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La libertà non sta nello scegliere

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tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta

Theodor W. Adorno

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 9 FEBBRAIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il vicepresidente del Csm ha lanciato l’idea di reintrodurre la norma (in vigore fino al 1993) ma con un quorum del 65%

Ritorna l’immunità: è giusto? Cinque presidenti emeriti della Corte giudicano la proposta Mancino Per la prima volta dopo Tangentopoli si fa concreta l’ipotesi di ripristinare lo “scudo parlamentare” proprio di tutte le democrazie.Sarebbe una svolta nel rapporto politica-giustizia.Ma non per tutti di Marco Palombi

ROMA. L’articolo 68 della Costituzione. Con paletti. Senza paletti. Nella forma pre 1993 o in ardite rivisitazioni. Ripassato nella padella delle Camere o bollito dal governo. L’immunità per i parlamentari, perché è di questo che si tratta, è l’ingrediente principale della ricetta in preparazione nella cucina della politica italiana. I segnali ci sono tutti: il percorso indicato – da sviluppare dopo le regionali di marzo ed entro i 18 mesi di tregua processuale regalati a Silvio Berlusconi dalla legge sul legittimo impedimento – è quello di procedere col concorso del Pd.

Capotosti: Sì, ma stop al lodo Alfano

Corasaniti: È il momento, torniamo alla Carta

Per Piero Alberto Capotosoti, recuperare l’immunità parlamentare «non è né semplicemente un ritorno al passato né un modo di chiudere Tangentopoli, ma la maniera migliore per risolvere un problema». A patto che la maggioranza non insista a riproporre il lodo Alfano.

Per Aldo Corsasanitiè il momtno di recuperare lo spirito dei costituenti: «La conoscenza, il sapere, consentono alla società umana di non perdersi».

Chieppa: Però si cambi la legge elettorale «L’immunità è il sistema migliore, tra i tanti in discussione in questi mesi. Perché è l’unico che garantisca trasparenza», dice il presidente emerito della Consulta, Riccardo Chieppa. «Ma parallelamente la politica deve assolutamente cambiare la legge elettorale».

a pagina 2

Marini: Niente quorum, maggioranza semplice «Lo ripeto da tempo: l’autorizzazione a procedere è la soluzione più corretta e logica», dice Annibale Marini.

Mirabelli: Ma l’Aula risponda in tempi certi Immunità sì, dice Cesare Mirabelli, come previsto dalla Costituzione del 1948. Ma con tempi certi in Parlamento. alle pagine 2, 3, 4 e 5

La scomparsa di un maestro

Un anno fa moriva Eluana

Antonio Giolitti, il Gran Signore della politica riformista

Sono troppe le vite spezzate dal deficit d’amore

Teheran verso l’11 febbraio

Un saggio del grande scrittore

Le sanzioni sono inutili: serve l’ostilità del mondo

Mao è ancora vivo e lotta contro la “banda dei Google”

di Gennaro Malgieri

di Gabriella Mecucci

di Ian Buruma

di Giuseppe Baiocchi

arebbe gravissimo se venisse confermato che alcune industrie italiane hanno venduto e continuano a vendere ancora oggi agli ayatollah, al culmine di uno scontro senza precedenti tra regime e popolo dal tempo dalla presa del potere di Khomeini. La notizia diffusa da numerosi siti iraniani, ha messo in allarme quanti si battono nel mondo per la libertà ed i diritti civili. a pagina 8

stato uno dei personaggi più lucidi e irregolari della sinistra italiana: costituente, riformista, cacciato dai comunisti e mai troppo amato dai socialisti. Uno di quei politici d’altri tempi che non ha mai piegato idee e valori alle opportunità. Antonio Giolitti, erede di una famiglia e una tradizione illustri, è morto ieri a Roma a 94 anni.Tutta la politica gli ha reso omaggio, a partire dal presidente Napolitano. a pagina 12

el 1661, Adam Schall, gesuita, missionario tedesco e astronomo alla corte dell’imperatore cinese, cadde vittima della gelosia dei mandarini e venne condannato a morte. Si salvò, ma l’atteggiamento difensivo dei mandarini, i quali videro nelle sue idee diverse una minaccia al proprio status, divenne un tema ricorrente nelle relazioni tra la Cina e il mondo. a pagina 14

ella vicenda di Eluana Englaro si è molto discusso, polemizzato, approfondito, talvolta imprecato, perfino mentito: si è anche pianto. A un anno dalla sua “morte deliberata”, non si è spenta con lei l’attenzione per un fenomeno diventato pubblico e che ha avuto comunque l’indubbio effetto di portare anche alla più vasta opinione l’inclinazione a riflettere sulle domande ultime, della vita e della morte. a pagina 18

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I QUADERNI)

• ANNO XV •

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26 •

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 9 febbraio 2010

prima pagina

La prima «convergenza» è tra Giulia Bongiorno e Luciano Violante

Sull’ipotesi Mancino destra e sinistra vanno alla trattativa di Marco Palombi

ROMA. L’articolo 68 della Costituzione. Con paletti. Senza paletti. Nella forma pre 1993 o in ardite rivisitazioni. Ripassato nella padella delle Camere o bollito dal governo. L’immunità per i parlamentari, perché è di questo che si tratta, è l’ingrediente principale della ricetta in preparazione nella cucina della politica italiana. I segnali ci sono tutti, il percorso indicato – da sviluppare dopo le regionali di marzo ed entro i 18 mesi di tregua processuale regalati a Silvio Berlusconi dalla legge sul legittimo impedimento – è quello di procedere col concorso del Partito democratico, come dimostrano i segnali, ancorché ondivaghi, di questi giorni. Sul “binario morto” indicato da Gianfranco Fini però, se il Cavaliere vuole l’accordo, deve finire anche il cosiddetto Lodo Alfano costituzionale, che non ha il placet dell’opposizione e rischia comunque di finire sotto la mannaia della Consulta. Domenica intanto, a sottolineare che il boccino della trattativa ce l’ha in mano il presidente della Camera, ci ha pensato via intervista al Corriere della Sera la frontwoman finiana in materia di giustizia, Giulia Bongiorno: «Preferisco evitare gli scontri - ha dichiarato - e quindi opterei per un’immunità rigorosa con alcuni paletti: un’immunità che marci parallela a una nuova legge elettorale, che non preveda coperture per i reati contestati prima dell’assunzione del mandato parlamentare, che renda giudicabile il soggetto al termine dei suoi incarichi». Ieri, significativamente su la Repubblica, il vicepresidente del Csm Nicola Mancino ha ripreso e allargato il discorso sull’articolo 68, peraltro con un esplicito «concordo con Fini». Si proceda con l’immunità, ha detto in sostanza l’ex Dc, ma prevedendo «una maggioranza qualificata oscillante tra il 60 e il 65% per respingere le richieste di autorizzazione dei magistrati», a cui va comunque data «la possibilità di portare avanti le indagini». Quanto ai paletti fissati dalla Bongiorno, Mancino è più perplesso: «Se si decide di introdurre una norma a tutela della funzione, non vedo come si possa fare la differenza tra reati commessi prima di essere eletti e reati commessi nell’esercizio della funzione parlamentare».

Inchiesta. Come sciogliere il nodo tra giustizia e politica

Sembra che l’unica vera “pregiudiziale” sia accantonare il «testo Alfano» (compreso il relativo referendum)

Quello del numero 2 del Csm è un vero inno al partito dell’amore, tanto da spingersi a definire “normale” anche la presentazione del Lodo Alfano costituzionale, escluso invece anche da quelli che nel Pd si stanno spendendo per la trattativa col centrodestra. Fa fede, in questo senso, l’intervista al Corsera di Luciano Violante, attualmente responsabile riforme del Pd: «Bene i paletti posti dall’onorevole Bongiorno sull’immunità parlamentare – spiega - che presuppone una nuova legge elettorale e una cornice di riforme costituzionali irrinunciabili, tra le quali la riduzione del numero dei parlamentari e il Senato federale». Ovvero, non a caso, la cosiddetta bozza Violante. Quanto al Lodo costituzionale, niente da fare: «Se la maggioranza insiste si andrà al referendum», avverte l’ex presidente della Camera, ovvero alla consultazione confermativa obbligatoria (e senza quorum) per le modifiche alla Carta votate con la sola maggioranza semplice. Su questa eventualità Antonio Di Pietro ha ovviamente già iniziato il consueto battage pubblicitario: «Io sfido Alfano: andiamo al referendum e mi gioco la testa che la maggioranza degli italiani la pensa come me». Ingredienti e ricetta, come detto, sono già scritti. Resta da definire, come ogni volta, l’orientamento del corpo politico attorno cui ruota questo balletto, convitato di pietra, per così dire, senza allusioni alla statuetta del Duomo: Silvio Berlusconi e i suoi corifei, infatti, tacciono. Il Cavaliere non ha ancora deciso se dare retta al diavoletto buono o a quello cattivo, vuole garanzie certe di salvezza dai processi e per il momento aspetta perché può farlo. Poi, arrivato il momento giusto, lascerà mano libera al diavoletto cattivo.

Immunità, il tabù deve cadere? Rispondono a liberal cinque presidenti emeriti della Corte Costituzionale a cura di Franco Insardà, Errico Novi, Riccardo Paradisi utto cominciò con Mani pulite. L’immunità parlamentare, prevista dalla Costituzione italiana come da un po’ tutte le leggi fondative d’Occidente, fu cancellata nel 1993 sull’onda dell’indignazione popolare provocata dalla scoperta di un sistema di tangenti, favori e poteri che sostanzialmente aveva finto per autoassolversi continuamente. Perché l’immunità parlamentare italiana prevedeva che la magistratura dovesse chiedere (e ottenere) l’autorizzazione a procedere contro un parlamentare, prima di poter indagare su di lui. E la giunta per le autorizzazioni a procedere raramente aveva concesso spazio alle indagini. Ebbene, con Tangentopoli questo “ombrello” parlamentare si chiuse e oggi la magistratura si ferma solo di

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fronte all’arresto dei parlamentari, per ottenere il quale deve essere autorizzata dal Parlamento. Ma si riparla di immunità parlamentare, di riformare quell’istituto di garanzia: A rilanciare il sasso nello stagno è stato niente meno che Nicola Mancino, vicepresidente del Csm, lo stesso che nel 1993 firmò la cancellazione dell’immunità. Liberal ha chiesto a cinque illustri costituzionalisti, cinque ex componenti della Consulta, di valutare questa opportunità, per capire se siamo di fronte a un nuovo colpo di spugna che il solo compito di “difendere” il premier dai suoi processi o c’è un problema di autonomia della politica dalla magistratura e quindi se è arrivato il momento di chiudere definitivamente la stagione di Tangentopoli.


prima pagina PIERO ALBERTO CAPOTOSTI

«Sì, ma la maggioranza blocchi il Lodo Alfano»

«Né ritorno al passato né fine di Tangentopoli, solo un modo per risolvere un problema» ROMA. «Mi fa piacere che l’idea proposta dal vicepresidente del Csm Nicola Mancino sull’autorizzazione a procedere sia analoga a quella che ho proposto qualche settimana fa dalle colonne del Corriere della Sera». Per il presidente emerito della Corte Costituzionale Piero Alberto Capotosti è questa la strada maestra per uscire dalla fase di stallo in cui si trova il nostro Paese, bloccato dal sempre più difficile rapporto tra politica e magistratura e «non si tratta - chiarisce Capotosti - né di un ritorno al passato né di un modo di chiudere Tangentopoli, ma di risolvere un problema, non solo italiano, che crea frizioni tra questi due poteri». La reintroduzione dell’autorizzazione a procedere può essere una soluzione perché si tornerebbe allo spirito e alla lettera della Costituzione. Tale proposta significherebbe «un ritorno a situazioni già disciplinate dai Padri costituenti, le quali rientravano nell’equilibrio complessivo dei rapporti tra magistratura e politica, ed è naturalmente da introdurre con legge costituzionale. In definitiva si tratta di recuperare l’idea forte che riguarda proprio l’equilibrio tra i due poteri: da un lato la magistratura garantita nella sua autonomia e indipendenza dal Csm e, dall’altro lato, i parlamentari garantiti attraverso vari meccanismi tra cui l’insindacabilità delle opinioni espresse e i diversi tipi di autorizzazioni a procedere che dovevano proteggere i membri del Parlamento da eventuali azioni che potevano rivelare un intento persecutorio da parte di qualche magistrato. Questa posizione di equilibrio si è rotta con l’abrogazione dell’autorizzazione a procedere, avvenuta nel 1993, sotto la spinta della reazione popolare al fatto che il Parlamento non concedeva allora quasi mai tali autorizzazioni.

La Carta costituzionale del ’48, oltre a una una serie di prerogrative per i parlamentari, prevedeva anche che i reati commessi dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni fossero giudicati dalla Corte costituzionale». Oggi, secondo il presidente Capotosti, è opportuno ripensare a quella norma, ma con alcuni aggiustamenti determinati soprattutto dalla presenza di un sistema maggioritario bipolare diverso dal proporzionale che era in vigore quando fu pensata la Costituzione. «Il maggioritario – sostiene Capotosti – impone la necessità di un quorum alto, che fughi i dubbi e la possibilità che l’istituto possa trasformarsi in una impunità, la quale potrebbe derivare dalla tendenza della classe politica a difendere i propri appartenenti. D’altro canto anche il Consiglio Superiore della Magistratura viene spesso accusato di proteggere i magistrati. Un ulteriore paletto da introdurre all’autorizzazione a procedere potrebbe essere costituito dal silenzio assenso, per obbligare, in qualche modo, la Camera di appartenenza dell’indagato a decidere in tempi brevi sulla richiesta di autorizzazione, perché altrimenti il procedimento andrebbe comunque avanti. Si potrebbe infine prevedere la possibilità per il parlamentare messo sotto inchiesta di presentare le proprie deduzioni difensi-

ve, così da consentire una forma di giudizio preventivo davanti alla Camera di appartenenza». Questi potrebbero essere, in particolare, i correttivi «per un ritorno al vecchio sistema, che non costituisce un’innovazione come il lodo Alfano, bensì un richiamo allo spirito dei Costituenti. Bisogna anche considerare che i parlamentari, per il lavoro che svolgono e per la funzione di rappresentanza della Nazione che la Costituzione attribuisce loro, go-

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dono di una serie di prerogative per esplicare con la massima libertà il loro mandato. D’altra parte l’autorizzazione a procedere è un istituto previsto in tutto il mondo, a partire dall’Inghilterra del Settecento allo Statuto albertino, al Parlamento europeo». Secondo il presidente Capotosti con la reintroduzione dell’autorizzazione a procedere non avrebbe più senso pensare a un lodo Alfano «né in veste semplice, né costituzionale».

RICCARDO CHIEPPA

«Però si cambi anche la legge elettorale» «L’immunità è il sistema migliore, tra i tanti in discussione: l’unico che garantisca trasparenza» ROMA. «Se c’è un nodo strutturale, si potrebbe dire ontologico, rispetto alla necessità indiscutibile per la politica di avere uno scudo rispetto alle vicende giudiziarie, esso sta nella credibilità della classe politica stessa». Lo ricorda il presidente emerito della Consulta Riccardo Chieppa, in carica nel biennio 2001-2002: «Ai dibattiti di questi giorni credo che sarebbe molto utile il recupero delle tesi di Giuseppe Maranini. Sul suo pensiero si è riflettuto molto, anche negli anni successivi alla sua scomparsa; e si sono celebrati convegni commemorativi intorno ai suoi discorsi pre-

monitori sulla partitocrazia. Ebbene, in quei convegni, soprattutto nella Prima Repubblica, non si è mai mancato di ricordare come Maranini si battesse contro l’uso furbesco dell’immunità parlamentare. In passato si è fatto ricorso a espedienti di ogni tipo, per esempio alla calendarizzazione diciamo così posticipata dei voti sulle autorizzazioni a procedere, che venivano fatte slittare il più possibile verso il finire della legislatura, tanto è vero che il 70 per cento non veniva neppure esaminata».

Ecco, se c’è un segno nuovo che il Parlamento deve dare per giustificare il ritorno all’immunità per i propri componenti è appunto in questo contegno, doveroso che in qualche modo faccia dimenticare la circostanza eccezionale dei primi anni Novanta, quando il dei numero parlamentari indagati era così alto da pregiudicare l’obiettività delle valutazioni dell’aula. Così a questo punto, dice

Chieppa, «le eventuali modifiche alla Costituzione sul punto dell’immunità sono interdipendenti con le possibili modifiche alla legge elettorale». E non può che essere così: non è un caso che di questo particolare aspetto abbiano parlato nelle ultime ore due autorità in materia di giustizia del Pdl e del Pd, Giulia Bongiorno e Luciano Violante: come potrebbe essere credibile una Camera composta da deputati o senatori nominati più che eletti, nel momento in cui dispone di non procedere contro un suo membro? Non prevarrebbe un’odiosa sensazione di immunità di casta, giacché i componenti di quella camera fanno parte di poche cordate politiche? «C’è indubbiamente il problema del voto di preferenza - conferma il presidente emerito della Consulta - anche se è il meccanismo elettorale nella sua interezza che andrebbe rivisto. Certo siamo di fronte a uno degli elementi di credibilità fondamentali per il Parlamento».

Ed è a questo punto del ragionamento che Chieppa ricorda i contributi di Maranini su simili argomenti. C’è da chiedersi naturalmente se nei diciassette anni trascorsi dalla modifica dell’articolo 68 siano maturate condizioni sufficienti per tornare sulla questione. Andrebbe chiarito cioè se oltre alla condizioni tecnico-formali – la modalità di elezione di deputati e senatori, appunto – la stagione di Mani pulite abbia fatto compiere dei passi in avanti alla classe politica, tali da scongiurare un uso improprio e corporativo dell’immunità. Quello che è chiaro al presidente Chieppa è che «l’immunità è una via percorribile, migliore di tante altre che hanno creato confusione: rispetto a strumenti diversi adottati in questi anni garantisce di certo una maggiore trasparenza. Abbiamo assistito a troppe incongruenze, derivate appunto dalla complessità che las questione delle coperture della politica richiede. Ci sono stati imbarazzi sia per i partiti che per la magistratura. Credo che con l’immunità si sarebbero evitati anche alcuni errori della Corte». Ma su questo punto Chieppa tiene a non essere frainteso: «È chiaro che le responsabilità a riguardo sono tutte chiaramente imputabili alla politica. E un nuovo equilibrio può essere trovato solo dal Parlamento». Come dire: storicizzata una volta per tutte la stagione che portò alla modifica dell’articolo 68, dev’essere la politica a evitare che si ceino le condizioni dalle quali derivò quella decisione obbligata.


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ALDO CORASANITI

«È il momento di tornare alle regole della Carta» «L’obiettivo primario, oggi, è recuperare serenità nel rapporto tra politica e ordine giuridico»

ROMA. Quanto tempo perduto, quanti ritardi e quante lentezze, nell’evoluzione del sistema istituzionale, sono legate alla sostanziale incomunicabilità a cui si è assistito in questi ultimi venti anni tra il ceto politico e la magistratura? Dalle parole di Aldo Corasaniti si ricava che quell’ostacolo è stato decisivo: «Io sono convinto che la conoscenza, il sapere, se utilizzati al fine di risolvere davvero i problemi, consentono alla società umana di non perdersi». Il giurista di origini calabresi è stato alla guida della Corte costituzionale nel biennio 19901991, proprio alla vigilia dell’esplosione di Tangentopoli, che a sua volta portò alla modifica dell’articolo 68 con la sostanziale soppressione dell’immunità parlamentare. Conosce bene quindi il contesto all’interno del quale fu compiuta quella scelta: «Mi limito a rilevare che l’immunità per i membri delle Camere esisteva già nella Carta costituzionale del 1948 e che poi l’abbiamo abbandonata». Con un grosso errore che ha portato alla compromissione dei rapporti tra politica e magistratura. «Lo hanno già detto in molti. Siamo stati noi, come italiani, intendo, ed eredi dei padri costituenti, a decidere di abbandonare l’immunità».

