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ISSN 1827-8817 00219

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L’autodifesa è la più antica legge della natura

John Dryden 9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 19 FEBBRAIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Nessun clamore e un’unica foto ufficiale: «Col Dalai Lama abbiamo parlato solo di pace»

Mr. Gyatso a Washington Storico incontro alla Casa Bianca, Obama si schiera: «Forte sostegno ai diritti umani del popolo tibetano» di Vincenzo Faccioli Pintozzi Malgrado la prudenza, malgrado l’incontro non si sia svolto nello Studio Ovale, il summit tra Barack Obama e il Dalai Lama ha un valore storico: perché schiera gli Usa con il Tibet contro le annunciate ritorsioni della Cina. Segno che Washington non teme lo scontro con Pechino. E che, comunque, preferisce schiararsi dalla parte dei diritti umani. a pagina 12

LA RITORSIONE FINANZIARIA

IL RAPPRESENTANTE EUROPEO

E Pechino si vendica «Ma noi vogliamo sul debito Usa solo libertà di culto» di Alessandro D’Amato

di Antonio Picasso

Niente è per caso. Proprio nel giorno in cui Barack Obama incontra il Dalai Lama, tutti i giornali cinesi aprono, commentando ovviamente in modo positivo, la decisione di Pechino di liquidare una buona parte dei suoi investimenti in buoni del Tesoro degli Usa. a pagina 14

«Noi non siamo un movimento di indipendenza nazionale. E la Cina deve prendere atto che l’intera comunità internazionale riconosce l’identità tibetana», dice Tseten Samdup Chhoekyapa, a capo della Rappresentanza del Dalai Lama presso l’Unione Europea. a pagina 13

Il premier cambia strategia ma difende Letta e accusa: «Vogliono colpire me». Il Papa: «Ma non dite che rubare è umano»

Ora Berlusconi diventa Di Pietro Il Cavaliere sente aria di Tangentopoli e, con una mossa in stile maoista, torna ai tempi dell’indignazione: «Fuori dai partiti chi commette reati» di Riccardo Paradisi

ROMA. Prima dichiarazione:

I TIMORI DENTRO AL PDL

IL SOTTOSEGRETARIO SI ARRENDE

Il lungo assedio al sistema Letta

Cosentino si dimette ”sconfitto dall’Udc”

«Non credo ci sia dubbio sul fatto che chi sbaglia e commette dei reati non può pretendere di restare in nessun movimento politico. Le persone che sono sottoposte a indagini o processi non devono venire ricomprese nelle liste elettorali». Seconda dichiarazione: «Attorno a Guido Bertolaso c’è un verminaio di malaffare e il coordinatore del Pdl Denis Verdini, coinvolto nell’inchiesta, avrebbe dovuto autosospendersi dall’incarico di partito». Non sono parole di Antonio Di Pietro ma, rispettivamente, di Silvio Berlusconi e del superfiniano Fabio Granata.

ROMA. Nel Pdl è cominciata la grande paura o, come dice qualcuno, la resa dei conti. Perché appare evidente che l’inchiesta su Protezione Civile e Grandi eventi ha per bersaglio reale Gianni Letta. Questa circostanza rimette in moto tutti gli equilibri interni al partito: venendo a cadere la forza stabilizzatrice del “grande mediatore”, le correnti interne hanno ripreso a confrontarsi, spesso a combattersi. I finiaini vanno avanti per la loro strada, i «dorotei» si scompaginano e i «belrluscones» non sanno se schiararsi o no in difesa di Denis Verdini finito nelle pieghe dell’inchiesta.

ROMA. Alla fine, dopo mesi e mesi di polemiche, dopo le richieste di arresto, dopo le mozioni di sfiducia, Nicola Cosentino si è dimesso. Dimesso da quasi tutto: da coordinatore del Pdl campano e dal sottosegretario all’Economia. Non da parlamentare, naturalmente. La ragione? No, non è il clima di sospetto che oramai da tempo circonda l’esponente del Pdl, ma il fatto che il Popolo della libertà della Campania sarebbe intenzionato a sostenere Domenico Zinzi, dell’Udc, alla presidenza della provincia di Caserta e non un uomo ”vicino” a Consentino medesimo.

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seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

di Errico Novi

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

34 •

WWW.LIBERAL.IT

di Francesco Capozza

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


politica

pagina 2 • 19 febbraio 2010

Corruzione/1. «Chi ha responsabilità penali deve andare fuori dai partiti». Ora Silvio parla proprio come Di Pietro (e Granata)

Berlusconi fa il maoista

Il premier sente aria di una nuova Tangentopoli e torna giustizialista come alle origini. Così, in accordo con Fini, prova a riprendersi il Pdl di Riccardo Paradisi rima dichiarazione: «Non credo ci sia dubbio sul fatto che chi sbaglia e commette dei reati non può pretendere di restare in nessun movimento politico. Le persone che sono sottoposte a indagini o processi non devono venire ricomprese nelle liste elettorali. Ma se ci sono dei dubbi sulla loro colpevolezza sarà l’ufficio di presidenza a decidere caso per caso». Seconda dichiarazione: «Attorno al direttore della Protezione civile Guido Bertolaso c’è un verminaio di malaffare ed il coordinatore del Pdl Denis Verdini, coinvolto nell’inchiesta, avrebbe dovuto autosospendersi dall’incarico di partito». Non sono il leader dell’Idv Antonio Di Pietro e il suo fido Massimo Donadi a parlare. No: sono, rispettivamente, il presidente el Consiglio Silvio Berlusconi e il superfiniano vicepresidente della commissione Antimafia Fabio Granata.

