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Un innocente perseguitato

di e h c a n cro

scambia a lungo per un puro amore della giustizia l’orgoglio del suo piccolo io

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Jean-Jacques Rousseau di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 4 FEBBRAIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

«L’attacco a Gaza era giustificato», dice il Cavaliere. Poi dopo le polemiche dell’Anp si corregge: «Ho pianto per le vittime»

Un fronte contro Ahmadinejad Forte discorso di Berlusconi alla Knesset: Italia e Israele lanciano insieme un appello alla comunità internazionale contro il regime che prepara l’atomica e uccide gli oppositori di Enrico Singer arole più nette di quelle scandite di fronte alla Knesset riunita, Silvio Berlusconi non poteva pronunciarle. Sul carattere unico di Israele: «Rappresentate ideali che sono universali, siete il più grande esempio di democrazia e di libertà nel Medio Oriente, se non l’unico». Sulla minaccia nucleare iraniana: «Non è accettabile l’armamento atomico a disposizione di uno Stato i cui leader hanno proclamato apertamente la volontà di distruggere Israele e hanno negato insieme la Shoah e la legittimità dello Stato ebraico». E sulla necessità di «sanzioni efficaci» contro il regime di Ahmadinejad. Un discorso che i parlamentari isrealiani - era la prima volta che un premier italiano parlava alla Knesset - hanno interrotto dodici volte con gli applausi. Ma che ha anche scatenato la dura reazione di Teheran. «Non aiuta a risolvere i problemi, ma al contrario li rende più complicati», è stato il commento del portavoce della commissione esteri del Parlamento, Kazem Jalali.

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Il discorso del premier

In Rete una lettera aperta

«Voi, i fratelli maggiori»

L’Onda al mondo: «Fermate il boia»

di Silvio Berlusconi

di Green Wave Movement

È per me un grande onore parlare in questa nobile assemblea che è il simbolo stesso dei valori democratici su cui si fonda il vostro Paese. Questo Parlamento rappresenta la più straordinaria vicenda del ’900. Questo Parlamento testimonia la nascita nel 1948 di uno Stato Ebraico, libero e democratico che raccolse finalmente, dopo l’orrenda esperienza della Shoah, cittadini del mondo che parlavano tutte le lingue e che accorsero da ogni angolo. a pagina 4

uesta lettera rappresenta una richiesta, da presentare ai diplomatici iraniani sparsi per il mondo, e una forte protesta contro le enormi violazioni ai diritti umani che avvengono nel Paese. Il governo di Teheran, che detiene il secondo posto nella triste classifica mondiale delle esecuzioni, ha deciso di comminare la pena di morte anche per crimini non capitali. L’accusa di essere un “nemico di Dio”, viene usata solo per uccidere. a pagina 3

Sciopero per Termini

La Fiat e la ripresa senza lavoro Scajola si arrabbia: «Ci sono ancora buoni margini di trattativa, altrimenti gli incentivi sono da ripensare». La sfida con il Lingotto mette in luce le contraddizioni del governo Seminerio • pagina 6

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Dal Tribunale dell’Aja sì al ricorso su Al Bashir

«In Darfur fu genocidio» La Corte accoglie le obiezioni di Moreno Ocampo e decide di ridiscutere l’imputazione del presidente sudanese, «considerato responsabile della morte di 35mila persone» Osvaldo Baldacci e Gabriella Mecucci • pagine 14 e 15

Vietti: «Non se ne discuterebbe in un Paese normale. Ma questo non lo è»

Sì al legittimo impedimento La Camera vota il provvedimento con l’astensione dell’Udc di Errico Novi

Ma adesso il premier non ha più alibi

ROMA. La Camera ha approvato il «legittimo impedimento» che tutela il premier e i ministri in carica dai processi. Il provvedimento ora passa al Senato. A Montecitorio, dopo una giornata convulsa di polemiche, i sì sono stati 316, mentre i no sono stati 239. L’Udc si è astenuto: Michele Vieti ha spiegato che «in un Paese normale non se ne sarebbe nemmeno discusso, ma questo non è una Paese normale». E Bersani: «Berlusconi paralizza l’Italia».

h, se l’Italia fosse un paese normale! Quante volte abbiamo ripetuto a noi stessi questa nenia. Il legittimo impedimento approvato ieri alla Camera con l’astensione dei cattolici liberali dell’Udc mira a inserire un po’ di normalità nei rapporti tra politica e giustizia disinnescando la doppia bomba della «sovranità elettorale» da un lato e della «sovranità giudiziaria» dall’altro. Ora il premier non ha più alibi.

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I QUADERNI)

• ANNO XV •

di Giancristiano Desiderio

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NUMERO

23 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 4 febbraio 2010

Scontro. Per contrastare il nucleare e i patiboli sbandierati dal regime, gli Usa presenteranno un documento all’Onu

E adesso, nuove sanzioni Il discorso del premier italiano va nella linea decisa dalla comunità internazionale: misure più dure con Teheran entro febbraio di Enrico Singer arole più nette di quelle scandite di fronte alla Knesset riunita, Silvio Berlusconi non poteva pronunciarle. Sul carattere unico di Israele: «Rappresentate ideali che sono universali, siete il più grande esempio di democrazia e di libertà nel Medio Oriente, se non l’unico». Sulla minaccia nucleare iraniana: «Non è accettabile l’armamento atomico a disposizione di uno Stato i cui leader hanno proclamato apertamente la volontà di distruggere Israele e hanno negato insieme la Shoah e la legittimità dello Stato ebraico». E sulla necessità di «sanzioni efficaci» contro il regime di Ahmadinejad. Sull’amicizia tra Italia e Israele: «Per noi il popolo ebraico è un fratello maggiore e le origini della nostra amicizia sono in una comunanza di civiltà e di destino, nell’amore per la comprensione e la convivenza pacifica tra i popoli della terra». Senza nascondere «l’infamia delle leggi razziali del 1938 dalle quali l’Italia trovò la forza di riscattarsi attraverso la lotta di liberazione dal nazifascismo». Un discorso che i parlamentari isrealiani - era la prima volta che un presidente del Consiglio italiano parlava alla Knesset - hanno interrotto dodici volte con gli applausi. Ma che ha anche scatenato una dura reazione di Teheran.

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«Non aiuta a risolvere i problemi, ma al contrario li rende più è complicati», stato il commento alla posizione italiana che il regime degli ayatollah ha affidato ieri al portavoce della

commissione esteri del Parlamento iraniano, Kazem Jalali, che ha parlato anche di «interferenza negli affari interni di un Paese indipendente» riferendosi in particolare all’appoggio che Silvio Berlusconi aveva riservato alla «forte opposizione interna al regime iraniano» invitando tutti a sostenerla. Ma il punto-chiave sul tappeto è quello delle sanzioni perché dalle parole si sta per passare ai fatti. E se Berlusconi, concludendo la sua visita in Israele - già ieri pomeriggio si è spostato a Betlemme per incontrare il leader palestinese, Abu Mazen - è stato molto chiaro sulla sua scelta di campo, adesso bisogna prendere misure concrete di cui l’annuncio del blocco degli investimenti nel settore del petrolio e del gas potrebbe essere soltanto un primo passo.

Entro la fine di questo mese, gli Stati Uniti vogliono presentare una nuova proposta di più severe sanzioni contro l’Iran al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, la cui presidenza di turno è stata appena ceduta dalla Cina alla Francia. Anche Angela Merkel, da Berlino, ha ammesso che «ormai è arrivato il momento di decidere» e Franco Frattini ha assicurato che «l’Italia farà la sua parte», benché in questo momento il nostro Paese non sia tra i componenti del Consiglio. Il ministro degli Esteri ha anche confermato di «averne a lungo parlato» con Hillary Clinton nel suo recentissimo viaggio negli Usa. Ma non è difficile prevedere che sul documento - una bozza è già pronta e circola all’Onu - ci sarà uno scon-

Sull’uranio Ahmadinejad sceglie di temporeggiare a risposta iraniana sull’eventualità di trasferire le riserve nazionali di uranio all’estero appare sicuramente tardiva e soprattutto manca di una conferma ufficiale. D’altra parte è stata accolta con cauto ottimismo. Martedì sera, proprio Ahmadinejad ha annunciato che l’Iran potrebbe accettare la cosiddetta “proposta di Vienna”, definita ancora a metà ottobre 2009, dai rappresentanti dell’Aiea insieme a quelli del “5+1” (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, affiancati dalla Germania). L’offerta, che comunque indicava nel 31 dicembre la deadline per la risposta dell’Iran, prevede che quest’ultimo trasferisca le sue riserve di uranio in Russia e poi in Francia, per rientrarne in possesso in un secondo momento, una volta arricchito al 20% e quindi utile esclusivamente per finalità mediche. Ricevuta la proposta, l’Iran aveva chiesto alcuni correttivi che agli offerenti risultavano però inaccettabili. L’obiettivo della comunità internazionale è impedire al regime iraniano di dotarsi di un arsenale nucleare. Da un lato è vero: Teheran non ha rispettato la data di scadenza indicata dalla proposta. Per questo a gennaio il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, si era detta pronta a presentare in sede Onu un nuovo documento di sanzioni contro il regime. Mentre il Comandante del Centcom, il generale David Petraeus, paventava un raid aereo contro i centri di ricerca nucleare iraniani. D’altra parte, le dichiarazioni pubbliche di Ahmadinejad hanno ridotto bruscamente la tensione.

L

Il Regno Unito, le cui frizioni con l’Iran appaiono per alcuni aspetti ancora più aspre di quelle nutrite dagli Usa, ha considerato questo cambiamento di rotta come un “segnale positivo”. L’Amministrazione Obama e l’Aiea hanno manifestato invece maggiore cautela. Washington ha dichiarato la sua disponibilità «ad ascoltare l’Iran, se da questo giungesse una novità effettiva». Gli analisti dell’Agenzia atomica internazionale hanno preferito considerare le dichiarazioni di Ahmadinejad come “non vincolanti”. Questo perché già in passato Teheran si era esposta in promesse poi non mantenute. Seguendo tuttavia con attenzione le parole del Presidente iraniano, vi si potrebbe scorgere un secondo fine, nascosto dall’inattesa disponibilità alla negoziazione. «Non ci sono problemi ad inviare il nostro uranio all’estero», ha detto Ahmadinejad. «C’è chi si agita troppo: noi lo consegniamo al 3,5% e ci viene restituito al 20% nel giro di qualche mese».Teheran finora ha temporeggiato finora. Adesso sembra che voglia approfittare dell’offerta del “5+1”, in quanto potrebbe farle evitare un ulteriore dispendio di risorse tecniche ed economiche nell’ambito della ricerca. È interessante notare anche che i correttivi, per i quali non si era chiusa la partita nei tempi indicati, non siano stati menzionati dal Presidente iraniano. Questo indicherebbe che il regime preferisca prolungare oltre modo i tempi, piuttosto che arrivare al confronto diretto sul piano internazionale, dove è consapevole delle sue debolezze e che per questo potrebbe subire un’ulteriore stretta delle sanzioni. In attesa dalla riunione del “5+1”in agenda la prossima settimana, i dubbi sul comportamento iraniano restano insoluti. Giorni fa, intervenendo al Forum di Davos, anche il Ministro degli Esteri iraniano Manoucher Mottaki aveva parlato di “nuove idee in fase di discussione”. Né l’intervista di Ahmadinejad né la dichiarazione di quest’ultimo però possono essere considerate (a.p.) come la posizione ufficiale di Teheran.

tro con la Cina che nelle scorse settimane aveva promesso un atteggiamento positivo, ma che ora, dopo lo strappo con gli Usa sulla questione della vendita delle armi americane a Taiwan, sembra decisa a far pagare il conto a Washington sul capitolo Iran. E la Cina, come gli altri quattro “grandi”, ha il diritto di veto al Consiglio di sicurezza. Sulle sanzioni al regime di Ahmadinejad, insomma, si sta per giocare una partita molto grossa dove le affermazioni di principio per la democrazia, il rispetto dei diritti umani e la libertà - come quelle che Berlusconi ha fatto tra gli appalusi alla Knesset - devono essere sostenute da comportamenti conseguenti. Su tutti i fronti, ma soprattutto nel caso dell’Iran, Paese con il quale l’Italia in nome di una realpolitik spesso spregiudicata ha diviso finora politica e affari.

Sulle sanzioni questa volta Silvio Berlusconi è stato molto deciso. Alla Knesset ha detto che «su questo punto non si possono ammettere cedimenti», che «occorre ricercare la più ampia intesa a livello internazionale per impedire e sconfiggere i disegni pericolosi del regime iraniano» e che la via da percorrere è quella del controllo multilaterale sugli sviluppi militari del programma nucleare iraniano, «quella del negoziato risoluto, delle garanzie ferree, delle sanzioni efficaci». Un passo che è stato sottolineato dagli applausi. Naturalmente nel suo lungo discorso, Berlusconi ha parlato anche del processo di pace in Medio Oriente, della necessità di dare applicazione agli accordi di Oslo e ha detto di «sperare in una svolta» da parte palestinese perché l’Anp «torni al tavolo del negoziato». Il presidente del Consiglio ha poi voluto ricordare che l’Italia si oppose al “rapporto Goldstone” dell’Onu, che aveva criticato l’azione militare israeliana a Gaza, definendola «una giusta reazione» ai missili di Hamas. Ma nella mattinana passata tra la Knesset e un pranzo ufficiale con il premier


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L’Onda scrive al mondo: «Fermate il boia» La lettera aperta, pubblicata ieri su internet, degli oppositori al regime degli ayatollah di Green Wave Movement uesta lettera rappresenta una richiesta, da presentare ai diplomatici iraniani sparsi per il mondo, e una forte protesta contro le enormi violazioni ai diritti umani che avvengono nel Paese. Il governo di Teheran, che detiene il secondo posto nella triste classifica mondiale delle esecuzioni, ha deciso di comminare la pena di morte anche per crimini non capitali. La Campagna internazionale per i diritti dell’uomo ritiene che oramai l’accusa di essere un mohareb, un “nemico di Dio”, venga usata soltanto per intimidire dissidenti, manifestanti e oppositori. Nel momento in cui il Paese si prepara a celebrare il 31esimo anniversario della Rivoluzione islamica contro lo Scià, che cade l’11 febbraio, questa protesta internazionale diviene ancora più urgente. Infatti, una preoccupazione molto diffusa ritiene che avverranno nuove esecuzioni nei prossimi giorni: un monito alla popolazione, che non deve manifestarsi, riunirsi o tanto meno esprimere pacificamente il proprio desiderio di diritti umani e civili.

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A partire dalla contestata rielezione di Mahmoud Ahmadinejad, avvenuta nel giugno del 2009, i dissidenti sono stati condannati a morte senza poter accedere a un giusto processo e senza il sostegno di avvocati imparziali. Se si guarda ai fatti, queste esecuzioni sono semplicemente omicidi. Il sistema giudiziario iraniano fa quello che vuole delle regole; cambia le leggi

israeliano, Benyamin Netanyahu, e il presidente Shimon Peres, non sono mancati nemmeno dei momenti meno formali. Caloroso è stato il messaggio di benvenuto pronunciato da Netanyahu che si è rivolto a Silvio Berlusconi definendolo «un grande leader coraggioso», «un grande amico di

e adatta le accuse di conseguenza. Queste accuse, persino quelle ufficiali, violano i diritti umani di base e la Dichiarazione universale dei diritti umani, di cui l’Iran è uno dei firmatari. Per essere specifici, questo modo di fare viola gli articoli 10, 18, 19 e 20. Ora la paura è che possano tornare le esecuzioni di massa.

Per molti, dentro e fuori l’Iran, è ancora fresco il ricordo delle esecuzioni di massa avvenute alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Migliaia di persone, all’epoca, vennero uccise con accuse fabbricate su misura; alcune di queste vennero persino tenute in prigione per un lungo periodo, per poi essere impiccate lo stesso. Ora il pericolo è che la storia si ripeta. La differenza, questa volta, è che il mondo sta guardando. Ed è imperativo che il governo del suo Paese registri in maniera ufficiale il proprio disappunto per quanto avviene. Il 28 gennaio scorso due oppositori (Arash Rahmani Pour e Mohammad Ali Zamani) sono stati uccisi sulla forca. Il giorno dopo, l’ayatollah Ahmad Jannati – religioso che ha sposato la linea dura del governo e membro del Consiglio dei guardiani – ha approvato con gioia quanto avvenuto. Data la sua posizione di preminenza nella fazione dei “falchi” dell’e-

Israele in Europa». Non solo. Il premier israeliano ha rivelato anche un episodio che riguarda la madre di Berlusconi.

Mamma Rosa salvò una ragazza ebrea da un poliziotto tedesco. Benyamin Netanyahu, di fronte ai deputati della Knesset, ha raccontato

secutivo, le sue dichiarazioni rappresentano una “luce verde” per le prossime esecuzioni politiche. Il religioso ha sottolineato in maniera esplicita che «se le esecuzioni di massa fossero state ordinate subito dopo i primi scontri, questi non si sarebbero prolungati nel tempo». Addirittura, nel corso della preghiera del venerdì, Jannati si è rivolto direttamente al capo del sistema giudiziario dicendogli: «Per l’amor di Dio, dopo queste prime due esecuzioni continua sulla stessa strada. Dimostra di essere un vero, coraggioso uomo». Per questo noi chiediamo al vostro governo di agire con forza sui rappresentanti del governo iraniano sul vostro territorio: presentate una forte protesta contro le azioni intraprese dal sistema giudiziario e dal governo della Repubblica islamica d’Iran. Chiediamo tutti insieme al governo iraniano di rispettare i diritti di libertà di assemblea, espressione e stampa della propria popolazione: sono diritti riconosciuti dal mondo, a livello internazionale.

Ricordiamo tutti con terrore le esecuzioni di massa degli anni Ottanta. Quei giorni stanno tornando

Rendiamo chiaro a Teheran che vogliamo un’immediata interruzioni delle esecuzioni dei manifestanti, che sono in corso, e il rilascio dei prigionieri politici. Infatti, questo va sottolineato, il numero di prigionieri politici e dissidenti che vengono arrestati e condan-

così questa vicenda: «Fu durante la seconda guerra mondiale, quando una signora italiana, incinta di otto mesi, riuscì a salvare una ragazza ebrea. Quella signora coraggiosa si chiamava Rosa e uno dei suoi figli si chiama Silvio Berlusconi», ha detto tra gli applausi il primo ministro

nati a morte aumenta ogni giorno. Nel corso degli ultimi mesi, sono stati uccisi quattro prigionieri politici: Ehsan Fattahian, Fasih Yasmian, Arash Rahmani Pour e Mohammad Ali Zamani. Altri nove sono stati condannati a morte: la loro sentenza è stata confermata, ma i loro nomi non sono stati resi pubblici. Quattro membri dell’Ufficio iraniano per l’unità e sette membri della Commissione per i diritti umani sono sotto processo con l’accusa di essere “nemici di Dio”; come loro, un numero imprecisato di detenuti ordinari.

Questa accusa viene punita con la morte. A nessuno di questi detenuti è stato permesso di incontrare i propri avvocati: sono sottoposti a pressioni continue per cercare di ottenere false confessioni. Non bisogna poi dimenticare che, insieme ai manifestanti politici dell’Onda, le carceri sono piene anche di dissidenti curdi. Almeno venti rischiano la morte, e i loro nomi sono: Shirin Alam Holi, Zeinab Jalilian, Farzad Kamangar, Habibollah Latifi, Shirkoo Moarefi, Farhad Vakili, Ali Heidarian, Hussein Khazri, Rostam Arkia, Mostafa Salimi, Anvar Rostami, Rashid Akhkandi, Mohammad Amin Agooshi, Ahmad Pooladkhani, Seyed Sami Husseini, Seyed Jamal Mohammadi, Hasan Talei, Iraj Mohammadi, Mohammad Amin Abollahi e Ghader Mohammadzadeh. Per favore, presentate questa lettera ai vostri governi. E chiedete ai vostri colleghi di fare altrettanto.

israeliano. Finita la cerimonia, Berlusconi ha ringraziato Netanyahu per avere avuto «la bontà di ricordare questo gesto» e ha aggiunto di avere avuto «due grandi genitori: anche mio padre mi ha insegnato che la cosa più negativa per un uomo è l’egoismo, che bisogna pensare di avere il sole in tasca

e saperlo condividere con tutti con un sorriso». Il presidente israeliano, Shimon Peres lo aveva appena definito «il leader più solare mai conosciuto», e Berlusconi per ringraziarlo ha anche promesso che gli invierà un disco con le sue canzoni «dove troverà tanta poesia e sentimento».