La priorità oggi, per Corasaniti, è proprio il recupero di sereni rapporti tra il potere politico e l’ordine giudiziario. «Ed è la strada che indica con straordinario equilibrio il presidente della Repubblica. Seguo con grade attenzione e apprezzamento tutte le sue scelte e le decisioni che assume nelle delicate circostanze in cui si è trovato in questa legislatura. Sento di dovergli fare i complimenti, e di doverne anche ai suoi consulenti giuridici. Peraltro credo che non ne avrebbe nemmeno bisogno, considerato quanto è attento e saggio nelle sue valutazioni». Insomma, in capo a molti anni dominati da «incomprensioni e soprattutto da ignoranza», il presidente emerito Corasaniti ritiene

che la strada di una vera pacificazione istituzionale sia stata imboccata proprio grazie a un Capo dello Stato che «si è sempre comportato benissimo, senza faziosità». Ed è chiaro che un clima di rispetto reciproco, così come è stato auspicato sia dagli interventi del vicepresidente del Csm Nicola Mancino che dalle relazioni delle alte magistrature all’inaugurazione dell’anno giudiziario, ebbene quel clima è il miglior presupposto perché si possa tornare alla “normalità” degli equilibri costituzionali. All’immunità per gli eletti, dunque, ma, dall’altra parte, «anche alla partecipazione dei magistrati alla vita politica: non dimentico le critiche ricevute per aver scelto di candidarmi al Parlamento nel 1994. Mi è stato contestato di utilizzare impropriamente la mia estrazione di magistrato. E invece io ritengo che sia assolutamente possibile consentire a un giudice di svolgere attività politica, sempre che non si avvalga del suo passato professionale in modo improprio».

Corasaniti si riferisce a qualcuno in particolare? «Non mi farà mai fare un rilievo così specifico nell’ambito di una semplice intervista. Dico solo che l’ignoranza, la rozzezza, la stessa difficoltà nel-

l’usare un linguaggio corretto, comprensibile, sono all’origine di tante questioni negative degli ultimi anni». Non si può negare anche «l’incidenza della legge elettorale». È corretto, dice Corasaniti – che nel ’94 entrò in Parlamento facendosi eleggere in un collegio e non per cooptazione in una lista – pensare «a una revisione del sistema di voto, proprio per evitare che si crei un brodo di coltura fertile per la partitocrazia. Bisogna fare in modo da ripristinare un rapporto diretto tra eletti ed elettori, in modo che tutte le decisioni assunte dal Parlamento, compresi i voti sull’immunità, possano essere presi nel pieno rispetto della sovranità popolare, e non in nome di meccanismi, di accordi, che avvengono nel sostanziale dispregio di quel principio fondamentale. I problemi si possono risolvere se ci liberiamo dell’ignoranza, che è la causa delle incomprensioni e il maggior ostacolo alla soluzione dei problemi».

ANNIBALE MARINI

«Niente quorum, maggioranza semplice» «Il Parlamento dovrebbe avere un atteggiamento laico e decidere non in base all’appartenenza» ROMA. «Lo ripeto da tempo l’autorizzazione a procedere è la soluzione più corretta e logica. Non a caso introdotta nella nostra Costituzione, che non può essere assolutamente tacciata di contraddire il principio di uguaglianza tra i cittadini». È questo il giudizio netto del presidente emerito della Corte costituzionale, Annibale Marini. Che ci tiene a precisare: «Non si deve parlare di immunità, ma di autorizzazione a procedere intesa come uno scudo contro una attività giurisdizionale che aveva un carattere persecutorio. Infatti se non ci fosse stato alcun fumus persecutionis il Parlamento avrebbe dovuto concedere l’autorizzazione: purtroppo non sempre è accaduto. E ne è derivata spes-

so una degenerazione e un uso distorto, che ha spinto i cittadini a confondere questa guarantigia con l’immunità, tanto che è scaturita una reazione dell’opinione pubblica che rimanda al clima di Tangentopoli. Ci siamo trovati di fronte a un eccesso di demagogia che ha prodotto risultati molto negativi. Quindi ritengo che la proposta del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Nicola Mancino, vada senz’altro sottoscritta. Perché i ritorni al passato non sono sempre negativi, in questo caso poi lo ritengo molto opportuno e positivo per contribuire a far decantare le tensioni che contraddistinguono il dibattito politico».

Il presidente Marini ribadisce che l’autorizzazione a procede-


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CESARE MIRABELLI

«Va bene, ma il Parlamento risponda in tempi certi» «Lo scudo era già nella Costituizione nel 1948: ora è arrivato il momento di ripristinarlo» e la politica lo ritiene, può approntare uno scudo ancor più robusto del lodo Alfano: sarebbe sufficiente ripristinare l’immunità parlamentare nella Costituzione così come è stato fino agli anni Novanta». Il presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli è su questa posizione da tempo. «La valutazione politica sull’immunità parlamentare è naturalmente soggettiva, si può essere favorevoli o contrari a questa norma, la valutazione della fattibilità è però comunque positiva. L’immunità parlamentare era, come è noto, già nella costituzione del 1948, è venuta meno come sappiamo bene negli anni Novanta, per l’uso distorto che ne era stato fatto. Il ripristinarla, con gli aggiustamenti dovuti, è dunque un percorso corretto e adeguato in vista della soluzione dei problemi che vengono politicamente segnalati». Ma quali dovrebbero essere queste modifiche rispetto alla vecchia immunità parlamentare? «Per esempio – dice Mirabelli – la possibilità di una valutazione suscettibile al giudizio della magistratura in cui si ritenesse di sollevare un conflitto palese con essa. Un silenzio assenso del parlamento che delibera il fumus persecutionis e che costituirebbe l’assunzione di una responsabilità politica e giuridica dell’avallo di immunità». Infine il fattore tempo: «Il Parlamento si deve pronunciare sul caso in esame in un tempo determinato, prima invece i casi suscettibili di immunità stazionavano indefinitamente. Si inverte la procedura. Viene comunicata l’iniziativa penale e il Parlamento può deliberare che si sospenda l’azione che riprende con il cessare della legislatura».

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re è un istituto che non contrasta affatto con il principio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. «Tanto è vero che è prevista anche in altri ordinamenti. Serve a garantire la classe politica da quella che può essere un’interferenza indebita dell’autorità giudiziaria, a creare quella separazione tra i due poter, a consentire il corretto funzionamento delle istituzioni. Se da un punto di vista formale può apparire un ritorno al passato è, invece, un modo di ripensare l’opportunità di separare il potere giudiziario e quello politico per il corretto funzionamento delle istituzioni».

Marini non è d’accordo, invece, che si debba prevedere un quorum alto per poter concedere l’autorizzazione a procedere: «È una partenza sbagliata, perché il giudizio del Parlamento dovrebbe essere oggettivo e non politico. Occorre un atteggiamento laico e di fidu-

cia. La maggioranza non può fare quello che vuole, ma deve concedere l’autorizzazione nel caso in cui ci siano le condizioni perché il magistrato vada avanti con l’azione penale. Non si tratterebbe né di una pronuncia di condanna né della concessione di un’immunità». La proposta lanciata dal vicepresidente Mancino consente una riflessione più generale su tutta la vicenda che riguarda i rapporti tra magistratura e politica. E rimette in discussione anche tutti i provvedimenti approvati e in itinere che sono sul tappeto. «Il nostro Paese – aggiunge il giurista – deve affrontare una serie enorme di problemi economici e sociali. Quindi sarebbe opportuno affrontare e devitalizzare il nodo giustizia. Ma questo passa attraverso la distinzione tra il legittimo impedimento e il lodo Alfano. Quest’ultimo, in buona sostanza, potrebbe avere una sua ratio nel concedere una sospensione

dei processi al presidente del Consiglio e a quelli dei due rami del Parlamento, per permettere loro di svolgere serenamente le loro funzioni».

Secondo l’ex presidente della Consulta «il nostro sistema democratico ha in se gli strumenti per risolvere le situazioni più complicate», come dimostrano i casi di dimissioni delle più alte cariche dello Stato. «Dovrebbe comunque essere una misura eccezionale, circoscritta a quelle tre cariche. Sul legittimo impedimento, invece, ho molte perplessità dal momento che un corretto funzionamento delle istituzioni e della giustizia potrebbe o dovrebbe rendere inutile questa normativa». E poi c’è la strada del buon senso. «Visti i tempi medi dei processi sia in ambito penale sia in quello civile non sarebbe un grosso scandalo che si rinviasse, nell’interesse generale e in presenza di un effettivo impegno, un processo a carico di una carica dello Stato. Fermo restando che la misura più corretta e opportuna per superare questo impasse è quello dell’autorizzazione a procedere».

L’obiezione che viene fatta rispetto al ritorno dell’immunità parlamentare prevista dalla Costituzione è che quello attuale, in virtù di una particolare legge elettorale, sarebbe un parlamento di nominati più che di eletti. «Obiezione – dice Mirabelli – che si potrebbe soddisfare prevedendo una maggioranza qualificata per concedere l’immunità come ora accade per l’amnistia o l’indulto. D’altra parte quando

si tratta di trovare un meccanismo attuativo i mezzi correttivi si trovano sempre, soprattutto se si intende percorrere la via lineare del ritorno all’immunità parlamentare, la via retta rispetto alle vie tortuose che si sono finora ipotizzate». Ma è interessante considerare anche la riflessione di fondo di Mirabelli: «Nel fondo di questi annosi problemi c’è anche una distorsione di quella che dovrebbe essere la normale o fisiologica durata dei tempi penali. Insomma, se il giudizio avvenisse in tempi ragionevoli e rapidi il dibattito e la polemica politica s’accenderebbero alla verifica dell’iniziativa legale non al suo principio. Ecco, se non avessimo questa distorsione strutturale questi problemi si appianerebbero molto. Se la cultura complessiva desse rilievo non all’atto dell’accusa ma al giudizio, si farebbe molta economia di polemica dannosa anche per le istituzioni. Se le risposte della giustizia fossero sollecite verrebbe meno una parte dei problemi, verrebbe meno la drammatizzazione dell’iniziativa rispetto al momento del giudizio».

Ma perché l’Italia ha tempi così lunghi per la giustizia? «Agiscono molti fattori, da quelli specificamente organizzativi a quelli che rientrano nel capitolo di mancanza di risorse che effettivamente sono scarse. Ma se si chiedono maggiori risorse ci si deve anche preoccupare che la loro destinazione non sia vanificata dalla disorganizzazione. Chiedere maggiori risorse insomma è una risposta parziale. Maggiori risorse si, ma finalizzate e organizzate. Nella nostra cultura invece c’è l’idea che con le sole norme si modificano le situazioni. Poi quello che accade, l’organizzazione attuativa non appassiona più, mentre è un elemento decisivo sulla attuazione delle regole». Tornando alle leggi finalizzate a sanare il conflitto tra poteri dello Stato, Mirabelli aggiunge che «Se questa situazione inducesse tutti senza chiusure pregiudiziali a discutere dei problemi della giustizia in modo completo e organico senza escludere nessuna soluzione, con le menti sgombre da interessi politici o di corporazione, si potrebbe trovare una linea ragionevole».


diario

pagina 6 • 9 febbraio 2010

Sfide. Infrastrutture, fisco e burocrazia: i casi Fiat e Alcoa dimostrano quanto sia poco attrattiva l’Italia per gli stranieri

2010, multinazionali in fuga

Marcegaglia: più risorse per le grandi opere. Matteoli: già fatto ROMA. La Fiat deve abbando-

di Francesco Pacifico

nare Termini Imerese per la mancanza di strade, autostrade e ferrovie. L’Alcoa vuole scappare da Portovesme e Fusina perché l’elettricità in Italia costa il 30 per cento in più rispetto agli altri Paesi europei. E chissà quante saranno, dopo quelle di “Detroit” e di Pittsburgh, le multinazionali in fuga dal Belpaese.

Nota l’economista Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni: «Gli investimenti esteri vengono attratti quando il capitale è ben formato, il diritto certo e le tasse basse. Va da sé che sotto questi aspetti l’ambiente in Italia è dichiaratamente inospitale. Allora perché meravigliarsi che multinazionali come Alcoa e la Fiat – per nostra e loro fortuna lo è divenuta – inizino proprio dal Belpaese a tagliare i rami secchi?». Entro giovedì il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, vuole trovare un’intesa con il colosso dell’acciaio, ma le vertenze finite sul suo tavolo rischiano di aumentare. La Glaxo, uno dei nomi più pesanti del Big Farma ha deciso di chiudere il centro di ricerca di Verona, disfacendosi di 500 addetti e smisurate conoscenze nel campo delle scienza neurologiche. Anche La Yamaha è pronta a fare a meno dello storico impianto di Lesmo, in Brianza, per andare in Spagna. Poco più in là i vertici di Nokia Italia hanno deciso spostare le attività di ricerca di Cinisello Balsamo a Dallas. La russa Severstal ha invece messo all’asta gli stabilimenti

poche parole, distribuiscono ricchezza. Alberto Mingardi si chiede se, di fronte a questo scenario, «ci sia ancora qualcuno che ha il coraggio di sostenere che piccolo è bello anche perché non può scappare all’estero. Come dicono gli anglosassoni, la Fiat di Termini Imerese e l’Alcoa di Portovesme rientrano nella tipologia di quegli incendi che aspettano soltanto di scoppiare». Nella parte italiana dell’indice della libertà economica elaborato dal Heritage Foundation

Anche Glaxo, Yamaha e Nokia minacciano di andare via. E così si perdono know how, investimenti in ricerca e commesse alle Pmi italiani un tempo del re del tondino, Luigi Lucchini. Questa fuga dall’Italia non ha soltanto ripercussioni in termini occupazionali. Pur rappresentando soltanto il 16 per cento del nostro Pil (nelle economie più sviluppate il dato è almeno doppio) le imprese portano know how e applicano quelle best practies di responsabilità sociale che i nostri campioni nazionali si rifiutano di seguire: investono in ricerca, garantiscono commesse alle Pmi, introducono livelli migliori di formazione continua per il personale. In

e dal Wall Street Journal, proprio l’istituto Bruno Leoni ha indicato con chiarezza quali sono i ritardi del Belpaese, che gioco forza si traducono in gap di competitività. Secondo il rapporto si scontano una scarsa libertà fiscale, una diffusa corruzione, l’impossibilità dello Stato di investire a fronte di debito pubblico esorbitante, la difficile tutela dei diritti di proprietà. E fortuna che i pacchetti di liberalizzazione imposti agli Stati membri dall’Unione europea hanno ridotto i costi nei servizi e nella logistica o am-

Scajola richiama Fiat a maggiore chiarezza

«Dieci offerte per Termini» ROMA. Dal Messico, dove Sergio Marchionne ha presentato gli impianti per la nuova 500 di Toulon, l’Italia sembra più lontana. Ma al suo rientro l’Ad di Fiat troverà una situazione incandescente. La sua controparte nella vicenda di Termini Imerese, il ministro Claudio Scajola, ha richiamato l’azienda torinese a maggiore responsabilità e chiarezza. Anche perché la vicenda siciliana segue di pari passo un’altra vertenza, quella di Alcoa a Portovesme, con il governo che spera di trovare un accordo all’incontro di giovedì con gli americani. La richiesta neppure tanto tacita a Marchionne è di non porre ostacoli alla riqualificazione dell’area, perché «abbiamo per lo stabilimento siciliano 8/10 offerte, che al ministero dello Sviluppo Economico stiamo valutando e che presenteremo il 5 marzo al tavolo dell’auto per valutare quale migliore di esse possa garantire i posti di lavoro». Al riguardo il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, fa sapere che «alcune delle proposte che sono giun-

te al ministero sono degne di attenzione».

Eppure la cosa non sembra tranquillizzare i 3mila lavoratori, che anche ieri hanno proseguito la loro protesta nel più famoso centro industriale dell’Isola. Fiom, Fim, Uilm e Ugl hanno tenuto per tutta la giornata a

Termini Imerese assemblee con gli operai dello stabilimento e delle aziende dell’indotto per informare i metalmeccanici sull’andamento del tavolo al ministero dello Sviluppo Economico. Il leader Cisl Raffaele Bonanni ha invece denunciato «un silenzio assordante sul piano industriale della Fiat per tutti i siti. Prima si chiude questa vicenda e meglio è».

pliato la concorrenza sul versante finanziario. Ma al riguardo ancora più emblematico lo scontro a distanza tra il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, e il ministro competente Altero Matteoli, sul deficit infrastrutturale italiano. Da Milano, ospite della mobility Exibition 2010 di Assolombarda, l’imprenditrice mantovana ha sottolineato che gli investimenti nelle grandi opere«dal 2005 a oggi sono calati. Serve una maggior dotazione di finanza pubblica, anche se alcune cose sono state fatte dal governo così come è necessario cambiare la burocrazia e le modalità di decisione, soprattutto di gestione del consenso, perché ancora oggi opere fondamentali vengono bloccate dai comitati del no». Da qui le proposte di dotare di veri poteri i commissari straordinari, di semplificare le norme di autorizzazione e incentivare i fondi privati e il project financing». Parole che hanno fatto imbufalire Matteoli, a Genova per lanciare l’agognato Terzo Valico: «Si può fare di più e di meglio e ci proveremo, ma ho la sensazione che la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, abbia visto un altro film».

Se andrà in porto la trattativa tra il governo e l’Alcoa non basterà soltanto un decreto per scontare le tariffe dell’energia nelle isole. E non saranno certamente i soldi, i fondi pubblici, a tenere in Italia colossi come la Glaxo, la Nokia e la Yamaha. Anche perché seppure Giulio Tremonti si convincesse ad aprire i cordoni della Borsa, interverrebbe l’Europa a bloccare lo stanziamento degli aiuti. Di conseguenza sarebbe più utile guardare gli errori del passato e riprendere quelle riforme abbandonate dalla crisi, perché portano benefici soltanto nel medio e lungo termine, mentre sono accompagnate nell’immediato da forti ripercussioni sociali. Intanto le liberalizzazioni, per non parlare di un welfare che dà ai padri e non ai figli. «Il punto», conclude Mingardi, «non è soltanto rafforzare gli attuali ammortizzatori sociali o accompagnare i lavoratori alla pensione. Si deve dare la possibilità al lavoratori di ricollocarsi e di riqualificarsi indipendentemente dalle crisi».


diario

9 febbraio 2010 • pagina 7

A Palermo, nuove “rivelazioni” del figlio di Don Vito

Benedetto XVI annuncia una lettera sui casi in Irlanda

«La mafia volle Forza Italia», secondo Ciancimino

Minori: il Papa contro gli abusi della Chiesa

PALERMO. Massimo Ciancimino è tornato nell’aula bunker dell’Ucciardone a Palermo per deporre nel processo in cui l’ex comandante del Ros, Mario Mori, e l’ex colonnello Mauro Obinu sono imputati di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995 dopo le segnalazioni di un confidente. Ciancimino ha portato con sé vari documenti per consegnarli al pm, e anche un passaporto intestato a suo figlio dieci giorni dopo la nascita, e del quale aveva parlato nella precedente udienza sostenendo che il documento gli venne rilasciato grazie a «Franco», un agente dei servizi segreti ancora non identificato.

Durante la sua deposizione, Ciancimino ha dichiarato che «Forza Italia è il frutto della trattativa tra lo Stato e Cosa nostra dopo le stragi del ’92». A riferirglielo sarebbe stato il padre Vito Ciancimino, che secondo il figlio avrebbe avviato dopo il maggio del 1992 la trattativa con i Carabinieri da un lato e i boss mafiosi dall’altro. L’argomento è stato affrontato dal teste nel corso della spiegazione di un pizzino, depositato agli atti del processo, e che a suo dire sarebbe stato indirizzato dal boss Bernardo Provenzano a Silvio Belusconi e Mar-

CITTÀ

E adesso i leghisti temono «MacZaia» I Lumbàrd contestano l’ascesa del leader veneto di Angela Rossi

ROMA. Difensore ad oltranza dei prodotti alimentari nostrani, paladino dello spumante italiano, autore del cosiddetto “frigo della vergogna”presentato al Costanzo show e contenente numerosi prodotti falsificati e venduti all’estero come nazionali e infine, ma solo in ordine di tempo, l’invento del McItaly; il panino stile Mc Donald ma farcito esclusivamente con formaggio italiano di primissima qualità. È la sintesi, approssimata per difetto, dello sfrenato attivismo del leghista Luca Zaia; candidato a Governatore della Regione Veneto. Portatore di una capacità mediatica non comune, l’ambizioso Zaia che da vice governatore del Veneto è diventato ministro ha ottime probabilità di guidare la sua regione. In realtà una sua vittoria riuscirebbe a realizzare il sogno incompiuto della Lega che, seppur per via informale, così riuscirebbe ad avvicinarsi alla sospirata e mai archiviata idea di secessione, visto che con il decentramento la guida di una regione diventa estremamente importante e punto nodale di azione. Insomma, per questa strada Zaia avendo tutte le carte in regola per aspirare a sedere in futuro sul trono che oggi è di Bossi - è diventato o no un personaggio scomodo, troppo ingombrante nella nomenclatura della Lega? È vissuto o no come la bestia nera (veneta) dei Lumbard? Quanto è temuto dai leghisti lombardi per le sue capacità di gestire la propria immagine e per la sua versatilità?

ni e tanti altri. Massima collaborazione – conclude - con il Veneto e con Zaia che è più che in gamba ed ha la stima di tutti. Non esiste rivalità ma solo sana competizione». Alla Provincia di Varese la musica è la stessa. Zaia dovrà fare i conti, se ambizioni in questo senso coltiva, con la linea di ferro opposta dalla Lombardia verso il Veneto che pare decisa a non lasciare passare nessuno che non sia lombardo doc. Secondo il presidente della Provincia di Varese, Dario Galli: «Zaia è un ottimo candidato – dichiara – per la presidenza di una regione importante come il Veneto. L’ha dimostrato da amministratore locale e regionale ed ora anche da ministro. La Lega ha solo da guadagnare ad avere come propri amministratori e politici persone di spessore. Infine – conclude Galli – credo che il problema Bossi non si ponga perché Bossi condurrà la Lega all’obiettivo finale».

