Forum Sociale Mondiale: che era stato inventato dal suo stesso Partito dei Lavoratori (Pt) come “vetrina” del suo nuovo modo di governare tra comune di Porto Alegre e Stato di Rio Grande do Sul. Nel frattempo, è vero, il Pt ha perso entrambe le amministrazioni, andate rispettivamente al centro e al centro-destra. E

Ritenute colpevoli di non aver trasmesso i suoi discorsi

Intanto Chávez chiude 5 tivù ono i due grandi punti di riferimento per la sinistra latino-americana arrivata al potere nel primo decennio del terzo millennio. Mentre però il moderato Lula riesce a farsi acclamare e

S

Il riconoscimento verrà consegnato da Kofi Annan «per il modo in cui ha portato il Brasile al progresso sociale in maniera equilibrata» ciale. Eppure, l’attenzione dei mass-media è ormai precipitata al minimo, e anche la frequenza è ormai in tono minore. La stessa delegazione italiana è scesa dalle decine di sigle delle prime edizioni a “meno delle dita di due mani”. Lo stesso Vittorio Agnoletto non risulta più tra i presenti. Per di più, la stessa agenda di quest’edizione appare rivolta più al passato che al futuro: un lavioro di valutazione delle edizioni precedenti. Meno male però che c’è Lula. È stato il “presidente operaio” la star dell’i-

se in compenso ha conquistato il governo nazionale diventando un punto di riferimento continentale e mondiale, lui è ormai arrivato al suo ultimo anno di mandato, e i sondaggi danno scarsissime possibilità alla sua delfina ufficiale Dilma Roussef contro l’uomo del centro-destra José Serra.

Però la sua presenza ha galvanizzato i 15.000 presenti alla cerimonia. «Lula è un militante del Forum Sociale», ha proclamato il sindaco José Fogaça: che è del

premiare da tutti, il radicale Chávez si trova alle prese con una nuova buriana, dopo la decisione di sospendere il segnale televisivo di cinque emittenti via cavo ree di non aver voluto trasmettere le sue cadenas: i suoi discorsi televisivi, già imposti a reti unificate in tutte le trasmissioni via etere (2000 in 10 anni, ha calcolato Human Rights Watch). Tra esse Rctv:

Radio Caracas Televisión, cui già nel 2007 il governo non aveva rinnovato la concessione, costringendola appunto a migrare sul cavo. Le contrapposte manifestazioni tra antichavisti scesi in piazza contro il provvedimento e chavisti che invece lo sostenevano ha provocato a Mérida due morti: uno per parte. Sempre a Mérida ci sono stati inoltre 33 feriti, tra cui 9 poliziotti. Altri 7 feriti a Anzoátegui e un numero imprecisato a Caracas, mentre 12 persone sono state arrestate a Carabobo. Si aggiungono poi uno scontro diplomatico con la Francia, che ha protestato per le limitazioni alla libertà espressione; le interruzioni alle forniture idriche e elettriche; l’inflazione al 25%, invano combattuta a colpi di ulteriori statalizzazioni. E le dimissioni di 3 ministri: il vicepresidente e ministro della Difesa Ramón Carrizález; la ministro dell’Ambiente Yubirí Ortega, sua moglie; il ministro della Banca Pubblica e presidente del Banco de Venezuela Eugenio Vázquez Orellana. (m.s.)

centrista Partito del Movimento Democratico Brasiliano (Pmdb); che alle ultime elezioni ha sconfitto al ballottaggio proprio una candidata del partito di Lula; ma che è comunque alla guida di una città che questo evento ha reso famosa in tutto il mondo, e a cui tiene evidentemente in modo particolare, se si pensa che nella sua attività pre-politica di compositore musicale ne ha scritto l’inno. «Lula, guerreiro, do povo brasileiro!», cantava la gente a tempo di samba. «Olé, Olé, Lula, Lula!». È vero che era meno gente degli 80.000 dell’edizione del 2003, quando vi era intervenuto per la prima volta da Presidente. «Non rinnegherò mai una virgola delle idee che mi hanno portato alla Presidenza», aveva allora proclamato. E subito, a sorpresa, era poi partito per Davos.

Ma anche adesso ha deciso di fare lo stesso. «Sto qui e poi vado a Davos, così come ho fatto nel 2003», ha annunciato. Qualcuno lo ha applaudito, qualcuno è rimasto perplesso. «Sono convinto che Davos non ha più il glamour di un tempo», ha aggiunto quasi a mo’di giustificazione. D’altra parte, lui è pure uno capace di vantarsi nei seguenti termini: «Mai come con me le banche brasiliane si sono arricchite». Il che non gli impedirà a Davos di fare un discorso sull’«urgenza di riformare il sistema finanziario internazionale»: ma abbiamo visto che ormai anche per il Forum Economico questa è diventata la nuova ortodossia. Sia a Porto Alegre che a Davos ripete comunque lo stesso slogan: «Bisogna chiudere il Doha Round del Wto». E un’altra urgenza da lui manifestata è per la riforma dell’Onu. Nell’uno e nell’altro caso, il leader della sinistra coincideva esattamente con il presidente di un Paese con il doppio interesse geopolitico di trovare sbocchi al suo sempre più prorompente export, e di ottenere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. A Davos, però, non si limiteranno ad applaudirlo. Apposta per lui, hanno inventato un nuovo “Premio allo Statista Globale”, che daranno per la prima volta nei quaranta anni di storia del Forum Economico. Glielo darà l’ex-segretario dell’Onu Kofi Annan, «riconoscimento al presidente Lula da Silva per il modo in cui ha portato il Brasile a compiere le sue mete di sviluppo e progresso sociale in maniera integrata e equilibrata».


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28 gennaio 2010 • pagina 17

Oltre 70 delegazioni presenti, per l’Italia partecipa Frattini

Colpi di artiglieria da entrambi i lati dello Stretto peninsulare

Afghanistan oggi al via la conferenza di Londra

Mar Giallo, scontro a fuoco fra le Coree

LONDRA. Prima tappa verso la

SEOUL. Nuovo conflitto a fuoco fra le due Coree lungo il confine marino, nel mar Giallo, al largo della costa occidentale. Ieri mattina, la Corea del Nord ha sparato almeno 30 di colpi di artiglieria in mare al largo dell’isola di Baeknyeong, in territorio sud-coreano, nei pressi della Northern Limit Line (Nll). Seoul ha risposto al fuoco con 100 spari di avvertimento, usando cannoni con una portata di 4 km. Allo scontro del mattino, riferisce l’agenzia sudcoreana Yonhap News, è seguito un secondo lancio di artiglieria pesante dal versante nordcoreano alle 3.25 del pomeriggio. La marina di Seoul, in questo caso, non ha risposto al fuoco, limitandosi a pattugliare il

successiva conferenza che «dovrebbe tenersi in primavera» a Kabul, la conferenza di Londra sull’Afghanistan - che si apre oggi e a cui partecipa per l’Italia il ministro degli Esteri Franco Frattini - si articolerà in tre sessioni. Ma l’appuntamento, ha sottolineato il portavoce della Farnesina Maurizio Massari, sarà anche l’occasione per il titolare della Farnesina per una serie di incontri bilaterali con alcuni omologhi. I focus delle tre sessioni saranno sulla sicurezza, su governance e sviluppo e sulla cooperazione regionale. L’attenzione si concentrerà sulla «formazione delle forze di sicurezza afghane con scadenze e obiettivi precisi» e sulla «reintegrazione degli ex combattenti nelle strutture istituzionali afghane», ha precisato ancora Maurizio Massari durante il periodico incontro con i giornalisti.

L’obiettivo finale è quello di arrivare, nei prossimi anni, a una gestione della sicurezza da parte delle forze locali. Per il periodo di transizione, entro ottobre 2011 l’Afghanistan dovrebbe poter contare su 171mila soldati e 134mila agenti di polizia. Ma la questione non è solo militare e per la «reintegrazione degli ex combattenti» il presidente afghano Hamid Karzai punta molto sulla riconciliazione con i Talebani “moderati’”. Alla Conferenza, i cui lavori saranno aperti oggi dal premier britannico Gordon Brown, da Hamid Karzai e dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, parteciperanno oltre 70 delegazioni, con i ministri degli Esteri di tutti e 43 gli Stati che contribuiscono alla missione Isaf. Ancora avvolta nel mistero invece è la partecipazione dell’Iran all’appuntamento di oggi, dopo che ieri il vice presidente Mohammad Reza Rahimi ha affermato che «la conferenza di Londra sull’Afghanistan non risolverà nessuno dei problemi del Paese».

