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Non esiste un sogno perpetuo. Ogni sogno cede il posto a un sogno nuovo. E non bisogna volerne trattenere alcuno

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Hermann Hesse di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 2 FEBBRAIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

I dati del 2009 sono impietosi: i contratti a termine sono crollati e a farne le spese sono stati soprattutto le persone fino a 34 anni

Cassintegrati? No, disintegrati Papa,governo e sindacati pretendono tutela per i lavoratori dipendenti.Ma nessuno difende i giovani e i precari che non hanno neanche un minimo di Welfare.Eppure sono loro le vere vittime della crisi di Francesco Pacifico

L’esercito degli “invisibili” sta pagando per tutti

N

Bisogna fare di più per aiutare chi vuole imparare un lavoro

Il paradosso Prodi, la Lourdes del Pd

dacati: diciamo pure che la Fiat è accerchiata. Tutti a chiedere sostegno per i lavoratori e fabbriche aperte a ogni costo. Giusto! Ma poi dietro la freddezza dei numneri si scopre che la crisi ha fatto un’altra vittima: i giovani che non trovano lavoro senza aiuti economici e senza reale, concreta solidarietà.

di Giuliano Cazzola ella sua omelia il Santo Padre ha espresso parole di sostegno a due delle principali vertenze aperte in questi mesi: alla Fiat di Termini Imerese e all’Alcoa di Porto Vesme. Si tratta di stabilimenti importanti per quanto riguarda il numero dei posti di lavoro in pericolo, ma soprattutto per il ruolo che essi svolgono nei rispettivi contesti socio-economici. Dall’alto del suo magistero, Benedetto XVI non poteva che rivolgersi al management delle due aziende invocando un maggior senso di responsabilità nei confronti dei lavoratori. Il richiamo del Pontefice è stato subito condiviso dal ministro Maurizio Sacconi, il quale ha sicuramente operato nel migliore dei modi possibili durante la fase più dura dell’emergenza. Tutti, però, dobbiamo evitare di compiere errori che sarebbero capitali in una fase come l’attuale. Comprendendo in primo luogo che certe scelte dolorose di ristrutturazione produttiva non sono la conseguenza di protervia ma corrispondono a precise esigenze della competizione internazionale. Alla Fiat, per esempio, il sistema-Paese sta rischiando di commettere il medesimo errore di valutazione compiuto nell’autunno del 1980, quando il sindacato andò incontro a una storica sconfitta per essersi rifiutato di comprendere che, in mancanza di un profondo cambiamento, il gruppo sarebbe stato condannato a un declino inesorabile.

Stavolta il Professore-Salvatore dice di no

ROMA. Il Papa, il governo, i sin-

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Nonostante l’enorme debito, il Pil 2010 arriverà a più 2,7 per cento

E Obama annuncia al mondo «L’America torna a correre»

Quando non sa più come uscire dal suo immobilismo, il centrosinistra si rivolge al grande federatore bolognese. Una sindrome di “orfanaggio” che getta una luce inquietante sul futuro dei “democrats”

di Vincenzo Faccioli Pintozzi un discorso improntato a un ritorno importante, quello verso la sobrietà. Il presidente americano Barack Obama, atteso alla prova della finanziaria statunitense, è il privilegiato testimone di un aumento record del deficit di bilancio dell’Unione, che dovrebbe salire nel 2010 alla strabiliante cifra di 1.560 miliardi di dollari. Il progetto di bilancio, che dovrà

È

essere approvato dal Congresso, riguarda l’anno fiscale al 30 settembre 2011 e prevede un deficit pari al 10,6 per cento del Pil, secondo quanto comunicato dalla Casa Bianca. L’aumento è dovuto in parte a un pacchetto di misure di stimolo definite lo scorso anno per affrontare la situazione di emergenza dell’economia e dell’occupazione. a pagina 4

Riccardo Paradisi • pagina 8

Il premier in visita ufficiale. E Netanyahu lo chiama «combattente per la libertà»

Berlusconi: «Sogno Israele nella Ue» Il Cavaliere rilancia «le comuni radici giudaico-cristiane» Ma il portavoce della Ashton: «L’ingresso non è in agenda» di Luisa Arezzo

uccisione dell’esponente di Hamas, Mahmoud al-Mabouh, avvenuta in circostanze ancora da chiarire la scorsa settimana a Dubai, sembra coincidere con la trama di un giallo di Agatha Christie. C’è infatti un cadavere, con intorno tanti sospetti e nessuna certezza, anche sela stampa araba attribuisce l’omicidio al Mossad.

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segue a pagina 2 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

Intanto scoppia il giallo del Mossad negli Emirati

ilvio Berlusconi inizia il suo viaggio di Stato in Israele volando alto: «Sogno Israele nell’Unione Europea, anche in virtù delle comuni radici giudaico-cristiane che sono alla base dell’Europa». Ma il portavoce del ministro degli Esteri Ue lo gela: «L’ingresso di Israele nell’Unione per ora non è in agenda».

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

21 •

WWW.LIBERAL.IT

di Antonio Picasso

L’

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 2 febbraio 2010

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Recessione. Il governo annuncia 4,2 miliardi di nuove entrate dal fisco. Ma manca una strategia per salvaguardare il futuro

Cassintegrati o disintegrati Quale futuro per chi non riesce nemmeno ad arrivare al lavoro? «L’unica soluzione è riformare le pensioni» dice il Fondo monetario di Francesco Pacifico

ROMA. Tutto il peso della crisi rischia di finire sulle spalle di un milione e mezzo di persone. Sono i precari che non si vedono confermati i loro contratti. I giovani che dovrebbero entrare nel mondo del lavoro e che invece ne restano ai margini. Sono il differenziale tra il dato ufficiale Istat sulla disoccupazione (8,5 per cento) e quel 10,1 con il quale – e in maniera poco scientifica – Bankitalia e Confindustria hanno compreso il mare magnum del disagio sociale. Il loro identikit è semplice: oggi non hanno diritto alla cassa integrazione, in futuro potrebbero non aver accesso alla pensione. Al massimo dovranno accontentarsi di assegni da fame. Non godono di rappresentanza perché né la politica né il sindacato ha interesse a difenderli o ad accaparrarsi la loro adesione. E poco importa che rispetto ai padri sappiano le lingue e siano meglio formati. Ospite della Sace per un seminario sull’export,Arrigo Sadun ha spiegato che «per loro bisogna creare delle opportunità: ma è difficile fare opera di bilanciamento nei Paesi dove ci sono sproporzioni tra i destinatari del welfare». Secondo il direttore esecutivo per l’Italia del Fondo monetario internazionale, in ogni caso, «si deve intervenire sull’età pensionistica».Anche senza modifiche «o toccando la leva fiscale: l’importante è attutire la dinamica, in modo di spostare un po’di spesa sugli altri capitoli del welfare». Fa bene Benedetto XVI a richiamare alle loro responsabilità aziende come la Fiat e l’Alcoa che prima hanno preso fondi pubblici e poi chiudono stabilimenti in zone depresse come la siciliana Termini Imerese o la sarda Portovesme. Proprio la Fiat che, nonostante un +32 per cento delle immitracolazioni a gennaio, si nasconderà dietro il crollo del 50 per cento degli ordini dell’ultimo trimestre 2009. Così come il Papa fa bene a ricordare al governo che servono nuove forme di tutela e che non bastano i tanti tavoli – si è iniziato ieri sera con Eutelia – che si alterneranno a Palazzo Chigi per tutta la settimana. Ma a fronte di tanta espo-

È giusto rifinanziare la cassa integrazione, ma che cosa si fa che la formazione?

Ma l’esercito degli “invisibili” ormai sta pagando per tutti di Giuliano Cazzola segue dalla prima La Fiat di Marchionne non è più un’azienda italiana, ma una multinazionale in lotta per conquistare le dimensioni produttive e gli insediamenti strategici, dal punto di vista commerciale, che le consentano di restare uno dei gruppi produttori di auto anche in futuro. Che gli stabilimenti di Pomigliano d’Arco e di Termini Imerese siano delle palle al piede è del tutto evidente. Eppure l’azienda è disposta a spostare a Pomigliano delle produzioni ora svolte in Polonia, mentre a Termini Imerese sono stati presentati dei piani di riconversione produttiva, sulla carta interessanti e meritevoli di approfondimento.

Sarebbe sbagliato – lo diciamo al Governo e ai sindacati – non andare a vedere, attestandosi in difesa di una realtà esistente che non è più sostenibile. L’economia ha le sue leggi, che vengono prima delle considerazioni etiche ed umanitarie, alle quali deve pensare lo Stato con le politiche industriali, le politiche attive del lavoro e gli ammortizzatori sociali. Nei giorni scorsi la Cgil ha certificato che le ore autorizzate di cassa integrazione nel 2009 sono state pari ad un miliardo. Come se fosse colpa del Governo, il quale, invece, si è sforzato di trovare i finanziamenti necessari. Purtroppo, quelli che hanno pagato un prezzo più alto alla crisi, continuano ad essere degli «invisibili». Secondo l’Istat, nel primo semestre del 2009 l’occupazione alle dipendenze è diminuita dello 0,3% (su base annua): un dato non allarmante. Più serie sono invece le statistiche riguardanti l’andamento delle diverse componenti. A fronte, infatti, di un incremento dello 0,9% dell’occupazione a tempo indeterminato, vi è stato un crollo dell’8,3% del lavoro a termine. In questa diminuzione sono coinvolti prevalentemente dei giovani fino a 34 anni (che costituiscono il 75% delle perdite). Sull’altro versante – per effetto di norme positive sull’età di pensionamento – è cresciuta di 130mila unità l’occupazione degli over

50. Dei 240mila lavoratori autonomi che hanno perso il lavoro (rispetto al corrispondente periodo del 2008) 86mila sono cocopro. In tale ambito, dei 474mila lavoratori al di sotto dei 35 anni che hanno perduto l’impiego, 145mila sono lavoratori a termine che non hanno avuto il rinnovo del contratto. Il Governo è assolutamente consapevole di tale realtà. Il ministro Maurizio Sacconi è in corso un confronto sulla formazione professionale a cui intende destinare importanti risorse d’intesa con le Regioni. Ma non è fuori luogo porsi una domanda. Sono in grado e disponibili le Regioni ad occuparsi seriamente di formazione professionale? Ad osservare la sostanziale non applicazione che ha avuto il contratto di apprendistato, come riformato dalla legge Biagi, si direbbe proprio di no. Le polemiche che hanno accompagnato, da ultimo, l’emendamento sull’apprendistato come mezzo per assolvere il diritto-dovere d’istruzione è molto significativo di una contrapposizione culturale tra scuola e lavoro. Eppure, in una recente pubblicazione de Il Mulino-Arel, intitolata «Le riforme che mancano: trentaquattro proposte per il welfare del futuro» a cura di Carlo Dell’Aringa e Tiziano Treu, con prefazione di Enrico Letta, nel capitolo dedicato all’apprendistato, scritto da Pier Antonio Varesi, ordinario di diritto del lavoro presso l’Università Cattolica (dal titolo «Tre mosse per rivitalizzare l’apprendistato») vengono svolte alcune considerazioni sul tema dei percorsi formativi. «Sul punto – è scritto – va chiarito che «formazione formale» non corrisponde a formazione «esterna all’azienda» (contrapposta a formazione «interna»), né a formazione erogata necessariamente dalla pubblica amministrazione (contrapposta a formazione in capo al datore di lavoro). Può ben essere considerata idonea all’assolvimento dell’obbligo anche la formazione svolta in azienda su progettazione del datore di lavoro e con oneri a carico dello stesso datore».

Ciò che conta – prosegue l’autore – è che qualunque sia il soggetto erogatore o il luogo di svolgimento, si tratti di un processo di «formazione formale», corrispondente ai requisiti richiesti (progetto con obiettivi formativi, esiti verificabili e certificabili, idoneità delle strutture e delle figure professionali competenti). Se queste sono le considerazione di un importante tink tank del centro sinistra era proprio il caso di polemizzare sull’emendamento?

sizione mediatica stride ancora di più il silenzio verso chi non ha protezioni.Venerdì scorso l’Istat ha annunciato che la base degli occupati tra dicembre 2009 e dicembre del 2008 registra uno scarto di 306mila unità. Una differenza purtroppo“accettabile”di fronte alla crisi più forte dell’era contemporanea, che ha azzerato il livello di esportazioni e azzoppato la domanda interna. Nel contempo cresce, tra dicembre e novembre 2008, di 57mila unità il numero dei lavoratori in cerca di lavoro (in totale 2.138.000). Soltanto la disoccupazione giovanile è pari al 26,6 per cento, con un ragazzo su quattro a spasso. Mentre gli inattivi crescono tra i due mesi che hanno chiuso il 2009 di 164mila unità. Nel primo caso si nota come la cassa integrazione, i 9,5 miliardi di euro messi in campo dal governo, siano riusciti a tenere agganciati i dipendenti alla produzione anche in una fase in cui non c’era lavoro. Degli altri numeri sono protagonisti i fantasmi dell’era moderna: i neodiplomati o i neolaureati che non sono assorbiti dalle aziende; i precari che sono a spasso perché è più facile sbarazzarsi di loro che di un assunto a tempo determinato; tutta gente che, se va bene, finisce a ingrossare le file del lavoro nero. Nota Carlo Dell’Aringa, economista del lavoro che in passato ha guidato l’Aran: «La chiusura delle grandi fabbriche colpisce l’immaginario collettivo perché, soprattutto in certe realtà, ha un impatto più profondo. E tocca quelli che con tanta retorica chiamiamo i padri di famiglia. Però la cassa integrazione a ore zero, che è cosa diversa dalla disoccupazione, riguarda 400mila persone sul milione totale. È servita a tenere dentro i cancelli delle fabbriche il lavoro in esubero». Ma come in tutte le cose c’è «il rovescio della medaglia: per ottenere questo risultato abbiamo sacrificato i più giovani. Che vedranno allungare il loro periodo di disoccupazione».

Sadun ha sottolineato che «da noi la disoccupazione è aumentata meno che altrove». Ma anche aggiunto che paghiamo, come molti nostri vicini europei, «sistemi di protezione che garantiscono i lavoratori con posto fisso, la differenza che si fa tra quelli che sono dentro e quelli che sono fuori». La soluzione degli istituti internazionali è semplice: «Spostare l’attenzione dalla protezione del posto di lavoro alla protezione del reddito». Quindi ammortizzatori sociali, che non si fermino alla cassa integrazione. L’unico a prendere in parola questa regola è stato Renato Brunetta.


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2 febbraio 2010 • pagina 3

Il controcanto del presidente di “Italia Lavoro”

«Ma quello dei precari è solo un equivoco» Parla Natale Forlani: «Non confondiamo i contratti a termine con il disagio sociale» di Vincenzo Bacarani

ROMA. Un mondo del lavoro complesso, disordinato che lascia ampio spazio a equivoci sui termini, sulle condizioni, sulla legislazione in materia. È questa l’opinione di Natale Forlani, ex-sindacalista della Cisl e ora presidente di Italia Lavoro (l’agenzia ministeriale che si occupa di promuovere, progettare e realizzare interventi finalizzati allo sviluppo dell’occupazione), che rivolge uno sguardo molto critico alla situazione occupazionale del nostro Paese sottolineandone alcuni aspetti, a suo avviso, costantemente travisati: un po’ per scarsa conoscenza della materia e un po’ per opportunismo. Cifre su disoccupati che poi non sono proprio tutti disoccupati, equivoci – a volte voluti – sul precariato, sistemi non proprio corretti di arruolamento al lavoro, uso disinvolto di ammortizzatori sociali. Insomma, quella che appare sui media sembrerebbe essere più una sceneggiatura più che una fotografia della realtà. Eppure il dramma esiste e coinvolge sempre di più i giovani – diplomati o laureati che siano - alla ricerca di una prima occupazione che possa garantire magari non un posto di lavoro fisso, ma almeno un’occupazione che superi la soglia dei due-tre mesi, passati i quali occorre quasi sempre ricominciare daccapo, magari svolgendo mansioni completamente differenti. Presidente Forlani, in questi ultimi giorni il tema del lavoro è tornato al centro dell’attenzione: dai casi Fiat, Eutelia, Alcoa al tasso di disoccupazione che supera il 10 per cento fino all’intervento del Pontefice sulla salvaguardia dei posti di lavoro... In realtà da novembre si è stabilizzata la caduta dell’occupazione. I dati che vengono forniti da Banca d’Italia e dalla Cgil contengono anche quelli riferiti a soggetti che vengono chiamati gli “scoraggiati”, cioè quelli che vorrebbero svolgere un determinato tipo di lavoro e che però ne trovano un altro che non li soddisfa. Questi cosiddetti “scoraggiati”sono più o meno trecentomila e in realtà non si possono definire propriamente disoccupati perché alle volte un lavoro lo troverebbero, semplicemente non lo vogliono. Perciò? Perciò il tasso effettivo di disoccupazione non è del 10 per cento, ma dell’8,5.

Grazie agli incentivi, record per le vendite delle auto: a gennaio +30,2% rispetto allo stesso mese del 2009. Ma per la Fiat il 2010 comincia in rosso Ma quando il ministro ha chiesto di recuperare i 500 euro per cacciare di casa i bamboccioni dalle pensioni di anzianità, non è riuscito ad aprire un dibattito sulla flessibilità in entrata. Ha raccolto soltanto scherno: Tremonti gli ha ricordato a muso duro che non c’è una lira, i sindacati gli hanno intimato che non si toccano i pensionati, la sinistra – che pure ha fatto del welfare to work un suo cavallo di battaglia – non ha saputo presentare un’alternativa. Ieri il tesoro ha annunciato che gennaio si è aperto con un saldo di cassa positivo di 4,2 miliardi dovuto a maggior gettito. Purtroppo questi soldi non andranno come vorrebbero Sadune Brunetta alla riforma degli ammortizzatori sociali. Al riguardo l’Italia – nel pieno della crisi – ha dovuto dirottare verso il fondo per la cassa integrazione circa 9,5 miliardi di euro assorbiti dai fondi di coesione sociale e dai Fas.

Per integrare il reddito si è dovuto prendere risorse destinate alle opere pubbliche e agli investimenti – quindi in grado di creare nuovi posti di lavoro – e alla formazione, arma basilare per dare senso alle azioni di riconversione e

di orientamento. Se non bastasse, per ottenere il placet delle Regioni sulla riprogrammazione dei soldi, il governo ha girato ai governatori i poteri sulla cassa integrazione. Peccato che i loro assessorati competenti, come dimostrano le tante inchieste giudiziarie, non hanno mai vantato gestioni virtuose. Ricordava ieri dai microfoni di Radio Radicale, nella rubrica Connessioni, l’economista Fabio Pammolli: «Sappiamo che l’Italia ha brillato nel decennio passato per trasferire fondi europei che hanno formato i formatori. In particolare gli hanno formato il parco macchine e il patrimonio immobiliare. Sento alcuni candidati alle presidenze regionali insistere sull’enfasi riferita alla formazione, dicendo di voler sussidiare, come fa il candidato toscano Enrico Rossi, la partecipazione diffusa di neolaureati a master universitari con 10 o 20 mila euro. Sarebbe il caso di ristrutturare il modo con i quali i master sono organizzati». Intanto l’Italia perde capitale umano. Soltanto il Sud ha perso 80mila laureati tra il 2000 e il 2005. E Dio solo sa quanto un Paese che vive di innovazione e non ha materie prime come l’Italia ha bisogno di questi cervelli.

Tornando al discorso sul lavoro, molti si preoccupano degli attuali dipendenti – che tuttavia possono usufruire degli ammortizzatori sociali – e pochi sembrano preoccuparsi dei precari che non hanno quegli strumenti. Anche qui siamo di fronte a un grandissimo equivoco. Il termine precario è una parola che appartiene al sociale, non al mondo del lavoro. In tutti i mercati del lavoro c’è una quota di dipendenti a termine. E poi i sostegni al reddito ci sono, eccome. Bisogna pensare che i sostegni al reddito sono a base assicurativa. I requisiti minimi sono due anni di iscrizione e 78 giornate nell’ultimo anno di lavoro. E li possono avere tutti i lavoratori a termine, quelli che vengono chiamati precari. Diverso invece è il discorso che riguarda i contratti a progetto che non sono coperti da questa assicurazione. Il problema va visto sotto un’altra ottica. Quale? C’è un problema di equità di trattamenti. Abbiamo i dipendenti della media e grande impresa che hanno indennità di disoccupazione, indennità di mobilità, cassa integrazione. Cose che non esistono in altri Paesi che hanno una quota del 4 per cento di contratti a termine perché il lavoro dipendente ha meno vincoli rispetto al nostro Paese. E tutto questo ha un costo di 4 miliardi di euro. Possibili soluzioni? Bisogna arrivare a una riforma che introduca un istituto generalizzato. Cioé? Un’indennità di disoccupazione che sia calibrata sulle situazioni soggettive. E poi bisogna distinguere tra sostegni al reddito e politica in contrasto alla povertà. I sostegni al reddito riguardano coloro i quali hanno nullo o scarso reddito, la politica in contrasto alla povertà può riguardare anche un lavoratore dipendente che ha una famiglia numerosa e non riesce a gestire il bilancio familiare. Una riforma in questo senso è comunque necessaria anche per evitare alcuni casi limite. Ad esempio? Prendiamo il settore agricolo che spesso presenta esempi classici. È successo, anche recentemente, che i lavoratori agricoli abbiano prteso l’indennità di disoccupazione e che poi invece a lavorare ci siano andati gli extracomunitari pagati in nero. E recenti fatti di cronaca sono stati purtroppo determinati proprio da questo aspetto negativo e illegale.

