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ISSN 1827-8817 00212

La violenza può avere un effetto

di e h c a n cro

sulle nature servili, ma non sugli spiriti indipendenti

Benjamin Jonson

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 12 FEBBRAIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Nel trentennale della rivoluzione Ahmadinejad attacca frontalmente Obama e Israele e conferma la minaccia nucleare

L’Onda non la fermano più In Iran milioni di dissidenti in piazza sfidano il regime.Tre persone uccise dalle milizie Basiji. Arrestata la nipote di Khomeini.L’ex presidente Bani Sadr: «La Resistenza può vincere» Le inquietanti intercettazioni del “caso Bertolaso”

Il memoriale della difesa di Liu Xiaobo, scrittore, leader di Carta 08, presentato al tribunale cinese che lo ha condannato a 11 anni per sovversione

Signori di Pechino, le vostre prigioni non uccideranno la libertà di Liu Xiaobo

norevoli giudici, ho considerato i fatti presentati nelle accuse contro di me e non ho nulla da eccepire. L’unica cosa non vera è che io abbia raccolto più di 300 firme per il manifesto di Charta ’08. È vero che ho scritto i sei articoli citati nell’accusa e che ho partecipato attivamente alla stesura del manifesto; ma da parte mia ho raccolto 70 firme, non 300. Per quanto riguarda i crimini di cui vengo ritenuto colpevole, non posso accettarli. Nel corso di questo periodo durato più di un anno, nel quale sono stato privato della mia libertà, mi sono sempre dichiarato innocente durante gli interrogatori della polizia, degli investigatori e dei giudici. La mia innocenza è stata da me provata sulla base della Costituzione cinese, della Dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu, delle riforme politiche che ho sostenuto e dal corso della storia.

O

Gli sciacalli del terremoto L’intervista di Bani Sadr

di Vincenzo F. Pintozzi

ROMA. Retorica e repressione. Sono gli ingredienti principali con cui il governo iraniano ha pensato fosse corretto celebrare il 31esimo anniversario della Rivoluzione islamica con cui l’imam Khomeini cacciò lo Scià. Ieri, giorno della ricorrenza, per le strade di tutto il Paese si sono confrontati manifestanti dell’Onda verde e pasdaran fedeli al regime: il bilancio, pesantemente limitato dalla censura imposta dallo Stato ai media, parla di almeno tre morti fra i democratici e centinaia di arresti. a pagina 2

«Può esplodere tutto, come trent’anni fa»

Dall’inchiesta il ritratto di un mondo fatto di affari, sesso e favori. Anche sulla pelle delle vittime dell’Aquila. Ma Bertolaso: «Non c’entro niente». E Berlusconi attacca i magistrati Marco Palombi • pagina 5

di Luisa Arezzo è una vena di lugubre poesia nelle parole di Abolhassan Bani Sadr, l’ex presidente iraniano costretto a fuggire nell’81 per aver tentato di liberalizzare il regime khomeinista. E un sicuro ottimismo. «L’Onda Verde ce la può fare. Se resiste, sconfiggerà le pallottole del regime e riporterà la democrazia per le vie dell’Iran». a pagina 2

C’

Un Paese senza Stato di Errico Novi Il «caso Betrolaso» oltre ad aprire squarci su uno scenario politico-affaristico inquietante, pone un problema sostanziale: l’abolizione di ogni forma di controllo finisce per dare alla magistratura l’ultima parola su tutto. E a

questo punto diventa inutile (oltre che strabico) gridare sempre al «complotto». Quali sono le soluzioni possibili? Liberal lo ha chiesto a Carlo Nordio e a Paolo Pombeni. a pagina 4

L’Europa dice no all’intervento dell’Fmi e ratifica la decisione presa da Merkel e Sarkozy

Le banche “comprano”la Grecia Atene avrà debiti con Parigi e Berlino per 84 miliardi di euro di Alessandro D’Amato

Che cosa cambia dopo il «commissariamento» deciso ieri

Tutto come previsto: la Grecia si avvia a diventare un protettorato di Francia e Germania. E il debito colossale che Atene ha con le banche sarà pagato dall’Europa senza l’ausilio di denari provenienti dall’Fmi. Ma la Grecia in cambio dovrà dare garanzie politiche.

C’era una volta l’Unione L’Ue non sarà più la stessa, dopo il “commissariamento”della Grecia, perché inevitabilmente si spaccherà tra ricchi e poveri. Questa prospettiva rovescia le premesse sulle quali la Comunità europea era nata oltre mezzo secolo fa e fin qui era cresciuta. Ne parliamo con Alessandro Colombo, Fiorella Kostoris e Vittorio Parsi.

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a pagina 14 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

di Franco Insardà

NUMERO

29 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 12 febbraio 2010

Iran. Ahmadinejad parla per il 31esimo anniversario della Repubblica: «Abbiamo prodotto uranio, Obama servo di Israele»

L’Onda si tinge di rosso

Oltre un milione di persone manifesta contro il regime e i pasdaran attaccano i democratici: tre vittime, ma il numero potrebbe salire di Vincenzo Faccioli Pintozzi

Retroscena di due visite eccellenti alla Guida Suprema

ROMA. Retorica e repressione. Sono gli ingredienti principali con cui il governo iraniano ha pensato fosse corretto celebrare il 31esimo anniversario della Rivoluzione islamica con cui l’imam Khomeini cacciò lo Scià. Ieri, giorno della ricorrenza, per le strade di tutto il Paese si sono confrontati manifestanti dell’Onda verde e pasdaran fedeli al regime: il bilancio, pesantemente limitato dalla censura imposta dallo Stato ai media, parla di almeno tre morti fra i democratici e centinaia di arresti. Oltre che di percosse ai leader riformisti Mousavi e Karroubi, che comunque sono riusciti a partecipare alle proteste, e ai loro sostenitori. Quello che è sicuro è che praticamente tutto il Paese è sceso in strada. Accaparrandosi anche l’appoggio europeo, espresso in serata dalla Ashton. Una parte della popolazione, comunque considerevole, ha deciso di ascoltare il presidente Mahmoud Ahma-

I nervi scoperti di Ali Khamenei i chiedo se Khamene. L’altro illustre ospite è stadi Michael Leeden nei avrà il coraggio to Hashemi Rafsanjani, detto di andare avanti. Senza dubbio teme “la volpe”, uno degli uomini più ricchi del Medi dover pagare un prezzo troppo al- dioriente nonché personalità di spicco del goto avallando un massacro “alla cinese” per le verno che sa dove sono sepolti tutti i corpi. Cirstrade di Teheran. E se un’azione contro i leader colano diverse versioni di questo incontro, moldell’Onda potrebbe innescare una massiccia ri- to spiacevole secondo le fonti. Una cosa è cervolta in tutto il paese, è anche vero che l’atten- ta: è stata una conversazione lunga (3 ore e dismo potrebbe metterlo in gravi difficoltà per- mezzo) e molto polemica, in cui Rafsanjani ha sonali. Oltretutto, negli ultimi giorni ha ricevu- minacciosamente parlato di “terribili conseto due visite importanti. La prima è guenze”se il regime avesse continuato a massastata quella del grande ayatollah crare l’opposizione. Mousavi-Ardebili, uno dei religiosi più importanti del paese. Sembra che Rafsanjani abbia anche invocaMousavi-Ardebili gli ha chiesto di to la liberazione di Ali Reza Beheshti (uno dei ritirarsi, di smettere di usare la principali collaboratori di Mousavi, e soprattutviolenza contro la popolazio- to cognato di Mohtashami Pour, il “padrino di ne e di liberare i prigio- Hezbollah”, ed ex ministro della Difesa) e panieri politici. Khamenei ventato “pericolose reazioni” qualora la richiegli ha risposto picche. sta non fosse stata accolta. Vi chiederete quali Per poi sentirsi dire, siano queste “terribili”e “pericolose conseguenmentre lo accompa- ze”. Credo che Khamenei tema che vengano rignava alla macchina: velati e documentati pubblicamente i suoi nu«Mi ricordi lo Scià de- merosi atti criminali, che vanno dall’aver ordigli ultimi giorni: hai nato gli attacchi terroristici in Libano contro i perso il contatto con soldati francesi e americani, all’aver autorizzail paese, non capisci to l’omicidio dei dissidenti Iraniani. Ci sono quello che sta succe- molti altri casi e, in un paese come l’Iran, la prodendo». Forse. Ma è va del ruolo centrale di Khamenei è senza dubanche possibile che bio sotto gli occhi di molti, come lo è la prova Khamenei sappia dei brogli elettorali di giugno, inviata ai canadeperfettamente quel- si da un certo Saeed, un impiegato del Consilo che sta accaden- glio dei Guardiani cui adesso è stato riconodo e sia determinato a sciuto l’asilo politico a Ottawa. Un’ultima cosa: combattere fino alla fi- Beheshti è stato liberato nel giro di poche ore.

M

Parla Bani Sadr, ex presidente dopo la fuga dello Scià

Il 2010 come la rivolta del ’79: se resiste Mousavi sconfiggerà le pallottole di Luisa Arezzo

Onda Verde ce la può fare. Se resiste, sconfiggerà le pallottole del regime e riporterà la democrazia per le vie dell’Iran». C’è una vena di lugubre poesia nelle parole di Abolhassan Bani Sadr, l’ex presidente iraniano costretto a fuggire nell’81 per aver tentato di liberalizzare il regime khomeinista. E un sicuro ottimismo. La sua voce esile lascia trasparire il peso degli anni (ne ha 76) e del lungo esilio parigino (vive a Versailles) che non ha tuttavia spezzato la sua volontà di tornare da leader tra la gente che lo elesse plebiscitariamente alla massima carica dello Stato nell’80. E fu proprio il successo di un laico a provocare una radicale reazione dei conservatori che in poco tempo svuotarono di ogni potere la carica del presidente, concentrando tutti i poteri nelle mani della Guida spirituale. All’epoca era l’Ayatollah Khomeini, oggi è il suo successore, Khamenei. Insieme al presidente Ahmadinejad artefice del collasso politico che sta mettendo alle strette il regime. «Il governo iraniano è sfibrato, deligittimato,

«L’

sfidato alla radice e profondamente diviso al suo interno - scrive Bani Sadr sulle colonne di Npq, brillantemente diretto da Nathan Gardels - e questo oggi ci consente di fare un paragone sia fra l’odierno regime e le ultime zampate della monarchia prima del 1979, sia fra le diverse ragioni del malcontento sociale. Storicamente parlando, il governo iraniano trae la sua legittimazione da quattro fonti: la sua capacità di indirizzare la politica interna del Paese, la sua autorità religiosa, la garanzia di lavorare per l’indipendenza dell’Iran e infine uno stabile supporto sociale. Ebbene, ognuno di questi privilegi è oggi messo in discussione». Primo: «gli incontestabili brogli elettorali del 12 giugno hanno mostrato all’opinione pubblica che il presidente Ahmadinejad non è in grado - se non mentendo - di mantenere il controllo del governo. E la spontanea rivolta a questo scippo elettorale ha di fatto alienato al governo stesso la sua legittimazione politica». Secondo: «in un discorso durante le preghiere del Venerdì, tenutosi poco dopo la grande truffa elettorale, l’Ayatol-

dinejad. Con orgoglio, questi ha annunciato a tutti i presenti che l’Iran può ora fregiarsi del titolo di “Stato nucleare”. Parlando dalla piazza principale di Teheran, il presidente ha infatti annunciato: «Il primo lotto di uranio arricchito al 20 per cento è stato prodotto e affidato agli scienziati, ma potremmo arrivare fino all’80 per cento. Se non lo facciamo, è soltanto per dimostrare al mondo che non vogliamo usare l’energia atomica per scopi bellici». La scelta di accendere il reattore di Natanz, comunque, ha indotto gli Stati Uniti a inasprire le sanzioni, prendendo di mira le Guardie della rivoluzione. Ahmadinejad ha inoltre accusato l’Occidente di ostacolare riforme efficaci nel Paese: «È da 41 anni che si oppongono alla Rivoluzione e stanno anche ostacolando il progresso di questa grande nazione».

Il presidente iraniano ha anche attaccato Obama: «Purtroppo, la speranza di cambiamento (negli Stati Uniti) si sta trasformando rapidamente in disperazione. Il signor Obama fa disperare tutti. (...) Purtroppo perde occasioni, non agisce correttamente e va su un percorso contrario ai suoi interessi e a quelli del popolo americano, ma serve la volontà dei sionisti». Nel finale, come era prevedibile, ha richiamato in cau-


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12 febbraio 2010 • pagina 3

Manifestanti in piazza per il 31esimo anniversario della proclamazione della Repubblica islamica d’Iran. Oltre un milione di membri dell’Onda è scesa in piazza contro i pasdaran radunati dal governo. Nella pagina a fianco, in basso Bani Sadr, ex presidente dopo la fuga dello Scià; sopra Ahmadinejad

sa il defunto Khomeini e gli ha chiesto di benedire il suo operato. Ma proprio lo spettro del padre dell’Iran musulmano sembra voler perseguitare il regime: dopo l’arresto di una nipote del defunto leader, infatti, ieri è stato un altro nipote a schierarsi con gli oppositori verdi. Che, a Teheran, rinfacciano proprio di aver tradito gli ideali rivoluzionari. Hassan Khomeini ha lanciato una battaglia per non consentire l’uso dell’immagine del nonno da parte dell’attuale regime. Con il suo operato, scrive il Financial Times, «sta contribuendo a rendere più visibile la spaccatura fra “khomeinisti” e “khameinisti”, fra chi ritiene che la legittimità politica sia data dalle urne, e chi da Dio». Hassan Khomeini ha apertamente sostenuto alle elezioni presidenziali dello scorso anno Mir Hossein Mousavi, che era stato primo ministro del nonno a cui era molto vicino, e si è rifiutato di

presenziare alla cerimonia per il giuramento di Ahmadinejad. La scorsa settimana, Hassan ha accompagnato il presidente al mausoleo del nonno, ma è andato via non appena Ahmadinejad ha iniziato il suo discorso per recarsi in visita alla famiglia di Alireza Beheshti, un alleato di Mousavi detenuto, lasciandosi fotografare con le due figlie del dissidente tenute sulle ginocchia.

Quando la televisione di Stato aveva diffuso estratti di discorsi dell’imam da cui si poteva evincere che avrebbe condannato il movimento verde, Khomeini ha immediatamente protestato: «Rincresce che abbiate diffuso esagerazioni false e distorte di eventi passati senza riferire le condizioni del tempo», ha scritto in una lettera - uno dei suoi rari interventi pubblici - al capo della televisione di Stato, Ezzatollah Zarghami. Questa illustre recluta

lah Ali Khamenei, Guida suprema, ha dichiarato guerra al suo popolo, minacciando il pugno di ferro se i risultati elettorali non fossero stati riconosciuti da tutti. Così facendo ha rimosso l’ultimo residuo di legittimazione religiosa e spirituale al regime».

Di più: le sue parole hanno creato una profonda spaccatura anche in seno al regime e fra i tradizionalisti. L’ayatollah Ali Sistani (il grande religioso shiita in Iraq) si è opposto al principio del Velayat-e-Faqih (dottrina ideata da Khomeini secondo cui il giurista musulmano, in quanto esperto della legge (shari’a) che è emanata direttamente da Dio, ha il compito di sovrintendere a ogni azione del Parlamento perché si conformi a quella che il giurista stesso ritiene essere la corretta interpretazione della shari’a. Di fatto con questo sistema il Consiglio dei Guardiani è riuscito a bloccare ogni legge in contrasto con il potere dei religiosi e dei loro alleati, ndr.), e l’ayatollah Hossein Ali Montazeri (che avrebbe dovuto succedere a Kho-

La Ashton, da poco Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza dell’Unione europea, esprime la solidarietà dei Ventisette ai manifestanti non deve però distogliere dal coraggio del resto dell’Onda. Per tutta la giornata, notizie provenienti da Twitter e dai siti vicini all’opposizione hanno riferito di manifestazioni a Teheran e in altre città. Secondo la Bbc, testimoni hanno riferito di oppositori caricati su degli autobus dalle forze di sicurezza. Un leader dell’opposizione, Mahdi Karroubi, voleva raggiungere il corteo a Saddeqiya Street, ma le sue guardie del corpo sono state aggredite dai miliziani basiji mentre uscivano dall’auto. Suo figlio è stato arrestato mentre tentava di intervenire in sua difesa. Sempre su Twitter circola la notizia non confermata - della morte di Leila Zarei, una ragazza di 27 anni, a Teheran: i blogger cita-

meini, prima di diventarne il grande critico e infine morire in circostanze poco chiare alcune settimane fa, ndr.) ha arguito che la dottrina era semplicemente un’imboscata e un falsa interpretazione della parola di Dio. Anche la shari’a più tradizionalista, che il governo ha regolarmente utilizzato per giustificare molte delle sue azioni, è stata svuotata del suo significato originale e ridotta a mera teorizzazione della violenza. l’Ayatollah Mohammad Mesbah Yazdi, che potremmo definire il guru di Ahmadinejad, ha scritto un libro intitolato Guerra e Jihad nell’Islam nel quale teorizza che la violenza è intrinseca e necessaria all’essere umano. Fino ad estendere tale concetto al suo massimo e asserire che la guida suprema è scelta da Dio e che il suo uso della violenza è pertanto legittimo». Un errore, secondo Bani Sadr, irrimediabile. «È così, le sue parole hanno ottenuto un risultato contrario alle aspettative, e anziché rafforzare l’autorità religiosa, l’hanno minata alla sua radice. Perché in contrasto con l’altra forma di legittimazione del regime, la Co-

no una radio persiana. In base ai messaggi che circolano sul sito, la ragazza è stata uccisa a Shariati Street da un miliziano come basiji identificato Raheem Rezaee. Altri microblogger chiedono però conferma, indicando che la notizia sembrerebbe solo una ’voce’. Sempre da Twitter la notizia di altri due manifestanti morti, uno a piazza Shahrak Gharb a Teheran - dove la folla avrebbe distrutto un cartellone con la foto di Khamenei - e una in proteste nella città di Shiraz, nel sudovest del paese. Anche l’ex presidente riformista Mohammad Khatami è stato attaccato nella sua automobile. Suo fratello Mohammed Reza Khatami e sua moglie Zahra Eshraghi, nipote del supremo leader

stituzione iraniana. Quest’ultima parla chiaro e senza forme di ambiguità stabilisce che la guida suprema, il presidente e il parlamento sono scelti dal voto del popolo, non da Dio». Dunque, se Velayat-e-Faqih ha messo tutto questo in discussione minando irrimediabilmente la legittimità del potere, il regime, per giustificare il suo dispotismo, ha messo in atto una nuova strategia. Anch’essa sull’orlo del collasso.

«Si è tenuta in piedi grazie al sapiente utilizzo della paura di essere attaccati o invasi - spiega l’ex presidente - da qualche potenza straniera, Usa in testa. Ma se questa strategia ha avuto successo sotto la presidenza di George W. Bush, che continuamente minacciava un inasprimento delle sanzioni o un attacco, consentendo in questo modo al regime di giustificare un maggiore controllo sulla popolazione, è collassato dopo l’arrivo di Obama alla Casa Bianca. Perché il suo approccio non belligerante e la sua mano tesa ha smascherato il regime, lo ha messo all’angolo, lo ha privato

ayatollah Ruhollah Khomeini, sono stati arrestati ma in seguito rilasciati. Altre fonti dell’opposizione hanno denunciato che sono stati sparati colpi di avvertimento e gas lacrimogeni contro i sostenitori di Mir Hossein Mousavi, il principale rivale di Ahmadinejad alle elezioni di giugno. Sono state segnalate manifestazioni anche a Tabriz, Shiraz e Isfahan.

Un responso incredibile, se si considera che nei giorni precedenti la piazza Khamenei aveva annunciato una repressione senza sconti per chi avesse manifestato. Segno che, questa volta, il Paese è davvero davanti a una svolta: che non deve essere confusa con una deviazione verso la democrazia di tipo occidentale, quanto piuttosto un urlo di repulsione per un dittatore sanguinario e per il suo mentore, o padrone, che non riescono a fare a meno del potere. Non importa a che prezzo.

della sua arma principale: presentarsi come il difensore della sovranità nazionale messa in discussione dalla potenza straniera». Facendo un passo indietro, Bani Sadr avanza una similitudine fra la rivoluzione che portò alla caduta dello Shah e il movimento dell’Onda Verde guidato da Karroubi e Mousavi: «La rivoluzione del 1979 è un evento storico, mentre la rivolta attuale è ancora in corso. Dove potrebbe condurre? Khamenei e Ahmadinejad non possono ammettere i brogli perché questo li priverebbe della loro restante legittimità politica e legale; Karroubi e Mousavi non possono fare un passo inidetro perché perderebbero il sostegno del popolo. Storicamente, la tattica del regime per mantenere il controllo è stata la divisione delle élite in due gruppi concorrenti per eliminarne una. Ora, visto che il processo è giunto al cuore del regime, ciò non è più possibile. Se il popolo iraniano resisterà, la sua rivolta si trasformerà in una rivoluzione capace di riportare la democrazia nel Paese».Viceversa, la morsa del regime strangolerà tutto e tutti.


politica

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Scandali. Il ”caso Bertolaso” pone l’accento su una deriva inarrestabile: ne parliamo con Carlo Nordio e Paolo Pombeni

Un Paese senza Stato

L’abolizione di ogni controllo finisce per dare alla magistratura l’ultima parola su tutto. Poi è inutile gridare sempre al «complotto» di Errico Novi

ROMA. Lo schema è sempre lo stesso. C’è una commessa pubblica da assegnare, c’è una macchina amministrativa che dovrebbe verificare il rispetto delle regole e i principi minimi di trasparenza. Puntualmente la verifica non avviene, il tempo passa e gli affari si concludono, finché la magistratura non afferra il toro per le corna e inizia la corrida. Uno spettacolo che per inciso è noioso tanto è ripetitivo: da una parte l’apparato più o meno pubblico, che si presume efficiente, e dall’altra la giustizia guastafeste. Ma perché il pubblico potere in Italia è così incapace di controllarsi da solo e di non scivolare sempre per la scoscesa via dell’illecito fino all’ineluttabile approdo giudiziario? Ovvio che l’ultima vicenda giudiziaria di Guido Bertolaso sia solo evocativa della questione. E che ogni ragionamento non può essere perfettamente sovrapposto al caso degli appalti per il G8, per il quale vale il sacrosanto principio dell’innocenza presunta. Ma il contorno coincide eccome, la danza rituale tra pm che sventola-

no commessi. Quando si arriva in Procura lo Stato ha perso». Il discorso pur nella sua semplicità sembra decisamente estraneo alla prassi della pubblica amministrazione italiana. «E invece è così, i controlli devono essere preventivi, bisogna intervenire per ridurre una serie di comportamenti che d’altronde sono insiti nella natura umana e che ricadono nella sfera della corruzione. Dovremmo aver imparato che il rimedio non consiste nella minaccia della sanzione penale ma nell’adozione di strumenti tecnici preventivi».

per ottenere una commessa devo bussare a cento porte e chiedere cinquanta permessi è chiaro che da qualche parte l’iter si inceppa ed è più probabile sentirsi dire da qualcuno che per evitare l’intoppo bisogna oliare l’ingranaggio. È questo l’unico ostacolo oggettivo alla corruzione», osserva Nordio, peraltro puntuale nel ribadire una sua antica convinzione: «Ritengo la presunzione d’innocenza un pilastro costituzionale, l’avviso di garanzia una tutela del destinatario, e resto convinto che non ci si debba dimettere solo perché indagati».

