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O si impara l’educazione
di e h c a n cro
in casa propria, diceva Dick, o il mondo la insegna con la frusta, e ci si può far male
9 771827 881004
Francis Scott Key Fitzgerald di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 5 FEBBRAIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
La proposta fatta da Scajola: «Nessuno deve seguire il loro esempio». Realacci: «No alla militarizzazione dei siti»
Un conflitto nucleare
Il governo impugna davanti alla Consulta il no alle centrali di Puglia, Campania e Basilicata. Cominciamo a pagare un decennio di “federalismo anarchico”imposto da Lega e sinistra SENZA STRATEGIE
di Errico Novi
L’energia divisa tra Stato e cortile
ROMA. Prima o poi doveva succedere che il federalismo alla leghista esplodesse in tutte le sue contraddizioni. Il governo - per mano dei ministri Scajola e Fitto - ha impugnato davanti alla Corte costituzionale le leggi di Puglia, Basilicata e Campania che impediscono di installare impianti nucleari nei loro territori. Il principio non fa una piega: la politica energetica diuno Stato la fa il governo. Ma come la mettiamo con la delega territoriale a tutti i costi voluti da Bossi e compagnia? Di certo, con questa mossa il governo si mette contro tre regioni attualmente governate dal centrosinista ma si mostra anche assai determinato a puntare tutto sul nucleare.
di Giancristiano Desiderio Bisogna dire no al federalismo del no. A maggior ragione bisogna dire no al federalismo del no se i no riguardano nientemeno che la politica energetica. a pagina 2
Dopo il discorso del Cavaliere alla Knesset
Orgoglio italiano: diamo fastidio ad Ahmadinejad
Sì all’affare-Telefonica, no al Lingotto che lascia la Sicilia
Modello Fiat e modello Telecom, il governo liberista a giorni alterni di Carlo Lottieri ta ormai entrando nel vivo la questione della progettata fusione tra Telecom Italia, azienda privata con una lunga storia monopolistica alle spalle e una ben complicata e contorta dismissione e l’azienda spagnola Telefonica. E Berlusconi dice che non ha un progetto sul tavolo, ma insomma, siamo in un regime di libero mercato... Libero mercato che però non vale per la Fiat che non deve lasciare la Sicilia.
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PUNTURE DON UMBERTO Il professor Umberto Veronesi ha dichiarato ieri a Sky Tg 24 che «La religione impedisce di ragionare». Non immaginavamo che l’illustre scienziato fosse diventato così religioso
Nota ufficiale del governo di Teheran: «Berlusconi si è dimostrato servo di Gerusalemme». Ma non mancano le critiche al premier anche da parte della destra religiosa israeliana
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A Milano inflitta una multa ai genitori di un “branco” di violentatori
I cattivi papà devono pagare? Fa discutere la sentenza contro l’educazione sbagliata
Pierre Chiartano • pagina 14
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Se il premier Caro Obama torna a fare è il momento il premier di attaccare di V. Faccioli Pintozzi
di Daniel Pipes bitualmente non offro consigli a un presidente alla cui elezione ero contrario. Ma qui ho un’idea affinché Obama salvi la sua traballante amministrazione, facendo un passo a tutela degli Usa e dei suoi alleati. Se la personalità e l’identità di Obama incantarono nel 2008 la maggioranza dell’elettorato, nel 2009 queste qualità si sono dimostrate inadeguate. a pagina 15
ricolosa? Questo l’interrogativo che solleva la decisione presa dal tribunale di Milano che ha inflitto ai genitori di alcuni quattordicenni, che avevano violentato una dodicenne, una pena pecuniaria di 450mila euro. I padri e le madri sono dunque «responsabili» dei reati dei figli? Ne abbiamo discusso con Maria Rita Parsi e Paolo Crepet.
a sentenza del Tribunale civile di Milano che ha condannato i genitori di un gruppo di adolescenti stupratori al risarcimento di 450mila alla loro vittima dodicenne vorrebbe essere esemplare nella sua motivazione. Ai genitori di questi giovanissimi stupratori, infatti, viene contestata la colpa di non aver educato i propri figli ai sentimenti.
uando si torna all’uso reale della politica e si riprendono in mano gli strumenti del buonsenso, il nostro Paese assume di nuovo i contorni che l’hanno reso grande. Di questo si deve rendere merito al nostro premier, che nel corso della sua visita in Israele è riuscito a colpire il giusto nemico. Quel governo iraniano che, con il suo comportamento, mette a rischio la pace.
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di Gabriella Mecucci
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Ma così la società se ne lava le mani
ROMA. Sentenza giusta o pe-
di Riccardo Paradisi
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
24 •
WWW.LIBERAL.IT
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IN REDAZIONE ALLE ORE
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19.30
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pagina 2 • 5 febbraio 2010
Energia. Scajola e Fitto impugnano davanti alla Consulta le decisioni delle Regioni «perché nessuno segua il loro esempio»
Un pasticcio “federalista” Il governo contro Puglia, Campania e Basilicata che hanno detto no al nucleare. Esplodono conflitti di una politica vittima del leghismo di Errico Novi
ROMA. Alla fine è successo. Il tema del nucleare entra con tutto il portato dei suoi retropensieri nella campagna elettorale per le Regionali. A spingere l’ultimo pulsante è il Consiglio dei ministri, in particolare il responsabile dello Sviluppo economico Claudio Scajola che parla al termine della riunione di Palazzo Chigi: «Si è deciso di impugnare davanti alla Consulta le leggi regionali di tre amministrazioni, Puglia, Campania e Basilicata, che impediscono l’installazione di impianti nucleari». Scelta inevitabile «in punta di diritto», dice Scajola, perché i provvedimenti contestati «non riconoscono l’esclusiva competenza dello Stato in materia di tutela dell’ambiente, sicurezza interna e concorrenza». Ma soprattutto perché «non impugnarle avrebbe costituito un precedente pericoloso: si potrebbe indurre le Regioni ad adottare altre decisioni negative sulla localizzazione di infrastrutture necessarie per il Paese».
Il contrattacco dunque serve a riaffermare un principio, soprattutto a evitare che leggi anti-atomo possano diffondersi a macchia d’olio in altre parti d’Italia. Va scongiurato insomma il pericolo che il fronte del no al nucleare, in assoluto non eliminabile, scelga la via legislativa come strumento di lotta. Strategia dissuasiva che però innesca le immediate accuse di «fascismo» da parte della sinistra radicale, appena sfumate nell’aggetivo «autoritario» a cui ricorre il Wwf e nella «ritorsione» evocata dal Pd, con Ermete Realacci («ed è pure debole»), ma soprattutto da Emma Bonino. Che nel merito la ragione stia dalla parte dell’Esecutivo è difficile negarlo: ma con il metodo dell’offensiva al posto della concertazione si rischia di far saltare subito il tavolo, e di contribuire ad alimentare gli allarmismi. Peraltro un contenzioso tra Stato e Regioni sulla legge che stabilisce il ritorno all’atomo è già in corso, come ricorda uno dei governatori ricorrenti, Antonio Bassolino: «Se ne discuterà il 22 giugno davanti alla Corte costituzionale, sono 11 le amministrazioni regionali ad aver aderito all’iniziativa». Così proprio mente il governo si prepara al varo definitivo della delega sull’individuazione dei siti e dell’Agenzia per la sicurezza nucleare (per la cui direzione si parla di Umberto
Nella sfida ai governatori il senso di un errore lungo un decennio
L’ultimo grido del localismo: «Via le centrali dal mio cortile» di Giancristiano Desiderio isogna dire no al federalismo del no. A maggior ragione bisogna dire no al federalismo del no se i no riguardano nientemeno che la politica energetica. La notizia ormai è nota e la riepiloghiamo in un rigo: il governo - i ministri Scajola e Fitto - ha impugnato davanti alla Corte costituzionale le leggi di Puglia, Basilicata e Campania che impediscono di installare impianti nucleari nei loro territori. Se dovesse prevalere questa politica energetica regionalizzata sarebbe la fine del senso stesso dell’esistenza dello Stato e della nazione.
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Ma - aggiun gi amo - siccome le regioni, piaccia no, esistono solo all’interno di uno Stato e di una nazione, ci sarebbe anche la scomparsa delle regioni che entrerebbero a far parte di altre “geografie politiche”. È evidente, infatti, che se si vuole continuare a vivere nel mondo dell’attuale civiltà - e non sembra proprio che i pugliesi, i lucani e i campani ne vogliano uscire - dopo aver detto no all’energia nucleare, da qualche parte l’energia per portare avanti case, industrie, automobili, trasporti eccetera si dovrà pur prendere. Ma tutto ciò che si prende si paga. O la Pula glia, Campania e la Basilicata credono che l’energia sarebbe loro regalata? La decisione del governo ha già ricevuto le risposte di
Niki Vendola e di Antonio Bassolino. Il primo, naturalmente in campagna elettorale, ha risposto che la Puglia sarà la regione più disobbediente d’Italia. Il secondo è invece entrato nel merito del provvedimento e ha citato la Costituzione dicendo che le regioni hanno voce in capitolo e “concorrono”alla definizione della politica energetica. Ora, proprio su questo punto c’è bisogno di essere chiari: solo lo Stato può essere il “titolare” della politica energetica che potrà essere definita con la collaborazione attiva delle Regioni ma che non può essere alienata a favore del diniego e dei veti regionali. Se così dovesse accadere lo Stato italiano non avrebbe più la sua prima e fondamentale ragion d’essere.
È bene che questo concetto sia chiarito dal partito che ha fatto del federalismo la sua fede: la Lega. Una cosa, infatti, è concepire il federalismo come decentralizzazione e trasferimento di funzioni; ben altra cosa, invece, è intendere il federalismo come un annullamento del potere dello Stato nazionale di assicurare a tutta la nazione la sicurezza. Se l’Italia perde la capacità di pensare in termini nazionali e le sue classi dirigenti operano in confini angusti e provinciali quali sono, in definitiva, quelli delle singole regioni, allora, lo Stato diventa un incidente di percorso degli ultimi centocinquanta anni. La Lega, che ha vinto la sua battaglia federalista, ha il dovere ora di schierarsi senza riserve per le ragioni dello Stato che se dovessero venir meno nel campo decisivo dell’energia spazzerebbero via anche il federalismo. Purtroppo, il federalismo si conferma nella sua tendenza di fondo: vogliamo i vantaggi ma non ci interessano gli svantaggi. Tradotto sul piano energetico: vogliamo il benessere energetico, ma le centrali di ogni tipo non vanno messe nel nostro giardino. Ma in qualche giardino bisognerà pur installarle. Uno Stato nazionale serve proprio a questo: a non ridurre il giardino in un orticello curato ma inutile.
Veronesi, e ieri dallo staff del luminare è arrivata un mezzo sì) il dossier viene consegnato nelle mani della più banale retorica populista.
Non a caso a navigare con sicurezza nelle agitate acque della politica energetica è il campione del populismo di sinistra, Nichi Vendola: «La Puglia sarà la regione più disobbediente». Antonio Di Pietro comincerà oggi la raccolta delle firme contro la realizzazione dei reattori (prima pietra nel 2013, regime al 50 per cento per il 2020). È comprensibile la preoccupazione di un sindacato moderato come la Cisl: «Bisogna evitare che il tema delicato del nucleare si trasformi in una contesa sterile, soprattutto in campagna elettorale, tra governo centrale e Regioni», dice il segretario confederale per le politiche dell’energia Gianni Baratta. Nel
Ringalluzziti i ras populisti di sinistra, da Vendola a Bassolino. Dato in pasto alla campagna per le Regionali, il dossier sull’atomo rischia di scivolare via dal controllo dell’esecutivo suo intervento, tra i pochi non appesantiti dalla faziosità, c’è sia la critica per i paladini del no a tutti costi che un malcelato sconcerto per i tempi scelti dal governo: «Serve più equilibrio e un atto di responsabilità da parte di tutti, ci dispiace che un tema importante per famiglie e imprese come il futuro energetico dell’Italia sia diventato terreno di scontro ideologico».
Purtroppo così è: l’assessore all’Ambiente del Lazio, il democratico Filiberto Zaratti, ne approfitta per infliggere un colpo alle gambe a Renata Polverini: «Chi vota per lei appone automaticamente la propria firma alla realizzazione di una centrale nucleare nella propria Regione, sia essa a Montalto di Castro, a Borgo Sabotino o altrove». Ecco i discorsi che si rischia di dover registrare da qui al 28 marzo: un uso ideologico e inappropriato della politica energetica come randello elettorale. Nessuno dubita che lo stile della Bonino sarà più serio, lo si è visto anche ieri quando la candidata radicale si è piuttosto soffermata sul «progetto senza futuro, costoso, che nasce già vecchio» sostenuto da Scajola e, con qualche ragione, sulla scarsa coerenza tra l’atteggiamento conflittuale esibito dal ministro e la supposta vocazione al decentramento: «Il governo mostra la sua vera faccia, altro che federalismo: compie un semplice atto di prepotenza, l’energia è materia concorrente». Il ministro può ribattere che in gioco ci sono la sicurezza interna (che vuol dire anche autosufficienza energetica) e la concorrenza, materie che anche il sempre più inefficace Titolo V della Carta attribuisce in via
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5 febbraio 2010 • pagina 3
Il parere dell’economista sul conflitto Stato-Regioni per il nucleare
«Ma non si può rinunciare al consenso dei cittadini» Luigi Paganetto: «Su questi temi è necessaria molta informazione e molto dialogo con la popolazione» di Francesco Capozza
ROMA. Il Consiglio dei ministri ha deciso di impugnare dinnanzi alla Corte Costituzionale le leggi regionali di Puglia, Campania e Basilicata che impediscono l’installazione di impianti nucleari nei loro territori. «L’impugnativa delle tre leggi è necessaria per ragioni di diritto e di merito», ha spiegato il ministro dello sviluppo economico Scajola. «In punto di diritto - ha aggiunto - le tre leggi intervengono autonomamente in una materia concorrente con lo Stato (produzione, trasporto e distribuzione di energia elettrica) e non riconoscono l’esclusiva competenza dello Stato in materia di tutela dell’ambiente, della sicurezza interna e della concorrenza. Non impugnare le tre leggi avrebbe costituito un precedente pericoloso perché si potrebbe indurre le Regioni ad adottare altre decisioni negative sulla localizzazione di infrastrutture necessarie per il Paese». Professor Paganetto, che ne pensa di queste motivazioni? Non entro negli aspetti giuridici. Devo dire, tuttavia, che in un un sistema come il nostro, in cui si procede a passo spedito verso un federalismo regionale, il consenso dei cittadini sul territorio viene ancor prima delle dispute sulle competenze. Personalmente credo che su questi temi sia necessaria molta informazione e molto dialogo con i cittadini. Sul nucleare, che porta con se complesse questioni tecnologiche ed economiche oltre che giuridiche, credo sia necessario un grande sforzo per renderne evidenti a quanti più possibile, tutti gli aspetti. Secondo Scajola, il ritorno al nucleare è un punto fondamentale del programma del Governo Berlusconi, indispensabile per garantire sicurezza energetica, ridurre i costi dell’energia e combattere il cambiamento climatico. Sono considerazioni giuste a suo avviso? In un mondo in cui domina il cambiamento tecnologico star fuori dalla tecnologia nucleare sarebbe sbagliato. Ma vanno valutati tutti gli aspetti che vi si accompagnano. Gli impegni in ambito europeo ci vincolano, è vero, ma bisogna fare anche una valutazione più generale sui costi di sistema. Se facciamo l’esempio della Francia, c’è da rilevare che oltralpe sono state attivate circa 60 centrali nucleari: questo permette davvero un contenimento dei costi, ma ha comportato anche un impegno importante e significativo del governo oltre ad un adeguato consenso sulla questione.
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Scajola tuona: «Il Governo impugnerà tutte le eventuali leggi regionali che dovessero strumentalmente legiferare su questa materia, strategica per il Paese». Strategica perchè, professore? Credo che il ministro intenda dire che è strategica sia per motivi di sicurezza (non c’è dubbio che ai gasdotti e all’acquisto di petrolio corrisponda una significativa percentuale di rischio-sistema), sia per motivi strettamente economici. È chiaro, infatti, che la produzione di energia elettrica fondata largamente come è oggi su rifornimenti del gas attraverso gasdotti, rende rigido e rischioso il nostro modello energetico. Per renderlo meno esposto al rischio non è strettamente necessario il ricorso al nucleare perché un ampio e ben strutturato piano di sistemi di rigassificazione con opportuni nuovi impianti,come si e cominciato a fare, raggiungerebbe gli stessi risultati. Dal punto di vista economico il vantaggio di una soluzione o dell’altra dipende crucialmente dal prezzo del petrolio e del gas nei prossimi anni. Il costo di produzione di energia nucleare dipende largamente dalla dimensione dei costi di sistema che nel caso francese sono bassi pro quota, considerato il gran numero di impianti su cui si distribuiscono e la storia dell’investimento nucleare in Francia. Credo che sia importante che su tutto questo e, in generale riguardo al piano energetico, si apra un’ampia discussione, che, d’altro canto, da tempo è preannunciato, attraverso una Conferenza nazionale. In questo modo i cittadini potrebbero aver modo di avere più elementi di giudizio sui tanti aspetti delle scelte energeticoambientali del paese. Siamo nell’ambito della incostituzionalità a suo avviso? Non ho né la competenza né ricopro il ruolo adatto a fare riflessioni sulla costituzionalità o meno di una questione di questo tipo. Visto che il governo ha ritenuto necessario impugnare quelle leggi regionali che respingevano la richiesta di costruzione di nuove centrali, a questo punto la questione è nelle mani della Corte costituzionale. Ma Scajola fa riferimento a dei pronunciamenti della Consulta che, a suo dire, costituiscono un precedente. Come lei sa la Corte Costituzionale spesso revisiona i suoi stessi pronunciamenti. Lasciamo lavorare i giudici della Consulta che sono gli unici che possono confutare o meno la tesi del governo.
In un mondo in cui domina il cambiamento tecnologico, restare totalmente fuori dall’energia atomica sarebbe sbagliato. Ma vanno valutati bene tutti gli aspetti»
esclusiva allo Stato. Ma l’oggetto del contendere c’è eccome, può ricordarlo lo stesso Bassolino che si produce in precisazioni da eminente giurista e che d’altronde difende una legge regionale in cui si parla di «necessario accordo» tra governo nazionale e locale. L’esito dell’impugnazione annunciata ieri da Scajola insomma non è così scontato. E come se non bastasse si apre la strada a polemiche strumentali, come pure le definiscono Raffaele Fitto, co-promotore dell’iniziativa, e il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi. In grande affanno sono i candidati del Pdl alla presidenza delle Regioni ammutinate, a cominciare da Rocco Palese subito bersagliato dai vendoliani. E nel frattempo il clima da conflitto aperto induce il Consiglio dei ministri a congelare l’avvicendamento tra Stefano Saglia e Daniela Santanchè nel ruolo di sottosegretario con delega all’Energia. Non è aria di nomine glamour.
Dall’alto, i tre governatori contro i quali il governo ha fatto ricorso alla Consulta: Antonio Bassolino della Campania, Nichi Vendola della Puglia e Filippo De Vito della Basilicata. A destra, Luigi Paganetto. Nella pagina a fianco, il ministro Scajola
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economia
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Contraddizioni. Dopo Scajola, anche Renato Schifani parla di «incentivi all’auto solo in cambio di occupazione in Sicilia»
Silvio tra Fiat e Telefonica Liberista con l’affare Telecom, ma pronto a dettare la strategia industriale del Lingotto: in economia, il governo non ha le idee chiare di Carlo Lottieri ta ormai entrando nel vivo la questione della progettata fusione tra Telecom Italia, azienda privata con una lunga storia monopolistica alle spalle e una ben complicata e contorta dismissione (negli anni in cui il governo era guidato da Romano Prodi e, in seguito, da Massimo D’Alema), e l’azienda spagnola Telefonica. Dovesse andare in porto, questa unificazione delle due imprese sarebbe importante non soltanto per le dimensioni dei gruppi coinvolti (Telefonica, va ricordato, è leader non solo in Spagna, ma in tutta l’America latina), ma anche perché si tratta di aziende che portano con sé tutti i benefici economici e i legami politici che normalmente contraddistinguono le aziende ex-pubbliche nel settore delle telecomunicazioni: specie dove non si sono adottati criteri di chiara separazione tra rete e operatore quali quelle che sono state introdotti, invece, nel Regno Unito.
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stro Claudio Scajola non sembrano in sintonia con la tesi difesa dal premier nella conferenza stampa di ieri. Secondo il ministro dello Sviluppo economico, infatti, «Telecom è una società privata e in Italia c’è il libero mercato, ma è altrettanto evidente che la rete delle telecomunicazioni è un asset strategico per il Paese». Che è un po’ come dire che non soltanto il governo vuole vedere e valutare attentamente il dossier, ma che è pure intenzionato a dire la sua. Invece che delineare regole che favoriscano il massimo della concorrenza, insomma, si lascia intendere di voler agire in prima persona all’interno di accordi, fusioni e trattative che dovrebbero non conoscere interferenze di natura extra-economica.