Questa l’ufficialità delle dichiarazioni ma in realtà qualche timore c’è verso Zaia che negli ultimi tempi è cresciuto in maniera esponenziale. Attorno al suo nome e proprio per questo, infatti, il consenso nella Lega Veneta non è esattamente unanime. Lo stesso segretario regionale, Gobbi, ha sempre affermato di voler sostenere il sindaco di Verona, Flavio Tosi, quale candidato alla Regione, salvo poi fare marcia indietro di fronte a un esponente che durante i primi soggiorni a Roma faceva fatica a trovare spazio e che addirittura, quando Bossi chiamava a raccolta i suoi, non partecipava alle riunioni dei ministri e che poi, grazie alle sue capacità politiche e mediatiche, ha saputo conquistare le fiducia sia di Bossi sia dello stesso Berlusconi ponendo serie opzioni per un ruolo futuro di tutto rispetto e notevole peso nel suo partito. Tanto che, pare, non sia proprio ben visto per questo, dallo stesso Maroni soprattutto in vista del sorpasso nei confronti del Pdl da parte della lega veneta, atteso come certo, al contrario di quella lombarda, considerata frenata da Formigoni.

Il primo a chiamare a raccolta i suoi è stato proprio Maroni: l’obiettivo è puntare al sorpasso anche in Lombardia

cello Dell’Utri. Nel foglietto Provenzano avrebbe parlato di un presunto progetto intimidatorio ai danni del figlio di Berlusconi. «Intendo portare il mio contributo - si legge nel pizzino - che non sarà di poco conto perché questo triste evento non si verifichi (si allude all’intimidazione ndr). Sono convinto che Berlusconi potrà mettere a disposizione le sue reti televisive». «Mio padre - ha spiegato Ciancimino illustrando il biglietto - mi disse che questo documento, insieme all’immunità di cui aveva goduto Provenzano e alla mancata perquisizione del covo di Riina, era il frutto di un’unica trattativa che andava avanti da anni».

DEL VATICANO. «La Chiesa, lungo i secoli, sull’esempio di Cristo, ha promosso la tutela della dignità e dei diritti dei minori e, in molti modi, si è presa cura di essi. Purtroppo, in diversi casi, alcuni dei suoi membri, agendo in contrasto con questo impegno, hanno violato tali diritti: un comportamento che la Chiesa non manca e non mancherà di deplorare e di condannare». È quanto ha affermato ieri mattina il Papa ricevendo in udienza l’assemblea plenaria del Pontificio consiglio per la famiglia che si tiene fino a domani. «La tenerezza e l’insegnamento di Gesù - ha aggiunto Benedetto XVI che considerò i bambini un modello da imitare per entrare nel

«No, con tutta la stima per Zaia e per i veneti – asserisce convinto un esponente del partito di Bossi che si prepara a sostenere Formigoni – i lombardi su questo sono strutturati bene. Intanto c’è Maroni che è giovane, andrà avanti per moltissimo tempo e quindi sarà lui il successore di Bossi. Poi ci sono validissimi giovani – assicura – e quindi il successore sarà sicuramente un lombardo. Forse sono i veneti a soffrire lo strapotere dei lombardi ma questa è una caratteristica ormai consolidata. Di contro, timori dei lombardi non si avvertono. Abbiamo esponenti bravi come Giorgetti e Salvi-

regno di Dio, hanno sempre costituito un appello pressante a nutrire nei loro confronti profondo rispetto e premura. Le dure parole di Gesù contro chi scandalizza uno di questi piccoli - ha spiegato ancora il Pontefice - impegnano tutti a non abbassare mai il livello di tale rispetto e amore. Perciò anche la Convenzione sui diritti dell’infanzia è stata accolta con favore dalla Santa Sede, in quanto contiene enunciati positivi circa l’adozione, le cure sanitarie, l’educazione, la tutela dei disabili e la protezione dei piccoli contro la violenza, l’abbandono e lo sfruttamento sessuale e lavorativo».

Poi Benedetto XVI è tornato a mettere in guardia i coniugi contro divorzi e separazioni che hanno ricadute molto negative sull’educazione dei figli. «È proprio la famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna l’aiuto più grande che si possa offrire ai bambini. Essi ha aggiunto - vogliono essere amati da una madre e da un padre che si amano, ed hanno bisogno di abitare, crescere e vivere insieme con ambedue i genitori, perché le figure materna e paterna sono complementari nell’educazione dei figli e nella costruzione della loro personalità e della loro identità».


mondo

pagina 8 • 9 febbraio 2010

Iran. Le sanzioni economiche non sono sufficienti a fermare i tiranni. Bisogna interrompere qualsiasi relazione strategico-industriale

Ipocrisia nucleare L’Occidente, a parole, contrasta il regime di Teheran. Ma continua con i suoi “affari” di Gennaro Malgieri arebbe gravissimo se venisse confermato che industrie italiane hanno venduto e continuano a vendere ancora oggi agli ayatollah, al culmine di uno scontro senza precedenti tra regime e popolo dal tempo dalla presa del potere di Khomeini. La notizia diffusa da numerosi siti iraniani, ha messo in allarme quanti si battono per la libertà ed i diritti civili contro Khamenei ed Ahmadinejad, ritenendo l’Italia un Paese amico il quale, soprattutto dopo l’energico discorso di Berlusconi contro Teheran tenuto alla Knesset, risulta tra i più affidabili in Occidente per i dissidenti che avversano pressochè senza mezzi gli islamisti sciiti. Ci auguriamo che il governo compia tutti gli accertamenti del caso e, qualora risultasse vero ciò che è stato affermato, intervenga efficacemente per troncare l’indecente commercio.

S

Non sappiamo se altri produttori occidentali di armi riforniscano basiji e pasdaran: è probabile. E non sarebbe male se le istituzioni internazionali preposte alla salvaguardia dei diritti umani, dalle Nazioni Unite al Consiglio d’Europa all’Osce, monitorassero attentamente quanto viene denunciato dagli oppositori iraniani i quali, giustamente, si domandano da dove arrivi il potenziale bellico di cui dispongono le forze di polizia posto che esso per consistenza e qualità non può essere prodotto interamente in Iran. È una questione piuttosto spinosa sulla quale non ci si è soffermati abbastanza in questi ultimi otto mesi, da quando cioè sono scoppiati i disordini in seguito alle elezioni falsate del 12 giugno scorso. Così come la questione del programma atomico ad uso “civile”, in tal modo definito dalle autorità di Teheran, al di là delle rituali condanne, non sembra venga affrontata per come merita gravando su di essa il sospetto che Paesi “amici” dell’Occidente possano avere qualche ruolo nella confezione di armi atomiche sulle quali Ahmadinejad non sembra mostrare nessun segno di resipiscenza, neppure dopo gli ultimatum venuti dal segretario al-

la difesa americano Robert Gates negli ultimi giorni.

Al contrario, i governanti iraniani tendono ad intorbidare sempre di più le acque sul nucleare. Non più tardi di venerdì scorso, il ministro degli Esteri, Manoucher Mottaki, da Monaco di Baviera aveva fatto sapere di essere fiducioso sulle possibilità di un accordo con l’Occidente sull’arricchimento all’estero dell’uranio di cui il suo paese dispone, aggiungendo

che l’Iran abbia forzato la mano, tanto che domenica scorsa Ahmadinejad ha ribadito il proposito di procedere con l’arricchimento dell’uranio a tutti i costi ed ha ordinato al capo dell’organizzazione per l’energia atomica, Alì Akbar Salehi, di «iniziare a produrre uranio arricchito al 20%». I governi chiamati in causa del ministro degli Esteri dovrebbero precisare che essi non sono in alcun modo coinvolti nell’operazione. Se non dovesse venire dovrem-

L’Iran non è soltanto una potenza destabilizzante, ma sostiene le due organizzazioni terroristiche che programmaticamente intendono cancellare Israele: Hamas ed Hezbollah che si sarebbe incontrato allo scopo con il nuovo direttore generale dell’Aiea, il giapponese Yukiya Amano. Mottaki ha anche precisato che dovrebbe essere l’Iran, valutando sulla base delle proprie necessità, quanto uranio inviare nei paesi proposti dall’Aiea, ossia in Russia e in Francia. L’Agenzia non ha confermato quest’ultimo particolare. Si è propensi a ritenere

mo concludere che, come al solito, il mondo libero è spaccato e mentre offre la solidarietà a parole ai dissidenti iraniani e ad Israele che teme la dotazione atomica di Teheran, di fatto continua a fare affari con gli ayatollah. Di fronte al possibile dispiego da parte dell’Iran di mezzi militari provenienti dall’Occidente, in maniera più o meno clandestina o irregolare,

non serve a nulla parlare di sanzioni economiche come sta facendo Barack Obama. Esse apporterebbero maggiori disagi alle popolazioni, provocherebbero ulteriore impoverimento ed offrirebbero maggiori argomenti ai falchi del regime per lanciare la loro offensiva contro l’Occidente.

Se si vuole davvero sostenere la lotta dei dissidenti e mettere in difficoltà il regime, non v’è altra strada che quella di isolare Khameni e la sua cricca interrompendo le relazioni sul piano strategico-industriale. L’Italia ha promesso, per bocca

di Berlusconi, che l’Eni non firmerà più nuovi contratti. Mentre la Finmeccanica, attraverso la Fata, una sua compagnia controllata, solo una ventina di giorni fa ha inaugurato un impianto per la produzione a Bandar Abbas di alluminio primario. Il progetto, denominato “Hormozal”, del valore di oltre 300 milioni di euro, prevede la produzione di 147 mila tonnellate annue di alluminio primario. Si tratta del più importante progetto realizzato da un’impresa italiana da quando è al potere Ahmadinejad il quale, partecipando alla cerimonia della firma, con tronfio compia-

La sezione yemenita dell’organizzazione: «Colpite Usa, ebrei e cristiani dovunque nel mondo»

E al Qaeda rilancia il jihad “globale” di Massimo Fazzi

NEW YORK. Dopo la sbandata “ecologista” di Osama bin Laden, al Qaeda torna a invocare il jihad contro cristiani ed ebrei in Medioriente ed esorta a colpire gli interessi degli Stati Uniti «ovunque nel mondo». L’invito è contenuto in un messaggio audio diffuso su un sito islamista del numero due della “Rete” nella penisola arabica, Said al-Shihri. Questi afferma che «gli interessi degli americani e dei crociati sono ovunque e i loro agenti si muovono ovunque. Attaccateli ed eliminate il maggior numero possibile di nemici». Nel messaggio, come sempre segnalato dal sito di intelligence Site, Shihri (un saudita ex detenuto di Guantanamo) ha chiesto ai musulmani dello Yemen e degli altri Paesi della regione di «essere uniti nella lotta e sostenere i mujaheddin, aderendo alla jihad». Shihri ha anche elogiato il fallito attentato di Natale sul volo

Amsterdam-Detroit: «L’America non potra’ sognarsi la sicurezza fino a quando non vivremo sicuri in Palestina», ha affermato riecheggiando il messaggio con cui Osama bin Laden aveva esaltato l’attentatore nigeriano.

Un altro obiettivo delineato dal leader di al Qaeda è il controllo dello stretto di Bab al-Mandeb, nel golfo di Aden, che separa lo Yemen dal Corno d’Africa, e da cui ha affermato che l’America «fa arrivare gli aiuti a Israele, attraverso il Mar Rosso». A fine dicembre il governo yemenita ha lanciato un’offensiva contro al Qaeda con il sostegno dell’intelligence Usa. Il nuovo messaggio arriva all’indomani del monito del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, che aveva avvertito: «Al Qaeda rappresenta una minaccia superiore anche all’Iran perché sta diven-

tando più creativa, flessibile e agile e cerca sempre punti deboli e aperture per colpire». Il numero due di al Qaida nella penisola arabica (Aqpa) ha inoltre attaccato la famiglia reale in Arabia Saudita per la sua partecipazione alla lotta contro l’organizzazione di Osama bin Laden: «Questi criminali, gli Al Saoud, sono quelli che guidano la guerra contro i musulmani, al posto dei sionisti e dei crociati. Ripeto ciò che ha affermato lo sceicco Osama bin Laden: non potrete sognare la sicurezza finché la sicurezza non sarà una realtà vissuta in Palestina». È ingiusto, conclude, «che abbiate una vita tranquilla mentre i nostri fratelli a Gaza vivono nelle condizioni peggiori possibili, schiacciati dal tacco dei sionisti e dei loro fratelli crociati». La rete terroristica torna dunque all’attacco, ed è di nuovo lo Yemen a fare da apripista.


mondo

9 febbraio 2010 • pagina 9

Francia e Stati Uniti annunciano nuove misure contro il regime

Ali Khamenei: «Pronto un cazzotto per l’Ovest» Il leader religioso minaccia l’uso della forza contro i manifestanti: massima allerta per l’11 febbraio di Vincenzo Faccioli Pintozzi n pugno, presumibilmente ispirato da Dio, colpirà gli “arroganti” e li lascerà tramortiti. L’appuntamento per questo match è oramai prossimo: l’11 febbraio, data in cui i fedelissimi del regime iraniano sfileranno nelle piazze per festeggiare il 31esimo compleanno della Rivoluzione di Khomeini. Lo ha detto ieri la Guida Suprema dell’Iran, Ali Khamenei, che teme le proteste che nasceranno dalle manifestazioni. I pasdaran, infatti, sfileranno spalla a spalla con i manifestanti dell’Onda verde di Mousavi, che intendono portare di nuovo nelle strade la loro protesta democratica. L’11, dunque, assume un significato molto importante: se all’inizio delle manifestazioni – nate dalle proteste post-elettorali – erano state quanto meno tollerate da Teheran, il messaggio della Guida suprema dimostra che questa tolleranza è giunta al termine. La nazione iraniana, ha detto Khamenei, «grazie alla sua unità e alla grazia di Dio, il prossimo 22 bahman (11 febbraio) colpirà con un pugno gli arroganti (i Paesi occidentali) in modo tale da lasciarli tramortiti». Khamenei è quindi tornato sulle proteste post-elettorali, sostenendo che «lo scopo principale di chi le ha organizzate era quello di creare una frattura all’interno del Paese. Ma non sono riusciti nel loro intento, e la nostra unità è rimasta conficcata nei loro occhi come una spina». Nonostante le dichiarazioni di fuoco della Guida Suprema, i leader dell’opposizione hanno già mobilitato i loro sostenitori in vista dell’11 febbraio. Manifestazioni antigovernative del fronte riformista sono attese in alcune delle vie principali di Teheran, in concomitanza con le celebrazioni indette dal governo. E questo, temono gli esperti del Paese, potrà scatenare la peggiore repressione dai tempi dello Scià. Anche perché sul cielo di Teheran si stanno presentando le nuvole della comunità internazionale, che non ha apprezzato le ultime prese di posizione del presidente Ahmadinejad sulla questione nucleare. Secondo il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, «l’annuncio fatto dall’Iran di un arricchimento del suo uranio al 20 per cento è un ricatto, che possiamo chiamare diplomazia ma, in questo caso, proprio negativa». Arricchire l’uranio - ha aggiunto il numero uno del Quai d’Orsay - «è contrario a tutte le risoluzioni del Consiglio di sicurezza. Non possono usare l’uranio arricchito perché crediamo che non possono fabbricare del combustibile. Quindi arricchirlo a che serve?». Kouchner ha anche riconosciuto però che la Francia, presidente di

U

cimento, ha accusato l’Occidente di escogitare «ogni giorno un nuovo stratagemma, che riguardi i diritti umani o il nucleare» per colpire Teheran. L’Italia è in buona compagnia. Il premio Nobel Shirin Ebadi, ha denunciato attraverso il Corriere della sera le contraddizioni di alcuni paesi che mentre si oppongono al regime liberticida che reprime il dissenso, nel contempo gli offrono la possibilità di esercitare il potere criminale di cui è capace. «Il colosso Nokia – ha detto – ha fornito al regime iraniano il know-how per mettere sotto controllo email e cellulari dei

utilizzando la francese Clotilde Reiss ed altri tre americani: su nessuno è stata finora fornita la benché minima prova concernente la presunta attività di spionaggio che avrebbe svolto all’interno dei confini iraniani.

L’11 febbraio ricorre il trentunesimo anniversario della rivoluzione islamica. L’opposizione si prepara a manifestare. Ahmadinejad provocherà i suoi capi, soprattutto Karroubi e Moussavi, per creare pretesti all’intervento violento. Sarebbe opportuno che le cancellerie occidentali facessero sentire preventivamente la loro voce. E

Le istituzioni internazionali preposte alla salvaguardia dei diritti umani, dall’Onu all’Osce, devono monitorare con molta attenzione quanto viene denunciato dagli oppositori iraniani suoi cittadini. L’Occidente può e deve impedire alla dittatura di in viare segnali per disturbare o oscurare le trasmissioni delle stazioni tv estere che trasmettono i loro programmi per l’Iran, come la Bbc in farsi o Radio Domani di Praga».

Niente armi, niente nucleare, niente tecnologia. Il regime iraniano si può sconfiggere soltanto se lo si indebolisce nella sua capacità di produrre terrore e persecuzione. E che si senta accerchiato lo dimostra l’arresto di sette americani come al solito imputati di “spionaggio”. Delle loro condizioni non si hanno notizie, ma è facile supporre che vogliano utilizzarli come strumenti di ricatto nei confronti degli Stati Uniti. Alla stessa maniera di come stanno

ricordassero al mondo intero che l’Iran non è soltanto la potenza più destabilizzante del Globo, in sinergia con la Corea del Nord, ma sostiene le due più agguerrite organizzazioni terroristiche che programmaticamente intendono cancellare Israele: Hamas ed Hezbollah. Da quando Berlusconi ha pronunciato il suo discorso alla Knesset, l’Italia è nel mirino dell’Iran. I suoi missili senza difficoltà raggiungerebbero le nostre coste. Se poi fossero dotati di testate nucleari... L’Italia come Israele? È l’umanità ad essere in pericolo fino a quando non verranno deposti tiranni come Ahmadinejad e Khamenei. Se lo ricordi Obama se mai gli venisse in mente un’altra volta di tendere la mano a degli assassini.

turno del Consiglio di sicurezza dell’Onu, non dispone attualmente dei voti sufficienti per far adottare una nuova risoluzione al Palazzo di vetro: «Non abbiamo ancora convinto i cinesi, nonostante un lungo colloquio a Parigi avvenuto la settimana scorsa con il mio collega cinese Yang Jiechi. Ci vogliono nove voti positivi e non siamo sicuri di averli al momento». Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’unico organismo in grado di approvare e mettere in pratica le sanzioni, è composto da 15 membri; fra questi sono diversi i Paesi emergenti che sembrano al momento schierati con la Cina, che si oppone strenuamente all’imposizione di sanzioni all’Iran. Anche l’Italia sembra aver cambiato marcia. Il nostro mi-

Anche l’Italia cambia marcia: «Basta con la politica dilatatoria degli ayatollah. Se non prendono posizione, siamo favorevoli a nuove sanzioni economiche». Ma all’Onu mancano i voti

nistro degli Esteri, Franco Frattini, ha chiesto a Teheran di interrompere la propria “politica dilatatoria” sulla questione nucleare. Frattini, che ieri ha ricevuto il Segretario americano alla Difesa Gates, ha aggiunto: «La Comunità internazionale non può accettare questa tendenza a prendere tempo».