Tensioni in Sri Lanka, che rielegge Rajapaksa Lo sfidante Sarath Fonseka accusa: «Urne truccate» di Massimo Ciullo ancora alta la tensione in Sri Lanka, all’indomani della proclamazione del vincitore delle elezioni presidenziali di lunedì. Il presidente della commissione elettorale Dissanayake ha confermato che il presidente uscente Rajapaksa ha ricevuto il maggior numero di suffragi, ma il suo principale sfidante, l’ex-generale Fonseka, non è disposto a riconoscere il responso delle urne, accusando il governo di brogli. I risultati ufficiali rilasciati dalla Commissione Elettorale, con quasi la totalità delle sezioni scrutinate (circa 9,84 milioni schede), dicono che Rajapakse ha totalizzato 4,99 milioni voti, mentre il suo principale sfidante, ex-capo delle Forze armate, ne ha totalizzati 3,39 milioni. Sempre ieri, il governo cingalese ha categoricamente negato di avere in qualunque modo manipolato i risultati delle presidenziali, ma il candidato dell’opposizione ha accusato nuovamente l’esecutivo di aver manipolato il voto elettronico. Fonseka, neofita della politica, ha sorpreso tutti ammettendo di non essersi registrato per votare. I sostenitori di Rajapaksa hanno detto che avrebbero presentato un ricorso contro la sua eleggibilità, dopo che la commissione elettorale aveva deciso di non annullare la sua candidatura. Ma alla luce della vittoria del presidente Rajapaksa la questione sembra ormai archiviata.

È

nedì però ha avuto un esito pacifico. Secondo gli osservatori indipendenti, il 70-80% dei 14 milioni di elettori registrati si sono recati alle urne e anche nel Nord del Paese, dove si temeva un colpo di coda da parte di qualche sopravvissuto della guerriglia Tamil, tutto è filato liscio.

Le tensioni invece, sono aumentate quando Fonseka, insieme a 400 dei suoi collaboratori si è asserragliato in un hotel della capitale Colombo e ha invocato la protezione di un “Paese amico” in modo che la sua sicurezza possa essere garantita. Il ministero della Difesa avrebbe disposto l’arresto del capo dell’opposizione per impedirne la fuga, dopo la diffusione di voci incontrollate su un presunto golpe ordito da alcuni fedelissimi di Fonseka. E sarebbe per questo motivo che l’hotel Cinnamon Lakeside di Colombo è stato circondato da 200 uomini dell’esercito. Il portavoce delle Forze armate cingalesi ha tuttavia negato che i militari abbiano circondato l’albergo per arrestare il leader dell’opposizione, spiegando che si è avuta notizia che con lui ci sarebbero alcuni disertori che si dovrebbero consegnare alle forze di sicurezza. Quelli che Fonseka definisce “collaboratori”, per le forze armate sarebbero circa 400 disertori dell’esercito che avrebbero in mente di tentare un colpo di stato insieme all’ex-capo dell’esercito. «Hanno prenotato 100 stanze. Si tratta di persone che hanno avuto un elevato addestramento militare. Abbiamo dei sospetti sul loro assembramento”ha detto il portavoce dell’Esercito. Fonseka quindi, teme che i militari che circondano l’albergo siano dei fedelissimi del suo rivale, inviati per la sua cattura: «Questa gente ha circondato l’hotel con i soldati e minaccia le persone che si occupano della mia sicurezza», ha detto il capo del Nfd parlando al telefono con alcuni giornalisti. «I loro piani sono di circondarci e arrestarci e non so se questa è una fase di quella particolare operazione». Il timore che la situazione possa precipitare da un momento all’altro è molto alto.

L’ex capo dell’esercito confinato dentro un hotel: «Siamo circondati dai soldati». Le forze armate: «Misura precauzionale»

In realtà, il segretario del partito del presidente, Susil Premajayantha, aveva affermato di aver inviato una lettera a Dissanayake per informarlo che il candidato del Nuovo Fronte Democratico, Fonseka, aveva violato la legge elettorale dichiarando, durante la consultazione, di non essere riuscito a votare per se stesso, attraverso il voto elettronico. Quindi, anche in caso di successo da parte dell’ex-militare, il presidente uscente avrebbe avanzato contestazioni sulla sua eleggibilità. I due contendenti, vincitori della guerra civile - che ha opposto per anni le Tigri Tamil al governo di Colombo - sono diventati poi nemici nel corso di una campagna elettorale insanguinata che lu-

confine marino e inviare messaggi di avvertimento.

Al momento non è ancora chiaro dove siano atterrati i colpi lanciati dall’esercito nordcoreano. Pyongyang spiega che i colpi di artiglieria «sono parte delle annuali esercitazioni militari» e aggiunge che «continueranno». Ieri il governo comunista ha proibito la navigazione al largo delle coste occidentali, in previsione dei test e delle esercitazioni in programma in questi giorni. Fonti sud-coreane, intanto, precisano che il conflitto a fuoco di oggi non ha causato feriti o danni a cose e persone. Il tratto di mare al largo delle coste coreane, attraversato dalla Northern Limit Line, è una fonte costante di tensioni fra Seoul e Pyongyang. Nell’ultima decade vi sono stati tre conflitti a fuoco, che hanno fatto registrare vittime. L’ultimo nel novembre scorso, quando è morto un marinaio nord-coreano e altri tre sono rimasti feriti.Esperti di politica coreana affermano che l’incidente di oggi è un ulteriore tentativo del regime di Pyongyang di accrescere la tensione e l’instabilità della penisola. Una strategia mirata a «guadagnare maggiori concessioni diplomatiche» dalla comunità internazionale.


mondo

pagina 18 • 28 gennaio 2010

Svolte. I repubblicani applaudono (con scetticismo) al nuovo corso. Ma i democratici si lamentano: «Tradite le promesse elettorali»

Il dietro-front di Obama Nel discorso sullo Stato dell’Unione il presidente annuncia il congelamento della spesa pubblica di Guglielmo Malagodi el discorso sullo Stato dell’Unione (in programma oggi alle 3 del mattino, ora italiana), Barack Obama cercherà di portare «più speranza» agli americani «arrabbiati e delusi». Questo, almeno, è quanto anticipato ieri da Robert Gibbs, portavoce della Casa Bianca, intervistato durante il popolare programma mattutino di Abc Good Morning America sui contenuti del discorso che il presidente pronuncerà al Congresso. Secondo Gibbs, Obama dirà che «anche se a Washington si pensa che ogni giorno sia il giorno delle elezioni, la gente di questo paese vuole sapere che il presidente ed il Congresso stanno lavorando sodo insieme per risolvere le sfide ed i problemi che la popolazione deve affrontare». Così aspettatevi di ascoltare «un Obama più fiducioso» anche se, ha aggiunto Gibbs, il presidente non nasconderà gli aspetti più negativi, «spiegando perché lui crede che gli americani siano arrabbiati e delusi».