«La rete delle tlc è ancora un asset strategico per il Paese» ha ricordato il ministro dello Sviluppo
Di fronte allo scenario della nascita di un nuovo colosso italiano-spagnolo, il presidente Silvio Berlusconi ha dichiarato di non aver ricevuto alcun dossier, ma ha pure evidenziato come sia normale che simili trattative avvengano lontano dai palazzi della politica. «Ricordo che siamo un governo liberale – ha detto il premier – e viviamo, e crediamo sia giusto così, in un’economia di mercato». La dichiarazione di principio convince e va sicuramente apprezzata, anche se solo di rado trova conferme nell’azione di governo. Un paio di altre considerazioni, però, vanno aggiunte. In primo luogo, le espressioni usate dal mini-
In secondo luogo, la doverosa estraneità del governo alle vicende di mercato non può essere “a intermittenza”: riguardando magari le telecomunicazioni, ma non il settore automobilistico. È giusto che quando gli è stata posta una domanda su Telecom e Telefonica il capo del governo abbia ricordato che viviamo in una società che si vorrebbe liberale, ma egli dovrebbe egualmente averlo presente quando si discute della Fiat e di Termini Imerese. In particolare dovrebbe ricordarlo al ministro Scajola, sempre lui, che proprio nelle ore scorse ha evocato la questione dei sussidi al settore automobilistico, lasciando ben capire che le scelte governative in materia possono assumere la forma di una carota («se restate in Sicilia, vi rinnoviamo gli aiuti») e al tempo stesso di un bastone («se invece ve ne andate,
li aboliamo subito»). Il ministro ha giustamente sottolineato che i soldi di Stato distorcono il mercato, ma ha comunque lasciato aperta la porta, nel caso in cui l’azienda torinese muti opinione sul futuro dell’impianto del Palermitano. Intervistato sulla Stampa, però, Sergio Marchionne ha risposto con parole molto nette. Dalla sua conversazione con il direttore Mario Calabresi emerge chiaramente che oggi la dirigenza della Fiat è persuasa che il gruppo possa e debba fare a meno degli aiuti, perché è molto più importante compiere scelte che siano in grado di dare un futuro all’azienda, invece che obbligarla a implorare di continuo finanziamenti statale. Meglio imparare a stare in piedi da soli che essere costretti a fare anticamera fuori dall’ufficio del ministro di turno.
Ma non è solo
to in Sicilia, e anche per questo motivo avrebbe dovuto evitare di intervenire in tal modo – ha affermato che «bisogna avere il coraggio di dire basta a elargizioni statali se non vengono salvaguardati i posti di lavoro e i presidi industriali». Da uomo politico che ha la propria base elettorale nell’isola, Schifani ha sposato la “dottrina Scajola” dell’aiuto condizionato: una dottrina che ovviamente ha ben poco di liberale e che finisce per assoggettare le imprese agli umori, agli interessi e alle logiche del ceto politico. Se Scajola e Schifani fossero veramente orientati a tutelare quel libero mercato evocato da Berlusconi, avrebbero detto “no agli aiuti”: senza se e senza ma. L’avrebbero detto lo scorso anno e lo ripeterebbero ora, nella convinzione che non si sottraggono risorse alle attività in buona salute, le quali che producono profitti e creano posti di lavoro, per destinarle alle imprese in crisi, che per giunta sono destinate prima o poi a ridurre i loro organici.
Il presidente del Senato si dimostra un uomo politico che si preoccupa soprattutto della propria base elettorale
Scajola che pretende di comandare all’interno delle aziende, usando i soldi dei contribuenti come tentazione e le decisioni governative come minaccia. Intervenuto a Palazzo Giustiniani in occasione della presentazione del rapporto della Fondazione sussidiarietà, il presidente del Senato, Renato Schifani, è parso ben poco in sintonia con le parole di Berlusconi sull’economia italiana come libero mercato e sul carattere liberale della maggioranza. Schifani – che per giunta è stato elet-
N e l l ’ i n t e r v i s t a s o p r a ricordata, l’amministratore di Fiat ha parlato da manager, delineando un’azienda che punta entro il 2012 a realizzare in Italia ben 900 mila vetture, e ha quindi evidenziato come sia “fisiologico” che la stagione degli aiuti venga meno. È arrivato perfino ad affermare che protrarre troppo a lungo gli incentivi
Il sindaco di Torino respinge l’equazione tra rottamazioni e il sito siciliano
Chiamparino: nessun ricatto di Francesco Pacifico
ROMA.
«Qualcuno mi deve spiegare perché il governo mette in relazione il salvataggio di Termini con la conferma degli incentivi». Al sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, non piace l’ultimo aut aut. Che fa, difende la Fiat? Non ho mai pensato che il Lingotto sia innocente in tutta questa vicenda. Ma non capisco
l’atteggiamento del governo. Gli incentivi non servono per salvare Termini o Mirafiori, ma soltanto per frenare la caduta della domanda. E in Italia, rispetto all’estero, sono stati dati anche in ritardo. Il governo gioca sporco? Il governo deve semplicemente dire se vuole confermare, e in quali tempi e misura, gli aiuti
oppure annunciarne la cessazione. E deve parlare il premier, perché una volta fatta chiarezza non ci può essere un ministro che fa sapere che si può cambiare idea. Marchionne è ambiguo? Nell’intervista rilasciata alla Stampa ha confermato che prima o poi bisognerà uscire dalla logica degli incentivi. Ma sicco-
economia
5 febbraio 2010 • pagina 5
Ancora in alto mare anche la trattativa per le telecomunicazioni
Su Termini Imerese è ancora guerra di fondi Marchionne: «Sono agnostico sugli incentivi» e subito Berlusconi ne approfitta: «Allora non li vogliono» di Alessandro D’Amato
ROMA. «Telefonica? Siamo in un libero mercato e crediamo che sia giusto così. Fiat? Noi siamo pronti con gli incentivi ma Marchionne non li vuole». Dedica soltanto un paio di battute della conferenza stampa dopo il Consiglio dei Ministri il presidente Silvio Berlusconi alle due questioni più scottanti sul tavolo dell’esecutivo. Ma al di là degli slogan la fibrillazione sui due temi sembra essere davvero autentica, e prima o poi il governo sarà chiamato a fare delle scelte. Per quanto riguarda il Lingotto, a movimentare la giornata ci ha pensato l’amministratore delegato Sergio Marchionne, il quale, in un’intervista alla Stampa ha dato fuoco alle polveri: «Sono agnostico sugli incentivi: il governo faccia la sua scelta e noi la accetteremo senza drammi. Ma abbiamo bisogno di decisioni in tempi brevi e di uscire dall’incertezza, poi saremo in grado di gestire il mercato e la situazione qualunque essa sia». Per Marchionne è chiaro comunque «che gli incentivi non possono che essere temporanei e che prima o poi andranno eliminati per tornare a un mercato normale». Ma sulla Sicilia non si torna indietro: «La decisione di smettere di produrre a Termini Imerese è stata presa ma siamo pronti a fare la nostra parte, a farci carico, insieme al governo, dei costi sociali di questa scelta». L’ad di Fiat ha poi attribuito la decisione del nuovo ricorso alla cassa integrazione esclusivamente ai dati, che mostrano in Italia «gli ordini a gennaio crollati del 50% rispetto a dicembre e quasi del 10% più bassi di gennaio dell’anno scorso, quando il mercato era in piena crisi».
ranno le cose, noi siamo sempre aperti e pronti a dare una mano ai settori che ne hanno bisogno». Una frase che si prestava a una qualche interpretazione maliziosa, subito confermata da un flah d’agenzia di Radiocor, nella quale si parlava di interessi «concreti» per lo stabilimento Fiat di Termini Imerese, citando ambienti del governo che confermavano le indicazioni emerse nelle scorse settimane. A guardare con attenzione alla sorte degli impianti siciliani, riferiscono le fonti, sarebbero soprattutto case automobilistiche straniere, ma anche imprenditori italiani. Nell’un caso e nell’altro, l’interesse nascerebbe dalla possibilità di realizzare auto elettriche: business, si osserva, poco appetibile per la Casa torinese, concentrata sulle auto a metano. Una possibilità che forse aprirebbe una speranza per Termini, ma è chiaro che andrà in porto soltanto se lo Stato continuerà a fornire incentivi e aiuti a pioggia: e quando il rubinetto si chiuderà, la situazione ritornerà esattamente come prima.
Il destino futuro della società gestita da Franco Bernabé è incerto: la soluzione potrebbe anche slittare a dopo l’estate
“sarebbe un danno che pagheremmo con minori vendite nei prossimi anni”. Non si capisce perché quello che oggi può essere velenoso ieri invece fosse un toccasana, ma – insomma – almeno oggi si è cambiata musica. C’è da sperare che presto anche gli esponenti della maggioranza intendano tutto ciò e si mettano a spingere, con un minimo di coerenza e rigore, nella medesima direzione.
me sono una droga, va fatto in modo graduale. Visto la riconversione in atto da un decennio, dia un consiglio al suo collega di Termini. Non do consigli a nessuno. Noto che nel 2005 regione Piemonte, provincia e comune di Torino hanno stanziato 72 milioni per l’area di Mirafiori, la regione Sicilia non ha dato i 400 milioni promessi per le infrastrutture di Termini. Il vostro intervento è servito soltanto a comprare dei terreni del Lingotto. Questo non l’accetto: può dire che il progetto viene portato
È rottura tra il premier e Sergio Marchionne. A sinistra, l’ad di Telecom Franco Bernabé. Nella pagina a fianco, Schifani e Sergio Chiamparino
avanti lentamente, ma il nostro è un investimento che serve per sviluppare il know how del territorio: lì verrà costruito il nuovo centro ricerche del Politecnico e sarà collegato al polo dell’auto. Non è che Termini o Portovesme sono soltanto cattedrali nel deserto? Sono situazioni troppo diverse. La verità è che lo diventeranno se non si investe in innovazione, sul prodotto. Com’è il clima a Torino? Non dormiamo tra due guanciali. Ma rispetto alla crisi del 2003 e del 2004, si intravedono non poche possibiltà.
A stretto giro di posta è arrivata la replica del presidente del Senato Renato Schifani: «Basta aiuti se non viene salvaguardato il lavoro», ha detto Schifani, siciliano, parlando alla presentazione del rapporto della conversione per la sussidiarietà, «Mi dispiace che queste parole vengano da chi conduce un’azienda che nei decenni pregressi è stata fortemente sostenuta dallo Stato per mantenere i livelli occupazionali. Detto questo ritengo che occorre guardare con una strategia complessiva quelli che sono i problemi della produzione italiana, lo sta facendo il governo, e ritengo che anche la Fiat debba guardare all’interesse etico-sociale della produttività e del lavoro. Occorre fare squadra, fare sistema tra mondo produttivo, mondo delle istituzioni e mondo politico». Poi è arrivata la battuta di Berlusconi, il quale ha aggiunto che il governo «sta discutendo con altri protagonisti del settore auto e vediamo come si mette-
Ancora più complessa, se possibile la situazione di Telecom-Telefonica. DOpo aver fatto presente che «siamo governo liberale, e viviamo e in una economia di libero mercato», il presidente del Consiglio ha poi aggiunto di non avere ancora avuto «sul tavolo nessuna proposta o progetto per quanto riguarda l’azienda, come abbiamo avuto modo di far sapere attraverso gli interventi del ministro Scajola». Nel frattempo in un articolo del Foglio pubblicato ieri si spiegava che le posizioni e l’operazione si delineeranno comunque non a breve, ma solamente dopo l’estate. L’unica certezza è il prossimo scioglimento di Telco - la società composta da Telefonica, Generali, Intesa e Mediobanca - che governa con il 22,5% l’ex monopolista statale. Il attesa che il dossier azionario venga predisposto «c’è chi auspica anche all’interno di Telecom una ricapitalizzazione come parziale via di uscita dall’empasse industriale», a condizioni tali da attirare non solo gli attuali soci ma anche nuovi capitali. «Chi ha parlato in questi giorni con il presidente di Mediobanca, Cesare Geronzi, ha avuto una salda impressione di una netta contrarietà all’ipotesi», scrive Il Foglio, secondo cui per Geronzi la richiesta di aumento di capitale dovrebbe essere accompagnata da un articolato progetto di sviluppo. Ma così i vertici sarebbero a rischio bocciatura, visto che a loro è legato l’attuale piano industriale. Insomma, la situazione è ancora molto ingarbugliata. E non sarà con le battute che se ne verrà a capo.
diario
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Riequilibri. Il nuovo rapporto della Fondazione per la sussidiarietà: gli italiani promuovono i servizi dei Comuni, non quelli di Province e Regioni
«Più privato per aiutare la famiglia» Giorgio Vittadini: «Serve un federalismo vero per dare risorse al territorio» ROMA. «Servono soldi veri e chiarimenti sulle competenze se vogliamo migliorare i servizi ai cittadini». Per Giorgio Vittadini la sussidiarietà è sempre stato un imperativo. E lo è ancora di più di fronte mentre si ridisegnano i rapporti tra centro e periferia con la riforma federale. Non a caso ieri la Fondazione per la Sussidiarietà che ha fondato e dirige ha presentato un rapporto su come gli italiani giudicano gli enti locali come erogatori di servizi: promossi i Comuni (6,32 su una scala da 1 a 10), bocciate Province e Regioni (rispettivamente 4,84 e 5,05). Ancora una volta la cenerentola è la famiglia. Servirebbero più aiuti. Si fa poco per la famiglia perché si considera questa forma di legame qualcosa di negativo, un freno a ogni forma di intraprendenza. E purtroppo neppure la maggiore crisi dell’era moderna, nella quale si è pagato proprio l’eccesso di individualismo e egoismo, ci spinge a rafforzare quella che è la cellula della società. Il governo in carica ha fatto veramente poco È vero. Ma è sbagliato anche pensare che tutto si possa risolvere con un legge nazionale. Non si vuole capire che certi processi avvengono e si sviluppano a livello locale. Certo, non si può negare una sporporzione tra il Sud e il Nord, però i Comuni, anche nel mezzogiorno, sono macchine all’avanguardia. Realtà che nel campo dell’assistenza e dei bisogni hanno assorbito più know how di quanto si possa immaginare.
di Francesco Pacifico
sogni della popolazione sono cambiati negli anni. Prenda la sanità. Una volta le maggiori criticità erano date dalle malattie, fossero infettive o patologie degenerative. Oggi, con l’invecchiamento crescente della popolazione siamo passati invece a forti livelli di cronicità, spesso legata alla disabilità o a problemi di natura psicologica. Una volta faceva tutto l’ospedale. E oggi dovrebbe essere il Comune il punto di riferimento. Il problema è che il Titolo V, questo federalismo a metà,
L’ex presidente della Compagnia delle Opere si scaglia contro «l’eccesso di individualismo» considerato un modello nonostante la crisi Nel vostro rapporto denunciate una sussidiarietà a macchia di leopardo. Perché molti comuni fanno un intervento diretto, altri si affidano a sistemi di sussidiarietà orizzontale che vanno dall’esternalizzazione alla collaborazione con progetti di eccellenza. Penso al banco alimentare o al piazza dei mestieri. Realtà che intervengono nel momento del bisogno. I servizi peggiori sono destinati alle categorie più deboli: immigrati, disoccupati o i poveri. È interessante vedere come i bi-
non chiarisce che competente a erogare questi servizi è il sindaco. E la cosa crea non poca confusione. Perché i cittadini si fidano più dei Comuni che delle Province? La gente sente li senti vicini perché sono depositari delle conoscenze e degli strumenti per rispondere alla domande del territorio. Il problema, casomai, è pretendere che questo lo faccia lo stato centrale. E i nostri Comuni, grandi o piccoli, diventano efficienti, se riescono a coordinare tutte le loro articolazione.
Wall street e i deficit nella Ue trascinano il ribasso
Borse, giovedì nero MILANO. Le Borse europee affondano per il timore dei crescenti deficit di molti paesi dell’Eurozona. Nel mirino in particolare Grecia, Portogallo e Spagna. Wall Street non aiuta e cala di oltre il 2%, dopo i deludenti dati sui sussidi settimanali di disoccupazione Usa. A Londra l’indice Ftse 100 perde il 2,17% a 5.139 punti. Francoforte scende del 2,45% a 5.533 punti e Parigi del 2,75% a 3.689 punti. A picco Madrid che affonda del 6,1%, mentre Atene lascia sul terreno il 3,89%. Chiusura in calo anche a Piazza Affari, al termine di una seduta che pure si era aperta in positivo. L’indice Ftse Italia All-Share ha fatto segnare nel finale un -3,34% a quota 21.938 punti, mentre l’Ftse Mib cede il 3,45% a 21.404 punti. In calo anche l’Ftse Star, che lascia sul terreno il 2,02% a quota 11.037 punti. Fra i titoli del listino milanese, prevalgono soprattutto le vendite. Fra i maggiori ribassi Cir cede circa 5,5 punti, seguita da Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Unicredit e Popolare Milano. La flessione a Piazza Affari riporta il mercato sui livelli mi-
nimi degli ultimi sei mesi (20 agosto 2009). «Il mercato comincia a scontare la prospettiva di un minore atteggiamento espansivo delle banche centrali - ha spiegato un trader all’agenzia di stampa Asca - Potrebbe fermarsi il processo di rivalutazione degli asset finanziari delle banche e diventare più problematico il de-leveraging e,
conseguentemente, aumentano le probabilità di aumenti di capitale che avranno effetti dilutivi sull’utile per azione». Il deciso aumento delle perdite su crediti delle banche spagnole ha innescato anche una spirale di vendite cross-border sul settore bancario.
Intanto, sul versante dell’assistenza, il privato è ancora tabù. Si fa fatica a capire che anche in questo ambito si crea del bene comune. Invece, e in una concezione acriticamente hobbesiana, si pensa che soltanto il pubblico faccia l’interesse dello Stato. Quando parliamo di privato dobbiamo sempre tranquillizzare i nostri interlocutori e chiarire che si tratta di privato sociale, che siamo di fronte a realtà che hanno tutti i crismi per rispondere ai bisogni generali. La leva per una vera sussidiarietà è però il processo federale. Dal codice delle autonomie mi aspetto che faccia chiarezza sulle competenze ed eviti le sovrapposizioni tra gli enti dello Stato. E che questo processo porti spazi ai privati e liberi energie per i privati. E soddisfatto dell’Iter? Questa riforma viene applicata in modo confuso, con tempi lunghissimi e senza un reale trasferimento di responsabilità. E incide veramente poco sul processo di cambiamento del Paese. Di fatto nessun tributo è stato devoluto interamente agli locali. Senza soldi non esiste la sussidiarietà. L’autonomia finanziaria intanto è indispensabile per responsabilizzare chi decide la spesa. E per pagare in servizi, la sanità in mano alle Regioni o l’assistenza delegata ai Comuni, servono risorse generate dal territorio. Soltanto lo Stato può garantire una vera perequazione. Allora mi devono proprio spiegare perché il livello centrale deve raccogliere fiscalità che serve per pagare bisogni che sono locali. Perché non si può creare un modello multilivello come avviene senza traumi negli Stati Uniti. Crede davvero che una riforma simile possa essere portata avanti da un governo che ha rimodulato i Fas delle Regione e che tagliato l’Ici, l’unica imposta gestita direttamente dal territorio? Che dire di più. Il problema sarebbe passare dal Pdl delle potenzialità a quello che dei fatti. Ma la verità è non soltanto a livello centrale si è fatto poco sulla sussidiarietà. Ovunque la si vede come una cessione di potere.
diario
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Il ministro Maroni annuncia: «Non ci sono i tempi»
Dalla Bce via libera al piano di risanamento della Grecia
Salta il «d-day»: commissario a Bologna?