E perché allora noi italiani preferiamo crogiolarci nel continuo conflitto tra pubblico potere e magistratura? Perché perseveriamo nella schizofrenia di un sistema troppo permissivo al principio e teatralmente censorio alla fine? Deve pur esserci una qualche volontarietà, nel permanere di questo schema. Tanto più se si considera la parte

Viene da chiedersi, è naturale, perché nei lustri trascorsi dall’era di Mani pulite

non si sia provveduto alla semplificazione delle procedure di cui parla il procuratore aggiunto di Venezia e che pure costituiscono un cardine della piattaforma del centrodestra da molte legislature. Nordio non può che ripetersi: «Il conflitto tra politica, amministrazione e giustizia dipende dal fatto che i nostri controlli preventivi non sono autentici, non ce n’è uno che funzioni con norme chiare e semplici. C’è solo uno scaricabrile in cui le responsabilità si dissolvono». Di questo, delle troppe leggi, dell’inestricabile confusione che regna nell’apparato pubblico, il procuratore che indagò sulle coop rosse ragiona anche in un libro che uscirà tra pochissimi giorni, un dialogo a due voci

PAOLO POMBENI

Il nostro sistema è pieno di regole inefficaci che la pubblica amministrazione non sa far rispettare no accuse infamanti e la politica che si difende gridando al complotto è sempre la stessa. Cosicché anche un magistrato inquirente come Carlo Nordio, noto per l’attenzione alle garanzie, non può sottrarsi: «Premesso naturalmente che il mio discorso ha solo un carattere generale, andrebbe ricordato un fatto: il controllo repressivo della magistratura che interviene quando un reato è stato commesso rappresenta di per sé il fallimento dello Stato. Perché il compito di una buona amministrazione è controllare in modo che i reati non venga-

principale del ragionamento di Nordio: «I controlli preventivi possono funzionare solo a due condizioni: semplificare le procedure in modo che le norme siano poche e chiare, e intervenire affinché nel procedimento amministrativo le persone chiamate a decidere si riducano a un numero minimo. Se

con Giuliano Pisapia edito da Guerini: «Entrambi abbiamo presieduto la commissione di riforma del codice penale, lui con Martelli e io con Castelli, lui di sinistra e io liberale». Sembra l’auspicio per un confronto che dovrebbe avvenire tra le forze politiche.

Ma il porto sicuro della polemica tra politica e giudici è il miglior alibi possibile, per un sistema come quello italiano così geloso dei propri vizi e della propria immobilità. Uno storico delle istituzioni come Paolo Pombeni non smette di credere che «dalla

spirale infinita in cui ci troviamo si possa uscire: serve però uno sforzo generale di recupero dell’etica pubblica. Ci sono troppi costi da sostenere finché si resta bloccati nel meccanismo delle leggi a cui puntualmente segue un nuovo inganno». Adesso il sistema della pubblica amministrazione, spiega l’editorialista del Messaggero, «è ipergarantista e iperbizantino, nel senso che ancora sembra vigere un regime da grida manzoniane: esistono moltissime leggi, un’infinità di passaggi procedurali da assolvere, che però nella loro draconiana enormità non danno al-

CARLO NORDIO

L’intervento della magistratura rappresenta sempre un fallimento dello Stato cun risultato». In pratica, «c’è sempre il modo, quando per esempio si vuole ottenere un appalto, di rispettare apparentemente tutte le prescrizioni finendo però per aggirare il principio nella sostanza. Come fa la macchina amministrativa a obiettare alcunché, di fronte a un incartamento formalmente ineccepibile, quando poi lo stratagemma consiste nel regalare una vacanza, o un superstipendio all’amante di chi deve decidere? Possono farlo solo i magistrati con le intercettazioni telefoniche, quando appurano che quel tale funzionario pubblico ha assegnato un certo appalto perché ha ottenuto in regalo un appartamento».

E qui si ricade nel caso che per Nordio rappresenta «il fallimento dello Stato», ossia l’intervento della Procura che arriva dove i controlli preventivi si rivelano inefficaci. Possibile allora che la natura stessa della pubblica amministrazione, nel nostro Paese, impedisca un finale diverso? «È così nella misura in cui non riusciamo a recuperare un livello decente di


politica

12 febbraio 2010 • pagina 5

Dal terremoto ai festini

L’inchiesta ricostruisce una rete di cinismo, soldi e affari. Bertolaso: «Sono innocente» di Marco Palombi

ROMA. «Una storia di ordinaria corruzione». Per il Gip di Firenze, Rosario Lupo, è tutta qui la vicenda che sta ribaltando uno dei pezzi più rilevanti dell’establishment italiano. Una piccola storia ignobile di appalti, soldi, favori e illegalità. E sesso, ovviamente, non potendo più mancare in uno scandalo politico che si rispetti la escort – di classe, ça va sans dire, quando non addirittura “ragazza immagine”, laddove bastasse la semplice allusione al sesso possibile – cui dare una sana «ripassata» per togliersi di dosso la noia del superlavoro ed esercitare la virile potenza del potere. A ben pensare, questa esibizione di proprietà sul corpo femminile di lenoni e procacciatori di divertimenti assortiti, non è altro che la sua messa alla gogna – lo scrisse Leonardo Sciascia molti anni fa – ed è in definitiva uno stato di premorte del sesso stesso. In realtà quella messa alla gogna pare anche sinistramente anticipare quella a mezzo stampa del maschio, politico o potente, spesso âgée, il quale si ritrova a subire coram populo una sorta di violento contrappasso nell’ora dello sputtanamento.

È il caso dell’ormai famosa «cosa megagalattica a base di sesso» organizzata dall’imprenditore Diego Anemone al “Centro benessere Salaria sport village”in onore di Guido Bertolaso, poi andata a monte per l’assenza del festeggiato (ma solo la prima volta, pare) su cui ieri ci si sbellicava nei palazzi romani. Oppure di quello che promette di diventare il prossimo tormentone del demimonde politico-giornalistico romano, ovvero «la ripassata» che il capo della Protezione civile sperava di poter etica pubblica», dice il professore dell’università di Bologna. Ma allora è questo il vizio a cui è funzionale l’alibi delle troppe regole. Perché quel deficit di moralità, dice Pombeni, è con-

dare a tale Francesca, appena atterrato dagli Stati Uniti nel novembre 2008. Il cuore di questa storia però non sono i dettagli pecorecci, ma l’ordinaria corruzione vecchia maniera. «I fatti sono gravissimi – scrive il gip Lupo nella sua ordinanza – proprio per la sistematicità delle condotte illecite e dei rapporti illeciti di cointeressenza tra gli indagati e per le rilevantissime ripercussioni finanziarie ed economiche ai danni del bilancio dello Stato» rese possibili, tra l’altro, anche dalla gestione emergenziale dell’assegnazione dei lavori. Non (solo) sesso insomma, ma soldi, ville e auto di lusso sarebbero state regalate a pubblici funzionari infedeli in cambio degli appalti milionari per il G8 a La Maddalena e per la realizzazione o la ristrutturazione degli impianti sportivi per i mondiali di nuoto romani dell’anno scorso.

In questa ordinaria storia di corruzione, peraltro, la posizione del sottosegretario preferito da Gianni Letta, almeno a stare all’ordinanza del gip, appare parecchio complicata: «È emerso che lo stesso Bertolaso intrattiene rapporti diretti con l’imprenditore Diego Anemone con il quale spesso si incontra di persona; in previsione di taluni di questi incontri Anemone si è attivato alla ricerca di denaro contante, tanto che gli investigatori ritengono che abbia una certa fondatezza ritenere che detti incontri siano stati finalizzati alla consegna di somme di denaro al Bertolaso». Anche Carlo Malinconico, attuale presidente Fieg ma all’epoca segretario generale della presidenza del Consiglio, risulterebbe coinvolto nell’inchiesta (lo ha citato la Repubblica insieme al dg Rai Mauro Masi, anche lui all’epoca alto dirigente a palazzo Chigi) e ieri ha voluto chiarire: non ho mai conosciuto Anemone, ha detto, e quindi i miei soggiorni all’hotel Il Pellicano di Porto Santo Stefano non ha potuto pagarmeli lui. «Ricordo di aver sempre pagato per i miei soggiorni – ha spiegato - pagamenti di cui sono in grado di recuperare le ricevute fiscali». Nega tutto anche il procuratore romano Achille Toro, accusato insieme a suo fi-

Berlusconi difende a spada tratta il suo uomo-immagine: «Bertolaso non si tocca, i pm si vergognino»

E di più: alcune intercettazione dimostrano pure con plastica evidenza una certa attitudine al cinismo più becero e bottegaio tra gli imprenditori che circolavano attorno ad Angelo Balducci e Fabio De Santis, uomini chiave nel sistema dell’uomo delle emergenze. È il caso di una conversazione tra due persone all’indomani del terremoto che devastò l’Abruzzo nell’aprile scorso: «Occupati di ’sta roba del terremoto perché qui bisogna partire in quarta, non c’è un terremoto al giorno», si raccomanda uno; «Lo so», risponde l’altro ridendo; «Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro al letto», conclude

solidato da una spirale pazzesca, «un meccanismo per cui un dipendente pubblico non potrebbe essere mai licenziato sulla base di una sua cattiva reputazione, anche perché se il

il primo dopo un «per carità, poveracci» che è tutto lo spazio assegnato dai due alla commozione. «Sciacalli, fanno schifo», ha commentato il sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente.

capo provvedesse davvero lui sarebbe sempre pronto a replicare che lo si manda via per far posto al cugino del capo… uscirne così diventa impossibile». Anche la polemica infinita

glio di aver rivelato segreti d’ufficio. I quattro arrestati invece parleranno oggi, durante gli interrogatori di garanzia fissati dal giudice.

Anche il versante politico della vicenda rimane parecchio confuso. Il governo continua a sostenere senza nessun apparente tentennamento Bertolaso e il decreto legge che istituisce la Protezione civile Spa: «Bertolaso non si tocca. I pm dovrebbero vergognarsi», ha scandito il Cavaliere. I rumors però sostengono che Silvio Berlusconi non seguirà il suo “uomo immagine” fino al fondo del burrone: se l’inchiesta dovesse dimostrarsi solida come sembrano credere gli inquirenti, il Cavaliere potrebbe chiedere al “capo” un passo indietro sotto forma di onorevoli «dimissioni irrevocabili». Parte dell’opposizione invece, di fronte alla compatta difesa dell’esecutivo, comincia a perdere la calma. Italia dei Valori ieri ha annunciato la presentazione di una mozione di sfiducia contro Guido Bertolaso e chiesto addirittura una commissione d’inchiesta, mentre il Pd sembra avere almeno due linee: infatti mentre il capogruppo alla Camera Dario Franceschini ha esplicitamente chiesto al sottosegretario di confermare le proprie dimissioni e andarsene, il segretario Pierluigi Bersani si è limitato ad affidare alla «sensibilità» di Bertolaso la scelta se farsi da parte o meno. L’Udc, con Luciano Ciocchetti, predica prudenza mentre le indagini sono in corso, ma ribadisce che «c’è bisogno di studiare nuove norme per la gestione degli appalti nelle situazioni di emergenza». Per ora almeno, non pare aria.

tra politici e magistrati è funzionale al sistema: «Fa parte del gioco, ne fanno parte le poche condanne esemplari di fronte alla molteplicità di comportamenti illegali. E magari fi-

nisce per essere colpito il meno coinvolto o quello che non aveva fatto nulla». Condizione in cui potrebbe trovarsi, debolezze della carne a parte, lo steso Bertolaso.


diario

pagina 6 • 12 febbraio 2010

Ostruzionismi. Secondo l’esponente del Pdl, in dubbio anche il divieto ai sorvegliati di fare campagna elettorale

Chi ha paura di ”liste pulite”? Angela Napoli: «Nella maggioranza c’è chi ostacola il protocollo antimafia» di Riccardo Paradisi

ROMA. Il protocollo per le liste pulite redatto in commissione antimafia su proposta del vicepresidente Fabio Granata e del presidente Beppe Pisanu rischia di trasformarsi in un caso di polemica politica interna il Pdl. Nelle intenzioni degli estensori infatti il protocollo dovrebbe servire a vincolare i partiti a rigorosi criteri di scelta nelle candidature. Proposta che ha il plauso e l’appoggio di Pd, Idv e Lega ma non del capogruppo Pdl in commissione Antonino Caruso che ha già espresso perplessità sul documento: «Il documento lo farei più sobrio e meno ridondante, affinché sia più efficace e possa raggiungere più agilmente lo scopo». Il fatto è che Angela Napoli, combattiva parlamentare Pdl, e membro della commissione antimafia teme che questo snellimento possa intaccare la sostanza del documento. Per questo mette le mani avanti a annuncia: «Non condividerò alcuna forma di ostruzionismo dovesse essere profusa nei confronti del citato protocollo antimafia, da qualsiasi parte dovesse provenire». Un intenzione che Napoli ribadisce anche a liberal: «Non accettare limitazioni e modifiche lenitive al documento è per me un imperativo categorico anche perché credo che questa sia una tornata elettorale molto significativa: è un occasione per fare finalmente sul serio nella lotta all’infiltrazione mafiosa dei partiti. Si devono lasciare tutti i punti del documento come sono attualmente. Solo in questo modo si potrà distogliere i partiti da ogni tentazione di puntare su candidati la cui qualità etica è molto scarsa, su cui aleggia magari anche il fondato sospetto di mafiosità, ma che garantiscono una quantità di consenso considerevole. È chiaro che se invece non c’è nessuna limitazione e si lasciano ampi margini alle più gravi disinvolture si apriranno varchi alle varie organizzazioni malavitose il cui interesse è inserirsi e condizionare la vita politica e istituzionale locale». Insomma per Angela Napoli è meglio prevenire che assistere poi esterrefatti all’intervento della magistratura: «Io vivo in Calabria e vado denunciando da

io rovescio l’obiezione: questa storia del sospetto da dimostrare non può nemmeno servire da alibi per aprire gli argini e non fare l’esame a nessuno. Voglio dire che se si parla solo di etica e di morale aspettando l’intervento della magistratura è poi sbagliato lamentarsi quando la magistratura interviene. Ed è addirittura grottesco sottoscrivere un protocollo per la legalità ad elezione avvenuta. È successo che l’attuale consiglio regionale della Calabria, a metà legislatura, – racconta Napoli – dopo essere risultato il consiglio più inquinato d’Italia, ha approvato all’unanimità un codice etico, contro l’intreccio tra politica e malavita. Un codice ripeto sottoscritto e votato all’unanimità da un consiglio la cui metà dei membri è indagata. Per questo dico non c’è nessuna opera attuativa di prevenzione da parte della politica».

tempo, non da sola, che il consiglio regionale calabrese è il più inquisito d’Italia. Ecco, non vorrei trovarmi nella prossima legislatura lo stesso consiglio regionale».

«Al di là degli interventi legati a eventuali protocolli, ci si conosce tutti e si sa benissimo chi sono i candidati a rischio», dice la deputata

Un rischio molto forte secondo Napoli, che rende perciò necessario costruire uno strumento di controllo attraverso l’organismo della commissione parlamentare antimafia «collegato sia con le varie prefetture sia con le magistrature locali e questo come intervento diretto. Fermo restando che io sono anche del parere che al di là dei nomi e delle inchieste, al di là degli interventi legati a eventuali protocolli, ci si conosce tutti quanti e quindi si sa benissimo quale può essere il candidato serio e quello che serio non è». Napoli ricorda dunque quanto diceva Paolo Borsellino: «Quando la politica vuole difendere un suo esponente opaco, notoriamente vicino ad ambienti ma-

lavitosi, spesso replica a coloro i quali chiedono di contrastare il collegamento tra il suo mondo e quello della criminalità organizzata in questo modo: “È sopra ogni so-

spetto perché non è stato toccato dalla magistratura”. È noto però che su molte persone definite al di sopra di ogni sospetto, solo perché la magistratura non è ancora arrivata a interessarsi di loro con la sua attività, i sospetti pesano eccome. Per questo la selezione va fatta prima». Ma così non c’è il rischio di dare adito ad arbitri? Ossia: chi decide se un candidato è realmente al di sopra di ogni sospetto o invece è al di sopra di ogni sospetto per modo di dire? «Certo – replica Napoli – ma

Angela Napoli è una combattente, ma comincia ad avvertire un po’ di stanchezza: Vede, mi stanno logorando anche per la promozione della legge Lazzati, una proposta che, se trasformata in legge, impedirebbe ai sorvegliati speciali qualsiasi forma di campagna elettorale e la decadenza automatica del candidato che si avvalesse di questo supporto elettorale. Io sono relatrice del provvedimento, che è stato approvato in commissione giustizia, ma l’iter successivo è ostacolato. Si sta perdendo tempo in vari modi. Mi domando il perché. Forse perché ci sono parlamentari che non accettano queste forme di controllo per legge? Hanno qualcosa da nascondere? Per quale motivo si sta ostacolando una norma che impedisce questi collegamenti nelle fasi preelettorali?». Domande gravi, che però l’onorevole Napoli non ha paura di porre. Resta un’altra domanda: l’opposizione in commissione antimafia al documento PisanuGranata-Napoli può diventare un caso politico all’interno del Pdl? «Per il momento è ancora una discussione abbastanza sotterranea ma se le modiche annunciate al documento ci saranno e saranno nel senso del suo depotenziamento il caso politico ci sarà eccome».


diario

12 febbraio 2010 • pagina 7

Sospensione per Evangelisti, censura per i due leghisti

«Lectio» del Segretario di Stato vaticano in Polonia

Pene severe per la rissa Lega-Idv alla Camera

Bertone: «La Chiesa non decide a maggioranza»

ROMA. La brutta rissa che c’è

WROCLAW. Nella Chiesa cat-

stata mercoledì sera alla Camera non va in archivio senza conseguenze. L’ufficio di presidenza, dopo una riunione di quasi due ore, ha deciso sanzioni pesanti per i deputati coinvolti: la censura e dodici giorni di sospensione per Fabio Evangelisti dell’Italia dei valori; la censura e 10 giorni a Fabio Rainieri e la censura e 5 giorni a Gianluca Buonanno, entrambi della Lega Nord. Le sanzioni hanno decorrenza immediata e sono state comminate dall’Ufficio di presidenza con il voto contrario della Lega.

tolica il potere non può essere «divisibile» né le decisioni possono serre prese a maggioranza. Dopo le settimane di veleni sul caso-Boffo e sui suoi strascichi, il segretario di Stato vaticano, cardinal Tarcisio Bertone, è volato a Wroclaw, in Polonia, per una «lectio magistralis» presso la locale università e per ricevere un dottorato honoris causa. E qui ha parlato della democrazia (il titolo della lectio era proprio «Democrazia e Chiesa»), definendola un sistema di governo che si basa «sulla ripartizione di potere». Ma è a questo punto che ha pronuncia alcuni parole che ad alcuni osservatori sono sembrate suonare come

«Gli insulti possono essere anche beceri, ma non si può rispondere con l’aggressione fisica», ha sottolineato il presidente Gianfranco Fini durante la riunione. La decisione, ha poi sottolineato in aula, «non può essere oggetto di discussione». Prima di decidere, l’ufficio di presidenza ha visionato i filmati dei tumulti e appurato che non c’è stato nessun contatto fisico tra i deputati. La pena più severa per Evangelisti è stata motivata con le maggiori responsabilità del parlamentare dell’Idv che durante la seduta, quale vicepresidente, era responsabile del proprio gruppo; e invece, come rimarcato dai questori nella loro relazione, ha reagito con gesti

offensivi e altamente provocatori quando la Lega ha iniziato a contestare il suo attacco al ministro dell’agricoltura Luca Zaia. Inoltre, quando Buonanno e Rainieri si sono avvicinati a lui, avrebbe tentato di colpire uno dei due. Infine, Evangelisti avrebbe rivolto un gesto offensivo verso i leghisti, mostrando il dito medio. A Rainieri e Buonanno è stato invece imputato di avere tentato di aggredire Evangelisti scavalcando con impeto i banchi dei deputati dell’Udc che non erano coinvolti nello scontro. Tutti e tre i protagonisti sono stati sentiti: Evangelisti si è detto si è detto molto «dispiaciuto per avere scritto una brutta pagina dell’aula parlamentare».