P

Su Berlusconi e su questo ritorno al giustizialismo delle origini (già postcraxiane) arriveremo e anche sulla teorizzazione dell’ufficio di presidenza come tribunale politico e cassazione morale degli esponenti del Pdl. Intanto è sintomatico quello che dice Granata e il tempismo con cui esterna l’esponente siciliano del Pdl. Granata infatti non si limita a fare il censore del centrodestra, un ruolo che gli ha guadagnato tante simpatie a sinistra quanta avversione all’interno del Pdl. Granata chiede anche un mutamento nella gestione del Pdl e definisce ”contraddittoria” l’immagine che il partito sta offrendo.«Dobbiamo evitare i doppi incarichi di partito e di governo. Al posto dell’attuale triumvirato occorre un coordinamento vero, che dia un indirizzo certo». È il profilo del nuovo coordinamento già prefigurato anche da questo giornale, coordinamento unico con a capo Sandro Bondi affiancato dall’attuale vicecapogruppo alla Ca-

mera del Pdl Italo Bocchino. Un archiviazione del triumvirato che era già nei progetti dei vertici del partito e che aveva trovato il placet di Gianfranco Fini, con questa ipotesi finalmente rappresentato da uno dei suoi fedelissimi e non più da Ignazio La Russa, troppo compromesso per il presidente del Consiglio con il berlusconismo. La caduta d’immagine di Verdini non ha fatto altro che agevolare questa prospettiva che dovrebbe concretizzarsi dopo le regionali. Per questo, all’interno del Pdl, in quel settore del partito che ruota intorno alle figure moderate che si erano date convegno al meeting di Arezzo, la sortita di Granata viene giudicata addirittura sciacallesca. Perché Granata parla di Verdini e cavalca la tigre dell’indignazione e del moralismo per accelerare l’archiviazione di una figura chiave nella costruzione di un’area moderata nel Pdl e spingere con più velocità possi-

Forse il premier teme che la Lega torni forcaiola

Il gioco dell’Oca del Cavaliere di Giuseppe Baiocchi ra “mariuoli” e “birbantelli” la differenza semantica è davvero molto poca. Eppure, con un ritardo di 18 anni, sembra di assistere a un replay di uno scenario già ampiamente vissuto. E cioè che, come in un eterno “gioco dell’oca”arriva il punto dove uno sfortunato tiro di dadi impone di ritornare alla casella di partenza. Il sapore forte della stagione 1992-93 ha lasciato nostalgie stranamente condivise. E il premier sembra assomigliare all’improvviso al primo, ma anche al penultimo Di Pietro, quando si pretendeva di espellere i corrotti (giudicati, rinviati a giudizio o solo indagati) dalla vita politica, dalle candidature elettorali e dall’appartenenza ai partiti. L’inaspettato sussulto di moralità discende probabilmente dal timore che la facile impronta giustizialista faccia presa in un paese incerto e smarrito alla vigilia di elezioni regionali che ormai hanno acquistato il valore di un esame di maturità per un governo e una maggioranza che sanno di aver deluso in buona parte le aspettative di cambiamento manifestatesi impetuosamente alle politiche del 2008. E forse i sondaggi quotidiani e riservati che planano ogni giorno sulle scrivanie di Palazzo Grazioli segnalano una disaffezione inattesa per il Popolo della libertà a vantaggio di altri, magari proprio di quell’ingombrante alleato della Lega, che ha sempre avuto il “naso” più adatto a cogliere gli umori e i mal di pancia dei ceti meno rappresentati dall’universo mediatico.

T

La magistratura non è più allora l’occhiuto e impunito persecutore di un assetto politico consacrato dalla sovranità della democrazia: diventa (o meglio ridiventa) l’attore principe di un processo rivoluzionario che consolida un affermato sistema di potere confermato da un gioco delle parti e un altrettanto ripetuto “gioco degli opposti”. Se, come si è spesso notato il giustizialismo alla Di Pietro si costituiva come oggettiva stampella del conglomerato berlusconiano, sembra ora che l’uscita “moralizzatrice” del premier finisca per aiutare (e non di poco) proprio Di Pietro in una fase di evidente difficoltà, dopo la soffertissima scelta di appoggiare un “rinviato a giudizio”come candidato governatore della Campania.“Simul stabunt”… eccetera… Nell’orgia di intercettazioni sulla Protezione Civile e tutti gli addentellati, ben ventimila pagine, si vede chiaramente che ognuno pesca quello che gli serve. Gli schizzi di fango sono indirizzabili in tutte le direzioni. E allora è forse comprensibile che, nella difficoltà di un governo deludente, si ritorni a sostenersi a vicenda con l’avversario di sempre. Nel comune interesse di sgombrare il campo dell’arena mediatica di quella cosa complicata e di incerta comunicazione che è la necessaria arte della politica. Quando la storia si ripete, diceva Marx, da tragedia si abbassa alla farsa. E, oltretutto, questa volta manca l’icona che sulle reti Mediaset costruiva il mito in quegli impagabili collegamenti con Fede e Mentana dal marciapiede di Palazzo di Giustizia: Paolo Brosio, fulminato sulla via di Medjugorje, è ormai solo un fan della Madonna…

bile Bocchino al vertice del partito. In questa strategia Granata rilancia anche su liste pulite: «Il Presidente Pisanu – dichiara – ha stilato un testo rigoroso e che ha quegli elementi di filtro sulle candidature che avevamo chiesto». Insomma un modo per rilanciare la partita politica interna su Cosentino, ma soprattutto per assicurarsi il ruolo del moralizzatore interno. Granata non si muove da solo. Il Secolo d’Italia ieri titolava: ”Pdl, adesso operazione liste pulite”, registrando il fatto che il Pdl ”soltanto adesso” sposa la battaglia di Granata sull’approvazione in commissione Antimafia del codice etico per i candidati. «Dunque non aveva poi sbagliato Gianfranco Fini – scrive sempre il Secolo – quando ha invitato tutto il partito alla prudenza sulla candidatura di Cosentino in Campania. La politica, da parte sua, non può non affrontare il problema. Non fosse altro per munirsi di nuovi anticorpi verso questa nuova ondata di casi che rischiano di alimentare ancora la disaffezione dei cittadini dalla politica». Ad aprire le danze di questo refrain era stato il presidente della Camera Gianfranco Fini, censurando il caso Pennisi e chiarendo che chi ruba è solo un ladro. Ma se nel Pdl c’è chi denuncia lo sciacallaggio politico su Verdini anche nel giro più strettamente berlusconiano non è che per il coordinatore indagato ci si sia stracciati più di tanto le vesti.