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Il documento. La storia, la pace, l’antisemitismo e la questione palestinese nel discorso di Silvio Berlusconi alla Knesset

«Voi, i fratelli maggiori»

«Le leggi razziali del 1938 furono un’infamia e la vostra è una storia esemplare di grande democrazia. Ora due Stati per due popoli» di Silvio Berlusconi per me un grande onore, è un grande onore per l’Italia, parlare in questa nobile assemblea che è il simbolo stesso dei valori democratici su cui si fonda il vostro Paese. Questo Parlamento rappresenta la più straordinaria vicenda del Novecento. Questo Parlamento testimonia la nascita nel 1948 di uno Stato Ebraico, libero e democratico che raccolse finalmente, dopo l’orrenda esperienza della

È

sto fra le nazioni mettendo in salvo numerosissimi ebrei. E nel recente incontro tra il Papa Benedetto XVI e la Comunità ebraica di Roma il presidente della Comunità ha ricordato il convento di Santa Marta, a Firenze, dove le suore cattoliche accolsero e salvarono decine di ebrei dalla persecuzione nazista.

Oggi, la sicurezza di Israele nei suoi confini e il suo diritto di esistere come LA NASCITA DI ISRAELE Stato ebraico sono per noi una scelta etica e un imperativo morale contro ogni ritorno dell’antisemitismo e del nee gazionismo contro la perdita di memoria dell’Occidente. La nostra amicizia per Israele è franca, aperta e reciproca, non è solo vicinanza Shoah, cittadini del mondo che verbale, non è solo diplomaparlavano tutte le lingue e che zia, è un moto dell’anima e accorsero da ogni angolo del viene dal cuore. I rapporti bimondo. Voi rappresentate idea- laterali fra Italia ed Israele soli che sono universali, siete il no eccellenti. Su ogni questiopiù grande esempio di demo- ne vige la regola della sincecrazia e di libertà nel Medio rità e della ricerca di un accorOriente, un esempio che ha ra- do completo, utile e produttidici profonde nella Bibbia e vo. La nostra cooperazione è nell’ideale sionista. un vanto del mio governo e un fattore di orgoglio e soddisfaPer noi, come hanno detto zione per l’opinione pubblica sia il Papa Giovanni Paolo II italiana. Sono fiero di ricordache il Rabbino Elio Toaff, il re in questa solenne occasione popolo ebraico è un “fratello che l’Italia seppe reagire con maggiore”. Le origini della un grande “Israel Day” di solinostra amicizia, della nostra darietà e di amore quando le fratellanza, sono in una comu- bombe umane seminavano nanza di civiltà e di destino, in morte ad Haifa, a Tel Aviv, a un comune amore per la com- Gerusalemme sui vostri autoprensione e la conviIL FASCISMO venza pacifica tra i popoli della terra. Purtroppo nel 1938, lo voglio ricordare, l’Italia si macchiò dell’infamia delle leggi razziali, che contraddissero secoli di civiltà cosmopolìta e di rispetto umanistico della persona e della sua dignità; ma il popolo italiano trovò la forza di riscattarsi attraverso la lotta di liberazione dal nazi-fascismo e trovò anche il coraggio di molti eroi civili, tra cui Gior- bus, nei vostri luoghi di ritrogio Perlasca, che agì da Giu- vo, nelle vostre feste nuziali,

Dal 1948 questo Parlamento rappresenta degli ideali che sono universali

nelle vostre cerimonie religiose. L’Italia è orgogliosa di molti gesti di solidarietà verso il vostro paese, come ad esempio il rifiuto del nostro governo a partecipare alla Conferenza “Durban II” di Ginevra, che voleva sanzionare Israele con intollerabili accuse di razzismo e di violenza. Come il nostro voto contrario al rapporto Goldstone, che intendeva criminalizzare Israele per la reazione ai missili di Hamas lanciati da Gaza.

Noi combattiamo insieme a voi ogni possibile rigurgito di antisemitismo in Europa e nel mondo, e insieme a voi ci preoccupiamo di rendere inseparabili la battaglia per l’esistenza e la sicurezza dello Stato d’Israele e quella per la pace. L’estensione della democrazia a tutti i popoli della terra, nelle forme possibili e la difesa della libertà come bisogno insopprimibile di ogni uomo, sono un imperativo che ci accomuna e che deriva dalla nostra fede, dalla nostra cultura giudaico-cristiana, dalla nostra comune concezione dell’uomo e della storia. Noi siamo uniti nella difesa della democrazia libera dal fanatismo, dal pregiudizio, dalla superstizione, dall’uso della violenza strumentalizzando il nome di Dio. A questa battaglia ci spinge la consapevolezza che ogni uomo e ogni donna nel mondo, quale che sia il loro credo, il loro colore, la loro etnia, ambiscono alla libertà. Israele, il vostro Stato è davvero il simbolo di questa possibilità di essere liberi e di far vivere la democrazia anche al di fuori dei confini dell’Occidente, ed è proprio per questo che risulta una presenza intollerabile per i fanatici di tutto il mondo. Per queste ragioni i liberali di ogni parte del globo vedono nel vostro Paese il simbolo positivo, doloroso e

Con la lotta di liberazione dal nazifascismo l’Italia riscattò l’infamia delle leggi razziali

orgoglioso di una grande storia che parla di amore, di libertà, di giustizia, di ribellione al male. E noi, liberali di tutto il mondo, vi ringraziamo per il fatto stesso di esistere.

non dovrà più nutrirsi della complice indifferenza dei governi.

In una situazione che può aprirsi alla prospettiva di nuove catastrofi, l’intera comunità internazionale deve decidersi a stabilire con parole chiare, univoche e unanimi,

Dopo l’11 settembre abbiamo capito il carattere ultimativo e globale della sfida LA MINACCIA IRANIANA al nostro modo di vivere e alla nostra pratica della libertà, alla nostra pratica dell’eguaglianza tra i sessi, del diritto universale alla vita, alla libertà e alla sicurezza. Dieci anni prima era stata Tel Aviv ad essere colpita dai missili Scud di Saddam Hussein e dal 2000 è stata l’ondata terroristica della Seconda Intifa- che non è accettabile l’armada a mettere a dura prova il mento atomico a disposizione grande spirito di resistenza del di uno Stato i cui leaders hanvostro popolo. Noi italiani siamo no proclamato “apertamente” stati consapevoli fin dal primo la volontà di distruggere

È inaccettabile l’atomica per uno Stato che vuole distruggere Israele e nega la Shoah

IL TERRORISMO

La pace, l’esistenza e la sicurezza dello Stato d’Israele per noi sono inseparabili momento che la sfida del terrorismo era rivolta non soltanto contro gli Stati Uniti e contro Israele, ma contro tutti i Paesi democratici dell’Occidente e contro gli stessi Paesi arabi moderati. Da allora abbiamo fatto la nostra parte, dall’Iraq all’Afganistan, dalla Bosnia al Libano, per combattere il terrorismo e favorire la pace. Con i nostri soldati e le nostre missioni di pace, abbiamo contribuito a rendere il mondo più sicuro e più giusto, pagando un alto tributo di vite umane.Anche di fronte alle minacce contro Israele e contro la sicurezza del suo popolo, l’Italia non è indifferente. L’efferatezza antisemita, a differenza di quanto è avvenuto alla vigilia e durante la Seconda guerra mondiale, non potrà e

opo il pranzo con il presidente israeliano Shimon Peres, ieri, il premier Silvio Berlusconi ha raggiunto il leader dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen nei territori. Un meeting cui ha fatto seguito la conferenza stampa congiunta. Il premier, tra dimenticanze, sottolineature, suggerimenti e ripensamenti ha voluto tenere alta la tensione politica sui temi principali della pace e del nuovo Stato palestinese, riproponendo l’Italia come honest broker in Medioriente.

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Da notare un passaggio riguardo l’operazione Cast Lead, l’invasione di Gaza dello scorso anno. Era stata definita una «giusta reazione di Israele ai missili di Hamas» nel discorso alla Knesset, in mattinata, per poi subire un maquillage diplomatico nel pomeriggio: le vittime fra i palestinesi nella striscia di Gaza andrebbero piante come quelle «della Shoà». E anche sul fronte iraniano sarebbe arrivata una smentita sullo sganciamento dell’Eni da Teheran.


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ship palestinese, anche dall’Unione Europea, dagli Stati Uniti e dai più importanti partner del mondo arabo e devo dare atto al Primo Ministro Netanyahu del coraggio con cui ha deciso di seguire, spiegandone le ragioni al suo popolo, tale strada. (...) La strategia della pace nel benessere è uno strumento prezioso per lo smantellamento delle premesse psicologiche e ideologiche di ogni forma di violenza. Mi rendo conto delle mille difficoltà sulla strada del processo di pace che tutto il mondo auspica.

Israele ed hanno negato insieme la Shoah e la legittimità dello Stato Ebraico. Su questo punto non si possono ammettere cedimenti: occorre ricercare la più ampia intesa a livello internazionale per impedire e sconfiggere i disegni pericolosi del regime iraniano. La via da percorrere è quella del controllo multilaterale sugli sviluppi militari del programma nucleare iraniano, quella del negoziato riso-

luto, quella delle sanzioni efficaci: bisogna esigere garanzie ferree dal governo di Teheran, impegnando in modo determi-

continua dei progressi del negoziato. Certo non si deve respingere alcun segnale di buona volontà da parte irania-

Dopo l’11 settembre abbiamo capito il carattere ultimativo e globale della sfida al nostro modo di vivere e alla nostra pratica della libertà nato l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica al controllo ispettivo ed alla verifica

na, ma occorre dire apertamente che gli sforzi di dialogo non possono essere frustrati

dalla logica dell’inganno e della perdita di tempo.

Venendo alla questione medio-orientale, la nostra azione, come sapete bene, è stata sempre indirizzata verso la soluzione che prevede due Stati, quello ebraico di Israele e quello palestinese, che vivano in pace e in sicurezza l’uno accanto all’altro. Oggi, questa soluzione – due Stati, due popoli – appare condivisa, oltre che da voi e dalla leader-

Ma noi speriamo in una svolta che metta da parte per sempre la cultura della violenza, che induca il popolo palestinese a guardare con fiducia al suo futuro e al rapporto con lo Stato ebraico come a un’opportunità per il proprio sviluppo e non come a un impedimento da superare. Oggi mi rivolgerò, con un appello che viene dal cuore, al Presidente Abbas affinché torni al tavolo del negoziato e consegni alla storia un accordo per la pace e lo sviluppo economico del suo popolo, della sua terra, dando vita così a quello Stato Palestinese che la comunità internazionale attende. E mi rivolgo al caro amico Primo Ministro Netanyahu, per chiedergli di confermare, con coraggio, le sue proposte e le sue offerte per far ripartire il dialogo, tenendo conto degli auspici e degli incoraggiamenti dei paesi amici di Israele, come l’Italia, o gli Stati Uniti, e di tutti i partner europei. Noi preghiamo e pregheremo affinché questa speranza possa realizzarsi.

«Piangiamo le vittime di Gaza» D’accordo con Abu Mazen su Piombo Fuso, dopo averla lodata al Parlamento israeliano di Pierre Chiartano «Non è vero» che l’Ente diretto da Paolo Scaroni abbia rinunciato a trattative con l’Iran per nuovi investimenti nel Paese, avrebbe dichiarato Seifollah Jashnsaz, direttore della compagnia Statale petrolifera iraniana (Nioc). Berlusconi ha assicurato l’impegno dell’Italia e il suo personale verso un accordo di pace, che definisce «possibile». Al termine del colloquio con Mazen, Berlusconi si sarebbe notevolmente sbilanciato: «mi sono messo a disposizione del presidente personalmente e con tutti i contatti che ho essendo protagonista da molti anni della politica internazionale per remare e fare andare la barca dell’accordo verso una possibile e positiva conclusione» vista la «vera e forte volontà di Israele» di avviare negoziati. Il

premier ha poi spiegato: «ho avuto modo di incontrare i dirigenti dello Stato di Israele e mi sono permesso di venire qui e rappresentare quasi fotograficamente le opinioni dei vari leader di Israele e la loro forte, decisa volontà di andare ad un accordo e iniziare presto i negoziati con i discorsi preliminari». Per quanto riguarda l’aiuto dell’Italia, «mi sono messo a disposizione (…) per accogliere delegazioni dei due Paesi per dare contributo in direzione di un accordo».

Berlusconi ha ribadito il suo impegno a un suo vecchio progetto, cioè di «realizzare il piano Marshall per l’economia che ebbi a concepire nel 1994 e che già allora vide la partecipazione entusiasta di molte aziende internazionali,

di diverse aziende alberghiere che si a impegnarono realizzare impianti per il turismo religioso. Anche oggi questa possibilità esiste ed è concreta ed esiste la possibilità che tutti gli Stati siano chiamati a dare supporto all’economia della Cisgiordania, convinti che non può esserci pace senza benessere, che è elemento essenziale per pace duratura». Dal canto suo il capo dell’Anp che non sta attraversando un momento felice della sua leadership, ha

voluto ribadire che «qualsiasi occupazione nei territori palestinesi non è legale. Che riguardi Gerusalemme o la Cisgiordania non c’è differenza. Ma a Gerusalemme est è più urgente perché stanno mandando via la gente e distruggendo le loro case». Sulle difficili relazioni con l’altra anima della politica palestinese, quella oltranzista della resistenza islamica, ha aggiunto: «chiediamo ad Hamas che vada al Cairo a siglare l’accordo

Berlusconi sul muro intorno a Betlemme: «Non me sono accorto, stavo prendendo appunti»

che noi abbiamo già firmato e che si inizi questo percorso di riconciliazione. Gaza fa parte del nostro Paese».

«Arrivare a due Stati è nell’interesse della regione e del mondo, mi ha detto Berlusconi e io lo ringrazio per questo», ha spiegato. Sulla distrazione del premier può aver inciso la fase digestiva a seguito del pranzo presidenziale, alla domanda di un giornalista sul muro che circonda Betlemme dove si è tenuta la conferenza stampa, il premier ha risposto: «mi spiace deluderla, ma non me ne sono accorto in quanto stavo rimettendo a posto le mie idee, prendendo appunti sulle cose che avrei dovuto dire al presidente incontrandolo. So di deluderla e me ne scuso».


pagina 6 • 4 febbraio 2010

diario

Aiuti. Per molti anni l’Italia ha sostenuto il Lingotto senza dotare di nuove infrastrutture gli insediamenti industriali

La ripresa? È disoccupata

Il caso Fiat mette a nudo le contraddizioni del governo sul lavoro di Mario Seminerio a decisione di Fiat di chiudere entro l’anno l’impianto di Termini Imerese si scontra con la sostanziale assenza di alternative occupazionali che il disimpegno della casa torinese causerebbe al territorio. Sergio Marchionne ha ripetuto più volte che la chiusura non è negoziabile, vista la struttura di costo assolutamente non competitiva dell’impianto, causata anche dalla sua localizzazione. Questa decisione è economicamente razionale, vista dall’ottica dell’azienda, e ripropone il nodo strutturale di un settore automobilistico globale piagato dall’eccesso di capacità produttiva.

L

La resa dei conti era da tempo nell’aria, ma paradossalmente è stata posticipata dalla crisi, che ha spinto i governi a ricorrere ad un altro giro di incentivi settoriali, oltre ad alcune forme di moral suasion al limite del protezionismo, come la decisione francese di subordinare alcune tipologie di aiuti pubblici alla scelta di non delocalizzare. Fiat, in Italia, si è trovata ad avere impianti da tempo non competitivi e per interlocutore un governo privo di capacità di spesa. L’insufficiente infrastrutturazione di molte località del Mezzogiorno, ed altri più o meno noti oneri impropri impediscono di mantenere in vita impianti palesemente antieconomici. Il governo italiano si trova in difficoltà, perché non in grado di offrire a Fiat ciò che Fiat chiede, cioè un abbattimento dei costi di produzione. Al contempo, l’esecutivo è sottoposto a forti pressioni per il mantenimento dei livelli occupazionali. Ma mantenere l’occupazione sussidiandola finisce col distruggere risorse della collettività, come ampiamente dimostrato dalla storia della politica industriale del nostro paese. I governi italiani succedutisi in questi anni avrebbero dovuto negoziare con l’Unione europea la creazione di “zone franche” fiscali, dove abbattere significativamente la fiscalità per le iniziative imprenditoriali, offrendo in cambio se necessario anche parte dei fondi europei per lo

L’uscita dalla crisi non produce occupazione: l’esecutivo farebbe bene a tenere in considerazione questo dato proeccupante sviluppo. In questo modo, ed in aggiunta al presidio di legalità del territorio, ad una giustizia civile e penale non proibitivamente penalizzanti per la tutela dei diritti di proprietà, si sarebbero poste le basi per un modello di sviluppo delle zone depresse del Mezzogiorno non dipendente dalla presenza della grande impresa. Purtroppo così non è stato.

Ma il caso Termini Imerese rischia di essere solo la punta di un iceberg fatto di diffuse situazioni di sofferenza nel mercato italiano del lavoro. Come purtroppo da più

Stabilimenti fermi per Termini. E Scajola: «Ripensiamo gli incentivi» TORINO. Adesione totale» a Termini Imerese, del «50% con punte del 70%» a Mirafiori. Sono i dati diffusi dal sindacato dei metalmeccanici Fiom in merito allo sciopero di quattro ore per turno nello stabilimento Fiat di Termini Imerese, indetto dai sindacati contro la chiusura dell’unità produttiva siciliana e il piano industriale messo a punto dal Lingotto. Lo sciopero «sta andando bene», ha commentato il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, a metà mattina. «Lo stabilimento Fiat di Termini Imerese non può chiudere e noi faremo di tutto per impedirne la chiusura», ha detto Gianni Rinaldini, segretario generale della Fiom Cgil, parlando ai lavoratori davanti ai canceli della fabbrica. Per gli stabilimenti di Pomigliano e Avellino era invece prevista un’iniziativa nel municipio di Pomigliano, in quanto «qui i lavoratori sono tutti in cassa integrazione», come ha spiegato il segretario regionale della Uilm, Giovanni Sgambati. dello «Invece sciopero abbiamo fatto un’iniziativa in municipio organizzata da Fiom, Fim, Uilm, Ugl. È molto positivo

che tutti i sindacati trovano la capacità di stare insieme perché è importante difendere la realtà meridionale di Fiat». I lavoratori dell’Alfa Romeo di Arese (Milano) hanno organizzato un presidio di protesta fuori dalla sede della Regione Lombardia. Alta l’adesione allo sciopero promosso dall’Ugl Metalmeccanici nell’indotto dell’Fma di Pratola Serra. Negli stabilimenti Fma di Pratola Serra e di Pomigliano, dove attualmente la produzione è ferma, lo sciopero è stato rinviato alla prima giornata utile di lavoro.

parti previsto, la ripresa sta avvenendo in sostanziale assenza di creazione di occupazione.Vi è inoltre motivo di ritenere che nel nostro paese l’erogazione della cassa integrazione stia sempre più coprendo situazioni di crisi aziendali non reversibili. Per questo motivo risulta difficile comprendere il mantra governativo sull’Italia “con il minor tasso di disoccupazione d’Europa”. Chi sostiene ciò, si ostina a non guardare al fenomeno della cassa integrazione come prodromo della disoccupazione, soprattutto nella fase attuale. Si confrontano grandezze non confrontabili su scala internazionale, si omette di osservare che l’Italia ha uno dei più bassi tassi di partecipazione alla forza-lavoro (o tasso di attività, come lo definisce l’Istat), e che tale tasso è in un trend decrescente, e ciò finisce col tenere artificiosamente basso il tradizionale tasso di disoccupazione.

Per una volta, il governo sta dalla prte degli operari: «Noi riteniamo che ci siano ancora margini di manovra affinché la Fiat resti a Termini Imerese», ha detto il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola. «A parere del governo c’è spazio anche per Termini Imerese, ma se Fiat insisterà e deciderà di chiudere abbiamo individuato un tavolo anche con il contributo positivo dell’azienda per valutare le soluzioni per un diverso destino del polo industriale che non deve essere chiuso perché è fondamentale per la Sicilia e per l’Italia», ha aggiunto il ministro. Per quanto riguarda gli incentivi, Scajola ha affermato che «non è possibile andare avanti in maniera disarmonica con l’Europa. Nel 2009 abbiamo dato incentivi sostanziosi, ora stiamo valutando se gli incentivi all’auto sono ancora utili o distorsivi del mercato».