Marchionne conquista anche l’«amico Putin» Con i soldi del Cremlino, joint venture tra Lingotto e Sollers di Francesco Pacifico

ROMA. Di fronte a quasi due miliardi e mezzo di euro, per giunta cash, che sarà mai qualche centinaia di milioni di incentivi per la rottamazione? Ospite di Vladimir Putin, ieri Sergio Marchionne è volato a Nabereznye Celny, nel Tatarstan, per firmare con l’Ad di Sollers, Vadim Shvetsov, una joint venture tra l’universo Fiat-Chrysler e la casa russa.

Ma alla base dell’accordo non c’è soltanto la volontà del Lingotto di rafforzarsi su questo mercato. Decisivi sono i 2,4 miliardi di euro di finanziamenti che garantirà il governo russo nei prossimi tre anni. Soldi che dovrebbero arrivare attraverso la banca statale Veb e dei quali un miliardo di euro sarà destinato all’acquisto dei macchinari. Al riguardo, Fiat ha ottenuto che almeno il 60 per cento di questa cifra finisca in Italia, destinata alle commesse che si accaparreranno i nostri principali produttori nel campo della meccanica applicata. Tutte queste risorse – e può sembrare paradossale nei giorni in cui si tenta di salvare lo stabilimento di Termini Imerese – saranno vincolate a una semplice clausola. «Il livello della delocalizzazione produttiva», ha spiegato Vladimr Putin, «non deve essere inferiore al 50 per cento: se sarà così, il governo russo continuerà a dare il suo appoggio a questo progetto». E pensare che proprio ieri Claudio Scajola ha diffuso una lettera dello stesso Marchionne, che dopo aver ringraziato e confermato di prendersi le sue responsabilità, non va oltre la promessa di «favorire a Termini la creazione di un progetto alternativo che sia serio e credibile e che dia prospettive occupazionali durature a tutti i nostri lavoratori. Abbiamo tutto il tempo per farlo». Dopo i 3 modelli per il mercato russo sui quali è in atto una collaborazione, il Lingotto e Sollers si accingono a costruire una quarta vettura, la Linea, e a lanciare una piattaforma per produrre 500mila auto entro il 2016. L’obiettivo infatti è arrivata a commercializzare 9

nuovi mezzi con tecnologia Fiat-Chrysler, nelle gamme media, lusso e Suv. Ma più dello stesso Marchionne, a confidare in questo accordo c’è Vladimir Putin. Prima ha sottolineato che lo Stato ha sostenuto la Sollers «anche comprando le sue vetture per 5,7 miliardi di rubli e destinandole agli uffici della pubblica amministrazione». Quindi, ha ricordato che «nella recente visita di Silvio Berlusconi in Russia avevamo parlato insieme dei nostri progetti congiunti: lui era rimasto sorpreso che in soli 5 anni l’azienda abbia raggiunto ricavi così alti, pari a 30,5 miliardi di rubli (820 milioni di euro) nel 2009, che è stato un anno di crisi». Numeri che non dovrebbe raggiungere nel 2010 la Fiat in Italia. Anche in missione in Russia Marchionne ha ripetuto che senza gli incentivi «sarà un anno duro, ma saremo capaci di affrontarlo». L’azienda torinese ha calcolato che con la fine degli aiuti si registreranno nel Belpaese 350mila vetture immatricolate in meno. Anche senza dare numeri, non ha escluso che questo trend possa rendere necessario un ricorso alla cassa integrazione superiore a quello fatto quest’anno. Eppure l’Ad torinese non ha alcun interesse ad andare allo scontro con il governo sul capitolo incentivi. «Anche il ministro Scajola», ha spiegato, «ha detto che il mercato è dopato».

L’Ad di Fiat scrive a Scajola: lavoreremo per trovare un’alternativa all’auto a Termini». Rinaldini: «Italia più marginale»

Va da sé che quest’intesa in Russia finisce per aver non poche ripercussioni sui livelli occupazionali italiani, messi a dura prova dalla crisi delle grandi aziende. «Questa nuova alleanza, dopo la Serbia evidenzia che Fiat ha un piano complessivo che rende sempre più marginale la produzione in Italia», nota il leader della Fiom; Gianni Rinaldini. Dal canto suo il governo non può che muoversi a tentoni. Per ora ci si accontenta dei piccoli passi avanti sul caso Alcoa dopo il decreto per abbassare le tariffe elettriche. Necessario in un Paese che, ha calcolato l’Enea, spende 60 miliardi per le importazioni di petrolio.

un riferimento indiretto alle vicende del dopo-Boffo e alle tensioni che agiterebbero i vertici vaticani. «Una dinamica di potere che se trasportata nell’ambito ecclesiale, non può non diventare radicalmente equivoca, perché nella Chiesa il rapporto strutturale tra la gerarchia e il resto del popolo di Dio, non può mai ultimamente essere posto in termini di ripartizione di potere». «All’interno della Chiesa – ha continuato il cardinale - il problema di una necessaria e ordinata ripartizione delle competenze non può mai coincidere con il problema del possesso di una porzione più o meno grande del potere, perchè il potere se per potere si intende la responsabilità ultima e perciò il servizio specifico dei Vescovi di fronte alla vita della Chiesa - non è divisibile».

Quello che vale per la politica, insomma, non vale per la Chiesa. Se la prima procede «con il sistema della rappresentanza», in base al quale «la minoranza deve inchinarsi alla maggioranza», la seconda deve seguire un diverso cammino che non «riposi solamente sulle decisioni di una maggioranza, perché diventerebbe una Chiesa puramente umana, dove l’opinione sostituisce la fede».


mondo

pagina 8 • 12 febbraio 2010

In extremis. L’operazione salvataggio vista da Fiorella Kostoris, Alessandro Colombo e Vittorio Emanuele Parsi

C’era una volta l’Unione Il soccorso “interessato” dei Paesi forti della Ue per salvare le loro economie di Franco Insardà

ROMA. Lacrime e sangue targate Europa. Con questo viatico parte il salvataggio della Grecia che parla di rigore e regole in cambio di aiuti. Adesso è toccato ad Atene, ma l’ombrello protettivo degli Stati forti dell’Unione potrebbe presto aprirsi anche su Spagna e Portogallo e a seguire sull’Irlanda, la “i”dell’acronimo Pigs, ai quali c’è chi teme possa aggiungersi l’Italia. La sensazione è che Germania e Francia, in buona sostanza, vogliano commissariare i Paesi in difficoltà per evitare guai grossi soprattutto alle loro economie.

Come nota Fiorella Kostoris, docente di Economia politica all’Università La Sapienza di Roma, «in questa situazione c’è tutto l’interesse da parte dei Paesi economicamente più forti a sostenere l’economia greca: non per filantropia, ma perché sono preoccupati delle ripercussioni interne ed europee. Nessuno regala niente a nessuno, i Trattati dell’Unione impediscono il bail out, ma l’ultima cosa al mondo che Francia e Germania vorrebbero sarebbe il ripudio del debito pubblico da parte della Grecia,visto che solo loro ne detengono circa il 40 per cento. In aggiunta, c’è il rischio dell’effetto a catena, che potrebbe investire altri Stati in condizioni parzialmente simili: quindi oggi bisogna aiutare la Grecia, sperando che domani non tocchi con gli altri Pigs (Spagna, Portogallo, Irlanda)». Secondo Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano, «La finanza è molto legata alle aspettative, se i mercati pensano che la Grecia possa uscire fuori inizieranno a scommettere che anche altri possano seguire lo stesso destino. In tutto questo la credibilità dell’autorità pubbliche greche è al minimo storico, perché hanno drogato i numeri. Un sorta di protettorato è inevitabile se si vuole mantenere il Paese nell’euro. D’altra parte pensare soltanto di sospenderlo sarebbe un disatrosia pratico sia mediatico. Sarebbe stata auspicabile un’azione di concerto con il Fondo monetario internazionale,

quella di tenerlo fuori è stata una scelta politica molto forte, ma anche molto rischiosa». L’idea del protettorato non trova d’accordo la professoressa Kostoris: «Non credo ai protettorati, penso che non sia interesse di nessuno, né che siano realizzabili». Anche se prefigura un qualche forma di controllo «probabilmente si potrebbe inserire presso gli istituti nazionali di Statistica qualche funzionario dell’Eurostat che possa garantire una maggiore affidabilità alle statistiche sui pa-

rietà, ma c’è più elevata flessibilità nell’applicarne le regole, perché la recessione economica induce tutti gli Stati membri a politiche di bilancio espansive, tendenti a creare deficit eccessivi».

Questo aiuto alla Grecia, secondo il politologo Alessandro Colombo, professore di Relazioni internazionali all’Università di Milano e ricercatore dell’Ispi (l’Istituto per gli studi di politica internazionale) potrebbe «aumentare il processo di

FIORELLA KOSTORIS

Non lo fanno per filantropia, ma perché sono preoccupati delle ripercussioni interne ed europee

rametri di finanza pubblica dei vari Paesi. Anche perché uno dei problemi emersi è stata la presentazione da parte della Grecia, all’epoca del suo ingresso nell’Unione europea, di conti risultati artefatti».

A questo proposito il professor Parsi aggiunge: «Bisogna sperare che gli Stati forti della Ue riescano a esercitare una forma di controllo sui conti pubblici greci. Non dimentichiamo, infatti, la situazione interna della Grecia e quella sorta di sindrome balcanica che sta riemergendo, come ha giustamente notato qualche giorno fa Enzo Bettiza sulla Stampa. La Grecia è uno dei pochi Paesi dell’Europa occidentale che ha avuto un colpo di stato militare, ha subito una lunga guerra civile e le manifestazioni di questi ultimi anni hanno segnalano il malessere e l’arretratezza politica di quella società». E sempre sui conti Fiorella Kostoris avverte: «Dopo la riforma del Patto di Stabilità del 2005, dal punto di vista statistico, c’è maggiore rigore e se-

gerarchizzazione all’interno dell’Unione europea. Nel senso che la Ue è destinata nei prossimi anni e, per la verità lo sta già facendo, a riorganizzarsi anche in termini di rapporto di eguaglianza e diseguaglianza tra i Paesi membri. Ovviamente l’aiuto dato dalle nazioni che, tradizionalmente, hanno costituito il cuore dell’Unione nei confronti di un Paese periferico da tutti i punti di vista, tende ad accentuare questo processo di gerarchizzazione. Credo che sia un processo inevitabile». In questo scenario va inserito anche il progetto di allargamento della Ue e che, secondo il professor Parsi giustifica «il tentativo di tenere in piedi un Paese che comunque è entrato in Europa prima dell’allargamento dell’89 e poi nell’euro, seppure in ritardo e godendo di qualche sconto e la preoccupazione che manchi un tassello alla progressiva normalizzazione dei Balcani. È entrata la Slovenia, speriamo che presto sia la volta della Croazia, si pensa già alla Serbia e poi all’Albania, al Montenegro e alla Questa Bosnia-Erzegovina.

spinta perderebbe un po’di credibilità nell’eventualità di una fuoriuscita della Grecia. All’Unione europea serve che Atene rimanga e si farà di tutto per aiutarla».

Il futuro assetto dell’Unione europea, secondo il professor Colombo, potrebbe ricalcare «lo schema di questi ultimi anni che prevede un nocciolo duro su alcune materie, con una Ue meno esigente rispetto ai Paesi recentemente cooptati. Il vero cuore è da un lato una disciplina economico-finanziaria e dall’altro il capitolo che viene continuamente rimandato: quello della politica estera e della sicurezza. Anche in questo caso assisteremo a un processo di gerarchizzazione, a meno che l’Unione non perda progressivamente coesione. A

questo punto non ci sono alternative: o la Ue aumenta la propria coesione con la distribuzione ineguale del potere al proprio interno, oppure, se continueranno le resistenze a quello che, polemicamente, viene definito il direttorio, è probabile che perda la coesione interna. Cosa che è già avvenuta in questi ultimi anni. Senza dimenticare che non esistono posizioni comuni su questioni fondamentali dell’agenda internazionale: dal rapporto con la Turchia, a quello con la Russia, quello con l’Iran, fino alla questione israelo-palestinese. Ma in questo momento particolare è l’area dell’euro ad essere in gioco ».

L’euro e la sua stabilità rimane, infatti, al centro di tutti i giochi. «È ovvio - dice Parsi -

VITTORIO EMANUELE PARSI

I tedeschi guardano ai greci come ai furbetti del quartierino dell’Unione europea


mondo

12 febbraio 2010 • pagina 9

Le banche (pubbliche e private) dei due Paesi sono esposte con Grecia per 84 miliardi di euro

L’Europa franco-tedesca ha deciso: Atene commissariata

I leader dànno il via libera agli aiuti escludendo l’intervento del Fondo Papandreou ringrazia: «Abbiamo bisogno che ci dicano che siamo credibili» di Alessandro D’Amato

ROMA. Tutto come previsto. Germania e Francia fanno uffi-

Nella foto, un ragazzo fermato dalla polizia durante le manifestazioni contro il governo ad Atene che i tedeschi e i francesi non sono diventati improvvisamente generosi, a loro interessano le emissioni obbligazionarie e sanno bene che in caso di crac greco ci saranno effetti catastrofici sull’euro e su tutta l’economia europea. Se i mercati finanziari scommettono sul tracollo della Grecia gli Stati hanno tutti l’interesse a sostenerla per evitare un bagno di sangue. A quel punto va commissariata con tutti i rischi sociali legati alle caratteristiche tipicamente mediterranee di quel Paese che non sono mitigate, come per esempio accade da noi. Più che di protettorato parlerei di commissariamento, con le dovute e garbate maniere. L’Unione europea deve provare a controllare una situazione come quella greca, non si può dire ai greci di fare da soli: hanno già dimostrato di non essere in grado. Se le cose dovesse andare male trascinerebbe tutti a fondo. Si materializzerebbe la grande paura tedesca degli anni ’90 a far entrare nell’area dell’euro i Paesi della “finanza allegra”. Insomma i tedeschi guardano ai greci come ai furbetti del quartierino d’Europa».

cialmente della Grecia un loro protettorato, e l’Unione Europea si adegua al volere dell’Asse dei due grandi paesi. E anche se alla fine non va in scena la prevista conferenza stampa congiunta con la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicholas Sarkozy, la storia è già scritta, come si capisce già dalle dichiarazioni precedenti l’inizio del Consiglio Europeo: «Non lasceremo cadere il paese ellenico», dice la Merkel a Bruxelles al termine di un incontro prevertice insieme a Sarkozy, al premier greco George Papandreou, al presidente della Bce Jean Claude Trichet e il presidente del Consiglio Ue Herman Van Rompuy. Al quale dopo pochi minuti non resta che confermare: «Abbiamo trovato un accordo, adesso andiamo a presentarlo al Consiglio», dice l’olandese, al quale evidentemente non sembra strano che l’accordo su un aiuto comunitario e comune venga preso in separata sede rispetto al resto del Consiglio. Ma tanta attenzione è comprensibile. I motivi per l’impegno franco-tedesco non sono soltanto politici: secondo i dati ufficiali, le banche francesi hanno crediti pubblici e privati in Grecia pari a un totale di 56 miliardi di euro. L’esposizione degli istituti di credito tedeschi è invece di 28 miliardi di euro.

All’incontro, svoltosi, al Justus Li-

nel suo complesso. Il governo greco non ha richiesto un sostegno finanziario». Dal burocratese, quindi, si evince che la decisione sull’aiuto economico è presa, e quindi all’Fmi non sarà chiesto di intervenire, anche se il Fondo verrà consultato; se la Grecia o qualsiasi altro Stato membro ne avrà bisogno, l’Europa ci sarà: quindi questo vale anche in caso di attacco a Portogallo, Spagna, Italia o persino Gran Bretagna, se dovesse servire. E con ciò, si chiudono anche le polemiche interne all’Eurogruppo sui rischi per gli altri paesi. L’impegno maggiore dovrà comunque venire dal paese ellenico: deve preparare un piano credibile, non in tre anni perché i miracoli non li fa nessuno e sarebbe un altro imbroglio se promettesse questo. Ma ha necessità di mettere in ordine le sue finanze pubbliche, fissare obiettivi di crescita e di produttività. Solo a questi patti l’Ue lancerà eventualmente la sua ciambella di salvataggio, ove fosse necessario.

Non è ancora chiaro se si tratterà di une vero e proprio piano di salvataggio, magari da applicare anche a possibili futuri casi di emergenza. Su questo le notizie sono contrastanti, anche perché c’è sempre da superare l’ostacolo rappresentato dalla clausola del ’no bail out’ che vieta la concessione di aiuti finanziari a Paesi della zona euro. Un modo per aggirare il trattato potrebbe essere quello di prestiti bilaterali concertati con le istituzioni della Ue. Jean-Claude Juncker, insieme al presidente dell’Eurotower Jean-Claude Trichet, saranno chiamati a prendere le decisioni politiche da tradurre in azioni concrete dall’Eurogruppo e dall’Ecofin, che si riuniranno a Bruxelles lunedì e martedì. La decisione fa tirare un sospiro di sollievo alle autorità elleniche, soprattutto per l’effetto calmante sui nervosismi dei mercati finanziari: “Abbiamo bisogno del sostegno psicologico e politico dell’Europa”, afferma infatti il premier greco George Papandreou, in un’intervista al quotidiano Le Monde, dopo il vertice dei leader Ue a Bruxelles. In questo momento, aggiunge, «abbiamo bisogno che l’Ue dica: “Sì la Grecia è credibile, garantiamo che il suo piano è realista”». E ancora: «Se le speculazioni andranno avanti questo non è un problema della Grecia ma della volontà collettiva europea di regolarle». Papandreou sottolinea quindi di «non aver chiesto un sostegno finanziario». E nemmeno l’aiuto del Fondo monetario internazionale Fmi. «Giuridicamente - spiega - farlo sarebbe possibile ma non prevediamo questa soluzione».

Alla riunione c’era pure Zapatero e si è discusso anche delle altre economie a rischio: in ogni caso, l’Unione interverrà per aiutare chiunque. Ma sempre dietro garanzie precise

psius, il palazzo del Consiglio Ue, hanno partecipato anche il primo ministro spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero e il premier del Lussemburgo, presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker. Il consiglio vero e proprio è durato un paio d’ore scarse, al termine delle quali Rompuy ha letto la dichiarazione comune dei leader europei, che è come al solito un capolavoro di diplomazia ed equilibrismo: «Tutti i membri dell’Eurozona devono condurre politiche nazionali equilibrate in linea con le regole concordate. Essi hanno una responsabilità condivisa per la stabilità economica e finanziaria dell’area. In questo contesto noi sosteniamo pienamente gli sforzi del governo greco e il suo impegno a fare tutto ciò che è necessario, inclusa l’adozione di misure addizionali per assicurare che gli ambiziosi obiettivi definiti nel programma di stabilità per il 2010 per gli anni successivi siano realizzati. Facciamo appello al governo greco perché attui tutte quelle misure in un modo rigoroso e determinato per ridurre effettivamente il deficit pubblico del 4% nel 2010. Invitiamo il consiglio Ecofin ad adottare nella riunione del 16 febbraio le raccomandazioni alla Grecia fondate sulle proposte della commissione e le misure addizionali annunciate dalla Grecia. La Commissione monitorerà da vicino l’attuazione delle raccomandazioni in collegamento con la Banca centrale europea e proporrà le necessarie misure addizionali basandosi sulla expertise del Fondo monetario. Una prima valutazione sarà fatta in marzo. Gli Stati membri dell’Eurozona decideranno una azione determinata e coordinata, se necessario, per salvaguardare la stabilità finanziaria nell’Eurozona

Nel mondo della speculazione e degli hedge fund, scommettere sull’euro debole sarà quindi più difficile; il rischio bancarotta e l’effetto domino sugli altri paesi viene definitivamente scongiurato: non è difficile pensare che sarà un bene, nel breve periodo, per i mercati e per la valuta. Gli effetti politici, invece, si misureranno necessariamente sul medio-lungo termine. E non è detto che il bilancio finale sia per forza positivo.


panorama

pagina 10 • 12 febbraio 2010

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Se la Camera diventa un Bar dello Sport a rissa dell’altro giorno alla Camera tra leghisti e dipietristi ha avuto i suoi effetti: come riferiamo nelle pagine precedenti del giornale, l’ufficio di presidenza ha deciso sanzioni pesanti per i deputati coinvolti: la censura e dodici giorni di sospensione per Fabio Evangelisti dell’Italia dei valori; la censura e 10 giorni a Fabio Rainieri e la censura e 5 giorni a Gianluca Buonanno, entrambi della Lega. Il motivo che ha indotto Gianfranco Fini ha prendere subito dei provvedimenti è stata l’aggressione fisica: una cosa sono gli insulti - «anche beceri», ha detto Fini in riunione - e altra cosa è quando si passa alle mani, volano calci, pugni e ci si lancia contro l’avversario come se si fosse in una battaglia. Si può capire la considerazione del presidente di Montecitorio e la responsabilità del ruolo che lo ha mosso alle sanzioni. I deputati che si offendono e si picchiano non dànno uno spettacolo edificante di sé e non promettono nulla di buono neanche per il Paese. Se in Parlamento si fa ricorso alla violenza fisica, cosa potrebbe accadere fuori dalla Camera?