È arrivato il momento di riformare gli ammortizzatori sociali con l’obiettivo di dare garanzie a tutti. Anche con soluzioni personalizzate


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Budget. Il presidente americano presenta il bilancio 2010: incentivi per il lavoro e tagli alle spese federali (ma non alla Difesa)

La rincorsa di Obama

Nonostante l’enorme debito record, pari a 1.560 miliardi di dollari, la Casa Bianca annuncia un aumento del Pil del 2,7 % nel 2010 di Vincenzo Faccioli Pintozzi un discorso improntato a un ritorno importante, quello verso la sobrietà. Il presidente americano Barack Obama, atteso alla prova della finanziaria statunitense, è il privilegiato testimone di un aumento record del deficit di bilancio dell’Unione, che dovrebbe salire nel 2010 alla strabiliante cifra di 1.560 miliardi di dollari. Il progetto di bilancio, che dovrà essere approvato dal Congresso, riguarda l’anno fiscale al 30 settembre 2011 e prevede un deficit pari al 10,6 per cento del Pil, secondo quanto comunicato dalla Casa Bianca. L’aumento è dovuto in parte a un pacchetto di misure di stimolo definite lo scorso anno per affrontare la situazione di emergenza dell’economia e dell’occupazione. Il dato si confronta con i 1.410 miliardi dell’anno fiscale 2009 (9,9 per cento del Pil). Il deficit dovrebbe poi calare a 1.270 miliardi, l’8,3 per cento del Pil, nell’anno fiscale 2011, secondo gli impegni della Casa Bianca. Il principale problema di Obama è che deve convincere investitori e grandi creditori come la Cina - di avere un piano credibile per tenere sotto controllo il deficit e il debito del Paese. Quest’anno, dunque, verranno mantenute politiche per proteggere la ripresa economica ancora fragile; ma Obama risparmierà mettendo un freno a circa 120 progetti federali, tra i quali spicca la missione spaziale per andare nuovamente sulla luna.

La recessione non ha scalfito la politica del guadagno senza regole praticata dalle banche

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Peter Orszag, direttore dell’Ufficio Management e Budget della Casa Bianca, ha già fatto sapere che il programma Constellation, che avrebbe dovuto riportare gli astronauti americani sulla Luna entro il 2020, verrà cancellato. Il programma prevede anche la sostituzione dei vecchi Shuttle con razzi Ares. In compenso Obama intende portare avanti le missioni spaziali che dovranno portare l’uomo su Marte e appoggia la costruzione di taxi per viaggi privati verso lo spazio, in cui la

La rivincita della finanza ormai assedia Barack di Gianfranco Polillo el discorso di Obama al Senato c’è tutta la delusione di chi, facendo appello ai nobili sentimenti, pensava di poter convincere gli artefici della più grande crisi finanziaria che la storia ricordi a più miti consigli. In teoria tutto sembrava facile. Le grandi istituzioni finanziarie, nei mesi passati, avevano dato il peggio di sé. Avevano accumulato profitti ignorando le più elementari regole di prudenza. Si erano dati compensi da nababbi, con la giustificazione di aver prodotto valore per i propri azionisti e garantito al più forte Paese occidentale i mezzi per una politica dissennata. Non si dimentichino gli errori di Bush figlio: una politica estera muscolare, finanziata a deficit ed accompagnata da una politica fiscale accomodante (tasse ridotte per ottenere l’appoggio del “fronte interno”nella sua crociata contro gli “Stati canaglia”). Poi, dopo una lunga euforia e le esuberanze di una grande bolla speculativa, il crack. E con esso l’intervento dello zio Sam per ripianare deficit e scongiurare fallimenti analoghi a quelli della Lehman Brothers.

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Sostituendo al debito privato quello pubblico, Obama pensava di essersi guadagnato, almeno, la riconoscenza. Banche salvate dal baratro, manager sottratti alle ire di folle inferocite costrette a pagare – il tasso di disoccupazione è uno dei più elevati di tutto l’Occidente – un conto astronomico che impegnerà le generazioni future. Un’economia reale sprofondata nella crisi. Cittadini che, per la prima volta dopo tanti anni, sono costretti a ridimensionare il proprio tenore di vita, guardando con preoccupazione al proprio futuro. Ma si sa: la riconoscenza non è di questo mondo. Tamponate le falle più vistose, tutto è tornato come se nulla fos-

se, anche se l’economia americana non è più quella di prima. Dove ha sbagliato Obama? Ha sottovalutato la forza e la pervicacia dei grandi egoismi. Non ha compreso che, in questi casi, non bastono le parole o gli appelli al patriottismo. Occorrono, invece, misure che ne contrastino i comportamenti. E se queste tardano – come in effetti è avvenuto – a materializzarsi, è inevitabilmente il giudizio di Dio, sotto forma di responso elettorale, che taglia, come una lama, il nodo gordiano delle contraddizioni di potere che innervano la società americana. Perché di questo si tratta. Ed è con questo problema che, ormai, il Presidente americano deve fare i conti.

La crisi non ha scalfito quegli assetti. Anzi: per molti versi le grandi istituzioni finanziarie sono più forti di prima. Si sono ulteriormente concentrate. Non rinunciando all’arma della speculazione internazionale, le banche maggiori hanno conquistato le roccaforti delle creature più fragili. Se prima erano “troppo grandi per fallire” oggi sono dei giganti che impediscono allo Stato – il più forte Stato occidentale – di spegnere i loro appetiti e convogliare la spinta incomprimibile del mercato verso obiettivi di più lungo periodo. Dove ritrovare una sintesi virtuosa tra comportamenti individuali e coesione nazionale. Basta, quindi, con le parole. Questo è il momento dell’azione e dell’iniziativa di governo. Ma non sarà facile stabilire le nuove regole dell’agire collettivo. Da un lato, i rapporti di forza, che sono quelli che abbiamo descritto. Dall’altro una situazione internazionale tutt’altro che favorevole. Nel mondo del dopo – crisi, la Cina avrà un peso ancora maggiore: destinato a condizionare non solo l’economia, ma la stessa politica estera americana. Si veda il maldestro tentativo di vendere armi a Taiwan. E dal comportamento delle autorità finanziarie cinesi dipenderà gran parte della stessa partita finanziaria. Fin quando il deficit americano avrà la dimensione attuale, le grandi banche avranno un ruolo da giocare. Garantiranno il circuito dei finanziamenti. Grazie ad esso, godranno, tuttavia, di margini di manovra difficili da contenere. Obama ne è consapevole. Le misure annunciate, rivolte a separare la normale attività d’intermediazione finanziaria, dalla pura attività di private investment può essere un primo passo. Ma la strada è lunga e le incertezze ancora maggiori.

Nasa avrà un ruolo puramente di supervisione. Maggiori investimenti riguarderanno invece educazione e ricerca. E ovviamente alla creazione di nuovi posti di lavoro, la parola più citata nel corso del discorso sullo stato dell’Unione pronunciato settimana scorsa dal presidente. Nello specifico, l’amministrazione democratica intende “tagliare” 33 miliardi di dollari di crediti fiscali a quelle piccole industrie che assumono più lavoratori o aumentano i salari. Altri 6 miliardi sono destinati a investimenti “verdi”, relativi per la maggior parte ai settori di ricerca e sviluppo.

Quattro miliardi sono per il nuovo Fondo nazionale per l’innovazione e il finanziamento delle infrastrutture. Per chi guadagna meno di 75mila dollari l’anno, inoltre, è prevista una riduzione fiscale, per i prossimi dieci anni, pari a 61,2 miliardi di dollari. Un altro settore “caldo” di questa nuova finanziaria, come prevedibile, è quello relativo alla Difesa. Per le nuove truppe da inviare in Afghanistan, Obama chiede al Congresso 33 miliardi in più; per la strategia relativa all’Afpak, invece, saranno necessari 159,3 miliardi di dollari per il 2011. Infine, il programma di sostegno al Dipartimento per la difesa familiare dovrebbe ottenere 8,8 miliardi. Denaro anche per la cosiddetta “sicurezza aerea”, ovvero quegli strumenti necessari al rinforzo della prevenzione dagli attentati. All’atto pratico, sono 734 miliardi di dollari che serviranno a installare i famosi (famigerati) body scanner negli aeroporti del Paese. Gli analisti monitorano la situazione con una buona dose di scetticismo. I sondaggi mostrano infatti la preoccupazione dei contribuenti per la debolezza delle finanze americane. In programma c’è anche la creazione di una commissione bipartisan sul bilancio che elabori opzioni su tasse e spesa. Per il momento il bilancio ha incorporato la legge di assistenza sanitaria mentre, secondo un funzionario dell’amministazione, sarebbero stati tolti i 646 miliardi di dollari di entrate previste per una controversa proposta di legge per limitare e scambiare diritti di inquinare, segnalando i dubbi della Casa Bianca sulla possibilità di un’approvazione del Congresso. Particolare preoccupazione si concentra sul fronte occupazione, specialmente dopo lo scontento dimostrato dagli elettori con la sconfitta del candidato democrati-


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2 febbraio 2010 • pagina 5

Goldman Sachs intanto smentisce il superbonus da 100 milioni

E il manager si regalò 145 miliardi di dollari

Di qua e di là dall’Oceano rimbalzano le polemiche sui premi ai dirigenti. Malgrado i costi della crisi di Alessandro D’Amato

ROMA. Sarà Lloyd Blankfein il primo uomo da 100 milioni di dollari dell’era postcrisi? A scriverlo è il Times, che dice di aver raccolto voci durante il World Economic Forum provenienti da altri banchieri, i quali hanno garantito che l’intenzione di Goldman Sachs è quella di pagare il suo amministratore delegato e altri top manager con una serie di super bonus. La notizia avrebbe costituito una sfida a Barack Obama, che considera i bonus d’oro una vera e propria vergogna, soprattutto dopo il maxisalvataggio delle banche da parte della Casa Bianca. Ma a stretto giro di posta è arrivata la smentita di GS. «Esistono le speculazioni, ed esistono le stupidaggini. Questa speculazione trascende la semplice stupidità e la porta ad un nuovo livello»: con queste parole il portavoce di Goldman Sachs, Lucas Can Praag, ha smentito seccamente le voci riportate dal Times. Anche se la banca ha ripagato in anticipo i soldi ricevuti dallo stato americano nell’ambito del programma di assistenza alle banche in crisi, sembra proprio per evitare ingerenze politiche nella gestione Lloyd Blankfein ha già portato a casa il premio più grande mai pagato nella storia, nel 2007, quando intascò 67,9 milioni di dollari. I profitti della sua banca, lo scorso anno, sono stati di 1,8 miliardi di dollari in più rispetto al 2009; e questo avrebbe comunque giustificato il bonus milionario, che sarà comunque pagato in azioni anziché in contanti. Entro la fine del mese la banca dovrà rivelare quanto paga i suoi 5 principali dipendenti all’ente statunitense preposto alla vigilanza della borsa valori, la Securities and Exchange Commission.

economica e dei suoi effetti sul lavoro e sulla società. E la Sachs così potrebbe trovarsi a fare da capro espiatorio di quella che invece è una tendenza assolutamente generalizzata. Come ha scritto il Sole 24 Ore, i 145 miliardi di dollari in stipendi che saranno pagati dalle più grandi banche a stelle e strisce, secondo le stime delle autorità di NewYork, faranno registrare un progresso di circa l’8% rispetto al 2007, l’ultimo anno di crescita prima della crisi: «E bonus e stipendi continuano a pesare per più del 32% del fatturato dei grandi gruppi finanziari americani, una media che fa segnare i massimi per le banche d’affari, come Morgan Stanley che nel 2009 potrebbe superare il 60%. Il tutto mentre il reddito medio degli statunitensi fra il 2000 e il 2008 si è contratto di circa il 4%», scrive ancora il Sole. In più, secondo i calcoli della Sec, la somma degli stipendi pagati dai grandi gruppi del settore sulle due sponde dell’Atlantico potrebbe duplicare la stima fatta per le sole banche americane, arrivando a toccare i 300 miliardi di dollari.

Premi e stipendi crescono anche rispetto al 2007 e continuano a pesare per più del 32% del fatturato dei grandi gruppi finanziari americani

Le stime indicano un ulteriore aumento del Prodotto interno lordo, per il 2011, pari al 3,8 per cento. E per gli anni successivi la ripresa dovrebbe toccare il 4 co di Obama in Massachusetts per il Senato. Per aumentare i posti di lavoro Obama sta mettendo da parte circa 100 miliardi di dollari nel 2010 in crediti di imposta per le piccole imprese e per gli investimenti in energia pulita e infrastrutture. Il bilancio indica misure per tagliare nei prossimi 10 anni oltre 1000 miliardi dal deficit. Tra queste spicca l’idea di tassare le grandi banche per recuperare i fondi del salvataggio governativo messo in campo durante la crisi finanziaria, una misure che permetterebbe di recuperare circa 90 miliardi in dieci anni. Potrebbero inoltre venire mano i tagli alle tasse per i contribuenti più facoltosi: secondo le stime della Casa Bianca se venisse permesso un aumento delle tasse alle famiglie con reddito superiore ai 250.000 dollari l’anno, entrerebbero nelle casse del Tesoro circa 678 miliardi nei prossimi 10 anni.

Ma ci sono anche note positive: nel 2010 il Pil americano crescerà del 2,7 per cento, mentre nel 2011 del 3,8 e oltre il 4 per cento per i

successivi tre anni. Lo prevede la Casa Bianca, che ha rivisto al rialzo le previsioni per il Pil di quest’anno, dato al 2 per cento.

L’impressione dunque è che quello che attende il popolo americano sia un anno duro, ma in ogni caso affrontabile. Si deve tornare, certamente, a quella realtà pionieristica che ha caratterizzato, e fatto grandi, gli Stati Uniti negli anni Trenta e poi nel secondo Dopoguerra. Ma questa non sembra essere una missione impossibile per un popolo alla fin fine giovane, impetuoso il giusto e caratterizzato dalla convinzione di avere una missione nella vita. Quella di guidare il mondo. La rincorsa di Obama, economica e politica, riparte quindi non tanto dal discorso messianico sullo stato dell’Unione ma dalla più pragmatica Finanziaria. Che non è fatta di rose ma di spine, che per loro natura richiedono sacrificio. Un sacrificio che gli Usa sono disposti a concedere, almeno per questa prima volta di Barack. Forse le elezioni di midterm cambieranno.

Una voce falsa, insomma, ma che è sintomatica di un clima, quello contro i top manager, che sta diventando sempre più caldo sia nell’opinione pubblica che nell’establishment. Ed è altamente probabile che il fuoco di fila che si sta scatenando sulla stampa farà molte vittime. C’è da dire anche che Goldman è una delle più odiate banche d’affari, da prima della crisi economica, e quindi questo tipo di notizie si prestano, in una certa maniera, ad esacerbare ancora di più gli animi nei confronti degli istituti di credito, ritenuti, non senza ragione, tra i maggiori responsabili della crisi

Di qui la proposta di una tassa per la Financial Crisis che l’amministrazione Obama sta portando avanti, e che prevedrebbe una “fee” di 15 basis point su tutti gli asset di banche di una dimensione superiore ai 50 miliardi: «Se possono permettersi nuovamente i bonus ai manager, possono anche a pagare tasse modeste per risarcire i contribuenti che le hanno salvate», ha detto il presidente Usa. L’imposta porterebbe a un incasso di un’ottantina di miliardi di dollari in dieci anni per l’erario statunitense, ma agirebbe in maniera significativa anche sui bilanci degli istituti di credito: per Moody’s «Bank of America dovrebbe pagare una commissione annuale di 1,715 miliardi di dollari; Citigroup, invece, dovrebbe sborsare ogni anno 2,058 miliardi; Godman Sachs 1,123 miliardi e Jp Morgan 1.905 milioni di dollari; Morgan Stanley 1.005 milioni e Wells fargo 621 milioni di dollari». In conseguenza di questi numeri, dicono gli esperti Moody’s, potrà accadere che le banche possano essere, giocoforza, indotte a ridurre la liquidità. Una scelta da cui potrebbe conseguire «una riduzione nella forza creditizia dello stesso istituto».


diario

pagina 6 • 2 febbraio 2010

Servizi. Pubblicata la motivazione della condanna degli agenti Cia e del non luogo a procedere per l’agente italiano

«Solo un cavillo salvò Pollari» Nella sentenza su Abu Omar, duro giudizio del ”segreto di Stato“

ROMA. Del rapimento di Abu

di Franco Insardà

Omar il Sismi non poteva non sapere. E soprattutto l’ex direttore Nicolò Pollari. Anzi, come ha scritto il giudice Oscar Magi, nelle motivazioni depositate ieri, «l’esistenza di una autorizzazione organizzativa a livello territoriale nazionale da parte delle massime autorità responsabili da parte del servizio segreto Usa lascia presumere che tale attività sia stata compiuta quanto meno con la conoscenza (o forse con la compiacenza) delle omologhe attività nazionali, ma di tale circostanza non è stato possibile approfondire le evenienze probatorie (pur esistenti) per l’apposizione - opposizione di segreto di Stato da parte delle attività governative italiane».

È questo il quadro che emerge dalle parole del giudice Maggi che lo scorso 4 novembre, a conclusione del processo per il sequestro dell’ex imam di Milano Abu Omar, aveva condannato 22 agenti Cia a 5 anni di reclusione, a 8 anni Robert Seldon Ledy, a 3 anni di reclusione gli ex funzionari Sismi Pio Pompa e Luciano Seno, ma per la sola accusa di favoreggiamento. Per Nicolò Pollari, per l’ex numero due del servizio segreto militare, Marco Mancini, e per altri funzionari aveva disposto il non doversi procedere per esistenza del segreto di Stato. Per altri tre agenti Cia era stato disposto, invece, il non doversi procedere perché godevano dell’immunità diplomatica. Pollari, alcuni suoi uomini e i 26 agenti Cia

te partecipato ad attività di ostacolo e sviamento delle indagini che altri servitori dello Stato stavano svolgendo per accertare la commissione di un reato molto grave quale il sequestro di persona». Il magistrato, poi, avanza critiche sul segreto di Stato che ha permesso a Nicolò Pollari e Marco Mancini di essere dichiarati “non giudicabili”. Scrive ancora Magi: «Occorre sottolineare che in seguito alla delimitazione dell’area del segreto di Stato operata dalla Corte Costituzionale e alle conseguenti opposizioni da parte degli imputati, è stato ti-

Telecom e Pirelli per il patteggiamento

Tavaroli vale 7,5 mld MILANO. Telecom Italia e Pirelli hanno chiesto il patteggiamento per la vicenda dei dossier illegali legata alla figura dell’ex capo della security Giuliano Tavaroli. La richiesta - come anticipato ieri dal Corriere della Sera - è stata depositata sabato al Tribunale di Milano e oggi, alla riapertura dell’udienza preliminare, la loro posizione dovrebbe essere stralciata. In questo modo,

Secondo i giudici, la copertura governativa è diventata una «eccezione assoluta e incontrollabile rispetto allo stato di diritto» erano accusati di aver prelevato l’imam Abu Omar, indagato dalla Procura di Milano per terrorismo internazionale, nel febbraio del 2003. Abu Omar fu poi portato in Egitto, dove fu torturato, tanto da subire lesioni permanenti.

Le parole usate dal dottor Maggi nella motivazione della sentenza sono molto dure proprio sulla figura dell’ex direttore del Sismi. Secondo il giudice, infatti, «rimane un giudizio morale fortemente negativo per chi, in qualità di servitore dello Stato, ha sicuramen-

rato una sorta di “sipario nero” su tutte le attività degli agenti del Sismi in relazione al fatto reato, “sequestro di Abu Omar”, impedendone la valutazione in via assoluta».

Questo avrebbe consentito, si legge nella motivazione, «agli imputati di una gravissima vicenda perseguibile penalmente di andare esenti da una corretta valutazione della loro responsabilità perché i rapporti tra i servizi italiani e stranieri sono coperti da segreto di Stato significa in termini molto semplici che gli

le due aziende escono dalla vicenda senza 1nessuna ammissione di responsabilità», come sottolinea una portavoce. L’accordo raggiunto con la Procura di Milano prevede che Telecom e Pirelli risarciscano con 7 milioni e mezzo di euro i tre

ministeri coinvolti e i dipendenti schedati, uscendo dall’udienza preliminare che ha avuto il via lo scorso 31 marzo. I due gruppi erano accusati di corruzione e i pm avevano chiesto il rinvio a giudizio in base alla legge 231/2001 sulla responsabilità amministrativa per i reati commessi dai dipendenti nell’interesse dell’azienda.Telecom e Pirelli, ma non i loro vertici, sono finite indagate in qualità di persone giuridiche in relazione al reato di corruzione ipotizzato nei confronti di Tavaroli e Iezzi, ma nello stesso tempo sono parti lese per quello di appropriazione indebita contestato agli imputati. Nell’ambito della stessa vicenda, la difesa di Marco Mancini ha chiesto il proscioglimento. La richiesta dei legali di Mancini arrivava dopo che la Presidenza del Consiglio aveva confermato, su richiesta del funzionario del Sismi (ora Aise), l’esistenza del segreto di stato nei rapporti tra Mancini e Telecom e Pirelli. La Procura, rappresentata dai Pm, Nicola Piacente e Stefano Civardi, ha espresso parere contrario alla richiesta di proscioglimento.

stessi possano godere di una immunità di tipo assoluto a livello processuale e sostanziale, immunità che non sembra essere consentita da nessuna legge di questa Repubblica». Secondo il dottor Magi «si è finito con l’estendere il segreto di Stato in modo assolutamente abnorme fino al rischio di trasformarlo in una «possibile eccezione assoluta e incontrollabile allo stato di diritto così come finora conosciuto». Il giudice parla addirittura di paradosso giuridico perché «ammettere che vi è segreto di Stato sui rapporti tra servizi segreti italiani e stranieri collegati ad un fatto reato per cui si procede, nel momento in cui si afferma che per quel fatto non vi è segreto e quando risultano imputate persone appartenenti a quei servizi costituisce a parere di questo giudice un paradosso logico e giuridico. Tale paradosso rischia di essere ancora più pericoloso nel momento in cui si consente agli imputati di quella vicenda di poter apporre anche loro il segreto di Stato cosa che fino ad allora era stata consentita solo ai testimoni».