N

Il presidente, però, si trova a pronunciare il suo primo discorso sullo Stato dell’Unione davanti a un paese scettico sulla rotta che ha preso il Paese. Per 58 americani su cento l’America sta andando nella direzione sbagliata, secondo l’ultimo sondaggio Wall Street Journal/Nbc. Solo 28 americani su cento sono convinti che il governo «funzioni bene» o quantomeno «okay» contro sette su dieci che hanno usato le espressioni «folle», «stagnante», o «in necessità di grandi riforme». Molto del biasimo tuttavia ricade su Capitol Hill: il 93 su cento degli americani crede che il clima politico sia troppo polarizzato, l’84 per cento lamenta la pressione delle lobby, tre quarti che non si sia fatto abbastanza per mettere freni a Wall Street, il 61 per cento che democratici e repubblicani non mostrino disponibilità al compromesso. Quanto all’indice di approvazione, Obama non riesce a riemergere dalla linea di galleggiamento del 50 per cento. Secondo il sondaggio, l’America ritiene che il presidente abbia destinato troppe energie alla riforma

La dura presa di posizione del premio Nobel per l’economia

Così Barack tradisce Barack di Paul Krugman n congelamento della spesa? Sarebbe questa la brillante risposta del Team Obama alla sua prima, seria, sconfitta politica? È un atterrificante, teggiamento sotto ogni profilo. È cattiva politica economica, per esempio, sgonfiare la domanda quando l’economia soffre ancora la disoccupazione di massa. Jonathan Zasloff ha scritto che Obama sembra aver deciso di licenziare Tim Geithner per rimpiazzarlo con il «cadavere putrefatto di Andrew Mellon» (Mellon era il ministro del Tesoro di Herbert Hoover che, secondo lo stesso Hoover, gli consigliò di «liquidare i lavoratori, liquidare gli agricoltori, epurare tutti i corpi in decomposizione»). È anche cattiva politica fiscale di lungo periodo, spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dalla necessità di riformare il sistema sanitario alla necessità di effettuare piccoli cambiamenbti. Ed è soprattutto un tradimento di tutto quello in cui hanno sempre creduto, e lavorato, i sostenitori di Obama. Da un giorno all’altro, Obama ha abbracciato e convalidato la visione del mondo propria dei repubblicani e, più specificatamente, ha abbracciato le idee politica dell’uomo che aveva sconfitto alle elezioni presidenziali del 2008. Come ha scritto l’inviato di un giornale, «mi sento un idiota per averlo sostenuto».

U

Ormai, cerco di tenermi aggrappato ad una fantasia: forse, eventualmente, Obama sta per collegare il suo congelamento della spesa a qualcosa in grado di aiutare veramente l’economia, come un’esenzione fiscale sull’oc-

cupazione (no, insignificanti tagli fiscali non contano). Non c’è però al momento alcun segnale che possa indicare un movimento verso questa direzione. Fino a questo momento, l’unico movimento che si percepisce è quello che porta a un disastro completo.

Nel 1982, Ronald Regan tenne il suo primo discorso sullo Stato dell’Unione. Il suo indice d’approvazione era più o meno lo stesso di Barack Obama oggi. I risul-

della sanità a scapito dell’economia. In questo clima estremamente complicato il presidente si trova di fronte al momento delle scelte più difficili.

Secondo le primeindicazioni, Obama si appellerà ad un congelamento di tre anni nella spesa pubblica sui programmi interni, e successivamente ad aumenti che non siano superiori all’inflazione. Un’iniziativa intesa a segnalare la sua serietà nei tagli al deficit del bilancio, hanno dichiarato i dirigenti dell’amministrazione lunedì scorso. Questo congelamento riguarderebbe le agenzie e i programmi per i quali il Congresso ha stanziato fondi specitati da lui conseguiti in campo economico, invece, erano considerevolmente peggiori: invece di entrare in carica alla fine di una recessione, Reagan era entrato in carica all’inizio di una, con l’economia in caduta libera. Nonostante questo, Reagan orchestrò una difesa poderosa della propria ideologia economica, combinandola con un’aspra critica di quella dei suoi predecessori. Almeno sotto il profilo retorico, però, Obama sta chiaramente e vistosamente appoggiando la visione del mondo propria dei suoi oppositori. Il che, tra l’altro, gli fruttera in cambio esattamente niente.

sparmi, insomma, sarebbe poca cosa rispetto al deficit: i 250 miliardi di dollari stimati in risparmi in 10 anni arriverebbero a meno del 3 per cento degli approssimativi 9 mila miliardi di deficit supplementare che il governo si aspetta di accumulare in questo periodo. La sorprendente iniziativa dell’amministrazione democratica ha dei rischi politici così come dei potenziali benefici. Dato che Obama intende esonerare la spesa militare e contemporaneamente mantenere vulnerabili molti popolari programmi interni, la sua mossa sicuramente infastidirà i liberal nel suo partito e gli anziani democratici al Congresso, che

Il portavoce della Casa Bianca: «Vogliamo portare speranza agli americani arrabbiati e delusi». Ma l’amministrazione perde consensi: il 58% crede che l’America stia andando nella direzione sbagliata fici ogni anno, compresi il controllo del traffico aereo, i sussidi all’agricoltura, all’educazione, alla nutrizione e ai parchi nazionali. Ma non riguarderebbe i fondi per la sicurezza del Pentagono, gli aiuti all’estero, l’Amministrazione dei Veterani e la sicurezza domestica, così come i programmi di autorizzazione che producono la parte più alta e crescente del bilancio federale: Medicare, Medicaid e la Sicurezza Sociale. Il profitto nel bilancio dei ri-

sono già infastiditi dal possibile crollo della legislazione sull’assistenza sanitaria e l’aumento delle truppe in Afghanistan, fra le altre cose. I democratici conservatori su questioni fiscali alla camera e al senato hanno sollecitato Obama a sostenere un congelamento, e sembra che il presidente intenda prendere decisioni dure in un momento in cui il deficit e il debito nazionale - secondo molti economisti - ha raggiunto livelli che insidiano la prosperità del Paese.


mondo

28 gennaio 2010 • pagina 19

Il senatore repubblicano del Dakota scrive alla Casa Bianca: agite ora

Tre passi urgenti per ridurre il debito Riportare il budget ai livelli del 2008, vietare nuove spese al Congresso ed eliminare il controverso Tarp di John Thune ignor presidente, la nostra nazione continua ad affrontare delle pericolose sfide economiche. Il debito nazionale in esplosione significherà più alti tassi di interesse e inflazione, diminuzioni nel settore degli investimenti privati e un’impennata nelle tasse salariali. Se non si trova una risposta, ognuna di queste tre sfide potrebbe impedire in maniera significativa una ripresa economica; inoltre, rischiamo di diluire le prospettive di crescita a lungo termine della nostra nazione. Ma, per quanto queste prospettive siano spaventose, la soluzione è chiara. Il governo federale può, e deve, cambiare le sue politiche di spesa e cominciare a ripagare il suo enorme debito: non in due o quattro anni, non un giorno futuro, ma oggi. Nel rendere pubblico il budget del 2010, lei ha parlato in maniera eloquente delle necessità di una nuova era di responsabilità e disciplina fiscale. Circa un anno dopo, la popolazione americana è preoccupata dal fatto che, alle sue parole, non sono seguite delle azioni. Se si escludono i fondi per la difesa e i veterani, le regolari appropriazioni a discrezione personale sono cresciute del 21 per cento fra l’anno fiscale 2008 e quello 2010, contribuendo a un deficit annuale anticipato pari a 1,5 trilioni: il più alto di sempre. Per metterla in un altro modo, il governo federale ha aumentato le proprie spese sei volte di più rispetto al tasso di inflazione. Non possiamo più mantenere questo stato di cose. I repubblicani non sono senza macchia, e hanno portato avanti un’inadeguata politica di contenimento delle spese quando tenevano la Casa Bianca e il Congresso: i budget sono cresciuti troppo velocemente e il denaro è stato lanciato in aria con troppa libertà. Tuttavia, l’ultimo budget presentato dalla precedente amministrazione aveva un deficit pari a 400 miliardi di dollari, una frazione di quello attuale. Mentre il Congresso si appropria del denaro, è lei ad avere la giusta autorità e l’influenza sulle spese federali. Voglio darle tre consigli, che potrebbe annunciare durante il discorso sullo Stato dell’Unione, che aiuterebbero a migliorare lo stato di salute fiscale della nostra nazione. Il primo riguarda il budget, che dovrebbe ridurre le spese discrezionali (fatta eccezione per la difesa e i veterani) fino ai livelli del 2008. Ritornare a quei livelli ci aiuterebbe a ridurre i deficit annuali di bilancio di centinaia di miliardi di dollari durante i prossimi cinque anni. Questo passo, da solo, non risolverebbe i nostri problemi fiscali e non risponde ai programmi, ma sarebbe un passo importante nella giusta direzione.