Il titolare della Farnesina ha spiegato che sulla questione dell’arricchimento dell’uranio da parte di Teheran «ci vuole un negoziato serio, ma finora non abbiamo avuto risposta e questo preoccupa la Comunità internazionale. Noi non possiamo rincorrere l’Iran in continue dichiarazioni che cambiano. Ero a Monaco e ho ascoltato le aperture del ministro degli Esteri Iraniano Mottaki, ed ero ieri a Roma quando il presidente iraniano ha annunciato la volontà di arricchire l’uranio al 20 per cento. Non vogliamo un Iran con la bomba atomica: loro hanno diritto all’uso civile del nucleare ma non possiamo più accettare questa tendenza a prendere tempo».


panorama

pagina 10 • 9 febbraio 2010

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

E l’intellettuale si scoprì Don Abbondio ierluigi Battista ha una specializzazione: la critica degli intellettuali o, meglio, delle idee e delle azioni degli intellettuali. Il suo nuovo libro - pubblicato da Rizzoli - s’intitola I conformisti e ha per sottotitolo una eloquente didascalia: «l’estinzione degli intellettuali d’Italia». Verrebbe quasi da dire che se le idee devono essere quelle passate in rassegna dal giornalista del Corriere della Sera nel libro è meglio che gli intellettuali si siano estinti. Dovendo tirare le somme delle pagine di Battista e ricavarne una morale o un insegnamento va detto che in Italia l’intellettuale è sempre vissuto alla corte del Principe e quando i principati sono storicamente e politicamente finiti l’intellettuale ha trovato quel principe moderno che Antonio Gramsci indicava nel Partito.

P

Gli intellettuali italiani - fatte le dovute eccezioni e considerate le necessarie gradazioni - è sempre dalla parte del potere, anche quando è apparentemente contro il potere perché, in realtà, è schierato con il Partito. Se la virtù politica dell’intelletto è il coraggio - la Fortitudo - ebbene, gli intellettuali italiani sono tanti don Abbondio. Ritengono che la loro funzione consista nel consigliare il Principe e non nel criticarlo. Se Gaetano Salvemini - vero intellettuale che praticò la virtù della cultura anti-totalitaria e quindi antifascista e nel contempo anticomunista - diceva che la libertà è il diritto dei cittadini di dissentire, gli intellettuali italiani credono che la libertà sia il dovere di creare consenso, anche quando dissentono. Una frase di Edoardo Sanguineti rivolta a Leonardo Sciascia durante la stagione agitata del 1977 dice: «In Sciascia c’è una metafisica del dissenso, il compito dell’intellettuale è fatto coincidere artificialmente col dissenso». Nota Battista: «L’intellettuale come funzionario del consenso: anche questo auspicio era usuale in quegli anni che non meritano nessuna nostalgia». C’è un paragrafo ne I conformisti dedicato al rapimento Moro e al “partito della fermezza” che in nome della dignità dello Stato non volle trattare con i terroristi delle Brigate rosse. Si giunse al sacrificio della vita di Moro e forse non fu un “sacrificio inutile” visto che la morte di Moro e la “fermezza” dello Stato segnarono anche la sconfitta, se non la fine, delle Brigate rosse. Ma questo paragrafo nel contesto del libro è un po’“stonato”: non è molto attinente al tema. Tuttavia, il rapimento Moro è il momento culminante della stagione nota con il nome di “anni di piombo” e il giornalista ne parla come momento centrale della vita nazionale. Ma ne parla per porre una domanda che, in verità, già in altre occasioni ha posto sul Corriere: all’epoca prevalse la “ragion di Stato” e la “linea del trattativa” - e della salvezza della vita di Moro - era considerata un’offesa, mentre «oggi appare quasi scontato che si possa fare di tutto per sottrarre gli ostaggi dei talebani e dei fanatici jihadisti. Trent’anni fa era scontato il contrario. Perché?» I conformisti non si pongono neanche la domanda.

Per salvare le Borse adesso servono regole Dopo una settimana nera, non c’è stato l’atteso rimbalzo di Carlo Lottieri ira una brutta aria sul sistema finanziario europeo. Mentre ci si aspettava un “rimbalzo”, le borse continuano ad essere depresse e tra i titoli peggiori figurano i bancari. Nell’insieme non è facile capire quando vi potrà essere un’inversione di tendenza, dal momento che all’origine delle apprensioni degli operatori vi sono le difficoltà di interi Paesi, gravati da pesanti deficit.v Nelle scorse settimane la prima a scricchiolare era stata la Grecia, che si era vista “degradare” il debito pubblico. Atene ha un debito che, nei giudizi dell’agenzia Moody’s, rimane con una singola A e che quindi che può essere finanziato solo pagando interessi crescenti.

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Sempre nei giorni scorsi, inoltre, la Spagna ha conosciuto nuove, serie difficoltà dopo che per anni aveva conosciuto un boom artificioso. Quando in America si è avuta la catastrofe legata ai mutui subprime, l’area europea che ha pagato il prezzo più alto è stata proprio quella iberica, dove ora il governo Zapatero registra un gradimento ai minimi storici. Com’è comprensibile, le difficoltà spagnole si sono fatte subito sentire in Portogallo, al punto che l’ultima asta dei titoli pubblici è andata parzialmente deserta: il Tesoro ha ridotto da 500 a 300 milioni di euro l’emissione dei titoli di Stato a 12 mesi, per bloccare l’impennata dei rendimenti lordi annui, passati all’1,379% (erano allo 0,928% in occasione dell’asta del 20 gennaio scorso). In questo quadro, nella scorsa settimana abbiamo registrato un paio di giornate nere per le borse. Ma anche alla luce del moderato rimbalzo americano della chiusura di venerdì, ci si attendeva un inizio di settimana diverso. Con titoli tanto a buon mercato, era ragionevole avere un parziale riallineamento. Che però non c’è stato. A spingere verso il basso sono stati soprattutto i titoli del settore bancario. In questo senso, un possibile chiave di lettura può essere trovata negli incontri del weekend in Canada, dove il G7 dei ministri delle finanze e dei governatori centrali ha celebrato i propri riti. Dall’incontro è venuto un nuovo impegno a sostenere con i soldi pubblici l’economia e quindi a garantire una rete protettiva, fino a quando la ripresa non arriverà. Se a prima vista questo può tranquillizzare gli investitori, in realtà suggerisce che l’usci-

ta allo scoperto delle situazioni poco chiare è rinviata a data da destinarsi. E siccome i mercati tendano ad anticipare, è normale che oggi manchi fiducia. Per giunta, l’unica visione strategica è riconoscibile nelle riforme annunciate da Barack Obama, ma si tratta di scelte che riducono gli ambiti di autonomia del mondo bancario e sono giudicate negativamente dagli investitori. Quando il ministro delle finanze canadese Jim Flaherty ha chiuso il vertice del G7 a Iqaluit dichiarando che «le banche devono condividere i costi della crisi», il segnale che ha mandato è stato chiaro: dando l’impressione che stia un po’ ovunque montando una sorta di populismo interventista, che offre crescenti tutele (impedendo alle grosse realtà di fallire) e al tempo stesso non rinuncia a cavalcare umori demagogici. Anche se non lo si dichiara apertamente, sembra che si proceda verso una progressiva statizzazione dei sistemi finanziari: seguendo quella che è stata la linea del Regno Unito di Gordon Brown. Per giunta, la generica rassicurazione che il sostegno pubblico all’economia non verrà meno fin quando la ripresa non si sarà consolidata lascia un po’ il tempo che trova.

Una delle ragioni della crisi è stata l’irresponsabilità che è derivata dall’intreccio continuo di politica ed economia

Come si ricordava, all’origine di molte inquietudini vi sono i conti pubblici di Paesi che negli ultimi due anni hanno visto schizzare verso l’alto i loro deficit (chi oggi ricorda più i parametri di Maastricht?) e all’origine di rischi sistemici. In questo quadro, è difficile che le risorse di Paesi dai piedi di argilla possano ancora venire in soccorso di eventuali banche in bancarotta. Tanto più che l’economia globale non ha bisogno di salvare i colossi pieni di debiti, ma semmai di più trasparenza: e i sostegni pubblici, invece, impediscono tale processo di chiarificazione. In fondo, una delle ragioni della crisi è stata la crescente irresponsabilità (in termini tecnici, il moral hazard) che è derivata dall’intreccio di politica ed economia. Forse siamo vicino al momento in cui i poteri pubblici non disporranno più dei mezzi necessari a salvare le banche, e in cui perfino una nazionalizzazione potrebbe riuscire disastrosa: causando un ulteriore downgrade dei titoli di Stato. A quel punto, qualcuno potrebbe trovarsi a dover diventare un po’ più liberale anche contro la propria volontà.


panorama

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Il vizio di alcuni giornali è quello di vedere ”fatti“ anche quando non ci sono o quando vengono smentiti

Il Vaticano e la guerra che non c’è Tutte le invenzioni nate intorno alla sfida (e alla pace improvvisa) tra Feltri e Boffo di Luigi Accattoli l caso Boffo è montato nelle ultime settimane arrivando a cambiare natura: da un episodio di giornalismo squadristico a emblema di una lotta interna al mondo ecclesiastico. Stiamo assistendo a uno spettacolo mediatico sganciato dalla realtà, alimentato da due fontane di fuoco comunicanti: Il Foglio di Giuliano Ferrara e il blog Settimo Cielo del settimanale l’Espresso. I fatti – a essere rigorosi – sono solo due e miserelli: l’attacco di Feltri direttore de Il Giornale all’ex direttore di Avvenire Dino Boffo, costretto a dimettersi il 3 settembre e il loro riavvicinamento sancito da un incontro in un ristorante milanese il 1° febbraio, presente il giornalista e deputato pdl Renato Farina. Il resto è una montatura da cattivo giornalismo.

I

A preparare il riavvicinamento – mirato forse a evitare risarcimenti in denaro – c’era stata da parte di Feltri il 4 dicembre, sulla prima pagina del Giornale, una ritrattazione delle accuse mosse a Boffo in agosto, di pratica omosessuale e di incoerenza morale: «Boffo non risulta implicato in vicende omosessuali. Questa è la verità». In quell’articolo Feltri affermava che la “nota”– che qualificava Boffo come“attenzionato”dalla polizia per comportamenti omosessuali – gli era stata «consegnata da un informatore atten-

dibile, direi insospettabile». Da quel momento è iniziata – nei media – la caccia all’informatore. In un’intervista del 30 gennaio al Foglio, Feltri precisava d’aver avuto la nota da «una personalità della Chiesa della quale ci si deve fidare istituzionalmente». Per Il Foglio e per il blog Settimo Cielo tutto è chiaro: l’operazione contro Boffo – e dunque contro il cardinale Ruini di cui Boffo è stato stretto collaboratore – sarebbe nata dentro la Chiesa, anzi dentro il Vati-

– aveva detto queste parole che ben descrivono quanto avveniva allora e avviene oggi: «Smentisco nel modo più categorico questa infondata affermazione. Viene il sospetto che vi sia una intenzione di fomentare confusione diffondendo false accuse». Intervistato da Sette – supplemento del Corriere della Sera – per il numero di fine anno, Gian Maria Vian qualificava come “fantavaticanistica” l’idea che egli fosse il motore della macchina che ha fatto dimettere Boffo. All’intervistatore che lo incalzava, adducendo l’autorità di Sandro Magister – dell’Espresso

vedessero al ristorante: e invece è avvenuto. Questa è dunque una storia piena di trabocchetti. Occorre battere su ogni parete e scuotere tre volte ogni bussolotto. Riepilogando. Qualcuno a noi sconosciuto l’estate scorsa consegna a Feltri la notizia – pubblicata a suo tempo da Panorama e da Notizie Radicali e ben nota negli ambienti giornalistici romani e milanesi – di una condanna di Boffo per molestie telefoniche soddisfatta con il pagamento di una multa di 500 euro nel 2004 presso il tribunale di Terni. Gli dà anche una “nota” già arrivata per posta, nella primavera scorsa, a circa cinquecento persone del mondo dei media e della Chiesa. Nessuno aveva abboccato. Solo Feltri. Ora ci parla della fonte di cui non si può dubitare: forse dice il vero, o magari è un’affermazione strumentale. Ma basta quell’allusione per scatenare una girandola mediatica sulle lotte all’interno della Chiesa. Si tirano in ballo persone estranee e quelle dicono “non è vero”, ma chi le ascolta? Feltri dice “non sono loro”, ma neanche lui viene ascoltato. Questo non è giornalismo ma lotta politica a mezzo stampa. Forse il Vaticano può chiarire meglio, ma certamente il nostro giornalismo di inizio millennio sta scrivendo su questo tema una delle pagine peggiori. www.luigiaccattoli.it

In questa brutta storia, di vero ci sono solo un attacco violento e poi una cena riparatrice

cano e avrebbe il mandante nel Segretario di Stato Bertone e il canale operativo nel direttore dell’Osservatore Romano Gian Maria Vian.

Le prove? Nessuna. Anzi solenni smentite. Il 2 settembre il portavoce vaticano – reagendo a un’affermazione radiofonica di Feltri, che attribuiva la nota ai “servizi segreti del Vaticano”

– che l’aveva indicato come l’ispiratore di un pezzo del Giornale contro Boffo, Vian rispondeva: «È una menzogna». Né le smentite vengono dai soli portavoce vaticani. Con un editoriale del 4 febbraio Feltri reagisce così alle “voci” sulla provenienza della “nota”: «Io non ho fatto nè il nome di Bertone nè di Vian. Non li conosco nemmeno perché, grazie a Dio, sono ateo».

Mi aspettavo che Boffo querelasse Feltri a settembre, ma pare non sia avvenuto. Mai mi sarei aspettato che si

Treni. «L’Alta velocità non va come dovrebbe», dice il leghista. «Colpa della comunicazione»

Ma Castelli va a bassa velocità di Andrea Ottieri

ROMA. Quando i sottosegretari accettando di fare autocritica, preferiscono nascondersi un po’: come è il caso del sottosegretario alle infrastrutture Roberto Castelli che ha ammesso – sì – che l’Alta velocità non è così veloce come si sperava, ma ha subito aggiunto che la colpa è dei giornalisti. Del resto, coi tempi che corrono un insulto alla stampa fa sempre bene. Insomma: l’Alta Velocità tra Milano e Roma «non riesce a decollare a causa di difetti di comunicazione». Che poi la comunicazione si interrompa per colpa delle Ferrovie, del ministero o dei giornali, non è dato saperlo. Quel che è certo è che il leghista Roberto Castelli ha voluto parlare «da utente», ieri, nel corso della Mobility Conference 2010 in Assolombarda. L’errore nella comunicazione, secondo il leghista, sta nel fatto che «la linea è stata presentata come se fossero già stati risolti i problemi dei nodi». In pratica Castelli ha suggerito di «rimodulare la comunicazione e dire quali sono i tempi reali, legati al problema del cambio di tensione tra la linea e le stazio-

ni, sottolineando poi che viaggiando in treno la Co2 prodotta è 70 volte inferiore rispetto all’aereo».

Ma la verità – ha detto l’utente Castelli – è che «per l’Alta Velocità le cose non stanno funzionando come si sperava». Anche stavolta, la colpa non è delle Ferrovie né di

stero direttamente responsabile di questo problema non si adopera per risolverlo? Non si può fare nulla per dare continuità all’erogazione elettrica? È un tipico atteggiamento dei politici leghisti, questo: denunciare dei problemi come se non spettasse loro (e alla loro funzione di governo) risolverli, quegli stessi problemi. Come se compito di un sottosegretario fosse denunciare un problema e non piuttosto occuparsi direttamente, anche operativamente di affrontarlo e risolverlo. Siamo alla solita Lega di lotta e di governo, che gestisce il potere e poi si fa opposizione da sé. Come dimostra la chiosa di Castelli: «In ogni caso, i tempi di viaggio restano comunque interessanti». Roba da spot, insomma.

Secondo il sottosegretario alle Infrastrutture, «ci sono troppi cambi di energia sulle stesse tratte»: ma perché non si fa nulla per risolvere il probelma? chi ha la responsabilità politica del funzionamento delle infrastrutture: «Molte volte - ha spiegato Castelli - i motivi dei ritardi accumulati sono legati ai cambi di energia che ci sono sulle diverse tratte. Dieci minuti di ritardo qui, dieci minuti di ritardo là, si fa presto ad accumulare qualche mezz’ora e questo non soddisfa la gente». Bene. E allora, verrebbe da chiedersi, perché il mini-


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È morto a 94 anni uno dei padri della Costituzione. Lasciò il Partito comunista dopo il 1956,

Il Gran Signore del ri ono sempre quell’intellettuale che si è trovato suo malgrado a fare poilitica per colpa della Resistenza»: così Antonio Giolitti parlava di sé in una lettera a Vittorio Foa. Ed in realtà il nipote del grande Giovanni Giolitti era proprio come lo definisce Luciano Cafagna: «un intellettuale illuminato”. Ed era anche quello che un tempo si sarebbe detto“un grande signore”: raffinato, elegante, sobrio. Basti pensare che nel dopoguerra visse a lungo nel palazzone di via Cristoforo Colombo dove abitavano i parlamentari: bruttino, verniciato di un color verdognolo, costruito in cooperativa. E si spostava con una seicento, mentre il leader del suo partito, Pietro Nenni, anche lui residente nel palazzone, aveva la millecento grigia. Allora era questo lo stile con cui si stava in politica. Sembrano passati anni luce. Altri tempi, quando la “casta”non era nemmeno spuntata all’orizzonte.

«S

Antonio Giolitti è morto a 94 anni, in un mondo completamente diverso rispetto a quello in cui aveva lavorato e pensato: ha scavalcato, e di parecchio, il “secolo breve”, ed erano ormai più di 10 anni che non concedeva interviste. La sua vicenda politica l’aveva raccontata in quel bel libretto che è Lettere a Marta. Antonio era nato il 12 febbraio del 1915 nella casa di famiglia di Cavour. Tutta la sua giovinezza la passò in Piemonte. Era ancora, uno spilungone magro e bellissimo con quei penetranti occhi neri e i lineamenti regolari, quando cominciò a collaborare con Giulio Einaudi e quando nel 1940 si

La Resistenza, il Pci, il Psi: la vita di un intellettuale «illuminato» che ha sempre pensato con la propria testa di Gabriella Mecucci iscrisse al Pci. Arrestato con l’accusa di attività eversiva venne assolto per insufficienza di prove dal Tribunale per la sicurezza dello stato. Da quel momento in poi intensificò l’impegno nella Resistenza. Insieme a Giancarlo Pajetta prese parte alla lotta partigiana nelle Brigate Garibaldi che operavano in Piemonte. Il suo fu un impegno eroico che lo portò ad essere gravemente ferito nel 1944. Espatriò in Francia per curarsi, ma rientrò in Italia in tempo per partecipare nell’aprile del 1945 alle ultime fasi della guerra di Liberazione. Nel dopoguerra Antonio fece prima di tutto politica: nel 1945 fu sottosegretario agli Esteri del governo Parri e nel 1946, a soli 31 anni, fu eletto all’Assemblea costituente e fu protagonista del dibattito sulla Carta Costituzionale. Finito il periodo degli esecutivi al cui interno c’erano anche i comunisti, Giolitti continuò la sua militanza nel Pci e, al tempo stesso, lavorò intensamente per la casa editrice Einaudi.

Era uno dei più assidui partecipanti a quei leggendari mercoledì quando a Torino, intorno a Giulio Einaudi, si riuniva il meglio della cultura italiana di sinistra. C’erano Cesare Pavese, Elio Vittorini, Italo Calvino, Natalia Ginzburg e tanti altri. Fra loro spiccava per assiduità e impegno proprio lui che pure continuava ad essere anche deputato. Ma occorrerà arrivare al 1956 perché il suo nome diventi il punto di riferimento di un importante movimento di intellettuali che si era formato all’interno del Pci. Dopo il Rapporto segreto di Kruscev e soprattutto dopo i “fatti di Ungheria”, definizione eufemistica e pudibonda dell’intervento armato sovietico a Budapest, cominciarono una serie di riunioni che portarono alla firma di una parte consistente e

Enrico De Nicola firma la Costituzione (qui a destra). Antonio Giolitti (a sinistra), insieme a Giorgio Napolitano (nella pagina a fianco). In basso: immagini della rivolta ungherese del 1956 prestigiosa degli uomini di cultura aderenti il Pci di quello che venne chiamato “il manifesto del 101”. Mentre il partito mostrava il proprio accordo con la tragica repressione ungherese, mentre l’Unità, diretta da Ingrao, faceva titoli indigeribili, questo folto e qualificato gruppo di intellettuali, fra i quali c’erano, oltre a Giolitti, Colletti, Muscetta, Cafagna, Caracciolo, Ripa di Meana, Sapegno, Asor Rosa, Melograni, Bertelli, prendeva una posizione critica verso l’Urss. Si distanziava quindi in modo incolmabile dalla linea ufficiale del Pci.