Legata alla vicenda di Abu Omar anche l’altra inchiesta che sta svolgendo la Procura di Perugia che, qualche settimana fa, ha chiesto il rinvio a giudizio, con l’accusa di peculato, di Nicolò Pollari e dell’ex funzionario del servizio segreto Pio Pompa al termine dell’inchiesta sulle presunte irregolarità legate all’archivio riservato scoperto a Roma in via Nazionale. Secondo il pubblico ministero, Sergio Sottani, quantità di denaro, risorse umane e mezzi in dotazione al Sismi sarebbero stati utilizzati per attività non istituzionali e per creare un archivio riservato con dossier su numerosi magistrati, giornalisti e funzionari dello Stato. L’archivio venne scoperto a luglio del 2006 dalla Procura di Milano che indagava proprio sul sequestro di Abu Omar, poi l’indagine venne trasferita a Roma e poi a Perugia per la presenza come parti lese di alcuni magistrati romani. Dopo avere ricevuto l’avviso di conclusione indagini, Pollari e Pompa hanno chiesto e ottenuto di essere interrogati dal pm Sottani, opponendo anche in questa indagine il segreto di Stato, che è stato confermato dal governo.


diario

2 febbraio 2010 • pagina 7

«Mio padre investì molti soldi nella nascita di Milano 2»

Fatture false per un giro di dieci milioni di euro

La verità di Ciancimino sull’immunità di Provenzano

Indagati 50 promotori finanziari Mediolanum

PALERMO. «Dopo le inchieste e

MILAN. Circa una cinquantina di promotori finanziari per Mediolanum sono indagati a Milano con ipotesi di reato di evasione fiscale. Al centro dell’inchiesta del pubblico ministero, Roberto Pellicano, ci sono fatture emesse tra il 2006 e il 2008 per un ammontare complessivo di 10 milioni di euro, che sarebbero state emesse a favore dei promotori per operazioni inesistenti.

le denunce della commissione antimafia e il caso della sua querela al capo della polizia, mio padre decise di spostare i suoi investimenti lontano da Palermo». Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo nell’aula bunker dell’Ucciardone continua a dire la sua verità. Nell’ambito del processo al generale dei carabinieri Mario Mori e al generale Mauro Obino, che sono accusati di favoreggiamento aggravato alla mafia, Ciancimino junior ha spiegato nell’ambito della sua testimonianza che suo padre era in affari con i boss di mafia Salvatore e Antonino Buscemi e Franco Bonura. Negli anni ’70 poi dopo gli accertamenti della commissione antimafia Don Vito Ciancimino decide di diversificare. «Alcuni suoi amici di allora Ciarrapico e Caltagirone e altri costruttori romani gli dicono di investire in Canada dove sono in preparazione le Olimpiadi di Montreal». Ma anche altri soldi saranno destinati a un altro progetto. «Una grande realizzazione alla periferia di Milano che è stata poi chiamata Milano 2». Ciancimino junior ha spiegato di aver acquisito queste informazioni sia direttamente dal

Lega & Potere, un’equazione veneta L’amarezza di Giustina Destro, pdl, ex sindaco di Padova di Valentina Sisti

MILANO. «È una decisione che abbiamo dovuto subire, imposta dall’alto». Giustina Destro, parlamentare azzurra, ex sindaco di Padova, per anni nelle fila di Confindustria, digerisce a fatica la scelta di un candidato della Lega alla presidenza del Veneto. Era stata una delle prime firmatarie del documento per far cambiare idea a Silvio Berlusconi, chiedendo la riconferma di Giancarlo Galan. E ora, che la Lega sembra già voler pregustare la vittoria, la campagna elettorale con il Pdl rischia di diventare sanguinaria. Prima il governatore uscente ha accusato Luca Zaia di voler fare liste di proscrizione. Poi, il centrodestra in Regione era arrivato a spaccarsi sul progetto dei due termovalorizzatori trevigiani voluti dagli industriali e da Galan, bocciati dal consiglio regionale con una maggioranza trasversale. E ancora, la frenata del ministro Zaia sul nucleare, smarcandosi dalla scelta del governatore uscente. Ma sulle tensioni tra i due partiti, pesa soprattutto il veto del Carroccio di voler tenere fuori l’Udc, al governo con Galan per quindici anni, dalle alleanze. «Una decisione che la dice lunga sulla volontà di gestire il potere della Lega - dice la Destro. - Non vogliono spartirlo con nessuno». Alle prossime Regionali il Carroccio sta tentando il sorpasso sul Pdl… Questo sorpasso è tutto da vedere, ancora. Il Pdl veneto è sempre stato avanti al Carroccio. Alle Politiche del 2008, loro erano al 27,1 per cento, noi al 27,4. Alle Europee 2009, loro al 28,4 e noi al 29,3. L’ultima parola spetterà ai veneti pronunciarla. Il ministro Zaia ha detto che «farà pagare il dazio» a chi lo boicotta e il governatore Galan lo ha accusato di voler fare liste di proscrizione. Si profila una convivenza difficile? Ho trovato di cattivo gusto questo tipo di dichiarazioni da parte della Lega, anche perché si è trattato di un messaggio rivolto a tutti, quindi anche al mondo sociale, economico,

culturale. Credo invece che un politico debba saper assicurare e creare un clima sereno, infondere fiducia. Si stanno riproponendo anche in Veneto le tensioni che Pdl e Lega stanno vivendo a livello nazionale? Il Veneto è la regione con il pil più alto d’Italia, è considerata una regione strategica, con forti potenzialità. Naturale, quindi, che le tensioni tra i partiti anche di una stessa maggioranza siano più forti qui che altrove. Conquistare il Veneto significa ritagliarsi un ruolo fondamentale anche nella politica nazionale. Il Pdl sta scontando anche la scelta di Galan di tirarsi indietro? Galan è stato un ottimo governatore e potrebbe avere dalla sua parte grande parte degli imprenditori, industriali e dei sindacati. Lo abbiamo sostenuto fino all’ultimo, perché eravamo consapevoli che si sarebbe trattata di una grossa perdita per il Veneto. Ma alla fine, ha preferito rinunciare a una propria lista per rispetto a Silvio Berlusconi. Il Carroccio ha mal digerito la proposta di un simbolo unitario con il nome di Silvio Berlusconi… Ne stiamo ancora discutendo, siamo ancora nella fase delle analisi, un accordo è ancora possibile prima del 22 febbraio, termine ultimo per la presentazione delle liste. Come giudica il veto del Carroccio di tener fuori un alleato storico, in Veneto, come l’Udc? Perdiamo un grande alleato. L’Udc in Veneto vale l’8, il 9 per cento. Dobbiamo pagare un’altra volta pegno alla Lega, che ci ha imposto questo veto. Abbiamo lavorato molto bene con l’Udc in tutti questi anni di governo in Regione. Significa che non crede alla possibilità di un «governo di coalizione» per il Veneto prospettata dal ministro Sacconi? Non mi sembra proprio che ci siano proprio le condizioni. Non mi sembra d’intravvedere una volontà di collaborazione, almeno finora.

«Aver perso il sostegno dell’Udc è stato un peccato e un errore: in questi anni avevamo lavorato molto bene insieme»

padre sia attraverso la lettura di agende e documenti dello stesso genitore».

«Tra il ’99 e il 2002 - ha raccontato Ciancimino - Provenzano venne più volte a casa nostra a Roma, vicino a piazza di Spagna. Veniva quando voleva, senza appuntamenti. Tanto mio padre era agli arresti domiciliari». E ha aggiunto che il padre gli diceva come il rischio di questi incontri fosse maggiore per lui che per Provenzano, dato che a lui avrebbero potuto revocare i domiciliari, mentre «Provenzano era garantito da un accordo». Massimo Ciancimino ha detto di essere stato in più occasioni presente alle visite del capomafia corleonese: «Alcune volte lo ricevevo e altre l’ho visto quando usciva».

L’inchiesta a carico dei promotori finanziari di Mediolanum nasce dagli accertamenti fatti sulla documentazione trovata a Giovanni Guastalla, fiduciario svizzero che risulta già indagato per riciclaggio e associazione a delinquere in uno dei filoni di inchiesta della Procura di Milano su Banca Italease. Guastalla, secondo quanto

ipotizzano i magistrati, avrebbe emesso fatture per un ammontare complessivo di 10 milioni di euro a favore dei promotori finanziari di Mediolanum per operazioni inesistenti. I promotori indagati hanno in comune come commercialista Marco Baroni, il quale aveva un contratto di consulenza con Mediolanum per i suoi promotori. Lo studio di Baroni è stato perquisito venerdì scorso dagli uomini della Guardia di Finanza. E proprio Baroni avrebbe suggerito ai promotori ora indagati come effettuare fatture false per dribblare il fisco. Del fascicolo fanno parte anche alcune fatture emesse nel 2009, queste però non sono state usate ai fini dell’iscrizione nel registro degli indagati in quanto possono ancora essere sanate con la prossima dichiarazione dei redditi. Intanto Banca Mediolanum, apprese la notizie relativ, ha dichiarato di «deplora sin d’ora tali comportamenti». «Se tali notizie dovessero rivelarsi fondate - sottolinea la Mediolanum in un comunicato stampa l’istituto sottolinea comunque la sua assoluta estraneità a vicende che restano confinate nell’attività e responsabilità personale di chi le compie».


pagina 8 • 2 febbraio 2010

politica

Eterni ritorni. Il Pd chiede al Professore di candidarsi sindaco a Bologna. Ma lui rifiuta. Come aveva rifiutato la presidenza del partito offertagli da Bersani dopo la sua elezione

I «prodidipendenti» Quando è in crisi, la sinistra s’affida al «federatore». Ma nel caso di Bologna il gioco non ha funzionato di Riccardo Paradisi hissà, forse davvero Romano Prodi per il centrosinistra italiano rappresenta il fantasma del padre ancora non rielaborato. Per due volte a capo dello schieramento progressista, per due volte vittorioso alle elezioni politiche contro Silvio Berlusconi, per due volte caduto a metà del guado per problemi interni (perché la sua leadership è stata prima minata e poi fatta collassare dall’interno), l’ingombrante figura del professore bolognese continua ad aleggiare sul corpaccione di un Pd preda di convulsioni gravi. Tanto gravi da far dire al governatore uscente della Campania Antonio Bassolino che il progetto è fallito, che è necessario pensare già a qualcosa di nuovo. Evidentemente il futuro ha un cuore antico se a Bologna il Pd ha pensato di chiedere l’intervento di Prodi. L’ultima volta che Romano Prodi in ordine di tempo è stato evocato come deus ex machina in grado di salvare il

C

Ricevuto, il secco ”No” del Professore – «Si può fare politica in molti modi» – il Pd cerca con Bersani un’alternativa al dimissionario Delbono Pd da se stesso, prima di questa richiesta di soccorso su Bologna, è stato pochi mesi fa verso il finire dell’anno appena trascorso. I rutelliani minacciavano una microscissione, Dario Franceschini e i veltroniani si davano alla guerriglia interna. Nell’immediata vigilia del suo insediamento insomma Pier Luigi Bersani si trovava già a dover affrontare le prime grane interne.

E riecco allora spuntare l’ipotesi salvifica: «Si sta facendo strada l’idea di un estremo tentativo – scrivevano in qui giorni i retroscenisti del Corriere della sera – quello di coinvolgere Romano Prodi offrendogli la presidenza del Pd che originariamente Bersani aveva in mente di affidare a Rosy Bindi. Finora l’ex premier ha sempre rifiutato questa prospettiva. Ma anche in politica tentar non nuoce: riuscire a raggiungere questo obiettivo darebbe maggior respiro al segretario e gli consentirebbe di affrontare le beghe interne con maggiore tranquillità. Infatti con Prodi alla presidenza del Pd difficilmente Franceschini e i veltroniani potrebbero continuare la loro battaglia in nome del “vero” Partito democratico». Del resto Prodi è l’uomo che nell’immaginario del popolo ulivista incarna il Pd, è colui, si dice, che potrebbe dare a Bersani la patente di autentico «democrat» e dimostrare che la sua segreteria è in linea di continuità con il farsi progressivo di un’area progressista in via di definizione. Ma quell’ipotesi cade abbastanza presto: Prodi apprezza l’interessa-

Il «no» alla candidatura di De Luca di fatto aiuta il governatore uscente

E intanto Di Pietro abbraccia Bassolino di Angela Rossi

NAPOLI. No alla candidatura del sindaco di Salerno, De Luca, a Governatore della Regione Campania per il Pd. Antonio Di Pietro si oppone senza mezzi termini ma in realtà è un’opposizione che di fatto regala, non si sa se intenzionalmente o meno, un gioco di sponda ad Antonio Bassolino e quanto possa essere una candidatura vicina alle corde del moralizzatore Di Pietro, è tutto da scoprire. «Ma mica De Luca se l’è comprato il Pd? - ha dichiarato infatti l’ex magistrato -. Mica ce lo ha detto il Padreterno che deve essere lui? Non è assolutamente il nome adatto per dare alla Campania la svolta che merita. Non vedo – continua – perché impiccarsi al ricatto, alla forzatura di uno solo».

Questo il commento del leader dell’Idv che comunque conferma l’accordo con il Pd in tutte le altre regioni dove si andrà alle urne tra pochissime settimane. 1Non c’è un veto dell’Idv – precisa ancora Di Pietro – c’è un nome che il Pd propone e su cui il resto della coalizione non è d’accordo.Voglio uscire dalla lotta tra cacicchi o tra sultani, questo non mi interessa. Allora, se la suonano e se la cantano tra di loro? Noi diciamo che la candidatura di De Luca non unisce ma divide. Di più. Osservo che è lui come candidato ad essere solo, non il centrosinistra ad essere spaccato»? Fin qui le esternazioni ufficiali del leader dell’Idv ma se ripercorriamo a ritroso qualche mese di storia, la prospettiva nel valutare le cose potrebbe essere diversa. Non è infatti la prima volta che Di Pietro, opponendosi a De Luca, fa da apripista a Bassolino visto che altre proposte credibili al momento in Campania non sem-

brano esserci. Anche questa volta, quindi, la chiave di lettura potrebbe essere proprio questa visto che l’unico che ha interesse ad indebolire De Luca è proprio l’attuale Governatore. Il quale, in alternativa al sindaco di Salerno, starebbe pensando di riproporre per la terza volta il proprio nome.

«Non possiamo mettere la stessa faccia – afferma sempre Di Pietro – che governa da anni e anni il suo territorio e spacciarla per il nuovo. La sua politica non rappresenta la discontinuità. Noi dell’Idv siamo per la politica del meno peggio, della rassegnazione. La Campania deve voltare pagina. Una stagione del centrosinistra è finita». Dal punto di vista della giustizia poi, Di Pietro fa infine sapere che il suo suggerimento «all’imputato De Luca è di impiegare il suo tempo a difendersi nei processi». Stessa sorte però vive Bassolino sul cui capo pendono diversi procedimenti giudiziari e comunque rappresentante di una rete di poteri consolidati e di rapporti tra Pubbliche Amministrazioni, consulenti, associazioni varie, borghesia professionale che proprio per la loro composizione potrebbero rischiare di scivolare facilmente verso la corruzione. Quindi, ufficialmente, De Luca «ha il peccato originale – afferma il deputato ribelle dell’Idv, Francesco Barbato – dei processi in corso che comunque rappresentano una macchia. Dieci e lode a De Luca come amministratore per come ha trasformato Salerno in una città modello ma in attesa che chiarisca la sua posizione non possiamo sdoganarlo». Quanto al nome alternativo a De Luca, oggi l’Idv promette sorprese clamorose. Staremo a vedere.

mento ma poi si nega, annunciando che voterà via mail alle primarie, senza nemmeno dire per chi. Esibisce un certo distacco dalle questioni politiche italiane e da quelle del Pd in particolare. Dice che sta studiando molto. Perché infatti doveva essere proprio lui a togliere le castagne dal fuoco a D’Alema che nella sua prima esperienza di governo lavorò di cesello al suo siluramento? Caduta quella ipotesi ecco ripresentarsi a distanza ravvicinata il nuovo appello a Prodi. Per Bologna stavolta, laddove il Pd subisce un altro colpo alla sua immagine per le vicende del sindaco Delbono. Mentre Antonio Di Pietro, dopo l’accordo sigla-

Prodi per il Pd è come Cincinnato. Il politico romano che s’era ritirato dalla vita attiva e di cui il popolo supplicava il ritorno per cavare d’impaccio la città to con Bersani per le regionali alza il suo veto in Campania all’unica candidatura Pd su piazza (quella di Di Luca) e mentre la teodem Paola Binetti accusa il centrosinistra di aver consegnato la leadership culturale ai radicali. Mentre insomma fallisce quell’idea di Pd come grande sintesi tra culture e valori diversi.

E in effetti l’unico a riuscire ad abbozzare quella sintesi è stato Prodi, si torna a dire. Ma ecco che il professore pur lusingato, addirittura commosso, torna a negarsi. E al Presidente della Regione Emilia Romagna, Vasco Errani, che chiede un «segnale di amore verso la città» Prodi risponde che «segnali d’amore alla città se ne possono dare in tanti modi... bisogna vedere qual è il segnale d’amore che ha più effetto». Il professore preferisce il ruolo di padre nobi-


politica

2 febbraio 2010 • pagina 9

Lo scontro con la “minoranza” rischia di ingessare definitivamente i democratici

Cento giorni in silenzio. Bersani in cerca di politica I leader locali lo assediano, gli alleati lo contestano, addirittura Chiamparino punta alla successione: diario di un avvio durissimo di Antonio Funiciello o slogan dei «primi cento giorni di governo» se lo inventò Franklin D. Roosevelt quasi ottant’anni fa, dopo la prima vittoria presidenziale del ’33. I cento giorni rooseveltiani aprivano il new deal con interventi clamorosi, come la chiusura delle banche americane per quattro giorni. Anche Pierluigi Bersani, per il quale oggi scadono i primi cento giorni alla guida del Pd, avrebbe voluto chiudere il partito per qualche tempo, così da poter ristrutturare con calma quanto fatto - a suo giudizio malamente - dalla vecchia gestione. Ma l’agenda politica e le scadenze elettorali proprio non gliel’hanno permesso. Ha dovuto così sporcarsi le mani in quell’amalgama mal riuscito di oltre tre milioni di militanti democratici che cento giorni fa l’hanno eletto segretario del partito, forte di un profilo politico robusto. Lui, ultima propaggine del Pci emiliano, aveva reclamato contro Franceschini (e soprattutto contro Veltroni) la centralità di un partito pesante, con un articolato organigramma di quadri nazionali e locali, che s’incaricava di ridare vita a quella coalizione modello Unione di cui era stato la star negli ultimi due anni prodiani.

L

le dell’Ulivo, del Pd, dell’Italia dei ceti riflessivi e dopo dopo essersi sottratto all’abbraccio di Bersani vola alto: «A Bologna serve uno slancio, serve un salto di lavoro in comune, ma prima di tutto una sosta nell’avvelenamento reciproco, nella tensione così prolungata che è, però, anche tensione di tutta la società italiana, non solo di Bologna». È un rotondo e fragoroso “no” quello di Prodi. Un no di chi, come è stato giustamente detto, non si fida più di un partito dalle cui divisioni itnerne, dalle cui faide è stato lui stesso stritolato ben due volte.

Ricevuto, il “no” di Prodi, il Pd di Bologna va in conclave insieme al segretario Pier Luigi Bersani per sciogliere i nodi delle prossime elezioni bolognesi. Intanto il Pd sembra smarrito. Senza parole. La presidente del partito Rosi Bindi non si pronuncia: «Voglio tanto bene al mio partito e troppo a Prodi per dire qualcosa su questo argomento». A parlare di Prodi come unica salvezza possibile è invece la senatrice Pd Mariapia Garavaglia «Un’eventuale discesa in campo di Romano Prodi come candidato sindaco di Bologna poteva costituire un atto risolutivo non solo per le sorti del centrosinistra nel capoluogo emiliano, ma anche per l’intera politica nazionale». E poi il climax: «l’esperienza e il valore di Prodi sono indubbi. Se essi torneranno al servizio dell’Italia, sarà un vantaggio per tutti quanti credono con forza alla possibilità di un rilancio del Pd e del nostro Paese. Si sa che Prodi è molto occupato, anche a livello internazionale, ma anche questo e’ il segno che si tratta della persona giusta». Prodi come Cincinnato dunque. Il politico romano che s’era ritirato dalla vita attiva e di cui il popolo supplicò il ritorno. Solo che Cincinnato s’era ritirato dopo aver vinto. E anche questa differenza dice molto del Pd e della crisi di leadership nel centrosinistra italiano.

nistra radicale a dettare legge, alleandosi col Pd dove gli conviene e lasciandolo alle prese con i suoi problemi altrove.

Il Pd arranca. In Puglia è stato travolto da un Nichi Vendola che prima di essere rivitalizzato dagli errori e dalla mancanza di prospettiva dei democratici, era praticamente alla fine della sua carriera politica. Da una parte la giunta regionale pugliese abbattuta dalla scandalo delle tangenti, dall’altra il naufragio del neonato partito Sinistra e libertà, dopo l’ennesima scissione al buio dentro Rifondazione comunista. Ci voleva il new deal democratico di Bersani per risuscitare Vendola e farne l’alfiere della sinistra anti-apparato. Il caso Puglia, tanto discusso nei giorni scorsi, resta perfetto per rappresentare le difficoltà di gestione politica di un partito che doveva, con Bersani, ritrovare se

Pd, né tanto meno prefigurare per il partito una missione politica generale. L’asse con l’Udc poteva essere una prima traccia rappresentativa di questa missione, ma l’incapacità di perseguirla convincendo il potenziale alleato della bontà di un progetto che superasse i vecchi schemi, l’ha oggi profondamente compromessa. L’idea di offrire a Casini la leadership di un’armata Brancaleone modello Unione, fa ridere prima di tutti Casini stesso, che ha chiarito in più occasioni di non essere interessato. Non solo. Ma proprio nel tentativo di rincorrere quella traccia, Bersani ha visto sgretolarsi la maggioranza interna che lo ha eletto segretario, prima col boicottaggio interno di Rosy Bindi, poi col voltafaccia pubblico di Romano Prodi che si chiede chi comanda nel Pd e pare orientato a rifiutare l’invito di Bersani a candidarsi come sindaco di Bologna. È stato l’appoggio del mondo prodiano a legittimare le ambizioni di comando di Bersani: senza questo appoggio il Pd si sarebbe spaccato tra ex Ds ed ex Margherita e il Pd avrebbe chiuso bottega cento giorni fa.