Contestare tutti gli studi, siano essi realizzati da ricercatori della Banca d’Italia che dal Centro Studi di Confindustria, che tentano di definire un tasso di inoccupazione più realistico, rappresenta l’ennesimo tentativo di rompere il termometro per non vedere la temperatura del paziente. Per quanto tempo il governo continuerà ad erogare fondi per la cig, anche in situazioni in cui è palese che le aziende coinvolte non ce la faranno? Ecco perché, per affrontare una crisi come questa, che non è congiunturale ma è purtroppo strutturale, servono riforme altrettanto di struttura. Sul mercato del lavoro, con la creazione di un sussidio di disoccupazione universalistico, con la creazione del contratto “unico”a tutele crescenti nel tempo, con la liberalizzazione di mercati bloccati, come quelli delle professioni e dei servizi. Tutte misure che andavano prese in parallelo al manifestarsi degli effetti della crisi, e non annunciate per un fantomatico “dopo”. Oggi, l’impressione è che un risveglio piuttosto ruvido attenda il nostro paese, e le sue magnificate “non-riforme”.


diario

4 febbraio 2010 • pagina 7

L’allarme di papa Benedetto all’udienza generale

Operazione anti-mafia contro il traffico di “nuovi schiavi”

«Nella Chiesa c’è chi è tentato dal potere»

In Calabria la ’ndrangheta gestiva i clandestini

CITTÀ

DEL VATICANO. A volte «anche gli uomini di Chiesa subiscono la tentazione del potere, di lavorare cioè per se stessi e la propria carriera». Lo ha denunciato il Papa ieri nel discorso all’Udienza Generale dedicata alla figura di San Domenico. «Non è forse una tentazione quella della carriera, del potere, una tentazione da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di animazione e di governo nella Chiesa?», si è chiesto il Pontefice mettendo a confronto quello che accade anche oggi nella Chiesa con la vita di San Domenico che, «divenuto sacerdote, fu eletto canonico del capitolo della Cattedrale nella sua diocesi di origine, Osma: una nomina che poteva rappresentare per lui qualche motivo di prestigio nella Chiesa e nella società ma che egli non interpretò come un privilegio personale, né come l’inizio di una brillante carriera ecclesiastica, bensì come un servizio da rendere con dedizione e umiltà». Ma, ha aggiunto, «sappiamo come le cose nella società civile, e, non di rado nella Chiesa, soffrono per il fatto che molti di coloro ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità. San Domenico, invece, parlava sempre con Dio e di Dio».

«Nella vita dei santi - ha commentato Bendetto XVI - l’amore del Signore e per il prossimo, la ricerca della gloria di Dio e della salvezza delle anime camminano sempre insieme. Nel cuore della Chiesa deve sempre bruciare un fuoco missionario - ha concluso - che spinge a portare l’annuncio del Vangelo. È Cristo, infatti, il bene più prezioso che gli uomini e le donne di ogni tempo e di ogni luogo hanno il diritto di conoscere e di amare».

REGGIO CALABRIA. Sessanta-

Nucleare, il governo accelera sull’agenzia L’Aie: servono 10 centrali per centrare gli obiettivi del governo

sette ordinanze di custodia cautelare in carcere, 32 italiani e 35 indiani coinvolti: questo il primo bilancio dell’operazione condotta dalla Dda di Reggio Calabria contro un’organizzazione criminale che gestiva un traffico di immigrati clandestini. Le indagini hanno accertato che alla gestione del traffico avrebbero partecipato due cosche della ’Ndrangheta, quella dei Cordì di Locri e quella degli Iamonte di Melito Porto Salvo. Gli arresti sono stati eseguiti a Reggio Calabria, Milano, Brescia, Crema, Macerata, Siena, Piacenza, Potenza e Avellino. Tra le persone messe sotto custodia ci sono anche un sindacalista e due funzionari pubbli-

di Francesco Pacifico

ROMA. Claudio Scajola vuole accendere il primo reattore nel 2018. Intanto spera che entro la prossima settimana arrivi sia il via libero del Consiglio dei ministri sul decreto legislativo per l’individuazione dei siti sia l’ok di Giulio Tremonti allo statuto della futura Agenzia di sicurezza. Due passaggi senza i quali la corsa all’atomo non entrerà mai nel vivo. Scajola ha provato dare l’ennesima accelerata a questo processo ieri, durante la presentazione del Rapporto dell’Aie sulle politiche energetiche in Italia. Analisi dalla quale risulta che l’indipendenza energetica è nel Belpaese ancora una chimera. Proprio sul ritorno all’atomo, e sull’obiettivo di recuperare attraverso questa fonte il 25 per cento del fabbisogno, il direttore dell’Agenzia Nobuo Tanaka ha spiegato che «servono 8-10 centrali operative nel 2030. Ma ci sono segnali positivi». E fortuna, ha aggiunto, che anche dopo il referendum del 1987, l’Italia abbia continuato l’attività di ricerca. Eppure è ancora «difficile scegliere la localizzazione oltre che essere oneroso. Ma la nuova legge getta le basi che devono essere accompagnate da un impegno a lungo termine e dal sostegno alle popolazioni». Scajola è pronto a raccogliere la sfida: «Mi considero dalla nascita un ambientalista, e sono diventato nuclearista anche per questo motivo». Ma peccato che queste sue rassicurazioni, unite al ricordo che l’Italia dal 1987 ha pagato un extraconto da 60 miliardi di euro, non bastino a tranquillizzare le Regioni. Accanto al pregresso del passato e le sfide per il futuro c’è però da fare i conti con le difficoltà del presente. Nel suo rapporto l’Aie dice che la posizione dell’Italia «in materia di energia rimane vulnerabile sotto vari aspetti. In particolar modo la sicurezza energetica continua a rappresentare una grave preoccupazione». Nel mirino dell’agenzia il non aver portato a compimento le misure prese negli anni scorsi per ridurre la dipendenza del petrolio: promossa la scommessa sulla riconversione degli

impianti metano, bocciati i ritardi sui rigassificatori e sulle pipelines alternative per limitare il peso delle forniture russe e algerine. Come si legge nel rapporto, «l’aumento della capacità produttiva di elettricità è stato reso possibile soprattutto dall’utilizzo di gas, ma ha portato un’accresciuta dipendenza dalle importazioni». Se non «andranno a buon fine» i programmi sul nucleare, la situazione diventerà ingestibile. Anche perché «la capacità di importazione dei gasdotti per il gas naturale è aumentata ma le interconnessioni con le altre reti europee di gas rimangono limitate». L’Aie poi chiede maggiore mercato nel settore del gas. «Bisogna proseguire il programma di separazione delle attività di trasporto, approvvigionamento e stoccaggio; ridurre la percentuale di queste attività sotto il controllo dello Stato; migliorare le disposizioni che riguardano l’accesso allo stoccaggio del gas per inviare al mercato segnali appropriati in materia di investimento». In buona parte le stesse battaglie del ministro e del suo sottosegretario Stefano Saglia, che potrebbe lasciare il suo posto a Daniela Santanchè. Su questi obiettivi è tornato anche il presidente dell’Authority per l’Energia, Alessandro Ortis, spiegando che si deve continuare sulla strada di «un utilizzo sempre più razionale dell’energia». Un processo che si può realizzare con strumenti come i certificati bianchi, al centro del Piano triennale 2010-2012, oppure lavorando per aumentare la concorrenza nel settore gas, separando le attività.

Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia la dipendenza dal gas rende vulnerabile l’Italia. Record per l’eolico

Intanto è arrivato un nuovo dato che dimostra quanto in Italia sia sempre più veloce lo sviluppo delle energie rinnovabili. Ieri Anev, Enea, Aper e Ises hanno comunicato che nel 2009 la produzione eolica ha segnato un record con 1.114 megaWatt di potenza installata e 6,7 teraWattora di energia elettrica generata. Più di 1.100 megaWatt installati nel 2009. Numeri che hanno garantito un taglio di 4,7 milioni di tonnellate di ossido di carbonio presenti nell’atmosfera.

ci. Agli arrestati viene contestato il reato di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Agli affiliati, in particolare, della cosca Cordì la Dda ha contestato anche l’aggravante delle modalità mafiose. Secondo le informazioni raccolte dagli inquirenti, l’organizzazione utilizzava contratti di assunzione fittizi richiesti da imprenditori compiacenti a favore degli immigrati, che avevano così la possibilità di chiedere il visto d’ingresso per l’Italia. Contrariamente al solito, la criminalità non si è dunque limitata allo sfruttamento dell’immigrazione, ma ha assunto un ruolo preminente nella gestione del traffico di immigrati.

Le richieste di denaro che ognuno degli immigrati doveva soddisfare variavano dai 10 mila ai 18 mila euro, con un introito complessivo per l’organizzazione di oltre sei milioni di euro. Le indagini erano state avviate nel 2007 dopo la denuncia presentata da un imprenditore agricolo della provincia di Reggio Calabria, costretto da affiliati alla cosca Iamonte a cedere alcune sue aziende e a presentare documentazione di assunzione per legittimare l’ingresso in Italia di immigrati indiani e pachistani.


politica

pagina 8 • 4 febbraio 2010

Primo sì. Più che affermare il primato della politica o dei giudici è importante fermare il conflitto, dicono a liberal Pace, Verderami e Facci

Senza più alibi Passa la norma sul legittimo impedimento ma non si placa lo scontro tra gli schieramenti di Errico Novi

ROMA. Passa il legittimo impedimento alla Camera, e ci sarebbe di che compiacersi, vista l’inconcludenza esibita finora dalla legislatura sul tema della giustizia. A suscitare avvilimento è casomai il permanere delle polemiche: quasi tutti esasperano il versante ideologico della propria posizione sulla norma; gli antibersaniani del Pd traggono spunto dall’astensione dell’Udc per dichiarare «l’impraticabilità» dell’accordo cercato dal segretario; Di Pietro non sorprende nessuno con le solite battute sul piduismo di regime. Insomma le bandiere sventolano dispettose l’una dinanzi all’altra e a guardare così la scena non sembra intravedersi l’obiettivo finale, ossia il superamento della questione giudiziaria. Se non altro perché essa consiste proprio nella manipolazione ideologica delle vicende giudiziarie, piuttosto enfatizzata dal voto di ieri (approvazione in prima lettura, ora il testo sul legittimo impedimento va a Palazzo Madama dove difficilmente resterà immacolato). Ma se non si provvede a «disinnescare la guerra civile» mai si potrà passare dalle «inevitabili forzature della politica rispetto alla magistratura» a «un contesto normale, dove si afferma il primato dell’equilibrio costituzionale», come dice Filippo Facci, uno dei tre commentatori interpellati da liberal.

Quesito di fondo: quale delle priorità evocate negli ultimi tre giorni di dibattito sulla giustizia (oltre che sulla legge firmata da Enrico Costa) viene innanzi a tutto? Il primato della magistratura richiamato con vari gradi d’intensità da Pd e Idv? Il primato del popolo a cui si appella il Pdl nel pretendere la tutela del premier rispetto alle interferenze processuali? O viene prima l’urgenza di sgombrare il campo dalla quasi ventennale guerra civile tra politica e magistratura, come sostiene l’Udc? Seppure in modo non sempre esplicito, tutti e tre i commentatori chiamati in causa, gli altri due sono Lanfranco Pace e Francesco Verderami, propendono per la terza opzione. Ma l’unico a dichiararsi in modo netto è l’analista del Foglio: «Non sono un tifoso di Pier Ferdinando Casini ma in

Per Il Pd è il momento di liberarsi dall’«impedimento Di Pietro»

Ma adesso il premier deve cambiare strada di Giancristiano Desiderio h, se l’Italia fosse un paese normale! Quante volte abbiamo ripetuto a noi stessi questa nenia. Il legittimo impedimento approvato ieri alla Camera con l’astensione dei cattolici liberali dell’Udc mira a inserire un po’ di normalità nei rapporti tra politica e giustizia disinnescando la doppia bomba della «sovranità elettorale» da un lato e della «sovranità giudiziaria» dall’altro.

A

L’impedimento legittimo, proposto proprio da Pier Ferdinando Casini, è l’applicazione del buon senso alla anormalità politico-giudiziaria che ormai ci trasciniamo dietro da tre lustri: Silvio Berlusconi ha vinto le elezioni ed è bene che governi, ma per farlo non è necessario stravolgere tutto il sistema della giustizia con i processi in corso e, invece, è sufficiente far ricorso al legittimo impedimento che gli riconosce, in quanto presidente del Consiglio e dunque nell’interesse prioritario del Paese, il suo dovere di governare. Casini e l’Udc hanno scelto l’astensione perché rispetto al disegno legislativo originario il Pdl ha allargato la norma-scudo anche ai ministri. Ma, visto lo scopo, la legittimità del legittimo impedimento rimane e ancora una volta la politica dei moderati si rivela preziosa per la vita delle istituzioni. Ora, finalmente, c’è la possibilità di voltare pagina. Il regalo più grande che la sinistra possa fare a Berlusconi e alla destra è la continuazione della politica giacobina. Non c’è bisogno di essere berlusconiani per riconoscere che il capo del governo è stato oggetto di un trattamento da parte della magistratura senz’altro degno di miglior causa: basta un po’ di sincerità. D’altra parte, non c’è bisogno di essere antiberlusconiani per sapere che il Cavaliere è riuscito a trasformare una sfortuna in una fortuna e a convertire una guerra per lui perdente - il giustizialismo - una guerra per lui vincente - la battaglia per la libertà. C’è bisogno, invece, di non essere né berlusconiani né antiberlusconiani (ma nemmeno poi tanto) per rendersi conto che il Paese, che si sarebbe dovuto sbloccare con il bipolarismo, è da quindici anni bloccato da una politica che ha inoculato in se stessa il virus del giustizialismo e non riesce più a essere elemento di equilibrio tra i poteri e le funzioni degli organi dello Stato. Chi ha davanti agli occhi questo problema sa bene che il legittimo impedimento non è fine a se stesso, ma ha come suo obiettivo la creazione di un’occasione: la pos-

sibilità che la politica ritorni a concepirsi come quella unica vita pubblica capace di amministrare lo Stato secondo libertà. Il governo e la maggioranza, una volta superato il problema dei processi del premier, sono in grado di riconoscersi in questa politica? Lo dimostreranno le opere e i giorni che verranno.

questo caso gli vanno riconosciute ragionevolezza e lucidità. La disfunzione di sistema peraltro dovrebbe essere chiara, evidente a tutti, e le rivendicazioni, i proclami ideologici, non dovrebbero trovare spazio».

Il legittimo impedimento libera la strada di Palazzo Chigi che ora non ha più davanti a sé impedimenti, illegittimi o meno che fossero. Il premier a questo punto non ha più alibi: il suo tempo lo potrà dedicare interamente al suo lavoro di primo ministro e il giudizio degli elettori potrà essere espresso sull’operato del go-

Né su un fronte né sull’altro, secondo Pace. «Non è possibile che una carica istituzionale debba passare il tempo a difendersi da accuse che riguardano fatti precedenti alla sua elezione. Si trattasse di tradimento alla Repubblica sarebbe un conto, ma sul resto la guarentigia è normale, tanto più che si tratta semplicemente di sospendere e rinviare i processi, non di annullarli». Ma qui c’è altro, e Pace lo sa, lui che della Repubblica ha conosciuto e persino vissuto le sue vicende più contraddittorie: qui il giustizialismo allude sempre, con tendenziosa ostinazione, al grande inganno portato da Berlusconi all’opinione pubblica italiana, grande inganno che può essere smontato solo inchiodando pubblicamente il Cavaliere alle sue responsabilità, penali ovviamente. «E no, perché se davvero lui è il pifferaio magico vuol dire che gli italiani si fanno incantare perché sono dei topi… e comunque l’incanto non si spezza certo se si buca il palloncino di Berlusconi. È che la sinistra giustizialista vuole l’atto di contrizione alla Kohl, lo pretendeva da Craxi e continua a pretenderlo oggi dal premier». Non vale però nemmeno il proclama ideologico sul primato del popolo, sventolato dal Pdl: «C’è ipocrisia, visto che quel primato davvero si affermerebbe se la magistratura inquirente fosse scorporata da quella giudicante e regolata da un potere di controllo superiore. E invece non lo si fa».

Il governo e la maggioranza, una volta superato il problema dei processi di Berlusconi, saranno in grado di amministrare il Paese? verno e non sui sbagliati provvedimenti giudiziari che ricadono sulla testa di Berlusconi. Ma, se la sinistra ha occhi per vedere, anche il Pd si è liberato dell’impedimento illegittimo che le ostruiva il passaggio: il dipietrismo. Se lo vorranno, ora i democratici e i riformisti potranno accantonare il giacobinismo e se non lo faranno da una parte permetteranno al governo di essere giudicato dagli elettori come il male minore e dall’altra parte continueranno a portare legna al forno di Antonio Di Pietro (tanto per utilizzare una metafora ultimamente in voga). Insomma, il legittimo impedimento vale un po’ per tutti, sempre che si abbiano occhi per vedere e orecchie per intendere e non solo bocche per sparlare.

È il profilo che avvicina il disincanto di Pace alla critica di Verderami per una politica che non diventa mai democrazia deci-


politica che di quella Costituzione si fregiano tutti, compresi i magistrati che hanno lasciato le aule all’inaugurazione dell’anno giudiziario; ma è anche vero che Berlusconi dichiarò nell’ormai lontano novembre 2008 di voler fare assieme il federalismo e la riforma della giustizia; e che la seconda non ha ancora visto la luce, tanto da irrobustire il sospetto, di cui ho scritto in questi giorni, che essa faccia parte di un’assai più ampia trattativa».

Il primato dovrebbe essere della Costituzione e su questo è d’accordo anche un altro notista come Filippo Facci. Delle posizioni di entrambi si può dire che riconoscano nelle leggi come il legittimo impedimento una funzione di «strumento indispensabile» per ricondurre il contesto alla normalità.Verderami e Facci non dicono esplicitamente ma in qualche modo riconoscono che la ricerca di una via, seppur forzata, da parte dell’Udc per uscire dal campo minato dei conflitti è doveroFILIPPO sa. Ma alla fine dei FACCI conti il commentatore di Libero è assai Sarebbe pessimista: «Doauspicabile che con le forzature vremmo immaginare di partire dal punsi disinneschi la guerra civile e to B, cioè dal primato del popolo, o mepossa ritornare glio della politica, il primato non che con una forzatudei giudici ma dell’equilibrio. ra mette in campo il Ma tutto punto C, cioè disinsembra ancora nesca la guerra civiprecario le con la magistratura, in modo che si possa tornare al dente. Perché anche l’analista punto A, ossia al primato non del Corriere della Sera punta l’in- tanto della magistratura quanto dice sulla «comune responsabi- dell’equilibrio costituzionale. Ma lità rispetto alla cancellazione il fatto è che io sono scettico suldel vero primato: quello della l’efficacia delle forzature con cui Costituzione che indica, nel suo si cerca di aprire la strada, perspirito originario, confini precisi ché in Italia puntualmente quetra il potere politico e l’ordine ste hanno respiro breve: alla fine giudiziario. Dal 1992 quel princi- c’è sempre la giurisprudenza che pio è stato distrutto e nessuno ha riporta tutto al punto iniziale, provveduto a porvi rimedio». È cioè a una subordinazione della una tesi in ogni caso originale, perché sotFRANCESCO trae lo scontro sulla VERDERAMI giustizia alla solita ripartizione tra perC’è una comune seguitati e forcaioli e responsabilità mette in discussione nel non aver la volontà di voler ripristinato, davvero uscire dalla dal 1992 ormai, guerra civile. «Nesil primato della suno può armarsi la Costituzione, mano e scagliare che indica un pietre: da una parte confine preciso tra potere c’è chi ha pensato di politico e ordine “fare cassa” con il giudiziario giustizialismo, salvo fare i conti con l’intrusione berlusconiana, dall’altra c’è la scelta di politica rispetto alla magistratuprovvedimenti emergenziali al ra». Tutto è impossibile e relegaposto di un piano organico di to al campo del potere conteso, riforma della giustizia». che, dice Facci, «in questi anni è sempre stato strappato a morsi. È vero, dice Verderami, che «bi- Esagero forse, se dico che la masogna lasciar governare il presi- gistratura non va cambiata ma dente del Consiglio e assicurar- abbattuta». Forse esagera, Facci. gli quelle guarentigie che fanno Perché se ci si rassegna a questo parte dell’atto costitutivo della si ricade, a lume di naso, sempre Repubblica, che erano cioè nella nel cosiddetto punto A, in cui l’ICostituzione del 1948; ed è vero talia è ferma da quindici anni.