È stato notato infatti che il coordinatore del Pdl non ha incassato poi molti attestati di soliadarietà. Il motivo non è solo perché Denis ha un cattivo carattere e non risulta troppo simpatico. È che Verdini rappresetava comunque il più concreto ostcolo al passaggio alla nuova configurazione del coordinamento nazionale del Pdl, evoluzione che preme molto anche ai berlusconiani. E veniamo così a Berlusconi e alla sua torsione neogiustizialista. Anche al Cavaliere l’attuale triumvirato è venuto a grande noia. Gli attribuisce funzioni di scudo tra lui e il partito e soprattutto i pasticci locali. Da quelli grandi, come la perduta candidatura di Adriana Poli Bortone in Puglia, a quelli più piccoli come quelli avvenuti nelle Marche, dove cacicchi lo-


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Il sottosegretario abbandona anche il coordinamento campano

Cosentino si dimette “sconfitto dall’Udc”

Il politico accusato di concorso esterno alla camorra lascia in polemica con le scelte per le Regionali di Francesco Capozza

Berlusconi e Fini sembrano d’accordo sulla questione morale. A destra, Nicola Cosentino. A sinistra, Denis Verdini cali hanno brigato per far cadere una candidatura al governatorato della Regione, che al premier era molto gradita. Con la torsione ”dipietrista” torna il Berlusconi decisionista, veloce, antipolitico che si mostra impaziente di sbarazzarsi di lacci e lacciuoli interni, si fa severo verso i pasticcioni, freddo per i sospetti di aver pasticciato e che nel suo nuovo balzo mostra solidarietà solo ai suoi collaboratori più esecutivi come Guido Bertolaso e Gianni Letta, ”vittima di inciviltà e barbarie”: «Sembra quasi che sia un peccato darsi da fare. Se c’è qualcuno di veramente straordinario sul piano dell’operosità, qualcuno che opera per il bene comune è proprio il dottor Letta». Ma per il resto Berlusconi appunto gioca la carta del moralizzatore. Parla di liste pulite dopo che in questo giorni lo avevano fatto sia il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto che l’altro coordinatore del Pdl Ignazio La Russa, incalzato a Milano da una Lega divenuta molto aggressiva nei confronti dell’avversario interno dopo il caso Pennisi. Parla di liste puli-

te, rispolvera la divisa dell’antipolitico cavalcatore delle tigri giustizialiste dei lontani anni Novanta. Un balzo maoista il suo, da rivoluzione culturale. Un salto mortale per afferrare al volo sia l’alleanza tattica con l’avversario Fini – per stringere la tenaglia sui dorotei del Pdl – sia la nuova possibile onda d’indignazione morale che potrebbe sorgere nel Paese di fronte a una nuova ondata di scandali in tempi di forte crisi economica. Sia infine per ergersi, fino alla naturale successione, giudice supremo degli uomini del partito: «Se ci sono dei dubbi sulla loro colpevolezza sarà l’ufficio di presidenza a decidere caso per caso». Il caso Cosentino che si è concluso con le dimissioni dell’ex sottosegretario all’Economia è un primo segnale el nuovo corso. Cosentino si dimette perché il candidato presidente della provincia di Caserta, come è stato deciso dal vertice BerlusconiFini sarà il deputato Udc Domenico Zinzi e non Pasquale Giuliano, il senatore Pdl vicino a Cosentino.

ROMA. «Mi sono dimesso perchè voglio liberare il campo da ogni strumentalizzzzione in vista della campagna elettorale». Nicola Cosentino conferma le dimissioni da coordinatore regionale del Pdl in Campania e da sottosegretario all’Economia spiegando che la sua scelta è dettata alla volontà di non voler essere oggetto di strumentalizzazioni in vista del voto di marzo. Le dimissioni, come specificato dalla portavoce del deputato, «sono irrevocabili». L’annuncio dell’uscita dal governo e dall’incarico dirigenziale nel partito è giunta proprio mentre dal vertice tra Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e i coordinatori del Pdl era trapelata la notizia del via libera all’alleanza Pdl-Udc in Campania. Cosentino aveva contestato il patto tra il presidente del Consiglio e il segretario centrista Lorenzo Cesa, che assegna la Provincia di Caserta a Domenico Zinzi (segretario regionale dell’Udc) in cambio del sostegno dei centristi al candidato in Regione Stefano Caldoro. La tensione all’interno del Pdl campano era cominciata a salire dopo l’annuncio di martedì di un’intesa Pdl-Udc in seguito a una telefonata tra il premier e il segretario centrista Cesa. Si era infiammato, in particolar modo, il fronte Caserta, con Cosentino che, sentendosi sempre più accerchiato, aveva minacciato le dimissioni da coordinatore regionale - poi concretizzatesi nel pomeriggio di ieri - e rivendicato un presidente Pdl alla Provincia di “Terra di lavoro”. Poltrona che invece Berlusconi e Cesa si erano accordati per assegnare al segretario campano dell’Udc.

poteri tra giunta e consiglio, il trasferimento di funzioni a Province e Comuni». E spiegava ai suoi che l’accordo con il centrosinistra non è stato possibile in Campania per le divisioni nella coalizione e perché Enzo De Luca ha diviso più che unire. Nelle stesse ore a Roma parlava Rocco Buttiglione: «Non mi risulta che si siano riaperti i giochi in Campania. Martedì il presidente del Consiglio Berlusconi ha sentito Cesa assicurando che va tutto bene». Alle 15 il ministro Ignazio La Russa, nel capoluogo partenopeo domenica scorsa per una manifestazione elettorale e poi per la partita Napoli-Inter, aveva annunciato: «Siamo d’accordo con l’Udc per la Campania, ma ancora non è definita l’intesa per Caserta». Un’ora più tardi tuonano i senatori Pasquale Giuliano e Gennaro Coronella, coordinatori del Pdl casertano: «Il candidato presidente della Provincia tocca a noi. Un limite invalicabile, così come ribadito all’unanimità in più occasioni». Coordinamento che la scorsa settimana aveva indicato proprio in Pasquale Giuliano il candidato alla Provincia.

Il nodo è la candidatura per la provincia di Caserta: Pdl e Udc si sarebbero accordati a puntare su Domenico Zinzi e non su un «cosentiniano»

Dalle minacce al gesto concreto c’è stato un fuoco incrociato aperto nella mattinata di ieri dallo stesso Cosentino, ricevuto per un’ora da Silvio Berlusconi a Palazzo Grazioli. Il sottosegretario aveva ventilato direttamente al premier l’ipotesi di dimissioni da coordinatore regionale contestando l’intesa su Caserta, in particolare sul nome del deputato Domenico Zinzi dell’Udc. Cosentino continuava - ancora ieri all’uscita da quell’incontro - a puntare sul senatore Pdl Pasquale Giuliano e, credendo di aver convinto Berlusconi a rompere l’accordo con l’Udc, era uscito «soddisfatto» da Palazzo Grazioli. A Napoli, intanto, Ciriaco De Mita riuniva il vertice Udc napoletano in via Santa Brigida, comunicando e confermando l’intesa per la Regione, ma chiarendo: «A noi non interessa l’assessorato alla sanità. All’Udc interessa la riorganizzazione dei servizi, il riequilibrio di