L

Tuttavia, qualche considerazione un po’ diversa bisogna pur avanzarla. Pier Ferdinando Casini, che è stato colpito indirettamente dalla lotta politica assai scomposta dei colleghi parlamentari (suo malgrado si è trovato materialmente in mezzo a loro), ha detto che non si può trasformare la Camera dei deputati nella Camera dei fasci. In realtà, il Parlamento è diventato un bar, e si sa che nei bar a volte ci può anche scappare di fare a botte. Delle intemperanze e delle risse improvvise o degli episodi maneschi ci sono sempre stati nelle aule parlamentari che, pur essendo il luogo istituzionale dove la lotta politica si stempera, è pur sempre un luogo di lotta. Ma qui più che violenza, c’è volgarità. Qui ci sono risse senza caratteri. Certo, quando si viene alle mani si sta sempre esagerando, ma può anche essere la manifestazione di una passione politica - come dire? - troppo sentita. Nei fatti dell’altra sera va sottolineato che il tutto è nato da un preciso fatto parlamentare: il governo è andato sotto più volte. Tre, per la precisione. Al terzo capitombolo Evangelisti si è alzato invitando il ministro leghista Zaia - si discuteva di agricoltura - a dare le dimissioni e a «tornare in Veneto a fare l’agricoltore». A questo punto si sono scatenati i leghisti urlando «scemi, scemi». Evangelisti ha replicato richiamandosi a una precedente polemica del mattino: «Quando le scimmie escono, ecco che ci sono i cori da stadio». I leghisti si sono lanciati contro i banchi di Italia dei valori, Ranieri e Evangelisti si sono picchiati. Il presidente Lupi ha sospeso la seduta. E questo è tutto.

A che serve il sindacato per le partite Iva Cgil e Cisl vanno all’inseguimento dei professionisti di Giuliano Cazzola opo la Cisl, anche la Cgil ha deciso di costituire una struttura incaricata di organizzare i titolari di partita Iva. Probabilmente la decisione era in cantiere da tempo. Ma la sua accelerazione è sicuramente dovuta alla campagna di stampa che da mesi va avanti sul Corriere della Sera ad opera di un commentatore, preparato e brillante, come Dario Di Vico, al quale va riconosciuto un talento: individuare situazioni sociali nuove e meritevoli di interesse, ancorché estranee ai soliti campi di indagine, rivolta – per altro sempre meno – al lavoro che viene definito standard. Le inchieste giornalistiche, tuttavia, finiscono spesso per deformare la realtà in obbedienza al principio per cui fa notizia solo un uomo che morde un cane e non il suo contrario. Così l’approccio al mondo delle partite Iva rischia di avvenire sull’onda di una visione pauperistica.

D

videnziale, riguardante la titolarità dell’obbligazione contributiva (che in questo caso graverebbe sul collaboratore). È questo settore ad avere maggiore bisogno di tutele. Ma non esiste già il Nidil, un’organizzazione che può vantare anni di esperienza non proprio costruttiva e feconda? Peraltro, un giovane collaboratore a progetto è tante volte alle dipendenze di un professionista, anch’esso titolare di partita Iva. A questo soggetto viene riconosciuta, ora, dall’establishment sindacale-mediatico un’esigenza di tutela e protezione, dal momento che la crisi ha inciso negativamente sull’ammontare e la qualità del fatturato dello studio.

Ma si tratta di un mondo complesso, difficilmente riconducibile ad un unico modello di problemi e rivendicazioni

A pensarci bene, infatti, le inchieste di Dario Di Vico, sotto sotto, vanno a parare lì: la crisi ha colpito anche i titolari di partita Iva, i liberi professionisti e assimilati, i quali – se perdono il lavoro – non fruiscono di ammortizzatori sociali. Strano paese l’Italia! Ad osservare le rivendicazioni dei grandi soggetti sociali le priorità degli italiani consisterebbero in un presente costellato di assistenza (magari con qualche alternanza disoccupazione/lavoro) e in un futuro da pensionati il prima possibile (magari con trattamenti più “dignitosi”delle retribuzioni percepite durante la vita attiva). Ma chi sono le così dette partite Iva? Si tratta di un mondo complesso, difficilmente riconducibile ad un unico modello di problemi e rivendicazioni. Molti appartengono al settore dei collaboratori. In questi casi, avere la partita Iva è una “condizione”richiesta dai committenti in conseguenza di una mera opportunità di carattere pre-

Come la mettiamo, allora? È lo Stato a doversi fare carico delle difficoltà del libero professionista con partita Iva affinché esso possa meglio retribuire (anzi “stabilizzare”) il collaboratore anch’esso con partita Iva? E perché no? In fondo, questa è la strada seguita – ai tempi del Governo Prodi – con i dipendenti dei call center (già ritenuti esempio di “cattiva occupazione”). Il ministro Cesare Damiano impose alle più importanti aziende del settore di assumere il personale con contratti a tempo indeterminato. In cambio, concesse loro sgravi contributivi, che adesso sono venuti a scadenza. Se non fossero confermati, i costi per le imprese diventerebbero insostenibili. E le aziende chiuderebbero i battenti. Così, quegli stessi sindacati che un tempo tuonavano contro l’infamità dei call center ora sono i primi a chiedere la proroga degli incentivi. Ma ha un senso tutto questo? O non somiglia piuttosto a forme di “commercio equo e solidale” in versione domestica? Milton Friedman era solito affermare che la solidarietà è una gran bella cosa purchè ognuno se la paghi di tasca propria. Per chi scrive aveva ragione.


panorama

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All’inseguimento di una dimensione popolare vecchio stile, il segretario ha deciso di partecipare al Festival

Bersani si «veltronizza» a Sanremo Come stanno cambiando i rapporti tra maggioranza e minoranza dentro al Pd di Antonio Funiciello

ROMA. Nel Pd di Bersani che marcia verso le regionali, si fanno notare i nervosi movimenti della minoranza interna, che s’era organizzata nel correntone di Area democratica. Franceschini è il più morigerato, chiuso com’è nel recinto d’oro della presidenza del gruppo camerale; Fioroni e Marini sono, invece, quelli che hanno riunito i loro (i popolari) più spesso; Veltroni è impegnato nella «ri-fondazione della fondazione» di Michele Salvati e Salvatore Vassallo; Fassino va a cena con Bersani e D’Alema. Non sono fatti, di per sé, di straordinaria presa politica. Eppure segnalano la lenta definizione del riequilibrio in corso nel Pd intorno alla figura del nuovo segretario.

di appartenenza e create una nuova soggettività culturale interna al Pd, che s’incarichi di provare a vincere il prossimo congresso. Al momento, la relazione di Salvati e le sue implicite indicazioni di lavoro sono rimaste sulla carta. Area democratica fa fatica addirittura a convocarsi, con incontri fissati e poi annullati per i continui screzi interni. La punta dell’iceberg è stata la vicenda umbra, dove il lungo braccio di ferro tra l’ex tesoriere del

Pd, il veltroniano Mauro Agostini, e i bersaniani umbri, s’è concluso con la vittoria alle primarie della candidata bersaniana, dopo il boicottaggio subìto da popolari e fassiniani. Ma è stata solo la punta dell’iceberg. Già durante il congresso, un po’ ovunque a livello locale, pezzi di popolari avevano sostenuto Bersani e i suoi candidati segretari regionali. E, subito dopo, nelle situazioni di incertezza sono accorsi in aiuto pure i fassiniani.

Il ”centro” del partito blinda il leader, mettendo fuori gioco le ali estreme, da Rosy Bindi a Parisi

Quello che accade dentro il Pd è ormai chiaro, indipendentemente dalle possibili future riunioni di quelli che furono i franceschiniani. È, infatti, in corso un riequilibrio di marca pi-ci-ista dei rapporti di forza. Pi-ci-ista proprio nella misura in cui favorisce la formazione, intorno al segretario nazionale, di un corposo centro politico che lo blindi, scongiurando una dialettica più moderna tra posizioni alternative (più conservatrici o più innovative), e lo immobilizzi, impedendogli di fatto alcuna trovata di lungo respiro. È una spinta naturale per un ceto politico formato, nei frustranti (per loro) anni Ottanta, nella nostalgia del compromesso storico tradito da Craxi e Andreotti. Al di là delle intenzioni del berlingueriano Bersani, che pure spingono naturalmente anch’esse in questa direzione. E quelle di chi comunista non lo è stato, vedi i po-

I problemi di Area democratica sono in realtà cominciati la mattina dello scorso 18 dicembre a Cortona. Lì i franceschiniani tutti s’erano ritrovati per dare vita alla loro componente, affidando la relazione programmatica, introduttiva ai lavori fondativi, a Michele Salvati (imperdibile il suo ultimo libro, Capitalismo, mercato e democrazia, edito dal Mulino). E Salvati gli ha spiegato, per filo e per segno, che una componente è una cosa seria: una corrente di pensiero politico e non una sommatoria di varie rappresentanze di ceto partitico. Implicita (neppure tanto) l’indicazione di lavoro conseguente: rompete i vostri recinti

polari di Marini, che però non si trovano a disagio al cospetto di una riedizione introversa della teoria degli opposti estremismi. Questo centro che dentro il Pd va costituendosi intorno a Bersani, tiene fuori le ali moleste. Quelli della mozione Marino, che di suo non riesce a graffiare e si affida a iniziative estemporanee. I veltroniani, che restano i più indesiderati, per quanto Bersani tenda a veltronizzarsi sempre di più, vedi pure la partecipazione a Sanremo (ci fosse andato Veltroni, sarebbe stato crocifisso dai media). E verso le ali sono spinti anche i prodiani di varia estrazione.

Da un lato la Bindi, scontenta della conduzione del partito, in specie della liquidazione delle primarie, per cui s’era fatta garante durante la battaglia congressuale. Dall’altro Parisi, che denuncia puntualmente l’estraneità del nuovo Pd col progetto originario dell’Ulivo. Una riunificazione, quella dei prodiani, sotto il ghigno del professore bolognese, che ha scaricato Bersani dopo appena tre mesi. Escluse, come sono, disfatte o clamorose vittorie alle regionali, la conquista di una regione in più o una in meno non influirà minimamente sulla silenziosa spinta centripeta che sta portando Fassino e Fioroni a rinforzare quel centro del partito intorno a Bersani. Spinta che già rappresenta la cifra dell’imminente periodo post elettorale del Pd.

Tesori. Il tribunale di Pesaro ordina il rientro in Italia da Malibu dell’Atleta di Lisippo

La statua confiscata a distanza di Andrea Ottieri

PESARO. La confisca a distanza non s’era mai vista. E comunque ha un’efficacia tutta di dimostrare, specie se tra i due contendenti c’è un oceano. È successo, dunque, che il gip del Tribunale di Pesaro, Lorena Mussoni, ha disposto per l’appunto la confisca di una statua bronzea attribuita allo scultore greco Lisippo - chiamata alternativamente «L’Atleta di Fano» o «L’Atleta Vittorioso» oppure «Victorious Youth» - ritrovata nel 1964 a largo di Fano, nella Marche, e dieci anni dopo ricomparsa al Paul Getty Museum di Malibu in California. La sentenza del gip, con un certo simpatico ottimismo dispone il sequestro della scultura «attualmente al Getty Museum o ovunque essa si trovi». Si tratta di una scultura bronzea risalente al periodo ellenistico realizzata con la tecnica della fusione a cera persa, cioè con un modello positivo cavo in cera a perdere, su cui veniva appoggiata la terra da fonderia che creava il negativo, all’atto della colata la cera evapora per l’alta temperatura del metallo e lascia spazio a questo. Le dimensioni della statua erano proporzionate al vero e il peso è di 50 kg circa. La scultura avrebbe potuto far

parte di un gruppo scultoreo-celebrativo di alcuni atleti vittoriosi posto in un santuario greco-panellenico come a Delfi o Olimpia.

La storia dell’Atleta di Lisippo è lunga e tormentata. Tanto per cominciare, il luogo preciso del ritrovamento – ossia quello in cui l’opera è rimasta nascosta per più di due mil-

con la motivazione che essendo indefinito il luogo del ritrovamento, esso poteva anche essere avvenuto in acque internazionali. Questa incertezza ha portato a un lungo braccio di ferro che, negli anni, ha comunque consintito il ritorno in Italia di alcune opere minori esportate illegalmente negli Stati Uniti. Ma il destino dell’Atleta di Lisippo era stato sospeso proprio in attesa del giudizio del tribunale italiano. Ed ecco che la vicenda è approdata al tribunale di Pesaro, grazie a un esposto ad hoc presentato il 4 aprile 2007 dall’associazione culturale ”Le Cento Città” alla procura di Pesaro per violazione delle norme doganali e contrabbando. Di qui la decisione del gip Lorena Mussoni che già un anno fa aveva dichiarato il bronzo bene «patrimonio indisponibile dello Stato», decidendo di far andare avanti il procedimento. Davvero basterà tutto questo a convincere il Getty Museum?

Ritorvata davanti a Fano nel 1964, prima sparì e poi ricomparve dieci anni dpo al Getty Museum, che ora «dovrebbe» cedere e renderla all’Italia lenni - non è mai stato stabilito con certezza: sembra che la nave romana che la trasportava fosse sulla rotta Grecia-Italia quando per cause ignote affondò con il suo prezioso carico. Una volta ritrovata, la statua di fatto sparì e quando ricomparve in California vari governi italiani (e anche la regione Marche) ne hanno reclamato il ritorno in Italia. La risposta del Getty Museum è sempre stata negativa,


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el primo giorno del TedGlobal, una conferenza per appassionati di tecnologia tenutasi ad Oxford nel luglio 2009, un’ospite a sorpresa fece la propria comparsa: Gordon Brown. Iniziò il proprio intervento con una fotografia mozzafiato di un avvoltoio che scrutava dall’alto una ragazza sudanese in procinto di morire di fame. Internet, affermò, da la possibilità ad immagini talmente scioccanti di circolare rapidamente in tutto il mondo, la qual cosa consente di mobilitare una nuova comunità globale di elargitori d’aiuti. Il discorso di Brown terminò con un appello ad agire: i paesi sviluppati avrebbero dovuto fornire maggiori aiuti per sconfiggere la povertà. Nel caso di catastrofi che colpiscono improvvisamente - come nel recente terremoto di Haiti - il primo ministro ha ragione. Anche il più piccolo quantitativo di aiuti può salvare molte vite. La moralità di un tale tipo di assistenza appare inoppugnabile. Ma dobbiamo altresì ricordare come la politica degli aiuti costituisca solo un palliativo. Non prende in considerazione i problemi impliciti. Come hanno notato leader quali il presidente ruandese Paul Kagame, possono addirittura aggravare i problemi se tolgono linfa all’innovazione, alle ambizioni, alla fiducia e alle aspirazioni che consentono in ultima analisi ai paesi poveri di avviare un processo di sviluppo.

N

Così, due giorni più tardi, aprii il mio intervento al Ted con un’immagine diversa: una foto che ritraeva degli studenti africani mentre facevano i compiti di notte, sotto la luce dei lampioni stradali. Speravo che l’immagine avrebbe provocato stupore piuttosto che senso di colpa o pietà: come si poteva tollerare che una tecnologia vecchia di un secolo per l’illuminazione delle abitazioni non fosse ancora disponibile per quegli studenti? Sostenni che il fallimento dovesse essere attribuito a regole fragili o erronee. Regole giuste possono incanalare l’interesse personale e impiegarlo al fine di ridurre la povertà; regole sbagliate soffocano tale forza o la incanalano in forme che arrecano danno alla società. La questione più profonda, ampiamente riconosciuta ma raramente affrontata, è come liberarsi dalle cattive regole. Lanciai un’idea provocatoria. Invece di concentrarci sulle nazioni povere e su come modificare le loro regole, dovremmo concentrare la nostra attenzione sulle persone indigenti e su come esse possano spostarsi in luoghi dove sussistano regole migliori. Un modo per fare ciò è mediante la creazione di decine, forse centinaia, di nuove “carte delle città”, delle quali i paesi sviluppati definiscano le regole e centinaia di milioni di famiglie povere possano diventarne residenti. Come funzionerebbe una città di questo tipo? Immaginiamo che il governo di un paese povero accantoni una porzione di territorio disabitato. Questi invita un paese sviluppato a sancire un nuovo tipo di partnership, nella quale il paese sviluppato definisce ed applica norme specificate in una carta. I cittadini del paese più povero, ed il resto del mondo, sarebbero liberi di vivere e lavorare nella città che nascerà. Ciò potrebbe creare opportunità economiche ed incoraggiare gli investimenti esteri, ed utilizzando un territorio disabitato assicurerebbe a tutti coloro che lì risiederanno di aver operato nella piena osservanza delle regole. All’incirca 3 miliardi di persone, per lo più lavoratori a reddito basso, si sposteranno in centri urbani di questo tipo nei prossimi decenni. A mio parere la scelta non è se il mondo si urbanizzerà, ma dove e con quali regole. Invece di espandere i quartieri

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Una strategia per aiutare il Paesi del Terzo Mondo senza superare i limiti

Un’idea per la ci C’è un compromesso tra l’abbandono e la colonizzazione: creare centri urbani in grado di far germogliare lo sviluppo e contenere i flussi migratori di Paul Romer poveri dei centri urbani già esistenti, nuove carte delle città potrebbero garantire alloggi sicuri e per persone con reddito basso ed occasioni lavorative di cui il mondo avrà bisogno al fine di adattarsi a tale cambiamento. E, cosa ancor più importante, tali città potrebbero dare ai poveri del mondo la possibilità di scegliere le norme con cui essi vogliono vivere o a cui desiderano sottostare. Per comprendere la ragione per cui le regole rappresentino un modo di incanalare l’interesse di ogni singolo individuo, e perché tali nuove città potrebbe avere successo dove quelle vecchie hanno fallito, diamo un’occhiata all’esempio dell’energia elettrica. Stando ai parametri del mondo sviluppato, sappiamo che costa relativamente poco illuminare un’abitazione: in media, meno di un penny l’ora per una lampadina da 100 watt. Sappiamo altresì che molti poveri dell’Africa non stanno morendo di fame. Essi potrebbero permettersi un po’di luce. Agli africani non manca l’elettricità in quanto troppo poveri. In realtà, la disponibilità di energia è importante per garanti-

po’ per capirlo. Negli anni ’50 e ’60, i modelli economici consideravano le idee come beni pubblici, sottintendendo che una volta che un’idea veniva concepita, essa esistesse in ogni dove. Ma non è così: i brevetti ed i vincoli legali impediscono ad alcune idee di diffondersi, mentre altre vengono facilmente mantenute segrete.

Negli anni ’70, quando iniziai l’università, ero convinto che gli economisti sottovalutassero il potenziale delle nuove idee al fine di innalzare gli standard di vita. Il corpus analitico che uscì dalla mia tesi di dottorato iniziò ad essere chiamato in Gran Bretagna teoria della nuova crescita, o teoria post-neoclassica della crescita endogena (teoria di cui il New Labour si appropriò in modo infame alla metà degli anni ’90). All’inizio desideravo semplicemente capire come le buone idee, come quelle che rendevano l’energia elettrica disponibile a costi contenuti, venissero scoperte. Ma un altro argomento inizio a suscitare il mio interesse: perché le idee comuni in alcune parti del mondo non si

Un sondaggio Gallup ha stimato che 700 milioni di persone in tutto il mondo sarebbero disposte a spostarsi definitivamente in un altro Paese che offra sicurezza e opportunità maggiori re l’istruzione, la produttività e la creazione di lavoro, cose che risulterebbero ben più realistiche dell’affermare che molti in Africa versano in condizioni di povertà poiché non hanno elettricità. Dunque perché non ce l’hanno?

Consideriamo lo sviluppo da un altro punto di vista. I consumatori statunitensi dispongono di elettricità a basso prezzo per lo più in quanto le regole incanalano l’interesse di ogni singolo individuo in modo corretto.Alcune proteggono gli interessi delle aziende di servizio pubblico, altre impediscono a tali compagnie di abusare della propria posizione di monopolio. Con regole di questo tipo, le compagnie vincono; i fornitori efficienti conseguono un profitto. Ma anche i consumatori vincono: essi ottengono infatti accesso ad una risorsa vitale ad un costo relativamente contenuto. È l’assenza di norme che spiega il perché molti africani non dispongano di energia elettrica nelle proprie abitazioni. Può apparire un’analisi semplicistica, ma gli economisti hanno impiegato un bel

diffondevano nel resto del globo? Detta in termini molto semplici, alcuni Paesi risultano maggiormente in grado di stabilire quel tipo di regole che consentono alle buone idee di diffondersi, mentre altri rimangono bloccati da norme cattive che tengono a debita distanza le idee. Le regole che bloccano l’approvvigionamento energetico a basso costo, ad esempio, non sono difficili da identificare. La minaccia dell’espropriazione o dell’instabilità politica frena molte compagnie energetiche occidentali dall’insediarsi in Africa. Al giorno d’oggi, violenti conflitti civili hanno portato alcuni Paesi a considerare una volta ancora l’ipotesi dell’intervento umanitario, ma una tale misura può essere giustificata solamente in circostanze estreme. Esiste un compromesso tra riforme interne lente e rischiosi tentativi di ricolonizzazione: la carta della città. Esistono ampie fasce di territorio disabitato sulle coste dell’Africa sub-sahariana le quali risultano troppo secche per essere destinate all’agricoltura. Un centro urbano può al contrario svilupparsi anche nei luoghi

più secchi, sostenuto se necessario da un approvvigionamento di acqua desalinizzata e riciclata. E la nuova zona non ha bisogno di essere governata direttamente dal paese sviluppato parte della partnership: i residenti della città possono amministrare le regole delineate dal proprio partner fintanto che il Paese sviluppato mantiene l’ultima parola. Questo è quanto avviene oggi nella Repubblica di Mauritius, in cui il British Privy Council (Consiglio Privato della Corona) è ancora il tribunale d’ultimo appello in un sistema giudiziario il cui personale è mauriziano. Diverse città potrebbero iniziare con carte che si differenziano sotto molti aspetti. L’elemento comune sarebbe che tutti i residenti si troverebbero lì per scelta – un sondaggio Gallup ha stimato che 700 milioni di persone in tutto il mondo sarebbero disposte a spostarsi definitivamente in un altro paese che offra condizioni di sicurezza ed opportunità economiche maggiori. Le città sono delle dimensioni giuste per offrire le condizioni basiche per lo sviluppo. Fin quando potranno commer-


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i - pratici e morali - del sostegno internazionale

ittà globale

Kong. Mediante una tale intesa, l’unico modo per il paese ospitante di recedere dall’impegno assunto sarebbe l’invasione. Persino i governi che rimpiangono l’aver firmato tali accordi in passato li rispettano quasi sempre. I cubani odiano l’accordo che ha garantito agli Stati Uniti il controllo della baia di Guantánamo, ma hanno imparato a conviverci.