S

La percezione che la spesa del governo sia fuori controllo ha contribuito alla perdita di sostegno di Obama tra gli elettori indipendenti, e la preoccupazione sulla salute fiscale del governo potrebbe alzare la pressione sui tassi di interesse che gli Stati Uniti devono pagare per prendere il prestito soldi dagli investitori e da Paesi, in special modo dalla Cina, che stanno finanziando il bilancio del deficit di Washington. I repubblicani, scrive il New York Times, sono stati veloci a ridicolizzare la proposta di congelamento. «Considerata la baldoria di spesa senza precedenti dei Democratici, adesso è come se annunciassero che si metteranno a dieta per vincere una gara di mangiatori di torte», ha dichiarato Michael Steele, il portavoce del leader Repubblicano della Camera, John A. Boehner (Ohio). Le riduzioni alla spesa che sarebbero richieste devono essere concordate dal Congresso e ora è chiaro quanto sostegno Obama otterrà in un atto elettorale in cui l’attrazione politica di una maggiore responsabilità fiscale sarà in competizione con la pressione di fornire agli eelttori maggiori e migliori servizi. I dirigenti dell’amministrazione hanno dichiarato che una parte del bilancio che hanno individuato 447 miliardi di dollari in programmi interni - ammonta ad una quota relativamente piccola, circa un ottavo, del totale bi-

lancio federale. Tuttavia, visto il flusso di agenzie e programmi in questa fetta, le riduzioni significheranno riduzioni dolorose che saranno opposte da numerose lobbies e gruppi costituenti. Non tutti i programmi saranno congelati, hanno dichiarato i dirigenti dell’amministrazione. Molti saranno tagliati ben al di sotto del congelamento o eliminati per fornire aumenti ai programmi che hanno priorità superiori per l’amministrazione in campi come l’istruzione, l’ambiente e la salute.

L’atto di bilanciamento è stato evidente lunedì alla Casa Bianca. Obama e il vice presidente Biden hanno presentato un numero di nuove proposte per aiutare la classe media. Di queste fanno parte l’assistenza all’infanzia, i prestiti agli studenti e le pensioni. I dirigenti dell’amministrazione stanno lavorando anche con il Congresso su circa 150 miliardi di dollari in incentivi supplementari e tagli alle tasse per spronare la creazione di posti di lavoro. Ma buona parte di questa spesa verrà autorizzata nell’attuale anno fiscale. Si tratta degli aumenti di spesa per i cosiddetti programmi di autorizzazione - Medicare, Medicaid e la Sicurezza Sociale - che rappresentano il fattore maggiore dietro le proiezioni di deficit insostenibilmente alti, a causa di costi sanitari in rapida crescita e di una popolazione sempre più vecchia.

Il secondo suggerimento riguarda la sua autorità costituzionale a vietare conti di spesa. Questo le da il giusto peso per assicurarsi che il Congresso la smetta di spendere in maniera inutile i soldi dei contribuenti. Ha parlato lo scorso anno dell’importanza di eliminare gli errori dal budget, in particolar modo quelli collegati ai favori politici. I veti giusti darebbero il giusto segnale: la sua amministrazione non ha intenzione di tollerare sprechi eccessivi. Il terzo passo riguarda il Programma di sostegno degli asset, che deve essere fermato.

Questo include il non spendere altro denaro sotto il Tarp, così come il fatto che i fondi in rientro saranno usati per ridurre il debito nazionale. E per dimostrare che lei è serio nel voler creare una nuova era di responsabilità, dovrebbe fornire una serie di tappe per spiegare come intende cedere il controllo governativo delle industrie private, acquisito proprio grazie al Tarp. Ci sono pericoli molti reali nel mantenere e gestire fondi di centinaia di miliardi di

Le regolari appropriazioni a discrezione personale sono cresciute del 21 per cento fra l’anno fiscale 2008 e quello 2010, contribuendo a un deficit annuale anticipato pari a 1,5 trilione dollari: il miglior modo per limitare questi rischi è evitare proprio di farlo. Eliminando il Tarp, potrebbe limitare le perdite di chi paga le tasse, abbassare il debito e ridurre i rischi dei contribuenti. Inoltre, darebbe molta più certezza ai mercati finanziari. Questi tre passi sono soltanto l’inizio del percorso che dobbiamo fare per abbassare il livello stratosferico a cui sono arrivate le nostre spese. Ma sono il necessario inizio. Signor presidente, lei ha l’autorità per fare questi passi, e gli americani cercano un segno per capire se siete serio sui problemi fiscali. Aspetto la possibilità di lavorare con lei per rafforzare la nostra economia e proteggere chi paga le tasse, attraverso un riposizionamento del governo federale su un binario fiscale più sostenibile.


cultura

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In libreria. Avagliano ripubblica, arricchito di nuove pagine e contenuti, il saggio “Il secolo plurale” del critico Massimo Onofri

Rileggendo il Novecento di Alessandro Marongiu

Qui sotto, un’immagine del critico letterario Massimo Onofri. In basso a sinistra, la copertina del suo saggio “Il secolo plurale”, appena ripubblicato da Avagliano. A fianco, un disegno di Michelangelo Pace

uando Il secolo plurale fece la sua comparsa in libreria la prima volta per Zanichelli, era il 2001, più d’uno storse il naso per le scelte dell’autore, Massimo Onofri. Normale amministrazione, inevitabilmente, per un testo che, come questo, stabilisce un canone: perché, se ognuno ha il diritto di decidere presenze, assenze, rivalutazioni e ridimensionamenti all’interno di una storia della letteratura o di un periodo di essa, tutti gli altri si possono sentire autorizzati a criticarne omissioni, capovolgimenti di giudizio, conformità o rottura rispetto a una qualche norma precedente. Ora che il libro viene riproposto da Avagliano (312 pagine, 16 euro), il tempo dice che per esempio nella sua scelta più discussa, quella di includere tra i notevoli del novecento letterario italiano Mario Soldati, Onofri ha vinto la sua battaglia, vista l’attenzione di cui lo scrittore torinese è stato oggetto negli ultimi tempi tra volumi dei Meridiani, saggi critici e programmi televisivi a lui dedicati.

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Più che una seconda edizione quella di Avagliano è piuttosto una nuova versione del libro, quasi raddoppiata nelle pagine e nei contenuti, che oggi, come nove anni fa, parte inevitabilmente da un problema di periodizzazione storica e artistica insieme. Per un se-

colo, il Ventesimo, che s’è definito in diversi modi, ma che in molti hanno accettato come «breve» seguendo la (non più così fortunata) definizione di Eric Hobsbawm, che ne indicava l’inizio nel 1914 con la Prima Guerra Mondiale e la conclusione con il disfacimento dell’Urss e la fine della Guerra Fredda. Si tratta, comunque, di un discorso tuttora aperto. Se si vuole ragionare sulla sua eventuale data fondativa, difficile non ricordare che la nascita del cinema, causa di lì a poco di una vera e propria rivoluzione sociale e industriale, è datata 28 dicembre 1895 con la prima proiezione dei

niscono alcune delle caratteristiche più importanti del romanzo («la discontinuità di intreccio e rappresentazione, la relatività e l’incoerenza nella misura del tempo, la sovrapposizione improvvisa di pensieri e stati d’animo, l’intreccio di passato presente e futuro, di sogno e meditazione, al di là del tempo e dello spazio»), per l’Italia secondo Onofri tra le tante possibili sono due le date da appuntare, e cioè il 1902 e il 1903. Alla prima corrisponde l’uscita di Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale di Benedetto Croce, che reca con sé l’idea della più completa indipendenza dell’opera d’arte da momenti storici, tradizioni specifiche e

della modernità del secolo successivo? I problemi di periodizzazione, si può ben dire, non sono che all’inizio, ma essendo Il secolo plurale un «profilo di storia letteraria novecentesca», come recita il sottotitolo, procedendo si arriva ben presto al primo scossone, fatto di tanti «ismi», che il Ventesimo secolo assesta a quello che l’ha preceduto: Marinetti e il Futurismo, e poi Gozzano e il crepuscolarismo, il frammentismo, l’espressionismo. Considerando anche la seconda stagione dello sperimentalismo, quella della Neoavanguardia di metà anni Sessanta, sarebbe facile interpretare il Novecento alla luce delle opposizioni norma-infrazione o tradizione-