Trichet chiede all’Europa di abbassare il deficit
ROMA. È ufficiale: a Bologna
FRANCOFORTE. Il consiglio di-
non si voterà per il sindaco a marzo, insieme con le Regionali. L’ha confermato il ministero dell’Interno, Roberto Maroni. Il ministro ha scaricato la responsabilità del rinvio su Flavio Delbono: «Bologna non andrà al voto il 28 e 29 di marzo perché le dimissioni del sindaco sono avvenute oltre il termine utile». E ha aggiunto: «L’intervento del governo con un decreto legge non è possibile per ragioni tecniche e giuridiche. Questa decisione è suffragata da un parere importante dell’Avvocatura di stato sulla base anche di precedenti giurisprudenziali della Cassazione che ritiene che non si possa con un decreto legge intervenire dopo la presentazione delle dimissioni per ridurre i termini. Si è fatto in passato prima, ma non si può fare dopo». A questo punto, quando si potrà votare? «Il parlamento è sovrano - risponde Maroni - e può, se lo riterrà, approvare una modifica all’attuale normativa degli enti locali per far andare Bologna al voto in primavera o in autunno: in assenza di questo intervento legislatito, le elezioni a Bologna si faranno nel termine ordinario del 2011». Quindi, torna ad affacciarsi lo spettro di un anno e mezzo di commissariamento: il commissario arriverà dopo il periodo
rettivo della Banca centrale europea ha deciso di lasciare invariato al minimo storico dell’1% il tasso di rifinanziamento pronti contro termine. Anche il tasso sui depositi e quello marginale sono rimasti rispettivamente allo 0,25% e all’1,75%. Il presidente Jean Claude Trichet ha ripetuto che il «livello dei tassi resta appropriato» nella situazione attuale con una previsione di crescita dell’economia a «passo moderato nel 2010%», con una «ripresa irregolare» e le prospettive «incerte». In quest’ottica,Trichet ha ribadito che la Bce sarà inflessibile nel pretendere dai singoli governi il rispetto del patto di stabilità, ”il pilastro” su cui si fonda l’Unione economica
Licei e istituti tecnici cambiano indirizzi Il governo vara la diminuzione degli insegnamenti di Marco Palombi
ROMA. Giornata «epocale» quella di ieri per la scuola italiana. Almeno a sentire il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, che ha visto il Consiglio dei ministri approvare la sua miniriforma dell’istruzione secondaria. Le scuole superiori, per capirci. Un riordino della materia era atteso e annunciato, ma questo pare nella migliore delle ipotesi in bilico tra la necessità di modernizzare il sistema e quella di conciliare l’offerta formativa con gli 8 miliardi tagliati da Giulio Tremonti al comparto scuola nel giugno 2008: nella sostanza, l’intervento si traduce in meno indirizzi e meno ore di scuola. Spiacevole occorrenza a cui va aggiunto un impianto per così dire ideologico decisamente datato, in cui le carriere scolastiche – e i profili sociali – sembrano essere troppo rigidi nella scelta tra “scuole alte”, i licei, e “scuole basse” o “bassissime”, i tecnici e i professionali. Quanto a queste ultime, peraltro, l’ossessivo battere della comunicazione governativa sul tema del rapporto tra scuola e impresa (peraltro in presenza di una diminuzione delle ore cosiddette “professionalizzanti”) non è che il contraltare di una sostanziale rinuncia alla formazione culturale. Curiosamente la riforma partirà – in tutta fretta, come richiedono i vincoli di bilancio decisi a via XX settembre – dal prossimo anno scolastico per le prime classi, ma i tagli all’orario per i tecnici e i professionali (da 36 a 32 ore settimanali) riguarderanno anche seconde, terze e quarte, che pure continueranno a lavorare sul vecchio programma da 36 ore.
co e tecnologico, con 11 indirizzi. Come detto, diminuiranno le ore settimanali, ma dovrebbero aumentare quelle di laboratorio e di lingue. Il governo punta poi alla diffusione di stage, tirocini e dell’alternanza scuola-lavoro. Questo rapporto col mondo delle imprese è ovviamente ritenuto fondamentale anche per gli istituti professionali, che come i tecnici subiscono il taglio dell’orario e degli indirizzi: da cinque settori con 27 indirizzi si passa rispettivamente a due (servizi e industria/artigianato) e sei. Il percorso di studio sarà articolato in due bienni più un quinto anno. Le scuole professionali, poi, godranno anche di una maggiore quota di autonomia rispetto a quella prevista per legge (un quinto dell’orario), che arriverà fino al 60% nell’ultimo anno.
Le reazioni all’epocale riforma Gelmini non sono state proprio in linea con la storicità dell’evento. Anche date per scontate quelle dell’opposizione politica, unanime è il coro di sindacati e associazioni d’ogni ordine e grado. La Cisl, ad esempio, ha definito il riordino «inquinato dai tagli» e concluso: «Il risparmio non può definirsi tale, quando avviene a scapito della qualità dell’istruzione e della formazione». Per la Cgil, il governo «applicando i tagli di Tremonti, riduce i tempi e la qualità della scuola, abbassa di fatto l’età dell’obbligo scolastico e quindi devasta ulteriormente l’offerta formativa pubblica». Stessa linea per il Gilda, sindacato autonomo degli insegnanti: «È evidente che studenti e docenti delle classi vittime dei tagli non avranno più alcuna certezza rispetto ai percorsi didattici che hanno intrapreso. E resta un punto interrogativo anche il futuro degli insegnanti che, a causa della riduzione dell’orario, perderanno il posto di lavoro». Secca la Rete degli studenti: «Una carnevalata».Va segnalato infine il rischio caos per il prossimo anno scolastico: le iscrizioni sono state posticipate a marzo e ad oggi non c’è alcuna certezza su orari e programmi. Il ministero promette un opuscolo informativo online da oggi.
Il provvedimento, voluto da Tremonti, prevede un risparmio notevole. E entrerà in vigore dal prossimo anno
previsto per legge per rendere definitive le dimissioni del sindaco. È stato lo stesso Maroni a spiegare: «Alla scadenza del termine previsto per la conferma delle dimissioni del sindaco di Bologna, cioè il 18 febbraio, nominerò il commissario che gestirà il Comune fino alle elezioni amministrative».
Si muove, allora, il fronte dei parlamentari per verificare la possibilità di elezioni in primavera-estate. Secondo il senatore Pd Walter Vitali i termini di manovra ci sono: «Alla Camera è in corso di conversione un decreto-legge sugli enti locali per consentire ai Comuni nelle condizioni di Bologna di andare al voto entro il 15 giugno».
Questi, intanto, i contenuti. Per i licei si passa da 396 indirizzi sperimentali e 51 progetti assistiti a sei indirizzi: classico, scientifico, artistico, linguistico, coreutico-musicale, delle scienze umane.Tra le novità positive dovrebbe esserci un potenziamento delle materie scientifiche e linguistiche, ma al classico, ad esempio, non si insegnerà diritto. La geografia dovrebbe restare, ma accorpata con la storia. Per i 1.800 istituti tecnici, ad oggi divisi in 10 settori e 39 indirizzi, si passa a soli due: economi-
e monetaria. Anche perché, ha aggiunto, «la disoccupazione nell’area euro continuerà ad aumentare, indebolendo i consumi». Molti Stati membri di Eurolandia, ha aggiunto Trichet, «devono far fronte a un aumento dei debiti e dei deficit importante che crescono rapidamente. E questi alti livelli pesano sulla politica monetaria dell’area dell’euro e rischiano di sminuire il Patto di stabilità che è una pietra miliare dell’Ue. È di un’importanza capitale che ogni Stato membro definisca una strategia di risanamento dei conti pubblici» da iniziare «entro il 2011 e che superi l’aggiustamento annuale dello 0,5% del pil. La priorità deve essere posta su un taglio della spesa pubblica».
Quanto al caso Grecia, la Bce promuove le misure antideficit approvate dal governo greco. Commentando il congelamento dei salari, la riforma delle pensioni e le nuove tasse istituite da Atene, Trichet ha detto che rappresentano «un passo nella giusta direzione». L’importante, ha aggiunto, è che gli impegni siano rispettati: «Il target sul deficit 2010 dovrà essere centrato, così come quello sul 2012. È assolutamente cruciale che raggiungano gli obiettivi che loro stessi hanno prefissato».
società
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Inchiesta. La «cattiva educazione» del branco sospesa tra responsabilità penale e responsabilità sociale: spesso accusare l’ambiente di provenienza diventa un alibi
Tutta colpa di papà? Il tribunale di Milano ”multa” i genitori degli adolescenti violenti. Ne parliamo con Maria Rita Parsi e Paolo Crepet di Gabriella Mecucci
La famiglia ormai è l’anello debole del sistema educativo
ROMA. Sentenza giusta o pericolosa? Questo l’interrogativo che solleva la decisione presa dal tribunale di Milano che ha inflitto ai genitori di alcuni quattordicenni, che avevano violentato una dodicenne, una pena pecuniaria di 450mila euro. I padri e le madri sono dunque responsabili dei reati dei figli anche se solo civilmente. Le colpe degli uni ricadono sugli altri perché non hanno trasmesso quella “educazione dei sentimenti e delle emozioni che consente di ntrare in relazione con l’altro; e non hanno badato a che il processo di crescita dei loro ragazzi avvenisse nel segno del rispetto dei sentimenti, dei desideri e del corpo dell’altra/o”.
I genitori degli stupratori, nel tentativo di giustificarsi, hanno raccontato in processo che i figli non avevano mai dato mostra di comportamenti che potessero far presagire orientamenti criminali. Anzi, rientravano a casa all’orario dovuto, andavano piuttosto bene a scuola, frequentavano le lezioni di educazione sessuale, e gli erano stati trasmessi, i dettami della morale cristiana. Ma il giudice Bianca La Monica ha definito queste elencate “circostanze generche”. Le ripetute violenze su un’adolescente attestano che “i messaggi educativi” sono stati “carenti”e “inefficaci”, oppure “non sono stati adeguati e correttamente assimilati”.Tra i genitori condannati a pagare ci sono pure i padri separati perchè “il legislatore riconosce al coniuge non affidatario non solo il diritto, ma anche il dovere di vigilare sull’educazione del figlio”. Così recita, in sintesi, il provvedimento del giudice milanese. «Sentenza esemplare»: questo il primo commento della psicoterapeuta Maria Rita Parsi e ci tiene a raccontre in dettaglio come sono andate le cose. «I ragazzi che fra il 2001 e il 2003 hanno ripetutamente violentato la dodicenne - esordisce - sono cinque. Sono stati processati, ma all’epoca erano tutti minorenni. Il giudice minorile ha attivato dunque nei loro confronti un istituto che si chiama “messa in prova”. Consiste
Ma così la società se ne lava le mani... di Riccardo Paradisi a sentenza del Tribunale civile di Milano che ha condannato i genitori di un gruppo di adolescenti stupratori al risarcimento di 450mila alla loro vittima dodicenne vorrebbe essere esemplare nella sua motivazione. Ai genitori di questi giovanissimi stupratori, infatti, viene contestata la colpa di non aver educato i propri figli ai sentimenti. «L’educazione – scrive il giudice nella sentenza – non è fatta solo della fondamentale indicazione al rispetto delle regole ma anche di quelle indicazioni che forniscono ai figli gli strumenti indispensabili da utilizzare nelle relazioni, anche si sentimenti e di sesso, con l’altra e con l’altro».
L
Di que sta educazione , «che consente di entrare in relazione non solo corporea con l’altro, non vi è traccia nel comportamento dei minori». Una sentenza esemplare dunque o semplicemente sbagliata? Insomma che nell’educazione dei propri figli i genitori abbiano una gran parte e una responsabilità fondamentale è fuori discussione. Va anche detto che la sentenza del tribunale milanese ha se non altro il merito di porre con forza al centro della riflessione pubblica la questione della responsabilità educativa, della distrazione degli adulti verso un mondo adolescenziale sempre più confuso e fuori controllo, preda di un vuoto valoriale spaventoso. Ma insomma le cose sono più complesse di come la corte di Milano vorrebbe farle apparire. Perché di questo vuoto certamente non sono colpevoli soltanto i genitori assenti, spesso assenti per cause di forza maggiore. Di questa devianza diffusa giovanile, assieme alle famiglie, sono altrettanto responsabili tutte le agenzie formative che dovrebbero concorrere all’educazione in senso culturale dei ragazzi. Dalla scuola – sempre più lasciata a se stessa e ormai percepita dagli stessi studenti come un luogo poco autorevole – alla televisione, da internet alle istituzioni, magistratura compresa. La capacità di pressione e di penetra-
zione che i media hanno nella mentalità giovanile d’altro canto è enormemente più forte di quella che possono esercitare le famiglie. Anche loro peraltro sempre più disorientate da un sistema che non solo non è più orientato ad un’unica narrazione ma che propone contemporaneamente modelli che si contraddicono radicalmente l’un l’altro. Un sistema che spesso rema contro ogni formazione ordinata della personalità dell’individuo. In questo anche la tv di Stato con i suoi reality e i suoi palinsesti pomeridiani potrebbe tran-
quillamente essere accusata non solo di non fornire educazione sentimentale alcuna ma di fare strame, con la speculazione e distorsione che fa sul dolore e sul sesso, di ogni autentico sentire. Per non parlare della diffusione incontrollata e selvaggia, soprattutto tra gli adolescenti, di una pornografia sempre più estrema e devastante.
Insomma, troppo facile prendersela solo con i genitori, anello tra i più deboli d’una catena educativa che semplicemente ha ceduto su tutta la linea. È una scorciatoia per non fare i conti con le contraddizioni spaventose della società aperta e della sua degenerazione. D’altra parte se le colpe dei padri non devono ricadere sui figli non si capisce perché le colpe dei figli debbano automaticamente ricadere sui padri. La responsabilità penale è sempre individuale. Le responsabilità sociali invece sono collettive.
in questo: “I cinque sono stati sottoposti ad un percorso psicopedagogico e di rieducazioni al cui termine si è svolto una sorta di esame per verificare se avevano compreso la gravità di ciò che avevano fatto”. È accaduto che tre fra loro non solo non erano pentiti, ma davano mostra di totale indifferenza: il tutto era scivolato sulla loro mente e sul loro corpo senza lasciare traccia, mentre due hanno dimostrato almeno di aver capito. Le coppie condannate sono tre, i genitori dei figli che non hanno reagito positivamente nemmeno dopo un percorso psicopedagogico abbastanza lungo». Per Maria Rita Parsi, dunque, «la frase che la dottorssa Lamonica usa per giustificare la sua sntenza è da manuale di psicopatologia. La famiglia di quei ragazzi è così fragile da non saper dare il senso del rispetto verso l’altro, verso il corpo dell’altro né il significato del rapporto uomo-donna. Il provvdimento del tribunale di Milano è per certi versi rivoluzionario – osserva ancora Maria Rita Parsi – perché non si limita a far pagare il danno della violenza, ma stigmatizza la situazione delle famiglie, il loro modo di essere». E ancora: «Non è smplicemente incapacità di educare la loro. Come abbiamo letto i genitori hanno raccontato di aver mes-
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conta - se un ragazzino fa un numero elevato di assenze a scuola, i genitori sono responsabili penalmente: si è verificato il caso, ovviamente discutibilissimo, di una una ragazzamadre, la cui bambina praticamente non frequentava più le aule, ebbene la donna, che pur viveva da sola, è stata giudicata colpevole».
Oltre Manica «si arriva persino a condannare al carcere», mentre il tribunale di Milano ha stabilito solo «una responsabilità civile»: in fin dei conti «i genitori in questione dovranno pagare 450mila euro, che non sono pochi, ma lo stupro è un reato gravissimo. Francamente – prosegue Crepet – non mi sembra così fuori misura che in crimini di tale natura si arrivi anche ad attribuire una responsabilità penale i genitori: quello che fanno gli inglesi non è sbagliato. Credo poi che il giudice milanese, che hadciso il pagamento di 450mila euro, lo abbia fatto tenendo conto anche della situazione economica delle famiglie, che probabilmente sono benestanti». Aldilà del giudizio sulla sentenza o del comportamento dei padri e delle madri coinvolte, se Paolo Crepet dovesse indicare ai genitori quali sono i comporamenti o le carenze che possono influire a tal punto da spingere
so in atto comportamenti educativi, ma il danno è a monte. Sta nel non aver trasmesso valori ai loro figli, ma disvalori».
Anche per Paolo Crepet, psichiatra e psicologo, autore di un libro proprio sull’educazione dei figli, la sentenza è «giusta, interessante e coraggiosa. Stabilisce - osserva - un principio sulla base del quale un genitore non è responsabile solo di che cosa dà a mangiare al proprio figlio o di come lo veste, ma anche di come è quel ragazzo». Chi commette uno stupro è una pesona «incapace di provare emozioni, indifferente al dolore altrui». A fronte di un tale comportamento, che nasce da queste caratteristiche della personalità di chi lo commette, «mi pare giusto che la magistratura oltre a esprimersi su chi è direttamente l’artefice di un delitto tanto grave, ricerchi anche altre responsabilità». Colpe plurime, dunque, anche fuori dalla famiglia. «Attenzione – interviene Crepet – a non annacquare però il tutto in una generica colpa collettiva, che comprende scuola, televisione... Discorsi questi in larga miura anche giusti. Ma i primi responsabili, insieme ai figli, sono indubitabilmente i genitori. Non posso mettere sullo stesso piano la famiglia e la scuola». «In Inghilterra - rac-
un figlio a stuprare, che cosa direbbe? La risposta arriva secca e rapida: «L’indifferenza». Poi, qualche spiegazione in più: «Naturalmente, ciascun ragazzo ha una sua storia e per comprndere davvero cosa è accaduto nella sua mente, occorrerebbe conoscerlo in modo approfondito. Un giudizio astratto e generale rischia di essere anche generico. Ma certo che l’indifferenza ricevuta può diventare l’indifferenza offerta. I ragazziin questione probabilmente non si sono resi conto della gravità di quanto hanno fatto. Non lo dico certo per sminuire la loro colpa , lungi da me il giustificarli, ma chi fa violenza purtroppo è una persona anestetizzata».
L’altro giorno a Torino un ragazzo giocava alla play station col padre, ad un certo punto hanno bisticciato e lui ha preso un coltello e glielo ha piantato in gola, poi è tornato in cucina lo ha pulito ed è tornato tranquillo a giocare: «Ne sento tante di queste storie, penso alla metafora di Erika e Omar, di Sollecito e la fidanzata, perché avvengono? Perché non sono cresciuti, o meglio, hanno avuto - lo dico in modo un po’ retorico - una crescita basata sulle cose e non sui sentimenti». Un fenomeno questo che, «non è raro e che si va diffondendo»:
Si tratta di una sentenza che ci obbliga a fare i conti con i modelli culturali ma anche con il ruolo sempre più limitato che ha la famiglia, ormai, nel definire l’immaginario dei ragazzi la famiglia «fondata sull’indifferenza è molto comoda». C’è poi anche «un malinteso senso della libertà», «un furbesco senso della libertà». Su questa scelta dei genitori di lasciare le briglie sciolte ha «una grande responsabilità il pensiero laicoliberale». E poi, se la vogliamo dire proprio tutta, «c’è anche la mano della psicoanalisi, o meglio della vulgata psicoanalitica, non di Sigmund Freud, che ha aiutato a giustificare tutto facendo venir meno una cosa fondamentale che è la responsabilizzazione».
La sentenza di Milano, almeno a stare agli studiose della mente e del comportamento umano, ci porta dunque molto lontano e ci inchioda a fare i conti con il ruolo della famiglia nella formazione dei figli, ruolo centrale che niente e nessuno può sostituire, e con il principio di responsabilità che non può e non deve essere annacquato nel mare delle colpe della sociètà o dei media. I genitori sono avvisati: non tutto dipende da loro, ma non possono sottrarsi al loro ruolo. Farlo significa provocare danni pesantissimi ai figli, che non diventano uomini e donne normali, ma esseri incapaci di comprendere e di provare sentimenti.
panorama
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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Ode a Bossi, il Vate della Padania uanti poeti di razza ci sono nel governo! Il primo poeta - è ovvio - è il primo ministro: Silvio Berlusconi compone le sue poesie e le sue canzoni e le affida alla chitarra e alla voce del suo Apicella. Un duo che ha fatto epoca. L’altro poeta, della corrente intimista e del dolce stil novo del XXI secolo, è il ministro dei Beni culturali: Sandro Bondi. I versi di Bondi sono così poetici che lo stesso ministero dei Beni culturali li considera un bene da tutelare. Imperdibili sono le rime sciolte dedicate allo “sguardo tenero” di Fabrizio Cicchitto. Il terzo poeta è nientemeno che Umberto Bossi: il Vate della Padania. Ascoltate che musica e che espressività: «Sacri sono i boschi / e i prati / e la nostra acqua / e i venti / e la neve. / Sacre sono le radici / e la nostra lingua. / Neanche tutti gli esseri del mondo / neanche il Papa / valgono come un ramo di nocciolo / o un cinguettio di un uccello». In italiano - mi dice il Corriere della Sera versione web - suonerebbe più o meno così, perché in realtà l’originale è in dialetto varesino. I versi sono quelli della «Canzon pa ra Malpensa», l’ode all’area che ospita l’aeroporto internazionale di Milano. Il Bossi, che abita da quelle parti, con l’età e con la malattia è diventato più sentimentale. Alza gli occhi al cielo e vede volare gli uccelli di acciaio: la malinconia bussa alla porta del suo cuore e così sgorga la poesia padana. Si vede che Bossi vuole essere in tutto e per tutto il padre nobile della sua nazione padana a cui non vuole dare solo uno Stato, ma anche una lingua e una letteratura.
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La «Canzone di Malpensa» è una delle poesie che ieri sera sono state declamate da un amico del Senatùr, Sergio Moreni, nel corso di una serata trasmessa da Telepadania, la tv del Carroccio che trasmette direttamente da via Bellerio, sede nazionale della Lega Nord. Non è la prima volta che Bossi si lascia andare all’arte dei versi e della canzone. Lo fece già un’altra volta con Bruno Vespa. Accanto a lui c’era Clemente Mastella e con lui intonò il motivo della canzone napoletana più celebre: ‘O sole mio. Eppure, il rapporto tra i leghisti e i poeti non è sempre andato a buon fine. Il maggior poeta italiano vivente, Andrea Zanzotto, qualche mese fa rilasciò - caso più unico che raro - un’intervista televisiva dove mosse delle severe critiche alla Lega e alla sua idea del territorio e della conservazione delle radici e della tradizione. Per colmare questa lacuna Bossi ha deciso di farsi lui stesso poeta? Chissà. Certo che il tema - l’aeroporto di Malpensa è un po’ insolito. Ma si sa, ciò che conta non è il contenuto, bensì la forma. Dice passaggio poetico della canzone bossiana: e alziamo gli occhi al cielo / con la paura di trovare / un gran buco / sopra al niente. Umberto Bossi sembra avere a cuore anche l’ambiente attorno all’aeroporto e parla di «camion che vanno via con la nostra storia» e «che vanno a rompere il Ticino». In ogni politico c’è un poeta, purtroppo. Inizia così la storia della letteratura padana.