Spesso si ha la sensazione che a comandare nel Pd ormai siano Di Pietro, Pannella e la sinistra radicale che firmano armistizi (deboli) solo quando a loro conviene

Oggi il Pd è, invece, ovunque sotto schiaffo. Dentro e fuori il Nazareno è tutto un mirare agli organi vitali dei democratici. Sotto schiaffo dei cacicchi locali, tutti schierati al congresso per Bersani, che pretendono di seguitare a gestire il partito locale in continuità con quanto fatto negli ultimi anni, a dispetto di risultati elettorali sempre peggiori. Con le regionali alle porte, i feudatari democratici hanno trovato il loro terreno privilegiato per tenere sotto minaccia un partito nazionale che avrebbe bisogno di uscire indenne dal voto di primavera. Non bastassero gli schiaffi dei cacicchi, le lotte fratricide al vertice nazionale completano l’opera del fuoco amico con mirabile maestria, con dirigenti chiaramente in debito di idee e vigore politico, impegnati in una competizione interna senza scopo. Ma più di quanto il Pd riesce a farsi male da solo, sanno fare i potenziali alleati, con Di Pietro, Pannella e la si-

stesso nell’aggancio alle tradizioni di riferimento e, al contrario, pare più spaurito di prima. E andare, nelle tredici regioni al voto, con poco meno di tredici strategie politico-elettorali differenti, non fa altro che aumentare la confusione sul breve periodo e sul disegno complessivo di rilancio del partito. Dietro le tredici diverse strategie politico-elettorali sembra nascondersi la debolezza di una leadership che non riesce a riempire di significati e obiettivi particolari il cammino del

Chi è vicino a Bersani si dà un gran da fare per attaccare la minoranza interna che boicotterebbe la gestione unitaria del partito. Ma, a guardar bene, l’unica forza di Bersani è l’attuale debolezza di quel 47% di partito che non l’ha votato ormai cento giorni fa. Una minoranza tanto numerosa, se fosse organizzata e avesse essa una missione da offrire al Pd, sarebbe vincente su Bersani in pochi mesi, qualunque sia il verdetto delle regionali. Non a caso da Torino, il sindaco Chiamparino si è già di fatto candidato a succedere a Bersani, benché il mandato di quest’ultimo dovrebbe scadere, a norma di statuto (articolo 5 comma 1), tra ben quattro anni. Sebbene Bersani sia formalmente il segretario deputato a portare il Pd alle elezioni politiche del 2013, alcuni dei più importanti suoi dirigenti ne mettono nella sostanza in discussione il ruolo, a poco più di tre mesi dall’inizio del suo mandato. Una situazione pasticciata da cui il Pd non riuscirebbe a venire fuori neppure se vincesse in Lombardia. E si fa per dire, naturalmente.


panorama

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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Province addio? Non basta la parola ella campagna elettorale per le ultime politiche prese rapidamente piede un argomento di grande impatto: l’abolizione delle Province. Ci sono, infatti, delle buone e ottime ragioni per fare a meno delle Province e per impiegare il personale amministrativo in altri settori e, al contempo, per rinunciare a un numero non piccolo di assessori con tutto il codazzo di aiuti vari e consulenze. Le buone ragioni sono di ordine contabile e di efficienza. Le amministrazioni provinciali hanno un loro costo che grava sul bilancio dello Stato e delle famiglie: ci sono tasse, imposte, ticket da versare, mentre i servizi resi in cambio non si sa quali siano. Senza contare che negli ultimi tempi le amministrazioni provinciali - i presidenti e le giunte - si sono dedicate alle cosiddette “politiche culturali” il cui scopo sarebbe la promozione del territorio, ma il cui risultato è la facile gestione della spesa.

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Anche in settori nei quali potrebbero dare un valido contributo, ad esempio la manutenzione degli edifici scolastici - dalle Province dipendono direttamente le scuole di secondo grado - le amministrazioni provinciali dormono che è una bellezza e l’assessore alla cultura o alla Pubblica istruzione è sempre l’ultimo uomo della sua provincia a conoscere lo stato dell’arte degli istituti scolastici. Insomma, le Province non servono a nulla. Tutti lo sanno - anche il governo - che in campagna elettorale aveva detto che una volta a Palazzo Chigi le Province sarebbero state soppresse. Invece… Con otto voti a favore e tre contrari la giunta per le elezioni della Camera ha dichiarato, a maggioranza, compatibili con la carica di sindaco o presidente di provincia 12 deputati. Tutti del Pdl. Solo due esempi: tra i campani, i parlamentari Luigi Cesaro (nella foto), presidente della provincia di Napoli e Edmondo Cirielli, presidente della provincia di Salerno. Appunto, sono del Pdl e potranno, insieme agli altri dieci colleghi, sette eletti nelle fila del Pdl e tre in quelle della Lega, continuare a rivestire la carica amministrativa e quella politica. Insomma, deputati e presidenti di provincia. Proprio loro che hanno chiesto i voti per l’abolizione della Provincia hanno lottato per essere contemporaneamente deputati e presidenti di provincia. Dunque, non solo l’impegno elettorale è stato disatteso, ma anche l’incompatibilità tra la carica di deputato e quella di presidente di un ente locale è stata ritenuta un particolare irrilevante.

Può darsi che non sia facile cancellare con un tratto di penna le cento Province d’Italia. Può darsi che ci siano nell’agenda di governo dei temi più pressanti e urgenti. Ciò che invece è sicuro è che i deputati della maggioranza di governo avrebbero potuto pensare e agire in modo diverso: avrebbero potuto considerare reale il problema dell’incompatibilità e del doppio incarico proprio in omaggio alla loro campagna elettorale e al bisogno che avevano evidenziato di abolire le Province.

Il mondo in un barile (da 200 dollari) Negli Usa ormai si teme il boom del petrolio dopo la ripresa di Alessandro D’Amato a globalizzazione è davvero un processo irreversibile, del quale non è possibile fare a meno? Jeff Rubin, uno dei maggiori economisti canadesi, è convinto di no. Anzi, alla fine delle recessione economica che tutti pronosticano, l’economista canadese pronostica che ci sarà un ritorno al “locale” rispetto al globale, in nome dell’insostenibilità del ritmo e del modello di crescita che ad oggi è in auge. E la causa, secondo Rubin, è la sempre crescente domanda di petrolio che renderà insostenibili i costi dell’economia mondiale. La tesi definita dal Financial Times «una prospettiva originale, provocatoria e persuasiva» – è contenuta nel libro Che fine ha fatto il petrolio (Elliot Edizioni) e fa piazza pulita di ogni furore ideologico per mettere a nudo - in mancanza ancora di una fonte energetica sostitutiva del greggio - i limiti della situazione attuale del rifornimento.

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Nel libro l’autore fa una

cosa succederà quando, come lui prevede, il greggio raggiungerà di nuovo i 200 dollari al barile come è successo recentemente?

Tutto - spiega l’economista canadese - si ferma: in un mondo con i prezzi del petrolio a tre cifre la circolazione delle merci e la produzione petrolchimica entrano in crisi. Gli effetti collaterali sull’economia degli stati più dipendenti - ma anche degli altri - sono drammatici. Già in passato ci sono state recessioni causate dagli elevati prezzi del petrolio: basti pensare all’Italia degli anni Settanta e alle domeniche senza auto. Ogni volta la ricetta - al di la della immediata stretta sui consumi petroliferi - per curare l’economia malata è stata la solita e la più a portata di mano: un nuovo approvvigionamento di petrolio a basso costo. A patto, naturalmente, di avere riserve petrolifere a disposizione. Ma oggi la situazione è veramente cosi? Rubin ha forti dubbi.Anche perché, come ha spiegato al Business Climate Change Conference canadese, oggi chi consuma di più è proprio chi dovrebbe garantire l’approvvigionamento: «Indovinate chi sta aumentando più vertiginosamente la domanda», chiede Rubin. E risponde: «No, non è la Cina: sono i Paesi OPEC, più Russia e Messico». E perché aumenta? Perché laggiù la benzina costa 25 centesimi, e l’olio combustibile per l’elettricità appena 7 cents. Ciò mantiene alto il consenso per quei governi. «Già, proprio quei Paesi che, vi avevano detto, avrebbero provveduto a rifornirvi abbondantemente di greggio. Smettete di preoccuparvi per quanto petrolio producono, e cominciate a preoccuparvi di quanto ne consumano», dice Rubin durante la conferenza, come scrivono sul blog Petrolio della piattaforma Blogosfere. Saranno quei paesi a mettere in difficoltà gli altri, perché non potranno garantire il ritmo d’esportazione che hanno tenuto fino ad oggi.

Per l’economista canadese Jeff Rubin il costo del greggio addirittura potrà influire sul futuro della globalizzazione

considerazione e una previsione. La considerazione è che l’aumento del greggio fino a quasi 150 dollari al barile, avvenuto fino alla metà del 2008, non è imputabile solo a fattori straordinari di natura finanziaria (come voleva chi, come il ministro Tremonti, imputava la crescita del prezzo alla speculazione sui futures delle banche d’affari), ma ha incorporato gli effetti del forte aumento della domanda e dei sempre più alti costi di estrazione dei nuovi giacimenti. La previsione è che quel record potrà essere raggiunto e superato entro pochi mesi consolidando livelli anche superiori ai 200 dollari. Quando? Non appena la crisi economica finirà: sarà a quel punto che il ritmo di crescita del prezzo del greggio crescerà in maniera esponenziale, portando così il mondo a dover ri-definire il modello di crescita fin qui utilizzato, basato sull’utilizzo di energia dal petrolio. Rubin, che ha lavorato al ministero del Tesoro e dell’economia canadese e presso grandi banche d’affari, nel libro parte da una dettagliata disanima dei meccanismi attuali dell’economia globale dove un’azienda può spostare tranquillamente le sue aziende in Cina per avvantaggiarsi dei bassi costi della manodopera e poi ricevere in cambio il prodotto finito, trasportato su una nave mercantile alimentati da carburanti a buon mercato. L’intera struttura dell’economia mondiale dipende dal prezzo e dalla disponibilità di petrolio. Ma

Per questo, alla fine di questa ondata recessiva, l’idea stessa di ripresa economica deve essere ridefinita perché la domanda di greggio a fronte di un’offerta stagnante renderà - spiega ancora l’autore - insostenibili i costi dell’economia globale. «Prepariamoci - scrive Rubin - ad un mondo più piccolo», in cui non solo si dovrà affrancare la propria economia dal petrolio, ma anche imparare a vivere consumando molto meno energia.


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Dopo Cassino e Pomigliano, Termini Imerese: per la terza volta il Pontefice fa riferimento alla crisi della Fiat

Benedetto sindacalista Quale strategia si nascondo dietro gli ultimi, ripetuti appelli in difesa dei lavoratori di Luigi Accattoli n quest’inverno di crisi l’occupazione è in cima ai pensieri di Benedetto XVI e il suo appello di domenica per i lavoratori della Fiat di Termini Imerese e dell’Alcoa è stato più forte che mai. Quel di più di forza l’ha avuto non tanto dalle parole, che ormai non possono che essere ripetitive, ma dalla tempestività del richiamo, arrivato nel momento chiave delle due trattative. Nel caso della Fiat poi c’è da tener conto della frequenza – ormai eclatante – degli appelli papali a favore degli operai minacciati di disoccupazione negli stabilimenti del gruppo dislocati nell’Italia centro-meridionale: l’altro ieri Termini Imerese in Sicilia, il 24 maggio Cassino nel Lazio, il 1° marzo Pomigliano d’Arco in Campania.

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generici ma fanno riferimento a questioni specifiche. Con l’appello che aveva formulato in maggio dalla piazza centrale di Cassino, Benedetto aveva parlato di “precari”, “lavoratori in cassa-integrazione”,“licenziati”e giovani che “fanno fatica a trovare una degna attività lavorativa”.Va detto più in generale che la preoccupazione per le conseguenze della crisi economica sulla vita delle persone più deboli segna fortemente la predicazione di Benedetto XVI lungo gli ulti-

mi diciotto mesi, cioè da quando sono iniziati gli sconquassi finanziari e le chiusure delle imprese. Al cuore di questo periodo vi è stata la lunga elaborazione e la pubblicazione dell’enciclica sociale “Caritas in veritate”, nella quale tratta a lungo della disoccupazione e critica i fenomeni attualissimi della “delocalizzazione delle attività produttive” e della “deregolamentazione generalizzata”che rischiano di incentivarla.

Appassionata nell’enciclica è la descrizione delle ricadute della disoccupazione sul lavoratore: “L’estromissione dal lavoro per lungo tempo, oppure la dipendenza prolungata dall’assistenza pubblica o privata, minano la libertà e la creatività della persona e i suoi rapporti familiari e sociali con forti sofferenze sul piano psicologico e spirituale. Desidererei ricordare a tutti, soprattutto ai governanti impegnati a dare un profilo rinnovato agli assetti economici e sociali del mondo, che il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo”. Dare un profilo rinnovato agli assetti economici: è questo il punto chiave della predicazione del Papa. Egli – come i suoi predecessori tutti, da Leone XII a Giovanni Paolo II – ritiene che vada rifatta l’economia del mondo perché possa tener conto dell’obiettivo primario della piena occupazione. Sempre nell’enciclica, Benedetto fa suo l’appello

Già nell’enciclica «Caritas in veritate» si parlava lungamente del dramma della disoccupazione

Tre appelli papali per tre stabilimenti della Fiat in meno di un anno: se non è insistenza questa, ed entrare nel merito e fare pressione! Ma anche le parole – domenica come le altre volte – sono state impegnative. Ha chiesto a “imprenditori, lavoratori, governanti”di “fare tutto il possibile” per salvare l’occupazione: con ogni evidenza non si tratta – almeno nelle intenzioni – di un richiamo morale che non fa male a nessuno ma di una pressione diretta sul Governo Berlusconi e sulle due industrie al fine di ottenere un ripensamento di quanto è stato forse già deciso. Colpisce anche la puntualità dei richiami, che non sono mai

epocale del predecessore che il 1° maggio 2000, in occasione del Giubileo dei Lavoratori, aveva sollecitato la costituzione di “una coalizione mondiale in favore del lavoro dignitoso”, incoraggiando l’Organizzazione Internazionale del Lavoro che ne aveva lanciato l’idea.

Papa Benedetto segue pienamente Giovanni Paolo negli appelli per gli operai che rischiano di perdere il lavoro. “Mi permetto di riproporre alle organizzazioni sindacali questo grande obiettivo dell’occupazione per tutti”aveva detto una volta il papa polacco (Prato, 19 marzo 1986), che era stato operaio e al quale i sindacati italiano apparivano timidi. “Se in questo non reclameranno gli uomini reclamerà Dio” dirà in tono ancora più alto, improvvisando, il 19 marzo 1994 parlando nell’Aula Nervi ai dirigenti sindacali italiani, argomentando che “se l’attuale sistema economico non garantisce l’occupazione, occorre con coraggio rivederlo e, se necessario, correggerlo”. E ancora, nella stessa occasione: “Voi, rappresentanti dei sindacati, dovete esigere il mutamento di questo ordine”. Benedetto non usa questi toni drammatici ma afferma la stessa dottrina e persegue gli stessi fini di solidarietà con i lavoratori.Tre interventi in undici mesi per gli stabilimenti Fiat che rischiano la chiusura ne sono la prova acclarata. www.luigiaccattoli.it

Sfide. Il sostegno dell’Udc a Renata Polverini indica un nuovo rapporto tra elettori e eletti

Se la politica riparte dal basso di Luciano Ciocchetti o slogan con cui l’Unione di centro si presenterà agli elettori alle prossime eleizoni regionali del Lazio dice: «Cambia la Regione, al Centro ci sei tu». Un messaggio che definisce l’obiettivo politico dell’Udc, ma soprattutto la strategia adottata per perseguirlo. La sfida è chiara: cambiare la guida regionale. Altrettanto evidente, in questi mesi, è il cammino intrapreso per raggiungere tale auspicato risultato: in una stagione politica in cui il rapporto tra territorio e politica appare ormai perduto, con lo svolgimento di una conferenza programmatica in ciascuna delle cinque province laziali e nella città di Roma, si è dato vita alla costruzione di un autentico partito di programma con vocazione territoriale, coerentemente orientato a consentire alle proprie organizzazioni locali la scelta delle alleanze di governo ritenute le più idonee per il bene comune delle stesse comunità.

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Tenendo ben ferma la barra al centro abbiamo riproposto, nel patto stipulato con Renata Polverini e non con la coalizione, le no-

stre battaglie di ieri e di oggi (a partire dalla riduzione del numero delle Asl con l’allontanamento dei “partiti” dalla gestione della sanità) che continueranno ad essere il nostro impegno per il domani. Famiglia, lavoro, sanità, modernizzazione, giovani, nuovo sostegno alle imprese, ambiente e territorio e nuova governance sono alla base di questo Pat-

In un clima di costante confronto e dibattito pubblico – più unico che raro in politica –, e con lo stesso spirito di apertura, l’Udc del Lazio si appresta a vivere le prossime elezioni regionali, a partire dalla definizione della lista. Nella costruzione di una lista che sia la più competitiva possibile si sta cercando, infatti, di dar vita a delle significative contaminazioni con esponenti della società civile che intendano incrociare il nostro cammino politico, garantendo il rispetto degli equilibri provinciali e regionali. Ora a tutti noi, dirigenti e semplici iscritti dell’Unione di Centro, candidati e volontari, spetta il compito di non disperdere le tracce del cammino sin qui fatto perché – come ci ricorda provocatoriamente George Orwell – «chi controlla il passato controlla anche il presente e il futuro».

Nel Lazio il problema non è solo cambiare la Regione, ma impostare una politica che rimetta al centro la persona to di Governo. Un patto, per la verità, che non solo disegna un ambizioso progetto di modernizzazione del Lazio, ma che indica soprattutto la strada da percorrere per realizzare tale obiettivo: adottare a livello regionale il metodo e gli strumenti organizzativi e procedimentali propri dalla pianificazione strategica. Insomma, rimettere i cittadini al centro del’agire politico è la chiave di volta per guidare con sicurezza il Lazio verso un futuro di valore.


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La malattia che ha colpito l’Italia non è neanche più lo sta

Libera scuola Gli scritti di Luigi Einaudi e Salvatore Valitutti contro il monopolio dello Stato nel sistema educativo di Giancristiano Desiderio Pubblichiamo uno stralcio dell’introduzione al libro La libertà della scuola, una raccolta di scritti di Luigi Einaudi e Salvatore Valitutti (a cura di Giancristiano Desiderio) edita da Liberilibri di Macerata. a scuola in Italia si rinnova se rinasce l’insegnamento libero, sia dentro sia fuori l’ordinamento dello Stato. La malattia, ormai cronica, di cui soffre la scuola italiana non è neanche più lo statalismo, ma una particolare patologia che, coincidendo con la fine della scuola di Giovanni Gentile e la nascita della scuola di massa priva di selezione e merito, ha messo capo alla scuola sindacale o corporativa nel sistema dell’istruzione primaria e secondaria e al nepotismo cattedratico nel sistema universitario. Il sistema della pubblica istruzione in Italia è messo così male che un’altra riforma – come dimostrano i numerosi fallimenti della scuola e dell’università – non riformerebbe nulla perché sarebbe assorbita dalla gigantesca macchina scolastica che nelle sue stesse abnormi dimensioni fisiche denuncia la malattia di cui soffre. La critica della scuola unica statale fatta da Einaudi e Valitutti ha proprio questo merito: dimostra come l’esistenza esclusiva del modello statale dell’istruzione non solo sia un’inaccettabile negazione della libertà educativa, ma a lungo andare sia un modello che divora se stesso, che distrugge cioè la stessa “scuola di Stato”. La scuola del monopolio basata sulla creazione e sull’amministrazione del valore legale del diploma è una scuola che, crescendo e operando ben al di là delle sue reali possibilità, svaluta nei fatti i suoi stessi diplomi e diplomati, non contribuendo così né alla formazione di uomini né alla pre-

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Il presidente Luigi Einaudi, presidente della Repubblica dal 1948 al 1955. Nella pagina a fianco, Salvatore Valitutti, sottosegretario di Gonella alla Pubblica Istruzione

parazione di tecnici. Ripeto: il grande merito della critica di Einaudi e Valitutti risiede soprattutto nell’evidenziare la necessità di uscire dal monopolio statale per creare un’offerta scolastica pluralista che, avendo la libertà come mezzo e come fine, salvi la stessa“scuola di Stato” restituendole autorevolezza e riconoscendole la funzione di garante del diritto all’istruzione che essa oggi ha di fatto perduto. In questo senso Einaudi e Valitutti non pensano solo la scuola, bensì l’Italia e il valore delle istituzioni, riallacciando la scuola e la cultura alla storia risorgimentale e all’ideale della libertà. A ben vedere, allora, questa introduzione può avere un significato se mette insieme queste due estremità della stessa corda: scuola e storia d’Italia, educazione e libertà civile.

La critica di Einaudi e Valitutti sta soprattutto nell’evidenziare la necessità di uscire dal monopolio statale per creare un’offerta scolastica pluralista che abbia la libertà come mezzo e come fine La storia della scuola italiana è un capitolo della più ampia e particolare storia nazionale. La celebre frase di Massimo D’Azeglio: «L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani», è una vera biografia non scritta della nazione. Il modo in cui si realizzò il Risorgimento condizionerà tutta la storia futura dell’Italia, che fu fatta non dagli italiani o da un movimento di popolo, ma da una ristretta élite. La dicotomia di élite e popolo si tradurrà in quella di Stato e nazione. Fin da subito fu chiaro il “caso italiano”: una riforma intellettuale e morale del costume italiano che, in una situazione “normale”, avrebbe dovuto essere il presupposto e non la conseguenza del Risorgimento e della “nuova Italia”. Il capitolo della scuola e delle sue istituzioni è parte di questa storia capovolta ed è uno dei molteplici tentativi compiuti per “fare gli italiani”. L’Italia liberale, la cui classe e i

cui uomini – moderati e democratici, cattolici e liberali, piemontesi e garibaldini – fecero la rivoluzione risorgimentale anche sulla spinta dell’ideale della libertà – libertà economica, civile, religiosa –, affrontando il problema della scuola e della sua organizzazione, si trovò dinanzi l’ostacolo del monopolio ecclesiastico della cultura e il conseguente dilemma: il monopolio della Chiesa è in contrasto con la libertà della scuola e dell’insegnamento, ma il monopolio dello Stato non è altrettanto in contrasto con l’insegnamento libero? La risposta fu: non si può fare altrimenti. L’ideale della libertà risorgimentale aveva messo capo, data la storia italiana dalla Rinascenza all’Ottocento, a una libertà fragile: non era lo Stato a sorgere dalle libertà civili degli italiani ma, all’inverso, erano le libertà civili che avevano bisogno dello Stato e del suo intervento. Ecco perché al monopolio della Chiesa – al seminario, al prete che di fatto era il professore – si rispose con il monopolio dello Stato: la scuola libera nasceva in Italia come scuola dello Stato. Fu una hegeliana astuzia della storia a volere che ad attuare la scuola di Stato fosse il frutto più bello della nobile tradizione delle scuole libere napoletane, ossia Francesco De Sanctis? Chissà, le “astuzie” non sono mai facili da comprendere e si lasciano variamente interpretare. Sta di fatto che toccò proprio a De Sanctis, in qualità di ministro della pubblica istruzione, nel 1861 dare il la alla nascita della scuola di Stato nella quale confluirono gli stessi insegnanti della scuola libera. Già Bertrando Spaventa, nei suoi scritti sulla scuola intitolati, appunto, La libertà di insegnamento – di recente ripubblicati dalla Bompiani nel volume delle Opere del filosofo italiano da cui attingo le citazioni che seguono –, così impostava nel 1851 la“questione scolastica”: «L’insegnamento deve essere libero? È lo stesso che domandare: il pensiero ha il diritto di manifestarsi liberamente nella parola?»