Secondo l’autore, in Italia sono due le date “d’inizio secolo” da appuntare: il 1902 e il 1903. La prima per l’uscita dell’“Estetica” di Croce, la seconda per la nascita di “La critica”,“Leonardo”,“Il Regno” Lumière a Parigi, e che già in quell’anno Sigmund Freud iniziava a mettere in discussione l’unità dell’io con Studi sull’isteria e Tre saggi sulla teoria sessuale; d’altra parte, non si può fare a meno di sottolineare che non già prima del passaggio ufficiale di secolo, ma dopo, e cioè nel 1905, Albert Einstein faceva definitivamente franare sotto i piedi il terreno di certezze su cui si muoveva l’umanità tutta con la teoria della relatività. In campo prettamente letterario, mentre all’estero autori come Joyce, Proust e la Woolf ridefi-

accadimenti della vita di chi l’ha creata: il vero, il buono e l’utile sono campi che non hanno niente a che vedere con l’arte, il cui solo ambito di riferimento è il bello; alla seconda riconduce la nascita di riviste come La Critica, proprio di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, Leonardo del «pagano, individualista, idealista Giovanni Papini», Il Regno di Enrico Corradini e, «ma solo nel gennaio 1904, Hermes del per ora superdannunziano, barbarico e vitalista Giuseppe Antonio Borgese». Ma Pascoli e D’annunzio, s’interroga ancora Onofri? Ultimi grandi dell’Ottocento o primi rappresentanti

avanguardia: ma per l’ottica di un autore come Massimo Onofri, per cui la critica - letteraria o d’arte non fa differenza, come dimostra il suo recente Il suicidio del socialismo edito da Donzelli, in cui rimette in discussione l’idea che Giuseppe Pellizza da Volpedo sia stato un solare cantore delle prospettive del socialismo - è anche, se non soprattutto, critica della vita, un approccio simile alla storia della letteratura non gode né di appeal né di particolare utilità, a meno che non si voglia leggere il secolo in maniera «scontata o apologetica». Onofri, insomma, sta decisamente più dalla parte degli

«scrittori di cose» che non da quella degli «scrittori di parole»: ecco allora spiegato il risalto attribuito alla nuova stagione del romanzo con Borgese, Soldati, e Piovene; ad Alberto Moravia in antitesi a Carlo Emilio Gadda; al neorealismo post-bellico di Pavese e al realismo critico di Pasolini e Sciascia rispetto, appunto, alla Neoavanguardia del Gruppo 63.

Si giunge infine agli ultimi decenni del secolo, quelli in cui il panorama letterario è sempre più influenzato dai «processi di trasformazione neocapitalistica della realtà, dall’affermazione definitiva dell’industria culturale, dalla sostituzione del consumatore al lettore»: decenni dai quali emerge come il ruolo dell’intellettuale nella società sia sempre più periferico e sempre meno centrale, e in cui la letteratura cede il suo primato all’azione. L’ultimo libro citato da Massimo Onofri per data di uscita è L’isola riflessa di Fabrizia Ramondino (1998): da qui in avanti iniziano una stagione nuova e un nuovo discorso, e quindi, «per citare il titolo di uno dei più bei saggi degli ultimi tempi, scritto da Raffaele Manica, Exit Novecento».


cultura atzinger razionalista? Ratzinger allievo segreto di Cartesio? Ratzinger erede dell’antico dualismo platonico che con un colpo di sciabola taglia a metà l’uomo, separandone anima e corpo? Il professor Gaspare Mura, emerito di Ermeneutica filosofica alla Pontificia Università Lateranense e alla Pontificia Università della Santa Croce, sobbalza incredulo dalla sedia. La sala conferenze dell’Asus, l’Accademia di Scienze Umane e Sociali da lui presieduta, è come sempre gremita. Docenti universitari, da Franco Ferrarotti a Angela Ales Bello, ricercatori, giornalisti, sostenitori e curiosi si sono radunati per la presentazione di Corpo e religione, raccolta di saggi appena uscita per Città Nuova. Il collega Roberto Cipriani, sociologo a Roma Tre e con lui curatore del volume collettaneo, l’ha sparata grossa. Il magistero pontificio parla chiaro. E se dubbi ve ne fossero, Benedetto XVI li ha fugati con la Deus Caritas est. L’antropologia cristiana non ha nulla a che vedere con la dicotomia res cogitans/res extensa, ma connette l’agàpe spirituale all’eros psichico, le ragioni dell’anima ai sentimenti della carne, l’aspirazione al bene eterno e sovrannaturale alla inclinazione al bene naturale e morale, in una concezione unitaria e integrale della persona umana.

Il volume curato da Roberto Cipriani e Gaspare Mura, edito da Città Nuova, raccoglie contributi di varie provenienze accademiche e diverse metodologie ed aree di ricerca

R

Il pensiero del corpo, della sua esperienza, delle sue rappresentazioni e dei suoi significati è ormai al centro di un dibattito in cui teologia e filosofia attingono a piene mani dai giacimenti metodologici delle scienze umane, la storia delle religioni, l’antropologia, l’estetica, la psicologia, la genetica, alla ricerca di una sintesi multidisciplinare positiva e possibilmente realistica. Nelle cinque principali famiglie religiose dell’umanità, cristianesimo, ebraismo, islàm, induismo e buddismo, il corpo è una discriminante enorme laddove le religioni abramiche, con proporzioni e accenti diversi, gli conferiscono una dignità problematica completamente ignota ai sistemi religiosi orientali. Buddismo e induismo non sono antropocentrici ma credono nella ruota del Cosmo, l’eterno ritorno dell’Identico in cui l’iniziativa individuale, personale e corporale è del tutto marginale. Nella teologia biblica il corpo è materia signata, vittima e non causa del peccato, male ontologico e spirituale causato dalla volontaria, libera non corrispondenza dell’uomo-creatura nei confronti dell’amore fedele del Diocreatore. Una tradizione rab-

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Teologia. Il rapporto tra corpo e religione in un saggio di Mura e Cipriani

Nell’era della “ragione” ormai è vietato morire di Giulio Battioni

Ratzinger allievo segreto di Cartesio? Il magistero pontificio parla chiaro. E se c’erano dubbi, il Papa li ha fugati con la “Deus Caritas est” binica vuole che Dio abbia impiegato ben ventisette tentativi prima di riuscire a formare il corpo umano, sforzo grande e nobile che pure il pensiero ha spesso disprezzato nella sua storia, dalla gnosi antica all’implacabile sentenza di Nietzsche che giudicò l’uomo una “sbadataggine” di Dio. Il corpo è un problema serio perché nel corpo siamo, viviamo e ci riconosciamo. Ma il corpo muore, il corpo declina inesorabile verso la sua fine. Simone Weil esalta il corpo come realtà che deperisce e come “marchio” della persona, a sua volta “maschera”tragica di un volto nascosto e di un destino ulteriore.

Il Vangelo cristiano celebra il corpo nella sua dignità divina, nella volontà di un Dio che si fa uomo scegliendo la carne. Verbum caro factum est. Il corpo è fonte di salvezza, nella carne e nel sangue di Cristo o nella figura, cara alla storia dell’arte, di Maria lactans, la Vergine che ospita Dio nel suo

grembo e ne condivide il disegno eucaristico dal concepimento alla morte naturale. I misteri della fede cristiana hanno per oggetto il corpo, la corporeità, la condizione carnale nel senso che il corpo non è uno mero strumento sacrificale come nelle religioni arcaiche o nelle dottrine naturalistiche, ma è il fine per antonomasia della storia della salvezza, il “passaggio” dalla morte alla vita, la Pasqua di

Resurrezione che è innanzi tutto resurrezione della carne. Ed è il corpo di una donna a contenere, condividere e comprendere questi misteri. Nel cristianesimo il corpo femminile ha dunque un protagonismo teologico inedito e inaudito rispetto alle altre grandi tradizioni religiose.