Tutti i veleni di Milano, la città del “non fare” Senza un vero progetto, tornano le “domeniche a piedi” di Pier Mario Fasanotti ono arrivato alla stazione Centrale di Milano - città appiedata perché velenosissima - lunedì verso le 14. Ho chiesto lumi a un tassista sulla domenica a piedi. Il quale, pur privo di laurea in sociologia o in urbanistica, la città la vede e la annusa perché la percorre tutti i giorni. Risposta: «Non è cambiato nulla». Infatti: il lievissimo miglioramento è da attribuire al leggero vento sulla pianura. Si va comunque verso un continuo peggioramento della concentrazione del cosiddetto PM10 (che ha superato la soglia di allarme per 25 giorni dall’inizio anno). Ora siamo alla vigilia di un altro blocco-auto. Non piove, quindi è molto probabile che si torni a canticchiare “ma che bello, ma che bello!”come domenica scorsa, in tv, per celebrare in diretta la Milano appiedata. Peccato che Palazzo Marino, sede del governo milanese, non prenda decisioni se non all’ultimo. Tutti a scrutare il cielo di Lombardia («che è bello quando è bello»: una delle frasi più idiote della letteratura locale), manco fossero indiani d’America a salterellare attorno ai feticci di qualche dio pluviale. Il risultato sarà comunque il non coordinamento tra il capoluogo e gli altri comuni: che paesini proprio non sono, ma veri e grandi centri urbani che superano talvolta i cento mila abitanti.
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bene. Un esempio: a Segrate partono per Milano treni ogni venti minuti. Una pacchia, visto che la zona est della città vomita pendolari. Ma solo in teoria: provate a cercare un’indicazione stradale per arrivare ai treni. Mentre la cercate perdete il treno. E l’aria puzza sempre di più.
A proposito dei collegamenti che dovrebbero essere veloci, tra centro e periferia (anche estrema), una settimana fa è stato inaugurato il Malpensa-Express (cioè fino a quell’aeroporto-cattedrale che piace tanto alla Lega per far dispetto a Roma-Fiumicino). La puntualità dei 28 minuti è durata un solo giorno, anche perché il treno viaggiava, con a bordo il Governatore, a una velocità superiore a quella consentita. Sono passate poche ore e 28 corse su 32 sono in ritardo (anche di 22 minuti!). I sindacati denunciano: «Impossibile rispettare l’orario». Le Ferrovie Nord, che gestiscono la linea, si esprimono come il leguleio manzoniano: «Tecnicamente è possibile fare il percorso in 29 minuti, ma ci sono scosse di assestamento e un sistema che deve ancora entrare a regime». Scosse di assestamento? Il sindaco Letizia Moratti mostra una gioia programmatica da far invidia ai suoi colleghi di New York, Shangai, Los Angeles, Parigi eccetera. L’ultima “grida” (per stare nel lessico dei Promessi Sposi) è la “rivoluzione dei tram”. Drastico taglio dei tram, soprattutto quelli lunghi 30 metri, nel centro. C’è voluto l’ennesimo scontro tra convogli su rotaia per fare un pensierino. Chi viene dalla periferia dpvrà cambiare tram. Si promettono mezzi agili e meno inquinanti, in corrispondenza di stazioni della metro. A qualcuno tuttavia è venuto un dubbio, di quelli radicali. Questo: togliere tram in centro è davvero meglio che togliere le auto?
L’unica novità proposta dal sindaco Moratti è il taglio dei tram «lunghi» dal centro: sono pericolosi. E le automobili?
Il sindaco di Sesto San Giovanni continua a ripetere la stessa solfa (ma qualcuno lo ascolta oppure no?): dateci il tempo di organizzarci, ci si avvii una volta per tutte a un coordinamento provinciale. Non c’entra la politica, solo il buon senso. Schierato con il primo cittadino di Sesto (in lista Pd) c’è quello di Segrate (lista Pdl). Quest’ultimo chiede, anzi richiede, l’integrazione tariffaria dei mezzi pubblici. Vecchia storia, mai risolta. È uno scaricabarile indecente sul ticket dei pendolari, i soliti che pagano di più (senza contare disagi e ritardi). L’assessore regionale ai trasporti Raffaele Cattaneo ammette: «L’integrazione tariffaria finora non s’è fatta per colpa dell’Atm» (Azienda Trasporti Milanese). Negli ultimi dieci anni il numero dei pendolari è raddoppiato, ma è anche vero che ogni giorno 576 mila auto varcano i confini del comune. Metro leggere, ferrotranvie? Niente da fare. Se a Milano si fa fatica a costruire la quarta linea metro, a Barcellona stanno per inaugurare la nona. E Barcellona ha meno abitanti di Milano. Dove quel che c’è non viene usato
Nel frattempo il sempre sulfureo critico d’arte (ed ex sindaco di Salemi, Sicilia) Vittorio Sgarbi ha annunciato che se la Moratti si ripresenterà, lui la sfiderà con la lista “Sgarbi CL”. CL non è Comunione e Liberazione, ma significa “Contro Letizia”. A parte il protagonismo che corre nel suo sangue, non ha torto a dichiarare: «Il sindaco ha perso la bussola sull’Expo…è necessario che diventi un elemento di animazione della città….riprogetterei Milano città d’arte e introdurrei le auto elettriche in centro».
panorama
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Nella Spagna di Zapatero è stata lanciata una massiccia campagna contro l’uso di stupefacenti. E da noi niente
La ministra e il caso Morgan Che cosa si fa, davvero, in Italia per combattere la «cultura» della droga? di Riccardo Paradisi contata, forse dovuta, la reazione dei politici alle dichiarazioni di Marco Castoldi in arte Morgan, artista, musicologo, mattatore della trasmissione X Factor. La sua apologia della cocaina ha fatto scattare i soliti riflessi condizionati: è un cattivo esempio per i giovani, è un irresponsabile, un cattivo maestro (addirittura!), si penta, faccia ammenda e forse il servizio pubblico gli consentirà di andare a Sanremo. Insomma, ora a Morgan si chiede di pentirsi pubblicamente, autodafé cui il musicologo si è già prestato dichiarando «Sono vittima delle mie cazzate, ho sbagliato, sono pronto a pagarne le conseguenze».
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Molto rumore per un falso caso. Falso perché che Morgan facesse uso di droghe lo si sapeva da tempo. Dichiarazioni simili a quelle di questi giorni le aveva rilasciate lui stesso, in compagnia della sua ex compagna Daria Argento, alla trasmissione Le jene, dove aveva detto con grande disinvoltura che di droghe ne faceva uso variegato. Era lo stesso Morgan che poi presentava X Factor nella televisione pubblica. Ma non s’era scatenata nessuna reazione. Ma il caso Morgan è ormai archiviato. Il deviante rientrerà nella parrocchia dei palinsesti per famiglie e le mamme d’Italia come i ministri gli vorranno ancora più bene. Materna ma severa Giorgia Meloni dice: «L’esclusione da Sanremo
è corretta, ma sarebbe anche corretto che se Morgan dovesse fare un percorso serio di recupero dalla tossicodipendenza, a quel punto dobbiamo fargli fare non uno ma cento Festival». E a chi le obietta che anche Rimbaud e Kurt Cobain insomma si drogavano lei replica «Cobain è l’esempio che non ha saputo gestire il proprio talento e che la droga ha rovinato». Se le avessero chiesto di Gabriele D’Annunzio, icona pop della destra giovanile, che la coca la sniffava dal seno delle amanti, la replica le sa-
rebbe stata più difficile. Ma insomma queste sono facezie. La realtà è che se il caso Morgan non è una cosa seria lo è invece quello del consumo di sostanze stupefacenti. La relazione sullo stato delle tossicodipendenze in Italia realizzata dal Dipartimento nazionale per le politiche antidroga presenta ogni anno una situazione tragica. Il 13,2% degli italiani tra i 15 e i 34 anni fa uso di stupefacenti, la percentuale scende al 7,3% della popolazione tra i 15 e i 54 anni, ma sale al 17% se si prende in considerazione la fascia d’età tra i 15 e i 24 anni. Le sostanze più diffuse tra i 15 e i 34 anni (12,8% ) sono hashish e marijuana. Il consumo di oppiacei si ferma allo 0,3% della popolazione, mentre quello della cocaina raggiunge il 2,3%, crack incluso. Uno studente su tre (il 32,9%), tra i 15 e i 19 anni, fa abitualmente uso di almeno una sostanza stupefacente, il 27,4% fa uso di hashish o marijuana e ben il 4,5% che fa uso di cocaina. Una fotografia impressionante: anche perché di droga si muore, con una media di 400 decessi all’anno. Di fronte a questi numeri il governo fa benissimo a mantenere fissa la barra del timone sul proibizionismo. Basta andare a vedere i risultati che la liberalizzazione ha dato in Svezia del resto dove dal 1965 era stata permessa la prescrizione medica di sostanze stupefacenti pesanti.
Uno studente su tre tra i 15 e i 19 anni, fa abitualmente uso di almeno una sostanza stupefacente
Nei primi due anni di liberalizzazione inoltre tra gli arrestati per i reati più diversi il numero di tossici era aumentato dal 18,5% al 35,8%. Infine ed è il dato più significativo, la percentuale di ragazzi tra i 15 e i 19 anni che erano entrati nel tunnel della droga era passata dal 3,6% durante gli anni del proibizionismo al 30% nel periodo della droga libera. Nel 1977 si decise di fare dietrofront e anzi di praticare una politica sugli stupefacenti duramente repressiva. Oggi in Svezia, dopo la lezione di questi fatti, esiste una campagna severissima e capillare di prevenzione e di controllo nelle scuole e nei quartieri sensibili. Col risultato che il numero degli adolescenti che almeno una volta hanno provato uno stupefacente è calato dal 13 al 5%. Giusto il proibizionismo dunque. Ma è sul fronte della prevenzione e della dissuasione che il governo italiano non si fa sentire. Non sono visibili campagne massicce su questo versante, come è avvenuto per esempio in Spagna (un paese in precedenza permissivo), dove il governo Zapatero ha coperto i muri delle città con un manifesto con due binari, uno fatto di polvere bianca a simboleggiare la cocaina, ed uno fatto di foglie essiccate a simbolizzare la marijuana, e sotto una grande scritta: vi sono treni che è meglio non prendere. Ecco se oltre alle morali a Morgan il governo italiano si impegnasse in una campagna del genere, si farebbe un altro passo avanti nella guerra alla droga.
Giustizia. Dopo il «legittimo impedimento», l’esecutivo prepara subito la modifica costituzionale
E Alfano punta al lodo per il governo di Andrea Ottieri
ROMA. Il giorno dopo l’approvazione alla Camera della norma che prevede il per il premier e i ministri il cosiddetto «legittimo impedimento» a partecipare a eventuali processi, non si placano le polemiche sulla sostanza del provvedimento che ha letteralmente spaccato in due il Parlamento mercoledì sera, con i centristi a cercare di limitare le tensioni. Ieri, il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, ha cercato di evitare commenti («Ha parlato il Parlamento», ha detto citando una tipica frase del presidente della Repubblica) ma poi si è fatto sfuggire che «ho sempre detto che il Lodo Alfano andava coperto da una norma costituzionale». In altre parole, a parare del vicepresidente del Csm, per il legittimo impedimento il rischio di incostituzionalità è alto. Non è – ovviamente – di questo parere il Guardasigilli Alfano che è tornato a parlare della questione annunciando il prossimo passo: «Lo strumento è da decidere in sede politica… stiamo valutando e non passerà molto tempo». Si parla di un provvedimento costituzione che regoli
la questione. Per di più, l’orientamento è di progettere con una leggere costituzionale (inserendo la norma in questo nuovo “lodo” tutto da scrivere) anche i ministri. Quanto alla eventuale «debolezza» segnalata da Mancino a proposito della norma approvata dalla Camera in prima lettura, Alfano ha fatto presente che con il legittimo impedi-
gnità costituzionale alla norma sullo ”scudo”per le alte cariche. «Stiamo valutando il da farsi. Ora c’è il legittimo impedimento che postula l’esistenza di una iniziativa entro 18 mesi e noi ci muoveremo in questa direzione. E ieri è stato approvato un ordine del giorno che invita il governo a questa scelta. Stiamo valutando lo strumento in sede politica e non passerà molto tempo». Chi invece non ha commentato la questione – purtuttavia manifestando una certa soddisfazione – è stato il presidente del Consiglio. Ai giornalisti che gli chiedevano di commentare la prima approvazione del legittimo impedimento, il premier ha risposto: «Oggi parliamo di scuola».
Secondo il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, a questo punto è indispensabile una norma che preveda la modifica della Carta mento «siamo intervenuti su un articolo del codice di procedura penale e riteniamo che la via scelta sia corretta».
Ma - hanno fatto notare i giornalisti che hanno rivolto le loro domande al ministro - da più parti giunge la sollecitazione perché venga adottata la soluzione suggerita dal vice presidente del Csm, e cioè dare di-
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ietare il velo alle donne islamiche vuole dire imporre un’ideologia imperialista occidentale». Dixit Giuliano Amato al tempo dell’ultimo governo Prodi, quando l’attuale presidente dell’istituo Treccani sotto il nuovo governo Berlusconi era ministro degli interni del centrosinsitra.Voleva essere una cortesia multiculturalista la sua, un’illuminata obiezione all’eurocentrismo islamofobo. Solo che Samir Halil Samir, uno dei più importanti islamologi del mondo e professore dell’università St Joseph di Beirut, l’ha letta come una pacca volterriana sulle spalle dell’Islam da parte d’un occidentale un po’ sussiegoso e paternalista.
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«Questa affermazione stupisce – dice irritato l’islamologo – che c’entra l’imperialismo occidentale col velo? Quando Islam e nazioni non occidentali vogliono modernizzarsi tolgono da soli il velo alle donne. L’Egitto in primis: all’inizio degli anni Venti, con Hoda Shaarawi, migliaia di donne sono scese per strada, testa nuda. E prima di loro Qasim Amin, il padre del femminismo islamico, e tanti altri. Dal 1924 il velo è vietato nelle università e negli uffici statali in Turchia dal padre della Nazione, Ke-
il paginone mal Atatürk, che certo non era un imperialista occidentale. In Tunisia è così già dagli anni Cinquanta con Habib Bourguiba, il fondatore della Tunisia moderna; lo stesso in Siria con il partito Baath, che ha rinnovato la nazione». Questo era il dibattito sul velo non più di un anno e mezzo fa. Rispetto ad allora – considerato che adesso in Italia si discute se vietare o no il burqa (il velo integrale che copre anche gli occhi della donna che lo indossa) si può dedurre si sia fatto un passo avanti. O indietro se si vuole. Comunque un ulteriore passo dentro uno degli incandescenti dilemma che pone la società multiculturale. Per la cui soluzione, se esiste, va invidiato chi possiede certezze. Come il ministro per le Pari opportunità Mara Carfagna, che ha intenzione sulle orme francesi di proporre una legge che vieti burqa e niqab (il velo che copre la donna lasciando scoperti solo gli occhi) nelle scuole italiane. «Sono assolutamente favorevole a una legge che vieti in Italia il burqa e il niqab, simboli di sottomissione della donna e ostacolo a una vera politica di integrazione. Non in quanto simboli religiosi, bensì per le storie che nascondono, storie di donne cui vengono negati diritti fondamentali come l’istruzione o la possibilità di lavorare, storie di violenza e di sopraffazione. Vietare burqa e niqab nelle scuole, luogo primario di integrazione ed emancipazione, può essere un segnale importante».
Franco Cardini, Sergio Romano e Souad Sbai inte
Quelli che i non lo voglio
Dai finiani alla sinistra liberale, dai conservatori ai cattolici: ecco il fronte trasversale che non vuole proibire per legge l’uso del velo integrale di Riccardo Paradisi che vuole impedire il burqa, a far suonare l’allarme. Insomma Parigi prende atto che le donne islamiche che indossano il burqa sono poche, che dichiarano di farlo per libera scelta, come simbolo identitario e tuttavia si conclude che quel velo pone problemi di ordine pubblico e cultu-
E che dire a quelle donne che il burqa lo portano per scelta? La Francia che sulle questioni della laicità e delle polemiche sui simboli religiosi è il pesce pilota dei paesi europei ha vivisezionato il problema con furia cartesiana. Un rapporto del ministero dell’Interno parlava di duemila donne che in Francia indossano il burqa e niqab. Una minoranza insomma ma sufficiente, secondo il fronte trasversale
FRANCO CARDINI
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pata di calpestare le libertà religiose e culturali: «è necessario valutare quali siano le ripercussioni sulle libertà individuali di un provvedimento che vieta un indumento, per quanto estraneo alla nostra cultura», dice il deputato del Pd Roberto Zaccaria. Anche una certa destra, come la fondazione finiana Fare Futuro, solleva robuste obiezioni.
Io spero che il contatto con l’Islam produca un movimento di convergenza reciproco
rali, soprattutto nega l’essenza stessa della laicitè francese. Discorso chiuso, per ora. E in Italia? La scelta dei francesi orientata a mettere al bando burqa e niqab nei luoghi pubblici ha molti altri sostenitori oltre al ministro Carfagna. Tra tutte il deputato Pdl Souad Sbai: «Abito da trent’anni, in Italia per questo posso affermare, senza tema di smentita, che le donne in Marocco sono molto più libere delle sorelle che vivono in Italia. Nel mio Paese natale c’è stato, ed è ancora in atto, un processo di integrazione molto forte. In Italia invece i maschi mussulmani sono terrorizzarti dalla cultura occidentale, per questo vogliono farci vedere il mondo da dietro una grata». La Sbai dice che il burqa non è un simbolo religioso: «I testi sacri parlano chiaro: solo alle mogli del Profeta era concesso nascondere il volto, alle altre donne no». Ma la Sbai non si attira solo le critiche di certa sinistra preoccu-
«Quello del burqa è anche un falso problema – dicono i finiani – Perché non solo riguarda una fetta più che minoritaria della popolazione, immigrata e non, di religione musulmana. Ma soprattutto non è con un semplice imposizione (o peggio con la repressione) che si risolve un problema che è prima di tutto di natura culturale. Bisogna comprendere, cioè, che cosa si vuole ottenere con questo provvedimento. Se dietro a questo ci sta una volontà di annullamento degli usi di altri popoli – e insieme a questo una messa in discussione della possibilità di manifestare la propria fede - ciò cozza inevitabilmente con quel principio di libertà religiosa che è uno degli elementi costitutivi dell’Occidente».
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Un bel problema insomma anche se a Fare Futuro qualcuno contesta la schizofrenia di denunciare l’uso strumentale delle veline in politica e al tempo stesso di chiudere un occhio sulla repressione femminile che avviene in certi ambienti islamici. Paradossi del politicamente corretto. Dei quali però non può certo essere accusato l’ambasciatore Sergio Romano che sul Corriere della Sera fa questa riflessione: «Nelle democrazie le leggi che limitano le libere scelte di un individuo dovrebbero essere fatte soltanto quando un problema di sicu-
il paginone
indossano, anche alle italiane che lo vogliono portare e che da occidentali sono molto gelose del loro libero arbitrio, dovrebbe riflettere quanto sia offensivo per la donna il suo essere continuamente prostituita in una società delle immagini come la nostra, dove si utilizza la bellezza femminile per fare affari».
ervengono su un tema che divide l’Occidente
il burqa... ono vietare rezza diventa quantitativamente rilevante. Siamo davvero sicuri che esista, in Francia e in Italia, una questione del velo integrale? Le donne interamente velate sarebbero in Francia appena duemila.