Tuttavia, pur essendo a favore della libertà d’insegnamento, egli distingueva tra libertà assoluta e libertà relativa, tra chi vuole la libertà come mezzo ma la nega come fine e chi la vuole come mezzo e come fine, e valutando così le circostanze storiche, il filosofo si dichiarava contrario alla libertà d’insegnamento: «La prima questione da risolvere è la seguente: in uno Stato, in cui non esiste la libertà religiosa e la separazione compiuta dello spirituale dal temporale; in cui la riforma del culto è imposta da un’autorità unica e privilegiata; in cui questa autorità ha governato per lungo tempo il paese, ed è stata padrona assoluta della pubblica istruzione; in cui i nuovi elementi della libertà civile e politica cominciano appena a metter radice, e sono minacciati dalla reazione europea al di fuori, e da quell’autorità privilegiata al di dentro; in cui quelli che più altamente invocano l’insegnamento libero sono questa medesima autorità e i suoi


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atalismo, ma una sua degenerazione corporativa e nepotistica

in libero Stato

fautori, nemici d’ogni diritto e d’ogni libertà che non sia un privilegio; in uno Stato, il quale fosse posto in queste condizioni, sarebbe utile ed opportuno applicare il principio assoluto della libertà d’insegnamento? Noi rispondiamo francamente: no.» Molti decenni dopo, nel 1925, Giovanni Gentile, scrivendo la prefazione agli scritti del filosofo abruzzese sulla scuola, riassumeva efficacemente così: «Per la libertà sì, in teoria; ma in pratica, contro quella libertà che con tanto accanimento era voluta dalla Chiesa e dai suoi amici.» Dunque, tutto molto chiaro, ma paradossale, complicato, come ben sapeva Cavour il quale, più pratico ed empirico e di certo non hegeliano, avrebbe voluto – se solo ne avesse avuto il tempo – la libertà d’insegnamento perché «qual è, o signori, la libertà che non produca alcuni frutti amari, che produca benefizi senza inconvenienti di sorta? Io per me non ne conosco alcuna».

Le posizioni del ministro Cavour e del giornalista Spaventa (...), così distanti in teoria, erano più vicine nella pratica. Nel 1857, in occasione della discussione della legge Lanza sul riordinamento dell’amministrazione centrale dell’istruzione pubblica, proprio Cavour proponeva scuole pubbliche garantite dal comune, dalla provincia e dallo Stato accanto alle scuole dell’insegnamento privato. Stato e Chiesa erano dirimpettai, ma nella prospettiva storica – che era propria di chi aveva fatto l’Italia e non pensava certo di doverla disfare – dovevano convivere e

La storia repubblicana è la storia di una riforma mai fatta. Da Gonella alla Gelmini corrono ben 61 anni, senza nessun risultato nell’adattare la scuola all’epoca della cultura di massa

auto-sostenersi, secondo il principio chiarito dallo stesso Cavour: “Libera Chiesa in libero Stato.” (...) Il miracolo, effettivamente, non poteva essere fatto, perché la libertà civile e culturale dell’Italia che stava nascendo era troppo ristretta e si configurava in questo paradosso: il libero insegnamento – cioè i preti – non credeva nella libertà, e l’insegnamento pubblico – cioè statale – non aveva origine dalla libertà ma dallo Stato. La formazione della

scuola rifletteva la formazione dell’Italia, e come bisognava “fare gli italiani” così occorreva fare la scuola libera. Il rapporto tra lo Stato e la Chiesa e, di riflesso, tra le scuole dello Stato e le scuole della Chiesa, non era pensato e nemmeno praticato come esclusivo, ma come complementare. Il sistema scolastico che si andava a costruire doveva essere una sintesi tra statale ed ecclesiastico, pubblico e privato, confidando nella funzione della scuola di Stato per l’affermazione di una cultura nazionale. In fondo, questo era l’alto disegno formativo che Gentile pensò e in parte realizzò con la “sua” scuola, che in sostanza riprendeva e rammodernava la legge Casati. La scuola di Stato non era pensata per essere unica. Quel modello, però, si impose come unico ed escludente, snaturando nei fatti la scuola che Cavour, Spaventa e lo stesso De Sanctis – quest’ultimo come primo ministro della pubblica istruzione dell’Italia ormai unita – avevano pensata e voluta come scuola varia in cui lo Stato è consapevole di ciò che può e non può fare, quindi dei propri limiti e dei diritti e doveri dei suoi cittadini. Gli uomini che fecero l’Italia pensavano di fatto a una scuola plurale in cui il modello statale e quello privato esistessero e si compenetrassero senza che l’uno prevalesse sull’altro. Invece, ben presto la scuola di Stato divenne il solo ordinamento legale all’interno del quale la stessa scuola privata doveva esistere e organizzarsi. La crescita e l’espansione della “scuola

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di Stato”si avranno con il fascismo prima e con la Repubblica poi. La stessa scuola di Gentile, impostata l’anno prima da Croce nel suo passaggio alla Minerva con l’ultimo governo Giolitti, a sua volta sarà una riforma che da subito verrà riformata e ritoccata a più riprese dal regime di Mussolini. (...) Una scuola, quella gentiliana, che nei suoi assi portanti resisterà fino agli anni Settanta. Ma Gentile fu ministro per un anno appena. Poi tolse il disturbo. Né lui né la sua scuola potevano realmente servire al regime di Mussolini che aveva un appuntamento con la nascente società di massa: nel 1923, lo stesso anno della riforma Gentile, il governo sfornava la riforma del pubblico impiego che imponeva il titolo di studio come criterio necessario della gerarchia degli uffici, apprestandosi a riconoscere legalmente, di lì a qualche anno, ingegneri, architetti, geometri, periti industriali e agrari, chimici, commercialisti. L’autonomia associativa veniva svuotata a favore dello stato giuridico e del relativo controllo politico sulla società e sulle professioni che diventavano corporazioni.

È nel Ventennio che iniziano la forte presenza dello Stato nella scuola e l’utilizzo della scuola a fini politici e di consenso che le sono estranei, e che nell’Italia repubblicana, lungi dal finire, saranno ereditati, rafforzati e anche ideologicamente teorizzati. Così la “scuola di Stato”, nata come garanzia di istruzione e libertà civile, muta pelle e diventa la scuola del controllo sociale, dei sindacati, dell’assistenza. La scuola di Stato finisce il suo compito con un fallimento perché non solo non crea un sistema vario di scuole come fonte delle libertà civili e della democrazia – era questo l’ideale risorgimentale che giunse fino a Gentile – ma distrugge anche se stessa come scuola statale. (...) La storia della scuola nel secondo dopoguerra inizia subito con un grande dibattito sulla necessità della sua riforma che, però, non arriverà mai. Durante la Repubblica la storia della scuola è la storia di una riforma mai fatta. Dal ministro Gonella, 1948, al ministro Moratti, 2001, fino al 2009 con l’attuale ministro Gelmini, corrono ben 61 anni, ma nessuna riforma che ridisegni la scuola nell’epoca della cultura di massa. Così in questo sessantennio, dagli anni Cinquanta a oggi, la scuola finisce. Si esaurisce. Alla fine degli anni Sessanta giunge al capolinea la scuola di Gentile: finisce la scuola per dirigenti ma non nasce la nuova scuola per tutti. La scuola di Gentile non era stata pensata per la società di massa. Si basava su un’impostazione che, a grandi linee, possiamo così riassumere: creava selezione e indirizzo all’ingresso.Vale a dire che chi si iscriveva al liceo proseguiva gli studi all’università, chi sceglieva la scuola industriale e tecnica trovava sbocco nel lavoro. Questo schema finisce nel 1969, ma la scuola di massa conserva la struttura della vecchia scuola piegandola a scopi ed esigenze che le sono estranei (...). La scuola italiana è stata, ed è tuttora, quella che Einaudi chiamava “scuola napoleonica” e Valitutti “scuola ministeriale”. Napoleonica e ministeriale: significa che lo Stato non si limita a svolgere una funzione di controllo e garanzia, ma fonda esso stesso l’unico ordinamento scolastico valido. Lo Stato non solo istituisce e organizza le scuole: lo Stato è la scuola.


mondo

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Diplomazie. Il premier a Gerusalemme per sostenere le sanzioni all’Iran. E Netanyahu lo proclama «combattente per la libertà»

Israeliani d’Europa Berlusconi in visita ufficiale rilancia «le radici giudaico-cristiane» della Ue di Luisa Arezzo o un sogno: che Israele possa entrare un giorno nell’Unione Europea». È con queste parole che ieri Silvio Berlusconi si è rivolto «all’amico Benjamin» Netanyahu, primo ministro israeliano, in apertura del primo vertice intergovernativo ItaliaIsraele. Poche parole, ma decisamente impegnative, che hanno subito messo a tacere sia i mal di pancia di chi non aveva preso bene le sue dichiarazioni di domenica al quotidiano Haaretz («Non si potrà mai convincere i palestinesi della buona volontà di Israele se continuerà a edificare su territori che dovrebbero essere restituiti»), sia chi vedeva sbilanciato negli ultimi tempi il peso della nostra diplomazia a favore dei Paesi arabi e volto a conservare i suoi privilegi con l’Iran. Nelle parole di Giovanni Castellaneta, ex ambasciatore italiano a Washington: «Berlusconi vuole restituire ai rapporti con Israele quella par condicio con i Paesi arabi nell’ambito della politica mediterranea e del Vicino Oriente del nostro Paese». La “svolta” era in cantiere già da qualche mese: nel solo 2009 vi sono state una serie di visite, assai significative, che hanno confermato uno straordinario ampliamento delle relazioni bilaterali: la visita del mini-

«H

stro degli Esteri Lieberman in Italia a maggio, la visita di Netanyahu in giugno, quella in Israele del ministro degli Esteri Frattini in dicembre. Ma è sull’Iran che si starebbe giocando la vera svolta della diplomazia italiana: Berlusconi e Frattini sembrano infatti ritenere giunto il momento di applicare le sanzioni nei confronti della Repubblica islamica di Ahmadinejad. Per il nostro Paese si tratta un segnale forte, maturato nei giorni scorsi e ricostrui-

Bruxelles “gela” subito il Cavaliere: «L’ingresso di Israele nella Ue non è in agenda» ha detto il portavoce di Catherine Ashton, Alto rappresentante della politica estera bile in alcuni passaggi. Si parte dalla visita del nostro ministro degli Esteri negli Stati Uniti e dal suo incontro con Hillary Clinton, segretario di Stato dell’amministrazione Obama, a seguito del quale aveva detto: «Entro fine febbraio sarà presentata al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una proposta di risoluzione che prevederà delle sanzioni».

Il ministro è ritornato sulla questione iraniana durante il suo intervento alla Johns Hopkins University: «La contro-proposta nucleare iraniana è inaccettabile. Il trasferimento all’estero di uranio arricchito avrebbe certamente rappresentato un importante se-

gnale di fiducia, che avrebbe potuto fornire nuovo spazio diplomatico alle negoziazioni. Invece si tratta dell’ennesima opportunità perduta». Parole durissime per chi, fino a pochi mesi prima, non solo aveva sempre dichiarato di voler tenere una porta aperta con l’Iran, ma non aveva mai fatto mistero o messo in discussione il fatto di essere il primo partner economico del regime degli ayhatollah. Infine, a margine della Conferenza internazionale sull’Afghanistan, tenutasi il 28 gennaio scorso a Londra, il ministro ha assicurato che l’Italia «sarà leale» e si dimostrerà pronta ad applicare eventuali sanzioni. Ieri poi, (ma già lo aveva detto nei giorni scorsi in un’intervista rilasciata al quotidiano israeliano Haaretz), il premier Berlusconi ha ribadito: «L’intera comunità internazionale deve decidersi a stabilire con

parole chiare, univoche e unanimi, che in linea di principio non è accettabile l’armamento atomico a disposizione di uno Stato i cui leader hanno proclamato apertamente la volontà di distruggere Israele e negano insieme la Shoah e la legittimità di un focolare nazionale ebraico».

Non si può davvero fare a meno di notare come la nostra posizione sia diventata più rigida verso Teheran, che comunque, non va dimenticato, è un attore fondamentale per la crisi afghana, per quella mediorientale e nella delicatissima questione dell’ escalation nucleare. Come dice a liberal Andrea Margelletti, presidente del Ce.S.I.: «A volte vogliamo essere più realisti del re. La forza dell’Italia è sempre stata nel dialogo, ed è quello che i nostri alleati a volte ci invidiano e a volte ci richiedono». Ovvio allora chiedersi il perché di questo cambiamento di rotta (tenendo presente che una cosa è aderire alle eventuali sanzioni contro Teheran - che non significa necessariamente chiudere la porta al regime - un’altra è

dire «Israele è il nostro miglior alleato», che segna una cesura netta con Ahmadinejad). Intanto molte delle relazioni dell’Iran con il mondo stanno cambiando. Resta ad esempio forte il sostegno della Cina, ma l’appoggio russo è più tenue. La Russia non ha onorato il contratto per fornire all’Iran i missili S 300. L’India, principale fornitore di raffinati dal petrolio, ha ridotto il flusso. Stati Uniti ed Europa tengono consultazioni permanenti sulla crisi iraniana con Arabia Saudita, Emirati Arabi e Turchia (anche se quest’ultima, al riguardo, è molto altalenante). La verità è che sotto l’apparente convergenza di vedute e di toni fra Berlusconi e Netanyahu, si cela anche qualche divergenza, in particolar modo a proposito della collaborazione tra l’agenzia spaziale iraniana e la compagnia italiana di componentistica Carlo Gavazzi. Secondo il Jeryusalem Post, il governo israeliano vuole chiarimenti sulla costruzione da parte della società italiana del satellite “Mesbah 2”


mondo

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Omicidio al-Mabouh a Dubai: l’ipotesi dei servizi trova conferme

Quell’operazione speciale del Mossad negli Emirates di Antonio Picasso uccisione dell’esponente di Hamas, Mahmoud al-Mabouh, avvenuta in circostanze ancora da chiarire la scorsa settimana a Dubai, sembra coincidere con la trama di un giallo di Agatha Christie. C’è infatti un cadavere, con intorno tanti sospetti, ma di nessuno si è matematicamente certi della colpevolezza. La stampa araba attribuisce l’omicidio al Mossad. Questo perché al-Mabouh era un importante dirigente di Hamas, già implicato nel sequestro e poi nell’uccisione di due soldati israeliani, Avi Sasportas e Ilan Sadon, nel 1989. Sempre secondo gli osservatori arabi, le modalità della sua eliminazione ne sarebbero la conferma. Al-Mabouh pare che sia morto per un arresto cardiaco provocato da un’iniezione di veleno. La dinamica ricorda il tentativo di eliminazione che proprio i servizi segreti israeliani misero in piedi nel 1997 ad Amman, in Giordania, contro l’attuale Segretario generale dello stesso movimento islamico-palestinese, Khaled Meshal. Allora l’operazione andò a monte perché la dose di veleno che gli agenti israeliani iniettarono nell’orecchio del “bersaglio” non fu sufficiente per ucciderlo. Del resto altre agenzie di intelligence potrebbero essere altrettanto colpevoli. Tra quelle occidentali il pensiero va alla Cia. Tuttavia da lungo tempo non le si attribuiscono operazioni speciali che implichino la morte di qualcuno. Ne consegue che il sospetto cada anche su quei Paesi che Hamas, in teoria, considera amici. Gli Emirati Arabi possono aver agito per eliminare una presenza scomoda e compromettente sul proprio territorio. Il governo di Abu Dhabi infatti non ha relazioni diplomatiche con Israele, ma ha costruito una rete ufficiosa di legami e partnership economiche che possono averlo indotto a questa scelta.

L’

che si teme possa essere attrezzato con strumentazioni per lo spionaggio. L’esistenza del satellite, ha detto Yiftah Shapir dell’Istituto per gli studi di sicurezza nazionale di Tel Aviv, è stata resa nota nel 2005, quando l’Iran annunciò che il Mesbah, pesante 65 chili, sarebbe stato lanciato con un vettore russo. La Gavazzi, secondo il quotidiano, smentì di essere coinvolta nel lancio. Il ricorso al vettore russo è necessario perchè, secondo gli analisti del Jerusalem Post,Teheran non ha la tecnologia missilistica necessaria per mettere in orbita un oggetto così pesante. Il lancio è stato rinviato più volte e il regime ha annunciato la presentazione a giorni di tre nuovi satelliti, tra cui il Mesbah 2, la cui messa in orbita non dovrebbe avvenire prima del 2011.

Secondo fonti della Difesa israeliana, il vertice intergovernativo sarà anche occasione per condividere con il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e quello della Difesa, Ignazio La Russa, le ultime informazioni di intelligence sul programma missilistico iraniano. Un altro tema in agenda è la fornitura a Israele di velivoli da addestramento M-346 Master prodotti dalla Aermacchi. E forse in discussione ci saranno anche altre imprese. D’altronde, poco tempo fa Frattini ha lanciato un messaggio alle imprese e agli investitori italiani operanti in Iran: «Non possiamo imporre nulla all’Eni, ma la stessa Eni ci ha detto con chiarezza che non ha progetti di grandi investimenti in Iran e che hanno congelato quelli esistenti». Vale qui comunque la

pena di ricordare che l’Eni si è aggiudicata lo scorso ottobre la licenza per lo sviluppo del giacimento giant’ Zubair in Iraq nell’ambito del primo bid round iracheno. E che La produzione di Zubair, uno dei più grandi giacimenti di petrolio dell’Iraq, è pari attualmente a circa 195 mila barili di greggio al giorno. Anche l’ex ambasciatore israeliano in Italia, Avi Pazner, ha detto in un’intervista di sperare che il vertice porti a un cambiamento di atteggiamento delle aziende italiane in affari con Teheran. «Il giorno dopo la visita in Germania di Netanyahu» ha detto Pazner, «la Merkel ha tagliato le attività della Siemens in Iran. Immagino che succederà qualcosa del genere con l’Italia». Oggi e domani molti di questi interrogativi verranno sciolti: in giornata sono previsti diversi colloqui bilaterali e una riunione plenaria con i ministri delle due parti presenti - la prima del genere nei rapporti di Israele con l’Italia, sperimentato finora dallo Stato ebraico solo con la Germania fra i partner dell’Ue conclusa da una conferenza stampa. I sette ministri che accompagnano il premier ripartiranno per Roma entro stasera, mentre Berlusconi resterà anche domani: per essere protagonista in mattinata di un atteso discorso dinanzi alla Knesset (il Parlamento di Gerusalemme), seguito dall’inaugurazione di una mostra di disegni di Leonardo da Vinci, e infine da una tappa a Betlemme, in Cisgiordania, dove incontrerà il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen e dove visiterà la basilica della Natività di Gesù.

durante la guerra di Gaza. Se così fosse, lo stato di tensione fra i nemici di Israele sarebbe proiettato verso una fase di vera e propria eliminazione fisica. Infine puntando la lente di ingrandimento sulla scompaginata realtà politica palestinese, il caso potrebbe essere sintomatico di una faida interna in corso.

È di questi giorni la disponibilità di Hamas nel trovare un punto di riconciliazione con alFatah e la presidenza di Abu Mazen. Una mano tesa, questa, volta a decidere la data per il rinnovo del Consiglio consultivo palestinese e della presidenza stessa. Per questo però è anche necessario mettere a tacere tutti gli esponenti delle frange più estremiste, tra cui alMabouh. La sua morte a questo punto potrebbe rispondere all’esigenza di Khaled Meshal di ripartire sul piano della politica, per vincere nuovamente le elezioni e tornare a governare

La dinamica del decesso ricorda il tentativo di eliminazione che gli agenti israeliani misero in piedi nel 1997 contro l’attuale segretario generale di Hamas, Khaled Meshal

L’uccisione di al-Mabouh, in tal caso, sarebbe stata motivata dalla necessità di conservare i buoni rapporti, seppure informali, che i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc) mantengono con Israele. Sembra inoltre che al-Mabouh fosse a Dubai per trattare l’acquisizione di una partita di armi dall’Iran ad Hamas. L’informazione non è stata confermata da nessuno, d’altra parte la vittima era già stata coinvolta in negoziazioni di questo tipo, sia con Teheran sia con il Sudan. Questo indizio, a prima vista, sarebbe un’ulteriore conferma della colpevolezza israeliana. E se, al contrario, al-Mabouh fosse stato ucciso proprio dai suoi interlocutori iraniani in quanto insoddisfatti del comportamento di Hamas? I rapporti tra quest’ultimo e Teheran sono tesi ormai da un anno, vale a dire da quando il regime degli Ayatollah ha accusato il movimento islamico di non aver saputo contenere la forza d’urto dell’esercito israeliano

a Ramallah. Come si vede, la colpevolezza e l’innocenza sono da attribuire plausibilmente a tutti.Va aggiunto che l’assassinio è stato realizzato in modo talmente preciso che anche le sue imperfezioni sembrano premeditate. La vittima è stata uccisa quando era nella sua stanza di albergo e senza la scorta. È strano che questa non ci fosse. La causa ufficiale del decesso è l’arresto cardiaco dovuto ad avvelenamento. Ma alcuni giornali dicono che alMabouh sia stato strangolato. Di solito, se si vuole uccidere una persona senza lasciare tracce, si agisce in modo differente. Al contrario, la certezza che si sia trattato di un omicidio fa capire che i colpevoli desiderassero che la sua morte non passasse come accidentale. Così era stato per il responsabile della Sicurezza di Hezbollah, Imad Mughniyeh, vittima di un attentato a Damasco il 12 febbraio 2008; anche quello un caso mai risolto. Per assurdo, le dichiarazioni del fratello della vittima non fanno altro che intorbidire le acque. «Mahmoud non era coinvolto in nessun crimine, quindi non può che essere stata Israele!» Ha detto Fayek al-Mabouh. Ma se l’esponente di Hamas era innocente, perché il Mossad avrebbe voluto eliminarlo?