E non è finita. Mentre il candidato alla guida della Regione, Stefano Caldoro, da Roma annunciava che il suo sarà «il governo dei migliori con persone capaci e competenti», interveniva Gianni Mancino, segretario dell’Udc di Caserta: «Non ci possono essere accordi disgiunti, la Regione e la Provincia di Caserta vanno di pari passo». Stessa posizione dal commissario napoletano Udc Ciro Alfano: «Nessun cambio di rotta». Mentre da Roma intervieniva anche Pierferdinando Casini: «So soltanto che Cesa e Berlusconi sono d’accordo, del resto non mi importa». «La telenovela tra Pdl e Udc si è trasformata in film western» commentava ieri il segretario regionale del Pd Enzo Amendola. E come se non bastasse, ancora ieri mattina, da Salerno, il presidente della Provincia Edmondo Cirielli annuncia che nel pacchetto di candidati Pdl alla Regione c’è Alberico Gambino, ex sindaco di Pagani condannato in primo grado per peculato. Con tanti saluti al “codice etico” invocato in quelle stesse ore da Berlusconi. Quindi il caos. Con il ministro Franco Frattini costretto a rinviare in tutta fretta il comizio napoletano previsto per ieri sera. La notizia delle dimissioni di Cosentino ha comunque colto di sorpresa il mondo politico. Il capogruppo del Pd, Dario Franceschini, è intervenuto in aula alla Camera per chiedere conferma delle dimissioni.


politica

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Corruzione/2. Vacilla la dottrina della mediazione che per anni ha bilanciato le esuberanze del Cavaliere guerrigliero

Assedio al metodo Letta «Contro di lui solo barbarie e inciviltà»: il premier lo difende a spada tratta ed è pronto a “cedergli” persino il Quirinale

ROMA. Gianni Letta è molte cose insieme. Formalmente ha l’incarico di sottosegretario alla presidenza del Consiglio solo perché nell’aprile del 2008 ci fu un veto leghista su di lui. Avrebbe dovuto assumere l’incarico di vicepremier, ma Umberto Bossi pose la sua condizione per il tramite di Roberto Calderoli: via libera solo se di vice se ne fanno due, e uno va al Carroccio. Resta così in piedi un equivoco nominale, perché Letta è molto più di un sottosegretario alla presidenza del Consiglio. «È il vero presidente», disse dopo la vittoria del 2001 lo stesso Berlusconi. «È quello che lavora più di tutti». Se sulla seconda affermazione non ci sono dubbi, viene spesso il sospetto che in questi dieci anni sia divenuta vera anche la prima. E che a Silvio spetti da sempre un ruolo da “front man”, la cui sostanza politica è però nelle mani del suo inseparabile braccio destro. A pensarci bene Letta è la vera politica berlusconiana di questi anni. Uno stile in cui c’è prima di ogni cosa l’anelito instancabile ad accontentare tutti. I grandi poteri ma anche gli interlocutori meno blasonati. Berlusconi fa fuoco e fiamme, minaccia sempre di cambiare il

di Errico Novi Paese dalla testa ai piedi e di farlo senza riguardo per i quarti di nobiltà. Poi però non procede, perché quella macchina misteriosa che è la politica, e il governo della cosa pubblica, esercita su di lui un magnetismo ambivalente, di attrazione e repulsione allo stesso tempo. Così, nell’immobile dubbio del Cavaliere, ci deve essere uno che di politica alla fine si occupa, e che lo faccia in modo da non creare conflitti con quell’energia misteriosa che i poteri sprigionano. Di fronte a un’inchiesta come quella sul G8, con relative ramificazioni aquilane, in cui lo stesso Berlusconi vede il marcio e ordina di ripulirlo via, tutti sono potenzialmente colpevoli, per il Cavaliere, di «aver prestato il fianco ai giudici e alla sinistra», secondo un’espressione a lui riferita. Tutti, tranne Gianni. «Gianni non si tocca, se cade lui viene giù tutto». Eppure non c’è nulla di più incompatibile tra i fuochi pirotecnici del Berlusconi guerrigliero e la mite, paziente, diplomatica tela tessuta giorno dopo giorno da Letta proprio con i bersagli sotto il tiro del premier. Tante volte Silvio sembra l’iperbole, e Gianni la realtà. E se la realtà non stesse dalla parte del secondo, si può star

certi che il primo l’avrebbe disconosciuto assai prima dell’avviso di garanzia a Bertolaso.

Se proprio si pretende una prova ulteriore, basta rileggere le frasi pronunciate da Berlusconi nelle ultime quarantott’ore. Soprattutto quel «merita il Quirinale». Ambizione che pure tante volte è stata attribuita al Cavaliere: ma evidentemente il legame avvertito con Letta è così indis-

Secondo Barbera «il sottosegretario, seppur travolto dalla bufera, alla fine ne uscirà bene anche questa volta, come tutte le altre» solubile da spingere il premier a dividere tutto, anche il prestigio istituzionale più alto. Nonostante quella così netta diversità di approccio, che d’altra parte fa del sottosegretario l’unico, vero alter ego del premier. «Non c’è dubbio che Letta sia portato a cercare di smussare gli angoli, a comporre, a portare avanti in-

somma un certo tipo di politica che non è quella di Berlusconi, il cui tratto distintivo è il piglio decisionista», commenta con liberal Augusto Barbera. A proposito delle molte cose che Letta è, di cui si parlava all’inizio, il costituzionalista ricorda come al consigliere di Berlusconi siano toccati «due settori molto delicati, travolti da altrettante bufere: quella sui servizi segreti, da cui Letta è uscito egregiamente, e questa sulla protezione civile: e anche stavolta, visti gli addebiti rivolti a Bertolaso che paiono piuttosto deboli, credo che il sottosegretario ne verrà fuori».

Sono pochi a dubitarne. Di solito Antonio Di Pietro si abbandona a strepiti degni di una erinni ogni volta che Berlusconi reagisce a un’offensiva giudiziaria. Nel caso di Letta ha invece mantenuto un insolito contegno: «Vediamo prima cosa effettivamente si contesta a Bertolaso», si è limitato a dire. Perché certo, la sorte del grand commis di Palazzo Chigi appare ora fortemente connessa a quella del capo della Protezione civile. Uno dei tratti caratteristici del Letta vicepremier, o alter ego del premier, è quella di investire con sicurezza e decisione su poche figure di as-

soluta affidabilità. Rapporti distesi e cordiali, costruttivi anche, con tutti: quando per esempio la Fiat diventa il nemico numero uno di un ministro come Scajola e in qualche modo di tutto il governo, Letta è l’unico canale diplomatico sempre aperto. Rapporti con tutti, ma fiducia totale in pochi. Se una rete di Letta esiste, è questa, è la rete dei Bertolaso, non quella dei miserabili che ridacchiano sulle macerie del terremoto.