In Italia, sulla base della mia personale esperienza (a Milano non ne ho vista nemmeno una) siamo probabilmente nell’ordine di poche centinaia. È necessario adottare una legge per un fenomeno marginale a cui è possibile fare fronte con le norme sull’ordine pubblico? È meglio vietare il velo integrale o fare un decreto che precisi quali siano le circostanze in cui la polizia può chiedere a una donna di toglierlo per essere identificata?» Esiste poi il problema delle ricadute di un eventuale divieto del velo integrale. Avrà l’effetto di rendere le donne musulmane più libere o piuttosto quello d’imprigionarle nelle loro case? Si domandano alcuni vescovi cattolici. È lo stesso problema che solleva Marilisa D’Amico dell’università di Milano e che Romano porta a sostegno della sua tesi: «il velo integrale islamico (...) è indossato dalle donne, non dagli uomini. (...) La preoccupazione, allora, è che esso nasconda una forma di discriminazione delle donne. In ultima analisi, questo è l’aspetto più delicato del divieto, che merita di essere meditato: ovvero che esso si traduca, in concreto, in una forma di emarginazione delle donne islamiche, le quali, se vorranno tener fede alla loro concezione religiosa, saranno costrette ad abbandonare una volta per tutte gli spazi pubblici per essere del tutto relegate nello spazio privato». Lo storico Franco Cardini riflette da anni sul rischio di scontro di civiltà e invita a non divaricare per malafede o per istinto territoriale una linea di confine tra le diversità che rischia di trasformarsi in un abisso: «La globalizzazione non crea livella-
SERGIO ROMANO
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Si dice: che libertà può avere una ragazzina a cui si fa portare il velo o il niqab a sedici anni rispetto alla visione del mondo che maturerà da adulta? «Io rispondo la stessa che può avere verso un mediato senso del pudore una ragazzina occidentale che dall’età di dodici anni è indotta a vestirsi come una procace e provocante venticinquenne». Insomma il rischio secondo Cardini è quello di difendere il diritto all’impudicizia ma di vietare il diritto al pudore. A quel pudore che una certa particolare cultura declina in un certo determinato modo. Un gran paradosso come si vede. Come uscirne? «Si dovrebbe introdurre in questa riflessione il fattore tempo – ragiona il professore – lavorando perché la dialettica della contaminazione farà il suo corso. Il legislatore accorto dovrebbe creare leggi che abbiano presente questa prospettiva. Quello che io spero è che il contatto con l’Islam produca un movimento di convergenza reciproco. Da parte islamica un’apertura alla libertà individuale, da parte occidentale un ripensamento della libertà individuale assoluta da rideclinare in senso più comunitario». E poi deve lavorare la conoscenza che parte dalla curiosità: «Generalizzare sull’islam è folle. Se io penso che il burqa è solo un elemento incivile e segno di schiavitù siamo finiti, se invece faccio un discorso pluralista alla fine sono convinto che un compromesso si trovi».
Un niqab (qui a destra) e un burqa (nella pagina a fianco). Un rapporto del ministero dell’Interno francese parla di duemila donne che oltralpe indossano l’uno o l’altro
«Tradotto: con i gruppi di nicchia che vogliono portare il burqa occorre parlare. Strapparlo dal viso con la forza come vorrebbe fare la signora Santanchè non porta a nulla». L’antidoto al conflitto tra culture e religioni diverse resta per Cardini quello inmento né omologazione ma crea frammentazione, riemergere delle particolarità, localismo, ritorno a visioni che sembravano desuete, alla riscoperta di orizzonti abbandonati. Questo dovrebbe indurre gli apologeti del pensiero unico occidentale, gli assertori della fine della storia a qualche considerazione e comunque a non insistere oltre con l’utopia dell’omologazione globale. Il burqa o la copertura completa delle donne che vedono ma non sono viste, è comunque uno di questi tuffi nella tradizione specifica di un’area ristretta dell’Islam. Il profeta Moahmed per impedire che le cose stessero sempre in casa aveva adottato un costume che c’era già nella Persia Sassanide e a Bisnazio. Certo, il collegarsi tredici secoli dopo a quella tradizione, allora all’avanguardia ma oggi lontanis-
Le leggi che limitano la libera scelta dovrebbero essere fatte soltanto in casi gravi per la sicurezza
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sima, almeno per noi, è un ritorno al vecchio giocherello delle utopie. È come il cristiano che rivendica le chiesa delle origini di cui invero sappiamo pochissimo. Ma sono posizioni minoritarie. Sono anche negoziabili e meritevoli di essere frenate attraverso leggi civili che salvaguardino il più possibile la libertà di tutti – la libertà di chi la pensa diversamente da me». Insomma intervenire con il bisturi invece che con l’accetta. Il ragionamento corretto da fare secondo Cardini è questo: «Voi pretendete di restaurare o mantenere una certa tradizione. Vediamo fino a che punto questa tradizione è compatibile coi nostri costumi, ma anche fino a che punto i nostri costumi offendono la vostra tradizione. Eh sì perché la signora Carfagna che vorrebbe togliere il burqa a tutte le donne che lo
SOUAD SBAI
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I testi sacri parlano chiaro: solo alle mogli del Profeta era concesso nascondere il volto
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dicato da Giovanni Paolo II: «C’è un solo modo per rispettare le culture diverse vivere profondamente coscientemente la propria. Vivere la propria significa capire le ragioni delle differenze e accettare che vi siano altre ragioni diverse dalla nostra. Non si afferma la propria identità alzando crocefissi ovunque ma non sentendo il bisogno per esempio di doverlo mettere a casa propria». A pensarci è un paradosso anche questo in effetti.
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Diplomazia. Le frasi del presidente del Consiglio italiano scatenano la reazione dei mullah e alcune critiche della stampa israeliana
L’Iran e il Berlusconi show La tv di Stato di Teheran definisce «servigi» le dichiarazioni del premier fatte alla Knesset di Pierre Chiartano stato il giorno dei contraccolpi quello di ieri. Se il premier Berlusconi nella sua visita in Israele aveva sparato ad alzo zero contro il regime sciita in Iran,Teheran non si è fatta pregare per la risposta. E non sono mancate neanche puntualizzazioni da parte della stampa israeliana. La compagnia radiotelevisiva di Stato iraniana, ieri, ha attaccato il presidente del Consiglio per l’intervento alla Knesset, accusandolo di aver «completato tutta la serie di servigi fatta ai padroni israeliani», tanto per rispettare il linguaggio di regime consono ai mullah. Sul sito in italiano dell’emittente, si legge che «dopo aver sparato dichiarazioni decisamente discutibili sul’Iran, Berlusconi è arrivato a dire che la guerra contro Gaza fu giusta, calpestando così i cadaveri di 1400 civili palestinesi uccisi l’anno scorso da Israele durante tre settimane di folli bombardamenti».
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Sul sito si afferma che «prima e durante la visita in Israele», Berlusconi «ha rivolto all’Iran tutte le accuse possibili, a cominciare da quella di voler sviluppare armi nucleari». Accuse peraltro condivise dalla maggior parte degli attori del panorama internazionale. «E davanti al Parlamento israeliano – aggiunge «il premier si è davdefinendo superato, vero “esempio di democrazia e liberta’’ il regime israeliano, nato con la forza bruta sulla terra altrui e che si è macchiato dei crimini più orrendi e che da 3 anni ha assediato e murato un milione e mezzo di persone a Gaza». L’emittente Iris lamenta anche il fatto che il premier italiano abbia «definito giusta la guerra contro Gaza» e «sventolato con orgoglio il no dell’Italia all’Onu al rapporto Goldstone che condannava i crimini di guerra israeliani a Gaza». In realtà, potremmo aggiungere, quel rapporto divideva equamente le colpe tra l’esercito con la stella di David e le milizie di Hamas. Queste ultime poi appena dopo il ritiro israeliano avevano dato vita a una serie di esecuzioni sommarie contro elementi di Fatah il partito laico
Va accettato con orgoglio nazionale lo sdegno espresso dall’Iran
Se il premier ritorna in politica di Vincenzo Faccioli Pintozzi
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uando si torna all’uso reale della politica e si riprendono in mano gli strumenti del buonsenso, il nostro Paese assume di nuovo i contorni che l’hanno reso grande. Di questo si deve rendere merito al premier italiano Silvio Berlusconi, che nel corso della sua visita in Israele è riuscito a colpire il giusto nemico. Quel governo iraniano che, con il suo comportamento, mette a rischio la pace mondiale. Ed ecco dove si inserisce la valuta-
zione politica: il premier, infatti, ha ottenuto un ottimo risultato quando si è misurato con i giusti avversari, e non con quei dittatori veri o presunti che, fino ad oggi, rappresentavano la sua corte internazionale. Gli inchini a Gheddafi e l’orgoglio con cui indossava l’aquila del Cremlino hanno colpito anche l’immagine del Paese. Lasciando da parte il contenuto specifico delle affermazioni fatte da Silvio Berlusconi al Parlamento israeliano, vanno invece registrate con orgoglio le critiche riservate al nostro premier dall’odioso regime di Teheran. La dimensione internazionale, infatti, riserva anche questo: ma a questo trattamento lea-
der mondiali come Obama, Sarkozy o Angela Merkel non si sono mai piegati. Neanche davanti a critiche ben più dure. Le posizioni italiane sul “fascicolo Iran”, a voler essere sinceri, non sono state negli ultimi mesi troppo lineari. Le proposte del ministro Frattini - e l’influenza di alcuni gruppi industriali - hanno portato a un appeasement con Teheran che si sarebbe potuto condividere soltanto senza le enormi violazioni dei diritti umani che avvengono quotidianamente sul suolo persiano. Ma oggi le forche sono tornate a sventolare sui cieli d’Iran, e il governo italiano - e quindi l’Italia intera - è riuscito a esprimere il proprio sdegno. Lo sdegno che dovrebbe animare anche la comunità internazionale, forse troppo concentrata sul dossier nucleare per denunciare con la giusta rabbia le esecuzioni sommarie e le minacce poste dagli ayatollah al proprio popolo. La Bomba, e questo va ripetuto, si può disinnescare solo con l’aiuto dell’intera popolazione iraniana. E questo si può ottenere soltanto sostenendolo. Ora è auspicabile che questo modo di fare venga importato da Berlusconi anche lì dove, per mandato, dovrebbe meglio esercitarlo. Il ritorno della politica anche e soprattutto in Italia, infatti, potrebbe essere quello strumento necessario per la pacificazione e la riforma tanto auspicata (e così necessaria) al nostro Paese.
palestinese. Mercoledì erano giunte anche smentite sul dichiarato sganciamento dell’Eni dal mercato petrolifero iraniano. Da Paolo Scaroni, presidente dell’Ente nazionale idrocarburi, era giunto inizialmente un «no comment». Mentre ieri ha precisato che non verranno firmati nuovi contratti, una volta conclusi quelli in essere, nel corso di una conferenza stampa a Bruxelles. «Eni – ha ricordato Scaroni – ha firmato due contratti in Iran nel 2000 e nel 2001 per lo sviluppo di due giacimenti. Al tempo il Paese non era nel mirino della Ue in termini di sanzioni». «Siccome crediamo che i contratti siano sacri - ha proseguito - li porteremo a termine. Dal 2001 non firmiamo nuovi contratti e non ne firmeremo altri in futuro».E
congruenze nelle dichiarazioni premier. La testata del Maariv(tabloid popolare, tarato su news locali, secondo per vendite dopo Yedot Ahronot) non ha apprezzato l’accostamento Olocausto-Gaza e ha ironizzato su «Silvio-Cesare» per il suo «comportamento bizzarro», lamentando come improprio il fatto che «appena giunto nei territori abbia paragonato Gaza alla Shoah». Yediot Ahronot(il più diffuso quotidiano d’Israele) dà spazio a quello che chiama il «Berlusconi show», con ampio risalto a un articolo di colore sul pranzo di gala nella residenza del presidente Shimon Peres allietato da aneddoti e «imitazioni» del presidente del Consiglio, oltre che dall’annuncio del regalo di un suo Cd di canzoni. Il Jerusalem Post ha
“Yediot Ahronot”, il più diffuso quotidiano d’Israele, dà spazio a quello che chiama il «Berlusconi show», con ampio risalto a un articolo di colore sul pranzo di gala con Shimon Peres da parte israeliana non mancano critiche, anche dopo la commozione alla Knesset per essere stati definiti «fratelli maggiori».
A dimostrazione che l’attitudine a tenere contenti tutti, si può spesso trasformare nella capacità di sollevare reazioni negative unanimi. Proprio il giorno dopo il discorso al Parlamento ebraico e la visita in Cisgiordania dal presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, la stampa israeliana ha sottolineato alcune in-
invece preferito titolare sugli aspetti politici della visita e in particolare sull’apprezzamento rivolto dal primo ministro Benyamin Netanyahu a Berlusconi, salutato come «un leader coraggioso che è sempre dalla Haaretz parte d’Israele». online, invece, ha dato più spazio al discorso pronunciato a Gerusalemme, evidenziando l’espressione «fratelli maggiori» utilizzata per descrivere il rapporto fra israeliani e italiani e il passaggio in cui il premier italiano si è riferito all’operazione Piombo Fuso dello scorso
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L’opinione pubblica americana ritiene corretto un attacco preventivo alle centrali di Teheran
Caro presidente Obama, è il momento di attaccare
La realpolitik comporta dei costi, quando la diplomazia fallisce del tutto E gli Usa non possono permettere che sia il regime a colpire per primo di Daniel Pipes bitualmente non offro consigli a un presidente alla cui elezione ero contrario, che persegue degli obiettivi che temo e delle linee politiche che non condivido. Ma qui ho un’idea affinché Barack Obama salvi la sua traballante amministrazione, facendo un passo a tutela degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Se la personalità, l’identità e la celebrità di Obama incantarono nel 2008 la maggioranza dell’elettorato americano, nel 2009 queste stesse qualità si sono dimostrate inadeguate per governare. Obama non è riuscito a mantenere l’impegno per quanto riguarda il problema dell’occupazione e la riforma sanitaria, ha fallito nei tentativi di politica estera tanto piccoli (per esempio assicurarsi le Olimpiadi del 2016) quanto di vasta portata (rapporti con Cina e Giappone). L’operato del controterrorismo a malapena supera il test della risata. Questa esigua performance ha provocato un crollo senza precedenti nei sondaggi e la sconfitta in tre importanti elezioni suppletive, culminando due settimane fa in una sorprendente sconfitta senatoriale in Massachusetts. I tentativi di Obama di “resettare”la sua presidenza probabilmente falliranno se egli si concentrerà sull’economia, dove lui è solo uno degli innumerevoli attori. Obama ha bisogno di un gesto plateale per cambiare l’immagine che l’opinione pubblica ha di lui come campione dei pesi leggeri, raffazzonando ideologi, preferibilmente in un’arena dove la posta è molto alta e dove lui può battere le aspettative. Una simile opportunità esiste: Obama può dare ordini all’esercito di distruggere la capacità di produzione delle armi nucleari di Teheran. Le circostanze sono propizie. Innanzitutto le agenzie di intelligence Usa hanno ribaltato i contenuti dell’assurdo National Intelligence Estimate (NIE) del 2007, quel rapporto che asseriva con “un ampio margine di probabilità” che Teheran aveva “sospeso il suo programma di armamento nucleare”. Nessuno (a parte i governanti iraniani e i loro agenti) nega che il regime si sia buttato a capofitto nella costruzione di un ampio arsenale nucleare. In secondo luogo, se i leader di Teheran dalla mentalità apocalittica avessero la Bomba, essi renderebbero il Medio Oriente ancor più instabile e pericoloso. Potrebbero utilizzare le loro armi nella regione, portando a eccidi e distruzione. E alla fine, potrebbero lanciare un attacco a impulsi elettromagnetici contro gli Stati Uniti, devastando completamente il Paese. Eliminando la minaccia iraniana, Obama protegge la patria e invia un messaggio agli amici e ai nemici degli americani. In terzo luogo, i sondaggi d’opinione mostrano un sostegno americano di lunga data per un attacco nucleare iraniano. Secondo il Los Angeles Times/Bloomberg del gennaio 2006, il 57
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anno a Gaza come a una «giusta» reazione contro i lanci di razzi di Hamas. Nello stesso articolo la testata parla anche della visita a Betlemme e del «dolore per le vittime di Gaza» espresso da Berlusconi così come per le vittime dell’Olocausto, frasi che Haaretz evita di commentare. Secondo il Financial Times londinese, invece, il primo ministro italiano sarebbe «nei guai» (hot water) per le sue dichiarazioni in cui ha accostato le vittime di Gaza a quelle della Shoah. Il quotidiano finanziario ha affermato che il premier israeliano Netanyahu non avrebbe commentato la frase di Berlusconi.Qualche nota positiva per le dichiarazioni del premier arriva invece da oltre Atlantico.
Il vice presidente Usa Joe Biden ha apprezzato quello che ha detto Berlusconi in Israele nei confronti di Teheran. Lo ha precisato Gianfranco Fini. Il presidente della Camera ha avuto un colloquio lungo oltre un’ora con il numero due dell’amministrazione Usa a Washington, ieri. Fini ha aggiunto che Biden ha anche dato una valutazione molto positiva sull’impegno che l’Italia sta garantendo a livello internazionale e in particolare il ruolo dei soldati in Afghanistan. Stesso tono elogiativo per l’approccio del premier alle vicende economiche. Biden apprezza come il governo italiano non si sia fatto condizionare dagli interessi economici che legano Italia e Iran. Parliamo di un giro d’affari intorno ai 6 miliardi di euro all’anno.
per cento degli americani è a favore di un intervento militare qualora Teheran perseguisse un programma in grado di permetterle la costruzione di armi nucleari. Zogby International dell’ottobre 2007, il 52 per cento dei potenziali elettori appoggia un attacco militare Usa per impedire all’Iran di costruire delle armi nucleari; il 29 per cento si oppone a una simile misura. McLaughlin & Associates del maggio 2009, viene chiesto agli intervistati se siano d’accordo con «l’impiego dell’esercito [Usa] per attaccare e distruggere gli impianti in Iran che sono necessari per produrre un’arma nucleare», il 58 per cento di 600 potenziali elettori si dice a favore dell’uso della forza e il 30 per cento si dichiara contrario. Fox News Settembre 2009: viene chiesto «Sei favorevole o contrario all’impiego da parte degli Stati Uniti di un’azione militare che impedisca all’Iran di avere delle armi nucleari?» il 61 per cento dei 900 iscritti alle liste elettorali si dice favorevole all’azione militare e il 28 per cento si dichiara contrario. Il Pew Research Center chiede nell’ottobre 2009 se è più importante «impedire all’Iran lo sviluppo di armi nucleari, pur implicando ciò l’impiego di un’azione militare» oppure «evitare un conflitto militare con l’Iran, pur implicando ciò il possibile sviluppo di armi nucleari». Il 61 per cento degli intervistati si dichiara favorevole della prima opzione e il 24 per cento mostra una preferenza per la seconda. Non solo una forte maggioranza – il 57, il 52, il 58, il 61 e ancora il 61 per cento – è già favorevole all’uso della forza, ma dopo un attacco gli americani si stringeranno presumibilmente intorno alla bandiera, facendo salire rapidamente queste percentuali. In quarto luogo, se l’attacco americano si limitasse a distruggere gli impianti nucleari iraniani e non ad ambire a un cambio di regime, ciò richiederebbe pochi “scarponi sul terreno”e implicherebbe delle perdite piuttosto esigue, rendendo un attacco politicamente più appetibile.
L’11 settembre ha indotto gli elettori a dimenticare i primi mesi di distrazione della presidenza Bush. Un attacco contro gli impianti iraniani farebbe la stessa cosa per Obama
Proprio come l’11 settembre ha indotto gli elettori a dimenticare i primi mesi di distrazione della presidenza di George W. Bush, un attacco contro gli impianti iraniani manderebbe l’inefficiente primo anno del mandato di Obama giù nel dimenticatoio e trasformerebbe la scena politica interna. Inoltre, un attacco accantonerebbe la riforma sanitaria, indurrebbe i repubblicani a lavorare con i democratici, farebbe protestare i netroots, provocherebbe un ripensamento negli indipendenti e farebbe andare in brodo di giuggiole i conservatori. Ma l’opportunità di fare benissimo è fugace. E dal momento che gli iraniani rafforzano le loro difese e parlano di armamenti, la finestra dell’opportunità è chiusa. Il momento di agire è adesso oppure il mondo diventerà presto un luogo molto più pericoloso.
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quadrante Vertice. Al via il dodicesimo consiglio dei ministri congiunto
l 12esimo consiglio dei ministri congiunto tra Francia e Germania, apertosi ieri nella capitale francese, punta al rilancio in grande stile dell’asse Parigi-Berlino. Il presidente francese Nicolas Sarkozy e la cancelliera tedesca Angela Merkel hanno affiancato i responsabili dei rispettivi dicasteri per discutere ottanta misure comuni da adottare per rilanciare l’asse franco tedesco da qui al 2020. I due governi si sono presentati al summit al gran completo: un’occasione per far conoscere ai ministri francesi i membri del nuovo esecutivo tedesco. Merkel è arrivata a Parigi con la sua nuova squadra, formata da CduCsu e Fdp, uscita vincente dalle elezioni di settembre. Avviato in ottobre dal capo di stato francese e dalla cancelliera tedesca, poi perfezionato più volte nel corso delle settimane successive, il nuovo programma francotedesco si suddivide in sei grandi settori di cooperazione che verranno spiegati nei dettagli al termine dell’incontro all’Eliseo. In fase di messa a punto “un’agenda ambiziosa e concreta”, come viene definita dall’entourage di Sarkozy, che tocca settori e interessi strategici, dalla lotta ai cambiamenti climatici all’economia, alla ricerca, alla sicurezza e alla difesa. E che vede la Francia assumersi l’impegno di sostenere la battaglia di Berlino per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
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Sul fronte economico, i due paesi vogliono «rafforzare le convergenze delle loro analisi economiche», prima del vertice informale europeo della prossima settimana, dedicato al rilancio della crescita e a «coordinare gli sforzi» in materia di regolamentazione finanziaria. Dopo il fallimento del vertice sul clima di Copenaghen, Francia e Germania sperano di «lavorare a un accordo internazionale ambizioso» per ridurre i gas serra. Tra i principali punti in agenda, la creazione di uno «standard europeo unico in materia di auto elettriche». La Germania dovrà inoltre annunciare la sua partecipazione al programma Ariane 6, il vettore spaziale che dovrà sostituire l’Ariane 5. Quanto alla Pesc (la politica estera, di difesa e sicurezza della Ue), molti progetti riguardano la “cooperazione rafforzata” dei due paesi in Afghanistan, la lotta contro l’immigrazione clandestina, il traffico di droga o la realizzazione di banche dati eu-
Parigi e Berlino scrivono una road map per il 2020 Dal clima all’Afghanistan: Sarkozy e la Cancelliera Merkel rilanciano l’Asse di Massimo Ciullo
ropee per i viaggiatori europei. Grande enfasi è stata data all’incontro dalla stampa transalpina. Per il quotidiano parigino Le Figaro, la parola chiave è “convergenza” di analisi e politiche per dare seguito ai segnali di ripresa che le due economie hanno già mostrato, concentrando l’attenzione sulla questione cruciale del deficit pubblico.