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Moti. Convocata dall’Onda e dal governo, la popolazione scende in piazza ome tutte le grandi rivoluzioni, anche quella islamica è costellata di tradimenti. Primo fra tutti verso se stessa. E allo stesso tempo ha lasciato nella storia un’impronta forse superiore a quella che i suoi leader potevano immaginare. È uno dei tanti aspetti su cui riflettere nei giorni che preparano le celebrazioni dell’11 febbraio in Iran. Il punto è che saranno le prime da quando Mahmoud Ahmadinejad è stato rieletto presidente e da quando contro di lui si è sollevata l’Onda Verde. Il ricordo degli eventi del 1979 sarà la prossima prova del fuoco tra le due fazioni. Non perché l’una o l’altra sia contro la Rivoluzione Islamica, ma perché entrambe ritengono di essere l’unica vera incarnazione di quei principi, traditi dagli avversari. Però la verità probabilmente è che ormai nessuna delle due lo è più. Prima di tutto bisogna ricordare che il regime di Teheran ha deciso di porre un forte freno alle manifestazioni di protesta. Per questo motivo pratico l’11 febbraio sarà per l’Onda Verde l’occasione di tornare in piazza, di manifestare in modo massiccio incorrendo certo nei rischi di scontri e repressioni, ma perlomeno avendo la scusa di copertura di celebrazioni a cui da 31 anni tutti gli iraniani sono chiamati a partecipare massicciamente. È anche per questo che ieri i due principali leader dell’opposizione iraniana, Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, hanno esortato gli iraniani a scendere in piazza in occasione dell’anniversario della Rivoluzione islamica. Mousavi e Karroubi dopo essersi incontrati hanno invitato “la popolazione a partecipare massicciamente” ai cortei organizzati per celebrare la vittoria della Rivoluzione islamica del 1979, chiamando a raccolta i sostenitori dell’opposizione. In questo modo sperano di riaccen-

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Iran, 11 febbraio il giorno del giudizio Ahmadinejad vieta cortei anti-regime Mousavi invita a dare l’ultima spallata di Osvaldo Baldacci

dentali volgeranno al termine», è il messaggio che ieri il presidente iraniano ha rivolto alla popolazione in occasione dell’avvio delle celebrazioni per i 10 giorni di Fajr (alba), che fanno da preludio al 31esimo anniversario della rivoluzione islamica. Ahmadinejad, in visita al mausoleo dell’Imam Ruhollah Khomeini, il fondatore della Repubblica

Il presidente minaccia: «L’oppressione dei Paesi occidentali volgerà al termine». E chiama a raccolta i fedeli pasdaran dere la folla e allo stesso tempo di godere della copertura delle iniziative ufficiali in modo da evitare formalmente l’accusa di aver infranto il divieto a manifestare. Ma intanto il presidente Ahmadinejad ha già ribadito, in un intervento sulla televisione di Stato, che l’11 febbraio il governo non tollererà alcuna manifestazione dell’opposizione. E poi si è affidato alla solita retorica per sfruttare l’emotività nazionalista di questa ricorrenza per rinsaldare la sua base di consenso: «L’egemonia e l’oppressione dei Paesi occi-

Islamica, ha affermato che «gli iraniani deluderanno i nemici del Paesi partecipando in massa alle celebrazioni di quest’anno». Alle 09:33, l’ora esatta in cui il primo febbraio del 1979 l’ayatollah Khomeini rientrava in patria a bordo di un aereo della Air France dopo 15 anni di esilio, le campanelle delle scuole e le sirene delle fabbriche, dei treni e delle navi hanno risuonato in tutto il Paese, come da tradizione. Il presidente ha quindi sottolineato come la rivoluzione islamica sia diventata un fenomeno “globale e ispiratore” per

Oggi si combatte per degli ideali scomparsi

La Rivoluzione tradita Il regime dello shah Mohammad Reza Pahlavi viveva in costante tensione con la sua popolazione, alternando scontri con le ali nazionaliste, moderniste e conservatrici della popolazione. Particolarmente forti erano i contrasti con il clero a causa dei tentativi di erodere il suo potere. La scelta di reprimere le proteste non giovò alla sopravvivenza del regime. Nel 1975 lo shah dichiarò illegali tutti i partiti politici. Le forze di opposizione al monarca erano di ispirazione religiosa, nazional-liberale e marxista. Le proteste di massa iniziarono nel 1978 in reazione ad un articolo della stampa di regime che dileggiava il leader carismatico in esilio Ayatollah Khomeini. La risposta sanguinosa avviò una spirale che portò al blocco del Paese: nella tradizione sciita infatti i martiri vengono pubblicamen-

te commemorati in ricorrenze periodiche a partire dalla data di morte, e questo servì a fornire nuove occasioni di protesta e a cementare i rivoltosi. Reza Pahlavi partì quindi per il Marocco nel 1979, e venne creato un governo che concesse molte libertà alla popolazione. Khomeini non riconobbe il governo Bakhtiar e tornò da Parigi il 31 gennaio 1979. L’esercito L’11 febbraio annunciò il proprio disimpegno dalla lotta e Bakhtiar fuggì. Khomeini, assunse di fatto il potere come capo del consiglio rivoluzionario ed emanò la costituzione che pone il potere politico sotto il controllo di quello religioso. Il 4 novembre 1979 alcune centinaia di studenti islamici occuparono l’ambasciata americana a Tehran e presero in ostaggio circa 50 diplomatici e funzionari, rilasciati solo nel gennaio 1981.

numerosi Paesi. E su questo non ha tutti i torti. Sono in molti infatti a pensare che il risveglio del fondamentalismo islamico sia datato al giorno della presa di potere degli ayatollah sciiti, sebbene oggi il marchio estremista sia più spostato su fazioni sunnite. E si pensa subito a Osama Bin Laden, ai suoi messaggi, ai sequestri di al Qaeda e agli attentati suicidi. Ebbene, tanto per dirne alcune, mentre ancora lo shah cercava di mantenere il controllo della situazione, Khomeini dal suo esilio parigino incitava alla rivoluzione attraverso messaggi registrati su audiocassette che venivano diffuse in tutto il Paese. E il più famoso dei sequestri avvenne a Teheran da lì a poco tempo: la presa di ostaggi nell’ambasciata statunitense da parte dei rivoluzionari sciiti. E sciiti sono stati anche i primi clamorosi attentati suicidi: avvennero in Libano agli inizi degli anni ’80, facendo strage dei contingenti occidentali.

Furono gli Hezbollah a portarli a termine, ma il partito di Dio libanese era appena stato fondato proprio da ufficiali dei pasdaran iraniani. Ma parlavamo di tradimenti. Ce ne sono di antichi, quasi primigenii. Per esempio il fatto cha a cacciare lo shah non furono gli islamisti, ma una coalizione eterogenea e moderata: fu subito dopo che gli ayatollah si rivolsero contro il nuovo governo e assunsero tutto il potere perseguitando gli alleati di prima. La stessa storia - poco raccontata - di giacobini e bolscevichi. Ma più importanti sono i tradimenti moderni, attuali. Se infatti maggioranza e opposizione si contendono il diritto di rivendicare l’eredità della rivoluzione, in realtà entrambe ne sono ben lontane. Più lontana ne è la compagine governativa: la presa di potere di Ahmadinejad è la consacrazione dell’ascesa ai vertici dello Stato di una generazione che non ha fatto la rivoluzione, ma ne è figlia, e ha fatto soprattutto la guerra all’Iraq.Ahmadinejad, pasdaran e basiji, stanno trasformando l’Iran a loro immagine e somiglianza, qualcosa di sempre meno religioso e sempre più simile a una giunta militare, con solide ramificazioni nel controllo dell’economia. Di fronte si trovano studenti che non hanno mai pensato potesse esistere qualcosa di radicalmente diverso dal regime religioso, e a parole non vogliono abbatterlo. Certo però le libertà che chiedono rischiano di minare dal profondo la struttura socio-politica degli ayatollah, dato che passato l’afflato emotivo dell’epoca rivoluzionaria restano vivi in Iran solo i divieti e le repressioni.


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2 febbraio 2010 • pagina 17

Un informatore pronto a vendere i nomi di 1.500 persone

Dopo la sparatoria a una festa, strage in un bar di Torreon

Angela Merkel acquisterà le liste degli evasori fiscali?

In Messico non si ferma la mattanza: uccisi 24 ragazzi

BERLINO. Il governo federale del cancelliere Angela Merkel sta valutando se pagare o meno l’informatore che ha offerto alle autorità tedesche i nomi di circa 1.500 potenziali evasori fiscali, titolari di conti in Svizzera. Secondo i giornali tedeschi, la talpa avrebbe chiesto 2,5 milioni di euro. Si stima che le casse dell’erario in Germania potrebbero incassare dai 100 ai 200 milioni di euro. Un portavoce del ministero delle Finanze non ha voluto dare risposte univoche sulla posizione del governo, ma ha spiegato che l’esecutivo deciderà sulla base di quanto avvenne in passato. Il caso giunge dopo che già nel 2008 la Germania fu scossa da uno scandalo fiscale con pochi precedenti. Sempre grazie a un informatore pagato lautamente, emersero nel Liechtenstein numerose fondazioni create da tedeschi con l’obiettivo di evadere il fisco.

CITTÀ DEL MESSICO. Non si ferma la violenza delle bande criminali nel nord del Messico. Poche ore dopo il massacro di 14 ragazzi durante una festa a Ciudad Juarez, altre dieci persone sono state uccise ed altre 11 ferite da un commando armato che ha fatto irruzione nelle prime ore della notte in un bar di Torreon. Anche in questo secondo attacco le vittime sarebbero per la maggior parte ragazzi e ragazze, tra i 19 ed i 25 anni. A sparare un gruppo di individui armati di fucili d’assalto R15 e Kalashnikov, arrivati a bordo di un 4x4 Hummer. Nella notte tra sabato e domenica 14 ragazzi erano stati trucidati durante una festa a Ciu-

La vicenda scoppiata nel fine settimana ha provocato un dibattito all’interno del governo democristiano-liberale: alcuni esponenti politici si sono detti contrari a pagare un individuo per ottenere dati ottenuti illegalmente; altri hanno spiegato che la lotta all’evasione fiscale fa premio su molte considerazioni. Il Financial Times Deutschland sostiene che la banca coinvolta è la Hsbc, mentre Handelsblatt parla di Ubs.

Cipro, colpo di scena: forse trovato un accordo Ban Ki-Moon: «CoIpito da progresso colloqui di pace» di Marta Ottaviani

ISTANBUL. Turchia e Cipro fanno un passo avanti, o almeno così scrive la stampa turca. Il quotidiano Hurriyet, uno dei più autorevoli della Mezzaluna, ieri ha riportato la notizia che la parta greca dell’isola avrebbe accettato un pacchetto di proposte presentato da Ankara. Si tratta di un progresso notevole perché fino a questo momento si era parlato solo di progressi nei colloqui. Secondo Hurriyet, fra le proposte della parte turca ci sarebbe il diritto di ingresso nella parte greca di Cipro senza bisogno del visto, nonché la possibilità di acquistare immobili e risiedervi. Il pacchetto però deve ancora essere approvato sia dalla Grecia sia dall’Unione Europea. Le dichiarazioni sono arrivate, forse non a caso, in concomitanza con la visita dell’attuale segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, che si è detto colpito dai progressi compiuti dalle due comunità per il riavvicinamento. L’Isola di Cipro è spaccata in due dal 1974, anno dell’invasione turca. Il governo allora guidato da Bulent Ecevit motivò l’azione militare dicendo che era par tutelare la minoranza turcofona sull’isola (circa il 20 per cento della popolazione) e per evitare che Cipro fosse annessa alla Grecia. Da quel momento si vive in una situazione paradossale. La parte sud, a maggioranza greca, è riconosciuta internazionalmente da tutti tranne che dalla Turchia e dal 2004 è membro dell’Unione Europea. La parte nord, a maggioranza turca e chiamata Kuzey Kıbrıs Türk Cumhuriyeti, Repubblica turca di Cipro Nord, è riconosciuta internazionalmente solo da Ankara e giudicata uno stato fantoccio da tutto il resto del mondo.

seccamente respinta dall’Unione Europea, perché aprire gli scali sarebbe stato un riconoscimento implicito della repubblica turcofona. Dal 2008, con l’elezione a presidente della Repubblica di Cipro, Dimitri Christofias ha portato una ventata di ottimismo circa il futuro dell’isola, anche per la presenza di Mehmet Ali Talat come presidente della parte turca di Cipro. Figure entrambe moderate e realmente convinte che la divisione debba avere fine, dal settembre del 2008 sono impegnati in una serie di incontri bilaterali che però, per dire la verità, fino a ieri sembravano arrivati a un punto morto.

Christofias, in particolare, arriva dopo il governo guidato da Tassos Papadopulos, a parole favorevole a una mediazione, ma che nei fatti nel 2004 boicottò il referendum sulla riunificazione, ispirato a un piano varato dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, considerato troppo sbilanciato a favore dei turchi. Il problema fu che la parte turca si precipitò in massa per votare a favore, la parte greca fece l’esatto opposto, creando un precedente al punto di vista simbolico molto grave e pericoloso. Adesso sembrerebbe che le due parti abbiano trovato una piattaforma comune su cui operare, che dovrebbe essere quella di uno stato federativo, più o meno evidente. Ma gli ostacoli sulla strada potrebbero essere ancora molti e insidiosi. Talat e Christofias devono raggiungere un accordo sulla questione delle proprietà che furono sottratte ai greci quando furono costretti a muoversi nella parte sud dell’isola in seguito all’intervento turco e alla successiva divisione di Cipro e anche sui giacimenti di petrolio che molti pensano trovarsi sul fondo del Mediterraneo, proprio in corrispondenza delle loro acque territoriali. Ma il problema più grosso potrebbe presentarsi il prossimo aprile. A Cipro Nord infatti si vota per il nuovo presidente della Repubblica e Mehmet Ali Talat, ampiamente sostenuto dal governo Erdogan, potrebbe non farcela e il suo diretto avversario, Dervis Eroglu, di orientamento più conservatore, potrebbe non rivelarsi altrettanto disposto al dialogo con Christofias.

L’Isola è spaccata in due dal 1974, anno dell’invasione turca voluta dal presidente Ecevit. Da allora è il caos

I rapporti tra Germania e Svizzera hanno attraversato un momento difficile tra il 2008 e il 2009 quando al potere a Berlino era una Grande Coalizione. L’allora ministro delle Finanze socialdemocratico Peer Steinbrück aveva criticato severamente il segreto bancario svizzero e provocato un incidente diplomatico. Il governo federale sta cercando in queste ore di calmare le acque per evitare un nuovo scontro con Berna. Secondo uno studio citato domenica dalla Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung, i tedeschi avrebbero accumulato in Svizzera risparmi fino a 175 miliardi di euro. Altri 85 miliardi di euro sarebbero parcheggiati in Lussemburgo.

Attualmente il cosiddetto “nodo Cipro” rappresenta uno degli ostacoli più grossi all’ingresso della Turchia in Unione Europea, utilizzato dai più scettici, come la Francia, come la più efficace delle motivazioni per chiedere che Ankara non entri a fare parte del club di Bruxelles. La questione Cipro da sola blocca 5 capitoli negoziali. Nel 2006 Ankara ha tentato uno scambio: il riconoscimento di Cipro in cambio dell’apertura di due scali nord-ciprioti. Ma la proposta fu

dad Juarez, città del nord del Messico al confine con gli Stati Uniti, teatro di una spietata guerra tra narcotrafficanti che ogni anno provoca migliaia di morti. Il massacro si era consumato in una villetta, dove un gruppo di amici si era riunito per festeggiare la vittoria della squadra del cuore a una partita di football americano.

Gli assassini, secondo alcuni vicini, sono arrivati in piena notte mentre il party era ancora in corso. Erano a bordo di alcuni Suv. Sono scesi armi in pugno e hanno cominciato a sparare all’impazzata sugli studenti che si trovavano all’interno e nel giardino. Alcuni hanno cercato di fuggire, ma sono stati raggiunti e uccisi. Tra le vittime, secondo la polizia messicana, si contano anche due adulti. Gli inquirenti al momento non si azzardano a fare ipotesi sulle motivazioni della carneficina. Secondo fonti locali, non è chiaro se del massacro sia responsabile una delle gang di narcos che controllano il lucroso traffico della droga verso gli Stati Uniti. Molti sostengono tuttavia che non potrebbe essere altrimenti: a Ciudad Juarez non accade nulla senza che il loro beneplacito.


cultura

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Dietro-front. Alla base della decisione, il taglio delle spese. La Nasa ha allora accolto l’idea di imbarcare privati, creando un mercato commerciale dello spazio

«Non voglio mica la Luna» Barack Obama abbandona il piano Constellation Program. Avrebbe dovuto portare l’uomo sul Satellite entro il 2020 di Maurizio Stefanini ddio Luna! Addio Marte! Come aveva spiegato la Commissione Augustine e come ha anticipato il quotidiano Orlando Sentinel, l’amministrazione Obama ha deciso di abbandonare definitivamente il “Constellation Program”. Cioè, quel piano che dieci mesi prima delle elezioni del 2004 George W. Bush aveva annunciato, col costo di 12 miliardi di dollari, per costruire entro il 2010 una nuova generazione di navi spaziali in grado di riportare l’uomo sulla Luna entro il 2015; colonizzarla; e di lì ripartire per la conquista di Marte. «È arrivato il momento di estendere la presenza umana al Sistema Solare», aveva spiegato. «Il programma spaziale ha sempre riflesso i valori di questa nazione: l’immaginazione, la disciplina, l’unità nel perseguimento di grandi obiettivi». E poi aveva addirittura dilatato la trascendenza del progetto dal piano nazionale a quello umano tout court. «Noi uomini abbiamo la necessità di vedere, toccare, esaminare in prima persona. Non sappiamo dove ci porterà questo viaggio, ma sappiamo che lanceremo l’uomo nel cosmo». Stesso tono, d’altronde, dell’amministratore della Nasa Sean Okeefe: «Noi esseri umani siamo esploratori nati, e la ragione di essere degli astronauti è di raggiungere mete più alte». È vero: l’aveva già detto, e meglio, Dante Alighieri: «Fatti non foste a viver come bruti/ ma per seguir virtute e canoscenza».

A

rilanciare il programma spaziale semplicemente con l’aumentare del 5 per cento il bilancio della Nasa, un miliardo di dollari per cinque anni; e dirottare verso il programma spaziale 11 miliardi da altri programmi. «Con un aumento di appena il 5 per cento del bilancio della Nasa non arriveremo né sulla Lula, né tanto meno su Marte. Quando avevano posto in marcia l’Apollo, il bilancio della Nasa era raddoppiato il primo anno, per raddoppiare di nuovo il secondo. Questa proposta è tutto, me-

Programma Spaziale allo stesso modo in cui Franklin Delano Roosevelt al tempi della Grande Crisi del ’29 aveva considerato la Tennesse Valley Authority o il grande piano delle autostrade: un volano di sviluppo, per generare investimenti e occupazione. Obama, oltretutto, sembrava aver anche individuato il trucco per recuperare il tempo perduto: integrare il lavoro della Nasa con quello del Pentagono, sull’assunto che i razzi militari potrebbero essere più economici e più rapidi da realizzare rispetto ai programmi dell’Agenzia Spaziale. Ciò anche perché negli ultimi decenni ha sempre avuto a disposizione molti più stanziamenti: i 22 milioni di dollari ricevuti nell’anno fiscale 2008 rappresentavano un terzo in più rispetto alla Nasa.

A fianco, un’immagine dell’allunaggio del 1969. Sotto, il logo della missione Apollo 11. In basso, gli astronauti Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins. A destra, Mario Perniola e lo scatto dell’orma lasciata sulla Luna

Il progetto era stato annunciato dal predecessore George W. Bush e prevedeva un costo di circa 12 miliardi di dollari

In compenso, George W. Bush aveva avuto una risposta entusiastica in diretta dallo Spazio: «Sarò con te in questo viaggio!», aveva esclamato dalla Stazione Spaziale Internazionale l’astronauta Michael Foale. Ma un altro veterano dello Spazio, l’ex-astronauta e senatore democratico Bill Nelson, aveva dedicato un commento scettico all’idea della Casa Bianca di poter

no che realista». Previsione di Nelson, dunque: il Congresso avrebbe affondato tutto. Come d’altronde era successo a George Bush padre, che già il 20 luglio 1989 nel ventesimo anniversario dello storico allunaggio di Neil Armstrong aveva parlato di missioni con equipaggio umano su Luna e Marte, solo per vedersi bocciare l’idea da Rappresentanti e Senatori: «Troppo costosa».

È vero che, in spirito chiaramente neo-keynesiano, Barack Obama una volta insediato ha deciso appunto di condiderare il nuovo

Il Pentagono condivideva in pieno l’esigenza, proprio per il crescente pericolo che il programma spaziale cinese potrebbe rappresentare per il suo sistema di satelliti: ormai, l’imprescindibile “occhio” dell’apparato militare Usa. In particolare, c’era stato il test con cui nel 2007 la Cina è riuscita a distruggere un suo satellite obsoleto, dimostrando di avere il know how per fare altrettanto nei confronti di

ROMA. Sogno, avventura, vo-

altri satelliti invece in piena efficienza, ma di proprietà altrui. E se la Nasa faceva ostruzionismo per gelosie di apparato, non era certo quello un ostacolo insormontabile. Ma poi, di bailout in bailout e di surge in surge, si è visto che neanche con quell’escamotage le risorse avrebbero potuto bastare. È vero che anche il programma spaziale degli anni Sessanta era stato fatto a Guerra del Vietnam in corso. Però quella era un’epoca di economia in espansione continua, di abitudine ai deficit, di sistema di Bretton Woods con la convertibilità del dollaro in oro ancora in corso, e anche di prezzi del petrolio e delle materie prime in genere bassissimi. Un’epoca di vacche grasse che proprio la doppia spesa della perduta Guerra del Vietnam e della vinta Corsa alla Luna contribuirono a far saltare. Non a caso, Bretton Woods fu abbandonata nel 1971, i viaggi umani alla Luna nel 1972, le Forze Usa lasciarono il Vietnam nel 1973, Richard Nixon fu obbligato alle dimissioni dallo scandalo Watergate nel 1974 e i nord-vietnamiti e viet-cong entrarono a Saigon nel 1975.