In libreria c’è da qualche settimana Gianni Letta, biografia non autorizzata scritto da due giornalisti, Giusy Arena e Filippo Barone. Non è un libro agiografico, ed è comprensibile che in queste ore non circolino solo articoli di carattere celebrativo, sul braccio destro di Berlusconi. Eppure se una responsabilità può essere addebitata, a Letta, è nella disponibilità a discutere con tutti, anche a negoziare con le parti avverse. Le dimostrano le stesse intercettazioni in cui compaiono lui e Bertolaso: il quale per esempio si lamenta, a proposito di una procedura d’infrazione avviata dall’Unione europea per il G8 alla Maddalena e le relative controindicazioni ambientali, che «in ambasciata ci sono ancora quelli messi da Pecoraro, che la Prestigiacomo non è an-


politica Il Pontefice ai parroci: «Il peccato ha ferito la natura dell’uomo; non si deve giustificarlo»

Il Papa: «Non dite che rubare è umano» CITTÀ

DEL VATICANO. «L’essere umano è ferito, il peccato ha ferito la natura umana». Per questo, rileva il Papa, «si dice ha mentito, è umano; ha rubato, è umano: ma questo non è il vero essere umano»,

ricorda ai sacerdoti di Roma, nella Lectio che quest’anno ha sostituito il tradizionale ”botta e risposta”con i parroci avviato da Papa Wojtyla. Per il Pontefice, dunque «essere uomo secondo la volontà del Creatore significa essere generoso, volere la giustizia, la prudenza, la saggezza» e «con l’aiuto di Cristo uscire da questo oscuramento della

cora riuscita a sostituire». Ecco, casomai è questo il rimprovero che in questi anni Letta si è sentito spesso rivolgere: troppi posti-chiave lasciati ai nemici, troppe eccezioni liberali al ferreo mantra dello spioil system. Gliene cantò di brutte Renato Brunetta a Gubbio, nel settembre 2005: «Basta con Gianni Letta, basta con Ciampi, con le mediazioni: Forza Italia deve ricominciare a fare politica a viso aperto». Invece lui, Letta, sarebbe quello che cuce e ricuce lontano dai riflettori.

Tutto sta a

nostra natura». Il vero uomo, cioè, «partecipa alle sofferenze degli essere umani, è uomo di compassione. Il vero uomo non vive solo nella contemplazione della verità, beato e felice. Il sacerdote entra come Cristo nella miseria umana, va verso le persone sofferenti e prende su di sé quelle miserie». E ogni sacerdote, ha scandito Ratzinger, «deve essere uomo, cioè completamente umano». «Proprio Cristo ha mostrato il vero umanesimo, sempre fissato in Dio», portando «tutto l’essere e la sofferenza umana nella passione», ha aggiunto il Vescovo di Roma chiedendo ai ”suoi”sacerdoti di non isolarsi: «Dobbiamo essere presenti nella passione di questo mondo per trasformarlo verso Dio. E come Gesù piange davanti alla morte e alla distruzione provocate dagli uomini, e ha gridato sulla Croce, così anche il nostro sacerdozio non si limita alla messa, ma deve saper portare la sofferenza del nostro mondo così lontano da Dio». Il sacerdozio, ha concluso, «non è cosa per alcune ore, ma si realizza nelle sofferenze».

l’ambasciata d’Italia presso la Santa sede e luogo del primo incontro tra il capo del governo e il sottosegretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone dai tempi del caso Boffo. «Contro Letta c’è stata solo barbarie e inciviltà», dice il Cavaliere. Ora sono in pochi a seguirlo nell’investitura per la presidenza della Repubblica, e anzi Bersani gliela contesta, perché «al Colle ne abbiamo già uno eccellente». Ma è certo che non saranno molti a infierire contro il sottosegretario. Al massimo qualcuno obietterà che lui gode di un salvacondotto infrangibile dovuto alla solita pratica della mediazione. Ma a pochi converrebbe sostenere che mediare equivale a manipolare e a corrompere. Sarà che «se colpiscono Gianni, vuol dire che casca un’intera classe dirigente, anche quella di sinistra», come dice Berlusconi. Ma in tempi del genere, in cui anche una figura immacolata come quella di Bertolaso ondeggia nella bufera, sono in pochi a riscuotere un così generale rispetto.

È lui, l’alter ego, il vero depositario della politica berlusconiana: il premier fa fuoco e fiamme, ma la gestione del potere compete solo a Gianni

comprendere se questo modo di gestire il potere faccia o no comodo a Berlusconi.Tutto fa pensare che gli serva eccome. Ieri Letta ha accompagnato il presidente del Consiglio prima nel pranzo di lavoro con Gianfranco Fini, da cui sono venute fuori scelte politiche importanti come l’accordo con l’Udc in Campania e le relative dimissioni «da tutto» di Cosentino. Poi alle celebrazioni per l’anniversario della firma dei Patti Lateranensi a Palazzo Borromeo, sede del-

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Battaglia alla Camera sulla fiducia e sullo «scudo giudiziario»

E, sul decreto, Fini sfida la maggioranza di Marco Palombi

ROMA. Niente scudo giudiziario per i commissari governativi per l’emergenza rifiuti in Campania e niente fiducia. Finisce così la fibrillazione nella maggioranza sul cosiddetto decreto Protezione civile. Non prima, peraltro, che le piroette del governo costringano il presidente della Camera, Gianfranco Fini, a far trapelare alle agenzie la sua “irritazione” ufficiale. Era accaduto che il governo, dubbioso sulla tenuta della maggioranza e timoroso di trascinare troppo a lungo un testo su un tema così incandescente, nei giorni scorsi s’era orientato a porre la questione di fiducia. Dopo la disponibilità dell’opposizione a ritirare gran parte dei suoi emendamenti, però, l’esecutivo ci aveva ripensato: niente fiducia e avanti col confronto in aula. La notte di mercoledì però, le intercettazioni che lambivano palazzo Chigi, avevano di nuovo spinto Silvio Berlusconi e i suoi sulla strada dell’atto di forza: ieri mattina, quindi, tutti scommettevano di nuovo sulla questione di fiducia. Poi di nuovo tirava aria d’accordo e poi ancora di fiducia.