Ma prioritaria per Parigi e Berlino è anche una governance migliore in seno al G20 e al Fondo monetario internazionale. Seguono progetti strategici in settori come le fonti rinnovabili, l’educazione, la collaborazione tra gli istituti di ricerca, la cooperazione tra le forze di polizia, lotta al narcotraffico e scambi giovanili. In materia di innovazione, Parigi e Berlino vorrebbero «raddoppiare il numero degli studenti beneficiari dei programmi dell’università franco-tedesca» e «incrementare gli scambi scolastici». Verranno inoltre soppressi molti ostacoli giuridici in materia di regime patrimoniale e familiare. Infine, in ambito istitu-
I due leader puntano a una governance migliore in seno al G20 e al Fondo Monetario Il presidente Usa non parteciperà al summit dei Ventisette
Ma l’Eliseo assolve Barack La decisione di Barack Obama di non partecipare al vertice previsto in tarda primavera tra l’Unione europea e gli Stati Uniti non costituisce «un dramma». Lo ha detto ieri, subito dopo l’incontro bilaterale con il Cancelliere tedesco Angela Merkel, Nicolas Sarkozy. Per il presidente francese «il mondo ha problemi più gravi di cui occuparsi, come la disoccupazione o la crisi finanziaria». «La mia impressione? È che ci sono troppi vertici, troppi spostamenti, troppe perdite di tempo. (...) Se il presidente degli Stati Uniti propone di fare il vertice della Nato (a novembre, ndr) assieme a quello Europa-Stati uniti, trovo che sia una buona idea». «Non credo proprio ha concluso il capo di stato francese - che questo significhi un disinteresse da parte del presidente Obama per l’Europa o un allontanamento dell’Europa dagli Stati Uniti». Secondo la diplomazia americana, tuttavia, la decisione presa dall’inquilino della Casa Bianca è significativa, soprattutto alla luce dell’approvazione del Trattato di Lisbona. Il testo, che ha ridisegnato le cariche e le leve di potere all’interno della struttura comunitaria europa, ha infatti risolto il quesito sul leader dell’Ue. Ma ora, nonostante ci sia un pre-
sidente permanente - il belga Van Rompuy - le cose non sono cambiate. Lo dimostra proprio la “buca” rifilata da Obama all’incontro dei Ventisette con gli Usa.
E se Henry Kissinger si chiedeva «a chi telefonare per parlare con l’Europa», ora sembra quasi evidente che Barack Obama abbia deciso di non telefonare proprio. «Fate un segno sulla lavagna per l’ennesimo smacco di Barack Obama all’Europa», cominciava così, in tono semi ironico, un editoriale non firmato del Wall Street Journal in merito alla defezione del presidente Usa. Per poi cambiare marcia e dare il via a un durissimo attacco: «La retrocessione dell’Europa è il riflesso di valutazioni razionali. Dal punto di vista di Washington le potenze in ascesa sono il Brasile, la Cina, l’India e altri Paesi nella regione del Pacifico. La relazione privilegiata con la Gran Bretagna e i forti legami con gli alleati dell’Europa centrale restano cruciali per la sicurezza americana, ma possono essere coltivati indipendentemente da quelli con l’Unione Europea». E poi l’affodno finale: «A nessun presidente nella storia recente è importato cosí poco dell’alleanza dell’America con l’Europa».
zionale, è prevista la possibilità che un ministro di un paese partecipi a riunioni del consiglio dei ministri dell’altro. Il cancelliere tedesco ha anche annunciato che Parigi e Berlino presenteranno entro fine anno un rapporto congiunto finalizzato alla creazione di nuovi indicatori della crescita economica. «È particolarmente importante che si sia deciso di lavorare assieme su cosa intendiamo per crescita e prosperità nel ventunesimo secolo» ha affermato la Merkel. «Un gruppo di esperti si riunirà per elaborare un rapporto entro la fine dell’anno che cerchi di capire come possiamo creare nuovi indicatori e cosa possiamo fare a livello europeo per modernizzare le nostre strategie di crescita, in modo da creare un’economia sostenibile e responsabile». Secondo il presidente francese la revisione degli indicatori è fondamentale se si vuole una crescita sostenibile. «Francia e Germania chiedono all’Ue di trovare modi migliori per misurare la crescita economica», ha affermato Sarkozy.
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Londra, colti in fallo 390 parlamentari di Westminster
India, la donna aveva 85 anni ed era scampata allo tsunami
I deputati inglesi hanno falsificato le note spese. E ora pagano
È morta l’ultima persona che parlava la lingua “bo”
LONDRA. Più della metà dei de-
PORT BLAIR. Era rimasta l’uni-
putati britannici - 390 su 646 per la precisione - hanno gonfiato o commesso delle irregolarità nelle note spese degli ultimi quattro anni e dovranno rimborsare alle casse dello Stato più di un milione di euro: queste le conclusioni rese pubbliche ieri di una inchiesta indipendente che ha così messo definitivamente in luce l’ampiezza di uno dei più gravi scandali che abbia mai investito la classe politica nazionale britannica. Guidata da un ex alto funzionario, Sir Thomas Legg, l’inchiesta era stata lanciata l’estate scorsa a seguito della polemica innescata dalle rivelazioni del Daily Telegraph che aveva pubblicato le note spese dei parlamentari, di cui molte “gonfiate”con vari trucchi. Il rapporto Legg di fatto ha confermato che molti deputati sono riusciti a farsi pagare un pó di tutto per le case londinesi: dalle ristrutturazioni al concime, dai tappeti ai candelabri, ma anche un ponte levatoio e una casetta da giardino per le anatre. Per non parlare dei video porno per ingannare le serate.
ca persona a parlare il “bo”, una delle dieci lingue del popolo dei Grandi Andamanesi, i nativi dell’arcipelago delle Andamane, nel Golfo del Bengala. Boa Sr, 85 anni, sopravvissuta anche allo tsunami del 2004, è morta la settimana scorsa, e con lei è morta anche la sua lingua. Boa Sr era la discendente di uno dei più antichi popoli della Terra, da 65mila anni insediato nelle Isole Andamane, oggi parte dell’India. Quando i britannici colonizzarono le isole, nel 1858, i Grandi Andamanesi erano almeno 5mila. Ora ne sopravvivono solo 52. Boa era una di loro. «Da quando era rimasta la sola a parlare il bo»,
Nello scandalo era rimasto invischiato anche il primo ministro Gordon Brown, a causa di una donna delle pulizie condivisa col fratello, ma che pagavano
La banca d’affari della pirateria & Co. Il “bottino” nel 2009 supera gli 80 milioni di dollari di Osvaldo Baldacci a noi non se ne parla più tanto, ma i pirati spadroneggiano ancora lungo le coste della Somalia. Con conseguenze importanti anche per i nostri portafogli, dato che causano un’impennata dei prezzi di petrolio e merci a causa del cambiamento delle rotte o dal rincaro delle assicurazioni e della spesa per la sicurezza. Anche negli ultimi giorni diverse navi sono finite nelle mani dei briganti del mare, che si avvantaggiano della drammatica situazione di crisi e violenze di un entroterra privo di qualsiasi autorità credibile. Per avere un’idea basta tenere d’occhio un riepilogo della situazione. Secondo il contrammiraglio Peter Hudson, comandante della missione militare antipirateria della Ue, la EunavFor Atalanta che ha presentato a Bruxelles un bilancio dell’operazione - nel 2009 i riscatti pagati dagli armatori per far liberare le navi catturate dai pirati nel golfo di Aden possono essere calcolati tra i 60 e gli 80 milioni di dollari. «Ovviamente, noi siamo contrari al pagamento dei riscatti perché legittimano anziché contrastare», ha detto Hudson. «Ma è difficile impedirlo, perché spesso gli armatori preferiscono pagare pur di indietro avere merci ed equipaggi». E infatti anche nei giorni scorsi i pirati hanno rilasciato il cargo greco Filitsa e il suo equipaggio, composto da tre ufficiali greci e 19 marittimi filippini, dopo il pagamento di un riscatto che le indiscrezioni raccontano di 3 milioni di euro. Si tratta di una delle più alte somme fino ad ora concordate per la liberazione di una nave sequestrata dai pirati e a bordo si sarebbe anche scatenata una battaglia tra bande rivali. Il cargo greco battente bandiera delle isole Marshall era stato sequestrato ai primi di novembre mentre si dirigeva verso il Sudafrica con un carico di sostanze chimiche. Ad oggi, nelle mani dei pirati ci sono ancora almeno dieci navi e 150 persone. Tra loro anche una coppia di coniugi inglesi che andavano a vela tra le Seychelles e la Tanzania e sui quali è stato anche mandato un video dai sequestratori, diffuso a inizio mese. Il ministro britannico Milliband ha espresso la massima preoccupazione per la sorte della coppia, ma ha ribadito che la Gran Bretagna non è
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disposta a pagare riscatti. Anche il numero dei pirati «è difficile da definire: di sicuro diverse migliaia, molti dei quali occasionali», ha detto il contrammiraglio Hudson. In totale sono 75 i pirati arrestati nel corso delle operazioni di Atalanta, tutti trasferiti in Kenya per essere processati. Alcuni sono già stati condannati a pene comprese tra i 7 e i 9 anni. La missione europea, inizialmente prevista per un solo anno, è stata prorogata fino al 13 dicembre 2010, con la partecipazione di Italia, Olanda, Germania, Francia, Spagna, Belgio, Lussemburgo e Grecia e contributi anche da parte di Cipro, Irlanda, Finlandia, Malta e Svezia.
Ma quasi tutte le nazioni del mondo, comprese Usa, Russia e Cina, hanno navi militari nell’area per proteggere il traffico mercantile. Ciononostante i pirati riescono a portare a buon fine i loro assalti, anche in aree di mare distanti. Il fenomeno della pirateria è aumentato a livello mondiale del 40 per cento dallo scorso anno: ma dei 406 episodi segnalati (probabilmente sono molti di più) oltre la metà sono avvenuti nelle acque del Corno d’Africa. Uno dei timori che ha a che fare con i pirati somali è la loro possibile connessione con il terrorismo dell’area e di conseguenza con quello internazionale. Attacchi dal mare sono molto temuti, e anche al-Qaeda in uno dei suoi messaggi di qualche anno fa ha provato a lanciare una jihad del mare. In realtà questa connessione per ora esiste solo a livello molto basso. Nel senso che nella caotica Somalia alle vicende della guerra civile in terra corrisponde ovviamente anche una rete di connessioni, protezioni, collaborazioni e anche affari con i filibustieri della costa. A volte si tratta degli stessi miliziani, o comunque di consanguinei della stessa tribù. Altre volte c’è un interesse nel favorire scambi commerciali e riciclaggio, altre volte ancora ci sono forme di protezione. Certo quello che è impensabile è risolvere il problema dei pirati e quello del terrorismo separatamente, senza impegnarsi a fondo nell’offrire stabilità e sicurezza alla popolazioni somale, per le quali troppo spesso le armi sono l’unica possibilità di impiego.
Il Puntland, regione semiautonoma nel nord est della Somalia, è considerato la Tortuga dei moderni bucanieri
i contribuenti. Sir Thomas ha puntato il dito contro 390 dei 646 deputati britannici e ha chiesto loro di rimborsare complessivamente 1,3 milioni di sterline (1,48 milioni di euro). Legg nel rapporto denuncia delle «regole vaghe, mancanza di trasparenza e un atteggiamento di deferenza» dei funzionari incaricati di esaminare le domande di rimborso da parte dei deputati di Westminster. Il rapporto potrebbe mettere in difficoltà i deputati coinvolti con l’avvicinarsi delle elezioni previste a maggio. L’estate scorsa, una ventina di parlamentari, fra cui diversi membri del governo, si erano dimessi a seguito dello scandalo, erodendo ancora di piú l’indice di gradimento di Brown.
ha raccontato il linguista Anvita Abbi che la conosceva da molti anni, «si sentiva molto sola, perché non aveva nessuno con cui conversare. Boa Sr aveva un grande senso dell’umorismo; il suo sorriso e la sua risata fragorosa erano contagiosi».
Ai linguisti, le sole persone con cui poteva comunicare, Boa Sr raccontava spesso dello tsunami che seminò la morte nell’Oceano Indiano investendo anche le Andamane. «Eravamo tutti la’ quando è arrivata la scossa - ricordava. Il più anziano ci ha detto che la Terra poteva aprirsi e di non scappare». Con i linguisti l’ultima sopravvissuta del popolo dei “Bo” parlava anche delle tribù confinanti: in particolare aveva confidato di considerare i Jarawa, che non erano stati decimati, «molto fortunati per il fatto di poter continuare a vivere nella loro foresta, lontano dai coloni che attualmente occupano gran parte delle Isole». Oggi i Grandi Andamanesi sopravvissuti dipendono in gran parte dal governo indiano per il cibo e le case, e fra di loro è molto diffuso l’abuso di alcool. Stephen Corry, Direttore Generale di Survival International, ha spiegato: «I Grandi Andamanesi sono stati prima massacrati, e poi quasi tutti spazzati via da politiche paternalistiche».
cultura
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L’intervista. Incontriamo l’autore de “Il sentimento del tempo” a Sanremo, dove ha ritirato il Premio Frontiere dedicato alla figura di Francesco Biamonti
Sostiene Tabucchi «Io, il tempo, la storia e l’amore per la cultura italiana» A tu per tu con lo scrittore toscano, che si racconta a 360 gradi di Valerio Venturi
SANREMO. Antonio Tabucchi si racconta. Lo scrittore toscano, che vive tra la Francia, il Portogallo e l’Italia, è venuto a Sanremo per ritirare insieme a Mario Magliani il Premio Frontiere dedicato alla figura di Francesco Biamonti, scrittore indimenticabile che ha fatto della Liguria di Ponente il luogo della sua vita e della sua scrittura. Quello della frontiera è un tema che attraversa i romanzi di Biamonti, connaturato al territorio ligure e alla sua cultura, che ha vocazione al viaggio, al cosmopolitismo. Tabucchi, che significato hanno per lei le frontiere? Forse, per l’umanità, le frontiere più difficili da sormontare sono quelle interne. Noi produciamo frontiere continuamente. Abbiamo un’altra opinione col vicino? Scatta la frontiera! Appartiene un pò alla natura umana. Non so come si supera ciò. Ma l’arte aiuta molto: ciò che è universale, per lo meno dà una mano. La sua casa è l’Europa. Come è cambiato il Vecchio Continente? Il mio universo è deflagrato, ma anche la nostra Europa. Nel ’73 c’era un progetto, un embrione d’Europa geografica. C’era una visione - mi riferisco ai padri fondatori - che superava le ideologie e le appartenenze politiche; era una idea alta, per tutti, concepita da persone di estrazione diversa ma concordi - fossero Adenauer, De Gasperi, Spinelli o Jamonet. Mi pare che il loro alto ideale continui ad essere abbastanza ipotetico, per ora, e che sia un pò stato distratto da elementi di contabilità. Ad ogni modo, abbiamo registrato una espansione notevole: sono entrati elementi di geografia, culture, eredità inevitabili, di Paesi che hanno voluto lasciare certe situazioni antidemocratiche in frigorifero. Ai confini dell’universo europeo c’è tutto un altro mondo che cerca di varcare le frontiere. Ma questa sarebbe una questione troppo lunga da affrontare... Parliamo allora de Il sentimento del tempo. Perché questo titolo per la sua ultima raccolta di racconti?
È una riflessione che mi interessa. Bisognerebbe cominciare a parlare del sentimento del tempo dicendo che il tempo è storia. Il tempo varia nel tem-
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Ogni Paese ha delle ferite. Sarebbe bene che oltre ai monumenti alle imprese positive, se ne facesse uno alle colpe: ogni Paese le troverebbe
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po: non mi riferisco al Medioevo, ma anche solo all’anteguerra, all’epoca dei miei genitori. Questo sentimento era allora diverso. Ora si è complicato da molti punti di vista. Cerco di spiegare con un esempio: stavo guardando la tv in casa, sui canali satellitari; stavo pranzando, ero in una città dell’Europa civile e fa-
cendo zapping sono arrivato su una tv che trasmetteva le immagini di una donna che veniva punita in pubblico in un certo Paese; il filmato era trasmesso da quello stesso Paese a scopi didattici, per usi interni, ma lo vedevo anche io. C’è stato uno sfasamento fortissimo: perché simultanaeamente io mangiavo e la donna era punita; ci univa la televisione. Tale riflessione va fatta anche sullo spazio. Se si portava denaro in banca, un tempo, era tangibile. Ora si usa internet e il denaro virtuale si sposta con un click: una turbativa del tempo notevole. Se
ne potrebbero cercare molti altri, di paradigmi, per dimostrare come il tempo è complesso. Poi rimane il problema metafisico del tempo in sé di cui parla Agostino, ma è un altro discorso... Perché ha scelto la forma del racconto? Che differenze ci sono tra il racconto e il romanzo?