Un’altra obiezione proviene dagli studiosi di urbanistica. Essi sostengono che il sito su cui sorgono la maggior parte delle città esistenti sia determinato da incidenti della storia e della geografia, e suggeriscono, correttamente, che non esistono requisiti geografici per la sopravvivenza di una città. Ma essi sbagliano sicuramente nel pensare che tutti i migliori siti per la costruzione di città siano già stati presi. Qui la distanza conta, ma non rappresenta un ostacolo insormontabile. L’accesso al mare è l’unica reale necessità: fino a quando la città nata dallo statuto può spedire beni avanti e indietro su portacontainer, può svilupparsi anche se i suoi vicini diventano ostili o instabili. E vi sono migliaia di località costiere per la maggior parte disabitate su parecchi continenti che potrebbero dare l’autorizzazione ad un simile progetto. Altri economisti urbanisti temono che nuove città possano ripercorrere la mediocri orme di quelle pianificate dai go-

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creare un nuovo centro urbano in cui milioni di giovani individui potranno pagare un’inezia e studiare in patria. E mentre tali città reperiranno residenti, i leader ed i cittadini nei paesi già esistenti si dovranno confrontare con la più efficace pressione nel gioco competitivo della buona governance. La storia ci ha insegnato che le pressioni competitive create dai flussi migratori possono incoraggiare la crescita economica. Ma forti opposizioni all’immigrazione nelle economie più ricche del mondo impediscono a molti di spostarsi in sistemi governati da migliori regole. Le città frutto di una carta statutaria portano i buoni sistemi di regole in luoghi che darebbero il benvenuto ai migranti. In effetti, tali città costituirebbero l’unica via percorribile ad un sostanziale aumento delle migrazioni globali, portando buone regole in luoghi a cui i poveri del mondo possono avere accesso facilmente e legalmente, e contenendo al tempo stesso le controverse frizioni politiche che nascono per via dei tradizionali flussi migratori.

Vi sono molte questioni che devono essere risolte prima che prima città frutto di una carta pattizia venga creata. È meglio avere un gruppo di nazioni ricche, o un’istituzione multinazionale come l’UE, che svolge un ruolo simile a quello dei britannici a Hong Kong? Come potrebbe essere

Creando nuove zone attraverso partnership a livello nazionale, le buone norme possono diffondersi più rapidamente. E, quando ciò avviene, i benefici possono essere moltissimi

Un’illustrazione di Escher. A sinistra le città di Brasilia (in alto) e Dubai (in basso) ciare liberamente, anche le piccole città saranno abbastanza grandi per essere autosufficienti. Inoltre, poiché esse sono molto concentrate, hanno bisogno di porzioni territoriali esigue. È importante creare zone con nuove regole che siano sufficientemente grandi da essere indipendenti. Sufficientemente grandi da ospitare una città. Decideranno poi i singoli individui se entrarci o meno. Alcuni economisti hanno obiettato che un patto tra due Paesi non risolverà necessariamente il problema d’impegno che sta alla base dei fallimenti nello sviluppo. I leader di molti Paesi entrano in accordi, a volte con le migliori intenzioni, che i leader successivi o gli ufficiali non onorano. Per premunirsi contro tali risultati, le parti dello statuto della città devono negoziare un trattato formale, come quello che ha concesso ai britannici i diritti su Hong

verni quali Brasilia, o il recente fiasco di Dubai. Ma questi sono esempi estremi. Lo stato si è comportato in maniera troppo intrusiva nel caso di Brasilia o si è dimostrato inesistente in quello di Dubai. Hong Kong è una sorta di via di mezzo, uno stato governato da leggi e non da individui, uno stato che lascia alla competizione e all’iniziativa individuale il compito di decidere. La seconda lezione è l’importanza di definire le giuste dimensioni. La maggior parte delle nazioni sono troppo vaste per aggiornare tutto d’un colpo le proprie regole e leggi. La coercizione necessaria ad imporre un nuovo sistema su una popolazione esistente genera frizioni, indipendentemente da chi governi. I leader nella Cina continentale compresero ciò quando tentarono di copiare il successo di Hong Kong aprendo gradualmente nuove località, come ad esempio la nuova città di Shenzen, vicino Hong Kong. Tuttavia se le nazioni sono troppo grandi, le città ed i villaggi sono troppo piccoli. Un villaggio non può trarre profitto dai benefici che derivano quando milioni di persone vivono e lavorano assieme essendo governati da buone regole. Le città offrono le dimensioni adeguate per grandi cambiamenti.

Poiché miliardi di individui si urbanizzeranno nei decenni a venire, essi si sposteranno verso centinaia di nuove città. I guadagni che le nuove città possono generare sono evidenti. Riprendiamo in esame l’immagine di quegli studenti intenti a fare i compiti sotto i lampioni stradali. Da soli, i leader politici dei paesi più poveri non potranno fornire loro elettricità in modo affidabile e a costi contenuti di qui a breve. Essi non sono in grado di eliminare i rischi politici che frenano gli investimenti o impediscono adeguati controlli. Ma operando con una nazione partner, potranno

governata una città di questo tipo? E come o quando potrebbe nuovamente essere organizzato un eventuale trasferimento di sovranità al paese ospitante? Nell’esplorare tali questioni, non dobbiamo dimenticare le fondamentali idee che i fautori del libero mercato sottovalutano. Gli accordi vantaggiosi per entrambi i contraenti che possiamo osservare nei mercati ben funzionanti sono possibili solo in presenza di un governo forte e credibile che possa stabilire delle regole. Nelle regioni in cui queste non sono presenti, potrebbero essere necessari secoli agli abitanti del luogo per liberarsi dalle cattive regole ed abbracciare le nuove. Creando nuove zone attraverso partnership a livello nazionale, le buone norme possono diffondersi più rapidamente, e quando ciò avviene, i benefici possono essere ampi. I cittadini fortunati del mondo devono essere in grado di fornire assistenza nel momento in cui catastrofi quali il terremoto haitiano colpiscono, ma dobbiamo altresì fare attenzione ai limiti pratici e morali dell’aiuto. Quando i ruoli di benefattore e supplicante vengono istituzionalizzati, entrambe le parti ne escono sminuite. Nel caso di Haiti, se le nazioni nella regione creassero anche solo due città frutto di una carta statutaria, queste ultime potrebbero ospitare l’intera popolazione di quel Paese. Il Senegal ha offerto agli haitiani l’opportunità di fare ritorno nella patria “dei loro antenati”. Se verranno in massa, noi siamo pronti a donare loro una regione”, ha affermato un portavoce del governo senegalese. Al di là delle straordinarie circostanze che evolvono da una crisi, il ruolo del partner apporta benefici a tutti. E vi sono milioni di persone in tutto il mondo alla ricerca di una partnership. Aiutare i nostri simili a svilupparle con successo costituisce l’opportunità del secolo.


mondo

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Documenti. Il leader di Charta ’08 si è presentato davanti al tribunale d’appello di Pechino, che non lo ha fatto parlare

La penna e la pistola Il memoriale inedito della difesa di Liu Xiaobo: «Potete fermare me, non la libertà del popolo» di Liu Xiaobo segue dalla prima Un risultato molto importante ottenuto dalle riforme e dalla politica “della porta aperta” è stato il risveglio della popolazione cinese riguardo ai diritti umani e l’aumento della protezione di questi da parte della società civile. Questo risultato ha spinto il governo cinese a progredire nella propria concezione dei diritti umani. Nel

2004, l’Assemblea nazionale del popolo ha rivisto la Costituzione per inserirci “il rispetto e la protezione dei diritti umani”; in questo modo si hanno oggi dei principi costituzionali che tutelano queste realtà, così come una nazione dominata dalla legge. La nazione deve rispettare e proteggere i diritti umani, secondo i poteri che vengono attribuiti al popolo dall’articolo 35 della Carta costituzionale.

La mia libertà di esprimere opinioni diverse è il diritto di parola, che mi viene garantito dalla Costituzione in quanto cittadino cinese. Questo diritto non soltanto non deve essere limitato o rimosso dal governo; al contrario, dovrebbe essere rispettato dall’esecutivo e protetto dalla legge. Di conseguenza, alla luce di tutto questo, le accuse mosse contro di me infrangono i miei diritti basilari di cittadino cinese e sono contrari alla legge fondamentale della Cina. Siamo davanti a un caso tipico di “crimine di espressione”, che dimostra come sia ancora in vigore l’antico crimine di gettare in prigione gli scrittori. Questo modo di fare è contrario alla Costitu-

zione e deve essere criticato, anche perché è irragionevole. L’accusa cita delle frasi da me scritte come una prova del mio crimine, che sarebbe quello di “far circolare false voci, fomentare e in altri modi incitare la sovversione anti-governativa per ribaltare il sistema socialista”.“Far circolare false voci”significa fabbricare e creare false informazioni, così come colpire il popolo. “Fomentare” significa incidere sul buon nome e sul carattere degli altri. La mia opinione è un’opinione critica, l’espressione di un punto di vista, un giudizio sui valori e un giudizio su cosa sia vero e cosa falso. Questo non vuol dire fare del male a qualcuno. E quindi, la mia opinione non ha nulla a che fare con il far circolare false voci o fomentare. Criticare non vuol dire fomentare, e lo stesso vale per il far circolare false voci. L’accusa usa inoltre delle citazioni prese da Charta ‘08 per accusarmi di aver infangato il governo e il Partito, oltre che per ritenermi colpevole di “aver complottato in maniera sovversiva e aver cercato di ribaltare il governo”. Questa particolare accusa prende delle frasi fuori contesto e ignora totalmente il tono dominante di Charta ‘08, oltre alle opinioni che ho più volte sostenuto all’interno dei miei articoli.

Per prima cosa, Charta ‘08 descrive i “disastri per i diritti umani”avvenuti nella Cina moderna. La campagna contro la destra [un moto politico lanciato da Mao contro i cosiddetti anti-rivoluzionari ndt] ha portato all’ingiusta rimozione di oltre 500mila persone; il Grande balzo in avanti ha provato la morte innaturale di più di 100mila persone;

Le accuse di sovversione che avete presentato contro di me non hanno senso, perché il diritto di parola è garantito dalla nostra Costituzione e dalla Dichiarazione universale dei diritti umani la Rivoluzione culturale si è dimostrata una catastrofe enorme. Il 4 giugno [quello del 1989, la soppressione dei moti anticorruzione di piazza Tiananmen ndr] è stato un bagno di sangue, in cui molte persone sono morte e molte altre sono state gettate in prigione. Questi eventi sono universalmente riconosciuti come “catastrofi per i diritti umani” e hanno creato molti pericoli per la Cina, “rigettando lo sviluppo naturale della razza cinese e il progresso della civilizzazione umana”.

Mettendo un termine al monopolio del potere e ai privilegi speciali di un singolo Partito significa soltanto chiede, al governo monopartitico, di ridare il potere al popolo e creare finalmente una nazione libera “per il popolo, con il popolo e del popolo”. I valori espressi da Charta ‘08 e le riforme politiche che propone hanno come obiettivo a lungo termine la creazione di uno Stato federale, che sia libero e democratico. Sono presenti 19 misure riformiste, che mirano a operare in maniera graduale e pacifico. Dato che le riforme attuate al momento sono tutte di corto respiro, noi chiediamo al governo di camminare su due piedi invece che su uno solo, portando avanti una riforma che non sia soltanto economica ma anche politica. Questo è il modo in cui una società civile spinge il governo a ridarle indietro il potere, con pressioni dal basso che spingano l’esecutivo a fare quel cambiamento di rotta ne-

cessario. È in questo modo che il governo e la sua popolazione possono lavorare insieme in una buona cooperazione, che metta in piedi rapidamente quel governo costituzionale che i cinesi sognano da almeno un secolo. Nei 20 anni che sono trascorsi dal 1989, le opinioni che ho espresso sulle riforme politiche da attuare in Cina sono sempre state graduali, pacifiche, ordinate e controllabili. Mi sono sempre opposto all’idea di imporre riforme troppo veloci e ho sempre parlato con molta forza contro l’idea di una rivoluzione violenta. L’idea che propone una riforma graduale è chiaramente espressa nel mio articolo intitolato “Cambiare il potere politico tramite il cambiamento della società”.

Questo articolo sostiene che il risveglio della coscienza dei diritti di una società civile serva per espandere i diritti della popolazione, per incrementare la coscienza del proprio potere e sviluppare una società in modo che possa portare la spinta riformista dal basso verso l’alto, per promuovere una riforma governativa dal basso verso l’alto. In realtà, l’esperienza riformista cinese degli ultimi 30 prova che le forze basilari necessarie per mettere in atto delle riforme creative vengono sempre dalla società civile; così come aumenta la coscienza e l’influenza della riforma civile, così il governo viene costretto ad accettare nuove idee e provare a metterle in pratica su basi sperimentali. Questa espe-


mondo

Cresce intanto il comitato che lo vuole prossimo Nobel

Usa e Ue chiedono insieme la liberazione del dissidente di Massimo Fazzi

PECHINO. La corte d’appello di Pechino ha confermato ieri la condanna ad 11 anni di prigione per il dissidente Liu Xiaobo, che sei settimane fa è stato dichiarato colpevole di “sovversione ai poteri dello Stato”. La sentenza ha subito suscitato la condanna della comunità internazionale, con gli Stati Uniti e l’Unione Europea che hanno chiesto l’immediato rilascio del 54enne dissidente che è stato tra gli autori di un appello rivolto nel 2008 alle autorità cinesi per il rafforzamento delle libertà politiche nel Paese. L’appello, noto come Charta ’08, ha sollevato una vasta eco dentro e fuori il Paese. La notizia della conferma della condanna à stata diffusa dall’avvocato di Liu, Mo Shaoping, ma non è arrivata a sorpresa. «Mi sono preparata al peggio» aveva dichiarato la moglie del dissidente Liu Xia. Diplomatici di 17 Paesi hanno atteso il verdetto fuori dall’aula del tribunale, e subito dopo che è stato emesso l’ambasciatore americano a Pechino Jon Huntsman ha diffuso un comunicato in cui si parla di «persecuzione» dei cittadini che esprimono le proprie idee politiche. Siamo dispiaciuti, si legge nel testo, «per la decisione del governo cinese di confermare la sentenza di 11 anni di prigione per “sovversione ai poteri dello Stato”. Noi crediamo che Liu Xiaobo non dovesse essere condannato in prima istanza e che debba essere rilasciato immediatamente». Non si ferma intanto la campagna internazionale per assegnare proprio a Liu il prossimo Nobel per la pace. Due settimana fa è stata resa pubblica una lettera aperta firmata, tra gli altri, dal Dalai Lama, da Vaclav Havel e da Desmond Tutu. Il testo della missiva, indirizzata al comitato norvegese per il Nobel che assegna il Premio, spiega: «L’impegno di Liu per portare la democrazia in Cina è, soprattutto, teso al beneficio della popolazione cinese. Il suo coraggio e il suo esempio possono aiutare a far sorgere una nuova alba di partecipazione della Cina negli affari internazionali, grazie a una società civile e indipendente». A questi si sono aggiunti nei giorni scorsi altri intellettuali: il gruppo Pen - che opera per la libertà di espressione nel mondo - ha presentato a Stoccolma una richiesta analoga a quella degli ex Nobel. Nel testo firmato da Kwame Appiah, presidente della sezione americana del gruppo, si legge: «Liu è personalità nota per la sua autorità nel campo dei diritti politici e della libertà di espressione. Onorarlo con il Nobel sarebbe un modo perfetto per sottolineare l’importanza della libertà». Il testo è stato firmato anche da Salman Rushdie, Philip Roth e Ha Jin. Alla lista si sono aggiunti 40 deputati cechi e 50 slovacchi

rienza ha cambiato l’idea dominante, secondo cui le riforme politiche provengono sempre dall’alto. Se volessimo riassumerle, potremmo dire che le mie idee principali per una riforma politica della Cina sostengono che questa deve essere graduale, pacifica, ordinata e sotto controllo; e soprattutto deve essere interattiva, dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso. In questo modo si avrebbe il minor costo e il maggior risultato possibile. Io conosco i principi base che regolano i cambiamenti politici: un cambiamento sociale ordinato e sotto controllo è migliore di uno che sia invece caotico e fuori controllo. L’ordine retto da un governo cattivo è migliore del caos dell’anarchia. È per questo che mi oppongo a quei sistemi di governo che sono dittatoriali o monopolisti: ma questo non vuol dire che io “inciti alla sovversione del potere statale”. Opporsi non vuol dire sovvertire. Un’altra ragione per la quale io non sono colpevole delle accuse che mi vengono mosse è che queste contravvengono agli standard dei diritti umani che sono universalmente riconosciuti.

Nel 1948, come membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la Cina ha partecipato alla stesura della Dichiarazione universale dei diritti umani. Mezzo secolo dopo, nel 1998, la Cina si è impegnata solennemente davanti alla comunità internazionali: avrebbe firmato le due Convenzioni base dell’Onu che regolano i diritti umani. Uno, il Trattato internazionale sui diritti civili e politici della popolazione, riconosce la libertà di parola e chiede che i governi di ogni Paese la rispettino e la proteggano. Nella sua qualità di membro permanente del Consiglio di Sicurezza e membro del Consiglio Onu sui diritti umani, la Cina è obbligata a rispettare i trattati ed è responsabile rispetto agli obblighi che ne derivano. Pechino dovrebbe rappresentare un modello su come le clausole che proteggono i diritti umani possano essere messe in pratica. È soltanto in questo modo che il governo cinese può salvaguardare pienamente i diritti umani della sua popolazione. Dovrebbe dare il proprio contributo alla promozione della causa dei diritti umani internazionali perché, così facendo, dimostrerebbe il grado di civiltà degno di una grande nazione. Entrando nell’era moderna, il Partito comunista cinese è passato da debole a forte ed ha infine trionfato contro il Kuomintang. Il Partito ha raccolto la sua forza dalla promessa di “opporsi alla dittatura in nome della libertà”. Prima del 1949, gli organi del Partito attaccavano con regolarità ogni limitazione alla libertà di espressione compiuta dal governo

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della famiglia di Chiang Kaishek. Queste diventavano fonte di dolore e lacrime fra gli intellettuali, che venivano puniti per le cose che dicevano. Mao Zedong e altri leader comunisti hanno più volte definito la libertà di espressione “un diritto fondamentale”. Ma dopo il 1949 - dalla campagna contro la destra alla Rivoluzione culturale, dall’esecuzione di Lin Zhao allo sgozzamento di Zhang Zhixin - la libertà di espressione si è persa nell’era maoista e il Paese è caduto in un silenzio mortale, come quello di 10mila cavalli muti. Con l’inizio delle riforme, il Partito ha corretto alcune ingiustizie e ha migliorato di molto la libertà per le espressioni diverse; lo spazio per la libertà di opinione nella so-

le alte mura di una prigione non possono fermare l’espressione della libertà.

Un governo non può sopprimere la legittima espressione di opinioni diverse e non può dipendere dall’imprigionamento degli scrittori per mantenere a lungo termine il potere. I problemi causati da una penna si possono risolvere soltanto usando una penna. Fino a che userete la pistola per risolvere i problemi causati da una penna, continuerete a creare disastri per i diritti umani. Soltanto eliminando la pratica di ingabbiare gli scrittori potrete garantire a tutti i cittadini quella libertà di parola promessa dalla Costituzione. A quel punto, la libertà di parola potrà essere protetta in una maniera sistematica e

Nel corso della storia, la Cina ha commesso molti errori: lo provano la Rivoluzione culturale, il Grande balzo in avanti, piazza Tiananmen. Se mi condannate, fallite di nuovo l’esame più importante

cietà è divenuto molto più grande, mentre si è ridotto il numero di scrittori gettati in galera. Ma la tradizione del “crimine di espressione” non è scomparso del tutto. Dal movimento del 5 aprile a quello del 4 giugno, dal Muro della Democrazia a Charta ‘08, sono molti gli esempi di quanto dico. Il mio processo è soltanto l’esempio più recente. Nel 21esimo secolo, la libertà di espressione è divenuto un diritto comune per le popolazioni di molte nazioni, e gettare uno scrittore in galera arriva soltanto quando mille persone gli puntano il dito contro. Da un punto di vista obiettivo, bloccare la libertà di espressione è come bloccare un fiume;

verrà bandita per sempre dalla terra di Cina l’abitudine di incarcerare chi pensa in maniera diversa. Il crimine di parola è contrario ai principi espressi dai diritti umani, principi presenti e tutelati dalle nostre leggi, ed è contrario alla Dichiarazione internazionale dei diritti umani. Va contro la giustizia universale e la corrente della storia. Mi dichiaro innocente per quello che ho fatto e spero che questa dichiarazione venga accettata da questa corte. Se questo avvenisse, sarebbe un significativo precedente nella storia della giurisprudenza cinese; sarebbe una promozione nella questione dei diritti umani e una vittoria nel test della Storia.Vi ringrazio.


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Diplomazia. Il premier Erdogan spinge per una politica neo-ottomana ISTANBUL . L’ombra della Mezzaluna turca si allunga nuovamente sui Balcani. È un po’ come se si stesse tornando a prendere qualcosa che è stato suo per 500 anni. O, se si vuole metterla in un altro tono, sta recuperando tutta l’influenza in un territorio dove ha giocato un ruolo determinante durante l’Impero ottomano, fino alla sua dissoluzione avvenuta all’inizio del secolo scorso. Il dinamismo turco in politica estera è un fenomeno che, a partire dal 2002, è sotto gli occhi di tutti. Negli ultimi anni il premier islamico-moderato Recep Tayyip Erdogan è stato nominato più volte fra i capi di governo che compie più missioni all’estero. Un’esuberanza sempre molto mirata, che ha trovato il suo completamento con la nomina a ministro degli Esteri turco di Ahmet Davutoglu, advisor del primo ministro e studioso di relazioni internazionali di lungo corso. Il nuovo capo della diplomazia della Mezzaluna, con la sua politica detta del “neo ottomanesimo”, che consiste nel condurre rapporti di buon vicinato con tutti i territori parte dell’ex impero dei sultani, ha portato a un interesse sempre più marcato della Turchia nei confronti dei Balcani. E non avrebbe potuto essere altrimenti se si considerano, specie in alcune regioni, le affinità religiose ed etniche.