Il corpo della donna manifesta immediatamente l’essere-in-relazione dell’umano

con il divino, l’essere-in-relazione della corporeità umana come luogo dell’anima individuale dell’uomo, primizia della creazione, e come luogo della intersoggettività fondadella mentale struttura umana. Il corpo umano ha una valenza sociale, giuridica, come pure comunitaria e politica, perché è altresì il luogo della identità umana. Il corpo è un problema identitario dalla sempre maggiore rilevanza nel dibattito pubblico contemporaneo. Le malattie neurodegenerative, l’anoressia, i disordini alimentari, lo Human Genom Project sono temi ormai centrali nell’agenda politica di istituzioni e organizzazioni internazionali. Il progresso materiale della scienza e della tecnica pone sempre problemi biopolitici e bioetici sempre più urgenti e bisognosi di una risposta culturale che solo una rinnovata comunione fra teologia e filosofia e una più umile apertura alle religioni possono offrire.

Pronipote del culto rivoluzionario alla Dea Ragione, la società tecnoscientifica del nostro tempo è intimamente bacchettona e si guarda bene dall’infrangere l’unico tabù rimastole, la sola superstiziosa proibizione in cui credere: “vietato morire”. Il divieto di morire è oggi il solo limite da adorare, il solo altare al quale sacrificare, il solo idolo cui rendere servizio. E la prima vittima di questa superstizione è il corpo. Prostrato dalla logica “panlavorista” dell’economicismo sfrenato, mortificato da una pseudo-cultura “cronofagica” e ossessionata dal tempo, il corpo umano è oggi ridotto a strumento, oggetto di un progresso tecnico senza scopo. Perfezione senza scopo, la tecnica invade oggi il mistero della vita, il concepimento e la nascita dei corpi, e il mistero della morte, il deperimento, la fine dei corpi. Il nostro mondo non accetta la fine dei corpi e dall’arte del posthuman approda all’anti-human. L’uomo diviene un prodotto ingegneristico, un oggetto di sacrilegio di cui si vuole modificare la sua umanità come vocazione alla morte e alla vita dopo la morte. A questa illusione di eternità autopoietica non resta che rispondere con la prudenza della fede e con la saggezza dei classici: “nequid nimis”. Non superiamo il limite.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal “People’s Daily” del 27/01/2010

Google: censura o egemonia? di Zhong Sheng a due settimane circa, i media statunitensi hanno deciso di “promuovere” la “questione Google” e i politici americani si sono lanciati in un’accusa feroce alla Cina, che starebbe limitando la libertà su internet. Sono stati tutti coinvolti nella cosiddetta teoria secondo cui il governo cinese è coinvolto negli attacchi cibernetici. Queste parole sono false, non hanno alcuna presa sulla realtà e sono tese a distruggere l’immagine della Cina e l’ottimo rapporto, in via di sviluppo, con gli Stati Uniti. Il “caso Google” è una questione economica che viene politicizzata. Il vice presidente del gruppo, David Drummond, ha dichiarato lo scorso 13 gennaio sul suo blog che Google «potrebbe essere costretta a interrompere ogni operazione in Cina». E, per giustificare questa scelta, ha detto che la società «è stata oggetto di attacchi mirati e di livello molto avanzato, perché il governo cinese tenta di limitare la libertà sulla Rete». Quindi, se pensiamo alla ritirata di Google, dobbiamo veramente considerarla legata “alla censura di internet” o ai “cyber-attacchi”? Persino gli esperti americani di sicurezza informatica hanno riconosciuto che la compagnia di ricerca è entrata in Cina soltanto nel 2006, a seguito di considerazioni meticolose e molto prudenti. Al momento attuale, il motore di ricerca americano si attesta sul 35 per cento del mercato; molto lontano, quindi, dal principale motore che è il cinese Baidu. Le entrate di Google che provengono dalla Cina rappresentano semplicemente il 2 per cento del suo totale.

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Alcuni “addetti ai lavori” del mondo della tecnologia e di internet sostengono che tutta la questione derivi semplicemente dall’incapacità di adattarsi, da

parte degli americani, al mercato cinese: e aggiungono che quella della censura è una buona scusa anche per spiegare la sconfitta subita da un rivale asiatico. Non è difficile, tuttavia, vedere l’ombra del governo americano dietro a tutto questo caso. Subito dopo l’annuncio di Google, infatti, il Segretario di Stato Hillary Clinton ha fatto un discorso in cui ha chiesto alla Cina di rispettare la libertà su internet, arrivando a chiedere a Pechino delle «spiegazioni». Nelle sue accuse, rivolte alla Cina e ad altre nazioni, la Clinton ha inoltre annunciato che il suo Paese lavorerà con la comunità internazionale, gli accademici e le organizzazioni non governative per capitalizzare la tecnologia relativa a internet ed utilizzarla in un secondo momento “per scopi diplomatici”. Nello stesso tempo, la politica ha chiesto ai giganti del mondo dell’informazione americana di intraprendere delle azioni difensive prima di rivelare particolari alla convocazione emanata dal Dipartimento di Stato, per il prossimo mese, alle aziende relative a internet.

Ed ecco che la “Internet Corporation” è divenuta una nuova arma politica del governo statunitense. Questa corporation, con l’autorizzazione dell’amministrazione americana, cerca di gestire tutti i server di base in una maniera uniforme e tutte le stringhe degli indirizzi e gli Ip allo stesso modo. Di conseguenza le nazioni del mondo, le Nazioni Unite e le altre organizzazioni internazionali hanno chiesto agli Stati Uniti di cedere su questo terreno,

ma non hanno avuto risposta. La condotta internazionale tenuta dagli Stati Uniti, e questo è un dato di fatto, è determinato da un modo di pensare imperialistico. Lo scrive anche il Morning News, il principale organo di informazione di Singapore in lingua cinese, in cui spiega bene come Washington stia cercando di dirigere le politiche delle altre nazioni a proprio vantaggio. Sull’incidente di Google, gli Stati Uniti non si sono soltanto concentrati sugli interessi commerciali di alcune compagnie domestiche e sulla salvaguardia dei propri interessi nazionali: hanno cercato di limitare il cyber-spazio della Cina, un comportamento inaccettabile.

Ad oggi, Google sembra voler andare avanti sulla strada del negoziato con Pechino e ha espresso la speranza di poter rimanere ancora molto nel Paese. Forse ha capito che la Cina può tranquillamente andare avanti senza Google, mentre Google non ha alcun futuro senza la Cina.

L’IMMAGINE

Obama rischia il linciaggio politico, scontrandosi con l’ala più dura e pericolosa Obama perde punti, e rischia il linciaggio politico. La sanità infatti è sempre stata la nota dolente dell’America, e la radicalità con la quale Barack l’ha affrontata non poteva certo regalargli ulteriori proseliti. Credo che il presidente sia l’uomo giusto, onesto nelle sue deduzioni, ma pecca solamente di quella individualità che nasce quando uno si sente beniamino della maggioranza della popolazione. Non credo neanche che sia nel mirino dell’entourage repubblicano perché, per buona parte del suo mandato iniziale, ha raccordato alcune posizioni del suo predecessore: è il mondo delle lobby affaristiche che gira intorno alle banche americane e ai grandi affari, che egli cerca di “bombardare”, e l’ultima requisitoria sullo strapotere degli istituti economici ne è la prova. Obama si sta scontrando con l’ala più dura e pericolosa dell’America che non è quella repubblicana, ma quella che trae affari anche dalle pietre del deserto e lascia la povertà sul selciato delle opere.

Gennaro Napoli

FOLLIA STRAORDINARIA Rischia, in Italia come in America, di instaurarsi la cosiddetta emergenza follia, che si è caratterizzata con gli ultimi eventi di cronaca, ovvero il sequestro della 16enne di Lucera e il raptus che ha insanguinato una caserma. Molti si chiedono cosa ancora abbiamo da imparare in negativo dall’America, ma non è responsabilità Usa se abbiamo ereditato il seme della pazzia, anche se un bambino che si porta un’arma a scuola e la usa, oppure un uomo che fa strage della propria famiglia, è cosa nota. Alla base di tutto c’è la mancanza di certezze affettive, che giustifica il reato di una mente provata. Ancora una volta la spiritualità si dovrebbe porre come primo metodo scien-

tifico per la cura di un male, nel senso che l’equilibrio della nostra società si deve fondare su risorse morali interne.