In basso, un’immagine di Antonio Tabucchi. A destra, un disegno di Michelangelo Pace. Nella pagina a fianco, le copertine dei libri dello scrittore toscano “Sostiene Pereira”, “Il tempo invecchia in fretta” e “Tristano muore”
Il racconto è strettamente legato al problema del tempo. Uno scrittore di racconti sa che il tempo non è suo amico perché, come il sonetto, è una forma chiusa. Il romanzo invece è paziente e aspetta. Si può lasciare lì, si può andar via. Se si lascia a mezzo un racconto, è difficile riprenderlo. Ecco: se il romanzo è casa e si ha la chiave in tasca, il racconto è come un appartamento in affitto: se si torna tardi, forse hanno cambiato la serratura. È una forma più complicata che necessita dell’attenzione dell’orologiaio quando ripara un orologio. Nel romanzo credo sia più tollerabile l’imprecisione; la sciatteria - perché no - fa parte del panorama. Il racconto è un dettaglio. Sono veri tutti e due, ma il secondo necessita di più attenzione. Perché ha scelto l’Est Europa come ambientazione dei suoi racconti? L’universo dell’Est è arrivato da noi e mi interessa molto; è vero che la menzogna è universale e che la democrazia non è esente da essa - e noi lo sappiamo perché lo constatiamo ogni giorno per quel che vediamo. Ma quelle erano menzogne private, di alcuni rappresentanti. Invece nell’Est erano pubbliche, istituzionalizzate, un decalogo per vivere. È una differenza importante, anche perché la memoria
privata e la pubblica virtù poi non di rado si istituzionalizzano, come accadde là... Sono due cose concomitanti, ma differenti; e questa differenza mi interessava molto. Quale percezione del tempo c’era oltre la cortina di ferro? Era diversa perché probabilmente corrispondeva a un progetto: quando si deve costruire l’uomo del futuro, si ha una idea del calendario differente dalla nostra; noi viviamo certe cose come propaganda politica, slogan: cose del tipo “costruiamo il futuro” le possono esprimere dei politici, una banca... Ma costruire l’uomo nuovo è un progetto più solido; la vita individuale, per cio’ che riguarda il tempo, assume così una importanza relativa, e si perde anche il concetto fondamentale della persona: le formiche non hanno coscienza di essere formiche, ma di dover costruire un formicone. La sua riflessione è legata anche all’Italia. La storia è fatta da individui e l’italia è fatta da minoranze... Direi di sì, il concetto inizialmente può sembrare aristocratico o anarchico. Ma la democrazia liberale si fonda su ciò. Il populismo è conservatore e reazionario e appartiene allo stesso concetto - su una sponda diversa, espresso da destra - che ha ispirato ciò che è avvenuto nei Paesi dell’Est
cultura
per i popoli della sinistra. Tutto sommato lo “stato etico” di Gentile può essere alla base di entrambi. Qualcuno riconosce in un suo racconto la figura di Napolitano... La letteratura è sempre una realtà parallela. Se la si interpreta in modo biografico la si abbassa. C’è nel mio testo un riferimento al partito comunista, ai miglioristi, ma non è detto che si tratti di quello italiano. Sono considerazioni a posteriori e che non riguardano l’Italia e basta. L’importante, rispetto alla rivoluzione ungherese del ’56 di cui scrivo, è il discorso di fondo, che si basa su chi ha riconosciuto nel popolo ungherese la voglia di democrazia e quelli che non l’hanno saputo fare; riguarda l’etica e la visione della vita, neanche più la politica. È un altro livello. ...Se quindi qualcuno vede Napolitano in un mio personaggio, mi dispiace per lui. Semmai è Napolitano che riconosce se stesso. Cioè? Faccio un esempio: lui ha scritto recentemente una lettera alla famiglia Craxi elogiando Bettino e soprattutto - tralasciando le scelte giuridiche inamovibili - la sua politica estera, senza specificazioni. Questa è una affermazione opinabile che lo farà riconoscere, nel futuro, e che non dipende da ciò che io ne penso adesso. Posso
dire a proposito due cose sul piano dei fatti: Craxi ha mandato denaro e avuto amicizia con Barre, sanguinario dittatore; e per motivi suoi ideologici ha considerato che le scelte dell’Olp - che aveva avviato pratiche di terrorismo, pure se per disperazione - meritavano legittimazione: questa è la politica estera di Craxi; forse fra quaranta o cinquanta anni uno scrittore giudicherà nei suoi racconti quelle scelte. Comunque io credo molto nella responsabilità personale: so che le parole non svaniscono nell’aria. Questa responsabilità la sento anche quando scelgo un aggettivo. Scegliere le parole è una responsabilità. Che parole sceglierrebbe per descrivere l’Italia di oggi? Forse ci vuole una visione più che politica e sociologica; una visione che riconosca questa sorta di cicatrice che divide un Paese in due, e che mi sembra
aperta. In realtà le cicatrici devono essere chiuse, perché gli storici possano far la storia. E ogni Paese ha, sul suo tessuto, molte ferite. Sarebbe bene che oltre ai monumenti che abbiamo ai nostri eroi, alle imprese positive, se ne facesse anche uno alle nostre colpe: ogni Paese le troverebbe. Un monumento dove le persone potessero leggere i misfatti che ogni Paese ha commesso: in Romania, per ricordare il totalitarismo, in Francia per l’Algeria, in Uk per il colonialismo, o per le frontiere - l’Africa sembra fatta col righello da un bambino di 5 anni. Sono cose che provocano altre cose... Quale colpa andrebbe ricordata in Italia? Il fascismo? Ero in Grecia, qualche tempo fa, festeggiavano il giorno antiitaliano: li abbiamo invasi e forse ce lo siamo dimenticati da loro c’era pure un uomo di destra; ma forse il nostro capo pensava: «Son già fascista io, un altro non ce lo voglio!» ...Quella era stata una forma di violenza culturale, come violentare la propria madre, la Grecia: qualcosa di spaventosamente edipico. Per ciò che ci riguarda, credo comunque sia meglio parlare dei momenti belli: il Risorgimento, la Resistenza... che almeno quelli non siano dissepolti; teniamoci buono ciò che abbiamo! Che ci dice della denuncia
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che le ha mosso il senatore Schifani per un suo intervento sull’Unità? L’udienza è stata rimandata all’ottobre prossimo per le conclusioni. Avevo scritto una imprecisione linguistica, ma sul fatto che Schifani abbia avuto inconsapevole contiguità con la mafia - ciò che dicevo - ci sono documentazioni; ora se n’è occupata anche la stampa. Per lei è stata istituita una raccolta firme... Mi sono sentito solo. Credo sia significativo che l’appello di solidarietà sia partito da Le Monde e dall’editore Gallimard. Poi, quando è stato ripreso da Micromega, ha avuto migliaia di adesioni italiane, ma ha dovuto rimbalzare. Comunque la faccenda mi è costata molto: anche perché Schifani, o i suoi avvocati, hanno avuto una grande astuzia: nel mio articolo non ci sono elementi per la diffamazione, e difatti mi si chiede 1 milione e 300mila euro di risarcimento con avviso giudiziario alla persona singola, non al giornale l’Unità e al suo direttore: questo l’Europa non lo vede di buon occhio; non può legiferare, ma ha espresso il desiderio che si faccia come negli Stati Uniti d’America, in cui non si può querelare un giornalista prescindendo dal giornale. Invece in Italia si fa: si isola chi scrive e si mette in un angolo, e così si riesce a essere efficaci: è evidente che l’articolista viene schiacciato. ...In tutti i casi, ho notato nel frattempo che la figura di Schifani si è delineata meglio. I giornalisti hanno trovato cose interessanti. Bene per fare un suo profilo. Questo risponde in fondo all’inizio della questione che avevo posto con il mio articolo, che era sui due modi di fare giornalismo: da una parte c’era Travaglio che sosteneva che, della figura pubblica istituzionale, vada saputo tutto, come negli Stati Uniti. L’altra, secondo la quale
se il passato non è compromesso, va dimenticato. Io non ero d’accordo con ciò. Parallelamente ci si rendeva conto che si sapeva poco di Schifani. Ora si è capito che era uomo molto distratto, che non si è mai ac-
corto di nulla e che poi è diventato Presidente del Senato. L’Italia è anche il Festival della Canzone. Siamo a Sanremo: le piace la melodica Italiana? Mi piace la musica popolare, di qualsiasi tipo. Mi viene in mente una poesia che si chiama La musica da quattro soldi: «La musica da quattro soldi entra
dalla finestra e mi trasporta in un mondo fatto a sua immagine. non voglio Hendel come amico e non amo il Mattinale degli Arcangeli. Preferisco quello che la musica da quattro soldi mi ha portato». Quella degli chansonnier è una buona tradizione italiana, partita dalle canzoni napoletane fino alla contemporaneità. Penso a Fossati, a Nel blu dipinto di blu, un bellissmo pezzo surrealista, o a Genova per noi. Per non parlare dei canti del lavoro: abbiamo espresso i nostri problemi con molti brani - bella ciao, i canti delle mondine.. Le intono spesso. Lei ha vissuto a Genova. Che ricordi ha della Liguria? L’attaccamento per questa regione è restato indelebile perché ci ho insegnato, ci ho vissuto parte delle mie giornate, ho amici, fatto esperienze, conosciuto persone, le bellezze del luogo... Anche per cose che mi hanno turbato. I miei anni genovesi corrispondevano ad un periodo cupo della storia italiana, quello delle Brigate rosse. ...È la vita, insomma, che è passata anche attraverso la Liguria. Beh, poi il cibo genovese mi piace molto. Il pesto lo so so fare in modo egregio, avevo una prozia genovese.... Cosa rappresenta Francesco Biamonti per lei? Amo molto la sua poetica. È arrivato tardi alla letteratura, era un personaggio schivo, ma la sua prosa è nutrita molto di poesia ed è bella: leggerlo a volte è come guardare certi quadri di marine, in cui il figurativo diventa astratto. Biamonti scrive il mare che poi diventa l’idea del mare. Era uno splendido narratore e ho un ricordo magnifico di lui anche come persona di grande mitezza e gentilezza. Mi fa piacere ricordarlo.
spettacoli
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Cinema. Il disagio di vivere in una realtà che non c’è: quel che accomuna i registi di “Tra le nuvole” e “La prima cosa bella”
Scrivi Reitman, leggi Virzì di Anna Camaiti Hostert
osa possono avere in comune due film come La prima cosa bella e Tra le nuvole? All’apparenza proprio niente. Il primo è un film italiano di Paolo Virzì che racconta le vicende di una madre bella e ingenua e dei suoi due figli, permanentemente segnati dalla sua presenza troppo solare, che da adulti si ritroveranno al suo capezzale di malata terminale di cancro. A ragione definito l’unico erede della migliore commedia all’italiana, il regista toscano mostra le difficoltà dei rapporti familiari e l’importanza delle radici senza mai cadere in un sentimentalismo deteriore.
C
mente inventata». E infatti in questo film non c’è nostalgia, c’è solo «il desiderio di andare a cercare quella parte perduta di noi stessi in un momento in cui ci si sente senza patria… Oggi ci si sente degli esiliati», continua Virzì. «Abbiamo più che mai la voglia di individuare un luogo caro dal quale ripartire. Qui c’è la famiglia e una mescolanza di vite che raccontia-
Thank you for smoking e Juno. Racconta la storia di un tagliatore di teste, un executive, Ryan Bingham, impersonato da uno splendido George Clooney, che viaggia in continuazione tra i cieli d’America per licenziare dei lavoratori a cui codardi e miserabili capi di aziende non hanno il coraggio di comunicare personalmente la notizia. Anaffettivamente solo per scelta e senza una fissa dimora, Ryan risponde alla caratteristica di quelle persone che non si riescono mai a conoscere fino in
come lui, una tiratrice scelta a cui l’accomuna lo stile di vita, almeno apparentemente la mancanza di ogni vincolo e con cui inizia una storia e Natalie Keener (Anna Kendrick) una giovane ambiziosa appena uscita dall’università che, assunta dalla stessa società dove lavora, suggerisce di comunicare i licenziamenti attraverso lo schermo di un computer, mettendo in crisi le sue certezze. Nel frattempo il matrimonio di una sorella lo riporta a casa. Ryan rientra in una famiglia negletta e dimenticata e porta
nata che lascerà Bingham di stucco, riportandolo così sulla vecchia strada, ma con una nuova consapevolezza del proprio sentire e del sentire altrui. Il legame tra questi due diversissimi film sta proprio nel senso contemporaneo del disagio di un vivere collocato negli spazi interstiziali che i protagonisti maschili dei due film esperiscono e nel loro modo di sentire: un sentire che, come ha detto Perniola proprio sulle pagine di questo giornale, è esterno, un sentire dal di fuori. I due personaggi, il professore isolato che
«Un Paese ci vuole se non altro per il gusto di andarsene via» scriveva Cesare Pavese. E non è un caso che Virzì abbia messo queste parole in exergo al suo documentario girato quasi in paral-
In questa pagina, i registi Paolo Virzì e Jason Reitmain, e le locandine dei rispettivi film “La prima cosa bella” e “tra le nuvole”
lelo con il film e dedicato al cantautore livornese Bobo Rondelli. Il regista toscano che ci mostra la Livorno della sua adolescenza e dalla quale è scappato molto tempo fa, ci torna oggi attraverso gli occhi di Bruno (Valerio Mastrandrea) il figlio di Anna Ningiotti in Michelucci (Micaela Ramazzotti da giovane e Stefania Sandrelli in età matura) la quale restituirà a questo figlio anaffettivo e tossico la gioia di vivere. «Un’autobiografia truccata» l’ha definita il regista a chi gli chiedeva se questa fosse la versione del suo amarcord, «perché ci sono pezzi del mio vissuto, ma è una storia completa-
Sullo sfondo, seppure con ruoli diversi, la province anguste italiana e americana, ma con radici profonde che non possono essere tagliate mo volta per volta». Un bagno in mare sarà l’inizio di una riconciliazione di Bruno con la vita. Il secondo è un film americano del giovane regista canadese Jason Reitman (figlio del produttore e regista che ha diretto il film Ghostbusters) alla sua terza prova d’autore dopo
fondo e a cui quando, su uno dei tanti aerei attraverso cui si sposta per compiere il suo odioso mestiere, viene chiesto dove viva, risponde “qui”. «Un film adatto ai tempi» ha scritto in una lucida recensione il critico americano Roger Ebert, facendo notare come il protagonista definisca se stesso un facilitatore di licenziamenti (Termination Facilitator) e come di questi tempi il suo lavoro, specie nell’America della crisi, sia richiestissimo. Tra le nuvole è un luogo di osservazione di come un uomo compia un lavoro che ama, senza desiderio di una famiglia o di una casa. Sulla sua strada due donne: Alex Goran (Vera Farmiga)
abita anonimamente nella grande città e il tagliatore di teste che vive perennemente in aereo, lontani per scelta dalle loro famiglie, sembrano tuttavia ritrovare un briciolo di umanità proprio nel desiderio di riconciliarsi con la vita e con i legami affettivi.
con sé Alex, a cui comincia ad affezionarsi e con la quale ha un rapporto che muta il suo punto di vista sulla vita. Piombato all’improvviso a casa di lei scopre però che la donna ha un marito e dei figli. «Tu per me sei solo una parentesi dalla vita reale» dice Alex in una telefo-
Sullo sfondo, seppure con ruoli diversi, la provincia italiana e quella americana anguste, ma con quelle radici profonde che non possono essere tagliate come si è fatto finora con le teste dei lavoratori o andandosene nella grande città. Ma sono soprattutto un’ironia discreta e una malinconia commovente ad accomunare il sentire di questi due film d’autore.
spettacoli
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ROMA. Chiamarlo “concerto” è veramente riduttivo. Quello che mercoledì sera Carmen Consoli ha regalato ai tremila fortunati spettatori della Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica a Roma è stato “un viaggio” alla scoperta del fantastico mondo musicale della cantautrice catanese. Un’esperienza indimenticabile, un momento di evasione ma anche un’occasione per fermarsi a riflettere ascoltando buona musica. Rock sicuramente per l’attitudine. Pop per l’orecchiabilità. Folk per il radicamento nel retroterra culturale siciliano che è un po’ la cifra stilistica del suo repertorio. Ma c’è sempre qualcosa che sfugge alle definizioni. E questo qualcosa è quello che Carmen Consoli riesce a elargire al suo pubblico a piene mani. La sala è buia ma si scorge già un enorme ventaglio bianco sullo sfondo circondato da un numero impressionante di strumenti musicali. Un vezzo? No, un mezzo. Per la precisione un telo da proiezione che di tanto in tanto si anima per accogliere l’immagine di ospiti (virtuali) illustri quali il maestro Franco Battiato, grande sostenitore della Consoli, e Angelique Kidjo, Goodwill Ambassador per Unicef. Ma le prime note a viaggiare nell’aria sono quelle, dolci, di Perturbazione Atlantica. I toni si fanno subito più accesi con Non molto lontano da qui e, soprattutto, con Mio Zio. Elettra è il biglietto da visita con il quale la cantantessa si presenta al pubblico. D’altronde il disco prosegue l’indagine dell’universo femminile che è la sua vera specialità. Così accanto all’eroina borghese troviamo la pazza sanguinaria e accanto alla vittima, la carnefice. E come la figura femminile viene descritta a 360 gradi, così anche il tema dell’amore viene analizzato in ogni sua forma: da quello filiale a quello carnale, passando attraverso l’amore fedele e quello promiscuo. Il gusto per la descrizione di un intero tragitto si traduce anche in suoni dato che a ingombrare il palco non ci sono solo chitarre e batteria ma anche archi, percussioni e un enorme contrabbasso. A completare il tutto, un impianto scenografico impeccabile e un gioco di luce che riesce a creare effetti emozionanti. Le luci ondeggiano nello spazio quasi come fossero ballerini intenti a esibirsi in un valzer un po’ inedito costituito dalle canzoni più dolci della scaletta. Se alla dimensione acustica della Consoli è dato stato
Musica. Un successo il concerto di Carmen Consoli all’Auditorium di Roma
Il favoloso mondo della “cantantessa” di Matteo Poddi grande risalto non bisogna però dimenticarsi che c’è una scaletta “elettrica”, Ventunodieciduemilatrenta, oltre alla scaletta “teatro”che è poi quella del vero e proprio Tour in partenza: l’Elettra Tour. Un compromesso? No. Il modo di far convivere le due anime, ammesso che ne abbia solo due, di un’artista poliedri-
ca e mai ripetitiva. Così le due scalette: Ventunodieciduemilatrenta (1 Bambina, 2 Matilde, 3 Mio Zio, 4 Un Sorso in Più, 5 Lingua a Sonagli, 6 Komm Wieder, 7 Venere, 8 Due Parole, 9 Fino all’Ultimo, 10 Devil’s Roof, 11 Fiori d’arancio) e Elettra Tour (1 Pertubazione atlantica, 2 Non molto lontano da qui, 3 Mio zio, 4 L’ultimo bacio, 5 Gei-
i vari elementi della band: Massimo Roccaforte e Santi Pulvirenti alle chitarre, Marco Siniscalco al contrabbasso, Adriano Murania al violino, Marcello Leanza ai fiati, Puccio Panettieri alla batteria e Leif Searcy alle percussioni. E così come sono apparsi, in sordina, scompaiono altrettanto silenziosamente per lasciare la cantante sola con la sua fedele chitarra nonché la sua, inconfondibile voce. Ed è un rapporto intimo, quasi fisico, quello lega la Consoli al suo strumento. Una vera e propria propaggine del suo corpo. Un corpo che diventa un tempio dedicato alla Dea della Musica. Una dea capricciosa che non si fa scrupolo di evitare gli impedimenti tecnici tipici di ogni prima. Così ad un certo punto Carmen rimane intrappolata dalla cinta di una chitarra ma, da animale da palcoscenico qual è, alla fine della canzone riesce a ironizzare sull’accaduto raccontando un aneddoto della sua infanzia ambientato a Catania ovviamente. La sicilianità di Carmen Consoli è il suo marchio di fabbrica. In un Paese in cui tutti cercano di proiettarsi verso gli States per sentirsi più cool, Carmen canta una realtà tutta nostrana e usa, volutamente, la dirompente forza espressiva del dialetto. È provinciale? Sì, e fiera di esserlo. A finestra esemplifica tutto questo. Nasce da una domanda. Carmen si chiede come si possa far tornare in Sicilia, e non solo, quel clima di tolleranza e di civiltà che permetteva ad ebrei, cattolici e musulmani di convivere pacificamente.
La risposta sta nella consapevolezza che soltanto una rivalutazione della diversità intesa come valore aggiunto può far migliorare le cose. Perché non basta indignarsi per quello che succede e parlare con tono stizzito di “buttane” piuttosto che di arricchiti senza cultura né educazione. Bisogna agire. E Carmen agisce. Può piacere oppure no, in genere o la si ama o la si odia, però è una cantante che si fa sentire. E non solo attraverso i dischi e i videoclip. È una rocker proprio in questo senso. Datele un palco, una chitarra e un microfono e vi stupirà. Proprio con un ricordo degli anni della “gavetta” Carmen introduce il supporter Fabio Abate con il quale esegue la colonna sonora del nuovo film di Maria Sole Tognazzi L’uomo che ama nonché un’ironica cover de La notte di Adamo. E sapori vintage sono anche quelli presenti nel nuovo arrangiamento di Fiori d’arancio, che viene arricchito da percussioni disco-dance di matrice Seventies. Alla fine del viaggio riatterriamo sulla Terra e non possiamo far altro che ripetere sommessamente “Chapeau Carmen, chapeau”.
Un live senza etichette fisse: Rock sicuramente per l’attitudine. Pop per l’orecchiabilità. Infine Folk per il radicamento nel retroterra culturale siciliano A sinistra e in alto, alcune immagini della cantautrice siciliana Carmen Consoli, e le copertina dei suoi album “Elettra”, “Mediamente isterica” e “Stato di necessità”
sha, 6 Marie ti amiamo, 7 Col nome giusto, 8 Elettra, 9 Atlantide, 10 Narciso, 11 Contessa miseria, 12 Cartolina 13 Madre terra, 14 Fiori d’arancio, 15 Maria Catena, 16 Finestra) si intersecano e si intrecciano continuamente. L’una non può fare a meno dell’altra. E in questa rincorsa affannosa non si perde nulla. Anzi. Semmai ci si guadagna. Poco a poco si palesano
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”The Moscow Times” del 04/02/10
Cioccolata per Khodorkovsky di Igor Tabakov otrebbe essere definita sweet diplomacy. Tavolette di cioccolata e dolcetti sono stati spediti a più di un migliaio di celebrità e giornalisti russi per sensibilizzarli sulla situazione di Michail Khodhorkovsky. Una specie di viral marketing di massa a favore dell’ex manager di Yukos finito dietro le sbarre in una prigione siberiana.
P
Dietro l’iniziativa c’è un’artista che ha spedito cioccolata e muffole ai personaggi che contano in giro per la nazione, con lo scopo di rimettere sotto i riflettori il caso. Si tratta di una pittrice moscovita e si chiama Yekaterina Belyavskaya, 29 anni. Ha preso a cuore la vicenda dell’ex miliardario una volta a capo della Yukos. (Uno di quei nuovi oligarchi eltsiniani legati all’occidente, cui Putin aveva fatto una proposta che non si poteva rifiutare e da lui respinta, ndr). «Questo è un progetto puramente artistico non ha nulla di politico, abbiamo solo voluto ricordare alla gente la sua sorte» ha risposto a Moscow Times la Belyavskaya. La pittrice ha poi spiegato come i destinatari dei memorabilia siano «un gruppo di amici» tra i quali lo scrittore Georgy Chkhartishvili, il regista Sergei Soloviev e il portavoce del Consiglio federale, Sergei Mironov. Chkhartishvili, meglio noto col nome con cui firma i suoi scritti Boris Akuni, fu quello che intervistò Khodorvkosky per la versione russa della rivista Esquire. Mentre Soloviev fu tra le decine d’intelletuali che firmarono una petizione al presidente Dmitry Medvedev, affinché fosse scarcerata Svetlana Bakhmina, una ex dipendente della Yukos. Maxim Dbar, portavoce del collegio difen-
sivo di Khodorkovsky ha dichiarato di non essere coinvolto nel progetto. Anche se ha benedetto l’iniziativa. «Noi supportiamo ogni evento che porti l’attenzione sul caso» ha spiegato il legale del tycoon. Le creazioni dell’artista moscovita arrivano all’interno di una confezione dove, con lo stile grafico che ricorda Andy Warhol, è riprodotta l’immagine di Khodorkovsky. «Questo kit regalo, unico nel suo genere, contiene un guantone e l’unico cioccolato al mondo al sapore di politica» si legge nella lettera che accompagna ogni pacchetto. L’involucro della tavoletta descrive il prodotto come «cioccolato amarissimo». E di fianco al marchio c’è la firma stilizzata dell’ex patron dell’azienda petrolifera, nata nel 1993 con un decreto firmato da Boris Eltsin.