4 febbraio 2010 • pagina 9

La battaglia che ha ingessato il Paese per quindici anni

«La sovranità popolare non va a giorni alterni» Il costituzionalista Nicolò Zanon e la «guerra civile» tra primato delle toghe e primato elettorale di Francesco Capozza

ROMA. «Bisogna ammettere che i rapporti tra politica e giustizia soffrono di uno squilibrio che andrebbe rimediato, possibilmente coinvolgendo tutti coloro che non soffrono delle sindromi giustizialiste o girotondine. In concreto, si dovrebbe osservare che non è stata accettata dalla Corte la scelta del legislatore di stabilire una temporanea sospensione dei processi per reati comuni imputati alle alte cariche politiche dello Stato, in nome del preminente interesse al sereno esercizio del mandato per tutta la sua durata». Così il professor Nicolò Zanon, ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università di Milano, scriveva sul blog de L’Occidentale subito dopo la bocciatura del lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale. Dopo molti mesi il parlamento è ancora impegnato a trovare una norma che permetta a Silvio Berlusconi di poter svolgere serenamente il suo ruolo di capo dell’esecutivo. Professor Zanon, ieri la Camera ha dato il suo prima via libera al cosiddetto “legittimo impedimento”. Che ne pensa delle reazioni a questo provvedimento? Per prima cosa mi faccia dire che la norma approvata ieri in prima lettura dall’aula di Montecitorio mi pare un provvedimento di buon senso. E questo per diversi motivi. Innanzi tutto per la sua ragionevole transitorietà e cioè perché mira a coprire un temporaneo vuoto normativo in materia. Si sa, infatti, che il cosiddetto “legittimo impedimento” è, nelle stesse intenzioni del governo, un tampone che per 18 mesi dovrebbe garantire al premier di governare tranquillamante. Dopo lei crede che verrà presentato un lodo Alfano in forma costituzionale? Non so se sarà presentato un lodo-bis per via costituzionale. Se così fosse sarei certamente rassicurato dal rango giurisdizionale e dal fatto che l’elevata maggioranza richiesta e l’eventuale successivo passaggio per le forche caudine del referendum renderebbe quel testo effettivo e non più impugnabile, neppure dalla Suprema Corte. Tornando al “legittimo impedimento”, come giudica i differenti approcci delle opposizioni? Apprezzo l’Udc che ha saputo cogliere il buon senso che sta alla base della norma in oggetto, ma non ho notato alcuna iniziativa politica costruttiva da parte del Partito democratico. L’intervento dell’onorevole D’Alema, per esempio, non mi ha trovato d’accordo praticamente su nulla. Dispiace che non si possa trovare un punto di accordo su un tema come questo che,

a mio avviso, è un ragionevole compromesso per garantire al paese di essere governato. A proposito di maggioranza e opposizione, da 15 anni, cioè da quando Berlusconi è sceso in campo, sembra essersi radicato questo assunto: il centrodestra ritiene che la sovranità popolare sia sovrana e per questo superiore a qualsiasi norma o intervento della magistratura. Il centrosinistra, viceversa, ritiene che la legge sia uguale per tutti e quindi anche chi ha incarichi di governo dovrebbe sottostare alla sovranità giurisdizionale. È realmente così che stanno le cose in Italia?

Dispiace che non si possa trovare un accordo su un tema come questo che, a mio avviso, è un ragionevole compromesso per garantire al Paese di essere governato

Francamente mi sembra che quello del centrosinistra sia un ragionamento un po’ banalizzato di un problema ben più ampio e complesso. Personalmente non ho mai creduto che la sovranità popolare fosse un “lavacro” dove attingere ora sì, ora no. Certo è, e di questo sono fermamente convinto, che chi ha incarichi altissimi di governo, come il presidente del Consiglio, debba poter esercitare le sue funzioni senza altri impedimenti. Di questo credo debba darne conto anche la magistratura. D’altronde è la stessa Corte costituzionale che, in occasione del lodo Alfano, ha parlato di «sereno esercizio delle funzioni di governo». Se si trova la chiave per non ledere i principi fondamentali della Costituzione, credo che un provvedimento teso a garantire questo «sereno esercizio» sia solamente di buon senso. E poi, adesso può servire a Berlusconi, domani chissà...


panorama

pagina 10 • 4 febbraio 2010

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Attento Sud, hai perso il «papà-Stato» a vera differenza tra Nord e Sud risiede nell’economia privata e nella società civile: nelle regioni settentrionali c’è una produzione di lavoro e di reddito in una quantità almeno sufficiente da permettere la relativa autonomia della società rispetto alla politica e alla gestione degli enti locali; viceversa, nelle regioni meridionali, causa la scarsa produzione di lavoro e reddito non c’è autonomia della società rispetto alla politica. Risultato? I cittadini e gli elettori guardano alla politica - Stato, Regione, Comune - come a un deus ex machina e la politica, pur essendo in concreto impotente, diventa potente oltre la sua giusta misura creando quasi sempre quegli abusi di potere che non aiutano a ridurre la differenza tra Nord e Sud ma la alimentano e allargano. Che fare? La domanda è da girare direttamente ai candidati Stefano Caldoro ed Enzo De Luca.

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Il candidato del centrodestra si è già segnalato per alcune promesse. Dice che ridurrà le tasse, darà il benservito ai dirigenti sanitari nominati dai politici, si impegnerà a far nascere un Politecnico della Campania. Le dichiarazioni della campagna elettorale lasciano il tempo che trovano se insieme ai fini non indicano anche i mezzi con cui realizzarli. Il generale De Gaulle liquidò un suo sostenitore che lo invitava a «togliere di mezzo i cretini»: «È un programma troppo vasto». Il candidato del centrosinistra, impegnato ancora a farsi accettare dai partiti che lo dovranno sostenere, non ha ancora detto cosa vuole fare, ma conoscendo il sindaco di Salerno, accostato da Piero Craveri al mitico sindaco di Bologna Giuseppe Dozza, siamo certi che non tarderà a illustrare i suoi obiettivi. Se poi questi saranno anche corredati dai mezzi con cui realizzarli è un altro paio di maniche. Eppure, se vogliono essere credibili e utili, soprattutto per almeno tentare di ridurre e non aumentare la differenza sia economica sia politica tra Nord e Sud, è proprio questo il problema dei due candidati: con quali mezzi faranno ciò che dicono di voler fare? La prossima legislatura regionale sarà decisiva. Sulla base del Titolo V della Costituzione, la regione non sarà più un ente locale ma si trasformerà in una Regione-Stato di oltre sei milioni di abitanti. La Regione-Stato della Campania avrà un suo governo che avrà, rispetto ad oggi, ancora una maggiore autorità impositiva e chi sarà chiamato a ricoprire la carica del “capo del governo dello stato regionale” dovrà mostrare autorevolezza sia “interna” sia “esterna” ossia tanto nei riguardi dei cittadini campani tanto nei confronti delle altre Regioni e dello Stato. Dal momento che i debiti non saranno coperti dallo Stato, è evidente che questa autorevolezza non potrà essere il frutto della solita politica clientelare che è causa della diversa geopolitica meridionale, ma dovrà nascere per forza di cose da una diversa concezione ideale della politica e dello Stato-Regione. In due parole: o si cambia o si muore.

Quest’Europa senza leggi confonde le religioni I sistemi legislativi non affrontano l’emergenza-Islam di Luca Galantini a proposta del Parlamento francese di vietare l’uso del burqa e del niqab – i veli che coprono integralmente il volto delle donne di fede islamica – ha riproposto in termini crudi la vexata quaestio sul diritto di libertà religiosa nei Paesi europei.Va da sé che le polemiche sollevatesi anche nel nostro Paese sul tema della libertà religiosa, e sull’uso dei simboli religiosi in particolare, siano riconducibili soprattutto all’estrema difficoltà che le comunità islamiche, in Europa sempre più numerose, mostrano nel saper conciliare il rapporto tra la fede e i diritti fondamentali della persona che si incarnano nello stato di diritto occidentale.

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La globalizzazione, come tutti i fenomeni sociali, non è in sé buona o cattiva, va più realisticamente governata, al fine di permettere che quanti più cittadini, pur di culture, religioni e gruppi etnici-lingustici differenti, possano godere dei diritti fondamentali riconosciuti alla persona umana. E la libertà religiosa è il primo di questi diritti, come forma di manifestazione della libertà di pensiero. Ma proprio il fatto che la Ue vanti un campionario legislativo di principio e addirittura regolamentare ispirato alla priorità dei diritti umani, lascia interdetti di fronte alla estrema difficoltà dimostrata dagli Stati europei nel regolare il fattore religioso nella società civile in tempi di globalizzazione. Ma insomma, come è regolamentata oggi in Europa la libertà religiosa? Lo Stato laico moderno non è confessionale e riconosce la libertà religiosa, ma stabilisce ovviamente dei limiti al suo esercizio, limiti che secondo il diritto positivo dei principali Paesi è dato dal «principio dell’ordine pubblico»: cosa che potrebbe apparire ragionevole in sé, ma che invece di fatto discrimina il fattore religioso in quanto lo subordina esclusivamente all’assetto politico dello Stato. Un esempio concreto ci è dato dalla Francia, dove il secolarismo laicista dello Stato ripudia di fatto la religione come fattore culturale che possa concorrere pubblicamente allo sviluppo della società civile, confinando le manifestazioni religiose nel privato. Questo modello di laicitè che mira ad imporre ex lege una sorta di uniculturalismo indifferente alla religione si è mostrato nei fatti fallimentare, in quanto non integra, bensi radicalizza il confronto e lo scon-

tro con le comunità religiose, in primis con quella islamica, la prima in Europa quanto a numero demografico. Questo orientamento teso a perseguire e sanzionare qualunque manifestazione in pubblico della fede religiosa, come l’esposizione del crocefisso in aule pubbliche è stato recepito anche da istituzioni internazionali, come la Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, attraverso gravi forme di discriminazione cristofobica come la celebre sentenza pronunziata a favore della signora Lautsi contro lo Stato italiano del novembre 2009. Molto più acuta e lungimirante la legislazione americana, che, consapevole dell’importanza fondamentale del fattore religioso grazie ai Pilgrim Fathers, - i Padri fondatori sin dalla Costituzione si impegna a porre limiti alla libertà religiosa solo ove la stessa attenti ad un “interesse imperativo” dello Stato: è il cosidetto principio del compelling interest, formalizzato nel Religious Freedom Restoration Act del 1993, in virtù del quale le manifestazioni di fede religiosa non possono essere proibite o limitate se non attentino agli interessi generali del bene comune della Nazione.

Al contrario, negli Usa da sempre si mettono in relazione le scelte personali e gli interessi generali della Nazione

Situazione ancor più ad alto rischio in Gran Bretagna, dove un’incauta applicazione del modello multiculturale ha creato una pericolosa breccia nell’unità del sistema legislativo inglese. Infatti, le comunità islamiche in ogni parte del pianeta identificano sostanzialmente la legge religiosa, la sharia, con quella civile e ciò ha determinato la pretesa dei musulmani di disapplicare la legge britannica a favore della sharia, con la conseguenza dell’apertura istituzionale a gravissime forme di discriminazione in materia di diritti fondamentali della persona sui temi della parità tra i sessi, libertà di fede e apostasia, divorzio e separazione, insegnamento religioso, diritto di famiglia. L’incertezza e la frammentazione con cui i legislatori europei si muovono su un tema cruciale come quello della libertà religiosa minano la credibilità degli Stati in relazione all’aggressività del fondamentalismo islamico ponendo a repentaglio i fondamentali dei cittadini liberi: non a caso purtroppo l’Unione europea ha rinunziato a inserire le radici cristiano-giudaiche tra le fonti del patrimonio identitario della Ue.


panorama

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Il nostro Paese non è tanto “spaccato in due” come certi politici vorrebbero far credere ai loro sostenitori

E il bipolarismo tradì l’Italia Un fallimento che ha anche ragioni storiche e affonda le radici nella «società omogenea» di Giampaolo Rossi a politica debole nella rilevazione dei bisogni della società cerca sempre di supplire alla scarsità delle proposte con slogan, con imperativi categorici che si assumono come non discutibili. Uno di questi è il bipolarismo: «Solo il bipolarismo può garantire la governabilità e l’investitura da parte del popolo; senza bipolarismo c’è instabilità e trasformismo». La crisi della politica e delle istituzioni e il crescente, incontestabile distacco con la società dovrebbero indurre a riflessioni meno schematiche e fondate su considerazioni di più ampia prospettiva.

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Il bipolarismo, come ogni formula politica, è nato e si è sviluppato in un contesto ben preciso e diverso dall’attuale. Quando la differenza fra abbienti e non abbienti, che impedisce la democrazia, è stata sostituita, con la rivoluzione industriale, da quella tra “più abbienti” e “meno abbienti” sono nate due formazioni politiche con obiettivi opposti: l’accomulazione o la redistribuzione della ricchezza. L’alternanza al potere ha garantito, in qualche misura, entrambe le esigenze. In Italia, per lungo tempo non vi è stata alternanza, ma il carattere interclassista della Dc e il contributo che si è avuto dall’opposizione in sede parlamentare e attraverso le formazioni sociali hanno determinato progressiva-

mente una consistente omogeneità sociale. Anche la Chiesa vi ha dato un importante contributo. Basta pensare all’abolizione della mezzadria, che ha prodotto un importante cambiamento nei rapporti sociali, nel consolidamento della democrazia, nella diffusione dell’imprenditorialià.

La realtà della società italiana a partire dagli anni Settanta è stata quella della “società omogenea”, fe-

nomeno non studiato dai politologi di ispirazione anglosassone perché i loro paesi non lo hanno conosciuto. La società omogenea non è una società di uguali in senso economico ma esclude profonde disuguaglianze e individua nella dinamica sociale ed economica un punto di equilibrio fra uguaglianza e sviluppo che ancora sfugge sia alla destra liberista che alla sinistra. Anche se nell’ultimo decennio la forbice fra le condizioni sociali si è più aperta, in qualche caso oltre misura, il sistema italiano è ancora caratterizzato da un elevato tasso di omogeneità; si tratta di un valore che va conservato e rafforzato. Chi conviene con questa costatazione dovrebbe spiegare come si può applicare in un contesto del genere lo schema del bipolarismo; sulla base di quali parametri, di quali programmi si può dividere il paese in due e individuare chi possa trovarsi nell’uno o nell’altro blocco.

Spesso la rissosità tra alcuni partiti dipende dal fatto che puntano allo stesso tipo di elettorato

Il fallimento del bipolarismo in un paese omogeneo è di tutta evidenza perché il carattere artificiale della divisione finisce, questo si, per promuovere il trasformismo delle alleanze politiche che si creano per prevalere nel confronto elettorale e premia le minoranze più determinate. Che la recente e contemporanea formazione

di due grandi partiti non fosse il frutto di una maturazione politica ma il prodotto artificiale di una esigenza elettorale lo si è visto in entrambi gli schieramenti. La realtà italiana si governa da un Centro che si allei sulla base di programmi, non per ragioni di equilibrismi ma perché è questa la risposta politica a una società omogenea. Il sistema elettorale deve consentire una riallocazione delle posizioni politiche nel lungo periodo e non può imporre un bipolarismo forzato che non garantisce neppure la stabilità dei governi. Anche la rissosità frai partiti non deriva, salvo qualche caso, dalla voglia di litigio ma dal fatto che si contendono lo stesso tipo di elettorato e quindi devono inventare argomenti per sostenere che la loro posizione è la migliore e che gli altri sono scorretti, in mala fede o comunisti o fascisti o non hanno un comportamento sessuale corretto o comunque sono brutti e cattivi. Ciascuno parla a nome degli italiani o della “gente”e ritiene di essere l’unico ad interpretarne esattamente i bisogni.

Tutta la politica ha bisogno di recuperare una visione di lungo periodo, radicata nelle esigenze di vita della popolazione, in grado di capire le trasformazioni interne e esterne e di pensare a un futuro condiviso e più umano.

Il caso. C’è un buco nelle password del social network che ha dato voce ai dissidenti iraniani

E Twitter si scoprì vulnerabile di Andrea Ottieri prima vista, sembra una piccola notizia: Twitter, il sito di micro-blogging, ha chiesto a una serie di utenti di modificare i propri dati di accesso perché forse sono finiti nel mirino di criminali informatici a causa della cattiva abitudine di usare sempre la stessa password per i diversi servizio on line. Una cosa tipo il richiamo delle automobili difettose. In realtà, la questione è molto più importante. Il social network ha spiegato sul suo sito di aver chiesto agli iscritti di cambiare la password di accesso al profilo perché crede che un «piccolo numero» di account possa essere stato compromesso da siti terzi. In particolare Twitter punta il dito contro «non identificati» forum e siti «torrent», quelli che consentono a utenti di scaricare file audio e video dalla rete col sistema del peer-to-peer. Siti che sarebbero stati messi in piedi «con il solo scopo» - dice sempre Twitter - di richiedere la registrazione degli internauti, per poi utilizzare nomi utente, password e indirizzi email inseriti per cercare di violare gli account di quelle persone su Twitter. Il tutto approfittando dell’abitudine degli internauti di registrarsi e

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iscriversi a molti servizi on line sempre con la stessa password.

Considerazione immediata: la Rete ha molti buchi neri nei quali è sempre possibile (facile?) che qualcuno si infili. Il caso di Twitter in particolare colpisce perché questo social network deve la sua fama mon diale per essere stato l’u-

Tornando al “buco nero”di Twitter scoperto ieri, il numero degli utenti cui è stato chiesto di modificare la propria password rimane un mistero, anche se un portavoce di Twitter ha affermato che le persone coinvolte sono «davvero poche». Del Harvey, direttore per la sicurezza di Twitter, ha confermato al sito CnetNews che «non è avvenuta nessuna perdita di dati da parte della compagnia», ma che Twitter ha «individuato un’alta correlazione fra utenti con account su siti “torrent” e suoi utenti con account forse compromessi». Infatti non è un problema di perdita di dati, ma di “sovra-esposizione”di identità.

Per i responsabili della sicurezza in Rete, qualcuno sta cercando di identificare gli autori dei messaggi, per rubare loro dati e identità nico strumento di comunicazione “libero” (a questo punto le virgolette sono d’obbligo) durante la rivolta dell’Onda Verde in Iran. Insomma, dietro questo piccolo incidente c’è il problema grave della sicurezza della Rete, tema rilanciato nelle scorse settimane dalla sfida Usa-Cina intorno a Google e alla possibilità che attraverso la Rete il regime cinese abbia potuto identificare e perseguitare alcuni dissidenti.


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uando a suo tempo si preparava a scendere nel campo della politica politicante, il Cav. ruppe gl’indugi - lo ricordiamo tutti - sponsorizzando la candidatura del Gianfranco Fini di allora alla carica di primo cittadino di Roma. Quell’endorsement produsse il famoso “sdoganamento” della Destra, ma fece pure aprire il cielo. Il partito di Fini si chiamava ancora Movimento Sociale Italiano, Alleanza Nazionale era ancora di là da venire, e i soliti noti si stracciarono le vesti gridando allo scandalo e agitando lo spettro delle contumelie internazionali. Accadde invece il contrario, benché non subito, anche se gli esami per Fini e per i suoi si sono protratti più del necessario. Fra coloro che hanno speso ben più di una buona parola per spiegare al mondo cosa realmente stesse accadendo in Italia vi è Angelo M. Codevilla. Forte della propria autorevolezza e di una credibilità specchiata, insospettabile di qualsiasi collusione con estremismi e follie, Codevilla si permise anche il gran lusso di giocare la carta dell’oriundo, di parlare per conoscenza diretta, di sfoggiare la lingua del posto.

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Italo-americano, conservatore “moderno”, fu l’id

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Non gli sembrava vero. L’Italia, quella sua Italia mai dimenticata, diventava matura, riconsiderava i propri spazi politici, dava cittadinanza a un progetto antisfascista serio e ragionato. Codevilla aveva del resto in mente e in cuore un grande modello, quello dell’Amministrazione statunitense retta dal 1980 al 1988 da Ronald W. Reagan (1911-2004) capace d’interpretare appieno e quindi di servire lealmente quel vasto movimento di opinione e di popolo detto conservatore che Oltreoceano elaborava e costruiva proficuamente già da un trentennio. Codevilla pensava a quel precedente, a una Destra moderna ma non modernista, modernizzante ma non spersonalizzante, rivolta al futuro ma ricca di una memoria profonda, fautrice della libertà economica anche più spinta e assieme certa dell’invalicabilità di confini sanciti da princìpi non negoziabili. Tutto questo Codevilla lo pensò, lo disse, lo scrisse; venne dagli Stati Uniti per affermarlo e ribadirlo, confutando le malelingue locali per esempio dalle pagine di quel periodico Commentari, diretto abilmente da Lucio Lami, che imitava apertamente

Angelo M. Codevilla. Qui sotto, Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. Nella pagina a fianco: Ronald Reagan mente a punto lo Strategic Defense Initiative, ossia l’astuto sistema di deterrenza antisovietico noto popolarmente come “Star Wars”che, proposto nel 1983 e messo in essere l’anno successivo, permise all’Amministrazione Reagan nientemeno che di vincere la Guerra fredda senza sparare un solo colpo né versare una sola goccia di sangue.