«Abbiamo fatto un casino», diceva invece sconsolato Fabrizio Cicchitto lasciando gli uffici di Fini. Il fatto è che, a parte il cazziatone semipubblico di Fini, il Pdl ieri non ha tenuto conto nemmeno dell’ostilità della Lega alla soluzione fiducia, ostilità peraltro rafforzata dallo spauracchio del “Lodo Iotti”, che avrebbe messo a rischio la norma taglia-poltrone che Roberto Calderoli ha inserito nel Milleproroghe e che il Carroccio vuole giocarsi in campagna elettorale. I lumbard hanno interpellato anche Umberto Bossi, che peraltro già ieri aveva fatto sapere: «Io su questa storia della privatizzazione non sono d’accordo». Quanto all’inchiesta sul G8 a La Maddalena e dintorni, gli effetti politici ieri sembravano scorrere sotto traccia. Al di là delle tensioni interne al Pdl, sopite dall’attivismo mediatico di Silvio Berlusconi anche nella versione fustigatore della corruzione e dei “birbantelli” che fanno politica, lo schieramento attorno all’onore insidiato di Guido Bertolaso (e Gianni Letta) è stato granitico. Oltre al premier, anche il suo portavoce Paolo Bonaiuti ha parlato in tv del «vezzo di pronunciare sentenze mediatiche», «di dar vita a processi mediatici» che si basano sullo «spazio enorme concesso all’accusa, pubblicando intere pagine di intercettazioni, meglio ancora se con aspetti piccanti».

L’incertezza nella maggioranza ha bloccato i lavori, fino a quando Cicchitto ha ammesso «Sì, abbiamo fatto proprio un casino»

È a questo punto che Fini ha dato lo strattone definitivo. Nella conferenza dei capigruppo di ieri mattina ha chiesto per ben due volte agli inviati del governo, Elio Vito e Guido Bertolaso: «Ma insomma la mettete o no la questione di fiducia?». E quelli, per due volte, hanno risposto: «Non lo sappiamo». Il presidente della Camera allora s’è spazientito, ha chiarito che i patti si rispettano, che non c’era bisogno della fiducia vista la disponibilità dell’opposizione a tagliare i tempi e che, se fossero andati avanti lo stesso, lui sarebbe ricorso al cosiddetto “Lodo Iotti”. Il riferimento è a un precedente creato dall’allora presidente comunista, secondo il quale dopo il voto di fiducia – per non conculcare almeno il diritto di tribuna della minoranza – si discutono tutti gli emendamenti presentati e solo dopo si passa al voto sugli ordini del giorno e al voto finale. Risultato: giorni di aula bloccata e decreto Milleproroghe, che è in coda a quello sulla Protezione civile, a rischio (scade il 28 febbraio). A quel punto il governo, dopo un ulteriore codazzo di riunioni e conciliaboli, ha ceduto: «Accordo fatto», ha annunciato il vicecapogruppo del Pdl Italo Bocchino: via all’esame del testo con la quarantina di emendamenti rimasti e voto finale previsto entro oggi. A ruota anche Bertolaso, non più munito dello scudo campano: «L’obiettivo è creare un clima di maggiore serenità e collaborazione».

Anche il sindaco di Roma Gianni Alemanno (come uno dei suoi predecessori, Francesco Rutelli) ha trovato il tempo di posizionarsi nella linea di difesa dell’uomo delle emergenze: «Sono convinto che ne uscirà bene e poi non mi sembra che nell’inchiesta ci siano addebiti reali, tanto è vero che non ha ricevuto nemmeno un avviso di garanzia». L’ex socialista (oggi Pdl) Donato Robilotta, ha addirittura mandato una lettera di solidarietà a Berlusconi per l’inchiesta contro Bertolaso: «La strategia è chiara: colpiscono Bertolaso per attaccare Gianni Letta, così indeboliscono il premier per prepararsi successivamente all’attacco finale. Film già visto». All’estero la faccenda la vedono in maniera più sfumata. Di Bertolaso, l’Economist in edicola oggi parla addirittura al passato: «Colui che sembrava impersonare il lato migliore dell’Italia», lo definisce il settimanale britannico, peraltro assai scettico sul fatto che il rifiuto di Berlusconi di accettare le sue dimissioni possa «limitare i danni politici» della vicenda. Anche perché, come ricorda qualcuno anche nel centrodestra, Bertolaso non è solo l’insostituibile capo della Protezione civile, è anche sottosegretario di questo governo, cioè un esponente politico.


diario

pagina 6 • 19 febbraio 2010

Editoria. Per il direttore della Padania, servono regole precise: «Non si possono mettere tutti i giornali sullo stesso piano»

«Il vero nodo è la riforma»

Boriani: «La proposta di eliminare il sostegno pubblico è schizofrenica» di Valentina Sisti ietro alla proposta di eliminare il sostegno pubblico all’editoria leggo una sorta di schizofrenia. È chiara a tutti la necessità di attuare una riforma reale. Ma tutto questo non serve a nulla senza una progettazione a lungo termine». Leonardo Boriani non ha mai creduto sul serio all’eliminazione del diritto soggettivo all’editoria. Proposta che ha mobilitato una petizione bipartisan, firmata da oltre metà parlamentari e che ha portato la commissione Cultura della Camera a votare all’unanimità la proroga di almeno un anno delle attuali normative sull’editoria sul decreto milleproroghe Sessant’anni di Varese, professionista da trentasei anni, Boriani è da più di sei è alla guida de La Padania, dove ha dapprima ricoperto la carica di vice-direttore e dove gode della piena fiducia di Umberto Bossi. Perché c’è un accanimento contri i giornali di partito? Più che di un accanimento parlerei di frenesia. Ma non ho mai creduto veramente che si finisse di penalizzare veramente l’editoria. Nella situazione attuale, non poteva se non finire in questo modo. Il problema però c’è però ed è enorme e va affrontato assolutamente entro quest’anno. Quello di ieri è stato un “pannicello caldo”, una sorta di toppa a una situazione che rischia di deflagrare, se non viene messa mano al più pre-

«D

portarsi più come organi di partito? No comment. Diciamo solo che per quei quotidiani dove c’è un’entrata pubblicitaria il discorso è completamente diverso. Secondo lei una riforma è necessaria? Servono regole fisse, verificando se un determinato giornale ha giornalisti assunti e con quale contratto, il tipo di diffusione, se è presente in edicola, se ha rappresentanti in Parlamento. E poi la storia, la tradizione. Non si può certo mettere sullo stesso piano L’Unità e il Barbanera. Cosa cambierebbe della legge sull’editoria?