Khodorkovsky che ha lavorato nella sartoria della prigione di Chita fino al 2005, è stato poi condannato a otto anni di reclusione per frode ed evasione fiscale. Accuse che il tycoon ha definito motivate da ragioni di natura politica. Lui ed il suo socio, Platon Lebedev sono ora alla sbarra per un secondo processo a Mosca, accusati di riciclaggio di denaro sporco. La lettera della Belavskaya è scritta come una richiesta di riscatto, con le lettere ricavate da ritagli di giornale e contiene disegni di Khodorkovsky e Lebedev. «Non stiamo cercando di modificare il giudizio che sia ha su queste persone, vogliamo solamente ricordarli» si legge nella missiva. La pittrice si è interessata al caso da quando, lo scorso anno, aveva partecipato ad un concorso, organizza-
to da alcuni sostenitori della causa dell’ex oligarca, nel tentativo di dargli un sostegno morale. Le prove d’artista migliori erano poi state esposte alla Central house of artist di Mosca. La Belavskaya non è stata l’unica a prendere spunto dalla vicenda, anche il musicista rock Sergei Shnurov ha dedicato una cover della sua ballata popolare «I am free» all’uomo d’affari in carcere. Mentre la scrittrice Lyudmilia Ulitskaya ha pubblicato un libro di corrispondenze con l’inquilino della prigione di Chita, lo scorso anno.
La moscovita Yekaterina ha dichiarato di aver intenzione di inviare uno dei suoi pacchetti regalo anche al presidente Dmitry Medvedev. «Vorrei elevare il suo spirito, ma dubito che possa accettare» ha poi commentato. Ha anche aggiunto di aver desisitito dal tentatvo di contattare il primo ministro Vladimir Putin «per non farlo arrabbiare». Solo nel dicembre scorso, Putin, durante una trasmissione televisiva, definì Khodorkovsky «un criminale».
L’IMMAGINE
Ripartizione spese condominiali, scelta del criterio sbagliato e conseguenze Con una recente sentenza, la Corte di Cassazione si è occupata di spese condominiali, ripartizione deliberata dall’assemblea di condominio e delle conseguenze nel caso di scelta di un criterio errato. Secondo i giudici se l’assemblea sceglie uno dei criteri previsti dalle tabelle millesimali, ma questo è sbagliato in relazione al caso concreto, il condomino dissenziente può impugnare la delibera. Il condomino dovrà proporre un’azione giudiziaria, tassativamente entro 30 giorni dall’adozione della deliberazione, se era presenta ma dissenziente, o entro 30 giorni se era assente. Secondo la Cassazione, in sostanza, questo vizio della delibera è meno grave di quello che ricorre quando l’assemblea delibera una ripartizione delle spese sulla base di un criterio nuovo non previsto dalle tabelle. In quest’ultimo caso, infatti, la deliberazione sarebbe nulla se non adottata con l’unanimità dei consensi di tutti i partecipanti al condominio.
Alessandro Gallucci
SIRIA E TOLLERANZA RELIGIOSA In riferimento al vostro articolo datato 21 gennaio 2010, dal titolo “Quote rosa di Assad per rafforzare il regime”, risulta evidente, oltre alla mancanza di obiettività, la scarsa conoscenza che l’autore ha della realtà del nostro Paese. Fin dagli anni ’70, la Siria ha riconosciuto con convinzione l’importante ruolo della donna nella vita pubblica per creare una società evoluta ed equa. La storia della donna siriana non può essere riassunta dalla geniale conclusione partorita dalla mente dell’autore dell’articolo, secondo cui la nomina di un nuovo ministro donna aprirebbe «una nuova strada verso lo sviluppo politico e sociale del Paese», allo scopo di un «ringiovanimento del-
la propria immagine di fronte alla comunità internazionale», come dimostra la presenza delle donne sia nel ruolo di vice presidente della Repubblica, che di ministro, che alle cariche più alte negli organismi istituzionali, esecutivi e giudiziari e nella vita politica, economica ed educativa del Paese. Ci sono inoltre 31 deputate nel Parlamento, cioè il 12,4% dei seggi. Chi conosce bene la realtà siriana ricorda i risultati raggiunti dalla Siria in campo politico, economico e sociale, in particolare negli ultimi decenni. È chiaro che l’autore dell’articolo ignora che la Siria è un esempio unico al mondo di tolleranza religiosa e va fiera del fatto che il suo popolo abbia la maturità sufficiente per impedire a
Squali su Marte? Una pinna di squalo vista da molto vicino? Sbagliato! Quello che vedete è una duna formatasi all’interno del Proctor Crater, un enorme cratere situato sulla superficie di Marte. Le sfumature scure di questa “cunetta” secondo gli esperti, dipenderebbero dal tipo di sabbia di cui è composta, una finissima polvere basaltica di origine vulcanica
chi cerca di seminare i veleni della faziosità di realizzare i propri scopi.
L’Ufficio Stampa dell’Ambasciata della Repubblica Araba Siriana a Roma
Siamo lieti della magnifica condizione delle donne siriane. Quanto alla tolleranza, questa lettera
avrebbe potuto mostrarne di più con le altrui opinioni.
SCELTE CORAGGIOSE Il Pd, all’inseguimento disperato del nuovo, vuole candidare Prodi come sindaco di Bologna e De Luca come governatore campano: il rinnovamento è ben altra cosa. Salerno e Napoli sono diventate due città profondamente diverse tra lo-
ro; e la prima, anche se detiene il primato della pulizia, ha una situazione sociale critica per problematiche giovanili, legate alla droga e alla disoccupazione. Fino a quando non si capirà che il principio del rinnovamento è la successione a volti e moduli noti, con personaggi di fresca caratura, non si andrà molto lontano.
Giosella Ferro
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Sono una creatura ben misera in confronto a voi La mia vita mondana è segnata da tanto tempo, con precisione quanto può esserlo la vostra, e mi fa partire con una mano, a mo’ di paraocchi, su ciascun lato della testa, e con un dito che indica la direzione davanti agli occhi, per non parlare del terrore istintivo che ho che una certa frusta stia vibrando da qualche parte nei miei paraggi, pronta a colpire! Perciò spero questo sia prova del fatto che, innanzi tutto, sono una creatura ben misera in confronto a voi e che ho motivo, in virtù delle mie mancanze, di ammirarvi. Inoltre, verrò punito in modo eccessivo se, per questo episodio di mera avventatezza, mi priverete perlopiù del piacere di vedervi - e forse una gratitudine un po’ troppo turbolenta per tale piacere ha causato tutto il misfatto! Le ragioni che adducete per rimandare le mie visite sono troppo persuasive per metterle in discussione - è verissimo ed essendo d’ora in avanti animato da buoni propositi, mi piegherò subito e volentieri ad esse - ma se fossero state le vostra bontà e accortezza, come in parte sospetto, ad indurvi a prendere tale iniziativa, ora ridereste insieme a me di questa nuova e davvero inutile appendice ai timori nei miei confronti, che nel vostro caso avevo superato con tanto successo! Robert Browning a Elizabeth B. Barrett
ACCADDE OGGI
INFURIATI MA ANCORA CREDENTI Sono letteralmente infuriati i rappresentati militari dei marinai alla notizia dell’approvazione alla Camera del disegno di legge delega sui “lavori usuranti”. Ancora una volta il nostro personale è stato beffato da chi vuole negare il riconoscimento dello status di vittime del dovere ai marinai morti per amianto, nonché dei benefici previdenziali previsti. In particolare i rappresentanti militari stigmatizzano l’articolo 21 del ddl, presentato dal Senatore Saltamartini, ex sindacalista, che di fatto interpreta, ora per allora - ed era il 1955 - una legge che rilegge le responsabilità di un certo numero di vertici militari accusati di omicidio colposo dal tribunale di Padova, quale atto dovuto per i marinai deceduti per essere stati esposti sulle navi pregne di amianto. Tutto ciò a causa del parere con cui la commissione Bilancio della Camera, invocando una presunta mancanza di copertura finanziaria, ha pretestuosamente dichiarato non ammissibili gli emendamenti che chiedevano di equiparare le vittime militari per amianto alle vittime del dovere, con volontà bipartisan, da maggioranza e opposizione. Di fatto si è venuto a creare ancora una volta un’odiosa discriminazione tra vittime del dovere tutelate (quelle dell’uranio impoverito) e vittime di eguale dovere abbandonate a se stesse (quelle dell’amianto). Unica colpa di queste ultime, l’aver dimostrato il proprio rispetto per le istituzioni e non aver affidato quello che è il loro dramma alla
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
5 febbraio 1949 Negli Usa il rapporto Hoffman avanza critiche durissime circa l’utilizzo dei fondi del Piano Marshall da parte dell’Italia 1956 Terminano i VII Giochi olimpici invernali tenutasi a Cortina d’Ampezzo 1958 Una bomba atomica viene persa dall’aviazione statunitense al largo della costa di Savannah, non verrà mai recuperata 1961 Il Sunday Telegraph pubblica il suo primo numero 1962 Il presidente francese Charles De Gaulle richiede che all’Algeria venga permesso di diventare una nazione indipendente 1971 La navetta Apollo 14 sbarca sulla Luna 1988 Manuel Noriega viene indiziato per traffico di droga e riciclaggio di denaro sporco 1991 Una corte del Michigan mette alla sbarra il Dottor Jack Kevorkian per aver assistito dei suicidi 1994 Byron De La Beckwith viene condannato per l’omicidio del 1963 del leader dei diritti civili Medgar Evers
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
satira di Striscia la notizia. L’assurdità di tale situazione appare ancor più evidente se si considera che la copertura finanziaria - di cui è stata lamentata la mancanza - in realtà esiste ed è data dalle risorse stanziate dalla Legge 266/2005 (Legge Finanziaria 2006), in favore di tutte le vittime del dovere, senza distinzione tra esse; tenuto anche conto del fatto che la spesa effettiva non supererebbe il milione di euro all’anno; risultando, pertanto, nel contesto finanziario, assolutamente sostenibile. Siamo indignati dalla considerazione che le nostre vittime del dovere continuino nei fatti ad essere considerate di categoria inferiore. Alla compagine politica, che proprio con la legge in parola si vanta di aver riconosciuto la specificità per i militari, non ci resta che rispondere: «Grazie, a ma questo prezzo ne avremmo fatto anche a meno!». Siamo amareggiati in quanto da uomini delle istituzioni abbiamo creduto invano agli impegni formali anche scritti dei vari governi succedutisi in questi anni, mentre abbiamo visto casi presi a cuore dai politici solo se evidenziati all’opinione pubblica da trasmissioni televisive. Il nostro lavoro non si fermerà, anzi continuerà con più determinazione affinché anche coloro che soffrono per questa malattia e i parenti dei defunti di una morte atroce (per asfissia) possano essere tutelati e sostenuti, anche economicamente. Nonostante tutto, noi nelle istituzioni continueremo sempre a credere.
APPUNTAMENTI FEBBRAIO 2009 DOMANI, ORE 17, MESAGNE AUDITORIUM DEL CASTELLO Convegno Udc, “Sviluppo del Mezzogiorno ed Enti Locali”. Interverranno: Vito Briamonte, Angelo Sanza, Ignazio Lagrotta, Euprepio Curto, Massimo Ferrarese. Conclude: Ferdinando Adornato. VENERDÌ 26, ORE 11, ROMA PALAZZO FERRAJOLI Convocazione Consiglio Nazionale dei Circoli Liberal. SEGRETARIO
Cocer Marina
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
Direttore da Washington Michael Novak
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Collaboratori
Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,
Roberto Mussapi, Francesco Napoli,
Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
LE VESSAZIONI DEL CITTADINO (I PARTE) Siccome il famigerato computer di bordo manda da tempo minacciosi avvisi, prendo fra mille difficoltà, quasi fosse un problema di microchirurgia cardiovascolare, un appuntamento con la Carcomauto di Milano che mi aveva venduto il mio modesto mezzo. Mi chiamano poiché hanno finito. Mi viene presentato un conto da capogiro. Mi porgono come giustificativo un interminabile modulo a risposte multiple debitamente crocettato. Hanno trovato una serie di inconvenienti, due in particolare li hanno aggiustati, quindi portano anche la crocetta laterale, altri mi sembra di capire di no. Il costo dei due pezzi rotti e cambiati è circa di 120 euro, il conto totale di circa 600. Chiedo il perché e mi viene sottoposto un altro modulo lunghissimo in cui l’unica cosa chiara è il totale. Perché, invece di spiegarmi in modo chiaro ed esaustivo le condizioni effettive del mezzo e chiedermi se voglio o meno procedere alla spesa, precisando anche se ne valga la pena, mi rifilano un modulo di due pagine con le crocette su “rilevato” e “fatto”? Ora il problema della nostra società è che ha creato una sacco di procedure, a loro dire, per rassicurare il cittadino sulla trasparenza dei diversi step del processo produttivo. Il modulo di due pagine a crocette ne è un esempio. Io non ho dubbi che sia tutto perfetto dal punto di vista legale, perché il problema è proprio questo: la procedura formale ha sostituito il contenuto. Il fatto che sia stata seguita pedissequamente una procedura rende legale, e quindi buono e positivo, il contenuto, non si mette più in discussione se il contenuto invece fosse permeato di buon senso, di senso etico, di equità civica e quant’altro. La mera perfezione della procedura valida il contenuto! Attenzione! Lo stesso sistema si usa in mille altri ambiti, dalla sanità alla scuola, dai rapporti fra il cittadino e la pubblica amministrazione alla gestione dei rapporti giuridici nascenti dai contratti d’adesione più diffusi. È un effetto a cascata. La politica deve ritrovare il senso etico e il senso del dovere, forse dare alle procedure il loro effettivo valore e ridare al contenuto il giusto giudizio. Marina Rossi P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L C I T T À D I MI L A N O
Mario Arpino, Bruno Babando,
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
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John R. Bolton, Mauro Canali,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
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PAGINAVENTIQUATTRO Riletture. I “Sette pilastri della saggezza” e i “Ventisette articoli” alla base della nuova strategia Usa in Iraq
T. E. Lawrence, il maestro di Daniel Pipes n bell’articolo di Bertram Wyatt-Brown dal titolo Lawrence d’Arabia: Immagine e Realtà, pubblicato nel dicembre 2009 in The Journal of the Historical Society, ripercorre la fama di T. E. Lawrence (1888-1935) a un anno dal suo centenario, a partire dalle sue straordinarie imprese nel corso della Prima guerra mondiale e attraverso la celebre narrazione di quelle gesta narrate nel suo volume I sette pilastri della saggezza (edito nel 1926). Già nel 2006 mi era giunta notizia del lavoro svolto da WyattBrown sul ruolo avuto da Lawrence, quando questi ebbe un forte impatto sul corpo di spedizione Usa in Iraq. Wyatt-Brown si focalizza su una sintesi di 2800 parole delle lezioni imparate da Lawrence in guerra, pubblicata in The Arab Bulletin del 20 agosto 1917, e che reca il titolo estremamente modesto di I ventisette articoli. In essa, Lawrence offre le sue «personali conclusioni, raggiunte gradualmente mentre [egli] lavorava in Hegi\u0101z ed ora messe su carta come espedienti per principianti negli eserciti arabi». Egli aggiunge che le regole «sono destinate a essere applicate ai Bedu [beduini]; le popolazioni urbane o i siriani necessitano di un trattamento totalmente differente».
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I suoi consigli includono intuizioni del tipo: «Conquistate e mantenete la fiducia del vostro capo», «Siate riluttanti a stringere rapporti troppo stretti coi subordinati» e «Aggrappatevi al vostro senso dell’umorismo».Wyatt-Brown spiega il recente ruolo di questo documento arcaico e tenuto di poco conto: «Una rinnovata attenzione all’interpretazione militare data da Lawrence dell’insurrezione mediorientale potrebbe essere stata utile alla riforma della politica Usa in Iraq, una volta che il generale David Howell Petraeus assunse l’incarico. Secondo la giornalista Linda Robinson, prima di assumere quel comando, il generale aveva studiato di notte gli scritti di Lawrence. Egli prese nota delle difficoltà affrontate da Lawrence nell’organizzare i beduini. Petraeus fece leggere ai suoi alti ufficiali I ventisette articoli e I sette pilastri della saggezza (…).». La principale riforma in base agli ordini di Petraeus «è consistita nella condotta che ufficiali e soldati dovevano tenere verso i leader e i civili iracheni e nel fare delle alleanze armate con i sunniti disposti a rompere con al Qaeda (…). Ben presto Petraeus ha riconosciuto che la struttura della forza irachena affondava le sue radici nella politica tribale (…). Le politiche dovevano adattarsi all’organizzazione mediorientale (…)». Egli ha adottato un’importante pietra angolare dell’interpretazione di Lawrence delle strategie di guerriglia. Nell’Army War College di Fort Leavenworth, nel Kansas, Petraeus, David Kilcullen e altri strateghi hanno pianificato la nuova strategia lavorandovi instancabilmente, con le osservazioni di Lawrence a fornire un utile punto di partenza. Come fece lo stesso Lawrence, Petraeus si è servito dell’eccessiva distribuzione di denaro come lubrificante per instaurare delle ottime relazioni con i membri delle tribù irachene. Egli ha sposato altresì la massima di Lawrence: «Non provare a fare troppo con le tue mani» anche se si può assolvere il proprio compito meglio delle forze locali. Il generale l’ha riformulata così: «Il Paese ospite che fa qualcosa discretamente bene normalmente lo fa meglio di noi». «I ventisette articoli - scrive Wyatt-Brown - è diventato una sorta di Bibbia per gli odierni esperti militari Usa che affrontano
di PETRAEUS i problemi dell’occupazione e del controllo» dell’Iraq. A dire il vero Lawrence si è guadagnato il complimento di essere stato quasi plagiato senza un cenno di riconoscimento nel manuale di strategia contro-insurrezionale dell’esercito americano. Con Petraeus che firma la prefazione, il documento venne redatto a Fort Leavenworth nel 2005. Conrad Crane, uno storico del War College, e il tenente colonnello John A. Nagl erano a capo di un team di esperti. Quando la University of Chicago Press ne pubblicò un’edizione, questa ricevette un’ampia copertura che ne fece quasi un bestseller. Ma un considerevole numero di brani parafrasavano il lavoro di Lawrence, secondo l’antropologo Roberto Gonzalez.
Lo stesso Petraeus è stato ben disposto a riconoscere a Lawrence i meriti di averlo aiutato a sviluppare le sue idee sulle strategie di contro-insurrezione. Il generale fece notare in un articolo apparso sulla Military Review che la lettura di Lawrence gli aveva suggerito questo consiglio: «È la loro guerra, e tu sei disposto ad aiutarli, non a vincere per loro», un’idea, come ha dichiarato Petraeus, «importante nel XXI secolo come lo era a suo tempo in Medioriente durante la Prima
Il generale americano ha studiato di notte gli scritti dell’eroe d’Arabia. Ha preso nota dei problemi avuti con i beduini e che ora si ripropongono a Baghdad
guerra mondiale». Wyatt-Brown considera il cambiamento ispirato da Lawrence di estrema importanza, visto che forse salva «un numero enorme di vite americane e irachene». Ironia della sorte, «le intuizioni di Lawrence, anche se assai meno rilevanti, sono state più importanti nella politica di engagement [Usa] in Medioriente di quanto lo furono ai suoi tempi».
Egli attribuisce le profonde intuizioni di Lawrence sulla cultura tribale a diversi fattori: «Anni di formazione nello studio del Vicino Oriente, della sua storia e delle sue tradizioni», l’apprendimento dell’arabo colloquiale, l’aver visitato la regione nel 1909 e il fatto di aver percorso oltre 1.100 miglia perlopiù a piedi. Questi interessi, conclude Wyatt-Brown «sono stati il frutto del suo amore anticonvenzionale per i beduini e per il loro habitat». Io credo che percorrere in Medioriente «oltre 1.100 miglia perlopiù a piedi» costituisca un’invidiabile esperienza istruttiva in sé.Talvolta i grandi strateghi hanno inusuali e perfino eccentrici bagagli culturali. La cosa più difficile per un occidentale da imparare riguardo al Medio Oriente – ancor più della lingua araba – è il ruolo stabile della cultura tribale. Per un recente studio, si veda Culture and Conflict in the Middle East (edito Prometheus) di Philip Carl Salzman, un libro che raccomando vivamente. La tecnologia militare è talmente cambiata nel corso del secolo scorso che la guerra contemporanea appare completamente diversa dalla Prima guerra mondiale. Ma la dimensione umana non è certo cambiata; di conseguenza, un Clausewitz o un Lawrence mantengono la loro importanza.