Il biglietto da visita che Codevilla presenta al mondo ha la voce di sua moglie Ann, incisa sulla segreteria telefonica. Lasciare un messaggio dopo il bip oppure provare sul cellulare, «potremmo essere nella vigna». Mi torna in mente Gustave Thibon (1903-2001), francese, autodidatta: per una vita intera coltivò le uve di SaintMarcel-d’Ardèche e un giorno il famoso neotomista, altrettanto francese, Jacques Maritain (1882-1973) gli chiese di raccogliere in libro le sue riflessioni su san Tommaso d’Aquino (1225-1274) perché (diceva Maritain) come lo capisce lui il Dottore Angelico non lo capisce nessuno. Anche Angelo, in California, produce vini,

Quando la destra (italiana) sognava Reagan

È stato Angelo M. Codevilla, nel 1994, a raccontare il centrodestra nostrano agli americani. Ma oggi il Pdl non ha più gli stessi punti di riferimento... di Marco Respinti

In “The Character of Nations” si dice che la politica contro l’uomo è un tratto tipico dell’evo moderno, che invece precipita le società ai tempi tirannici dei faraoni e della politica magica lo statunitense Commentary, e rassicurando i partner stranieri. Frequentò i simposi del centrodestra italiano portandovi l’esperienza del mondo reaganiano e se ne ripartì con mani piene di testimonianze dirette, prove di affidabilità, gesti concreti. Una manna, in teoria, per quel centrodestra italiano che non faceva mistero d’ispirarsi alle esperienze politiche del decennio reganiano. Poi però tutto è andato com’è andato, cioè ognuno lungo la propria strada, il centrodestra nostrano ha smarrito Reagan e Codevilla è tornato negli Usa e nessuno lo ha più scomodato. Angelo M. Codevilla - negli Stati Uniti l’iniziale del middle-name è di rigore anche per gl’immigrati - vive a Plymouth, in California. Il suo cognome è quello di un paesello di 917 abitanti nell’Oltrepò Pavese e la sua storia quella di un italiano che negli Stati Uniti ha sbaragliato la concorrenza non con pizza e mandolino. Codevilla fu infatti colui che mise concettual-

omonimi, i Codevilla: turriga, sauvignon blanc, moscato fior d’arancio, zinfandel, nel blasone della sua azienda ha voluto, con orgoglio e per memoria, lo scudo della cittadina pavese. Alle sue spalle sta una carriera imponente. Nato a Voghera nel 1943, dopo il liceo emigra Oltreoceano con la famiglia. Nel 1962 diviene cittadino statunitense, nel 1965 esce dalla Rutgers University di New Brunswick, nel New Jersey, dove ha studiato Scienze naturali, Lingue e Scienze politiche, quindi si perfeziona alla University of Notre Dame di South Bend (sobborgo d’Indianapolis) allievo dell’indimenticato pensatore e stratega voegeliniano Gerhart Niemeyer (1907-1997). Nel 1966 si sposa (avrà cinque figli), serve la Marina americana da ufficiale, studia alla prestigiosa Claremont Graduate School, nell’omonima cittadina californiana, con Leo Strauss (1899-1973) e nel 1973 consegue il Ph.D. in Studi sulla sicurezza nazionale, Politica estera degli

Stati Uniti e Scienze politiche. Dopodiché insegna in svariati atenei, concludendo nel 2009 la carriera sulla cattedra di Relazioni internazionali dell’Università di Boston, dov’è giunto nel 1995.

Autore di testi importanti, forse talora persino fondamentali di cui però nemme-

no un rigo è disponibile in italiano, traduttore in inglese di Niccolò Machiavelli (1469-1527), oggi Codevilla continua a scrivere libri, bei libri (il più recente, uscito l’anno passato per la newyorkese Basic Books, è Advice for War Presidents: A Remedial Course in Statecraft), ne progetta di nuovi (il working title di quello a


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deatore delle Star Wars che hanno sconfitto l’Urss

ce del Senato statunitense.Ha dell’incredibile che un personaggio così non firmi da opinionista sui grandi media italiani, che non intervenga nei nostri logori talk-show televisivi, magari al posto di certi altri nomi inflazionati, che i suoi seri studi e le sue analisi raffinate non siano moneta corrente dell’accademia del nostro Paese. Codevilla lo pensa, certamente, ma da gentiluomo non lo dice. E con altrettanta raffinatezza non perde però occasione per ricordarmi, a ogni incontro, Oltreoceano, che lui l’Italia l’ha sempre nel cuore, che si sente sempre pavese, che si pregia di parlare il lumbàrd...

Alla nostra cultura stanca e alla nostra politica già vista farebbero un gran bene le lezioni reaganiane del professor Codevilla. L’italiano Codevilla ha infatti imparato perfettamente a fare l’americano, e il suo ritorno in metropoli carico dei frutti maturati nella provincia coloniale contribuirebbe non poco a raddrizzare qualche gamba storta del Bel Paese. Mi spiego. Gli Stati Uniti sono quel luogo del mondo dove capita, più spesso che no, che persino la politica più praticona, più terra terra, magari più apparentemente cinica venga elaborata e condotta dentro solidi schemi di riferimento morale e pure con quel supplemento d’anima che altrove è invece ignoto.Vi sono cioè analisti, think tank e organizzazioni che vivono di pane e missili quotidiani e che comunque sono in grado sia di elaborare sottili dottrine etiche di supporto sia – cosa ancora più difficile, ma per questo preziosa – di non separare mai l’una co-

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altro uomo da “pane e missili”e cristiano fervoroso, canonico della Chiesa episcopaliana americana, padre di svariati figli, stratega che pensava la politica con la testa di C.S. Lewis, cultore di mistica e convertito al cattolicesimo che quasi aveva novant’anni. Una buona compagnia, insomma, quella che circonda Angelo Codevilla, autore di un grande classico, The Character of Nations: How Politics Makes and Breaks Prosperity, Family, and Civility, pubblicato nel 1997 e a fine 2009 riedito in veste aggiornata dalla Basic Books a New York. Parrebbe un fuori tema rispetto a quelle tecnologia e balistica di cui lo studioso italo-americano si occupa costantemente, ma così non è. Forse è invece proprio un libro come questo, dove il Codevilla-pensiero esce a tutto tondo, a fondare gli altri, l’ordine cronologico di pubblicazione non importa, quello logico sì. In The Character of Nations si dice infatti che lo Stato non coincide con il governo di una società, che il governo non viene esaurito dalla sola politica di partiti ed elezioni, e che la politica veramente a misura di uomo, e magari secondo il piano di Dio (lo diceva Papa Giovanni Paolo II, per il cattolicissimo Codevilla non è una idea peregrina), insomma che l’umanesimo autentico parte dalla coltivazione di sé e finisce nel seno della famiglia. In The Character of Nations si dice che la politica contro l’uomo, quella in cui lo Stato si prende tutto per prime le persone, è un tratto tipico dell’evo moderno, che finge di voler modernizzare ogni cosa e che invece precipita le società ai tempi tirannici dei faraoni, della politica magica, del potere divinizzato.

Insegnò le basi del conservatorismo a stelle e strisce a una parte politica che diceva d’ispirarsi proprio a quel modello. Poi, però, ognuno se n’è andato per la propria strada

cui sta alacremente lavorando è The Technology of Ballistic Missile Defense), interviene sapidamente su The American Spectator (mensile di lusso del conservatorismo statunitense diretto da R. Emmett Tyrrell jr. ad Arlington in Virginia, a tiro di metropolitana da Washington) e, ovvio, cura con grazia e perizia i suoi viti-

gni, ricordando gli anni passati come ricercatore alla Hoover Institution on War, Revolution, and Peace dell’Università californiana di Stanford - quella di Eric Voegelin (1901-1985) e di Robert Conquest, per intenderci - e soprattutto quelli spesi nello U.S. Foreign Service, nonché nello staff del Select Committee on Intelligen-

sa dall’altra, anzi di temere come il fuoco ogni e qualsiasi iato. È la storia, per esempio, della famosaThe Heritage Foundation fondata a metà degli anni 1970 e diretta a Washington da Edwin J. Feulner jr. Da sempre casamadre di expertise, paper e analisi sui mille aspetti della politica, attenta alla difesa strategica o al budget nazionale, la Heritage ha negli anni sviluppato sensibilità crescente per le questioni morali, ma con una naturalezza che lascia positivamente stupiti, maturando la granitica convinzione che pure per valutare bene il pil o per trivellare correttamente un giacimento petrolifero occorre non derogare mai ai suddetti princìpi non negoziabili. E così alla Heritage si studia oggi anche l’importanza dell’istituto familiare e della pratica attiva della religione nella costruzione di una cittadinanza davvero libera e sul serio responsabile. Che il mensile dell’ebraismo statunitense Commentary, diretto a NewYork per 40 anni da Norman Podhoretz e oggi da suo figlio John, sia divenuta dal periodico “confessionale” e di settore che era, tutto attento a intelligence, counter-intelligence e sicurezza di USA e Israele, sia divenuto, dicevo, quel grande strumento di etica culturale che è oggi, non meno “confessionale” e di settore, ma più nobilmente e al mondo utilmente tale, è un altro esempio importante. Né va scordato il Niemeyer che fu maestro di Codevilla, socialisteggiante nella sua gioventù tedesca funestata dall’avvento del nazionalsocialismo, convertito a pensieri più occidentali con la maturità,

In The Character of Nations si dice che la statolatria e il panpoliticismo sono malattie morali proliferate oramai in epidemia; morbo tipico dei dirigismi, dei totalitarismi e di certi democraticismi da cui è funestata gran parte dell’Europa oggi, gli Stati Uniti fondati altrimenti ne erano immuni epperò oggi un po’ meno, anche’essi essendo stati contagiati dalla medesima febbre: Sorpresa che il libro sia stato ripubblicato e sia ora più fresco di ieri? In The Character of Nations dice Codevilla che non c’è da aspettarsi alcunché dai regimi politici e dai loro affiliati, ma che semmai è l’uomo giusto e buono coltivato a partire dalla famiglia sana e viva che può influenzare il governo della società. Senza illusioni di facili taumaturgie, però: l’effetto migliore sui regimi politici che l’uomo può pensare infatti di produrre per la costruzione del bene comune è quello di limitarne il più possibile le prerogative. Un bel pensiero, quello di Codevilla, che certo non è uno di quei libertarian sfegatati a cui sono familiari questi ragionamenti, anzi che semmai appartiene a una cultura più “centrista” del conservatorismo, qualcuno direbbe “liberale”, ma vacci a capire tu che significa oggi quel termine passepartout. Insomma, se siede un uomo tra noi che ancora ricorda la lezione reaganiana si alzi e richiami chez nous Angelo Codevilla, almeno come visiting friend su quella rotta del ritorno a casa che già fu del grande navigatore genovese che ci scoprì la freschezza sempre nuova e sempre sorprendente dell’America. (www.marcorespinti.org)


mondo

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Polemiche. I giudici del Tpi si dividono sulle prove presentate da Luis Moreno Ocampo, che pretende l’arresto di al Bashir

Le mille giravolte dell’Aja Il Tribunale internazionale ribalta la tesi sul genocidio del Darfur, ma resta fermo di Osvaldo Baldacci a Corte Penale Internazionale gioca a carte con il Sudan. La Camera d’appello del Tribunale dell’Aja ha annullato la sentenza del 4 marzo scorso nei confronti del presidente del Sudan, Omar al-Bashir. Contro la sentenza aveva presentato appello il procuratore Luis Moreno Ocampo, perché la Corte non aveva accolto la richiesta di introdurre nel mandato d’arresto anche l’accusa di genocidio. Quindi non un’assoluzione né una condanna, ma una questione burocratica, benché in ballo ci siano le storie di migliaia di vittime e il futuro di intere popolazioni. La decisione dei giudici impone alla Corte di riesaminare la posizione di al-Bashir, sulla base di diversi motivi procedurali, relativi in particolare all’assunzione delle prove sulle “intenzioni di genocidio”del leader africano. Il 4 marzo dello scorso anno la Corte aveva accolto la richiesta di un mandato internazionale di arresto nei confronti del presidente del Sudan, Omar al Bashir, basandolo sull’accoglimento di cinque capi d’imputazione per crimini contro l’umanità e due per crimini di guerra per il conflitto nel Darfur, mentre lo aveva pro-

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sciolto dall’accusa di genocidio. Aveva già destato molto scalpore il mandato di arresto spiccato all’epoca, il primo mai emesso dalla Corte penale internazionale contro un Capo di Stato in carica, con conseguenze giudicate preoccupanti sul piano tanto delle relazioni internazionali quanto delle possibili ripercussioni interne, con in più la preoccupazione per la perdita di credibilità a seguito di un’ingiunzione di arresto palesemente inattuabile. Come sempre in-

nando nuove tensioni e preoccupazioni, senza però alcuna capacità di incidere realmente nella situazione locale. «La questione non riguarda la questione di sapere se al Bashir è responsabile o no di crimini di genocidio. L’appello è relativo a questioni procedurali», ha spiegato il giudice finlandese Erkki Kourula, «La Camera d’appello ordina di prendere una nuova decisione basandosi su una buona amministrazione della norma di prova», ha dichiarato.

Quella pronunciata ieri non è un’assoluzione né una condanna, ma una questione burocratica, benché in ballo ci siano le storie di centinaia di migliaia di vittime e il futuro di intere popolazioni torno al Darfur e al Sudan si era comunque evitato di usare il termine genocidio. La maggioranza della Camera aveva giudicato che il materiale messo a disposizione dal procuratore Luis Moreno Ocampo «non ha fornito ragionevoli motivi per credere che il governo del Sudan abbia agito con lo specifico intento di distruggere, in tutto o in parte, i gruppi Fur, Masalit e Zaghawa». Ora tutto quell’impianto torna in discussione, scate-

«La decisione della camera delle udienze preliminari di non emettere un mandato per il reato di genocidio conteneva un vizio di forma». Contro al Bashir dovrà quindi essere tenersi un nuovo processo. Se la Cpi dovesse accogliere la tesi dell’accusa e incriminarlo, Bashir sarebbe il primo capo di stato in carica a dover difendersi dall’accusa di genocidio davanti alla Corte dell’Aja, ammesso che si possa mai tenere il processo.

I dubbi su tale procedura sono molteplici nella comunità internazionale. A partire appunto dall’applicabilità dell’arresto di un capo di Stato in carica.Tanto più che molte nazioni si sono mostrate radicalmente contrarie al pronunciamento della CPI: tutta la Lega Araba e l’Organizzazione della Conferenza Islamica, per solidarietà di appartenenza, gran parte dell’Unione Africana e molti regimi non democratici, che non sono stati dissuasi dall’atteggiamento aggressivo del Tribunale ma al contrario si sono visti rafforzati in un sentimento di ostilità a ogni ingerenza. Per non tener conto del maggior sponsor del Sudan, la Cina. Khartoum all’e-

poca reagì con forza, il presidente si fece vedere proprio in Sudan, organizzò subito viaggi all’estero in Paesi amici, e avviò ritorsioni su organismi internazionali operanti nel suo Paese. E anche stavolta il Sudan ha reagito molto male. Il governo ha accusato la Corte penale internazionale di voler compromettere le elezioni di aprile e il dialogo con i ribelli del Darfur, riesaminando l’accusa di genocidio. «Il Cpi vuole compromettere il processo politico in Sudan e i negoziati in corso a Doha», ha dichiarato Kamal Obeid, ministro dell’Informazione e portavoce del governo. «Il momento scelto per annunciare questa decisione mostra che il Cpi vuo-

Padre Justo Lacunza Balda, ex rettore del Pisai, denuncia le contraddizioni di un conflitto che appare e scompare dalle scene

«Ma del Paese non importa a nessuno» ROMA. Il procuratore generale Moreno Ocampo ha chiesto di inserire fra i reati del presidente sudanese Omar al Bashir, feroce islamista, anche il genocidio. Il tribunale dell’Aja ha deciso di riesaminare l’accusa. Mentre in Europa il processo procede con i suoi tempi, in Sudan la tragedia quotidiana diventa sempre più sanguinosa. Ne parliamo con padre Justo Lacunza Balda, già rettore del Pontificio istituto di studi arabi e d’islamistica e grande conoscitore dei problemi locali. Qual è la situazione in Darfur? Continua a peggiorare sia dal punto di vista degli aiuti alimentari, che da quello della sicurezza. Fame e paura dei continui attacchi delle forze del governo e dei miliziani: è questa la vita quotidiana in Darfur. E ogni giorno che passa la violenza aumenta, se non si fa nulla le cose non si risolvono da sole. Il conflitto inoltre si sta allargando e sta investendo il Ciad. Anche lì come in Sudan c’è un governo islamista. E anche lì si moltiplicano le persecuzioni a chi aderisce ad altre religioni, primi fra tutti i cristiani e, in particolare, i cattolici. Il Darfur è una piaga profonda che conta-

di Gabriella Mecucci gia altri paesi. Il governo del Sudan dovrebbe ascoltare le sollecitazioni degli organismi internazionali ed agire di conseguenza, ma nulla si muove. La situazione, dunque, degenera progressivamente.

guaio è che questo non fa più nemmeno notizia. Mentre i grandi organismi internazionali, a partire dall’Onu, non hanno alcuna capacità di offrire soluzioni a questo gigantesco problema. Qual è il bilancio dei morti in Darfur ? Come minimo ci sono stati 2 milioni di morti. In Congo sono arrivati a 5 milioni. Ma nessuno è più colpito da queste cifre. Dell’Africa si parla ormai solo se scoppiano guerre, conflitti. La sofferenza di questi popoli sembra non interessare più a nessuno. Di fronte ad una tragedia di questa portata, quali sono le responsabilità di al Bashir? Al Bashir è al potere da 1989. Sono passati più di venti anni e sotto il suo governo si sono consumate stragi di cattolici, persecuzioni, torture, fame: tutto questo ha provocato 2 milioni di morti. È chiaro che le sue responsabilità sono gigantesche: è lui l’uomo più rappresentativo del Sudan. Il Darfur è da quindici anni che vive continui conflitti e da altrettanti i miliziani islamici fanno stragi. E poi, ripeto, c’è l’effetto contagio. Il Sudan è il gigante dell’Africa, confina

Quando una situazione di conflitto si arena e i morti aumentano, allora l’Occidente smette di parlarne. Ciò che dico è vero per il Darfur, per il Congo e per il Corno d’Africa Quali prospettive? Non si vede via d’uscita. Il Darfur come il Corno d’Africa, come la repubblica democratica del Congo avvelenano con il loro comportamento tutti i rapporti politici, religiosi, di vita in Africa. Ci sono gigantesche migrazioni ed esistono Paesi ormai disabitati perchè nessuno vuole tornarci. Anche dal punto di vista alimentare la situazione del Darfur è veramente tragica. Il


mondo

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Karthoum espelle 26 gruppi umanitari con l’accusa di ingerenza

E il regime caccia le Ong KARTHOUM. Le autorità sudanesi hanno deciso di espellere dal Darfur ventisei organizzazioni straniere impegnate in campo umanitario, per aver violato il loro mandato. Lo ha reso noto un funzionario sudanese. Un comunicato della Commissione Sudanese per l’Assistenza Umanitaria afferma che le ventisei organizzazioni hanno violato le leggi sudanesi sul mandato delle organizzazioni umanitarie e che dovranno lasciare il Paese entro un mese. Già una volta, nel marzo dell’anno scorso, il governo sudanese aveva espulso dieci organizzazioni non governative occidentali dal Darfur. La decisione era giunta poche ore dopo l’emissione di un mandato d’arresto contro il presidente sudanese Omar Bashir, emesso dal Tribunale Penale Internazionale. «È un preoccupante segnale in vista delle prossime elezioni in Sudan», dice Antonella Napoli, presidente dell’associazione Italians for Darfur, ipotizzando in una nota che il regime di Khartoum non voglia «testimoni sgraditi che possano denunciare eventuali comportamenti irregolari». «Ci auguriamo - prosegue la nota - che Il presidente del Sudan Omar al Bashir balla con un copricapo tradizionale. A sinistra, il procuratore Luis Moreno Ocampo. Sotto, mullah africani

con nove Paesi: esporta violenza ad ampio raggio. Il Darfur è la regione del Sudan più colpita. Il governo degli Stati Uniti definì qualche anno fa la tragedia del Darfur un genocidio. Non voglio inchiodarmi alle parole, ma certo la catastrofe è immensa. Al Bashir ha però anche molti alleati.. È vero. Ne ha parecchi soprattutto in Africa. Ogni volta che nel Continente si avverte che si vuole colpire un capo di Stato, questi viene investito da una solidarietà, da un appoggio quasi corali perchè molti portano responsabilità simili alle sue: l’insicurezza, la fame, i conflitti, la corruzione da queste parti sono il pane quotidiano. E, quindi, tanti, quasi tutti temono di finire sotto accusa di un tribunale internazionale. Si coalizzano perchè la giustizia non avanzi. E poi al Bashir ha per alleati alcuni Paesi islamici, nonchè la Cina alla quale permette di portare avanti propri interessi. Perchè al Bashir si è scagliato in modo particolare contro i cattolici? Per la verità è intollerante verso ogni diversità religiosa. È vero che ha colpito più pesantemente i cattolici perchè questi, attraverso l’arcivescovo di Khartoum, ormai da venti anni, hanno fatto appello alla coscienza, alla giustizia, alla libertà religiosa, alle libertà civili, al rispetto per la popolazione. È una voce che più

le fermare lo sviluppo politico nel Sudan», ha aggiunto.