Nel 1945 sottosegretario agli Esteri del governo Parri, nel 1946 (a soli 31 anni) viene eletto all’Assemblea costituente e diventa uno dei protagonisti del dibattito sulla Carta All’ottavo congresso del Pci Togliatti voleva mettere fine alla diaspora politica che era andata avanti per tutto il 1956 e che aveva visto coinvolti anche due importanti dirigenti quali erano Fabrizio Onofri ed Eugenio Reale. Ormai l’intera vicenda era arrivata ad una drammatica stretta. Antonio Giolitti salì alla tribuna congressuale in un silenzio tombale. Lui stesso, 26 anni dopo racconterà così quel momento: «Ricordo una sala gremita, un silenzio agghiacciante, segno di attenzione ma anche di disagio e di ostilità. Al tavolo della presidenza c’era To-

gliatti; aveva in mano la penna e sembrava prendere gli appunti accigliato». L’intervento del grande dissidente sollevò dubbi, e critiche, stigmatizzò comportamenti dell’Urss e del partito. Il tono era pacato, ma la sostanza era netta. Non concedeva niente. Gli rispose Giorgio Napolitano, che allora era il segretario della federazione di Caserta. L’Unità riferì così la sua dura requisitoria: «Napolitano polemizza con le affermazioni di Giolitti sulle cause degli avvenimenti di Ungheria e dell’intervento sovietico che ha contribuito a salvare la pace nel mondo». Dopo tanti anni, nel 2006, quando era stato già eletto Presidente della Repubblica, l’uomo che aveva pronunciato il discorso ufficiale contro di lui, gli andò a far visita quasi a voler riconoscere, anche se con grande ritardo, da che parte stesse la ragione. E ieri, non appena avuto notizia dalla sua morte, Giorgio Napolitano lo ha ricordato come «una personalità di eccezionale levatura culturale e morale nella vita politica e nell’attività di governo».

L’ottavo congresso, giunto alla conclusione, lanciò scomuniche e comminò espulsioni. Molti degli intellettuali del “manifesto dei 101” se ne andarono. Togliatti però decise di tenere con Antonio Giolitti, il dissidente più importante e forse anche a lui più caro, un atteggiamento diverso. Paolo Bufalini racconterà parecchi anni dopo che il Migliore gli inviò una lettera per prospettare la possibilità di un incontro, la missiva però non venne mai recapitata. Sta di fatto che il segretario del Pci non voleva che la polemica superasse alcuni limiti e non avallò alcuna misura disciplinare. Il grande dissidente però ormai era nei fatti fuori dal partito. Scrisse


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6, per tornarci come indipendente nel 1987

riformismo ricorda Ripa di Meana, mentre Bruno Pellegrino parla delle sua ricerca sui temi del “partito di governo”e del “socialismo possibile”. Intorno a lui si costruì una sorta di “accademia” composta da economista di levatura quali Francesco Forte e Giorgio Ruffolo, ma anche da storici come Cafagna o uomini vicini ai radicali quali Loris Fortuna.

Eletto deputato dai socialisti, è ministro del Bilancio e Programmazione nei governi di Moro, Rumor e Colombo, dal 1963 al 1964 e poi dal 1969 al 1974 un pamphlet, pubblicato da Einaudi, dove argomentò ulteriormente le analisi svolte dalla tribuna del congresso: Riforme rivoluzione. «È questo un saggio revisionista che ha fatto epoca», ricorda Bruno Pellegrino, ex dirigente martelliano del Psi. E infatti gli rispose Luigi Longo con un libretto tagliente e dall’inconfondibile piglio staliniano, dietro il quale c’era in realtà la mano di Emilio Sereni, dal titolo: Revisionismo nuovo e antico. La rottura si consumò così. Sia Giolitti che Togliatti preferirono usare toni soft, ma le distanze fra i due erano ormai siderali: il primo aveva intrapreso la strada che lo porterà ad un riformismo compiuto e, molto tempo dopo, incrocerà di nuovo il cammino di un Pci confuso e in piena crisi. Ormai fuori dal partito, entrò nel 1958 nel Psi e ebbe un ruolo di guida di Passato e Presente, diretta però da uno dei suoi “figli politici”che più a lungo gli è rimasto vicino: Carlo Ripa di Meana. Eletto deputato dai socialisti, sarà in ben tre successivi governi ministro del Bilancio e della Programmazione: dal 1963 al 1964 nell’esecutivo Moro, dal 1969 al 1972 in quello Rumor e dal 1972 al 1974 con Colombo. Giolitti fu l’ispiratore di una «programmazione ragionevole e non autoritaria»,

All’interno del Psi la sua corrente, piccola ma piena di prestigiosi intellettuali, fu sempre di sinistra, più a sinistra di quella di Lombardi, ma fu al tempo stesso molto presente e combattiva nell’avanzare le proprie critiche all’Urss. Purtroppo - è ancora Ripa di Meana a parlare - il suo nome fu utilizzato, senza il suo avallo, per tentare di disarcionare Bettino Craxi poco dopo il Midas. Finì con una sconfitta cocente. Nel 1978, Craxi lo candidò alla Presidenza della Repubblica, ma i comunisti stopparono il suo nome e gli preferirono quello di Sandro Pertini che infatti venne eletto: era impossibile per loro votare un uomo che aveva abbandonato il Pci alla carica più alta dello Stato. Avrebbero preferito persino un leader moderato a lui. E così Antonio Giolitti andò a Bruxelles e fece il commissario europeo per ben 8 anni. Le vicende del 1978 «per un incredibile paradosso logorarono il rapporto con

Craxi - osserva Ripa di Meana - piuttosto che con coloro che avevano impedito la sua elezione». Anzi, passo dopo passo, di ritorno da Bruxelles, si avvicinò al suo primo partito tantoché nel 1987 venne eletto senatore nelle sue fila come indipendente di sinistra. Nel successivo congresso del Pci, salì alla tribuna, e con un tono visibilmente commosso, ricevendo un’autentica ovazione, iniziò il suo discorso dicendo: «Sono di nuovo qui». Carlo Ripa di Meana, che pure ha avuto con lui un rapporto di amicizia tanto da averlo avuto anche come testimone di nozze, racconta che mai come in quel momento si sentì «lontano dalle sue scelte». «Io e altri - ricorda - restammo nel Psi». Del resto, Federico

Coen, unico intellettuale socialista che lo seguì nel nuovo approdo comunista, ha in un suo libro ricordato che lui e Giolitti speravano, facendo quella scelta, di avere un ruolo nel cambiamento del Pci, mentre al contrario si trovarono piuttosto isolati e non poterono fare quasi nulla. E Bruno Pellegrino riferisce un episodio imbarazzante che gli capitò quando - ironia della sorte - discutendo dell’invasione sovietica di Budapest, nel suo trentennale, si trovò «di fronte nel dibattito in Rai proprio Giolitti in rappresentanza del Pci».

Ma nessuno può dimenticare che colui che era stato il grande dissenziente e poi un riformista di sinistra non smise mai di sostenere le proprie posizioni anche nel nuovo ruolo di parlamentare del Pci. Il suo ritorno non lo aveva fatto rinunciando alle proprie acquisizioni, ma per altre ragioni: il disaccordo con Craxi e la speranza di aiutare a riformare il Pci. La storia si incaricò due anni dopo di mettere i comunisti davanti alla necessità di un radicale mutamento, fatto male e con grande ritardo. Giolitti continuò a riflettere, a ascrivere, a rilasciare interviste su come dar vita ad una grande forza della sinistra che fosse riformista e di governo. Poi un lungo silenzio, dovuto all’età, ma anche al modo in cui andavano i fatti della politica. Quando ormai si limitava a conversare piacevolmente con qualche amico e con quel delizioso personaggio che era sua moglie, Elena D’Amico, continuava con lo stile di sempre, pacato sobrio elegante, a discutere di riformismo. Lui stesso aveva scritto: «L’esperienza di governo immunizza una volta per tutte contro il rischio del fanatismo. Questa esperienza io feci allora e ne ho acquisito la vocazione a un incorreggibile riformismo: a guardar bene la realtà nei dettagli, nelle minuzie, ma conservando la capacità di alzare lo sguardo verso obiettivi più lontani e ambiziosi. Insomma, mi sono trovato costretto a imparare che nell’attività politica in democrazia l’etica della convinzione non va mai disgiunta dall’etica della responsabilità, anzi questa condiziona quella». Così era Antonio Giolitti, discendente da nobili lombi politici, e gran signore del riformismo italiano.


mondo

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L’analisi. Un saggio dell’intellettuale olandese, scrittore e professore al Bard College di New York, esperto d’Oriente

Da Mao a Google «Dal XVII secolo a oggi nulla è cambiato: per la Cina gli stranieri sono dei sovversivi» di Ian Buruma el 1661, Adam Schall, tedesco missionario dell’ordine dei gesuiti e astronomo alla corte dell’imperatore cinese, cadde vittima della gelosia dei mandarini, e venne condannato a morte per aver impartito false nozioni astronomiche e divulgato una fede a loro dire figlia della superstizione. Fu salvato dallo strangolamento solo quando un improvviso temporale convinse i giudici del fatto che la natura si fosse pronunciata contro quel verdetto. Padre Schall morì poco tempo dopo. Ma l’atteggiamento difensivo dei mandarini, i quali videro nelle sue idee straniere una minaccia al proprio status, avrebbe rappresentato un tema ricorrente nelle relazioni tra la Cina ed il mondo esterno. È dunque vero ciò che, dopo tutto, si dice riguardo allo scontro di civiltà? Alla luce di questo, è allettante interpretare la risposta ufficiale del governo cinese al discorso sulla libertà di Internet pronunciato da Hillary Clinton di pochi giorni fa. Incoraggiata dall’annuncio di Google, secondo il quale i suoi amministratori starebbero valutando la possibilità di uscire dal mercato cinese in segno di protesta contro la censura, la signora Clinton ha parlato della libertà di Internet in termini di diritti umani universali.

rità. Ciò è quanto gli ufficiali sono soliti chiamare cultura cinese. Naturalmente si può inquadrare la questione in un’ottica più cinica, e vedere la cultura come una mera foglia di fico pensata per occultare le macchinazioni del potere politico.

N

Il suo discorso è stato prontamente bollato da un giornale afferente al Partito Comunista come «imperialismo informativo». Il portavoce del ministero degli Esteri Ma Zhaoxu ha affermato come le regole cinesi per Internet (evitando qualsiasi riferimento a Piazza Tiananmen, al Tibet, all’indipendenza di Taiwan e così via) siano in piena sintonia

con «le condizioni nazionali e le tradizioni culturali». La rivendicazione di universalità costituisce in effetti un’importante sfaccettatura della cultura a stelle e strisce, la quale affonda le proprie radici nella Rivoluzione Americana e nell’etica protestante. È ritenuto appropriato per un segretario di Stato dar voce agli ideali dei diritti umani universali. Proprio alla luce di ciò, un ufficiale cinese intende come proprio dovere affermare l’unicità o persino la superiorità, della cultura cinese. Ciò era vero per quanto concerne gli ufficialistudiosi di formazione confuciana nel passato imperiale. Ed è vero ancor oggi. Il controllo del pensiero, in termini di imposizione di un’ortodossia ufficiale, è una tradizione antichissima. Quella colla ufficiale che a lungo è stata applicata per mantenere unita la società cinese, incarna una sorta di dogma dello stato, conosciuto per sommi capi come confucianesimo, tanto morale quanto politico, dottrina che pone l’accento sull’obbedienza all’auto-

L’ultimo “salve” cinese all’indirizzo degli Stati Uniti, l’accusa rivolta agli americani di aver istigato la ribellione iraniana attraverso Internet, rivela che l’attuale diatriba racchiude in sé un nocciolo politico (ed opportunistico) piuttosto duro. E l’ipotesi che Google, come ha ri-

confucianesimo e la sua rigida gerarchia sociale, in quanto vetusta ortodossia che doveva essere sradicata. La decisione di Google su un’eventuale dipartita dal mercato cinese ha posto i riflettori sul sistema di censura del paese. Loretta Chao del Wall Street Journal da un’occhiata ai differenti modi in cui censori e compagnie bloccano i contenuti di siti come Baidu, Google.com e Google.cn. Non fu, come sappiamo, così tanto sradicata quanto rimpiazzata dall’ortodossia comunista dopo il 1949. E quando tale ortodossia iniziò

L’ibrido ideologico che seguì il maoismo fu il “socialismo alla cinese”, un misto di capitalismo di Stato ed autoritarismo politico. A partire dagli anni Novanta si affermò il nazionalismo difensivo ferito un editoriale cinese, rappresenti un “pegno politico” del governo statunitense, costituisce un lampante esempio di projection. In ogni caso, istillare la concezione che l’obbedienza all’autorità non rappresenta semplicemente uno stratagemma per mantenere l’ordine, bensì una componente essenziale dell’essere cinese, altamente conveniente per quanti esercitano l’autorità, siano essi padri di famiglia o governanti di uno stato. Tale è la ragione per cui, nei loro sforzi al fine di promuovere la democrazia dopo il primo conflitto mondiale, gli intellettuali cinesi deil nunciarono

a perdere il controllo sul popolo cinese dopo la morte del presidente Mao nel 1976, gli ufficiali cinesi faticarono a definire un nuovo ordine di credenze atto a giustificare il proprio monopolio sul potere. L’ibrido ideologico che seguì il maoismo fu il “socialismo con caratteristiche cinesi”, un misto di capitalismo di stato ed autoritarismo politico. In seguito, il confucianesimo fece una nuova comparsa. Ma l’ideologia più comune che emerse a partire dall’inizio degli anni ’90 fu un nazionalismo difensivo, disseminato tra musei, spettacoli e testi scolastici. Tutti gli scolari cinesi vengono indottrinati con l’idea che la Cina sia stata umiliata per secoli dalle potenze straniere, e che il sostegno allo stato comunista rappresenti l’unico modo per la Cina di riguadagnare la grandezza perduta e non patire ulteriori umiliazioni.

Tale è la ragione per cui le critiche alla politica cinese provenienti dall’estero, o le accuse di violazione dei diritti umani rivolte a Pechino, vengono denunciate dagli ufficiali governativi come un attacco alla cultura cinese, come un tentativo di “denigrare la Cina”. Ed i cinesi che si dimostrano concordi con tali critiche estere vengono trattati non come dissidenti ma come traditori. Il termine “imperialismo informativo”è chiaramente pensato per evocare i ricordi delle Guerre dell’Oppio e di altre umiliazioni storiche. I cinesi vengono educati a pensare

La sede di Google-Cina; in apertura, un biglietto lasciato davanti al cancello della società a Pechino e, a fianco, Piazza Tiananmen. Nelle fotine a partire dall’alto: a destra Matteo Ricci e Adam Schall; a sinistra Deng Xiaoping, il Dalai Lama e Mao


mondo

che gli stranieri che parlano di diritti umani lo facciano esclusivamente al fine di attaccare la Cina. Non è un aspetto completamente irrazionale. Se lo sciovinismo cinese è difensivo, quello statunitense può apparire offensivo. La nozione che gli Stati Uniti godano del diritto, a loro conferito da Dio, di imporre agli altri Paesi le proprie visioni circa la libertà ed i diritti, facendo a volte ricorso al proprio potenziale bellico, ha generato praticamente la medesima reazione in molti Paesi, quella stessa reazione che provocarono le guerre ingaggiate da Napoleone al fine di diffondere Libertà, Eguaglianza e Fraternità.

Poco importa quanto nobili siano gli ideali; i cittadini mal sopportano l’essere indottrinati. Inoltre, i cinesi non sono gli unici a fondere in un tutt’uno politica e moralità. La storia delle missioni cristiane in Asia, o anche in Africa, non può essere scissa nettamente dall’imperialismo; ambo i fattori sono in realtà due parti della stessa impresa. Persino le idee scientifiche, come ad esempio l’astronomia o la medicina, le quali possono essere considerate neutrali, furono accompagnate da valori tutto fuorché neutrali. I primi missionari in Cina, quali ad esempio il grande gesuita italiano Matteo Ricci (15521610), presentarono la scienza come parte del loro obiettivo di diffondere la fede cristiana. In effetti, esiste un interessante parallelo tra quelle prime missioni cristiane e i nostri sforzi odierni miranti a diffondere i diritti umani universali, in special modo per quanto concerne la Cina. Ricci e i suoi colleghi,

da bravi gesuiti, ritenevano che il miglior modo per influenzare l’elite cinese consistesse nell’adattarsi alla cultura cinese, indossare abiti cinesi, parlare con terminologia confuciana, assumere cioè “i costumi del luogo”. Essi furono criticati da altri ordini cattolici, i quali interpretavano tale atteggiamento come un vergognoso tradimento dei principi cristiani. Solo la vera fede avrebbe dovuto essere predicata, senza compromesso alcuno con visioni pagane. Un dibattito molto simile ha luogo ai nostri giorni tra coloro che ritengono che l’applicare alla Cina le nozioni occidentali relativamente ai diritti umani e alla democrazia sia controproducente. Molti politici, uomini d’affari o magnati dei media sostengono che un adattamento alle particolari condizioni cinesi sia assolutamente più effica-

scenze senza indebolire la propria posizione in quanto custodi della cultura cinese. Per fare un esempio, una più accurata conoscenza della geografia e delle altre civiltà rese più difficile sostenere che la Cina fosse al centro del mondo, della qual cosa dovremmo rendere grazie agli stati barbari. Nei tempi antichi, i barbari venivano equiparati alle bestie.

Quando, nel 1602, Matteo Ricci mostrò ai cinesi una mappa del mondo (ora visibile presso la libreria del Congresso), alcuni stranieri venivano già trattati con maggior rispetto, ma il vecchio atteggiamento difensivo sino-centrico era ancora più che vivo. Se il Regno di Mezzo non rappresentava più il modello perfetto di civiltà, la sua tradizionale organizzazione politica diventò vulnerabile a minacce

A tutti gli scolari cinesi viene insegnato che il Paese è sempre stato umiliato dalle potenze straniere, e che il sostegno allo Stato comunista è l’unica via per riguadagnare la grandezza perduta ce se si spera di poter esercitare una qualche influenza nel Paese. Il fatto che tale argomentazione venga spesso considerata ad uso e consumo di chi la esprima non significa che essa sia erronea, ma sinora non si è di certo dimostrata corretta. Il livello di tutela dei diritti umani in Cina non ha riscontrato miglioramenti considerevoli, anche per via di alcuni compromessi sanciti da attori stranieri con l’illiberalismo cinese. Il dilemma per le élite cinesi, sin dai tempi delle prime missioni cristiane, verte su come abbracciare le idee utili dell’Occidente escludendo al tempo stesso quelle sovversive. I cinesi intelligenti sapevano perfettamente che buona parte del sapere occidentale (come fabbricare pistole ben funzionanti, tanto per fare un esempio) era non solo utile ma altresì una un percorso essenziale al fine di rendere la Cina abbastanza forte da resistere ad un’aggressione proveniente da oltreconfine. Ma l’aspetto complicato per gli ufficiali-studiosi consisteva nel modo in cui fare uso di tali cono-

provenienti dal fronte interno. Un modo per affrontare questo problema era separare la “conoscenza pratica” dalla cultura “essenziale”, o ti-yong in cinese. La tecnologia occidentale era stupenda, fintanto che non ha interferito con la morale e la politica cinesi. Dal punto di vista pratico, ciò non era plausibile. Le idee politiche giunsero in Cina, assieme alle scienze, all’economia e alla religione occidentale. Ed esse contribuirono a minare alle fondamenta l’antico ordine prestabilito. Una di queste idee fu il marxismo, ma

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dopo che Mao ebbe unificato la Cina sotto il giogo del suo regime totalitario, egli riuscì per vari decenni ad isolare il popolo cinese da nozioni che avrebbero potuto far sgretolare il suo potere. Quando, verso la fine degli anni Settanta, la Cina si aprì al mondo degli affari sotto la guida di Deng Xiaoping, l’annoso problema del controllo dell’informazione emerse nuovamente. Deng ed i suoi tecnocrati volevano godere dei benefici delle moderne idee economiche e tecnologiche, ma, come i mandarini del XIX secolo, ambivano a cancellare quei pensieri che Deng bollava come“inquinamento spirituale”. Il tipo di inquinamento che egli aveva in mente era segnatamente culturale (sesso, droga e rock ‘n roll), ma principalmente politico (diritti umani e democrazia). Il tentativo di Deng, che ebbe successo solo in parte, fu reso ancor più difficile dall’invenzione di Internet, i cui problemi e le cui possibilità vennero lasciate al giudizio dei suoi successori. Internet, che negli ultimi anni ha conosciuto un vero e proprio boom, non può essere totalmente sorvegliato; vi sono semplicemente troppi modi per schivare i censori. Ma la Cina, con il suo esercito di poliziotti del cyberspazio, si è dimostrata particolarmente efficace nel controllo della rete, unendo le intimidazioni alla propaganda. Le intimidazioni incoraggiano l’auto-censura, e la propaganda nazionalista crea sospetti di critiche dall’estero. Non è difficile trovare cinesi ben istruiti che decidono di sottostare alla linea ufficiale riguardo al cosiddetto “imperialismo informativo”.