Rispetto a cento anni fa le condizioni storiche sono cambiate, ma pongono dinanzi a uno scacchiere che vale la pena di osservare, insieme con la condizione attuale della Mezzaluna. Nell’ex Jugoslavia sono tornate la divisioni fra i singoli Stati, e in qualche caso, come la Bosnia e il Kosovo, Paesi a maggioranza musulmana e fra gli ultimi possedimenti

L’ombra della Mezzaluna si allunga sui Balcani Sempre più stretto l’abbraccio con i territori dell’ex impero dei sultani di Marta Ottaviani

Stati balcanici, un’economia fra le più interessanti a livello globale, per quanto riguarda l’anticamera da fare per l’ingresso in Europa, è nella stessa condizione di molti Paesi balcanici che in epoca ottomana governava come Macedonia, Serbia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina e Albania. Area su cui è ansiosa di imporre nuovamente la propria

Dalla Macedonia alla Serbia, dal Kosovo al Montenegro, dalla Bosnia all’Albania, l’attivismo di Ankara è un successo persi dall’Impero ottomano, i legami con la Turchia sono molto stretti in grazia dei motivi storici. È stata proprio Ankara una delle prime a riconoscere l’indipendenza del Kosovo nel febbraio 2008. Da quel momento è iniziato un tentativo sempre più evidente da parte della Turchia di insinuarsi negli affari balcanici. Per uno strano paradosso della sorte, però, proprio la Turchia, che sulla carta è un Paese di notevole peso, con un regime di governo sicuramente più democratico di quello di molti

influenza, in alcuni casi quasi arrivando ad assumere un ruolo di “sorella maggiore”.

Non è un caso che proprio questa settimana la BosniaErzegovina, da sempre al centro delle attenzioni di Ankara, e la Serbia abbiano firmato nella capitale turca un accordo per ristabilire relazioni diplomatiche. Un risultato portato a casa grazie alla mediazione proprio di Ahmet Davutoglu, che non ha perso l’occasione per dare un grande risalto al riavvicinamento, spiegando che

Parlano la stessa lingua, professano la stessa fede

I fratelli turchi di Pristina Sono circa 50mila, hanno i loro mezzi di informazione e il loro partito e per molti decenni hanno condotto un’esistenza quasi fantasma. Sono i turchi del Kosovo, la minoranza che vive in questi territori dai tempi dell’Impero ottomano e che da lì non se ne è mai andata. Sono i discendenti degli abitanti della vilayet del Kosovo, una delle ultime province dell’Impero ottomano a essere stata ceduta. Risiedono soprattutto a Pristina, Mitroviza e Dakovica. La loro storia è tornata alla ribalta subito dopo la dichiarazione di indipendenza del 2007, anche grazie alle attenzioni di Ankara, che considera i turchi del Kosovo dei veri e propri fratelli e non a torto, se si pensa che parlano la stessa lingua, il turco, e professano la stessa fede, ossia l’Islam sunnita. Attualmente la minoranza è rappresentata in Parlamento da tre deputati eletti nelle file del Partito democra-

tico turco del Kosovo e ancora più nei media. Nel Paese ci sono altri due partiti, l’Unione democratica turca e il Fronte popolare turco, che però non trovano al momento rappresentanza nell’assemblea. I quotidiani in lingua turca sono poco meno di una decina e a questi vanno aggiunti anche canali radio e televisivi. In turco trasmettono per qualche ora al giorno anche la televisione e la radio nazionale. Per quando riguarda l’istruzione, già dagli anni Cinquanta del secolo scorso, la comunità turca fu l’unica a ottenere i permessi per costruire scuole private. Oggi fra asili, elementari, medie e superiori sono circa una ventina. Dal momento dell’indipendenza del Kosovo, gli scambi con Ankara sono aumentati e una delle priorità del governo Erdogan in quest’area è attuare programmi di scambio con scuole e università turche.

con questo gesto sono state poste le premesse per la riappacificazione e la stabilizzazione di tutti i Balcani. «Si è trattato di un successo innegabile - ha spiegato il capo della diplomazia turca ai giornalisti - abbiano svolto incontri con entrambe le parti per cinque mesi. Il nostro obiettivo è quello della stabilizzazione dei Balcani, in modo che possano diventare definitivamente una regione prospera e stabile». I prossimi appuntamenti di questi incontri a tre saranno in Bosnia-Erzegovina a marzo e a Belgrado ad aprile. Un modello che, ha lasciato intendere il numero uno della diplomazia turca, potrebbe presto essere esportato ad altre situazioni nella stessa area. Il risultato più importante raggiunto fino a questo momento è che la Bosnia assegnerà un ambasciatore a Belgrado, assente da diversi anni.

La Serbia per prima non ha mancato di riconoscere il ruolo svolto dalla Turchia nella mediazione. Uno dei capitoli su cui la posizione serba è certamente irremovibile è il riconoscimento del Kosovo da parte di Belgrado, che per Ankara significherebbe il coronamento della sua azione diplomatica nella regione. L’accordo scucito alla Serbia però conferma il credito di cui la Turchia gode nella regione e sfata le conclusioni degli analisti più severi nei confronti della Mezzaluna, secondo cui Ankara si troverebbe meglio in attività di mediazione con Paesi musulmani. A ben vedere un’anticipazione di questo asse serbo-turco si era già avuta a ottobre dell’anno appena trascorso, quando il presidente della Repubblica turca, Abdullah Gul, si è recato in visita ufficiale in Serbia. Per la prima volta dopo 23 anni si sono firmati accordi economici e commerciali e il presidente serbo Boris Tadic, considerato filo-occidentale e filo-europeo, ha rimarcato non solo l’importanza dell’alleanza turca dal punto di vista economico, ma anche il valore aggiunto che Ankara può apportare nella stabilizzazione della regione. Sotto certi aspetti, insomma, è come se l’ombra lunga della Mezzaluna sui Balcani non se ne fosse mai andata. E mentre molti continuano a chiedersi se Ankara agisca in autonomia o diretta in qualche modo dagli Stati Uniti, rimane il fatto che la Turchia, dopo il Medio Oriente e il Caucaso, sta cercando di ritagliarsi un ruolo di mediatore di punta anche in area balcanica.


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Feste in tutto il Paese per ricordare la storica vittoria

L’uomo, uno svedese di 34 anni, è stato preso a Stoccolma

Il Sudafrica celebra Mandela a vent’anni dall’apartheid

Furto scritta di Auschwitz, arrestato neo-nazista

CITTÀ DEL CAPO . Il Sudafrica

STOCCOLMA . L’ex leader neonazista svedese Anders Hoegstroem, ricercato dalla Polonia in connessione con il furto dell’iscrizione “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi) dall’ex campo di sterminio nazista di Auschwitz, è stato arrestato ieri pomeriggio a Stoccolma: lo ha reso noto il procuratore incaricato del caso in Svezia. L’arresto dell’uomo, 34 anni, «è avvenuto nel pomeriggio a Stoccolma, nella sua abitazione», ha dichiarato all’Afp il procuratore Agnetha Hilding Qvarnstroem.«Attualmente è in stato di fermo in un commissariato di polizia ed ha chiesto un avvocato che è la cosa di cui ci stiamo occupando», ha aggiunto. «Spetta ora al tribunale

ha celebrato ieri il ventennale della scarcerazione di Nelson Mandela. Imprigionato per 27 anni, il leader venne liberato l’11 febbraio del 1990, quattro anni prima di diventare il primo presidente nero del Paese, e sancire così definitivamente la fine dell’apartheid. Giornali e televisioni hanno dedicato ampio spazio alle testimonianze, mentre alcuni politici ed ex protagonisti della lotta contro la segregazione razziale si sono riuniti ieri mattina davanti all’ingresso del carcere di Victor Verster, dove Mandela trascorse l’ultimo periodo della sua detenzione e dichiarato oggi monumento storico del Paese, a Paarl, vicino a Città del Capo.

Mandela, 91 anni, ieri sera era atteso in Parlamento a Città del Capo per la sua unica apparizione della giornata. Dal 1999, quando lasciò la presidenza, il premio Nobel per la Pace ha sempre più limitato le sue frequentazioni a familiari e amici, anche a causa delle sue fragili condizioni di salute. «Mentre si aprivano le porte della prigione, sapeva che la sua libertà significava che il tempo della libertà per tutti noi era arrivato», ha dichiarato nel corso delle celebrazioni, Cyril

Missione militare europea ad Haiti Richiesta Onu e governo locale, continua l’emergenza di Pierre Chiartano Europa si muove con i militari verso Haiti. Il rappresentante dell’Unione europea per la Politica estera, Catherine Ashton lo ha annunciato, ieri, nel corso del vertice Ue, «l’invio di una missione militare per dare un tetto alla popolazione di Haiti prima dell’inizio della stagione delle piogge, a marzo». È quanto ha spiegato il portavoce di Ashton, Lutz Guellner, aggiungendo che «in seguito a contatti intensivi, il premier di Haiti e le Nazioni Unite hanno chiesto assistenza nel dare “una risposta militare”, oltre a quella umanitaria». «Dare un tetto è ora la necessità più impellente», ha aggiunto, spiegando che «la priorità è sempre quella di salvare vite umane».

L’

Intanto è partita, sempre ieri, l’operazione umanitaria della Croce Rossa Italiana da Haiti all’Italia. Un volo, messo a disposizione grazie a Protezione civile e ministero della Difesa, porterà in Italia 30 nuclei familiari con bambini affetti da patologie croniche, che in questo momento non trovano spazio negli ospedali riempiti dai feriti causati dal terremoto. I 35 bambini che riceveranno cure in Italia soffrono di patologie neurologiche, ortopediche, immunodeficienze, diversamente abili, sindrome di down. Il volo ha imbarcato 142 persone, tra accompagnatori e bambini. Per il rispetto dei nuclei familiari e per non creare altri problemi al bambino malato, la Croce Rossa Italiana ha deciso di far partire ogni minore con la mamma e tutti i fratelli e le sorelle. Alla fine del periodo di cura, la Croce Rossa si farà carico di un percorso di rientro protetto in Haiti, continuando a sostenere le famiglie con un alloggio dignitoso e adeguati progetti di sostegno. Il commissario straordinario Francesco Rocca accompagnerà i bambini da Port au Prince all’Italia, insieme a personale medico-sanitario e ad alcuni giovani della Croce Rossa per intrattenere i bambini durante il lungo volo aereo. Una volta arrivati in Italia i piccoli verranno ospitati in strutture sanitarie. L’arrivo del volo da Port au Prince è previsto intorno alle 11 di og-

gi all’aeroporto militare di Pratica di Mare, nel Lazio. A proposito di un’altra vicenda legata all’adozione di minori, un giudice haitiano ha deciso la liberazione dei dieci cittadini Usa arrestati il 29 gennaio con l’accusa di aver rapito 33 bambini. Il giudice ha ascoltato alcuni parenti dei piccoli e interrogato diversi imputati. Mercoledì i dieci, che appartengono a una ong che opera nello stato dell’Idaho, sono stati messi a confronto con le famiglie dei bambini. Il giudice avrebbe deciso per il loro rilascio perché convinto delle loro buone intenzioni. È stato accolto con «particolare soddisfazione», l’annuncio del G7, dato mercoledì, di voler cancellare l’attuale debito di Haiti pari a 1,2 miliardi di dollari. Lo ha affermato una nota della Caritas italiana che attraverso la rete Caritas ad Haiti ha già distribuito alimenti ad oltre duecentomila persone a Port-au-Prince,Tabarre e nel campo di Petionville. «Si procede a passi graduali, ma costanti», informa l’organismo della Cei. «Particolare attenzione - rivela la nota - viene data alle sicurezza delle donne durante le distribuzioni, evitando le resse e cercando di garantire anche a loro la possibilità di ricevere gli aiuti». Così comincia a prendere forma e consistenza la rete umanitaria che in un primo tempo si era scontrata con insormontabili problemi logistici.

Protezione civile e ministero della Difesa, porteranno in Italia 30 nuclei familiari con bambini affetti da patologie croniche

Ramaphosa, ex braccio destro di Mandela, protagonista dei negoziati che portarono al trapasso dal regime dell’apartheid alla democrazia. «Oggi festeggiamo ma non ci dimentichiamo i traguardi che vogliamo raggiungere, cioè le pari opportunità per tutti», ha detto il ministro per la Pianificazione, Trevor Manuel, alla folla che danzava e gridava, come 20 anni fa, lo slogan: Amandla ngawethu (Il potere al popolo). Il giorno di festa è anche l’occasione per ricordare che, malgrado la fine della segregazione razziale, profonde ineguaglianze sussistono nel Paese: il 43% dei 48 milioni di sudafricani vive ancora con meno di due dollari al giorno.

A un mese dal terribile sisma che ha distrutto Haiti, anche Save the Children dichiara di aver raggiunto circa 300mila tra bambini e adulti nelle zone maggiormente colpite. Dalle ore immediatamente successive al disastro, l’organizzazione è intervenuta in risposta all’emergenza, cercando di dare il proprio contributo per salvare vite umane, alleviare la sofferenza dei sopravvissuti e supportare e proteggere i bambini haitiani e la loro famiglie. «La maggior dei bambini erano già molto vulnerabili prima del terremoto e ora, un mese dopo, la loro salute, il loro benessere e le prospettive per il loro futuro sono ancora più a rischio», ha affermato Lee Nelson, responsabile di Save the Children ad Haiti.

di Stoccolma decidere se estradarlo in Polonia», ha spiegato. Il 2 febbraio il tribunale di Cracovia, nel sud della Polonia, aveva spiccato un mandato d’arresto europeo nei confronti di Hoegstroem. Uno dei fondatori e segretario tra il ’94 e il ’98 del Fronte nazionalsocialista, principale partito neonazista svedese, Hoegstroem ha ammesso di aver agito come intermediario per “piazzare” l’iscrizione ad un possibile acquirente. Ma poi avrebbe lui stesso allertato la polizia. «Mi è stato chiesto se volevo trasportare l’iscrizione da un posto all’altro», ha dichiarato l’uomo al tabloid svedese Aftonbladet. «Avevamo una persona pronta a pagare diversi milioni» (di corone svedesi), ha spiegato Hoegstroem.

La famigerata scritta “Arbeit macht frei”venne rubata col favore delle tenebre il 18 dicembre scorso e poi ritrovata alcuni giorni dopo frazionata in tre parti. Cinque polacchi che avrebbero compiuto materialmente il furto sono stati arrestati. La scomparsa dell’insegna aveva provocato una forte indignazione nel mondo, soprattutto nella classe politica israeliana, in Polonia e in Germania. E fatto terra bruciata intorno ai ladri.


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Come eravamo. Viaggio nei brani e nei costumi nazional-popolari, da Nilla Pizzi e Domenico Modugno a Simone Cristicchi e Marco Carta

Sanremo, Italia L’evoluzione della musica (e del nostro Paese) attraverso i sessant’anni del Festival della canzone di Marco Ferrari illa Pizzi nata Adionilla fece il viaggio da Torino a Sanremo via Fossano-Savona in treno. Era una dipendente Rai e nonostante nel ’41 fosse stata bocciata al concorso dell’Eiar, nel ’48 si insediò come prima voce dell’orchestra torinese sotto l’ala protettiva di Cinico Angelini. Il primo Festival di Sanremo andò in scena, meglio dire in audio, lunedì 29 gennaio 1951 nel Salone delle Feste del Casinò proprio come semplice prolungamento delle trasmissioni radiofoniche di Angelici, presentatore Nunzio Filogamo.

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Il Festival più Festival d’Italia, che compie adesso sessant’anni, era nato nella testa di Amilcare Rambaldi, nominato nel dopoguerra nella commissione per il rilancio del Casinò di Sanremo. Ma ebbe subito un fascino dirompente, qualcosa di più di una semplice kermesse di canzoni, divenne come il nostro carnevale o lo specchio del nostro tempo, un giorno da segnare nel calendario. Grazie dei fiori cantata proprio dalla Pizzi, canzone d’amore con un filo di disincanto, si aggiudicò il primo titolo, assegnato qualche sera dopo in diretta in collegamento con le sedi regionali, lanciando soprattutto il Festival nel mondo discografico che lo vide come un possibile trampolino di lancio di un settore in espansione dopo i traumi bellici. La televisione si impadronì del Festival a partire dal 1955 con un collegamento in secon-

da serata alle ore 22,45 dopo il varietà Un, due, tre di Tognazzi e Vianello, ma già nel 1958 l’evento venne trasmesso in diretta in Eurovisione. È l’anno della canzone più canzone d’Italia, Nel blu dipinto di blu che fece di Domenico Modugno «Mister Volare» lasciando nell’ombra il suo socio di serata, Johnny Dorelli. Era quello il periodo del duplice interprete che perdurò sino al 1971 mentre sino agli anni Ottanta era possibile cantare anche in altre lingue, segnatamente inglese e francese. Il boom di Volare fu accompagnato da una rivoluzione produttiva, l’entrata sul mercato del maneggevole 45 giri che affiancò il più pesante 33 giri, il famoso long playing record, inventato nel 1948 dalla Columbia. Negli anni del boom economico, accanto a Sanremo, crescono e prosperano altre manifestazioni canore

come il Cantagiro, lo Zecchino d’Oro, Castrocaro e poi il Festival Bar e il Disco per l’Estate. Nel mondo degli urlatori e dei flipper avanza in sordina la canzone d’autore e la canzone d’impegno. La prima troverà spazio a Sanremo, la seconda non salirà mai sul palco della Città dei Fiori confinata nelle piazze

e nelle case del popolo dove si spegnerà pian piano con la fine della contestazione.

Il contatto dei cantautori con Sanremo provocherà invece un indimenticabile dramma: il suicidio di Luigi Tenco, uno degli alfieri della scuola genovese. Nonostante Tenco invitasse gli italiani con il suo ultimo acuto «a dire basta», il clamore del suo gesto, la sera del 26 gennaio 1967, determinò solo effetti momentanei come la vittoria, l’anno successivo, della straordinaria coppia formata da Sergio Endrigo e Roberto Carlos con Canzone per te. Ma già nel ’69 si tornò alla tradizione con Zingara di Bobby Solo e Iva Zanicchi. Qualcosa si era interrotto in quel meccanismo di fascinazione che emanava il connubio tra fiori e canzoni e negli irripetibili anni Settanta si pensò che il giocattolo Sanremo si fosse rotto definitivamente.

Quello del Festival era uno spettacolo stonato e sfarzoso rispetto a un Paese in preda a una grave crisi politica, sociale e istituzionale nell’era del terrorismo, degli scioperi e dell’austerity. Per alimentare di nuovo il mito, nel 1977 la Rai con la prima

A fianco, Nilla Pizzi nel 1960. A destra, Arisa. Sotto, Modugno mentre interpreta “Nel blu dipinto di blu”. In basso: Teddy Reno nel ’60; Iva Zanicchi e Bobby Solo, nel ’69; Massimo Ranieri a Sanremo ’88; Giò di Tonno e Lola Ponce; Simona Ventura e Cotugno; Mike Bongiorno a Sanremo 2007 trasmissione a colori scelse il più ampio teatro Ariston che ancora oggi, grazie a inebrianti scenografie, riesce persino a sembrare qualcosa di più di una semplice sala cinematografica. Il Festival toccò il fondo proprio nel 1979 con l’inaudita vittoria di Mino Vergnaghi con Amare seguito da un altrettanto dimenticato Enzo Carella interprete di Barbara mentre passò in secondo piano la fantasiosa e chimerica A me mi piace vivere alla grande dello scomparso Franco Fanigliulo. L’anno seguente lo stesso Vergnaghi, inviato dalla Rai, gira per le strade di Sanremo a domandare alla gente chi aveva vinto l’edizione dell’anno passato: nessuno se lo ricorda e nessuno lo riconosce. È il momento in cui la canzone d’artista si separa in maniera netta dalla canzone commerciale. Solo quest’ultima continua a calcare l’Ariston sposando un filone nazionalpopolare ben impersonato da

Toto Cotugno che, vincendo nel 1980 con Solo noi, inaugura il filone dei personaggi da Sanremo, adatti a cogliere gli umori della gente comune e farli diventare canzone.

Per risorgere, il Festival di Sanremo si fa interamente televisivo, si allinea allo show business, al clamore, alla moda, alle vallette di grido, alle squadre di cantanti (Morandi-RuggeriTozzi insieme nell’87 con la sempiterna Si può dar di più), incorniciato come modello italiano da Pippo Baudo che arriva nell’edizione 1995 a salvare eroicamente un uomo che voleva tentare il suicidio gettandosi dalla galleria dell’Ariston e che l’anno successivo, siamo nel 1996, si becca una denuncia per messaggi pubblicitari enfatizzati in diretta. Dagli anni Novanta si ricompone la frattura tra canzone d’autore e canzone commerciale e a Sanremo si affermano personalità come Riccardo Cocciante, Luca Barbarossa, Giorgia e Ron. L’avvio


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Le proposte musicali del 2010, tra banalità, furbizie e volgarità

Ma oramai l’Ariston è il palco dei sogni infranti Ecco perché, a leggere i testi di questa edizione, si arriva a provare imbarazzo verso chi li interpreta di Bruno Giurato arebbe bello che il Festival si aprisse così. Sul palco Emanuele Filiberto di Savoia con un’alta carica istituzionale, mettiamo Gianfranco Fini. Mano sul cuore, gran spolvero di fiati - stacco della regia sui tromboni lucenti - e via con Fratelli d’Italia. Altro stacco della regia sulle labbra del pubblico che seguono le parole. Sognare non costa niente: piacerebbe vedere il principone e il Presidente della Camera che intonano l’inno nazionale, tra l’altro inno fascistissimo della Repubblica di Salò dal 1943 al 1945. Sarebbe una notizia, irrilevante rispetto alla gara canora, com’è inevitabile. Magari si aprirebbe un dibattito su Fratelli d’Italia, che solo da qualche anno è l’inno nazionale definitivo: anche volendo con cosa lo potremmo sostituire? Va pensiero ormai è dalla Lega, resterebbero solo Dove sta Zazzà o, per tornare a Sanremo, L’italiano di Toto Cutugno.