Che la Corte agisca per boicottare il processo di pace e non in virtù di alti ideali di giustizia internazionale sembra potersi escludere. Ma quantomeno il sospetto di ingenuità a questo punto è lecito. Il Sudan si avvia verso le sue prime elezioni multipartitiche dal 1986, legislative, presidenziali e regionali, mentre il governo e alcuni movimenti ribelli del Darfur sono attualmente a Doha per trovare con il negoziatore dell’Unione africana e dell’Onu, Dibril Bassole, e i mediatori qatarioti un terreno

questa espulsione, non ben motivata, non sia un atto finalizzato ad esasperare la già drammatica situazione umanitaria sul campo e a creare un alibi al riaccendersi delle tensioni che potrebbero degenerare in nuovi scontri diretti con le forze di opposizione». Nel frattempo, però, si acuisce la già disperata situazione della popolazione locale. Sconvolta da oltre venti anni di scontri fra fazioni sul territorio nazionale, la gente del Darfur ha testimoniato l’aumento dell’islamismo radicale, che cerca nel Sudan una sponda per la penetrazione in Africa. Le ventisei associazioni, in ogni caso, si sono dette disponibili a rientrare non appena sarà possibile. Secondo testimonianze locali, soltanto l’aiuto capillare delle organizzazioni riesce a mantenere in piedi il sistema educativo e quello sanitario, che venne mandato in rovina proprio dal governo centrale. La pratica di espulsione è comune, in casi come questi: i governi totalitari, infatti, allontanano dal Paese quelli che definiscono «emissari stranieri». E non conta che a farne le spese siano i propri abitanti.

d’intesa prima di avviare eventuali negoziati di pace. A differenza del sud Sudan, dove il fragile accordo di pace va con crescenti tensioni verso un concordato referendum sull’autonomia

Ocampo, ha commentato che «la decisione della camera d’appello è importante per le vittime». Secondo il procuratore, al Bashir sa bene «che il suo destino è di affrontare le accuse» che gli so-

Il giudice finlandese Erkki Kourula spiega: «La questione non riguarda la questione di sapere se al Bashir è responsabile o no di crimini di genocidio. L’appello è relativo a questioni procedurali» delle regioni cristiane, ma intanto i residui di guerra e la carestia in un solo anno hanno fatto passare le persone bisognose di aiuti internazionali da uno a quattro milioni. Nonostante tutto questo, il procuratore del Cpi, Moreno-

volte è riuscita a mettere alle corde le autorità del Sudan. Così come Giovanni Paolo II, che volle visitare il Paese e denunciarne le ingiustizie. Le parole del Papa e del vescovo di Khartoum sono rimaste però lettera morta.. Purtroppo è così. Eppure non bisogna stancarsi di dire che la libertà religiosa è una condizione indispensabile per la convivenza della popolazione in Sudan. Il governo ripete retoricamente che la questione prioritaria è l’unità del paese. Ma n on è possibile una vera unità senza il ri-

no mosse dalla Corte. «La migliore soluzione sarebbe di arrestarlo in Sudan», ha detto Ocampo. «È probabile che possa vincere le elezioni ma il suo destino è di essere arrestato», ha aggiunto con incrollabile convinzione.

spetto della libertà religiosa di tutti. Se non si marcia in questa direzione - al Bashir purtroppo fa il contrario - il Sudan rischia di frantumarsi: la spinta alla secessione si fa più forte. Il Paese può rafforzarsi solo se si risponde alla richiesta di libertà e di rispetto. Quali sono le altre religioni, oltre al cattolicesimo, perseguitate da Al Bashir? La persecuzione colpisce tutti, comprese le religioni tradizionali africane da quando fu introdotta nel settembre del 1982 la legge islamica. Per gli uomini al potere l’islam deve governare e controllare tutto. Chi costituisce per costoro una vera sfida sono però i cristiani e in particolare i cattolici. Insomma, in Darfur la situazione è ulteriormente peggiorata? Certo. Succede una cosa molto interessante però: quando una situazione di conflitto si incancrenisce e le vittime aumentano, allora l’Occidente smette di parlarne. Ciò che dico è vero per il Darfur, per il Congo e per il Corno d’Africa. Sono venti anni che la Somalia è senza governo e in preda a continui conflitti che penetrano anche nei Paesi confinanti come l’Etiopia e l’Eritrea. Per non dire del Congo dove è in corso una razzia di minerali e un fiorente traffico d’armi. Di tutto questo chi si occupa? Nessuno, almeno sino alla prossima, sanguinosissima guerra.


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Balcani. La Republika Srpska indice un referendum sugli accordi di pace l 21 gennaio scorso il governo della Republika Srpska (RS), l’entità della Bosnia Erzegovina a maggioranza serba, ha dichiarato di voler organizzare nel mese di febbraio un referendum sugli accordi di Dayton. Il presidente croato uscente, Stipe Mesic, ha affermato che nel caso in cui il referendum mirasse alla secessione dalla Bosnia Erzegovina, come più volte minacciato dal Primo ministro della RS Milorad Dodik, invierebbe l’esercito oltre la Sava. Il presidente serbo, Boris Tadic, ha gettato acqua sul fuoco dichiarando alla televisione di Sarajevo Obn che la Serbia non adotterà alcuna decisione contraria all’integrità della Bosnia Erzegovina. I fuochi d’artificio si sono conclusi con le dichiarazioni dello stesso Dodik, che ha confermato il referendum su Dayton chiarendo però il 25 gennaio che un voto sull’indipendenza della RS in questo momento «non è all’ordine del giorno. Vedremo come si sviluppa la situazione». Il balletto sul referendum per l’indipendenza della RS continua da anni. È una danza macabra che va in scena nei momenti di maggiore tensione politica, in Bosnia o nella regione. Viene usato come minaccia per rafforzare le rispettive posizioni, nessuno sembra mai crederci davvero. Ci sono però due problemi. In una situazione di crisi crescente la parola d’ordine salvifica, evocata dai leader, viene alla fine pretesa dagli elettori, dalla base. I leader nazionali finiscono così per essere intrappolati dalla loro stessa retorica, secondo una partitura già vista nella regione e fuori dopo l’Ottantanove. Il secondo problema è rappresentato dalla forza simbolica della parola “referendum”. Un incubo, nei Balcani. È la divisione sulla linea amico/nemico, la conta che ha preceduto i massacri del periodo 19921995. Una parola gravida di conseguenze.

I

Secondo diversi analisti internazionali dopo 15 anni di intensa azione internazionale, la Bosnia sta cominciando a disintegrarsi. I serbo bosniaci minacciano un referendum sull’indipendenza, i croati chiedono una entità separata, i bosniaco musulmani vogliono una nuova Costituzione, mentre la crisi sociale ed economica si sta aggravando. Il 2009, per la Bosnia Erzegovina, è stato in effetti un anno fallimentare. I due principali obiettivi dichiarati dai diversi leader politici, percorso di integrazione europea e ingresso nella Nato, hanno visto pesanti passi indietro. La Bosnia

Come ti blocco la riforma di Dayton La Croazia: «Invieremo l’esercito se si mira alla secessione della Bosnia» di Andrea Rossini

è stata esclusa dal regime di liberalizzazione dei visti proposto da Bruxelles alla maggioranza dei Paesi della regione, mentre la Nato ha rifiutato la richiesta di Sarajevo di entrare nel Membership Action Plan dell’Alleanza. Sul piano politico, il fallimento più significativo è stato quello rappresentato dai colloqui di Butmir, presso Sarajevo, tenutisi a più riprese nel mese di ottobre (8-9 e poi ancora 20-21). I politici bosniaci hanno respinto il pacchetto di riforme proposto dai negoziatori europei ed americani per uscire dall’attuale situazione di stallo. Il Consiglio di Attuazione della Pace (Pic), organismo multinazionale garante del rispetto degli accordi di Dayton, nella sua riunione del 18 e 19 novembre ha espresso “seria preoccupazione” per la mancanza di progressi e rimandato per l’ennesima volta la chiusura dell’Ufficio dell’Alto Rappresentante. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato il prolungamento del mandato Eufor (la forza militare europea presente nel Paese) di un altro anno. L’Alto

Dalla fine della guerra in poi, ogni elezione è stata contrassegnata dalla retorica nazionalista e dal clima di paura conseguente Valentin Rappresentante Inzko, infine, a fronte del disaccordo dei politici locali e in particolare della ferma opposizione dei serbo bosniaci, in dicembre ha imposto de jure il prolungamento del mandato dei giudici internazionali che lavorano alla Corte di Stato sui crimini di guerra.

La vera bordata al fragile equilibrio bosniaco è però arrivata da Strasburgo, il 22 dicembre. La Corte Europea per i Diritti Umani ha stabilito, nel caso «Sejdi\\u0107 e Finci contro Bosnia Erzegovina», che la costituzione bosniaca viola i diritti delle minoranze e va dunque cambiata. Jakob Finci e Dervo Sejdic, rispettivamente rappresentanti della comunità ebraica e rom bosniaca, si erano rivolti alla Corte mettendo in discussione il quadro costituzionale stabilito a Dayton, secondo cui solo i rappresentanti dei tre popoli costitutivi (bo-

sgnacchi, serbi e croati) possono candidarsi alla presidenza del Paese o alla Camera dei Popoli del Parlamento (Dom Naroda). Strasburgo ha (ovviamente) condannato la Bosnia Erzegovina. Il presidente della sezione bosniaca del Comitato Helsinki per i diritti dell’uomo, Srdan Dizdarevic, ha dichiarato trattarsi di una decisione storica: «Aspettavamo questa decisione da 15 anni. [...] Spero che i politici bosniaci comprenderanno la necessità di cambiare la Costituzione appena possibile, di applicare le disposizioni della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e di permettere a ciascuno di noi, bosniaci, erzegovesi, di godere degli stessi diritti accordati ai serbi, ai croati e ai bosgnacchi». Anche l’Europa scopre, dunque, che la Bosnia Erzegovina creata a Dayton non è un Paese basato sull’uguaglianza politica e giuridica dei suoi cittadini. Ma i vari tentativi di riformare la costituzione bosniaca, l’Annesso numero 4 degli Accordi di pace, sono finora naufragati nel nulla ed è fortemente improbabile che qualcosa cambi quest’anno. A ottobre infatti si vota, sia per le politiche che per le presidenziali. Dalla fine della guerra in poi, ogni campagna elettorale è stata contrassegnata dal dispiegarsi della retorica nazionalista e dal clima di paura conseguente. A fronte della continua debolezza delle opposizioni, la paura permette di mantenere l’equilibrio attuale e il gioco rimane a somma zero. Qual è questa somma? La RS non farà la secessione, almeno non per il momento. Non è nell’interesse dei serbo bosniaci diventare uno Stato paria della comunità internazionale. Continuando a minacciarla, però, Milorad Dodik riesce a impedire qualsiasi tentativo di riformare Dayton creando uno Stato funzionale che possa entrare in Europa. L’obiettivo non è l’indipendenza, ma mantenere in vita l’etnopoli partorita a Dayton dopo una incubazione lunga quattro anni di guerra. Che cos’è una etnopoli? È quella che ha svelato la Corte per i Diritti dell’Uomo pochi giorni fa, discutendo di un ricorso presentato – ironia della storia europea – da un rom e da un ebreo. È un Paese in cui i diritti dei cittadini discendono direttamente dalla loro appartenenza etnica. Un caso unico, modellato attraverso la guerra, la forma-Stato più arcaica esistente oggi in Europa. O forse, se consideriamo l’attuale dibattito sui diritti dei migranti, la più moderna. © Osservatoriobalcani.org


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L’allarme del direttore della Cia davanti al Congresso americano

Il presidente Usa annuncia maggiori garanzie commerciali

Leon Panetta: «Al Qaeda colpirà gli Usa entro luglio»

Obama: «Più decisione nei rapporti con Pechino»

WASHINGTON. Il pericolo è imminente: al Qaeda sta per attaccare gli Stati Uniti. L’attentato, sostengono i vertici della Cia, ci sarà nei prossimi tre o sei mesi. Leon Panetta, capo dei servizi segreti, ha avvertito una commissione del Senato che al Qaida sta inviando nuove reclute negli Stati Uniti, «gente sconosciuta alle autorità», per preparare un attacco all’interno del paese. Ma c’è anche il rischio che ad agire siano «cani sciolti», individui influenzati dal network terroristico di Osama bin Laden, ma non propriamente legati a nessuna organizzazione specifica.

WASHINGTON. Occorre agire «con maggiore decisione» verso la Cina per garantire il rispetto e la trasparenza degli accordi commerciali. Lo ha detto ieri il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, a Washington. La dichiarazione, che suona minacciosa, rappresenta l’ultimo (per ora) round dello scontro fra potenze in corso fra Pechino e gli Usa. Gli altri atti di questa commedia si sono svolti nei giorni scorsi. Due giorni fa, ad esempio, il presidente Usa ha annunciato che incontrerà il Dalai Lama durante la visita del leader spirituale dei tibetani negli Stati Uniti, a metà febbraio. La notizia ha scatenato la dura reazione di Pechino, secondo cui la

«La minaccia più grande non è un nuovo 11 settembre, ma che al Qaeda adatti la sua strategia alle nuove condizioni, usando tattiche difficili da decifrare», ha detto Panetta. «È la strategia dei cani sciolti che pone la minaccia più seria a questo paese». Persone, ha detto Panetta, poco addestrate, con a disposizione ordigni rudimentali, ma allo stesso tempo estremamente distruttivi. Panetta ha anche parlato del governo dello Yemen, alle prese con i ribelli sciiti nel nord e i separatisti nel sud, che contro al Qaeda potrebbe non essere un alleato solido come gli Stati Uniti possono pensare. La valu-

Afghanistan, ferito un soldato italiano Attentato anche in Pakistan: almeno 10 morti di Antonio Picasso

Q

uello di ieri è stato un mercoledì di sangue per l’Af-Pak war. In Afghanistan una pattuglia del contingente italiano è stata coinvolta in un attentato mentre era di servizio nella zona di Shindand, città a sud di Herat e base operativa del 1° Reggimento Bersaglieri. Fortunatamente non si è registrata nessuna perdita. Solo uno dei nostri militari ha riportato un leggero trauma cranico e alcune ferite superficiali. Ben diversa la situazione oltre il confine, in Pakistan. L’inaugurazione di una scuola per bambine nel villaggio di Koto, distretto del Lower Dir (North West Frontier Province - Nwfp), è stata investita da un attentato di maggiore entità. Nel momento in cui andiamo in stampa, il bilancio provvisorio è di 10 morti e almeno 70 feriti. Tra le vittime vanno registrate 3 bambine e 3 marines statunitensi, dislocati in loco secondo l’operazione di addestramento del Pakistan’s Frontier Corps, il contingente al comando dello Stato Maggiore di Islamabad che sta seguendo un programma anti-terrorismo coadiuvato con il Dipartimento della Difesa Usa. Gli episodi ci portano ad alcune riflessioni ben precise, che trovano l’unica conclusione nel fatto che la regione si avvia a una fase di nuove criticità. A dispetto di quanto spesso si sottolinea, le attività di guerra in Afghanistan e di terrorismo in Pakistan non subiscono alcun rallentamento per il fatto di essere in inverno. Questo succedeva fino a due-tre anni fa, adesso non è più così.

to senso intervenuto attaccando sia il summit di Londra sia quello economico di Davos, considerandoli entrambi due esempi del fallimento del capitalismo made in Usa. È evidente che il messaggio abbia spronato i mujaheddin a intensificare le proprie operazioni.

Gli attentati sono una reazione a Londra e Davos, ma soprattutto alla volontà emersa dal primo nel proseguire la lotta contro al Qaeda e contro tutte le forme di jihadismo a essa collegate. Il Presidente afgano, Hamid Karzai, ha più volte sottolineato la necessità di avviare un dialogo con i talebani. È evidente però che questi ultimi stiano facendo fronte comune intorno al loro leader più intransigente, il Mullah Omar. Entrando nello specifico del caso pakistano, bisogna ricordare che il distretto del Lower Dir è soggetto alla legge islamica della Sharia. Questo implica che la zona risulti esposta maggiormente alle derive di carattere estremistico-talebano, che impediscono una qualsiasi forma di emancipazione o scolarizzazione femminile. L’apertura di una scuola per bambine quindi è apparsa come una provocazione, o comunque come un’iniziativa da bloccare immediatamente, facendo ricorso alla violenza. Il coinvolgimento della popolazione civile nell’attacco rappresenta un ammonimento alla stessa affinché mantenga le distanze dagli addestratori stranieri. Un altro elemento che ci aiuta a comprendere l’attentato alla scuola di Koto è il successo ottenuto dalle truppe pakistane nel vicino distretto di Bajaur. Qui, dopo tanti giorni di scontri, le forze regolari nazionali hanno espugnato una base talebana nei pressi di Damadola. Il ristabilimento dell’ordine in questa parte delle Nwfp ha spinto i talebani a organizzare una rappresaglia in un’area vicina. In questo modo vogliono far capire a Islamabad e a Washington quanto le loro basi operative e le loro attività siano mobili. Non solo, nei giorni scorsi era circolata la notizia della morte di Hakimullah Mehsud, leader del più importante gruppo talebano del Pakistan, il Tehrik-e-Taliban Pakistan (Ttp). L’attacco a Koto sarebbe la smentita concreta della eliminazione di questo carismatico mujahed.

Tra le vittime tre bambine e tre marines statunitensi che partecipavano alle operazioni di addestramento

tazione del direttore dell’agenzia d’intelligence arriva mentre il Pentagono e il dipartimento di Stato intensificano l’assistenza alle forze di sicurezza yemenite per combattere al Qaeda nella Penisola araba, che ha rivendicato il fallito attentato di Natale a un volo americano. Panetta dice che gli Stati Uniti hanno ricevuto «forte sostegno» dal presidente dello Yemen Ali Abdullah Saleh «per perseguire gli obiettivi e condividere le opportunità per assicurare che stiamo lavorando insieme» contro al Qaeda. Ma il direttore della Cia dice anche che il governo di Saleh è «assediato» dai conflitti nel nord e nel sud, che potrebbero dividere il Paese.

Le truppe di Isaf e Nato in Afghanistan, come pure le Forze Armate pakistane vengono sottoposte a un regime di stress di combattimento senza soluzione di continuità. Le asperità climatiche e del territorio non garantiscono più un rallentamento degli scontri. Questo significa che le forze contro cui si combatte hanno raggiunto un maggior livello di preparazione e sono numericamente sufficienti per poter essere impegnate, ma soprattutto avvicendate anche nei mesi più freddi dell’anno. Da nemmeno una settimana inoltre si è conclusa la Conferenza dei donatori per l’Afghanistan, ospitata a Londra. Venerdì scorso, in un messaggio su internet il leader di al Qaeda Osama bin Laden era anch’egli in un cer-

decisione del governo americano potrebbe «minare ancora di più» le relazioni diplomatiche e commerciali fra le due superpotenze. I rapporti fra Cina e Stati Uniti attraversano un momento critico, in seguito alla diatriba su Google e gli attacchi informatici di hacker cinesi, uniti alla vendita di armi di società Usa a Taiwan.

Le tensioni diplomatiche tra la prima e la terza economia al mondo potrebbero minare eventuali accordi in sede Onu – dove Pechino gode del diritto di veto – sulle sanzioni a Iran e Corea del Nord per i loro programmi nucleari, sui cambiamenti climatici e sugli squilibri della bilancia commerciale.Tuttavia, negli ultimi 20 anni tutti i presidenti americani – fra i quali il predecessore di Obama, George W. Bush – hanno ricevuto Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, scatenando parole di fuoco del governo cinese, ma nessuna sostanziale rappresaglia. Diverso il caso del presiNicolas dente francese Sarkozy, che alla fine del 2008 ha incontrato il leader tibetano durante la presidenza francese della Unione europea. In risposta, la Cina ha cancellato un summit in programma con la Ue. Ora la palla torna alla Cina, che risponderà a tono.


cultura

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Miti. Le tre capitali hanno segnato altrettanti capitoli della vita della donna, che rimarrà per sempre “La principessa Sissi”

Le tre età di Romy Schneider La Germania celebra l’attrice austriaca con la mostra “Vienna. Parigi. Berlino” di Andrea D’Addio

BERLINO. Vienna. Parigi. Berlino. È questo il titolo della mostra dedicata a Romy Schneider che, fino al prossimo 30 maggio, è ospitata dal Museo del film e della televisione di Postdamer Platz, a Berlino. Tre capitali che hanno segnato altrettanti capitoli della vita dell’attrice austriaca, una di quelle icone cinematografiche che hanno colpito così tanto l’immaginario popolare da non poter passare mai di moda. Non a caso la trilogia dedicata alla principessa Sissi continua a registrare milioni di spettatori a ogni suo passaggio televisivo: si riguarda la travagliata storia di Elisabetta di Baviera e si ripensa a quella della sua interprete, bella, esuberante e morta anche lei troppo presto dopo aver provato la tragedia della scomparsa prematura di un figlio. Una vita, quella di Romy Schneider, che l’ha vista simbolo di una bellezza che Alberto Bevilacqua (che la ebbe come protagonista di La califfa nel 1971), nel suo libro Eros II, definisce “androgina” per la sua capacità di affascinare allo stesso modo sia gli uomini che le donne.

scandiscono un percorso ricostruito cronologicamente per trasmettere, almeno inizialmente, la fresca bellezza della sua protagonista. Dalle locandine, in cui appare sempre sorridente, delle tante commedie interpretate dopo Sissi alle copertine di riviste che la celebravano come il nuovo astro nascente del cinema europeo. Si passa poi alla seconda sala, che va dagli anni ’60 fino alla sua morte. Sono gli anni dei film francesi, di Il processo di Orson Welles, dello scandaloso La piscina (1969), del connubio

L’esposizione consta di tre grandi sale dove scoprire la sua vita e i suoi successi, dalle locandine dei film fino ad arrivare ai costumi indossati sui set

Sarà per questo che i giornalisti continuano a scavare nella sua vita: ogni dettaglio che la riguarda diventa notizia, anche ora che sono passati quasi trent’anni da quando il suo corpo fu trovato senza vita in un appartamento parigino dopo un attacco cardiaco, causato, secondo molti, da una volontaria overdose di tranquillanti (era il 29 maggio 1982). L’ultima scoperta l’ha fatta il settimanale Bild: «Romy Schneider fu spiata dalla Stasi dal 1976 al 1982», mentre un paio di anni fa, lo storico del cinema Jürgen Trimborn ha sostenuto, in una biografia dedicata all’attrice, che il secondo marito della madre aveva più volte cercato di abusare della piccola Romy. «Dannazione, la mia vita privata è solo mia» disse una

volta rivolta alla stampa nel 1957. Né allora, né oggi, la sua esortazione sortisce effetti.