«I quotidiani di partito sono una reale cinghia di trasmissione con il popolo. Il mezzo migliore per comunicare con il territorio» sto a quella che è diventata una specie di “selva”. Non è che a qualcuno il dibattito interno ai partiti possa fare paura? Non si può fare di tutta un’erba un fascio. Dobbiamo iniziare prima di tutto a fare delle distinzioni all’interno dei giornali di partito. Possono magari avere qualche problema di diffusione, ma soprattutto legato alle entrate pubblicitarie. Non possono sopravvivere senza gli aiuti pubblici. Crede che alcuni quotidiani rischino di com-

Questa legge è un po’ ambigua e lo dico da professionista. Alla Padania ho 25 giornalisti assunti, si figuri che ci sono giornali dove non c’è neppure un praticante. È d’accordo sul fatto che possano aiutare il dibattito politico? I quotidiani sono una reale cinghia di trasmissione tra un partito e il suo popolo. Quando sono diventato direttore de La Padania ho iniziato a dedicare intere pagine al territorio, proprio perché volevo iniziare un filo diretto con i miei lettori.

Più di mezza Camera firma l’appello uperata di slancio la metà dei deputati, prosegue la raccolta di firme per l’appello bipartisan volto a impedire il blocco dei finanziamenti all’editoria. Ieri erano 345 i deputati di tutti i partiti (compresi Idv e Api, che ancora non avevano aderito) ad aver firmato l’appello. Maggioranza e opposizione, poi, hanno presentato alcuni emendamenti al decreto “milleproroghe” per consentire alle testate giornalistiche, alle cooperative no profit e a quelle di partito di continuare a percepire i contributi statali. Tutti chiedono di sospendere per uno o due anni il blocco dei finanziamenti, che deriva dalla cancellazione nella finanziaria del diritto soggettivo delle testate cooperative e di partito a percepire i fondi pubblici. Gli emendamenti in questione, sostanzialmente identici, sono stati presentati dal centrodestra (prima firma della leghista Silvana Comaroli) e dal Pd (primo firmatario Paolo Baretta). Le proposte sono state depositate nelle commissioni Affari Costituzionali e Bilancio della Camera. Ieri mattina, poi, in com-

S

missione Cultura, nell’ambito del parere sul “milleproroghe”, la relatrice Angela Fassinetti (Pdl) ha proposto la proroga di un anno le norme che contengono il diritto soggettivo per i finanziamenti pubblici all’editoria. La proposta è stata votata all’unanimità. «Abbiamo ritenuto di votare questa proposta - spiega Beppe Giulietti, portavoce di Articolo 21 - per rafforzare il fronte unitario costituito queste settimane e per non dare alibi al governo

che a questo punto dovrà fare sapere dove, come e quando intenda recepire questa indicazione unanime». Giulietti, Ricki Levi ed Emilia De Biasi (Pd) affermano che «la moratoria sul diritto soggettivo è necessaria per arrivare in tempi brevissimi alla riforma dell’editoria, ci attendiamo ora dal sottosegretario Paolo Bonaiuti che si definisca il calendario».

Non c’è il rischio di mettere in piazza magari anche qualche contraddizione interna ai partiti? I giornali di partito sono necessari per iniziare un’operazione di trasparenza. Bisogna avere il coraggio anche di far vedere qualche magagna magari, qualche piccola contraddizione, ma credo che alla fine il dibattito politico ne uscirà rafforzato, i nostri elettori ci daranno fiducia, e ci premieranno. Piero Ostellino al Riformista ha detto che non vede altro modo di arginare il conformismo se non con il sostegno di Stato all’editoria... Non posso che non essere d’accordo con lui. Anche se politicamente siamo ovviamente un po’ distanti… Bossi si fida di lei? Con Bossi ho un rapporto quotidiano e vivace, ma se non ci fosse la fiducia, non potrei mai continuare a fare questo lavoro... Che rapporto ha con i suoi lettori? La Padania ha una storia lunga ormai 13 anni, con un rapporto molto forte con il territorio. Il nostro punto di forza è la garanzia di poter sapere, tramite il nostro quotidiano, tutto quello che accade dentro alla Lega. Ma c’è un rapporto consolidato anche con le istituzioni. Diciamo che è un po’ merito anche nostro se la politica del Carroccio è un po’ più vicina ai nostri elettori.


diario

19 febbraio 2010 • pagina 7

Secondo l’Istat, siamo arrivati a 60 milioni 387mila

I manifestanti hanno cercato di bloccare le trivellazioni

Aumenta la popolazione (grazie agli immigrati)

Nuovi scontri in Val Susa per la Tav, un ferito grave

ROMA. Nel corso del 2009 la

TORINO. Ancora tensione, in Val Susa, per i sondaggi della Torino-Lione. Numerosi manifestanti, circa trecento, hanno assediato la trivella che dalla mattina stava scavando in località Coldimosso. I «No Tav», tra cui un centinaio di antagonisti, hanno lanciato pietre e bastoni contro le forze dell’ordine, costrette a disperderli con una carica di alleggerimento. Negli scontri sono rimasti feriti due poliziotti e due manifestanti, un uomo e una donna. A preoccupare sono soprattutto le condizioni di Simone Pettinati, 25 anni, che nei tafferugli ha riportato un ematoma cerebrale post-traumatico. Il giovane si trova in prognosi

popolazione in Italia ha continuato a crescere, raggiungendo i 60 milioni 387mila residenti al primo gennaio 2010, con un tasso di incremento del 5,7 per mille. La popolazione in età attiva mostra un aumento, soprattutto grazie agli immigrati, di circa 176 mila unità: rappresenta adesso il 65,8% del totale. I giovani fino a 14 anni di età sono 53 mila in più, e rappresentano il 14% del totale. Le persone dai 65 anni in su risultano in aumento di 113 mila unità, e sono giunte a rappresentare il 20,2% della popolazione. I cittadini stranieri sono in costante aumento, e costituiscono il 7,1% del totale. Questi sono alcuni dei dati contenuti nelle stime, anticipate dall’Istat, sui principali indicatori demografici per l’anno 2009. E tra le cifre più interessanti, ci sono quelle sull’immigrazione: gli stranieri residenti in Italia ammontano a circa 4 milioni 279 mila al primo gennaio 2010, facendo così registrare un incremento di 388 mila unità rispetto al primo gennaio 2009.