Bruno Russo

IL PARADISO E L’INFERNO NON ESISTONO COME LUOGO Clamorose rivelazioni del vescovo di Verona, monsignor Zenti: il paradiso e l’inferno non esistono come luogo, bensì come condizione creata da sé, e che Dio non è un giudice. Sicuramente gli atei, gli agnostici, i miscredenti e i pagani che il 20 gennaio hanno partecipato al confronto sui temi della religione e della razionalità tra l’astrofisica Margherita Hack e il vescovo di Verona, sono tornati a casa rasserenati. Qualcuno di loro, prima dell’incontro, avrà nutrito

Faccia di cocomero Guardate che cosa si è inventata questa ragazza per fare colpo sul suo cantante preferito durate un concerto musicale a Asunción. Ma non è la sola ad apprezzare il bodypainting. La pittura su corpo era già praticata in tempi non sospetti, dagli uomini di Neanderthal. Conchiglie “portatrucco” sono state rinvenute all’interno di due grotte del sud-est della Spagna

qualche dubbio circa il giudizio di Dio dopo la morte, l’esistenza del diavolo e delle fiamme eterne. Ma dopo la sensazionale professione di fede del pastore di Verona, hanno avuto la certezza che gli evangelisti, le sacre scritture, la tradizione, i catechismi, e pure il figlio di Dio, mentivano. Poco importa che Gesù abbia ammonito a chi non ascolta la sua parola «Via,

lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno» (Mt 25,41) o che il catechismo della Chiesa cattolica sentenzi: «Il giudizio finale (universale) consisterà nella sentenza di vita beata o di condanna eterna, che il Signore Gesù, ritornando quale giudice dei vivi e dei morti, emetterà a riguardo “dei giusti e degli ingiusti”, riuniti tutti insieme davanti a lui». Ma a casa felici, sono

tornati pure quei cattolici convinti che, per meritarsi il paradiso avrebbero dovuto passare qualche “annetto” in purgatorio: il vescovo non l’ha neppure citato. Orsù dunque, se Dio non giudica nessuno, e l’inferno è uno stato mentale, che aspettano i creduloni cattolici a darsi ai profumi e ai balocchi?

Gianni Toffali - Verona


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

La catastrofe solare era inevitabile Carissima, la catastrofe solare era inevitabile, perché potrei coprirla solo con della carta, che il vento portava via; sarebbe stato necessario avere un bel mazzo di paglia, che è cattiva conduttrice del calore e nello stesso tempo ripara dai raggi diretti. In ogni modo la prognosi è favorevole, a eccezione di complicazioni straordinarie. I semi hanno tardato molto a sortire in pianticelle: tutta una serie si intestardisce a fare la vita podpolie. Certo erano semi vecchi e in parte tarlati. Quelli usciti alla luce del mondo, si sviluppano lentamente e sono irriconoscibili. Io penso che il giardiniere, quando ti ha detto che una parte dei semi erano bellissimi, voleva direche erano utili da mangiare; infatti alcune pianticelle rassomigliano stranamente al prezzemolo e alle cipolline più che a fiori. A me ogni giorno viene la tentazione di tirarle un po’ per aiutarle a crescere, ma rimango incerto tra le due concezioni del mondo e dell’educazione: se essere roussiano e lasciar fare alla natura che non sbaglia mai ed è fondamentalmente buona o se essere volontarista e forzare la natura introducendo nell’evoluzione la mano esperta dell’uomo e il principio d’autorità. Finora l’incertezza non è finita e nel capo mi tenzonano le due ideologie. Antonio Gramsci a Tania

ACCADDE OGGI

L’AMBIENTE? UN TEMA DI CENTRO In seguito alla conferenza stampa relativa alla concessione scriteriata di autorizzazioni per procedere con le trivellazioni nei mari pugliesi, alla conseguente interrogazione consiliare da parte del gruppo regionale dell’Udc e alla mobilitazione del partito relativa al problema dell’erosione delle coste pugliesi, torno sugli argomenti succitati: spesso si sbandiera ai quattro venti il tema ambiente quasi come se costituisse unicamente un argomento elettorale, ma poi, nella sostanza, alla prova dei fatti, nessuno se ne occupa, proponendo risoluzioni ai problemi pressanti e urgenti relativi all’ecologia, all’eco-sostenibilità, all’impatto ambientale, al turismo. Stupisce l’immobilismo e l’inerzia di destra e sinistra in merito a tali questioni che coinvolgono l’intero territorio regionale: dalle coste tarantine a quelle daune, dalla terra di Bari ai mari delle città della nuova Provincia e così via. Le mareggiate di dicembre e di questi giorni, che hanno devastato decine di chilometri di arenile che vanno dallo Jonio all’Adriatico, hanno evidenziato il rischio di scomparsa delle nostre spiagge, un patrimonio naturale che va gelosamente protetto e custodito. I danni sono così gravi che molti imprenditori e gestori di stabilimenti balneari temono serie ripercussioni sulla prossima stagione turistica. L’Udc, pertanto, fa suo il problema e si unisce, in modo convinto e consapevole, a queste legittime preoccupazioni. Sono già previsti sopralluoghi di verifica nelle zone più colpite da

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

28 gennaio 1902 A Créteil viene chiusa l’attività culturale del Gruppo dell’Abbaye 1909 Le truppe degli Stati Uniti lasciano Cuba dopo esservi rimaste fin dalla guerra ispano-americana 1915 Un atto del Congresso crea la guardia costiera degli Stati Uniti 1917 Gli Stati Uniti cessano la ricerca di Pancho Villa 1918 Inizia la guerra civile finlandese 1932 La marina imperiale giapponese bombarda Shanghai 1935 L’Islanda diventa la prima nazione a legalizzare l’aborto 1945 Seconda guerra mondiale: termina l’offensiva delle Ardenne 1958 Inventati i celeberrimi mattoncini della Lego 1979 Deng Xiaoping compie il primo viaggio ufficiale negli Stati Uniti di un rappresentante del governo della Cina popolare 1982 Il generale statunitense James Lee Dozier viene liberato da unità dell’antiterrorismo italiano dopo 42 giorni di prigionia nelle mani delle Brigate Rosse

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

parte dei competenti assessori provinciali e regionali. Certamente, la soluzione offerta a questo problema non potrà limitarsi al tentativo di fare rinascere i litorali utilizzando sabbia di riporto. È necessario procedere al più presto ad una seria programmazione di interventi strutturali, che trovi tempi certi e rapidi di soluzione. Non a caso gli operatori del settore chiedono con forza di passare al più presto dalle parole ai fatti: ci sono in gioco interessi economici e naturalistici rilevanti per il nostro territorio che, già colpito da altre crisi di settore (si pensi all’agricoltura, ad esempio), non potrà certo perdere. Accanto alle misure urgenti, è quindi necessario impegnare gli adeguati finanziamenti provenienti dai fondi europei già disponibili per intervenire in modo risolutivo e decisivo. Gli interventi potranno essere programmati sulla base di buone prassi già realizzate in altri territori: si pensi, ad esempio all’utilizzo di barriere sommerse. L’utilizzo di questa tecnologia, caratterizzata dall’eco-compatibilità di barriere artificiali, è stata già realizzata proprio nel Golfo di Taranto, nel Mar Grande, negli anni 1999-2000, a sud dall’arcipelago delle isole Cheradi, con ottimi risultati come la salvaguardia dei litorali dalle erosioni, il ripopolamento di ricche e diversificate associazioni floro-faunistiche marine, la difesa della fascia costiera dalla pesca a strascico, con interessanti prospettive di promozione del turismo subacqueo e delle attività ricreative della pesca.