Una reazione a catena come poche; anche se poi, pa-

glia di futuro: i viaggi sulla Luna sono andati ben oltre la ricerca scientifica, sono stati anche la metafora di tutto questo. Il Presidente degli Stati Uniti ha detto che non sono più nel suo programma. Ne parliamo col filosofo Mario Perniola. Professore, Obama in campagna elettorale aveva promesso agli americani che avrebbe rilanciato un programma di nuovi lanci spaziali per tornare sulla Luna. L’altro ieri ha però annunciato che non se ne farà niente. Non pensa che questa rinuncia evochi anche la fine dell’idea di avventura? La discesa sulla luna nel 1969 aveva un forte significato comunicativo, oltre che strategico, all’interno della competizione spaziale tra gli Usa e l’Urss. Ora la situazione è completamente differente. Non direi che sia venuto meno lo spirito d’avventura: penso piuttosto che si sia trasferito nella gestione dei tanti conflitti in atto. Questi conflitti non sono più semplicemente militari, come sembrava ancora all’epoca della Guerra fredda. Già alla fine del secolo scorso i colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui in un libro famoso, Guerra senza limiti, avevano messo in evidenza che il problema del conflitto, a partire dalla prima guerra del Golfo del


cultura radossalmente, ricevuta l’iniziativa per la crisi americana l’Unione Sovietica avrebbe finito per dissanguarsi a sua volta, implodendo su sé stessa entro appena una quindicina d’anni. Coi cambi fluttuanti, con gli shock petroliferi, con la stagflazione degli anni Settanta e le correnti antifiscali degli anni Ottanta, non c’è più stato da allora un contesto politico ed economico favorevole a una nuova Corsa alla Luna. E il copione si è ripetuto anche questa volta.

Charles Bolden, direttore dell’Ufficio della Casa Bianca incaricato della politica di Scienza e Tecnologia e capo della Nasa, ha fatto in alternativa cinque proposte che in pratica implicavano la cancellazione o modifica del programma Constallation. E per trovare risorse, l’unico percorso praticabile era il tirare dentro i privati, creando un mercato commerciale dello spazio. Un esito sorprendente, per un’amministrazione che è stata accusata addirittura di socialismo, per il modo in cui ha dilatato la presenza del governo federale in settori che finora erano rimasti tabù, nella mentalità Usa. Ma è quasi fatale che quando il pubblico di-

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rotta le sue risorse da quelli che sarebbero i suoi compiti primari in quelli che dovrebbero spettare ai privati, finisce poi per esporsi a un analogo contropiede da parte degli stessi privati. Se ci si pensa bene, in Italia fu proprio l’epoca della Prima Repubblica, con lo Stato dilagante dalle banche ai panettoni, a vedere in compenso la crescente privatizzazione di scuole, sanità e perfino polizia, con il boom dei vigilantes. Comunque, la Commissione suggeriva anche di estendere la durata della Stazione Spaziale Internazionale oltre il 2016, arrivando fino al 2020. E di provare l’esplorazione degli asteroidi, forse più realista proprio perché possono essere più vicini alla Terra. Delusa, la Nasa ha allora accolto l’idea di imbarcare i privati, aprendo a società commerciali il business del trasporto di turisti evidentemente miliardari verso la Stazione Spaziale Internazionale. Lasciando però perdere la Luna, in modo da concentrare tutti gli obiettivi su Marte. Ma sono obiettivi, quelli di questa nuova proposta “Generazione Marte”, ormai dilatati nel tempo: almeno trent’anni di lavoro, prima di sviluppare le tecnologie, realizzare le

missioni di avvicinamento aasteroidi e creare comunque il necessario appoggio. La Casa Bianca ha dunque deciso in armonia con queste premesse. Ares I, il nuovo missile concepito per sostituire gli Shuttle e portare i futuri astronauti sulla Luna, non volerà mai. Veicoli e basi lunari non verranno realizzati, per lo meno nei prossimi anni. Invece si svilupperà una nuova generazione di missili da carico pesante, che col tempo dovrebbero presumibilmente essere in grado di lanciare missioni con equipaggi umani anche fino a Marte. Ma nel giro di decenni.

La prossima priorità diventeranno invece le missioni scientifiche di osservazione terrestre: soprattutto per analizzare e valutare i cambiamenti climatici. Mentre i privati veranno coinvolti nella creazione di “taxi cosmici”: capsule e razzi in grado di portare gli astronauti alla Stazione Spaziale Internazionale. L’appuntamento, in effetti, è solo rinviato, sia pure sine die. Ma nel frattempo si farà di necessità virtù. D’altronde, anche la sonda Spirit, nell’impossibilità di riparare il suo sistema di locomozione, continuerà a lavorare da Marte come posizione fissa.

Ma l’avventura continua in Terra Mario Perniola: «Oramai la temerarietà e la voglia di scoperta si sono trasferiti nei conflitti» di Gabriella Mecucci 1991, travalica di gran lunga l’ambito militare. In altre parole, lo scontro militare tra nazioni o tra gruppi di nazioni non costituisce più la forma più forte della guerra, anzi è destinato prima o poi ad essere oltrepassato, in quanto troppo dispendioso, inefficace e infruttuoso. Sono sorti molti altri tipi di guerre a carattere asimmetico che recano danni molto maggiori al nemico attraverso mezzi che non hanno nulla che fare con le armi tradizionalmente intese. Queste nuove guerre sono quelle trans-militari (diplomatica, di network, di intelligence, psicologica, tattica, di contrabbando, di droga, di deterrenza virtuale) e non-militari (finanziaria, commerciale, di risorse, di aiuto economico, normativa, di sanzioni, mediatica, ideologica). Ciascuno di questi metodi operativi possono combinarsi con le guerre militari tradizionali (convenzionale, atomica, biochimica, ecologica, spaziale, elettronica, di guerriglia, terroristica), ma la vittoria arriderà soltanto alla giusta combinazione di questi differenti tipi di approcci strategici. I campi della politica, dell’econo-

mia, della dimensione militare, della cultura, della diplomazia e della religione tendono a sovrapporsi l’uno sull’altro. Ci vuole dunque una grande acutezza di pensiero e capacità di sintesi per gestire la combinazione di tutti i mezzi possibili. L’altro punto fondamentale della nuova polemologia è la limitazione degli obiettivi. La “guerra infinita” è qualcosa di insensato che porta alla catastrofe: il fine della guerra resta la pace che segue alla vittoria. Fukuyama parlò di fine della storia, siamo alla fine della fine? Non credo affatto che la storia sia finita. Essa è entrata in un altro regime: quello che lo storico francese Hartog nel suo libro Regimi di storicità: Presentismo e esperienze del tempo ha definito col termine di presentismo. Io ho sviluppato questa nozione nel mio libro Miracoli e traumi della comunicazione. Non tutte le società pensano il rapporto tra passato, presente e futuro allo stesso modo. In Occidente, nel giro di tre secoli si sono delineati tre diversi regimi di storicità a seconda del peso assegnato a

queste tre differenti dimensioni temporali. Fino al 1789 il regime di storicità egemonico era di tipo passatista, nel senso che l’intelligibilità del presente e del futuro dipendeva dalla conoscenza del passato. In seguito, fino agli anni ’60 del Novecento, ha prevalso un regime futurista, nel senso che l’intelligibilità del passato e del presente dipendono dall’avvenire, il quale si presuppone migliore di tutto ciò che lo ha preceduto. Questo futuro può avere diversi contenuti: può essere la nazione, il popolo, il proletariato, la pace universale, la tecnologia; si dà per scontato che esso sarà migliore di ciò che lo ha preceduto, perché questa è la legge dell’evoluzione storica. In questo contesto il passato non è più un modello da imitare (come nel passatismo), ma il suo studio costituisce ancora un fattore di importanza primaria, perché consente la conoscenza delle dinamiche progressive

che hanno consentito di giungere fino all’età presente. A partire dagli anni Sessanta si entra un terzo regime di storicità caratterizzato dall’egemonia del presente sul passato e sul futuro. L’uomo contemporaneo guarda dentro di sè, contempla il proprio ombelico, ma non sa più guardare fuori di sè, oltre sè? No. Anzi la dimensione dell’introspezione è in declino. Avviene un fenmeno esattamente contrario che è quello dell’estraniamento da se stessi. Come ho dimostrato nel mio libro Il sex appeal dell’inorganicoe Del sentire l’esperienza contemporanea si muove in una direzione che non è più quella del sentire interiore, ma verso quella del sentire dal di fuori. Il problema non è più formulabile nei termini di un “io sento, tu senti”, né in quello della negazione del sentire: si afferma una terza dimensione per così dire neutra, impersonale, che

si può formulare con un “si sente”. Si potrebbe definire questa terza dimensione come “postumana” o “postorganica”, perché pone la sensibilità al di fuori dell’uomo, per esempio nel computer. Nasce così un sentire artificiale, di carattere sperimentale, nel senso che costituisce una nuova frontiera dell’indagine scientifica:cadono i confini tra il proprio e l’estraneo, tra il self e il not-self: l’esperienza del sentire dal di fuori consiste in una dimensione senziente estranea al sé, indipendente dal sé. Domande del tipo: cosa si prova a essere un pipistrello (per riprendere il titolo di un famoso saggio del filosofo americano Thomas Nagel) appartengono appunto a questo genere di problemi. Cosa si prova ad essere un computer? cosa si prova ad essere un replicante, un robot, un cyborg? Si spalanca la problematica dell’eterofenomenologia. Nella discussione che intorno a questi problemi si svolge nella filosofia della scienza, sembra che l’esternalismo trovi nuovi e più agguerriti seguaci che non il suo contrario, l’internalismo.


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cultura Nella foto grande, “Portrait of a young man”. Qui sotto, “Nudo del giovane che suona il flauto”. In basso, “Standing Nude”. Tutte e tre le opere realizzate dal Bronzino sono in mostra al Metropolitan di New York (nella fotina)

a Firenze del Cinquecento pullulava di botteghe e avere un apprendistato “di qualità” determinava spesso la fortuna di un artista. Andare a bottega significava non solo imparare l’arte del disegno e la tecnica, ma era importante perché si veniva a contatto con i grandi maestri, fino a poi diventarne assidui collaboratori.

L

Fu così anche per Agnolo di Cosimo di Mariano Tori, nato il 17 novembre 1503 a Monticelli, alle porte di Firenze, meglio conosciuto come Bronzino probabilmente per la sua carnagione scura. Figlio di un macellaio, dopo un certo periodo presso Raffaellino del Garbo, diventa discepolo di Jacopo Carrucci, detto il Pontormo, di nove anni più vecchio di lui, l’unico assistente che riuscirà a sopportare a lungo il difficile carattere del maestro e con il quale collaborerà negli affreschi delle ville medicee di Poggio a Caiano e di Careggi. L’influenza del Pontormo dominerà le opere giovanili dell’allievo Agnolo. Ma nella maturità artistica Bronzino fu considerato uno dei disegnatori più importanti del sedicesimo secolo. Una figura di primo piano tra i pittori manieristi a Firenze. Disegnatore, pittore, poeta, famoso artista alla corte dei Medici, del Duca Cosimo I de’ Medici e della moglie la duchessa Eleonora di Toledo. Eppure al Bronzino non era mai stata dedicata, fino ad oggi, una mostra completa. Il Metropolitan Museum of Art di New York ha allestito The Drawings of Bronzino dedicata all’artista fiorentino, una solo exhibition, aperta fino al 18 aprile prossimo e realizzata in collaborazione con il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe di Firenze, il Polo Museale Fiorentino e l’Istituto Italiano di Cultura a New York. Sessantuno sono i disegni in mostra. Opere di straordinaria bellezza e rarità provenienti da musei o collezioni private in Europa e Nord America (Galleria degli Uffizi, Musée du Louvre, British Museum, Royal Library of Windsor Castle, Ashmolean Museum di Oxford, Kupferstich-kabinett di Dresda, e Staatliche Museen di Berlino) di rado visibili al pubblico. Perché il Bronzino abbia dovuto aspettare così tanto per una solo exhibition a lui dedicata (seguirà nell’autunno 2010 una mostra a Palazzo Strozzi a Firenze) è da attribuire al fatto che il manierismo fu spesso disprezzato durante i secoli, considerato come un interregno confuso tra il Rinascimento e il Barocco, ma anche al “trattamento” non molto amichevole, riservato al Bronzino dal suo rivale Giorgio Vasari, nella sua opera Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori (il

Mostre. Una personale dell’artista fiorentino al Metropolitan Museum

Agnolo Bronzino, il re di New York di Velia Majo duca Cosimo I lo preferirá poi allo stesso Bronzino, forse influenzato dalla velocità nella consegna delle commissioni).

Ma la mostra al Metropolitan Museum of Art di New York offre allo spettatore la possibilità di esaminare attentamente i disegni del Bronzino in un contesto unico. E partire dal lavoro di disegnatore è il modo migliore per capire il Bronzino. Il disegno considerato come manifestazione creativa per eccellenza, la fase del lavoro in cui maggiormente si rivela il formarsi dell’idea, del progetto. Le opere in mostra, la maggior parte delle quali realizzate con gesso nero rappresentano studi di teste e corpi, sono disegni preparatori, alcuni dei quali furono realizzati per il trasferimento su quadri o arazzi. Bronzino non ha fatto del disegno un’arte indipendente, ma la cura e l’esigenza nei dettagli dei suoi cartoni potrebbe far pensare che il disegno stesso fosse un’opera finita. Una caratteristica dei suoi disegni è la sottile linea continua dei contorni

Per lui il disegno non era indipendente, ma la cura dei dettagli e lo stile fanno pensare ai suoi cartoni come a opere compiute

delle sue figure. All’interno delle linee, favolosamente abili i dettagli anatomici, di chiara influenza michelangiolesca, tra linee tratteggiate e sfumate si celebra la voluttuosità della carne. L’esame dei suoi studi sulla figura umana realizzati in gesso dimostrano, tra l’altro, il suo genio inventivo come progettista, e il dono per la composizione. I disegni preparatori

relativi ad importanti cicli di affreschi, pale d’altare e arazzi ricchi di significati allegorici rivelano anche la sensibilità letteraria dell’artista. I più straordinari dei disegni in mostra sono nudi maschili, tra cui lo studio realizzato per la Cappella di Eleonora di Toledo (legata al Bronzino da stima ed amicizia e che supportò sempre l’artista), di un giovane la cui figura ruota in una postura serpentina, mentre mantiene con una mano in testa un cuscino o un cappello bizzarro e dove l’artificiosità della posa convive perfettamente con la gioia carnale. Il punto più alto della carriera del Bronzino come artista di corte va dal 1540 al 1550, sará infatti impegnato nell’affresco della cappella di Eleonora da Toledo, della pala d’altare e di una serie di arazzi i cui disegni preparatori sono presenti alla mostra allestita al Metropolitan Museum. Come pittore di corte sotto Cosimo I de’ Medici, Bronzino eseguì molti dei suoi ritratti più importanti. Alcuni ritratti sono andati perduti, ma quelli che rimangono oltre a testimoniare la spiccata abilità dell’artista testimoniano la vita fiorentina del ceto alto dell’epoca: l’eleganza degli abiti arricchiti di pietre preziose, superbe architetture, interni ricchi di drappi di seta, libri, calamai, descrivono l’ambiente che li circonda. Ne è un esempio l’unica tela presente alla mostra: il Ritratto di giovane artista che appartiene al Metropolitan Museum of Art di New York, presentato con l’analisi radiologica della sua tecnica di disegno. Tra i disegni preparatori presente il Nudo di giovane che suona il flauto realizzato con matita rosa, è il chiaro studio per l’opera La contesa musicale tra Apollo e Marzia custodita nel museo dell’Hermitage di San Pietroburgo. Il personaggio è caricato di una forte seduzione, la posa del giovane richiama la torsione michelangiolesca delle figure.

La mostra è curata al Metropolitan Museum anche da Carmen C. Bambach, curatrice del Dipartimento di disegni e stampe. Il catalogo, riccamente illustrato, è scritto dalla stessa Bambach, Janet Cox-Rearick, e George R. Goldner, con testi di Marzia Faietti, direttrice del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe di Firenze, Elizabeth Pilliod, e Philippe Costamagna ed è pubblicato da The Metropolitan Museum of Art e dalla Yale University Press.


cultura

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Fumetti. “Stampa Alternativa” cura un volume dedicato alle avventure del celebre personaggio creato da Jacovitti

Cocco Bill, l’amico ritrovato di Mario Bernardi Guardi agazzini degli anni Cinquanta, siamo la generazione del Vittorioso, il settimanale edito dalla cattolicissima nonché “italianissima” Ave, Anonima Veritas Editrice. Dio, Patria e Famiglia, tanto per intenderci, e ben saldi i valori della lealtà, della solidarietà, dell’amicizia. Era un amico, Il Vittorioso, con cui tutte le settimane avevamo un appuntamento in edicola.

R

E volevamo bene alle sue “firme”: pescando alla rinfusa tra i ricordi, ritroviamo Caesar, Fantoni, Giovannini, De Luca, Polese, Landolfi. E soprattutto lui, il magico, variopinto, stravagante, surreale, folle Jacovitti, anzi Jac, anzi Lisca di Pesce, che era la componente ludica e un po’ anarchica della nostra “visione del mondo” (perché cominciamo a formarcela già da bambini, no?). Davvero un mito, Jacovitti, insieme ai suoi simpaticissimi eroi: il terzetto adolescenziale Pippo, Palla e Pertica, assistito dalla Signora Carlomagno, una virago che sbrogliava i guai da allegra giustiziera, a colpi di cazzotti fulminanti; il mini-arcipoliziotto Cip (suo il tormentone “lo supponevo”) con l’assistente Gallina, il bassotto Kilometro e l’arcinemico in tuta nera Zagar (ma il Macchia Nera di Topolino e il Diabolik delle sorelle Giussani hanno preso spunto da lui?); e Caramba, Mandrago, Alonso Alonso detto Alonso, Alvaro piuttosto Corsaro, Giacinto il Corsaro Dipinto, il giornalista detective Tom Ficcanaso… Poi, nel 1957, Jacovitti iniziò a collaborare al settimanale Il Giorno dei ragazzi, supplemento dell’omonimo quotidiano milanese diretto da Italo Pietra, e qui restò fino alla sospensione delle sue pubblicazioni, nel 1967. Proprio sul Giorno dei ragazzi nacque il cow-boy Cocco Bill. Riscoperto da Stampa Alternativa, che nel 2007 proponeva una antologica delle sue avventure ( Cocco Bill, mezzo secolo di risate: sei delle 18 storie apparse sul supplemento del Giorno) e che ora ci offre tutte le altre a nostro grato diletto ( Il Giorno di Cocco Bill, a cura di Giovanni Brunoro, prefazione di Luca Raffaelli, pp. 357, euro 28). Una bella occasione per tornare a divertirsi con un “amico ritrovato”. E magari per fare anche qualche riflessione sul mondo jacovittiano, un vero, affollatissimo labirinto di invenzioni, trovate, provocazioni. Ma, tanto, c’è Lisca di Pesce a fornirci il filo di Arianna, col suo aureo inse-

Nella foto grande, “Il Vittorioso”, per molto tempo illustrato da Jacovitti (qui sopra)

gnamento: «Quando Jacovitti sverga le piripicchie, tutte le biscagliette vengono in goffa a far zunzù». Tutto chiaro, no? A ricordarci l’artista e il personaggio è Luca Raffaelli, che nella sua prefazione (“Il mondo

sparpagliati qua e là, a bizzarro dileggio di una realtà “ridotta in polpette”. L’esuberanza del nostro creatore non ha requie: come nota Raffaelli, la trama inventiva e figurativa si sviluppa in una sorta di “trance”. Un ve-

Zoccoli di cavallo che spuntano sui tetti, cavalli disegnati a metà, o illeggiadriti da labbra voluttuose: un mondo bizzarro come il suo creatore alla rovescia”, op. cit.), propone una serie di percorsi, atti ad esplorare quel fastoso/festoso caos. Illuminarlo, svelarlo, penetrarlo nel profondo, è decisamente arduo, «tanto le stranezze jacovittiane sono eccessive, totali, onnipresenti»: però, vale la pena di tentare.

E allora, girovagando per Cocco Bill, ci balzeranno negli occhi “pazzie” come zoccoli di cavallo che spuntano sul tetto di una casa, cavalli disegnati a metà, o privi di tutte e quattro le zampe, oppure illeggiadriti da belle labbra voluttuose, inequivocabilmente femminili. E poi la solita orgia di ossa, matite, dita, pesci, vermi, salami, cartelli

ro e proprio “mondo parallelo” in cui Jac abita con immensa goduria. Perché è lui per primo a divertirsi. Come? Disorientando, spiazzando, mettendo in crisi il buon senso. Facendolo sprofondare nell’assurdo. Pensiamo, tante per dirne una, alla

scritta “Attenti al dromedario”, posta fuori dell’ingresso del suo villino di Forte dei Marmi. Bè, «i passanti vi si avvicinavano guardinghi anche perché al di là del cancello si ascoltava sovente un ruggito animalesco. Che, naturalmente, era dell’autore in questione». Grande Jac. Grande Cocco Bill. L’“eroe buono”che,“a bordo”del suo cavallo Trottalemme, regola i conti con i malvagi. Indubbiamente, uno strano personaggio: «pochi sanno da dove venga e dove vada, chi sia in realtà, se uno sceriffo, un federale, un poliziotto privato, o un puro e semplice avventuriero. Egli rappresenta tutto e niente, è la ragione e l’insensatezza» (Gianni Brunoro, I dieci anni che forgiarono il Cocco, op. cit.). A noi vien voglia di dire- e non vuol essere una facile battuta- che è la ragione dell’insensatezza, e viceversa. E cioè è Jac. Jac che conosce bene il mondo, la storia e le storie. E trasforma e deforma. A raffiche di ironia e parodia. Con la più “extra-vagante” (surreale o iperrealistica?) delle satire. Rivolta agli adulti, come lui stesso ricorda, anche se i bambini lo «apprezzano perché

vedono colori e pupazzetti». Ma Jac, come ben evidenzia Brunoro “scavando” nelle storie di Cocco Bill e mostrandocene gli svariati ammiccamenti ai lettori, sguazzava dentro la vita e, conoscendola bene, la prendeva in giro e la esorcizzava. Armato della dismisura e del grottesco. Attuale e inattuale, come tutti gli spiriti liberi ed effervescenti.Tanto che - ma lui si definiva “estremista di centro”in tempo di contestazione e dintorni, qualcuno lo bollava come “fascista”. Tanto che, collaboratore di Linus nella prima metà degli anni Settanta, a causa di certe vignette feroci nei confronti dell’ultrasinistra, che avevano mandato in bestia i lettori “trinariciuti”, fu per due volte sbattuto fuori dalla rivista. Salvo essere richiamato dal direttore, Oreste del Buono, che cercava di placare i suoi bollenti spiriti di “satiro” incondizionato (si legga la voce “Diario Vitt”, in Luciano Lanna e Filippo Rossi, Fascisti immaginari, Vallecchi, 2003). Va detto che qualche “colpa”, Jacovitti ce l’aveva. Visto che il padre, un ferroviere di fervente fede mussoliniana, gli aveva imposto, nel 1923, il nome di Benito, che non è certo tra quelli che si portano con noncuranza. Va anche ricordato che Jac aveva esordito nel 1940 con Pippo e gli inglesi, “un soggetto patriottico legato all’entrata dell’Italia in guerra”; che nel ’48 realizzò i manifesti elettorali per i Comitati civici e contro il Fronte popolare; che disegnò, su richiesta di Arturo Nichelini e gratuitamente, una vignetta per una campagna elettorale del Msi. Tra le sue ultime collaborazioni, ricordano poi Lanna e Rossi, c’è L’Italia di Jacovitti, una pagina tutta sua disegnata settimanalmente per L’Italia di Marcello Veneziani.