La mostra. Tre grandi sale dove ripercorrere la vita e i successi dell’attrice nata a Vienna nel 1938. Le foto iniziali, dove la vediamo ritratta ancor giovanissima sia in uscite ufficiali (esordì sul grande schermo a soli 15 anni) che nella vita quotidiana testimoniano lo stretto legame con la mamma Magda. Un rapporto tormentato che, se da una parte fu la ragione della carriera della Schneider (fu la madre a insistere affinché diventasse attrice), dall’altra la soffocò tanto da farla scappare a Parigi nel 1958 per seguire l’amore di Alain Delon, conosciuto sul set di L’amante pura. Le locandine e piccole sequenze video dei suoi primi successi

artistico con Claude Sautet (assieme gireranno quattro film) e di quello con Luchino Visconti che, prima, nel ’61, la volle protagonista sia al Théâtre de Paris di Dommage qu’elle soit une putain che, al cinema, di un episodio di Boccaccio ’70 e poi, dieci anni dopo, la convinse a rivestire i panni della principessa Sissi nello storico Ludwig. Nel frattempo Romy Schneider si sposa con l’attore tedesco Harry Mayer e si trasferisce a Berlino, ha un figlio, divorzia, torna a Parigi, si risposa (con Daniel Biasini), mette al mondo una bambina e, a partire dalla metà degli anni ’70 inizia il rapporto con

l’alcool. Nonostante tanti film importanti per il pubblico è sempre Sissi, la principessa. Ma a renderla infelice è anche un continuo senso di insoddisfazione che, purtroppo, si accompagna con un destino avverso. Nel 1979 l’ex marito Mayer si suicida, mentre due anni dopo, il figlio quattordicenne muore infilzato mentre scavalca un cancello. È troppo per la Schneider che, dopo aver ancora divorziato, si lascia andare incontro a una morte da molti annunciata. Dino Risi, nel libro di ricordi I miei mostri scrisse così: «Romy viveva per amore, ma aveva paura dell’amore, paura di non essere amata. Forse Alain Delon fu l’unico che l’amò veramente. Ma lei cominciò a non piacersi quando lo specchio prese a mostrarle i segni del tempo, il sorriso che non era più quello della principessa Sissi. Morì di solitudine, la solitudine delle star, che arriva rapida e totale, spietata come una sentenza». Lo scambio di lettere con i suoi amici e registi, nonché le immagini dei tanti film noir interpretati durante questo secondo periodo della sua carriera, se da una parte dimostrano l’apprezzamento nutrito nei suoi confronti da parte dei colleghi, dall’altra sembra-

no legarsi a un momento della vita più cupo e senza dubbio meno sbarazzino di quanto fosse in passato. Dopotutto lei stessa dichiarò in quegli anni di scegliere i copioni semplicemente andando «a naso». È solo nella terza, e ultima, sala che la mostra si concentra sulla trilogia di Sissi. Foto di scena, vestiti (solo uno, purtroppo, originale), immagini a confronto sulla somiglianza tra la Schneider e la vera Elisabetta di Baviera. Non molto, ma quanto basta per ricordare come i miti di entrambe le donne siano per sempre legati l’uno all’altro.

Romy la ribelle. Ciò che non viene detto nella mostra è quanto Romy Schneider visse e pensò al di là di amori e carriera artistica. Per capire chi davvero fosse l’attrice non sono troppo importanti le rivelazioni sulla sua infanzia contenute nella recente biografia di Jürgen Trimborn (che dipinge una madre impegnata a far nutrire la figlia di soli yogurt e frutta per non rovinare la linea) quanto l’attività politica della Schneider che, non a caso, suscitò l’interesse della Stasi. Se nella Germania Ovest il suo nome non fu visto di buon occhio già negli anni ’70, dopo la partecipazione alla campagna femminista dei primi anni ’70 e l’ammissione, in un’intervista rilasciata alla Stern, di aver abortito (nonostante fosse proibito dalla legge), dall’altra parte del muro la situazione fu ad-


cultura

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Dal primo fallimentare film alla prematura scomparsa del figlio David

Quel fragile cuore che non resse alla vita

Viaggio nelle inquietudini esistenziali della Musa che amò Delon, stregò Visconti e morì (forse) suicida di Roselina Salemi ra figlia d’arte. Quattro generazioni di attori devono pur significare qualcosa nel Dna.Veniva da una famiglia borghese, di quelle che infilano le bambine dentro candidi vestiti di piquet, abbinati a calzine di filoscozia e scarpe di vernice nera. Le offrivano merende di lusso, pasticcini su vassoi d’argento e bicchieri dai bordi dorati. Aveva soltanto un dovere: crescere sana e forte, per essere bella. A 15 anni il primo film, a 18 il primo grande successo. Sissi, ovvero Elisabetta d’Austria, fumettone del ’55, le regala la gloria, la popolarità e tanti soldi. Seguirà, a stretto giro di posta, Sissi imperatrice. Romy Schneider (il cognome è quello della madre che l’aveva spinta verso il cinema), incarna l’idea zuccherosa e scialba della femminilità in quegli anni, un’idea che diventa una prigione, un’etichetta che non vuoi portarti dietro per tutta la vita. La bellezza, almeno all’inizio, non ha bisogno di talento. Basta la pelle fresca, gli occhi azzurri, i denti di madreperla.

E

dirittura peggiore. Secondo quanto contenuto nel dossier recentemente ritrovato, la Schneider fu spiata perché sospettata di aver donato soldi e reclutato gente per lo Schuetzkomitee, un movimento clandestino di opposizione al regime creato nel 1976. In particolare, sarebbe stata la responsabile del coinvolgimento di Yves Montand e Simone Signoret.

Allo stesso modo, era da con-

In queste pagine, alcune immagini dell’attrice viennese Romy Schneider e diverse locandine di alcuni dei film che l’hanno vista protagonista, dall’indimenticabile “La principessa Sissi” a “L’amante pura” e “Una donna alla finestra”. In questi giorni, fino al 31 maggio, Berlino la celebra attraverso una grande mostra ospitata dal Postdamer Platz

siderare sospetta l’adesione, nel settembre dell’ 80, alla lettera aperta a Breznev scritta dal dissidente Robert Havemann, per una Germania finalmente riunita e libera. I suoi ripetuti spostamenti tra Berlino e Parigi, nonché il suo fascino, ne facevano una donna potenzialmente pericolosa. Nell’attesa che nuovi dettagli di questa vita “segreta” della Schneider vengano alla luce, dalla scorsa estate in Germania è in lavorazione un film biografico dedicato all’attrice. Si chiamerà semplicemente Romy e la data di uscita è prevista per l’inizio del 2011. Sarà vera biografia o racconto romanzato come si fece un tempo con la principessa Sissi? Disse una volta la Schneider: «Non posso fare nulla nella vita, ma tutto sullo schermo». Chissà se anche stavolta il mito si confonderà con la donna e quella forte personalità che “la storia”le sta riconoscendo, non si nasconda dietro semplici pianti e sorrisi di un copione melodrammatico.

A vent’anni, Romy ha la nausea di chi beve champagne tutti giorni (e non sa che le dedicheranno strade, piazze, un francobollo, e si scoprirà che la Stasi la spiava). Dentro di lei sonnecchia la malattia dell’attrice. Recitare davvero. Affrancarsi dalla madre che le sceglie i copioni (stucchevoli, a volte) e dal patrigno che amministra i suoi guadagni. Fuggire. Ci prova con un paio di film, che però vanno male. Torna al terzo Sissi (Sissi faccia a faccia col suo destino): un delirio. Riceve tonnellate di posta e spende milioni per rispondere. Eppure, la ragazza dal sorriso innocente, la ragazza che ha tutto, e più di tutto, rifiuta, decisa, il quarto Sissi con il suo principesco cachet (all’epoca, un miliardo di vecchie lire) e fugge. Fuggirà sempre, trasformandosi in una moderna dea dell’inquietudine. Lascia la dolce Vienna per andare incontro all’amore, il più grande, forse l’unico, con Alain Delon. Si incontrano nel ‘58 sul set del film L’amante pura, confondono la finzione con la realtà. Lei è adorabile, lui un sex symbol. Sono “i fidanzati più belli del mondo”. Romy si trasferisce a Parigi. La malattia dell’attrice fa capolino. Le fa sottoscrivere un motto pericoloso,“la perfezione o la morte”, le fa venire un attacco di appendicite la sera della prima di Peccato che sia una p… di Luchino Visconti, le fa perdere i sensi quando Alain le sussurra: «Questa sera sei la regina di Parigi». In fondo è sola, con la smania isterica del successo e l’ansia di perderlo. Dirà: «Ho inseguito

l’ombra degli uomini che mi parlavano d’amore e poi ho conosciuto l’ombra che generava in me un’angoscia ad ogni istante, per tutta la mia vita ho temuto il tradimento». Vittorio Gassman sosteneva che non esistono attori sani, e forse è vero. Si beve un goccio prima di andare in scena e uno dopo per allentare la tensione. Concedersi un aiutino chimico per dormire o svegliarsi, è normale. Serve a trovare la forza di vivere, e nel caso di Romy, quella di fuggire. Lascia la Francia per un contratto con la Columbia. In America gira, tra l’altro, Il processo di Orson Welles e Il Cardinale di Otto Preminger. Torna da superstar a Parigi nel ’64, dove l’aspetta una resa dei conti. Nella casa che ha diviso con Delon, trova un mazzo di rose e una lettera d’addio. Lui si è innamorato di Natalie, che le somiglia e le ruba le copertine dei giornali. Tenta un impossibile ritorno a casa. Non è più la ragazza solare di un tempo, ma una donna dal temperamento tragico e ribelle. In fretta e furia, nel ’66, sposa il regista Harry Meyen e nasce David. Nel frattempo è diventata una brava attrice: la aspettano molti atri film. La piscina (1969), accanto a Delon: nel ruolo di Marianne, moglie di uno scrittore fallito, si troverà al centro di un intrigo amoroso con il suo ex amante. Nel 1970 è La califfa, cioè Irene Corsini, che riuscirà a far innamorare di sé e a convertire al socialismo l’industriale Doberdò.

Ebbe una vita sentimentale intensa ma anche disastrosa. Tutta fatta di tradimenti, incomprensioni, vizi, alcol e antidepressivi

Ma il suo film preferito resterà sempre Le cose della vita, di Calude Sautet, perché «le cose della vita sono le sorprese, gli incroci assurdi e impensati, gli incontri irripetibili». I critici la consacrano: «Romy è l’acqua, l’acqua, l’aria, il sole, l’attesa, il silenzio». Romy è senza rete. «Ho dato troppo, ho dato tutto». La sua vita sentimentale è un disastro, divorzia da Meyen che la umilia, sposa Daniel Biasini (e nasce Sarah Magdalena che, molti anni dopo, rifiuterà la parte della madre in una serie televisiva sulla sua vita). Vuole fuggire dal cinema che la sta divorando. Il 5 luglio dell’’81, resta ucciso il figlio David, appena quattordicenne, straziato da un cancello: è un’assurda disgrazia. Romy non si riprenderà più dal circolo vizioso della depressione, dell’alcol, dei sonniferi. La sua strabiliante bellezza diventa opaca, come velata dalla nebbia. Muore a Parigi, in una chiara notte di primavera, il 29 maggio 1982, a 44 anni. Dicono sia stato infarto, perché un cuore troppo ferito non si può riparare. Dicono sia stato suicidio, per la stessa ragione.


pagina 20 • 4 febbraio 2010

cultura

Libri. La storia quarantennale del sodalizio tra Laterza e Croce nei quattro volumi del “Carteggio” curati da Antonella Pompilio

I testimoni del secolo scorso di Giancristiano Desiderio

l sodalizio di cultura e amicizia di Benedetto Croce e il “suo” editore Giovanni Laterza, da cui di fatto nacque e crebbe la Casa editrice Laterza, durò oltre quarant’anni. Dieci lunghi decenni di lavoro e imprese con nel mezzo la prima guerra mondiale - prima guerra europea, come a volte scrive Benedetto Croce - il Fascismo e poi, sul calare della sera della vita di Giovanni Laterza, il secondo conflitto mondiale e la fine del Fascismo. Quando venne la conclusione politica del regime di Benito Mussolini, il 25 luglio del 1943, Laterza era ormai da tempo costretto a letto a combattere il male che di lì a meno di un mese lo avrebbe condotto alla morte. Ma il 26 luglio, quando gli portarono la notizia della caduta di Mussolini, Giovanni Laterza dal letto in cui giaceva dispose che a capo delle lettere e fatture di quella giornata si scrivesse: «Sia lodato Dio». Infatti, il 28 luglio 1943 Laterza scriveva a Croce questa breve ed essenziale comunicazione: «Ella è presente quanto mai nel pensiero di tutti i componenti Casa Laterza. Sia lodato Iddio».

vere bestie «non si riproducono o danno elementi sempre più scadenti e scemi». Così Benedetto Croce, dopo aver letto la risposta di Giovanni Laterza ad Arnoldo Mondadori, gli scriveva e diceva di aver «letto con piacere la giusta e arguta risposta al Mondadori».

I

L a s t o r ia q ua ra nt e nn a le storia più unica che rara - del lavoro culturale che creavano sodalizio tra Laterza e Croce giorno dopo giorno fosse per rivive ora nei quattro volumi loro una religione o un modo del Carteggio Croce-Laterza di stare al mondo. I due ultimi curati da Antonella Pompilio tomi di questo imponente care pubblicati, naturalmente, teggio ci offrono la possibilità dalla Laterza insieme all’Isti- di leggere la corrispondenza tuto Italiano per gli Studi Sto- negli anni in cui il regime farici voluto e fondato da Croce scista letteralmente trionfava nel suo Palazzo Filomarino e faceva sentire la sua presenqualche anno dopo la morte za e i segni della sua censura. dell’editore delle sue opere e Qualche esempio: Giovanni della rivista La Critica. I primi tre volumi erano stati Gentile, arrabbiato per alcupubblicati negli ne critiche di anni addietro, Benedetto Croce mentre ora è a un suo lavoro uscito l’ultimo per l’Istituto di libro composto cultura fascista, da due tomi che tratta male Guile raccolgono do De Ruggiero lettere dal 1931 e Laterza, alloal 1937 e dal ra, scrive a Croce il 21 febbraio 1938 al 1943. del 1931: «S’è Una ricostruzioimbestialito ne minuta delpeggio di un elel’epistolario tra fante, e s’è sfoCroce e Laterza Sopra e in alto, gato su De Rugche mostra cotre immagini giero». A sua me i due lavodi Giovanni Laterza volta Croce rirassero quotie Benedetto Croce. tiene che la casa dianamente, A destra, la copertina editrice Mondaognuno nel suo del volume curato dori, «dopo campo e nel suo da Antonella averlo composto ruolo ma con Pompilio, e impaginato», profittevoli il “Carteggio Crocenon stampi più scambi di idee, e Laterza” uno scritto di in particolare il

Nel 1932 Laterza pubblicò

Alfredo Frassati, già proprietario de La Stampa, nonché liberale giolittiano, perché «impaurita del nome dell’autore». «La paura è di moda», scriveva Croce nella lettera del 24 febbraio 1931, eppure notava anche che il Frassati era stato nominato «a capo di una grande società industriale, il che vuol dire col consenso del governo». A proposito della Mondadori, c’è una risposta di Giovanni Laterza, 30 ottobre 1935, proprio ad Arnoldo Mondadori che gli chiedeva a che cosa attribuire «la decadenza letteraria nostra e la poca vendita di libri» che merita di essere ricordata perché ci fanno capire di che pasta era fatto l’ «editore crociano». Eccola: «La cosa non deve meravigliare, dal momento che anche gli uomini di pensiero ora, per la propria incolumità, sieno essi scrittori o lettori, debbono tenere una maschera a portata di mano».

Quindi aggiungeva che «ai giardini zoologici, là dove ci sono animali privati del movimento e della libertà e pur bene nutriti e sistemati, le po-

la

Storia

I primi tre tomi erano stati pubblicati negli anni addietro. Ora è uscito l’ultimo, composto da due libri che raccolgono le lettere dal ’31 al ’37 e dal ’38 al ’43

d’Europa nel secolo decimonono. Le opere storiche di Benedetto Croce scritte e pubblicate sotto il Fascismo non hanno solo un valore conoscitivo, ma anche politico e morale (e, va detto, hanno l’un valore perché ne hanno anche l’altro). Quando il libro uscì, la Chiesa pensò bene di metterlo all’Indice e Croce il 16 luglio così scriveva a Laterza: «Leggo sulla Stampa che la Storia d’Europa è stata messa all’Indice. Spero che la cosa non vi turberà. All’Indice sono state messe tutte le opere politiche italiane di qualche importanza a cominciare dalla Monarchia di Dante Alighieri e a continuare col libro del Machiavelli. Cosicché consolatevi pensando che lo stesso vi sarebbe intervenuto se Dante o Machiavelli vi avessero scelto per loro editore». A questa missiva così rispondeva da Bari il 18 luglio Giovanni Laterza: «Mio caro Amico, appresi la notizia che la sua Storia d’Europa è stata messa all’Indice dalla Congregazione del Santo Uffizio sabato mattina alle sei su La Gazzetta del Mezzogiorno e fu per me come una qualsiasi notizia di cronaca, alla quale non avrei ripensato se non me ne dessero l’occasione la gente che viene a congratularsi ed un certo risveglio nelle richieste del libro».