AGRICOLTURA IN CRISI (I PARTE) La crisi dell’agricoltura ha alcune caratteristiche precise, che la rendono pericolosa non solo per l’ambito rurale, ma per la capacità di incidere nella tenuta economica e sociale del Paese. È una crisi strutturale e non certo congiunturale. Se si osservano tutti gli indicatori degli ultimi venti anni, il trend alla contrazione della capacità produttiva e sempre più accelerato. Fino alla fine degli anni Ottanta, e per tutto il dopoguerra, le crisi in agricoltura erano legate agli andamenti di mercato, al gioco speculativo fra la domanda e offerta, in cui incidevano i cicli naturali e delle stagioni agrarie, e dunque si alternavano fasi espansive e recessive dei redditi e dei fattori generali d’impresa. La natura di questa lunga crisi è indotta dal profondo mutamento che le scelte politiche e istituzionali stanno determinando nel ruolo stesso dell’agricoltura, in rapporto alla dinamica sociale e all’insieme dello sviluppo delle forze produttive e economiche. Se dovesse permanere l’attuale modello dominante agroalimentare, basato sul predominio della commercializzazione, della finanziarizzazione, del controllo delle filiere da parte delle multinazionali speculative, la natura di questa crisi permarrebbe con le sue caratteristiche, giacché si nutre della competizione al ribasso fra i produttori, sulla prevalenza del commercio internazionale, sulla privatizzazione delle risorse e dei servizi, considerando i prodotti agricoli come “materie prime”, capaci di indurre valore aggiunto economico più per la speculazione finanziaria e commerciale che per la produzione. Sono a rischio le aree dell’agricoltura forte, ed è compromessa la nostra supremazia nel settore. Sono in sofferenza i settori produttivi di tutte le aree dell’agricoltura specializzata e “forte” dell’intero Paese. Ovvero di quelle aree e settori dove sono stati fatti da parte degli agricoltori grandi investimenti in ammodernamento, specializzazione, qualificazione di processo e di prodotto sulla base dell’ipotesi che la liberalizzazione e la globalizzazione dei mercati avrebbero portato significativi vantaggi a quanti si sarebbero fatti trovare pronti. Gaetano Fierro, Agatino Mancusi, Vincenzo Ruggiero C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

APPUNTAMENTI FEBBRAIO 2009 SABATO 6, ORE 17, MESAGNE AUDITORIUM DEL CASTELLO Convegno Udc, “Sviluppo del Mezzogiorno ed Enti Locali”. Interverranno: Vito Briamonte, Angelo Sanza, Ignazio Lagrotta, Euprepio Curto, Massimo Ferrarese. Conclude: Ferdinando Adornato. VENERDÌ 26, ORE 11, ROMA PALAZZO FERRAJOLI Convocazione Consiglio Nazionale dei Circoli Liberal. SEGRETARIO

Antonio Scalera

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

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PAGINAVENTIQUATTRO

Il caso. Niente veli nei bar e nei caffè cool della capitale egiziana, considerati simboli di bassa classe sociale

Al Cairo, dove il burqa di Rossella Fabiani anditi niqab e hijab nei bar e nei caffè trendy: sono simboli di bassa classe sociale. «Scusi signora, mi dispiace, ma qui le donne con il velo non possono entrare. È un abbigliamento che non è adatto al nostro ambiente». Non succede a Parigi (dove è in discussione la proposta di legge anti-burqa) o nella cool New York, ma al Cairo. Sono infatti le parole del responsabile del caffè La Bodega nel quartiere chic di Zamelek, dove si trovano le sedi delle ambasciate straniere più prestigiose. Stessa scena si ripete al night club Purple, all’ After Eight e in decine di altri ritrovi della capitale egiziana. Davanti ai locali, auto di lusso e uomini della sicurezza. Dentro, atmosfera elegante e clientela molto socialite; parola d’ordine selezione, discreta ma ferma: vietato l’uso del hijab. Si fa un’eccezione, vale a dire si chiude un occhio, soltanto se il velo viene indossato alla spagnola, ossia senza coprire il collo. «Capita molto di frequente che non ti fanno entrare spiegandoti che nel locale vengono servite bevande alcoliche, ma non è chiaro se vogliono proteggere la mia moralità o se, invece, non siano più interessati al prestigio del loro locale», dice una giovane egiziana che ha studiato a Londra. Nonostante la stragrande maggioranza delle donne egiziane indossi il velo, il capo coperto viene considerato simbolo di appartenenza a una classe sociale di basso livello. «Alla televisione soltanto le donne anziane e quelle che vengono dai villaggi portano l’hijab», dice Amira, una giovane dell’alta società egiziana. «Anche nelle pubblicità egiziane non compare mai nessuna che lo indossi». La polemica è arrivata sui giornali, ma l’élite del Cairo, per il momento, non sembra toccata dalle critiche.

B

E sì che queste invece non sono mancate quando il rettore dell’ateneo di al-Azhar al Cairo, Muhammad Tantawi, ha dichiarato il niqab - il velo che copre dalla testa ai piedi e lascia scoperti soltanto gli occhi - «lontano dall’Islam e retaggio di usanze tribali preislamiche».

Il rettore è considerato la massima autorità religiosa egiziana, essendo infatti anche imam della moschea di al-Azhar, la più importante della capitale, ma nonostante questo ben cen-

studentesse non possono più indossare il velo durante gli esami. La motivazione data dal governo per il divieto, è stata quella di raggiungere un’uniformità per le procedure d’esame comuni a tutti gli studenti universitari. Soltanto poche settimane fa invece la giustizia si era schierata contro la decisione del governo. A metà dicembre, infatti, il divieto governativo era stato dichiarato incostituzionale dal Tribunale del Cairo. Indossare il tradizionale velo islamico, aveva spiegato il Tribunale, significa

è VIETATO essere liberi di esprimere la propria fede religiosa, uno dei principi base della Costituzione egiziana. E in quel momento si era levata forte la voce del ministro dell’Istruzione, Hani Helal, che aveva dichiarato alla stampa che avrebbe usato tutti gli strumenti legislativi necessari a contrastare la decisione del tribunale. Secondo il ministro, infatti, indossare il velo è e deve rimanere una questione privata. Alla fine il governo ha vinto.

L’élite cairota by night vuole una città “a volto scoperto”. Anche Muhammad Tantawi, rettore di al-Azhar, bandisce l’indumento dalle aule universitarie: «È lontano dall’Islam e rappresenta un retaggio di usanze tribali preislamiche» to studentesse universitarie si sono rifiutate di accettare la sua decisione portando addirittura il loro caso in tribunale e chiedendo le dimissioni dello stesso rettore. La querelle sul niqab all’università si era fatta più accesa soprattutto quando due università - l’Università del Cairo e l’Università di Ain Shams - si erano impegnate pubblicamente a far rispettare il divieto ministeriale. Prima di Tantawi, infatti, lo stesso governo egiziano, attraverso il ministro dell’Insegnamento superiore, Hani Helal, aveva vietato il niqab considerando il suo uso una questione privata che non deve minacciare la sicurezza di ambienti pubblici come le aule e i dormitori universitari. Ora è notizia proprio di questi giorni che la giustizia egiziana - facendo marcia indietro sulla questione del velo integrale nelle università - ha finalmente approvato il divieto di velo integrale nei luoghi universitari, così come aveva stabilito il governo lo scorso ottobre. Secondo l’ultima sentenza del Tribunale del Cairo, infatti, le

Non è la prima volta che il rispetto delle tradizioni culturali più radicali, come è quella del volto coperto diffusa in tutto il mondo islamico, entri in conflitto con i principi delle democrazie moderne basate sulla riconoscibilità dei cittadini nei luoghi pubblici e sulla sicurezza. Del resto, il niqab, come il burqa, è uno degli indumenti più integrali di copertura del corpo, perché lascia visibili solo gli occhi. Tuttavia, in un’ottica di integrazione, ci sono episodi in cui le istituzioni dei Paesi anche avanzati si dichiarano tolleranti a tali forme di espressione religiosa o culturale. I più cinici ci vedono invece soltanto interessi economici (vale a dire non perdere studenti per non rinuncere alle alte rette). È il caso, ad esempio, della decisione presa dalla Cambridge University di cambiare il “dress code” e consentire alle studentesse islamiche di indossare il burqa durante la cerimonia di laurea. Intanto, mentre la Francia valuta l’idea di multare le donne che indossano il velo in pubblico, anche l’India ha vietato l’emissione dei documenti d’identità necessari per votare alle donne che indossano il burqa o il niqab.


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