S

della sezione dedicata ai giovani, «Nuove proposte», porta alla ribalta Andrea Boccelli, Laura Pausini, Paola Turci e altri. Si inventa anche il Dopo Festival per accontentare i critici, i comici e i fautori di una tv diversa, antiretorica e ironica con se stessa. Un tipo di comunicazione che arriverà anche sul palco dell’Ariston con Fabio Fazio, conduttore di due edizioni, 1999 e 2000, senza troppa fortuna. Nel nuovo millennio Sanremo si offrirà a molte voci nuove ed emergenti come gli Avion Travel, Elisa, Alexia, Masini, Renga, Povia, Cristicchi, Giò di Tonno e Lola Ponce, Arisa e Marco Carta, finendo per divenire una fabbrica di novità. Che l’avrebbe mai detto?

L’edizione di quest’anno invece si gioca proprio su una competizione tra giovani in cerca di conferma (Arisa, Noemi, Scanu, Irene Fornaciari, Sonohra) e mostri sacri (Cotugno, Pupo, Nino D’Angelo). Chi vincerà? Curiosamente gli orga-

nizzatori non hanno mai pensato che stavano componendo una parte importante della storia d’Italia. Per fortuna ci ha pensato un ristoratore della vicina Vallecrosia, Erio Tripodi, a conservare la memoria di Sanremo e della canzone italiana. Del suo immenso materiale, raccolto e stivato sui vagoni di un treno, voleva farne un museo, ma in vita non ci è mai riuscito. Ora una fondazione che porta il suo nome organizza al Palafiori la mostra Sanremo story. 60 anni di musica italiana che, sino all’8 marzo, espone cimeli, filmati delle Teche Rai, abiti di scena prestati dagli artisti che hanno solcato il palco dell’Ariston e abiti provenienti dalla Maison Daphné di Sanremo, memorabilia, dischi originali, copertine, pass, autografi, spartiti, giornali con le copertine dedicate al Festival. La speranza è che il fondo Tripodi diventi un museo permanente nella città della canzone, qualcosa di più di una voce che passa e se ne va.

di con qualcuno / lui se la prende con qualcuno / noi ce la prendiamo...». Leggendo il testo del Cristicchi viene invidia per i tedeschi, che (da poco) hanno nel loro vocabolario la parola fremdschämen, che vuol dire “sentirsi in imbarazzo per qualcun altro”. Per Cristicchi appunto. A Sanremo i sogni muoiono anche con la canzone di Povia (La Verità), che ci è andato ignifugo con la questione di Eluana e del fine vita: «Ora posso amare, ora / Ora posso correre e giocare / Ora volo sopra le parole / Sopra tutte le persone / Sopra quella convinzione di avere la verità». Ma soprattutto con alcune parole di Non è una canzone, Fabrizio Moro: «Vivo in un’ipotesi esistenziale / Sono condannato all’evasione fiscale». E poi ci sono le canzoni in dialetto che per la prima volta vengono ammesse a Sanremo, secondo alcuni il primo sassolino della disgregazione nazionale, subdola strategia leghista. Per ora la canzone di Nino D’Angelo, unico esemplare dialettale, sventa il pericolo: «Jammo jà guadagnammace ’o pane / Nuie tenimmo ’o sudore int ’e mane / E sapimmo cagnà [...] Simmo nate cù duie destine /Simm’ ’a notte e simmo a matina / simme rose e simmo spine / Ma simmo ramo d’’o stesso ciardino / Meridionale». Non molto leghista come tema, sembra preso da un libro sugli emigranti dell’antropologo Vito Teti. E a leggere i testi viene da sperare nei Sonhora, che si tengono alla larga dalle «problematiche e differenze di vita» (Battiato) e fanno sognare addirittura una canzone normale da Sanremo, buona da canticchiare in bagno: «Posso scendere l’inferno e non bruciarmi mai / posso tutto ma non posso ripartire senza lei / Come petali dispersi, in un altro universo / che tu mi hai lasciato / in un bacio segreto». O in Ricomincio da qui di Malika Ayane: «Me ne accorgo così/ Da un sospiro a colazione / Non mi piace sia tu / Il centro di me».

Il brano del tanto discusso Morgan, per assurdo, era più godibile di altri. Il che dimostra che per stare dentro a Sanremo, bisogna starne fuori...

Ma i sogni muoiono, non tanto all’alba quanto sul palco dell’Ariston. Speriamo ancora che l’annunciatore/trice di turno presenti così la canzone del principone: «Cantano Emanuele Umberto Reza Ciro René Maria Filiberto di Savoia, con Marcello Lippi da Viareggio, Luca Canonici ed Enzo Ghinazzi detto Pupo». Con tre nomi di cui uno così articolato il momento introduttivo si allungherebbe. Forse costringerebbe i performer a scorciare il minutaggio del pezzo. Ma appunto i sogni muoiono su palco dell’Ariston. Sanremo da qualche edizione è un lavoro di imbalsamazione musicale, lungo e faticoso. Canzoni in formalina un po’ come gli squali di Damien Hirst, o surgelate, come gamberi argentini pescati ad agosto e consumati al cenone di Capodanno. Tanto più dimenticabili quanto più cercano di essere attuali, sociali, furbe. Saggia cosa è stata rendere pubblici i testi prima del Festival. Sarebbe stato anche meglio se si fossero diffuse anche le musiche, così i cantanti sul palco si sarebbero potuti limitare al ritornello, e avrebbero lasciato definitivamente spazio al contorno, alla cornice. Presentatrice, brividi in diretta, inciampi sulle scale che non ci saranno, e poi reality e il rap dei precari e il superospite. A proposito di superospite. La notizia è stata smentita, ma si diceva che Carla Bruni se la fosse presa per il pezzo di Cristicchi. Smentiamo la smentita, secondo chi scrive Carlà e Sarkò se la sono presa davvero. E del resto chi non se la prenderebbe per delle strofe così: «Meno male che c’è Carla Bruni / Siamo fatti così / Sarkonò Sarkosì / che bella Carla Bruni se si parla di te il problema non c’è / io rido... io rido... / ambarabàciccicoccò soldi e coca sul comò». E ancora: «Io me la prendo con qualcuno / tu te la pren-

E naturalmente il grande sogno mancato è la canzone di Morgan, che a quanto sembra, dopo che l’autore ha pianto, pestato i piedi, chiesto scusa, ritrattato le scuse, ritrattato le ritrattazioni, non ci sarà, nemmeno come ospite. La sera, questo è il titolo del brano, fa cosi: «Con te si può parlare / disordinare il destino / rimandare il mattino / che il modo migliore è / consumare le ore / facendo l’amore». Che sarebbe perfettamente elegante e perfettamente sanremese. Morgan insomma esce dal testo (la gara canora) ed entra nel contesto mediatico. Se il suo pezzo avrà anche una musica godibile sarà la testimonianza migliore di tutte: per stare dentro a Sanremo bisogna starne fuori.


società

pagina 20 • 12 febbraio 2010

ROMA. Amare il vino significa capirlo, e per capire il vino bisogna conoscerlo. È un’affermazione banale, forse scontata ma assolutamente veritiera. Forse per questo la proposta del Roma VinoExcellence (da oggi fino al 14 febbraio, all’Hotel Parco dei Principi) è così seducente. Un weekend in giro per le campagne del mondo, tra colline e guyot, tra uve, botti e cantine, pur restando nel cuore della capitale. Il nuovo festival romano organizzato da Helmut Köcher, ideatore e presidente del Merano Wine Festival, e Ian D’Agata, esperto wine writer e direttore dell’International Wine Academy, non promette orge enologiche, bevute sbadate tra uno stand e l’altro o un’indigestione di vini che non persisteranno né al palato né alla memoria. Figlio del più celebre Merano Wine Festival che proprio l’anno scorso ha raggiunto la la maggior età e prepara per la fine del 2010 la sua 19esima edizione, il Roma VinoExcellence si posiziona nel panorama capitolino come un’esperienza nuova e fortemente diversa dalle altre manifestazioni di settore: un viaggio in profondità nel mondo del vino e un ritorno agli albori. «Il Merano era diventato troppo dispersivo.Volevamo tornare alle sue origini e creare una manifestazione più ridotta incentrata soltanto sul vino» ci racconta Ian D’Agata. Viene subito da domandarsi se a Roma, tra le iniziative A.I.S. e F.I.S.A.R, Sensofwine, Vinòforum e altri eventi enologici, fosse necessario l’ennesimo raduno. «A Roma ci sono tante realtà che lavorano bene ma c’è anche spazio per un evento diverso in cui prevalga l’approccio scientifico e analitico al vino. Vogliamo aggiungere al piacere edonistico del bere anche l’approfondimento sul vino e il suo mondo attraverso tre convegni su altrettanti vitigni con esperti di fama internazionale». Se da un lato l’approccio rende la manifestazione più adatta agli esperti del settore che non al grande pubblico, resta immutato il concetto che l’amore per il vino, quello vero, nasca dalla conoscenza. Così, con un pizzico di impegno in più - giusto poco maggiore dello sbadato allungamento del bicchiere per farsi versare un liquido sconosciuto e di cui si ignora la storia - è possibile lasciarsi portare per mano sulle vie del Sangiovese, insegui-

Cabernet Franc statunitensi e al Marchese Incisa della Rocchetta con un mito italiano come il Sassicaia. Per districarsi tra i tanti appuntamenti D’Agata ce ne consiglia alcuni. «Tra gli incontri internazionali da non perdere ci sono i Cabernet culto di Delia Viader, la verticale dei Riesling del Canada, anteprima italiana, e quella del Condrieu Georges Vernay col suo gusto tipico di pesca e albicocca. Tra gli italiani invece consiglio la verticale di Chianti Classico Badia a Coltibuono dove apriremo una bottiglia del ’65, la degustazione del Paleo Le Macchiole, il miglior Cabernet Franc d’Italia in purezza, e da non perdere assolutamente anche Mastroberardino perchè stapperemo un Taurasi ’68 che è tra i cinque vini italiani migliori mai prodotti».

Rassegne. Da oggi, fino al 14 febbraio, al via il “Roma VinoExcellence”

Quando la storia si sposa con il gusto

La manifestazione strizza un occhio anche alla regione ospitante, il Lazio, che ultimamente sta ottenendo buoni risultati. «Nonostante le guide non premino ancora i vini laziali come meriterebbero la nostra regione ha fatto passi da gigante. Soprattutto per quanto riguarda i vini dolci. Così oggi abbiamo potuto inserire nelle cento eccellenze che presentiamo ben sei aziende laziali di prestigio». In compagnia delle altre, troviamo così la degustazione di Mater Matuta, una piccola selezione di prodotti gastronomici regionali e un quantome-

di Livia Belardelli re l’elegante Riesling per i Paesi del mondo e passeggiare infine tra le vigne di Toscana, Pomerol e Napa Valley alla ricerca dell’austero Cabernet Franc. «Oltre ai convegni

mattutini su questi tre grandi vitigni però», assicura Ian D’Agata, «c’è la possibilità di passeggiare per le sale e degustare i vini di cento aziende d’Italia, vini conosciutissimi, gemme della nostra enologia».

Tante anche le degustazioni in calendario, divise tra i Grandi Incontri Internazionali, le Grandi Verticali - stesso vino in diverse annate, di grande interesse per comprenderne l’evo-

vino, neofiti curiosi, che attraverso queste degustazioni più “facili” potranno imparare i rudimenti dell’analisi sensoriale.

Sia per i convegni mattutini che per gli Incontri Internazionali e le Grandi Verticali pomeridiane sono attesi esperti da tutto il mondo. Enologi italiani come Donato Lanati e Franco Bernabei, personaggi stranieri di fama mondiale come JeanClaude Berrouet, responsabile no curioso confronto tra passiti e vendemmie tardive del Lazio con Sauternes e Château d’Yquem. «D’altronde», conclude D’Agata, «Roma è storicamente legata al vino come nessun’altra città, è l’unica capitale del mondo dove si possono piantare vigne a centro città e fare un grandissimo vino». Dunque, prima di piantare vigne nel giardino di casa, l’appuntamento è per il prossimo weekend al Roma WineExcellence. Per informazioni, www. meranowinefestival.com.

Figlia del “Merano Wine Festival”, la tre giorni si affaccia nel panorama capitolino come un simposio fatto di degustazioni e convegni con ospiti internazionali luzione, la tenuta, i pregi e i difetti nel tempo - e i Seminari del New Wine Journal. Proprio questi ultimi sono più adatti ai “bambini” del

In questa pagina, gli ideatori della manifestazione “Roma VinoExellence”, al via da oggi, fino al 14 febbraio, nella Capitale

per quarant’anni di un fuoriclasse come Petrus, Kees Van Leeuwen, direttore agronomico di Château Cheval Blanc - ricordate la scena del film Sideways in cui Maya, parlando con il protagonista, sottolinea che per aprire uno Cheval Blanc del ’61 non serve un momento speciale perché aprire quella bottiglia è già un momento speciale? -, fino a Delia Viader, produttrice dei famosi


cultura

12 febbraio 2010 • pagina 21

Libri. Tra gli scaffali francesi arriva il primo romanzo del figlio di Simenon. Un noir che sembra scritto dal “papà di Maigret”

Sembra Georges, invece è Pierre di Dianora Citi n romanzo, noir, perfetto. C’è tutto. Il passato pieno di ombre, il presente dell’eroe romantico che vuole la verità. L’amore che rinasce e l’odio mai sopito. I colpi di scena, i documenti nascosti in cavità murate e i diari segreti custoditi dalla segretaria. E poi la seconda guerra mondiale, i bauli pieni dell’oro nazista nascosti nelle banche svizzere, le spie e i mercenari, i sicari e i falsi amici. Il dolore per la morte di un genitore creduto colpevole e invece innocente. E quello innocente che invece poi così tanto non lo era.

U

È il primo romanzo di Pierre Simenon (eh sì, della stessa famiglia del grande, immenso e inimitabile Georges, in quanto figlio) uscito da poco in Francia per i tipi di Flammarion intitolato Au nom du sang versé (In nome del sangue versato). Scritto originariamente in inglese-americano, è stato tradotto in francese da Anne Guitton e poi riletto dall’autore stesso. Protagonista un brillante e giovane avvocato di Los Angeles, Antoine Demarsands, che, richiamato dalla sorella in Svizzera per i funerali della madre, con la quale non comunicava da anni, viene messo a conoscenza dal fratello di vaghi sospetti e accuse di collaborazionismo con i nazisti nei confronti del padre, morto da anni. Ben deciso a ristabilire la verità e a vendicare la memoria del padre di fronte a una falsità del genere, si imbarca in una ricerca di notizie del passato che lo porta dalle casseforti segrete delle banche private di Ginevra alle strade di Cracovia. Via via che l’indagine va avanti scopre l’ombra di un passato nascosto. Tutta una serie di altri avvenimenti lo costringono a fare i conti con i sentimenti e le certezze più personali, fi-

do, quello degli affari delle “Majors”, che Simenon descrive perfettamente con poche e significative battute nelle primissime pagine del romanzo. Né si può ignorare l’ipotesi autobiografica legata alla riabilitazione di un genitore accusato di favoritismo verso i nazisti. Simenon padre, alla fine della seconda guerra mondiale, di fronte a velate accuse, poi risultate infondate, di collaborazionismo in Francia, decise tout-court di trasferirsi con la famiglia dapprima in Canada (per prendere più facilmente confidenza con l’inglese in un paese anche francofono) e poi negli Stati Uniti. Tutta la vicenda fu probabilmente legata anche alle vicissitudini del fratello di Georges, Christian, dirigente del movimento di estrema destra rexista belga, che, riconosciuto colpevole dell’omicidio di due persone durante il massacro di Courcelles, fu condannato a morte in

In basso, la copertina del primo romanzo di Pierre Simenon (figlio del grande Georges) “Au nom du sang versé”, in Francia edito da Flammarion. In alto, un disegno di Michelangelo Pace

In “Au nom du sang versé”, la tecnica narrativa appare come perfettamente ereditata per via cromosomica. E l’autore può orgogliosamente riconoscersi degno “successore” del padre no a mettere in pericolo la sua stessa vita. Un romanzo di notevole immaginazione narrativa, costruito con grande ritmo, incalzante, con flashback storicamente dettagliati e accurati («Descrivere la Berlino del 17 marzo 1945 mi ha richiesto due mesi di ricerche», ha dichiarato Pierre Simenon al giornalista della Tribune de Genève che lo ha intervistato alcuni giorni or sono). Impossibile non notare alcuni riferimenti autobiografici. Innanzitutto tra il protagonista Demarsands e l’autore. Nato in Svizzera, dapprima analista finanziario e collaboratore di una banca privata di Ginevra, nel 1987 Pierre si è trasferito negli Stati Uniti, a Malibù (tuttora vi risiede), dove è divenuto avvocato “di cinema”, esperto nella redazione di contratti per le produzioni, coproduzioni cinematografiche e cessioni dei diritti. Un mon-

contumacia nel 1945. Arruolatosi volontario nella Legione straniera, dietro consiglio di Georges, morirà nel 1947 in Indocina. In una recente intervista Pierre, a questo proposito, ha dichiarato: «Se mio padre avesse avuto una qualsiasi tendenza verso il fascismo, l’antisemitismo, il razzismo o il nazismo, non soltanto non sarei l’uomo che sono, ma non avrei potuto ricevere l’educazione che ho ricevuto».

Pierre è il piccolo, l’ultimo dei figli di Simenon. Nelle Memorie Intime il racconto della sua nascita nel 1959 lo troviamo alla pagina 700 (sulle 1.200 totali). Non dico questo tanto per una voglia di accuratezza, quanto per far capire “quanto” fino a quell’anno Georges Simenon avesse già vissuto. Era partito dal Belgio appena finita la prima guerra

mondiale, aveva trascorso diversi anni a Parigi scrivendo per vivere con 27 pseudonimi differenti, producendo nell’arco di 3 anni 750 racconti di ogni genere. Era andato a vivere su una barca con la quale aveva girovagato per i canali della Francia. Poi si era sposato, era nato Marc, il primo figlio. Finita la guerra si era trasferito in Canada, dove aveva conosciuto la sua seconda moglie. Aveva viaggiato attraverso tutti gli Stati Uniti. Erano nati John e Marie-Jo. Negli anni ’50 il maccartismo americano lo aveva convinto a tornare in Europa, prima a Cannes e quindi in Svizzera, a Losanna. Nel frattempo era diventato il “padre” di

Maigret, aveva 56 anni e aveva scritto decine di romanzi. I diritti di molte sue opere erano ceduti a caro prezzo ai produttori cinematografici. Per fortuna, malgrado la sua fama e notorietà, nelle Memorie intime annotava: «L’evento principale di quella prima parte dell’anno, e dell’anno intero, è la nascita di Pierre alla clinica Montchoisy di Losanna». «È il 26 maggio 1959. Ormai ho quattro figli. ...Pierre, sei in perfetta forma fisica: strilli e inspiri per la prima volta l’aria del mondo esterno». L’orgoglio dei fratelli per il nuovo piccolo e «il loro atteggiamento paterno quasi mi ingelosisce», confessò Georges. Simenon era forse all’apice della sua carriera. La “discesa”verso la fine della sua vita, nel 1989, lo obbligherà, tra le altre cose, a sopravvivere alla figlia amata, a soffrire per la malattia della moglie e poi per la propria, un tumore al cervello. «Dopo 50 anni di vita vissuta, ufficialmente, lontano dalla “scrittura” una improvvisa voglia di misurarsi con il “padre”?».

Questa la domanda a Pierre Simenon da parte di un giornalista pochi giorni fa durante la conferenza stampa per la presentazione del libro. La risposta è netta: «Assolutamente no. Come paragonare una bicicletta ad una Ferrari? Mio padre mi ha dato tutta l’attenzione e l’amore che avrei mai potuto sognare di avere. Per noi era “Daddy”. Solo molto tempo dopo ho scoperto il grande scrittore che è stato!». Quella di Pierre è stata una scelta di vita come a volte capita: una serie di avvenimenti negativi nello stesso anno (nel 1995 la morte della madre, un sofferto divorzio, la morte di due amici) lo hanno fatto riflettere su come, in un certo senso, fino a quel momento, non avesse pensato ad altro che ad accumulare ricchezza, e non a vivere. Da stimato avvocato del mondo del cinema, ha deciso di prendersi una pausa dedicandosi alle sue altre passioni: i tuffi (è istruttore), la storia e scrivere. La fuga nel Vermont con un registratore per raccontare il viaggio si è trasformata in un soggiorno di un anno a scrivere la traccia del romanzo e fare ricerche. La voglia di divertirsi e di far divertire gli altri, questa la spinta a scrivere. «Ho scritto un libro che avrei desiderato leggere». Ma anche qualcos’altro, una sensazione da comunicare: «Scoprire i lati orribili di qualcuno che si ama profondamente deve essere veramente terribile». La tecnica, forse passata per via cromosomica, c’è, ed è bella. Ripensando agli schizzi descrittivi del padre, Pierre può orgogliosamente riconoscersi un degno “successore”. Nella scelta dei nomi, per esempio, o nel tratteggiare le amate figure femminili. Descrivendo la collaboratrice di Antoine Demarsands, Anna Mariscal de Mataro, Pierre scrive: «Elle avait cette sorte de beauté discrète qui exsudait une intense sensualité». Il grande Georges avrebbe forse usato delle parole diverse?