D’altro canto, vi sono molti cinesi che hanno applaudito lo sprezzo di Google nei riguardi delle autorità. Quando gli hacker, operanti dalla Cina, hanno preso di mira gli indirizzi Gmail degli attivisti per i diritti umani cinesi, Google ha deciso che non avrebbe più fornito alcun aiuto nel monitorare le informazioni circolanti online. Come il direttore generale di Google Eric Scmidt ha affermato al recente vertice di Davos, nel corso del quale ha ripetuto le sue critiche nei riguardi della

censura cinese ad Internet: «Speriamo che cambi e che si possa esercitare una qualche pressione al fine di rendere le cose migliori per il popolo cinese». Anche quando il portavoce del governo ha criticato gli Stati Uniti per aver interferito negli affari cinesi, centinaia di utenti cinesi di internet hanno deposto dei fiori di fronte agli uffici di Google a Pechino, Shanghai e Guangzhou.

Questa è la ragione per cui risulta troppo semplicistico, e persino nocivo, interpretare il conflitto sulla libertà di Internet semplicemente come uno scontro culturale. Coloro che vogliono godere delle stesse libertà dei cittadini che vivono in regimi democratici danno per scontato che queste libertà siano anche cinesi. La questione, dunque, tanto per le compagnie quanto per i governi occidentali, è decidere da quale parte stare: gli ufficiali cinesi, i quali sono soliti definire la propria cultura in modo paternalistico ed autoritario, o le moltitudini di cittadini cinesi che formulano le proprie idee sulla libertà. Google ha fatto la sua scelta. A mio parere la scelta giusta, poiché non solo incoraggerà lo sviluppo di un sano dibattito sulla libertà e l’informazione all’interno della Cina, ma potrebbe altresì fungere da modello di comportamento per le compagnie che operano in paesi governati da regimi autoritari. Ed anche per quelle imprese decise a massimizzare i profitti, potrebbe servire per migliorare la loro immagine, dipingendole come attori schierati dalla parte dei buoni. © The Wall Street Journal


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Costa Rica. La cinquantenne si è imposta nella piccola repubblica caraibica razie Costa Rica, grazie agli uomini e alle donne che hanno permesso che una figlia di questo Paese possa oggi essere Presidente della repubblica». Lei stessa nel parlare dopo la vittoria ha insistito sul suo sesso, e in effetti molti analisti convengono sul particolare che a tirare Laura Chinchilla Miranda in alto, fino al 46,7% dei voti, sia stato anche il particolare che le donne nella nazione conosciuta come“la Svizzera dell’America Centrale” rappresentano il 58% del corpo elettorale. E questa è anche la grande nota di interesse della stampa internazionale su come questa politologa cinquantenne che dimostra almeno dieci anni di meno sia diventata il primo capo dello Stato donna in 188 anni di storia del Costa Rica indipendente. Con Michelle Bachelet e Cristiana Fernández de Kirchner ancora al potere rispettivamente in Cile e in Argentina, anche se la prima col mandato ormai agli sgoccioli, si insiste di meno sul rilievo continentale di questa notizia: ormai, Laura Chinchilla è la decima della lista. Togliamo però Rosalía Arteaga, che subentrò come vicepresidente in Ecuador solo per pochi giorni nel febbaio del 1997, dopo la destituzione del presidente Abdalá Bucaram a opera del Congresso e di un moto di piazza. Togliamo Lidia Gueiler e Ertha Pascal-Trouillot, che rispettivamente in Bolivia nel 1979-80 e a Haiti nel 1990-91 furono presidentesse ad interim di transizione dopo golpe militare. E togliamo anche María Estela “Isabelita” Martínez vedova Perón, che da vicepresidente subentrò alla presidenza argentina tra 1974 e 1976 dopo la morte del marito. Delle sei che furono effettivamen-

«G

Laura Chinchilla, la nuova presidentas Già ministro della Giustizia, ha centrato la sua campagna sulla sicurezza di Maurizio Stefanini

morte al marito che era stato presidente dal 1992 al 1997. E Cristina Fernández de Kirchner, eletta dopo il mandato del marito Néstor. Insomma, Laura Chinchilla è stata in realtà la seconda dopo la cilena Michelle Bachelet a non essere eletta grazie al proprio cognome. Ciò non vuol dire che si tratti di una

Da studentessa vestiva un abito indigeno tradizionale, e parlare di moda è l’unica distrazione frivola che si concede te elette a suffragio popolare, ben quattro subentrarono in realtà per eredità familiare, come d’altronde Isabelita Perón.

Violeta Barrios: presidente del Nicaragua tra 1990 e 1997 dopo essere rimasta vedova dell’assassinato del leader dell’opposizione antiSomoza, Pedro Joaquín Chamorro. Mireya Moscoso: presidente di Panama tra 1999 e 2004 e vedova di quell’Arnulfo Arias Madrid che era stato presidente nel 1940-41, nel 1949-51 e nel 1968, venendo sempre deposto da un golpe. Janet Jagan: presidente della Guyana nel 1997-99, succedendo dopo la

perfetta self made woman. Suo padre era stato per due volte Contralor General de la República, qualcosa come Difensore Civico Nazionale, e al suo nome è stata intitolata la biblioteca di quell’istituzione. E neanche le sono mancate in questa campagna elettorale le accuse di essere una semplice prestanome del presidente uscente Óscar Rafael de Jesús Arias Sánchez, cui la Costituzione impediva di ripresentarsi: e in effetti varie testimonianze concordano sulla sua intenzione già da qualche anno di costruirne la candidatura, pezzo per pezzo.Va detto comunque che lei non smania-

va per la carica, che ha accettato per spirito di servizio. E neanche le mancava l’esperienza di governo: già attiva nella cooperazione internazionale allo sviluppo in America Latina e Africa come esperta in materie di Giustizia e sicurezza, in particolare per l’Onu, è stata poi viceministro della Sicurezza Pubblica tra 1994 e 1996, ministro tra 1996 e 1998, e da ultimo vicepresidente e ministro della Giustizia. Proprio sulla base di questa esperienza è stata giudicata credibile dall’elettorato quando ha impostato la sua campagna elettorale slla lotta alla delinquenza. Su contagio della guerra dei narcos in America Centrale tra 2004 e 2008 il numero degli omicidi è infatti raddoppiato, e malgrado la recente recessione da cui il Costa Rica è stato colto nel 2009 per la prima volta dopo 27 anni tutti i sondaggi concordano nell’indicare nell’ordine pubblico la preoccupazione principale degli elettori. Di lei si sa che da studentessa andava all’Università in un abito indigeno tradizionale, e che parlare di moda è pressochè l’unica distrazione frivola che si concede in una

Da Michelle a Maria, sperando in Dilma Michelle Bachelet in Cile, Cristina Fernandez Kirchner in Argentina: la prima lascerà tra pochi giorni il posto al palazzo della Moneda al miliardario Sebastian Pinera, che ha appena vinto le presidenziali. La seconda è al comando della Casa Rosada, e ci rimarrà fino alle prossime elezioni, in programma alla fine dell’anno prossimo. Ma è ormai lunga la lista delle donne “presidentas” che negli ultimi anni sono salite al potere in America Latina. E che presto potrebbero conquistare, con Dilma Roussef, ex guerrigliera e oggi influente capo di gabinetto, il Paese più importante dell’America Latina, cioè il Brasile. Tra le più note presidenti mujeres del Sudamerica c’è l’argentina Maria Estela Martinez, nota come Isabelita, che prese il potere nel 1974, dopo la morte del marito, Juan Domingo Peron. Molto breve, meno di un anno, e altrettanto drammatica fu anche l’esperienza al potere della boliviana Lidia Gueiler, che dopo nove mesi di presidenza fu cacciata con un golpe dal generale Luis Garcia Meza.

vita in cui, testimoniano i familiari, fin da piccola ha pensato soprattutto a studiare e a lavorare. Malgrado però ostenti buoni rapporti con la gerarchia cattolica e un’opposizione adamantica a ogni ipotesi di aborto e matrimonio gay, lei personalmente è divorziata ed ha successivamente convissuto per cinque anni con lo spagnolo che ha poi sposato nel 2000, avendone un figlio ora 13enne. D’altra parte il Partito Liberazione Nazionale (Pln) in cui lei milita è membro dell’Internazionale Socialista, anche se è sempre stato duramente anticomunista, e se negli ultimi anni si è spostamento marcatamente verso il centro, e anche il centro-destra.

Proprio questa evoluzione ha portato nel 2000 alla scissione del Partito Azione Cittadina (Pac) dell’ex-ministro della Pianificazione e Politica economica Ottón Solís Fallas. Dall’altra parte il Partito di Unione Social Cristiana (Pusc), tradizionale avvrsario del Pln nel sistema bipolare costaricano e al governo nel 1990-94 e nel 19982006, quattro anni fa ha subito un crollo verticale a causa di una serie di scandali, permettendo che il suo posto come principale partito del centro-destra venisse preso dal Movimento Libertario di Otto Guevara Gurth. Il Pusc ridotto ai minimi termini, Solís chiedendo la fuoriuscita dal Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti, Guevara all’opposto reclamando la dollarizzazione, è finita che Laura Chinchilla è rimasta come unica alternativa di governo credibile, e in questo senso la sua elezione non è mai stata in dubbio. Gli unici due interrogativi erano semmai se ce l’avrebbe fatta a arrivare subito al 40% dei voti necessario a evitare il ballottaggio, e chi sarebbe venuto secondo tra l’Ottón ultrastatalista e l’Otto ultraliberista. In effetti, dopo che per quasi tutto il 2009 Otto Guevara era sembrato in grado di arrivare addirittura al 30%, Solís arrancava terzo e la Chinchilla stava poco soptra il 40%, i risultati finali sono stati in parte a sorpresa: Laura Chinchilla 46,7%; Ottón Solís 25,1; Otto Guevara 20,8; e 3,9% il presidente del Pusc Luis Fishman Zonzinski. Come deputati, però, il Pln ne avrà 23-24, contro i 10-11 del Pac, i nove o dieci libertari e i 6 del Pusc. Insomma, nella migliore delle ipotesi uno in meno della metà del Congresso. Per questo la neo-eletta presidentessa ha invitato tutti a collaborare per la governabilità.


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Nel mirino del numero due di al Qaeda anche Usa e Israele

Acquistato anche un terreno nei pressi della Torre Eiffel

Ex detenuto di Guantanamo invoca il jihad contro i cristiani

Mosca si dà allo shopping a Parigi e compra navi da guerra

DUBAI. «Proclamate la jihad.

MOSCA . La Russia compra due

Gli interessi americani e crociati sono ovunque e i loro agenti si muovono ovunque. Attaccateli ed eliminate quanti più nemici potete». Così ieri il numero due di al Qaeda nello Yemen, Said al Shehri, ex detenuto di Guantanamo, si è rivolto ai suoi seguaci. L’appello è stato rivolto in un messaggio audio messo online su un sito internet legato ai fondamentalisti islamici. Al Shehri ha inoltre invocato una guerra santa «contro i cristiani e gli ebrei presenti nella regione» e attaccato la famiglia reale in Arabia Saudita per la sua partecipazione alla lotta contro l’organizzazione di bin Laden. «Questi criminali, gli Al Saoud, sono quelli che guidano la guerra contro i musulmani, al posto dei sionisti e dei crociati», ha sottolineato Shehri, saudita, numero due di Aqpa, nata dalla fusione nel gennaio 2009 del ramo saudita e di quello yemenita dell’organizzazione fondamentalista.

pezzi di Francia: la nave da guerra Mistral, per usarla e replicarne alcune copie, e un terreno nel centro di Parigi, a pochi passi dalla Torre Eiffel, per costruire un centro spirituale e culturale nella capitale francese. I due annunci sono arrivati in contemporanea ieri e mostrano una Russia particolarmente interessata a sviluppare i rapporti con i nostri cugini d’oltralpe, in più direzioni. Mistral è un passo strategico, anche per quello che riguarda i rapporti con l’Alleanza euroatlantica. La Francia aveva già inviato “in visita” la nave da assalto anfibia a San Pietroburgo lo scorso anno, esprimendo un chiaro segno di interesse per una potenziale vendita, che è il primo accordo tra un

«Ripeto ciò che ha affermato lo sceicco Osama bin Laden: non potrete sognare la sicurezza finché la sicurezza non sarà una realtà vissuta in Palestina», ha aggiunto, rivolgendosi questa volta agli Stati Uniti. «Gli Stati Uniti non potranno aspira-

Arriva Yanukovich ma al popolo parla in russo Anche se è appena stato eletto presidente dell’Ucraina di Osvaldo Baldacci a salutato la vittoria tenendo in russo il suo primo discorso a urne chiuse. Però è il presidente dell’Ucraina. Viktor Yanukovich è stato eletto sconfiggendo al ballottaggio la pasionaria arancione Yulia Tymoshenko. Sembra un consistente passo indietro, in realtà la situazione è molto più articolata, anche se certo per l’Europa qualche problema si pone. Yanukovich ha vinto con il 48,34 per cento dei voti contro il 46,05 della Tymoshenko. L’affluenza alle urne è del 70 per cento e il presidente della commissione elettorale centrale Shapoval ha già dichiarato valido il voto. Le istituzioni europee tramite i loro osservatori hanno promosso le consultazioni ucraine dal punto di vista della legalità e della trasparenza. «Nessuna irregolarità di rilievo», è stato il primo commento del capo della commissione dell’Europarlamento incaricata di monitorare il voto, Pavel Koval, la cui relazione finale è attesa “in pochi giorni”. Ancora più soddisfatta la missione degli osservatori internazionale dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, di cui fa parte anche la Russia. Secondo l’Osce le elezioni presidenziali si sono svolte in modo “trasparente e onesto” aprendo la via ad una transizione “pacifica” del potere. Le schede non valide (e quindi contestabili) sarebbero solo l’1,18%. Ciononostante la premier Yulia Tymoshenko ha più volte contestato la regolarità del voto, prima e dopo l’esito. Non è ancora chiaro se i pronunciamenti esterni ora la terranno tranquilla. La Tymoshenko accusando Yanukovic di brogli ha ricordato che lui era risultato vincitore anche del voto presidenziale del 2004, e fu contro di lui, delfino del precedente gerarca Kuchma, che si avviò quella Rivoluzione Arancione che segnò la democratizzazione dell’Ucraina e lanciò sulla scena proprio l’attuale premier Tymoschenko e il presidente uscenteYushenko. Ma la questione è proprio là. Da quella rivoluzione troppa acqua è passata sotto i ponti, e la rottura tra i due arancioni è stata netta, e ha favorito il ritorno degli eredi della precedente gestione. D’altro canto la rivalità tra Yushenko e Tymoshenko aveva contribuito da una parte a paraliz-

H

zare il Paese offrendo ai cittadini risultati deludenti, dall’altra aveva dato il via libera a tatticismi politici dove le rivalità prevalevano sulla linea, per cui il fronte arancione, nato come democratico e antirusso, si è trovato a ballare un minuetto con Mosca alternandosi nel riavvicinarsi a quella Russia di cui erano stati nemici giurati (Yushenko ha subito anche un tentativo di avvelenamento, mentre sulla Tymoshenko pendeva un mandato di arresto).

Per questo tutto sommato non desta particolare preoccupazione la vittoria di un russo a Kiev. Nel senso che c’era già abbastanza tensione per lo slittamento costante dell’Ucraina verso le braccia di Mosca. Da un punto di vista strutturale il Paese è spaccato a metà: un’anima russa e ortodossa a est, una più propriamente ucraina, più cattolica e filoeuropea, a ovest. Una tensione viva nel Paese, che ne influenza il destino. Destino che è anche segnato dal passaggio di condutture energetiche che partono dalla Russia. Per questo l’Ucraina è un campo di battaglia tra due opposte visioni. E da quando solo poco tempo fa era viva l’ipotesi di un’entrata di Kiev in Nato e Ue, adesso i filorussi stanno certamente segnando una serie di punti a loro vantaggio. Niente di grave, se questo può aiutare a stemperare le tensioni e a fare dell’Ucraina un terreno di incontro, rafforzando al contempo i meccanismi democratici e l’alternanza. Ma certo i filoccidentali ucraini devono fare autocritica e riflettere su come essere più influenti nel futuro, e l’Europa deve valutare la strada migliore per fare i conti con il suo primario fornitore di energia, la Russia, che torna ad avanzare verso ovest - oltre all’Ucraina si pensi a Bielorussia e Georgia - aumentando la sua forza negoziale, senza che questo corrisponda necessariamente a un consolidamento della democrazia e dei diritti. Cosa succederà concretamente a Kiev dal punto di vista politico è ora da vedere. SeYanukovic non supererà il 50% potrebbe essere costretto alla coabitazione con la Tymoshenko, che deve decidere quale strategia tenere.

“Viktor” ce l’ha fatta con il 48,34% dei voti contro il 46,05 della Tymoshenko. L’affluenza alle urne è stata del 70%

re alla sicurezza prima che questa non sia una realtà in Palestina. È ingiusto che abbiate una vita tranquilla mentre i nostri fratelli a Gaza vivono nelle condizioni peggiori», aveva denunciato bin Laden in una breve registrazione audio diffusa dalla tv satellitare araba al Jazeera lo scorso 24 gennaio. Scopo “strategico” del messaggio è il controllo del Golfo di Aden: «Se riusciremo a prendere il controllo di Bab el-Mandeb - al Shehri - e a portarlo nell’ambito dell’Islam, ciò costituirà una vittoria eclatante. A quel punto - spiega - lo stretto verrà chiuso e una morsa si chiuderà intorno agli ebrei perché è attraverso Bab al-Mandeb che l’America porta loro il suo appoggio».

membro della Nato e Mosca. La prospettiva allarma alcuni Paesi ex-sovietici, in particolare la Georgia e l’Estonia, e alcuni critici in Russia che sostengono la necessità di sviluppare forze militari nazionali senza il coinvolgimento di altri stati. Ma così vanno le cose: Parigi ha dato l’ok e Mosca sembra pronta a comprare altri tre vascelli della stessa classe.

Ma l’accordo travalica le questioni militari e guarda anche altrove: Mosca si è già aggiudicata una gara per l’acquisto di terreni nel cuore di Parigi, con l’intenzione di costruire al posto del Servizio meteorologico nazionale francese Meteo France, un centro spirituale e culturale russo. Il terreno si trova nel settimo arrondissement di Parigi, a pochi isolati dalla Torre Eiffel. Il servizio meteorologico francese andrà altrove. Le finalità del progetto era state già decise il 27 novembre scorso, quando il primo ministro russo Vladimir Putin si era recato in Francia per incontrare il suo omologo Francois Fillon: per l`occasione era stati firmati numerosi accordi per la vendita di tecnologia avanzata, la cooperazione in campo energetico, l`ingresso di Edf nel consorzio per la realizzazione del gasdotto South Stream e North Stream. Insomma, Francia e Russia stanno chiaramente rafforzando le loro relazioni.


cultura

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Tra gli scaffali. Pubblichiamo un ampio capitolo del libro di Giuseppe Baiocchi e Patrizia Fumagalli “Se la vita si rianima”, ispirato alla vicenda della donna di Lecco

Il rumore di un’innocente A un anno dalla morte di Eluana Englaro, viaggio ragionato sul senso (e sulle contraddizioni) di un “caso” che fa ancora molto clamore di Giuseppe Baiocchi e Patrizia Fumagalli ella vicenda di Eluana Englaro si è molto discusso, polemizzato, approfondito, talvolta imprecato, perfino mentito: si è anche pianto. A quasi un anno dalla sua morte deliberata non si è spenta con lei l’attenzione per un fenomeno diventato pubblico e che ha avuto comunque l’indubbio effetto di portare anche alla più vasta opinione l’inclinazione a riflettere sulle domande ultime, della vita e della morte. E se in milioni di case si è cercato di immedesimarsi in una vicenda personale e tuttavia emblematica (dalla gioventù spezzata ai dolori di una famiglia alla lunga serie di passaggi giudiziari alla ripetuta esposizione mediatica), rimane comunque viva la sottile inquietudine per un finale convulso e scadenzato, in ogni caso lacerante per le coscienze, e che ha lasciato in tutti (comunque la si pensi in merito alla scelta) il retrogusto amaro di un’opportunità perduta, di un «qualcosa» di indefinibile che continua a mancare.