E continuava: «Ella dice bene che il caso mi sarebbe già accaduto se Dante o Machiavelli mi avessero scelto a loro editore, ma devo però assicurarla che non ho dato importanza, eppoi, dovendo io essere editore anche dei su lodati Signori, per circostanze di fatto a cui Ella mi ha indotto, per molte ragioni di non disprezzabile importanza, il mio maggior orgoglio, intanto, è di essere l’editore di Benedetto Croce! Volevo mettere su La Critica una fascetta con l’indicazione che la Postilla riguarda i Metodi clericali ma non ho voluto speculare, non ho aumentato la tiratura; ho invece tirate 200 copie della Postilla e le ho ben distribuite». Questo era il carattere dell’uomo che faceva motivo di merito esser lui l’editore di Benedetto Croce.


cultura

4 febbraio 2010 • pagina 21

MILANO. Il 31 gennaio di 100 anni fa nasceva in Italia Giorgio Perlasca. Lo “Schindler italiano”, noto al grande pubblico grazie a una fiction con Luca Zingaretti, è stato per molto tempo poco conosciuto. Ora che è passato un secolo viene giustamente celebrato come un eroe. Un eroe “discreto”, simbolo di un’Italia sana che forse tornerà di moda, dopo un’epoca di strilloni, nani e ballerine (che finirà?). Proprio perché qualcuno vuole demolire il mito della Resistenza e relativizzare o negare la Shoah e l’azione dei padri costituenti, è bene ricordare questo comasco dal cuore d’oro, salvatore di oltre cinquemila ebrei ungheresi, italiano d’eccellenza, medaglia al merito civile per mano dell’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Le manifestazioni in suo onore sono state molte: il figlio Franco ha avuto un fitto calendario di incontri nelle scuole; a Seveso si è inaugurata il 24 la mostra il Silenzio del giusto; a Basilea come a Vancouver si proiettano film e documentari. E poi ci sono le presentazioni di un libro fresco di stampa che si intitola Giorgio Perlasca. Un italiano scomodo, edito da Chiarelettere in contemporanea a un cofanetto (dvd+libro) che presenta alcune testimonianze inedite di Primo Levi e che si intitola La strada di Levi - del regista Davide Ferrario e del giornalista e scrittore Marco Belpoliti. Il testo Un italiano scomodo è incentrato sulla vicenda di Giorgio Perlasca, nato il 31 gennaio del 1910 a Como e scomparso a Padova nel 1992. Combattente in Etiopia e poi volontario in Spagna con i falangisti di Franco, dopo la prima guerra si dedicò al lavoro di agente per una azienda che trafficava in bovini con i paesi dell’Est Europa. Proprio durante i suoi viaggi a Zagabria e a Belgrado ebbe modo di assistere ai primi massacri fatti dai nazisti a danni di ebrei, dissidenti, rom. Quando fu di stanza a Budapest, decise di fare tutto il possibile per salvare vite di innocenti. Nonostante avesse aderito con convinzione, da giovane, al Partito Fascista Italiano e che avesse combattuto a fianco degli antidemocratici, odiava le politiche razziali filotedesche. Il giorno dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati (fir-

Ritratti. A cento anni dalla nascita dell’uomo che salvò oltre cinquemila ebrei

Giorgio Perlasca, l’«eroe discreto» di Valerio Venturi mato l’8 settembre del 1943) si trovava nella capitale ungherese: prestando fedeltà al giuramento fatto al Re, rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Per questo motivo si trovò ad essere ricercato dai tedeschi, che intendevano arre-

gato dall’ambasciatore Ángel Sanz Briz nel tentativo di salvare gli ebrei di Budapest, ospitati in apposite «case protette» dietro il rilascio di salvacondotti, secondo l’uso di molti coraggiosi rappresentanti europei. Quando, alla fine del ’44, Sanz

gendo di suo pugno la nomina ad ambasciatore con tanto di timbri e carta intestata.

Da quel momento si trovò a gestire il “traffico”di migliaia di giudei, nascosti nell’ambasciata e nelle case protette sparse

Per le celebrazioni, iniziate con l’emissione di un francolbollo a lui dedicato, diverse sono state le manifestazioni in tutta Italia.Accompagnate dall’uscita del libro “Un italiano scomodo” scritto da Dalbert Hallenstein e Carlotta Zavattiero starlo per tradimento, e fu costretto a trovare rifugio presso l’ambasciata spagnola. Ottenuti una cittadinanza fittizia e un passaporto iberici, si trasformò in «Jorge Perlasca» e fu impie-

Briz decise di lasciare Budapest e l’Ungheria per non riconoscere il governo filonazista ungherese, Perlasca decise di restare e di spacciarsi come sostituto del console partente, redi-

per la città: grazie alla sua opera, circa 5.200 di loro furono salvati dalla deportazione. Quando l’Armata Rossa entrò a Budapest, Perlasca fu fatto prigioniero dai Sovietici, quindi Sopra, a sinistra e a destra, Giorgio Perlasca in alcuni momenti importanti della vita: il Presidente israeliano Herzog, allo Yad Vashem, e ancora allo Yad Vashem durante la cerimonia di consegna della cittadinanza onoraria israeliana

venne liberato dopo qualche giorno.Tornato in Italia, riprese la sua vita di prima senza troppi clamori. «Feci i mestieri più diversi. Tutto tranne il ladro». Provò a raccontare la sua vicenda ma non fu creduto. Per i comunisti era troppo di destra; ma anche i partiti cattolici lo ignoravano. Finalmente nel 1987, oltre quarant’anni dopo le vicende di Budapest, alcuni ebrei ungheresi in residenti Israele rintracciarono Perlasca (reputato cittadino spagnolo) e divulgarono la sua incredibile storia di coraggio e solidarietà. Nel 1990 la Rai raccontò la sua impresa per la prima volta. L’ultima fase della sua vita è costellata dal ricevimento di numerosi riconoscimenti ufficiali: dalla Spagna, dagli Usa, da Israele; il 23 settembre ’89, in particolare, fu insignito del riconoscimento di Giusto tra le Nazioni - allo Yad Vashem di Gerusalemme, nel vialetto dietro al memoriale dei bambini è stato piantato un albero a lui intitolato; e anche a Budapest, nel cortile della Sinagoga, il suo nome appare in una lapide che riporta l’elenco dei giusti.

Gli rimase però l’amaro di bocca: il suo Paese lo aveva abbracciato tardi. Ora Dalbert Hallenstein, giornalista investigativo australiano, e Carlotta Zavattiero, insegnante, cronista e scrittrice padovana, mettono insieme tutti gli avvenimenti di questa storia di libertà e insieme di mancanza di riconoscenza contribuendo a raccontare Perlasca grazie a testimonianze e documenti inediti. Il ricordo di questo “eroe nascosto” cominciato con l’emissione di un francobollo che riproduce un suo ritratto - si terrà in numerose città d’Italia. L’evento clou si è celebrato il 31 gennaio a Padova, dove Perlasca visse dopo la guerra e dove è sepolto. Tutte le informazioni su di lui e sulle diverse iniziative, sono sul sito della fondazione giorgioperlasca.it.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”The New York Times” del 03/02/10

Serenata ai repubblicani di Carl Hulse e Jeff Zeleny ncoraggiata dalla risposta dei repubblicani della Camera, la scorsa settimana, la Casa Bianca ha deciso di intensificare gli sforzi per coinvolgere anche i conservatori del Senato americano nella politica presidenziale. Una maniera per condividere l’onere del governo del Paese e per poter meglio controllare le iniziative dei membri del Gop (Good old party).

I

Nella cerchia dei collaboratori più stretti si dice che Obama voglia arrivare a chiudere il suo intervento sullo Stato dell’Unione anche attraverso sessioni di brainstorming bipartisan alla Casa Bianca. Mentre procedono anche le iniziative di carattere sociale, come l’invito fatto ai rep per seguire il Super Bowl nella residenza presidenziale, a Camp David e in tutti i luoghi dove si svolge l’attività sociale del presidente Usa. Un cambiamento la cui portata coinvolge sia sostanza che strategia, dal momento che Obama e i suoi alleati si stanno preparando a perdere la loro supermaggioranza costituita dai 60 voti del Senato e il presidente sta per perdere anche l’appoggio dei parlamentari indipendenti. Obiettivo della Casa Bianca è quello di mostrare agli americani che Obama è disposto a coinvolgere i repubblicani, piuttosto che trincerasi dietro una politica di parte. Così spingendo, meglio costringendo, i membri del Gop a scendere a compromessi sostanziali per non essere considerati un blocco ostruzionista, visto il potere che hanno acquisito di bloccare quasi tutta l’attività legislativa al Senato (Congresso, ndr). Questa è una strategia che se risolve alcuni problemi a breve termine, non è chiaro quanto possa incidere negativamente nei confronti di Obama

leader del partito al governo del Paese. Saranno ancora dalla sua parte gli elettori che l’hanno votato, oggi che la disoccupazione galoppa a due cifre e che la riforma sanitaria sembra in fase di stallo? I repubblicani, da parte loro, si sono mostrati più che felici di poter presentare proposte politiche. Sono consci del doppio fine dell’operazione e che i democratici potrebbero ricavare dei vantaggi da questo coinvolgimento, ma non rifiutano l’idea che alla fine ci possa essere un ritorno per tutti. Sull’idea che si debba dubitare della buona fede della proposta democratica il senatore repubblicano del Tennessee Alendare Lamar non chiude gli occhi. «Sì, potrebbe essere. Quando si fa politica a caccia di buoni risultati, c’è sempre la possibilità di favorire politicamente i democratici – ha spiegato Lamar – ma penso che il nostro compito principale sia quello di aiutare il Paese».

Martedì scorso, nel New Hampshire, Obama ha inaugurato il nuovo approccio politico, esortando i repubblicani a rendere note le loro idee, mentre ne criticava l’ostruzionismo all’attività di governo. «Ho detto ai repubblicani, fatemi vedere le vostre carte!» ha affermato Obama in pubblico, mentre parlava dello stallo della riforma sanitaria. «Siete solo capaci di stare seduti in disparte e di criticare l’azione di governo» ha continuato il presidente. «Se avete un’idea migliore – ha poi affermato – mostratela!». Nell’ambite democratico molti sono convinti che il vantaggio guadagnato dai repubblicani sia da addebitare alla loro politica del «mordi e fug-

gi» attuata nell’ultimo anno. Attaccare le proposte del governo, senza presentare opzioni alternativa, è una politica molto comoda per i conservatori. Un loro coinvolgimento nell’azione di governo potrebbe attenuare questa tendenza. Un esempio di questa nuova strategia si è visto martedì scorso alla Camera dei rappresentanti. I democratici hanno subito evidenziato, durante la discussione sulla proposta di legge sull’assistenza sanitaria, il suggerimento venuto dai banchi rep di ripensare l’accesso ai benefici di Medicare e della Social security per i cittadini sotto i 55 anni.

«Deve essere chiaro a tutti che i repubblicani non sono il partito del “no”, ma rappresentano il partito di “nessuna nuova idea”» ha tagliato corto il democratico del Maryland, Chris Van Hollen. Da parte repubblicana viene invece un incoraggiamento alla nuova politica di Obama, con una avvertenza però. «Il presidente deve rendersi conto che è il capo della nazione, non di un partito».

L’IMMAGINE

Saranno due mesi di intensa attività. Il nostro è un progetto credibile Bisogna impegnarsi in questa campagna elettorale che si mostra dura ma avvincente. Le ragazze e i ragazzi che costituiscono la classe dirigente del futuro, rappresentano la speranza, la grinta, le idee nuove per il bene del Paese. Il progetto politico-culturale dell’Udc è l’unico in grado di rappresentare le istanze urgenti della Puglia, del Mezzogiorno e l’unico che non si perde in beghe e faide interne. Sosterremo strenuamente e con determinazione la candidatura della senatrice Adriana Poli Bortone, nella quale crediamo fermamente in quanto ha dato modo, a più riprese, di conoscere profondamente le necessità del Meridione; una donna che ha in testa una Puglia sempre più crocevia del Mediterraneo, una Puglia giovane, moderna, innovativa e con grandi opportunità di crescita. Una Puglia lontana dai progetti stantii e obsoleti delle classi dirigenti che si sono finora alternate.Vogliamo, assieme a lei, una regione che sappia rispondere con serietà e solerzia alle domande di occupazione e di crescita dei giovani.

Sergio Adamo

DONNE PROTAGONISTE IN QUATTRO REGIONI Con le candidature ufficializzate, il Pdl dimostra la volontà di puntare, in modo sempre più determinato, sulle qualità politiche delle donne. Sono molto soddisfatta poiché, forse per la prima volta, possiamo dire che in questa campagna elettorale la componente femminile partecipa da vera protagonista Anna Maria Bernini in Emilia Romagna, Monica Faenzi in Toscana, Fiammetta Modena in Umbria e Renata Polverini nel Lazio costituiscono quattro esempi di donne autorevoli, rappresentative e di grande capacità. Una scelta che finalmente premia il merito, superando la vecchia logica delle quote rosa, ed esprime un perfetto equi-

librio fra impegno politico ed eccellenza professionale. Alle quattro candidate i migliori auguri a nome di tutte le donne del Pdl.

Barbara Saltamartini

RIDATECI UN RAGIONIERE A ogni diritto corrisponde un dovere. Il professionista della socialità si avvale spesso della spesa in deficit, per foraggiare clientele e guadagnare le loro simpatie. Così viola la pratica tradizionale della buona amministrazione: le uscite non superino le entrate. Inoltre, aggira l’art. 81 u.c. della Costituzione: «Ogni altra legge che comporti nuove spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». È normale la prassi del do ut des e dello scambio fra prestazione e controprestazione. Perciò, può risultare

La luna e il vulcano L’eruzione al chiaro di luna sarà anche una scena particolarmente poetica, ma il protagonista della foto in realtà, è un tipetto tutt’altro che “romantico”. Con oltre 40 eruzioni registrate negli ultimi 335 anni il Karangetang - così si chiama questa montagna dell’isola di Siau, in Indonesia - è infatti uno dei vulcani più irrequieti e pericolosi di tutto l’arcipelago

talvolta pelosa l’esaltata solidarietà. Ad ogni diritto corrisponde un dovere; la socialità determina costi, che qualcuno deve pagare; «nessun pasto è gratis» (Milton Friedman). Per la terapia della bancarotta pubblica, occorre rivalutare fortemente la figura del ragioniere - buon amministratore,

curatore d’ordinata contabilità e redattore di bilanci veri e trasparenti. Egli smaschera illusioni e inganni di funamboli, con i suoi numeri inoppugnabili. Normalmente il riscatto dalla povertà avviene mediante il lavoro, l’iniziativa, la parsimonia, la responsabilità personale, il rimboccarsi le maniche e

il far da sé (che fa per tre). Il povero operoso e intraprendente sale socialmente. La carità è utile e necessaria; tuttavia - se eccessiva e perpetuata - potrebbe avere controindicazioni, cioè favorire la pigrizia, la dipendenza e l’irresponsabilità di singoli beneficati.

Franco Padova


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Quella stupidità, che in società si chiama saviezza Sono quasi tentato di pregare il Cielo perché mi conceda un po’ di quella stupidità, che in società si chiama saviezza. Sono così schiavo del mio cuore, e de’ suoi capricci, ch’io mi tormento ogni minuto del giorno. È pur vero, gli amanti delirano come gli infermi. Indovina: mi sono tutt’oggi tormentato pensando a’ pochi minuti ne’ quali tuo marito è restato con te dopo la mia partenza. Temo ch’ei t’abbia fatto riflettere alle mie visite troppo lunghe e frequenti e che Cecco abbia aggiunto qualche commento, insomma, non so, ma io non sarò mai quieto se non sarò rassicurato da te. Spero che stasera nel tuo biglietto mi dirai come si farà domani a sera: io eseguirò a puntino i tuoi ordini; se non ci hai pensato, pensaci. E scrivimi domani per mezzo del tuo servitore col solito ripiego del libro: scrivimi a che dovrò recarmi da te, se dovrò venire al teatro o aspettarti a casa tua. Da l’una parte non venendo mi farei scorgere da Cecco, e venendovi come potrei introdurmi, non visto, da te? Scrivimi insomma; e se mai scrivi domani, bada di sigillare scrupolosamente la lettera. Non credo politica il venire io da te dopo la lunga conversazione di stamattina. Pensaci insomma, farò a tuo modo. Devo scrivere assai, perciò... Addio. Ugo Foscolo ad Antonietta Fagnani Arese

ACCADDE OGGI

RISCHI PER SALUTE E AMBIENTE Ritornano a creare divisioni gli organismi geneticamente modificati dopo la sentenza del Consiglio di Stato, che ha dato il via libera ad un agricoltore di Pordenone per la coltivazione di mais ogm, di fatto il via libera agli ogm in Friuli Venezia Giulia. La Coldiretti ha promosso una battaglia contro questa decisione. I rischi associati all’ingegneria genetica applicata all’alimentazion provengono da più settori. Ricordiamo i numerosi casi di contaminazione avvenuti a dimostrazione che le industrie del biotech non sono in grado di controllare la diffusione degli ogm, basti ricordare le conseguenze nefaste provocate ai danni di contadini americani e cinesi dal riso ogm. Potremmo assistere al venire meno della biodiversità e alla concentrazione delle risorse alimentari in capo a poche multinazionali. A suffragare la veridicità delle minacce sotto il profilo della salute è intervenuto un organismo autorevole: l’American Academy of Environmental Medicine che ha pubblicato un documento in cui si afferma che «gli ogm pongono seri rischi per la salute» e si consiglia di evitarne il consumo. Non a caso gli esperimenti sugli animali hanno mostrato risultati preoccupanti come allergie, disfunzioni immunitarie, problemi di fertilità, mortalità infantile, scompensi d’insulina e alterazioni comportamentali. È per questo che l’organismo ha domandato una moratoria sul cibo transgenico. Da rilevare anche che nella Comunità europea tutti i cibi con ingredienti derivati da piante transgeniche, in proporzione

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

4 febbraio 1948Ceylon (in seguito ribattezzata Sri Lanka) diventa indipendente all’interno del Commonwealth britannico 1957 Lo Uss Nautilus, il primo sommergibile a propulsione nucleare, percorre il suo 60.000° miglio nautico, raggiungendo la percorrenza del Nautilus descritto da Jules Verne nel suo romanzo 1969 Yasser Arafat assume la presidenza dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina 1970 Inizia la costruzione della moderna città di Pripyat, in Ucraina, che solo 16 anni più tardi verrà evacuata in seguito al disastro di Chernobyl 1974 L’esercito di Liberazione simbionese rapisce Patricia Hearst 1976 Guatemala e Honduras sconvolti da un terremoto che uccide più di 22mila persone 1980 L’Ayatollah Ruhollah Khomeini nomina Abolhassan Banisadr come presidente dell’Iran 1985 Gli U2 tengono il loro primo concerto in Italia

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

superiore all’1% deve essere segnalata tramite l’etichettatura obbligatoria. Dal 1 gennaio 2009 il regolamento Ue consentirebbe anche nei prodotti biologici contaminazioni “accidentali” di ogm fino allo 0,9%, senza l’obbligo di segnalarlo in etichetta, anche se le raccomandazioni più recenti pare stiano andando in una direzione più rigorosa, proprio per consentire anche ai consumatori una libera scelta di prodotti alla luce però di informazioni complete. Salvaguardare l’ecosistema, la biodiversità e la tipicità delle coltivazioni è un dovere anche della politica, che deve dare risposte chiare per il bene della coltivazione e dei coltivatori del Friuli Venezia Giulia e dell’Italia.

Ferruccio

IMPROVVISA VOGLIA DI UNITÀ Nel Pdl è scoppiata la voglia di unità tra tutte le forze dell’opposizione, anche per quei dirigenti che, nel 1999, osteggiarono qualunque possibilità di convergenza con Guazzaloca e l’Udc e imposero l’avventura di Alfredo Cazzola. Giancarlo Mazzuca non è un taxi, su cui si può salire o scendere, ma il candidato del Pdl per il comune di Bologna. A lui tocca fare un passo nei confronti delle altre forze di opposizione, proponendo liste uniche nei quartieri e un patto di reciproco sostegno nell’eventuale secondo turno, dopo una campagna elettorale che rifugga dalle polemiche tra i candidati (se saranno più di uno) dello schieramento moderato, come è accaduto l’anno scorso.

APPUNTAMENTI FEBBRAIO 2009 SABATO 6, ORE 17, MESAGNE AUDITORIUM DEL CASTELLO Convegno Udc, “Sviluppo del Mezzogiorno ed Enti Locali”. Interverranno: Vito Briamonte, Angelo Sanza, Ignazio Lagrotta, Euprepio Curto, Massimo Ferrarese. Conclude: Ferdinando Adornato. VENERDÌ 26, ORE 11, ROMA PALAZZO FERRAJOLI Convocazione Consiglio Nazionale dei Circoli Liberal. SEGRETARIO

Francesco Giuliano

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Direttore da Washington Michael Novak

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Collaboratori

Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,

Roberto Mussapi, Francesco Napoli,

Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

AGRICOLTURA IN CRISI (V PARTE) Per risollevare le sorti dell’agricoltura necessitano misure urgenti e strumenti operativi: a) costituire un’unità di crisi fra governo e conferenza Stato-Regione per censire e affrontare le emergenze di crisi territoriale e settoriale, con l’obiettivo di coordinare gli interventi e finalizzare l’uso delle risorse ancorandoli a fasi di intervento ed azioni localizzate nel tempo per il periodo necessario a favorire la soluzione delle difficoltà; b) adottare per quei settori e quei territori di cui si evidenzi la crisi finanziaria ed economica, provvedimenti straordinari articolati di sospensione dei pagamenti e delle esecuzioni in modo da permettere che le azioni producano effetti utili e non sia compromesso oltre la possibilità produttiva delle aziende; c) adottare una moratoria generale per sospendere e rinviare per almeno un anno il pagamento delle cambiali agrarie e delle cartelle Inps; d) utilizzare con urgenza i 600 milioni di euro del piano di sviluppo rurale che sono fermi nei cassetti della Regione. A detta del dipartimento Agricoltura, ad oggi, sono stati impegnati solo 110 milioni di euro; restano a disposizione 490 milioni da investire: una somma considerevole stante la crisi dirompente che assilla economicamente il mondo agricolo. Gaetano Fierro, Agatino Mancusi, Vincenzo Ruggiero C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

Mario Arpino, Bruno Babando,

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

John R. Bolton, Mauro Canali,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

Franco Cardini, Carlo G. Cereti,

Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,

Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,

Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,

VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

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Amministratore Unico Ferdinando Adornato

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Angelo Crespi, Renato Cristin,

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Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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