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal ”Washington Post” dell’11/02/10

Google a tavoletta di Cecilia Kang oogle il gigante di internet, mercoledì scorso, ha messo un’altra grande ipoteca su di un pezzo dell’universo tecnologico per il web. Ha promesso che potenzierà la connessione della rete. La società ha annunciato che comincerà la sperimentazione dell’utilizzo di un servizio a banda larga in grado di trasportare byte e bit a una velocità cento volte maggiore di quanto possano fare oggi le linee delle compagnie telefoniche o via cavo nel mercato americano. Un passo che segue una serie di mosse che sembra voler posizionare l’azienda Usa per il mercato del futuro, scavalcando le tecnologie esistenti. Per venire incontro alle esigenze degli utenti delle reti sociali come Facebook, ci sarà Google Buzz, una sorta di grande rete a maglia che unirà diversi social network. Il mese scorso la società aveva anche annunciato il suo primo smart phone, nel tentativo di sfidare l’industria del wireless che vende telefonini. Una decisione dopo la sperimentazione di Google Voice una specie di servizio telefonico. Con la sua posizione contro le restrizioni imposte dal governo cinese l’azienda Usa si è guadagnata i titoli della stampa mondiale e ha sostenuto a Washington il concetto di «net neutrality» cioè di come un gestore di rete non si debba porre come filtro o censore sulla produzione di alcuni contenuti che vanno sul web. Le iniziative commerciali non sono dirette a mettere in difficoltà i rivali ma solo a spingere oltre il confine dell’innovazione aumentando il campo del possibile utilizzo di internet. Le stesse motivazioni che ha dichiarato con l’annuncio della nuova banda larga. «Non stiamo entrando come fornitore della banda larga per i servizi internet» ha spiegato Rick Whitt, responsa-

G

bile Media e comunicazione di Google. «Questa iniziativa è una gomitata all’innovazione».Tuttavia, affermano gli analisti, che le continue incursioni di Google in altri ambiti di business potrebbe essere rischioso. Si genereranno sospetti con i gestori storici delle reti cellulari e si ogorererann9o certamente i rapporti con la Apple. Tutto questo attivismo rischia di distrarre l’azienda dal suo core business che è quello di motore di ricerca di successo. Molti ricordano il flop dell’alleanza tra Microsoft e Aol. Google però sembra avere una missione globale, quella di promuovere la vendita di pubblicità sulla rete. Tutte le attività secondarie servono solo a fr sì che più gente usi internet e quindi faccia affluire interesse verso il web e a Google di guadagnare sempre di più. Google gestisce circa il 10 per cento di tutto il traffico sulla rete. Nella sperimentazione di accesso a banda larga, secondo la società, Google potrebbe creare reti in un numero selezionato di comunità in tutto il Paese per fornire servizi Internet direttamente a casa a 1 gigabit al secondo. Google prevede di fare delle proposte comuni per determinare quali aree sarebbe parte dell’esperimento. Pagherebbe anche per la costruzione e il funzionamento delle reti che sarebbero competitive con altri fornitori di servizi. Le reti dovrebbero raggiungere almeno 50mila e fino a 500mila persone. Il distretto telefonico (negli Usa) ha una popolazione di circa 591mila. Se le comunità sceglieranno di partecipare è probabile che dipenderà dai dettagli del programma. Craig Moffett, un analista di Sanford Bernstein, ha affermato che alcuni Comuni può passare se il progetto richiede un impegno considerevole finanziamento in corso, soprattutto in un

momento in cui le finanze pubbliche sono state ferite dalla recessione economica. Ma la mossa è strategica anche in altri modi, dicono gli analisti.Tramite dimostrazioni di rete ultra-veloce a banda larga, l’azienda mette in evidenza la sua spinta per le applicazioni meglio i consumatori e dimostra l’appoggio alla proposta dell’amministrazione di Obama per portare l’accesso a Internet a banda larga a tutte le case degli Stati Uniti. Commissione federale delle comunicazioni del presidente Julius Genachowski lodato l’annuncio. «Banda larga Big crea grandi opportunità», ha detto in un comunicato. «Questo processo significativo fornirà un banco di prova per la prossima generazione di applicazioni internet innovative, ad alta velocità, dispositivi e servizi».

L’IMMAGINE

Bene la rappresentanza genere nella riforma delle Camere di Commercio L’introduzione del principio della rappresentanza di genere all’interno delle Camere di Commercio è un importante passo nel processo di inclusione e valorizzazione delle donne ai vertici del mondo imprenditoriale. Un plauso, dunque, al governo e, in particolare al ministro Carfagna, per la sensibilità dimostrata in una riforma strategica per lo sviluppo del nostro sistema produttivo. Sono convinta che la sempre più diffusa partecipazione delle donne alle decisioni dell’economia possa costituire la chiave di volta per uscire meglio e più in fretta dalla crisi. I dati relativi al 2009 confermano che le aziende a guida “rosa” hanno ottenuto profitti più alti rispetto a quelle tradizionali. Non bisogna fossilizzarsi sulla logica delle quote rosa ma mirare alla promozione di quelle eccellenze femminili che per merito e capacità possono dare un grande contributo alla governance del nostro Paese.

Barbara

NECROLOGIO La redazione di Liberal è affettuosamente vicina all’amico e collaboratore Andrea Nativi e alla sua famiglia, per l’improvvisa perdita della sua cara mamma Clotilde Maggi.

Roma, 10 febbraio 2010

IL CALVARIO DI UN CITTADINO CHE RISPETTA LE LEGGI Pagare una multa e vedersi contestare il mancato pagamento 4 anni dopo. La storia insegna che fidarsi della pubblica amministrazione è un lusso che non ci possiamo permettere. Vediamo la storia del nostro cittadino. Anno 2005. Comune di Fiumicino: il nostro cittadino si vede elevare una multa per divieto di sosta. Diligentemente paga, entro i termini prescritti. Anno 2009, luglio. Quattro anni dopo, con una

raccomandata recapitata il 31 luglio (si badi bene alla data), viene notificata una cartella di pagamento da Equitalia per mancata oblazione della multa, con le maggiorazioni del caso, infatti, la multa passa da 48 a 143 euro. Il nostro cittadino telefona a Equitalia che rimanda al comune di Fiumicino la competenza per l’esenzione del pagamento, visto che la multa era già stata pagata. Dopo numerosi tentativi telefonici, finalmente, il cittadino riesce a parlare con il competente ufficio, che chiede l’invio del documentazione attestante il pagamento. Fatto il tutto, entro agosto (mese di vacanze), sia via fax che con raccomandata, si attende l’esonero. Il nostro cittadino nelle settimane successive telefona ripetutamente al comune di Fiumicino; viene rassicurato che a

Un popolo di pendolari Immaginate andare da polo a polo, attraversando tutto il globo, soltanto con un paio di ali lunghe circa 40 centimetri ciascuna. È quello che fa la sterna codalunga, un uccellino che non pesa più di 100 grammi. Settantamila sono i chilometri che percorre ogni anno, dall’Artico dove vive in estate all’Antartico che abita in inverno, con una media di 300/500 chilometri al giorno

breve tutto sarà risolto. Non è così perché nel mese di novembre Equitalia invia un sollecito di pagamento. Il nostro cittadino, dopo altre traversie telefoniche, si fa rilasciare dal comune di Fiumicino un attestato di “discarico”, che trasmette a Equitalia. Ulteriori telefonate a Equitalia e al Comune di Fiumicino si susseguono nel mese

di dicembre. Anno 2010, febbraio. Il nostro cittadino, con ulteriori telefonate a Equitalia apprende che il provvedimento di esonero è stato recepito. Che dire? Quanto è costato in tempo e stress il rapporto con la pubblica amministrazione e perché mai si impiegano quasi 5 anni per risolvere un semplice problema? Ricercare

una ricevuta di 4 anni prima, passare ore al telefono, impiegare parte delle proprie vacanze, fare la fila all’ufficio postale, ha un prezzo o paga solo il cittadino? O qualche “responsabile del procedimento” deve essere sanzionato e obbligato a pagare il “disturbo” ad un cittadino ligio alla legge?

Primo Mastrantoni


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog

dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Perché a noi ebrei tocca soffrire così tanto? Mi sono sottoposta a un trattamento di lisolo perché da Vught arrivano sempre tanti pidocchi. Dalle quattro alle nove ho arrancato su e giù con bambini piccoli che piangevano e ho portato i bagagli a donne esauste. Era un lavoro duro, e straziava il cuore. Donne con bambini piccoli, 1600 in tutto (altri 1600 arrivano stanotte), gli uomini sono deliberatamente trattenuti a Vught. Il convoglio di domattina è già pronto, Jopie ed io abbiamo appena camminato lungo il treno. Grandi vagoni bestiame vuoti. A Vught muoiono da due a tre bambini piccoli al giorno. Una vecchia mi ha chiesto tutta smarrita: «Chissà se Lei saprebbe spiegarmi perché a noi ebrei tocca soffrire così tanto?». Non ho saputo spiegarglielo con esattezza. Una donna che per giorni e giorni aveva dovuto nutrire il suo bambino di quattro mesi con minestra di cavolo diceva: «Io ripeto sempre: mio Dio, mio Dio, ma ci sei ancora?». Tra i prigionieri ho incontrato un ex assistente del professor Scholten, l’ho riconosciuto a stento per la sua aria smunta, la barba e lo sguardo fisso. Ho anche incontrato il mio internista Schaap, che quando ero ricoverata, aveva sostato accanto al mio letto con alcuni dottori. Aveva un ottimo aspetto e l’aria vivace. Etty Hillesum a Han Wegerif e altri

ACCADDE OGGI

IL NO IDEOLOGICO È DELETERIO. SERVE RISPETTO PER IL TERRITORIO È stato approvato il decreto legislativo sulla disciplina della localizzazione, della realizzazione e dell’esercizio di impianti di produzione di energia elettrica nucleare, di impianti di fabbricazione del combustibile nucleare, dei sistemi di stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi. Impianti che, in gran parte, verrebbero installati al Sud. A tal proposito tengo innanzitutto a precisare che il “no”, senza se e senza ma, il “no” a priori, il “no” ideologico non fa parte della cultura socio-politica dell’Unione di centro. I tempi moderni impongo riflessioni e valutazioni mirate e attente su questioni disparate tra le quali emerge anche quella del ritorno al nucleare in Italia. Ciò che appare prioritario in questo periodo storico è assumere un atteggiamento innovativo, un approccio scientifico dinanzi a tale questione che garantirebbe una solida autonomia energetica al nostro Paese, e che in molte altre realtà europee a noi non così distanti funziona ormai da anni senza problemi di sorta.Vero è che è necessaria una campagna di informazione seria e efficace al fine di spiegare ai cittadini cosa si intende per nucleare. Occorre altresì valutare dettagliatamente l’impatto ambientale di tali localizzazioni e avere rispetto per gli abitanti e per i paesaggi. La Puglia vanta innumerevoli scenari che la proiettano ai primi posti nelle classifiche nazionali e internazionali relative all’appeal turistico, pertanto, rilevante si dimostra

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

12 febbraio 1912 La Cina adotta il Calendario Gregoriano. 1915 A Washington viene posata la prima pietra del Lincoln Memorial 1922 Esce postuma l’ultima novella di Giovanni Verga, “Una capanna e il tuo cuore”su L’illustrazione Italiana 1924 Esce il primo numero del giornale l’Unità, fondato da Antonio Gramsci e organo del Pci 1938 Anschluss: le truppe tedesche entrano in Austria 1941 Benito Mussolini invita a Bordighera il Caudillo Francisco Franco e tenta di indurre la Spagna ad allearsi con l’Asse 1951 La diciassettenne Soraya Esfandiary Bakhtiari sposa lo scià d’Iran Reza Pahlavi nel Palazzo Golestan di Teheran 1973 L’Ohio diventa il primo stato degli Usa a usare le misure in unità SI sui cartelli stradali 1976 Francesco Cossiga è il più giovane ministro dell’Interno della Repubblica italiana a soli 48 anni 1982 Osservata la supernova SN 1982B

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

ascoltare gli enti locali, le associazioni di categoria ma soprattutto i cittadini del Mezzogiorno d’Italia. Ribadisco che a nulla porta un preconcetto “no” improduttivo e scarno sotto il profilo delle valutazioni e delle motivazioni ma ci sembra doveroso, da parte del governo nazionale, assumere un atteggiamento razionale e effettuare un’attenta analisi di tutti gli aspetti sociali, ambientali e turistici affinché il nostro Sud non diventi un’infelice oasi di centrali e scorie radioattive.

Sergio Adamo

QUALITÀ EDITORIALE La mancanza di riforme per i settori lavorativi si fa sentire sempre più: l’editoria in realtà era in crisi da tempo, perché il successo di un prodotto è stato legato a troppi vincoli un po’ come tutto il resto. I quotidiani politici, poi, hanno risentito della mancanza di finanziamenti concreti e non mirati, e adesso potrebbero ricevere ulteriori tagli. Questi provvedimenti assomigliano un po’ a quelli che si stanno prendendo nelle aziende italiane, dove per tutelare tutti si cerca di pervenire a soluzioni che impattano su tutti in maniera uniforme, mentre si sa che esistono realtà improduttive e non conformi a quelle che posseggono una qualità e un risvolto superiore. Forse è vero che in Italia di giornali ce ne sono troppi, a danno di quelli più importanti che pur sopravvivendo con notevoli sforzi, non assomigliano alle grandi testate di una volta, ove c’era meno pubblicità e più contenuto.

APPUNTAMENTI FEBBRAIO 2009 VENERDÌ 26, ORE 11, ROMA PALAZZO FERRAJOLI Convocazione Consiglio Nazionale dei Circoli Liberal. SEGRETARIO

VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Buno Russo

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Direttore da Washington Michael Novak

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Collaboratori

Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,

Roberto Mussapi, Francesco Napoli,

Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

TUTELA, GOVERNO E USO DEL TERRITORIO La proposta emendativa di abrogazione del 2° comma dell’art. 44 della legge regionale n. 23/1999 è stata accolta favorevolmente dalla maggioranza dal Consiglio ed approvata. Detto comma disponeva che: «Le norme limitative dell’attività di trasformazione del territorio si applicano anche nell’ipotesi in cui la Conferenza di pianificazione, sebbene convocata, non si concluda con la formazione del verbale autorizzatorio entro 180 giorni decorrenti dalla data di avvio dei lavori della Conferenza stessa».L’abrogazione di tale comma determina, per tutti i comuni della regione Basilicata che hanno in corso la Conferenza di pianificazione, la non applicazione delle misure limitative dell’attività edilizia, restando valide le sole norme di salvaguardia. In tal modo si ha di fatto lo sblocco dell’attività edilizia in quanto, le misure limitative dell’attività edilizia, fatti «… salvi i permessi a costruire e i piani attuativi in corso di validità», consentono il rilascio di permessi a costruire, e specificatamente: a) gli interventi previsti dalle lettere a), b), e c) del primo comma dell’articolo 3 che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse; b) fuori dal perimetro dei centri abitati, gli interventi di nuova edificazione nel limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro; in caso di interventi a destinazione produttiva, la superficie coperta non può comunque superare un decimo dell’area di proprietà. 2. Nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l’edificazione, oltre agli interventi indicati al comma 1, lettera a) sono consentiti gli interventi di cui alla lettera d) del primo comma dell’articolo 3 del testo unico che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse. Tali ultimi interventi sono consentiti anche se riguardino globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25 per cento delle destinazioni preesistenti, purché il titolare del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura e spese dell’interessato, a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione; ed anche «interventi relativi ad opere pubbliche o di interesse pubblico», nonché interventi privati che fruiscano di contributi riconducibili ai programmi finanziati con le risorse destinate alla ricostruzione e/o riparazione del patrimonio edilizio danneggiato da eventi sismici». Gaetano Fierro PRESIDENTE CIRCOLI LIBERAL BASILICATA

Mario Arpino, Bruno Babando,

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

John R. Bolton, Mauro Canali,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

Franco Cardini, Carlo G. Cereti,

Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,

Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,

Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Ritratti. È morto a 76 anni Charlie Wilson: convinse gli Usa a finanziare i mujaheddin in Afghanistan

L’ultima battaglia del senatore di Antonio Picasso ex senatore democratico Charlie Wilson è morto all’età di 76 anni. La sua figura era passata dalla celebrità esclusiva dell’establishment politico statunitense alla popolarità internazionale grazie al film La guerra di Charlie Wilson, girato nel 2008, con la regia di Mike Nichols, interpretato da Tom Hanks e Julia Roberts. La pellicola faceva del politico americano una specie di eroe scaltro e realista, che era riuscito - dopo una recuperata sensibilità morale a spese del suo stesso cinismo a capire la questione afghano-pakistana prima di chiunque altro. Tuttavia, una volta terminata la guerra fredda, il problema asiatico, o meglio; il “caos asiatico” era passato in secondo piano nella lista delle priorità della politica estera e di sicurezza degli Stati Uniti. A farne le spese fu lo stesso senatore, che improvvisamente passò dall’essere uno dei sostenitori della guerra in Afghanistan e quindi della caduta dell’Unione Sovietica, al responsabile di un sistema di corruzione che teneva imbrigliati gli Stati Uniti con la dittatura del generale Muhammad Zia-ul-Haq in Pakistan. La storia andò più o meno come viene raccontata nel film-biografia su Wilson.

L’

Fu questo senatore democratico, veterano pluridecorato del Vietnam, a premere sul Senato di Washington affinché accordasse un conto aperto alla Cia perché questa a sua volta potesse finanziare e armare i mujaheddin che combattevano contro l’Armata Rossa in Afghanistan negli anni Ottanta. A quel tempo Wilson faceva parte della Sottocommissione per gli stanziamenti alla difesa. La corruzione delle realtà locali, sia a Kabul sia a Islamabad, l’esasperato traffico di armi e l’incontrollabile giro di denaro vennero interpretati come il disastroso errore commesso dagli Stati Uniti che fu all’origine della situazione odierna in Asia centrale. Si calcola che il Congresso Usa stanziò una serie di fondi complessivi di circa 90 milioni di dollari, secondo il valore reale di quegli anni. All’insaputa del contribuente americano, come hanno sottolineato i critici dell’operazione. La responsabilità fu attribuita alla Cia e al suo più accanito sostenitore di allora, Charlie Wilson appunto. Non un caso che l’ex senatore democratico fu nominato “Agente onorario” della Cia. Del resto, l’immagine individuale del personaggio non facilitava a rendere più nitida la sua moralità. L’ex senatore non nascondeva uno stile di vita “edonista” che il puritanesimo di Washington, per quanto lo condividesse, preferiva mantenere in ombra. Certo, Wilson non disdegnava gli eccessi, anzi. Prima ancora che iniziasse il suo impegno per l’Afghanistan, era celebre per l’abuso di alcol, cocaina e la frequentazione di alcuni locali compromettenti di Las Vegas. Esagerazioni, queste, che poi lo avrebbero costretto anche a un trapianto cardiaco nel 2007. Al di là di questi aneddoti però, la realtà dei fatti tende a ricalibrare le critiche più accese nei confronti dell’ex senatore. A lui spetta l’intuizione che abbandonando l’Afghanistan a se stesso, il governo del Paese si sarebbe trasformato in un regime islamico-radicale. Caduto il muro di Berlino infatti, gli Stati Uniti credettero che l’Asia centrale non fosse più un quadrante geopoli-

della CIA

Ieri il Congresso ha deciso che per una settimana le bandiere americane resteranno a mezz’asta: un gesto di rispetto tardivo che, molto probabilmente, il pragmatico Wilson non avrebbe apprezzato tico interessante per le loro ambizioni. All’inizio degli anni Novanta, bisognava inglobare l’Europa orientale nel libero mercato e trovare un’alternativa stabile al blocco sovietico che si era appena sbriciolato. Improvvisamente emersero altre criticità: l’Iraq di Saddam Hussein, i Balcani, la Somalia. Erano tutte crisi da seguire con maggiore attenzione e

soprattutto nuove risorse rispetto al lontano e povero Afghanistan. Nel frattempo a Kabul si insediavano i talebani, i quali introducevano la legge islamica della sharia e costruivano un regime religioso ultra-ortodosso.

Uno scenario che solo pochi attenti analisti occidentali avevano previsto. Tra loro c’era Robert Baer, ex agente della agenzia di intelligence Usa e poi autore di La disfatta della Cia, un libro dissacrante che metteva in luce quanto l’establishment a Washington, sia quello politico sia quello dirigenziale dello stesso servizio segreto, avesse sottovalutato i segnali di allarme e le minacce per la sicurezza nazionale che giungevano dall’Asia centrale. Una voce altrettanto fuori dal coro era quella di Charlie Wilson. Egli era sì colluso con il regime dittatoriale e tangentista del pakistano Zia, ma proprio per questo, perché conosceva il tessuto sociale dell’area, aveva percepito i rischi imminenti. Fu necessario il dramma dell’11 settembre 2001 per svegliare dal torpore l’Amministrazione Bush e per dimostrare che la Presidenza di Bil Clinton aveva esplicitamente snobbato la questione afghana e l’intero suo corollario, fatto di al Qaeda, talebani, trafficanti di eroina e signori della guerra. Charlie Wilson è morto senza che i suoi timori venissero ascoltati nei tempi giusti e senza che la sua immagine di texano corrotto fosse riabilitata in pieno. Pur essendosi opposto alla guerra in Iraq voluta da Bush, il suo partito non gli ha mai perdonato l’inutile finanziamento della prima guerra in Afghanistan. Ieri paradossalmente e come riconoscenza postuma, il Congresso Usa ha deciso che per una settimana le bandiere americane resteranno a mezz’asta, in omaggio al senatore scomparso. Un gesto di rispetto tardivo, che molto probabilmente il pragmatico Wilson non avrebbe apprezzato. Sicuramente avrebbe preferito essere ascoltato al momento giusto. Se così fosse stato, oggi forse gli Usa e con loro la Nato non sarebbero a Kabul.


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