Ma, in realtà, la vera vena dell’“estremista di centro” Jac era quella libertaria. Come arioso, libertario, simpaticamente trasgressivo e nemico di tutti i “musoni”, studenti o prof. che fossero, era il celeberrimo “Diario Vitt” che, noi, liceali d’antan, esibivamo come un segno di spregiudicata “appartenenza”. Formidabili quegli anni. Formidabili le “stravaganze” jacovittiane, da Pippo, Palla e Pertica a Cocco Bill al Kamasutra, disegnato nel 1970 per Playmen, su sceneggiatura di Marcello Marchesi, un altro della “nave dei folli”.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Asharq Alawsat” del 30/01/10

Troppi soldi, troppo tardi di Abdul Rahman Al-Rashed na quarantina d’anni fa si raccontava una storiella sull’imam dello Yemen che fece una bizzarra proposta: entrare in guerra contro gli Stati Uniti. Perché mai un’idea così folle? La risposta del religioso fu semplice, quanto disarmante: sarebbe stata una buona soluzione per la crisi finanziaria in cui versava il Paese. In fondo Washington dopo aver invaso l’Europa aveva messo mano al portafoglio con il piano Marshall e aveva fatto lo stesso col Giappone. Così uno Yemen sicuramente sconfitto dagli Usa, avrebbe goduto dei soldi per la ricostruzione. Questa barzelletta sembra essere diventata una realtà, dopo la conferenza di Londra sullo Yemen per i Paesi donatori. Un occasione in cui le superpotenze hanno discusso sul modo migliore di aiutare lo Yemen in termini di sostegno finanziario e di sviluppo economico.

U

In quella sede il primo ministro yemenita ha più volte ripetuto che «serve un piano Marshall da 40 miliardi di dollari per rimettere in piedi il Paese». C’è stato l’accordo per varare uno dei più grandi progetti d’intervento nella storia del Paese, con una gestione internazionale, tutto a causa dell’emergenza legata alla presenza di al Qaeda. A dispetto del pericolo, l’idea di combattere i terroristi islamici, porta con se l’immagine della figura di Alì Baba e del tesoro dei quaranta ladroni. Perché dare soldi, finanziamento e sostegno a Paesi che minacciano la stabilità e la sicurezza regionale, come Pakistan e Afghanistan invece di intervenire prima che la situazione sfugga di mano? La Giordania è un bell’esempio di come gli aiuti servano, se consegnati nel momento giusto per sostenere il governo di Amman

nella lotta ad Al Qaeda. Eppure, pur avendo varato riforme e politiche democratiche, i giordani prenderanno appena un quinto dei finanziamenti promessi allo Yemen. Forse quel governo avrebbe prima dovuto aspettare che bin Laden aprisse un suo ufficio ad Amman, per poter poi batter cassa con più forza al banco dei donatori internazionali. Perché si è aspettato che lo Yemen diventasse un failed State prima di intervenire?

Anche la Tunisia vive gli stessi problemi di crisi economica e rischio infiltrazioni terroristiche, ma non è arrivata al disastro politico di Sana’a. Non ha rinunciato a perseguire degli obiettivi nel campo della sicurezza e dello sviluppo economico. Forse il supporto politico a Paesi disastrati è una necessità internazionale per contenere la minaccia terroristica. Allo stesso tempo è un errore per due ragioni precise: il sostegno arriva sempre troppo tardi, quando istituzioni e struttura economica sono ormai distrutte, come è successo in Somalia e in Afghanistan. In secondo luogo, sembra un premio proprio a quei Paesi che in passato non avevano collaborato, facendo il loro dovere nella guerra contro il terrorismo e nell’adottare un modello politico più affidabile. Riguardo a Sana’a, meritava di essere aiutata decenni prima la comparsa di al Qaeda nell’orizzonte mediorientale e dell’Iran e di altri Paesi che tramavano per destabilizzare quell’area. Sono riusciti a legarsi a gruppi ye-

meniti cercando di sfruttare l’instabilità locale, solo perché il governo non era capace di esercitare un controllo effettivo del territorio. Chi doveva intervenire in passato si giustifica sostenendo la difficoltà di procedere col sostegno economico per via di due ragioni fondamentali: la corruzione e l’assenza di sicurezza. Come è possibile sviluppare un piano d’intervento quando si è soggetti al rapimento di tecnici e funzionari? Come è possibile pianificare una crescita economica e lo sviluppo di infrastrutture, quando più di un terzo della popolazione maschile è sotto gli effetti del Qat (una droga locale che si mastica, ndr), senza che il governo abbia mai tentato di combattere questa piaga sociale?

Come si può dare fiducia a un governo che vede il fratello del premier come trafficante d’armi verso quei gruppi che minacciano la stabilità del Paese? Lo Yemen è ricco di petrolio e di campi coltivabili, più che di sostegni finanziari avrebbe bisogno di un aiuto per stare semplicemente in piedi. E se non fosse per al Qaeda e i ribelli Houthis a nessuno importerebbe dello Yemen.

L’IMMAGINE

Piano antimafia del governo: finalmente il “desk interforze“ Il governo costituirà il cosiddetto “desk interforze”, un sistema di informazione sulla criminalità organizzata, del quale farà parte anche la polizia penitenziaria. Riteniamo che questo debba essere il primo passo per la modifica di tutta la normativa che, allo stato attuale, impedisce agli appartenenti al Corpo di far parte di altri organismi interforze, come la Dia, la sezioni di polizia giudiziaria presso le procure della Repubblica e l’attività investigativa sotto copertura. Tali modifiche sono urgenti e necessarie, anche alla luce della brillante attività investigativa che svolge quotidianamente il Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria. È di tutta evidenza, però, che la polizia penitenziaria, in quanto forza di polizia a tutti gli effetti, non può e non deve essere organismo di consultazione episodica e saltuaria per le altre forze, ma deve avere una propria organizzazione, inserita negli organismi istituzionali previsti dall’ordinamento.

Sappe

GOSSIP, ANNUNCI E SMENTITE In un sistema politico come il nostro, che impropriamente viene chiamato bipolare, senza tener conto che il progetto fortunatamente è naufragato prima di nascere, e nel quale molti partiti hanno perso la funzione di laboratorio progettuale, la scena politica viene spesso occupata prepotentemente dai leader, e poco e scarso spazio rimane ai protagonisti di periferia o di secondo piano. Sarà forse per questo che per conquistarsi una visibilità che non hanno, spesso alcuni politici fanno delle improvvide dichiarazioni, che subito dopo sono costretti a rettificare dopo le smentite o i richiami dei leader. Certo che oggi per costoro deve essere molto faticoso apparire, se pur di conquistarsi una piccola pubbli-

cità, si sobbarcano al rischio di essere smentiti o richiamati, spesso nella stessa giornata. In questa altalena di annunci e smentite non diminuisce solo la loro credibilità ma anche quella della coalizione alla quale appartengono, e allontana sempre più gli elettori dalla politica. Un ritorno ai dibattiti interni, nei quali le proposte e i progetti venivano sviscerati, corretti,perfezionati, ridarebbe ai partiti quella vitalità che hanno perduto, e alla classe politica maggiore autorevolezza perché forte di un consenso condiviso e non populista. A quando una politica per la soluzione dei problemi concreti senza gossip e con meno annunci clamorosi e subito smentiti? Il gossip comincia a stancare e vede giornalmente meno curiosi perché le persone hanno troppi

L’ultimo bacio Per oltre un anno l’ha accudito come un gattino nel cortile della sua casa a una cinquantina di chilometri da Bucarest. Ma poi il leoncino Richie è cresciuto e Lucian Craita, 27 anni, ha capito che quella dell’animale domestico non era il tipo di vita adatto al suo “cucciolo”. Così lo ha affidato a una fondazione internazionale per i diritti degli animali

problemi da risolvere, per cui cresce la nostalgia per il sistema dei partiti della Prima Repubblica.

Luigi Celebre

OLTRE LA TRAGEDIA Dopo la tragedia di Favara, per evitare che fatti simili abbiano più a verificarsi, un po’ tutti - politici, amministratori pubblici e cittadini - dovremmo essere più

vigili nella tutela del territorio e delle realtà che esistono intorno a noi. Abbiamo mai fatto caso a quante costruzioni fatiscenti e quindi pericolanti anche per delle semplici piogge vi sono nel territorio? Su chi incombe l’obbligo di segnalarne la pericolosità? Esistono nei comuni degli uffici preposti a detti controlli? E se sì, hanno sufficienti dotazioni di

personale e di mezzi? Piangere sul latte versato non basta. Serve poco o niente, occorre prevenire affinché queste tragedie assurde non abbiano più a verificarsi, e il solo modo per evitarle è quello di una sollecita indagine a tappeto sul territorio e la creazione di appositi uffici dotati di congrui fondi per pronti e solleciti interventi.

Gigi Milazzo


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Preferirei essere il custode di un obitorio Credo nella fondamentale malvagità e insignificanza dell’uomo, e nel marciume della vita. Sono assolutamente a favore del cancro e odio la poesia. Preferirei essere in qualunque momento un anatomopatologo o il custode di un obitorio. Vivo solo di unghie delle dita dei piedi e di tumori. Inoltre dormo in una bara, e un sudario verminoso è il mio abito estivo. Ho sognato la genesi di John muffa che nella tomba lottò contro i suoi ragni. È l’inizio della mia nuova poesia. Chiaro? E poi non mi piacciono nemmeno le parole. Mi piacciono termini come ungum e casabookch. XXX a te, mia sanguisuga. Tutto questo, se non sbaglio, è dovuto alle condizioni del fegato. Ma non dimenticare mai che il cuore ha preso il posto del fegato. Il mio romanzo, intitolato provvisoriamente «Il sole condannato», fa progressi, ho già finito tre capitoli. Per ora è abbastanza terribile, una sorta di favola deforme in cui Lussuria, Avarizia, Crudeltà, Rancore eccetera appaiono tutto il tempo come vecchi signori sullo sfondo del racconto. Ne ho scritto un po’ stamattina presto, un episodio gradevole in cui i signori Stipe, Edger, Stull, Thade e Strich guardano un cane morire avvelenato. Sono una piccola anima bella, e il mio libro sarà bello come me. Dylan Thomas a Pamela Hansford Johnson

ACCADDE OGGI

È D’ACCORDO L’ELETTORATO PROVINCIALE DELL’UDC CON CASINI? Sembra che nella riunione del direttivo provinciale dell’Udc per la ratifica dell’accordo con il Pd alle prossime regionali, la maggioranza dei presenti, salvo un imprenditore edile di Corridonia, abbia detto di “no” ad un minestrone al pomodoro rosso col centrosinistra per la regione Marche. Infatti, come è possibile che anticomunisti viscerali, antiPd e fino ad oggi all’opposizione delle amministrazioni di centrosinistra, come una Ballesi e un Tacconi, possano accettare un così disinvolto e incomprensibile cambio di rotta su cui chiedere il consenso ai propri elettori? Come è possibile andare d’accordo con un Idv che, per bocca di Di Pietro, afferma che l’Udc fa del “meretricio”, offrendosi “al miglior offerente”? Ha nulla da dire l’On. Amedeo Ciccanti al fatto che l’Udc starà in Regione con chi considera il suo partito una “escort”a pagamento? Come potrà il fautore dell’indigesto minestrone con Pd, Idv e sinistra, il segretario regionale Udc Antonio Pettinari, oggi attuale vicepresidente della provincia di Macerata insieme al Pdl, continuare a rimanere con il centrodestra in provincia e in 70 comuni marchigiani? I forni, si sa non cuociono tutti alla stessa maniera e, prima o poi, l’Udc dovrà scegliere con chi stare definitivamente, ovvero se col centrodestra o col centrosinistra. Per intanto, coloro che non accettano i giochetti di Casini e di Pettinari potrebbero creare una loro lista di dissenzienti Udc e, facendo accordi separati con il Pdl, contarsi ad ele-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

2 febbraio 1962 Per la prima volta in 400 anni Nettuno e Plutone si allineano 1967 Nasce la American basketball association 1971 Viene firmata la Convenzione di Ramsar 1972 L’ambasciata britannica a Dublino viene distrutta per protesta contro la Domenica di sangue 1973 Italia: viene fondata la Italcantieri, di proprietà di Silvio Berlusconi 1989 Invasione sovietica dell’Afghanistan: l’ultima colonna blindata dell’Urss lascia Kabul, ponendo fine a nove anni di occupazione militare 1990 Apartheid: in Sudafrica il presidente Fredrik Willem De Klerk permette all’African national congress di tornare a funzionare legalmente e promette di liberare Nelson Mandela 2003 Václav Havel termina il secondo mandato come presidente della Repubblica Ceca 2007 Durante il derby Catania-Palermo, avvengono tragici scontri tra tifosi e forze dell’ordine, in cui perde la vita Filippo Raciti

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

zioni avvenute. Comunque, da ogni parte politica si fanno i conti senza l’oste, cioè con l’elettorato. Che stanco dei giochetti, potrebbe disertare le urne.

Giorgio Rapanelli

MANCANZA DI RESPONSABILITÀ DEL GOVERNO PROVINCIALE Che cattivo operato quello politico-amministrativo del governo provinciale per la mancata assunzione di provvedimenti utili per far ingranare la macchina burocratica e amministrativa dell’ente nascente, tra i quali la mancata approvazione dello statuto e la disattesa scelta dello stemma. Constato con avvilimento l’immobilismo, la staticità e l’inerzia della classe dirigente della maggioranza nella Bat. Tale atteggiamento suscita indignazione oltre che diffidenza nei confronti della effettiva utilità amministrativa del nuovo ente. Con quali atti ha risposto la Provincia nei confronti della sonora bocciatura ricevuta da parte della Corte dei Conti per la mancata approvazione del bilancio di previsione 2009, documento contabile che, all’avviso dei giudici, andava invece adottato? Da tale mancanza deriva la grave irregolarità di carattere contabile finanziario dell’ente. Finora la giunta provinciale, e in particolar modo l’assessore Damiani, non ha ancora provveduto a regolarizzare la propria posizione. Mi aspetto risposte concrete altrimenti la diffidenza nei confronti della Bat, impegnata troppo a discutere su sedi e questioni campanilistiche crescerà a dismisura.

APPUNTAMENTI FEBBRAIO 2009 SABATO 6, ORE 17, MESAGNE AUDITORIUM DEL CASTELLO Convegno Udc, “Sviluppo del Mezzogiorno ed Enti Locali”. Interverranno: Vito Briamonte, Angelo Sanza, Ignazio Lagrotta, Euprepio Curto, Massimo Ferrarese. Conclude: Ferdinando Adornato. VENERDÌ 26, ORE 11, ROMA PALAZZO FERRAJOLI Convocazione Consiglio Nazionale dei Circoli Liberal. SEGRETARIO

Carlo Laurora

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Direttore da Washington Michael Novak

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Collaboratori

Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,

Roberto Mussapi, Francesco Napoli,

Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

AGRICOLTURA IN CRISI (III PARTE) Siamo al paradosso che nei prossimi anni le Regioni dovranno spendere una grande quantità di risorse finanziate dall’Ue per il cosiddetto secondo pilastro della Pac e che non potranno essere spese, perché le aziende agricole indebitate non potranno accedere ai finanziamenti ai sensi delle norme di Basilea 2 e delle rigide regole del sistema creditizio. In questo senso l’indebitamento dell’azienda agricola è a oggi il vero nodo da rimuovere per consentire alle aziende agricole di essere coinvolte da una seria e profonda riforma. Se la politica non coglie le domande sociali, sono a rischio la tenuta e la coesione sociale. Occorre una forte azione di riforma che assuma la vicenda dell’agroalimentare come una priorità per la sua capacità di investire sia parti decisive delle forze produttive, sia ambiti sociali fra di loro connessi. Dopo 25 anni in cui la politica ha arretrato la sua capacità di iniziativa strategica nel settore agroalimentare per lasciare campo alla libera espressione e concorrenza fra le forze del mercato, oggi la riassunzione di responsabilità necessaria ad una riforma di sistema richiede una capacità di proposta e di governo che non si intravede. Certo, questa a una condizione della politica che non riguarda solo l’agroalimentare, dove la cultura del “cibo merce”che si è imposta come modello dominante altro non è se non l’articolazione della cultura del predominio dell’impresa e del mercato e della mercificazione delle relazioni sociali. Eppure nell’agroalimentare la distanza fra la sensibilità e il consenso sociale attorno alle dinamiche del cibo e della sicurezza alimentare sono, forse, fra le più stridenti. Le molte crisi di sicurezza alimentare, la consapevolezza di come l’aumento della disponibilità di cibo sui mercati non risolva i problemi della fame nel mondo, l’aumento dei prezzi al consumo, i disastri ambientali prodotti dalla cattiva gestione delle attività agricole o dalla loro scomparsa nei lavori di cura delle campagne, sono alcuni degli indicatori che segnalano il crescere della consapevolezza sociale dei cittadini attorno alle vicende del cibo e dell’alimentazione. Gaetano Fierro, Agatino Mancusi, Vincenzo Ruggiero C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

Mario Arpino, Bruno Babando,

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

John R. Bolton, Mauro Canali,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

Franco Cardini, Carlo G. Cereti,

Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,

Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,

Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,

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PAGINAVENTIQUATTRO Social Network. L’idea è partita dal vice-ministro egiziano per la Ricerca scientifica, Maged Al Sherbiny

Dall’Egitto arriva il FaceBook di Rossella Fabiani opo FaceBook, arriva ScienceBook. L’idea è partita dal vice-ministro egiziano per la Ricerca scientifica, Maged Al Sherbiny, di passaggio a Roma per un convegno internazionale, ed è stata messa in campo dal ministero dell’Istruzione e della Ricerca egiziano. «Come Facebook - ci dice il vice-ministro - questo social network consente a giovani e meno giovani di aggiornarsi, leggere articoli scientifici, chattare, creare gruppi tematici attorno ad argomenti scientifici». In rete da un paio di mesi, ScienceBook ha già diverse migliaia di iscritti. Una novità, soprattutto in un Paese in cui internet rappresenta uno strumento di emancipazione molto importante. Ma non c’è soltanto ScienceBook. A conferma del fatto che la religione della nostra epoca è la scienza arrivano anche «i frutti dell’intenso lavoro svolto nel corso del 2009, Anno ItaloEgiziano della Scienza e della Tecnologia». Maged Al Sherbiny dice che i risultati della collaborazione tra i due Paesi «si vedranno nel medio-lungo periodo», ma che «possiamo però già dirci molto soddisfatti».

D

Un bilancio, dunque, nettamente positivo quello tracciato dall’esponente di governo egiziano sui rapporti intessuti tra Roma e Il Cairo nei settori della ricerca scientifica e della cooperazione tra atenei. «Abbiamo concluso numerosi accordi con enti di ricerca scientifica e università italiani, ultimo fra tutti quello siglato con l’Università di Perugia per l’avvio di corsi di laurea a distanza», spiega Al Sherbiny che visita spesso il nostro Paese ospite anche di congressi prestigiosi, come quello organizzato a Roma dall’Accademia Nazionale dei Lincei sulle patologie emergenti nei Paesi del

della SCIENZA In rete da un paio di mesi, “ScienceBook” ha già diverse migliaia di iscritti e permette ai giovani di aggiornarsi, chattare e creare gruppi tematici. Una novità, soprattutto in un Paese in cui internet è uno strumento di emancipazione molto importante Mediterraneo dove il vice-ministro ha partecipato in qualità di immunologo. «Altro tema importante su cui la cooperazione bilaterale ha voluto porre l’accento è stato l’aspetto divulgativo. Con la mostra di Alessandria d’Egitto sulle nano-tecnologie, per esempio, abbiamo cercato di raggiungere un ampio pubblico, mostrando come le scoperte scientifiche possano essere messe al servizio delle comunità, contribuendo al miglioramento della qualità della vita». Per il futuro, Al Sherbiny sostiene che «Italia e Egitto devono lavorare insieme nei campi della salute, dell’istruzione, della fisica e dell’astrofisica». Senza dimenticare la cooperazione nei settori della formazione scientifica e tecnica che può essere una delle chiavi risolutive «per ridurre l’immigrazione clandestina e avere soltanto lavoratori qualificati». Da parte egiziana, afferma l’immunologo, l’impegno c’è: nel 2007 il presidente Hosni Mubarak ha proclamato il Decennio della Scienza e la Tecnologia (che si conclu-

derà nel 2016), «segno che la mentalità della classe dirigente del Paese è in mutamento». Non tutto, naturalmente, è risolto. Le risorse destinate alla ricerca rimangono ancora esigue. «L’Egitto - ammette Al Sherbiny - destina alla ricerca lo 0,3% del Pil. In futuro faremo meglio. Intendiamo portare già dal prossimo quinquennio questa percentuale allo 0,6%, per poi arrivare all’1%».

Per ora, ad aver cambiato il passo è il modo in cui gestire le risorse. «Ci siamo concentrati sui settori ritenuti cruciali per lo sviluppo del Paese: energie rinnovabili (prima di tutto solare ed eolico); salute (in particolare lotta all’epatite C); sviluppo agricolo; impianti di purificazione e di dissalazione delle acque». Ma l’azione del Ministero per la ricerca scientifica è entrata anche nella stanza dei bottoni: «Siamo intervenuti razionalizzando gli attori istituzionali che devono intervenire nel processo decisionale. E ancora. Cerchiamo partner strategici che possano co-finanziare nuovi progetti». Una questione difficile da risolvere, invece, è quella dello sviluppo della ricerca applicata. «Gli industriali egiziani - lamenta il vice ministro - non hanno ancora la mentalità giusta per unire gli sforzi produttivi con il settore della ricerca». L’innovazione è un concetto ancora nuovo in Egitto, «dove abbiamo problemi con i brevetti e le royalties». Per fare il salto di qualità, è l’appello dell’immunologo, bisogna cambiare la mentalità del Paese e avvicinare la gente comune alla scienza. Magari anche attraverso ScienceBook.


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