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Di lei, Eluana, della sua vita divisa temporalmente a metà tra il «prima» del trauma e gli anni del «dopo», si è saputo tutto, forse troppo. Dal ricovero d’urgenza dopo l’incidente stradale all’ospedale di Lecco e le lunghe cure nel reparto di rianimazione alla degenza di riabilitazione a Sondrio fino all’ospitalità nella clinica delle suore Misericordine sempre a Lecco. E, dopo diciassette anni, il trasferimento notturno alla struttura di Udine, dove è stata rapidamente consumata la fine. In quegli ultimi giorni controversi si spaccò il Paese, fino al conflitto istituzionale tra il governo e il Quirinale: nel clima generale sopra le righe, sembrò di assistere nelle punte più estreme, a manifestazioni tipiche da un tifo da stadio. Con una parte impegnata a tutti i costi nella campagna per «salvare una vita» mentre dall’altra curva

Il significato della «rianimazione» nella premessa degli autori

Quel vetro opaco tra ripresa e morte ianimazione”: per la lingua italiana, e lo si ritrova in ogni dizionario, è uno splendido termine che significa «restituzione e ripresa di vitalità, di animazione, di fiducia, di coraggio…». E che trasmette un’immagine positiva, di sostanziale ripartenza. Eppure nel logorìo del linguaggio e nella pigra routine giornalistica o burocratico-sanitaria ha finito per associarsi quasi esclusivamente a un senso prevalente di sconfitta, di anticamera della fine, di un tempio appartato dove si compiono i riti misterici di una scienza sempre meno traducibile al comune sentire.

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Già, perché la “rianimazione” è, proprio nel sentire comune, una porta di vetro opaco che trasmette il brivido dell’ansia e dell’ignoto. E spesso non si coglie che, al di là, in un silenzio operoso, si muove una affiatata comunità di lavoro che conquista di frequente guarigioni impensate, che allevia la sofferenza della vita in declinare, che accompagna con decoro il passaggio della morte, che, del caso, compie la rispettosa procedura del prelievo degli organi per la donazione. Là, giorno e notte, tutti i giorni e tutte le notti, pur muniti di una strumentazione sempre più agguerrita, si toccano sul campo gli interrogativi etici ed esistenziali che scuotono le coscienze e ormai fanno parte ineliminabile del discorso pubblico e delle responsabilità della politica. Là si affrontano caso per caso. Nella consapevolezza pratica che ogni persona è unica e irripetibile e per ognuna c’è un tragitto peculiare da seguire nel vincolo di Ippocrate e nel possibile supplemento di umanità. Eppure , in quel “continuum” ininterrotto, anche là rimbalza, provocando dubbio e sconcerto, l’eco discorde del dibattito pubblico sui temi etici, un dibattito mai così infiammato. E mentre si assiste da lontano all’aspro confrontarsi di giuristi e legislatori, di intellettuali e politici, alla ricerca di una norma che sia generale, sembra trascolorare, se non impallidire del tutto, la dimensione concreta e l’esperienza quotidiana dell’imbattersi fisicamente nelle questioni della vita e della morte. Come se servisse a poco alle aule parlamentari quella prosaica “sapienza delle cose” che scaturisce dalla realtà vissuta. E della “sapienza della realtà” qui si vuole dare conto, facendola emergere dal luogo che è diventato involontario simbolo e da cui tutto, presso l’opinione pubblica, è davvero cominciato: quell’ospedale di Lecco dove, in una fredda notte di gennaio, arrivò, ferita, una giovane di nome Eluana Englaro...

scendeva monotono il grido «Devi morire, devi morire...». Con «l’oggetto del contendere» in mezzo, vittima comunque inerme e muta e nella sua disabilità ancora più tragicamente incolpevole. Il suo caso era diventato un’eccezione senza in realtà mai esserlo. E forse, nel trascorrere del tempo che decongestiona le passioni, questa anomalia merita di essere ricostruita, visto che all’epoca sfuggì completamente al dibattito pubblico e financo alla disputa giuridica, etica e intellettuale. Appunto. Eluana non è stata e non è un’eccezione: nello stesso ospedale non è infrequente il caso di traumatizzati con lesioni cerebrali che, dopo tutti gli interventi e le terapie rianimatorie, si stabilizzano in una condizione di disabilità con deficit neurologici.

Servirà poi la non breve degenza di riabilitazione, che può portare notevoli progressi, ma

Comunque la si pensi, questa storia ha lasciato il retrogusto amaro di un’opportunità perduta, di un «qualcosa» che continua a mancare che difficilmente conduce al pieno reintegro della funzionalità. E talvolta la diagnosi alla fine della rianimazione è quella più difficile da trasmettere per il medico che ne è responsabile: è meno duro infatti dover informare sull’«esito infausto» e su una morte imminente rispetto alla comunicazione di uno «stato neurovegetativo persistente» con la ragionevole previsione di «scarsissime probabilità di ripresa della coscienza». L’impatto per i familiari è sempre pesantissimo: e tuttavia, mentre si chiede subito di essere indirizzati e aiutati a prepararsi ai passaggi successivi, non si mette mai in dubbio dai parenti l’entità della persona, la piena realtà umana del paziente, anche se il futuro che aspetta i suoi cari è un tempo carico di fatiche, di dedi-

zione e di assistenza. E questo vale per i quasi tremila sfortunati (almeno secondo i dati approssimativi, perché manca ancora un completo censimento) che in Italia si trovano ap-


cultura mento della famiglia che si rifiuta di accettare la realtà. Infatti, dopo i primi giorni di terapia, è stato già ampiamente documentato come Beppino Englaro chiedesse agli stessi medici di por fine alla vita della figlia perché non sarebbe tornata integra. La conferma più recente viene dall’ultima dichiarazione firmata dal primario Riccardo Massei e trasmessa a tutti i deputati dal sottosegretario alla Famiglia Giovanardi all’apertura della discussione sul «testamento biologico» nel settembre 2009: «Beppino Englaro ha chiesto di lasciare andare la figlia dopo meno di 48 ore dall’incidente perché non ero in grado di garantirgli che la figlia sarebbe tornata a essere esattamente come prima...». Nelle interviste televisive, nei libri scritti successivamente e perfino nella lettera pubblica indirizzata nel 2004 al Presidente Ciampi, si riconosce la dedizione dei medici, «in assoluta ottemperanza al giuramento di Ippocrate» e tuttavia si precisa che all’ospedale di Lecco «è scattato un inarrestabile meccanismo di tutela del bene “vita” di Eluana, meccanismo che noi genitori abbiamo considerato inumano e infernale». Sono passati molti anni: eppure nei ricordi di chi ha vissuto da vicino quel periodo è rimasta impressa l’eco di diverbi espliciti, di discussioni ripetute e certamente non «tranquille». E, sotto il comprensibile impulso del dolore e della disillusione, il disconoscimento della figlia in quelle condizioni e la pretesa che da subito non vivesse più. Nessuno, come è ovvio, poteva soddisfarla: di qui la lunga battaglia legale con sette sentenze negati-

punto in «stato neurovegetativo persistente». Invece, nella memoria collettiva di tanti anni e di tanti casi vissuti e sperimentati, emerge un’unica vicenda nella quale, praticamen-

te fin dall’inizio, si manifesta il rigetto della persona curata nella rianimazione e con disabilità di natura cerebrale: il caso Englaro. L’eccezione, l’unica eccezione è qui, nell’atteggia-

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Oggi la presentazione del volume a Lecco Si svolgerà oggi, martedì 9 febbraio, alle ore 21 presso l’Auditorium Casa dell’Economia-Camera di Commercio di Lecco (in via Tonale 30), la presentazione del libro di Giuseppe Baiocchi e Patrizia Fumagalli “Se la vita si rianima-Cronache di bioetica & speranza dall’ospedale di Eluana” (edizioni Ares). Dopo il saluto di Vico Valassi, presidente della Camera di Commercio di Lecco, interverranno insieme con gli autori e l’editore del volume: Roberto Formigoni, governatore della Regione Lombardia, Giancarlo Cesana, presidente della Fondazione Irrccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, Biagio Allaria, direttore del Board scientifico di Medical Evidence Italia. Modererà Marco Tarquinio, direttore del quotidiano “Avvenire”.

A sinistra, un’immagine di Eluana Englaro. Nella pagina a fianco, la copertina del libro di Giuseppe Baiocchi e Patrizia Fumagalli “Se la vita si rianima”. In alto, la locandina della presentazione del volume, che si svolgerà oggi a Lecco. Sopra, un disegno di Michelangelo Pace

ve. Solo l’ottavo pronunciamento apriva la via alla morte procurata di Eluana. Ma la Corte d’Appello di Milano, poi confermata dalla Cassazione, emetteva un decreto su istanza del ricorrente, circoscritto al caso specifico, nel quale decreto non si imponeva un obbligo, ma si autorizzava una facoltà. Anche qui, in sostanza, un’eccezione e neppure un precedente che abbia valore collettivo, come in realtà eccezione era stata fin dall’inizio. Prova ne sia che, nonostante il grande e continuato impatto mediatico, nulla ha influito e nulla è cambiato nei luoghi di frontiera, le rianimazioni, dove si continua a operare serenamente solo per la vita.

Sia consentita, in conclusione, una qualche riflessione su questa storia e sul suo protagonista, ormai diventato personaggio pubblico e campione, almeno così viene descritto, della «libertà di autodeterminazione nello Stato di diritto». Per chi, per lavoro, ha vissuto da vicino i primi mesi della vicenda, non svanisce l’impressione di un uomo provato, che si è rifiutato di accettare la realtà e ha sempre avuto l’atteggiamento di voler caricare sulle spalle di altri (prima i medici, poi i giudici) un problema essenzialmente suo. Fino al punto da definire così l’assistenza amorevole con cui Eluana è stata accudita per lunghi anni: «...l’orrore di vederla priva di coscienza, tenuta in vita a tutti i costi, invasa in tutto e per tutto da mani altrui anche nelle sfere più intime, un orrore in alcun modo sopportabile e ammissibile...». Per chi invece ha seguito la vicenda da lontano, dentro il circuito mediatico e il dibattito pubblico, resta viva questa sensazione: anziché un campione della modernità e dei diritti individuali, appare tutt’ora un uomo che proviene da un lontanissimo passato, che si pensava ormai sepolto. Quello cioè del pater familias latino che aveva il diritto di vita e di morte sui coniugi e la prole. E che si è rivolto alla maestà della legge per confermare questo suo diritto di proprietà. Infine sia permesso di manifestare soltanto l’amarezza per quello che è apparso comunque un «deficit di amore». Fino all’ultima, tragica incoerenza. Infatti Beppino Englaro aveva stabilito, con una tenera delicatezza che gli faceva onore, che Eluana finisse i suoi giorni proprio là dove era nata: la clinica «Beato Talamoni» di Lecco, tra le cure delle suore Misericordine. Così non è stato.


spettacoli

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l 2 luglio del 2005, alle undici di sera (ora del meridiano di Greenwich), il mondo rock trattenne il fiato. Roger Waters di nuovo su un palco con i Pink Floyd, all’Hyde Park di Londra, per il Live 8 e una causa buona e giusta - la cancellazione del debito delle nazioni povere da parte dei governi del G8: per i fan fu come vedere crollare un’altra volta il Muro, celebrare la fine di un’altra guerra fredda tra blocchi contrapposti. I sorrisi e gli abbracci tra i Quattro, a dispetto del lieve imbarazzo di David Gilmour, fecero venire i lucciconi a molti, e aprirono scenari che nessuno osava più immaginare. Sappiamo poi come è andata a finire: bocce ferme e rifiuti ostinati di offerte milionarie. Fino a quando l’inattesa morte del taciturno ma insostituibile Richard Wright, il 15 settembre del 2008, ha messo a tacere ogni riposta speranza di rinascita e di reunion.

I

Può ben fregiarsi del sottotitolo di “storia completa dei Pink Floyd”, allora, l’ Echoes di Glenn Povey fresco di stampa, minuziosissimo diario di bordo della band inglese tradotto ed edito in Italia da Giunti per la collana Bizarre diretta da Riccardo Bertoncelli. Una di quelle maniacali compilazioni che qui, ai confini dell’impero, suscitano sempre ammirato stupore e in cui solo certi rockofili inglesi hanno l’incoscienza di avventurarsi dedicandovi anni della loro vita. Povey, fondatore della più celebre fanzine dedicata al gruppo ma anche manager e impresario di artisti (dallo scomparso Arthur Lee dei Love alla tribute band Australian Pink Floyd), ha ricostruito il puzzle complicato di ogni mossa e apparizione pubblica dei suoi eroi, annotando diligentemente ogni prova e concerto (corredato di scaletta, ove rintracciabile), ogni seduta fotografica e in sala di incisione, ogni conferenza stampa e uscita discografica, partecipazione radiofonica o televisi-

Musica. Glenn Povey firma “Echoes”, storia segreta dei Pink Floyd

A proposito di Gilmour e Waters di Alfredo Marziano

le porte delle arene e degli stadi americani, ai megashow con gli Stukas e i maiali volanti, al Muro di cartone e agli effetti speciali della fantasmagorica apparizione in Laguna (15 luglio 1989, Waters da tempo si è chiamato fuori e l’amministrazione veneziana, ricorda Povey, andrà in rosso di 25 mila sterline solo per ripulire piazza San Marco). Il ’94 è l’ultimo anno fitto di impegni, poi il calendario si dirada. Ma invece di incoraggiare l’oblìo, l’assenza rinforza il mito: più i Floyd e i loro singoli componenti si sottraggono alla voracità del pubblico, più ne vengono reclamati. Fino a quel fatidico Live 8 dove «la loro apparizione arrivò quasi a eclissare l’importanza dell’evento stesso», scrive nella sua introduzione Povey, troppo giovane per avere visto in azione prima di allora la formazione classica del gruppo. «Fu quella estemporanea apparizione», aggiunge, «a darmi l’idea dell’impatto che la band ha avuto sulla cultura popolare». Echoes si chiude con le ultime tournée di Waters e Gilmour, entrambi improvvisamente vogliosi di resuscitare – ognuno a modo suo, e a debita distanza – il fantasma Floyd.

È un testamento, non una va, per poi approfondire e illustrare elenchi, date e numeri con estesi capitoli introduttivi, foto, poster e locandine. Avendo raccolto gran parte delle informazioni nell’era antecedente a Internet, l’infaticabile topo da biblioteca ha ricostruito la sua straordinaria cronologia spulciando articoli di giornale negli archivi di mezzo mondo, ascoltando registrazioni clandestine degli spettacoli dal vivo, contattando editori di riviste ma anche locali e università dove i Floyd e i loro antenati si sono esibiti nel corso della loro più che quarantennale attività.

A cominciare dagli anni del liceo e dell’università, quando quegli svogliati studentelli d’arte e d’architettura preferivano dare sfogo alle proprie velleità con uno strumento, possibilmente elettrico, in mano. È il momento delle formazioni dai nomi misteriosi e improbabili che a volte duravano lo spazio

di qualche settimana e nessuno, prima del prode Povey, aveva osato avventurarsi in questo territorio incerto e nebbioso con il taccuino in mano e zelo da esploratore: il suo radar intercetta Syd Barrett nelle fila di Geoff Mott and the Mottoes (unico concerto accertato, una festa da ballo nel marzo del 1962), con gli Hollerin’ Blues e i Those Without, Gilmour con i Newcomers e poi con i Jokers Wild, Waters, Mason e Wright con i Sigma 6, i Meggadeaths e gli Screaming Abdabs (o più semplicemente Abdabs); infine Syd, Roger, Nick e Richard insieme nei Leonard’s Lodgers, gli Spectrum Five e i Tea Set, da cui, tra l’estate e l’inverno 1965, prendono finalmente forma i Pink Floyd. Letta in controluce, e con l’aiuto dei cappelli introduttivi dell’autore, l’asettica lista di date e di luoghi fotografa, come nella celebre sequenza del Mago di Oz, il passaggio

L’autore ricompone il puzzle di un gruppo mitico: ogni mossa e apparizione dei suoi eroi, è annotata con estremo rigore da un mondo in bianco e nero al technicolor, dalla Cambridge studentesca dei pub e delle sale da ballo alla Swinging London, dal beat e dal blues revival alla cultura psichedelica. Dai club e dai ginnasi alla Royal Albert Hall (intanto Barrett, perso nei meandri dei suoi trip lisergici, viene licenziato e sostituito con Gilmour), dal Piper di Roma (18 e 19 aprile 1968, primi concerti italiani) all’anfiteatro romano di Pompei (4-7 ottobre 1971), prima che il successo plebiscitario di The Dark Side Of The Moon apra

Nella foto grande, il saluto degli storici membri della band britannica in una recente apparizione. Qui a sinistra, i quattro a inizio carriera. Qui a destra, la copertina di “Echoes”, biografia del gruppo firmata da Povey

pietra tombale. Proprio in queste settimane circolano voci insistenti sulla volontà di mr. Waters di rimettere mano al suo progetto più ambizioso, The Wall (trent’anni compiuti lo scorso novembre), per farne un musical e riportarlo in tournée. Nick Mason, il “Kissinger” del gruppo, s’è detto già disponibile a dare una mano, su Gilmour non c’è da scommettere un centesimo e comunque il vecchio marchio sembra sepolto per sempre. Eppure, avverte l’uomo che nel 1983 pose fine a tutto, «questa non è la fine, non è neanche l’inizio della fine. Forse è la fine dell’inizio». Waters che cita Churchill: in gioco non c’è una guerra mondiale, ma una fetta di storia del rock sì.


spettacoli

9 febbraio 2010 • pagina 21

Teatro. In occasione della rassegna “Face à face”, lo scrittore francese legge “Bartleby lo scrivano” all’Argentina di Roma

Pennac preferisce Melville di Enrica Rosso

Nella foto grande, lo scrittore francese Daniel Pennac in un momento del recital di “Bartleby lo scrivano”, novella di Melville. In basso, altre due immagini del romanziere nato a Casablanca il primo dicembre del 1944. È arrivato al successo con opere come “La fata carabina” e “Monsieur Malussène”, e decine di fiabe per ragazzi come “Il giro del cielo” a rassegna teatrale italo-francese Face à Face - Parole di Francia per Scene d’Italia, promossa dall’Ambasciata di Francia in Italia, ha inaugurato la quarta edizione con un personaggio di richiamo: lo scrittore Daniel Pennac. Forse il di lui padre signor Pennacchioni, non si rendeva conto d’imprimere un solco si’ profondo nell’animo del giovanissimo figlio Daniele quando negandogli la possibilità della lettura solitaria, ma sottoponendolo alle sue personali esibizioni di lettore (marezzate dal fumo di molte sigarette), germogliava in lui il seme del raccontatore.

L

Ora quel bambino cresciuto con il cielo d’Africa negli occhi ci ha reso il favore esibendosi dal 5 al 7 febbraio al Teatro Argentina in tre letture in francese, sottotitolate in italiano, di un testo chiave dell’educazione sentimentale dell’uomo Pennac: Bartleby lo scrivano - Una storia di Wall Street dell’americano Herman Melville.Vi si narra in forma diaristica lo sgomento di un magistrato della Corte di equità di fronte agli improvvisi, compiti, reiterati dinieghi dell’operoso e fino a un momento prima impeccabile scrivano Bartleby a eseguire gli ordini ricevuti. Il magistrato non riuscirà più a liberarsi dall’ossessione dei «preferirei di no» dell’ossequioso, ormai inutile, copista. Neppure traslocando, neppure dopo la di lui morte in carcere avvenuta per inedia. Insomma una storia di devianza. L’incontro dei due autori indipendentemente dall’unità di tempo, spazio e luogo - Melville nasce a NewYork nell’estate del 1819, mentre Pennac vede la luce a Casablanca, nel continente africano nell’inverno del 1944 - sembra comunque predestinato. Entrambi sono fortemente influenzati dalla figura paterna: il primo commerciante, il secondo militare, tutti e due gran raccontatori; entrambi preda del fascino dell’esotico, appassionati viaggiatori, cittadini del mondo, hanno speso per mare una parte della loro vita; entrambi hanno condiviso l’esperienza dell’insegnamento e hanno ritenuto giusto dedicare il loro

talento di scrittori alla condanna dell’esercizio militare - Melville in forma poetica nel 1866 in Pezzi di battaglia: aspetti della guerra e Pennac nel suo primo scritto datato 1973 nel saggio Il servizio militare al servizio di chi?- (fu in questa occasione che decise, per non turbare la sensibilità del genitore, militare in carriera, di utilizzare lo pseudonimo di Daniel Pennac).

Sembrerebbe un’attrazione fatale a tutti gli effetti. Per prepararci ad assistere alla lettura-spettacolo che sancisce

tato Melville, cucendo una lettura spettacolarizzata vivace ed ironica, in cui l’uso dello spazio e il sincero divertimento degli interpreti hanno giocato un ruolo fondamentale nella riuscita della serata. A seguire, il 3 febbraio, il palco dell’Argentina ha ospitato la straripante bravura di Giuseppe Manfridi che ha curato e interpretato un nuovo testo commissionato dal Teatro di Roma composto espressamente per l’occasione: Wakefield, l’uomo che volò oltre se stesso. La novella in questione in cui si narra la scelta di un uomo che abbandona

Entrambi sono fortemente influenzati dalla figura paterna, sono preda del fascino dell’esotico e appassionati viaggiatori che hanno speso per mare una parte della loro vita quest’incontro, il Comitato artistico di Face à face ha costruito un percorso di graduale avvicinamento come si trattasse di un conteggio alla rovescia. Il 2 febbraio con La Potenza di NON – piccola storia di grandi rifiuti a cura di Claudio Longhi un collage di personaggi che per dirla alla maniera di Enrique Vila Matas «ospitano dentro di sé una profonda negazione del mondo». Facendo agire i suoi giovani attori nei vari punti d’acco-

glienza del Teatro Argentina (il foyer, il bar, la scena, i vari ordini di palchi e la sala), anche in contemporanea, Claudio Longhi ha presentato un catalogo di dissenzienti esemplari nati da penne illustri: Robert Walser, Franz Kafka, Balzac, Hoffmann, Tabucchi oltre al già ci-

il tetto coniugale per trasferirsi, sotto mentite spoglie, nella costruzione dirimpetto e da lì osservare dall’esterno il fluire della sua vita, si rivela essere però solo un pretesto. Seduto un poco in disparte, un cappello a falda poggiato sul ginocchio, un leggio, due casette in miniatura che si fronteggiano come in un cartellone da gioco a delimitare lo spazio in cui si svolge l’azione, ecco quanto basta al geniale autore per scatenarsi in due ore di puro istrionismo intellettuale. Com’è nel suo stile inanella storie, cita versi e battute, snocciola aneddoti, racconti, dati, ossessioni. Narra, vive, esplora, ogni mezzo è buono per aggiungere tesori al suo bottino. Non perde mai colpi, non rinuncia mai alla battuta. Improvvisa anche, e molto. Vive con passione tutte le vite che descrive ricomponendosi nelle sue creature, perennemente in volo, lui sì, oltre se stesso. A seguire (il 4) “Serata Bennac”, che ci ha resi testimoni della complicità letteraria tra Stefano Benni, altro autore affabulatore (che per primo segnalò il talento di Pennac ai tipi di Feltrinelli) e lo stesso Pennac. Arriva giocosamente ammantato di porpora monsieur Pennac. Offre un assaggio della lettura di cui sarà poi protagonista, introduce la storia, mentre Benni legge un brano di Pennac di 15 anni fa in cui già citava Bartleby. Si conversa della sorte avversa di Melville, di come siano seguiti alla composizione sullo scrivano 35 anni di silenzio creativo (più altri trenta prima che l’autore fosse riconosciuto, dai posteri, nella sua grandezza).

Pennac ipotizza che egli abbia traslato la sua amarezza allo scrivano che con i suoi «preferirei di no» - “condizionale di cortesia, ma di fatto imperativo categorico”denuncia un disagio di vita che lo porterà alla morte. Passano la parola al pubblico: Pennac è amabile, Benni giocoso ma nell’insieme la serata, a consolazione dei molti esclusi, non si rivela imperdibile. Infine, adattata dallo stesso Pennac nel 2000, per la regia di Daniel Duval, la parola è passata a Melville e alla tanto attesa storia dello scrivano Bartleby.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Le Figaro” del 08/02/10

Tutankamon & family di Éric Biétry-Rivierre iamo vicini alla scoperta di un mistero. Parliamo della paternità di uno dei faraoni più studiati e intriganti della storia dell’antico Egitto. Il prossimo 17 febbraio le autorità cairote renderanno pubblici gli esami fatti sui resti della mummia del giovane reale. Una delle storie più glamour di tutta l’archeologia.

S

Da oltre venti anni una nutrita comunità di egittologi si interroga sui misteriosi legami che intercorrevano fra sette delle più potenti famiglie dell’epoca. L’obiettivo era quello di stabilire le parentele di Tutankamon. Fin dalla scoperta della sua favolosa tomba, avvenuta nel 1922 ad opera di Howard Carter, questo è stato uno dei compiti principali dei ricercatori. Esami radiologici, misure l’ombrosiane del cranio, comparazione dei gruppi sanguigni sono solo alcune delle tecniche già adottate. Poi la notizia che il 17 febbraio l’Egitto avrebbe svelato i risultati dell’analisi del dna effettuate sulla mummia. C’è stata una conferenza stampa al Cairo che ha annunciato l’evento. Ha fatto da maestro delle cerimonie l’ormai popolarissimo soprintendente archeologico del Cairo, Zahi Hawass, fugura di spicco nell’ambiente. Si è cercato di mantenere un certo livello di suspence, per l’Egitto e il ritorno di immagine che ne può derivare sono passaggi importanti. È un evento che tocca l’orgoglio nazionale e l’immagine globale del Paese. Nel 2001 il ministero della Cultura del Cairo si era opposto a un altro tipo d’analisi. Si trattava di prelievi su frammenti di capelli, ossa e unghie del giovane principe. Il problema nasceva dal fatto che sarebbero stati dei ricercatori giapponesi a doverle effettuare. Poi il Con-

siglio supremo dei Beni culturali e la facoltà di Medicina della capitale egiziana hanno trovato una soluzione, grazie alla sponsorizzazione di un mecenate. Il canale tv Discovery channel ha messo mano al portafoglio, staccando un assegno da 5 milioni di dollari per mettere in piedi un laboratorio nel museo del Cairo, in grado di fare un’analisi del dna di Tutankamon. Così potendo stabilire le parentele di centinaia di mummie. Il primo lavoro del genere risale al 2008, quando fu fatto su due feti femminili ritrovati nella tomba del giovane faraone. Ne nacque un dibattito tra egittologi sulle origine di quei due bambini nati morti: se fossero il frutto del rapporto tra il re e la sua giovane consorte Ankhésempaamon, oppure se fossero solo stati inseriti tra i corredi funerari con un valore puramente simbolico. Nel 1979 fu fatta un’altra ricerca, confrontando i gruppi sanguigni, che ne stabilì la paternità e i risultati del 17 febbraio potrebbero confermare questo risultato. Un bel problema per la comunità scientifica, visto che ad oggi si era stabilito che il faraone della XVIII dinastia non aveva avuto eredi.

Se verranno trovate delle correlazioni con il dna di altre mummie sicuramente sarà più semplice disegnare la mappa familiare, anche se si manifesteranno conflitti e contrasti in seno alla comunità scientifica. Tutankamon è sul trono, è vicino ad Akhenaton. Significa che è suo figlio? Nel dicembre del

2008, Zahi Hawass ha ricomposto un blocco di pietra calcarea che raffigurerebbe il giovane re con la sua consorte, che vengono indicati dalle iscrizioni come «il figlio e la figlia del re». Cosa significa? Che Tutankamon si sarebbe unito con la sorella o una delle sue sorellastre. All’epoca l’incesto ara praticato, come il matrimonio fra cugini, ed era socialmente accettato. La mummia di Akhenaton scoperta agli inizi del XX secolo è in pessime condizioni. Nel corso del tempo è stata disseppellita e e ritumulata più volte. Potrebbe trattarsi di quella di Smenkhkhara, suo figlio e successore. Un tentativo potrebbe essere fatto col nonno Amenhotep, il cui corpo è conservato ancora in buone condizioni al museo del Cairo.

La storia controversa di quell’epoca con un radicale cambiamento del pantheon degli dei, verso una specie di monoteismo e la successiva restaurazione, rendono la decifrazione dei documenti del tempo molto incerta. Si narra anche che Nefertiti potrebbe essere la madre di Tutankamon. A molte di queste domande forse avremo una risposta.

L’IMMAGINE

Ogm. È questione economica non di salute. Bisogna puntare su prodotti di nicchia Il ministro alle Politiche Agricole, Luca Zaia, a proposito di organismi geneticamente modificati, ha dichiarato: «Sono contrario e faremo ricorso legale contro la sentenza del Consiglio di Stato che apre ai semi transgenici». Ho già affrontato l’argomento Ogm e documentato che non si tratta di salute ma di economia. Aver puntato sulla paura, paventando il cibo “Frankenstein”, è risultata una strategia perdente. Che le multinazionali siano interessate al settore è ovvio, così come qualsiasi impresa è interessata a piazzare i propri prodotti. Si tratta di capire se il nostro Paese è interessato a varare colture Ogm, cioè se strategicamente è conveniente, oppure è meglio puntare su prodotti tipici della nostra area geografica. Non abbiamo grandi estensioni territoriali e non possiamo competere con Paesi che producono estensivamente e a basso costo. Dobbiamo puntare su prodotti di nicchia, qualitativamente elevati e caratterizzati. È evidente che gli Ogm sono in contrasto con questa strategia.

Primo Mastrantoni

IL VELINISMO È FINITO, ORA NUOVA FASE DEL PDL Il modello del velinismo è finito. Queste elezioni regionali rappresentano una fase nuova per il Pdl, che mai come in questa tornata elettorale ha puntato sulle donne nella convinzione di voler procedere a una concezione di alto profilo delle cosiddette quote rosa. Ora come non mai il partito ha tutto l’interesse a procedere ad una selezione qualitativamente alta della nuova classe politica sia maschile che femminile, fondata sul merito. E, parlando di merito, ce ne sia abbastanza tra le donne che operano da tempo all’interno del Pdl, risorse che attendono di essere valorizzate. Per questo non c’è bisogno di ricorrere a un altro genere di can-

didature. Mi auguro un superamento della logica delle quote rosa, ricomponendo un equilibrio tra impegno politico ed eccellenza professionale. Ne sono esempio le quattro donne che il Pdl ha candidato a presiedere regioni d’Italia importanti e difficili.

Lettera firmata

Morsi da record Niente paura quest’uomo non è in preda a un attacco di rabbia. Se addenta con foga il coperchio di una pentola è soltanto per sfoggiare la sua forza bruta. Avere denti ultraresistenti è un desiderio comune. Lucky Diamond Rich, artista neozelandese, si è fatto incapsulare i denti con una speciale lega metallica per sostenersi con i denti su un trapezio

BIMBA ROM VENDUTA, RESPONSABILI PAGHINO La storia della bambina rom di 13 anni venduta in sposa e infettata dal marito sieropositivo lascia sgomenti. Mi auguro che l’uomo che le ha inferto questa doppia atroce violenza venga punito in modo rigoroso e senza attenuanti di matrice culturale. Mi hanno colpito in particolare le parole della suocera della bimba, che ha

negato di dover alcuna giustificazione poiché questa pratica barbara rientra nelle loro tradizioni. Credo che sia giunto il momento di prendere coscienza di questo problema, spesso trascurato quando si parla di immigrazione. È evidente, infatti, che inquadrare la questione solo in termini di diritto alla cittadinanza, quasi fosse

uno strumento propedeutico all’integrazione, e non il punto conclusivo di un percorso di radicamento e inclusione, rischia di essere assai riduttivo. Ciò soprattutto in relazione alle comunità indiane, pakistane, arabe e rom presenti nel nostro territorio, le cui usanze spesso configgono con il più elementare rispetto dei

diritti e della dignità umane. Solo affrontando il nodo culturale che è alla base di questa situazione, avviando capillari politiche di mediazione, potremo evitare che nel nostro Paese si formino enclavi di illegalità dove le donne vivono all’insegna dell’invisibilità e della sottomissione.

Barbara


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Cerco ovunque e non trovo nulla Avrei voglia di prendermi a schiaffi quando ricevo le tue lettere. Sai che effetto mi fanno? Dell’odio per me stesso. Ma allora vuoi che mi disprezzi, visto che ti compiaci sempre di avvilirmi nel paragone che fai sempre fra di noi? Ebbene sì, disprezzami, coprirmi di rimproveri, di’ che non t’amo. Mentirai ma dillo, riceverò da te tutto.Vedi puoi fare tutto, non me ne adonterò. Sei buona, bella, dolce, intelligente, devota. Mi provi che io non sono niente di tutto ciò. Forse hai ragione, poiché io non faccio nulla per sembrarlo. Di sicuro, mi aspettavo che tu mi abbracciassi per l’idea che ho avuto del viaggio a Mantes! Ebbene vedi! Già mi rimproveri anticipatamente di non restare là più a lungo. E se non avessi avuto questa idea, se quest’occasione non si fosse presentata! Cosa diresti? Tanto peggio, in fede mia, mi ci perdo. Cerco ovunque e non trovo nulla. Eppure non è colpa mia. Mi redarguisci su tutto quel che ti scrivo, su tutte le mie idee, anche su quelle che non hanno alcun rapporto con noi due. Ma di’ pure quello che vuoi, amo la tua scrittura, scrivi pure qualunque cosa. Amo le righe tracciate dalla tua mano, la carta su cui ti sei chinata e che forse è stata sfiorata dalla punta dei tuoi capelli profumati. Gustave Flaubert a Louise Colet

ACCADDE OGGI

LA RIFORMA DELLA MAGISTRATURA ONORARIA Lo schema di disegno di legge relativo alla riforma organica della magistratura onoraria merita qualche riflessione, al fine di provocare delle correzioni in grado di produrre maggiore effetti positivi, tendenti anzitutto a concorrere ad assicurare un corso più celere dei giudizi e a valorizzare e a non far disperdere le professionalità acquisite dagli attuali giudici onorari. Generalmente le riforme producono qualche spesa in più, che nel settore giustizia è più che necessaria per dare risposte sollecite a quanti la invocano. L’art. 29 di questa riforma va controtendenza perché prevede invece che dall’attuazione della legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Come se ciò non bastasse, la riforma produrrà un risparmio per l’erario dello Stato perché l’organico dei giudici di pace dalle attuali 4700 unità verrà ridotto a 3200. Millecinquecento giudici di pace in meno, pari circa a un terzo di quelli attuali, faranno risparmiare all’erario meno di 5 milioni di euro l’anno di indennità fissa. E per una cifra così irrisoria si riduce l’organico, con la conseguenza di far lievitare i tempi per la definzione dei giudici, provocando il naturale aumento dell’arretrato. Non migliore sorte è riservata ai giudici onorari di tribunali e ai vice procuratori onorari, ai quali - è bene sottolinearlo - non è stata mai concessa alcuna indennità fissa e hanno solo l’indennità per le udienze e non anche per i giudizi definiti, come

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

9 febbraio 1849 Dopo la fuga di papa Pio IX da Roma, viene proclamata la Repubblica romana 1861 Jefferson Davis e Alexander Stephens sono nominati presidente e vicepresidente provvisori degli Stati Confederati d’America 1895 William G. Morgan inventa la pallavolo 1900 Nasce la Coppa Davis 1909 Sul quotidiano Arena di Verona è pubblicato, secondo la rivelazione dello storico studioso veronese Antonio Pantano, in lingua italiana il Manifesto del Futurismo a firma F.T. Marinetti 1922 Il Brasile diventa un membro della Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche sulla difesa dei diritti d’autore 1942 Negli Stati Uniti entra in vigore l’ora legale 1950 Paura Rossa: il senatore Joseph McCarthy accusa il dipartimento di Stato di essere pieno di comunisti 1964 I Beatles debuttano al The Ed Sullivan Show

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

è attribuita ai giudici di pace. Si tratta di una disparità di trattamento tra giudici onorari che non mi pare possa trovare alcuna motivazione. La riforma era l’occasione per sanare la macroscopica disparità. Sintetizzando il contenuto della riforma, si rileva che contiene più doveri, nessun diritto e nessuna prospettiva. E infatti l’incompatibilità all’esercizio della professione forense per i magistrati onorari che attualmente è limitata al circondario del tribunale viene con il progetto di riforma esteso al distretto della Corte di Appello. A riprova che è eccessiva l’area di incompatibilità all’esercizio della professione forense, basti pensare che ai vice pretori onorari, l’incompatibilità era limitata alla sola sede del mandamento della pretura e solo per il periodo in cui ne assumevano la reggenza. Non è stato tenuto conto, nell’ampliare l’area di divieto, che delle ventiquattro corti di appello, ben quattordici hanno giurisdizione su tutta la regione (vedi Lazio, Piemonte, Toscana, Liguria, Campania, Sardegna, ecc.). Detto divieto concretamente si traduce nell’impossibilità materiale di poter esercitare la professione di avvocato, per la cui iscrizione all’albo pagano annualmente, e quindi inutilmente. Nessun diritto: ferie, malattia, previdenziali, perché sono dei precari a cottimo. E se volgiamo lo sguardo intorno, ci accorgiamo che fra i precari sono quelli più trattati male, pur assolvendo uno dei compiti più delicati e più difficili.

APPUNTAMENTI FEBBRAIO 2009 VENERDÌ 26, ORE 11, ROMA PALAZZO FERRAJOLI Convocazione Consiglio Nazionale dei Circoli Liberal. SEGRETARIO

VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Luigi Celebre

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Direttore da Washington Michael Novak

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Collaboratori

Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,

Roberto Mussapi, Francesco Napoli,

Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

LE VESSAZIONI DEL CITTADINO (II PARTE) In vista dell’evento mondiale dell’Expo, dovrebbero essere messi in atto una serie di provvedimenti, finalizzati ad agire, in vista del buon esito dell’iniziativa, tutti insieme per ottenere il massimo dall’evento. Sarà possibile, dato l’atteggiamento degli amministratori locali attuali? Valga per tutti l’esempio del 22 dicembre. Il giorno 21 una nevicata abbondante sommerge Milano e l’hinterland. Nei telegiornali della sera si lancia il messaggio di chiusura delle scuole per il giorno successivo, in modo da evitare collassi del traffico e quant’altro.Gli annunci dicono che la chiusura interessa Milano e provincia. Bene, il cittadino-lavoratore si attiene al pubblico proclama. Ma i comuni di Cinisello, Sesto e Cormano, solo questi comuni, attivano un’opposizione di natura politica, e tengono aperte le scuole. Alcuni dirigenti chiamano a casa il personale addetto all’apertura e lo invitano a raggiungere a piedi l’istituto. I docenti, il personale tecnico, i bidelli, quando rientrano, sono costretti a prendere un giorno di ferie per il giorno 22, a pena di vedersi recapitare una missiva in cui li si definisce assenti ingiustificati. Il motivo? La competenza è del sindaco non di altri e il sindaco decide. I mass media però avevano annunciato la chiusura specificandone anche i motivi. Si risponde che occorreva controllare sul sito del Comune. Il cittadino-lavoratore è obbligato a questo? È anche obbligato ad avere un computer e internet a casa? Ma questa è politica? Buona politica? È una buona gestione del territorio? Una lotta di competenze e principi che riversa gli effetti perversi sui lavoratori? In una situazione di emergenza ambientale? È per caso la stessa politica che in caso di disastro, per ribadire le divergenze politiche impedirebbe ai soccorsi viola di partire perché prima devono partire quelli gialli? La politica è al servizio del cittadino o è un esercizio di potere individuale? In questo clima che sembrerebbe di generale assenza di senso di responsabilità del proprio ruolo l’immagine dell’Italia e delle migliaia di ottimi padri e madri di famiglia di cui è composta viene tutelata? Perché nessuno ha sollevato la questione? Marina Rossi P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L CI T T À D I MI L A N O

Mario Arpino, Bruno Babando,

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

John R. Bolton, Mauro Canali,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

Franco Cardini, Carlo G. Cereti,

Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,

Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,

Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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