Sempre secondo l’Istat, lo scorso anno la stima del saldo migratorio (la differenza tra il numero degli iscritti e il numero dei cancellati dai registri anagrafici) è stato pari a 360 mila unità in più dall’inizio dell’anno, per un tasso pari al 6 per mille, in calo rispetto al 2008, anno in cui il saldo migratorio è risultato pari a +434 mila unità con un tasso del 7,3 per mille. Gli ingressi dall’estero da parte di cittadini stranieri si mantengono dunque elevati anche nel 2009, ma risultano in calo rispetto ai due anni precedenti, forse a causa della crisi occupazionale che ha interessato il mercato italiano, sia in termini di calo dei posti di lavoro complessivi (-306 mila tra dicembre 2008 e dicembre 2009) sia in termini di crescita della popolazione in cerca di occupazione (+392 mila).

Un vertice “bilaterale” per i Patti lateranensi Il governo cerca di ricucire i legami di Oltretevere di Francesco Capozza

ROMA. Sono iniziati pochi minuti dopo le 16 di ieri i colloqui bilaterali tra l’Italia e la Santa Sede in occasione dell’anniversario dei Patti Lateranensi nella sede dell’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. Erano presenti il premier Berlusconi, accompagnato dal sottosegretario Gianni Letta e il Segretario di Stato vaticano, cardinale Tarcisio Bertone, accompagnato dai sostituti mons. Mamberti e Filoni. All’ambasciata sono arrivati anche il ministro degli Esteri, Franco Frattini, il Nunzio vaticano in Italia, monsignor Bertello, e il cardinale Attilio Nicora, presidente dell’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica, tutti ricevuti dall’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede Zanardi Landi. Alle 17 in punto, invece, sono giunti presso palazzo Borromeo i presidenti delle Camere, Renato Schifani e Gianfranco Fini, il presidente della Corte Costituzionale Amirante e, pochi minuti dopo, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano accompagnato dalla moglie Clio. I vertici dei due Stati al completo, riuniti per commemorare l’ottantunesimo anniversario dei Patti lateranensi e del Concordato tra Regno d’Italia e Santa Sede, firmati l’11 febbraio del 1929 da Benito Mussolini e dall’allora Segretario di Stato di Pio XI, il cardinale Pietro Gasparri. Al di là del cerimoniale e dall’occasione formalissima, l’incontro seguito da un fastoso ricevimento - di ieri è stata l’occasione particolarmente significativa per rivedere insieme Berlusconi, Letta e il cardinale Bertone, la cui triangolazione aveva subito nei mesi scorsi, quelli del caso Boffo, una evidente battuta d’arresto.

la Chiesa antagonista a quella facente capo al Segretario di Stato. Di più, nelle ultime settimane, da quando cioè Benedetto XVI aveva voluto vederci chiaro nella faccenda che aveva portato, lo scorso settembre, alle dimissioni del direttore di Avvenire, le due “fazioni” all’ombra del Cupolone si erano ancora più allontanate, dando vita ad una vera e propria guerra interna (che per poco non ha portato anche alle dimissioni del direttore dell’Osservatore romano, Gian Maria Vian).

Va da sé, quindi, che il fatto che il premier avesse riallacciato i rapporti con l’ala ruiniana della Chiesa, non poteva essere ancora letto come un riavvicinamento totale alla Santa Sede. Santa Sede che, e questo non è un mistero per nessuno, vede in questo governo il “male minore” rispetto all’ipotesi di un esecutivo di sinistra e radicale. Importantissima occasione quella di ieri, quindi, per un Berlusconi azzoppato dallo scandalo sulla Protezione civile e dai sondaggi in calo, per ricucire definitivamente i legami Oltretevere. Un’arma spendibile in piena campagna elettorale, con l’ipotesi abbastanza concreta di non «stravincere» come lo stesso premier vorrebbe, specie in una regione come il Lazio dove ad una candidata non propriamente espressione del cattolicesimo praticante come Renata Polverini, il centrosinistra oppone la laicissima Emma Bonino, vista come fumo negli occhi all’ombra del Cupolone. Una deriva laicistica che la Santa Sede è pronta a combattere con tutte le armi politiche a disposizione del potente segretario di Stato. Anche sbilanciandosi visibilmente - e questa è opinione riservatissima di chi ieri ha assistito ai colloqui tra Berlusconi e Bertone - a favore dei candidati governativi. Visto che di rievocazioni storiche stiamo parlando, qualcuno certamente ricorderà quando, alla vigilia delle elezioni politiche del 1948, con il Pci con il fiato sul collo alla Dc, Pio XII tuonò: «O con Dio, o contro Dio». La Dc, ovviamente, stravinse. Ma erano altri tempi.

Dopo il “caso Boffo” di nuovo insieme i vertici cattolici e quelli governativi. Con un occhio fisso sulle Regionali

Berlusconi, sempre accompagnato dal suo sottosegretario, nelle scorse settimane aveva incontrato l’ex presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Camillo Ruini, e dell’incontro entrambe le parti si erano dette «soddisfatte». Chi mastica un pò di cose vaticane tuttavia sa che Ruini - e con lui il suo successore alla guida dei vescovi italiani Angelo Bagnasco - fa parte di quell’ala del-

riservata all’ospedale Molinette di Torino. Pettinati è stato trasportato l’altro ieri sera alle 23,30 dall’ospedale di Susa a Le Molinette di Torino, dove ora è ricoverato in prognosi riservata. Dopo una Tac, i medici hanno stabilito che non era necessario un intervento chirurgico, ma questa mattina è stato predisposto un nuovo esame per valutare le sue condizioni di salute. Il giovane, aggiungono i medici, è lucido. Meno grave, invece, l’altra manifestante ferita, una donna di Villarfocchiardo di circa 40 anni. I sanitari dell’ospedale di Susa, dove è stata ricoverata nel reparto di chirurgia, parlano di traumi multipli alla testa e al naso.

Quelli avvenuti l’altra sera sono stati i primi scontri di una certa gravità, tra forze dell’ordine e No Tav, da quando nel mese di gennaio sono iniziate le trivellazioni genognostiche propedeutiche alla realizzazione della nuova linea ferroviaria Torino-Lione. Proprio in considerazione di ciò, per questa sera i «No Tav» hanno deciso di organizzare una fiaccolata che attraverserà l’intera Val Susa, per «ribadire il no alla Tav» e protestare contro «la gravità» degli scontri con le forze dell’ordine.


economia

pagina 8 • 19 febbraio 2010

Recessione. I dati del Pil sono negativi e la debolezza del nostro Paese rispetto all’Europa impone di ripensare certe scelte del governo

L’ombra di Zorba Draghi lancia l’allarme: i conti non brillano. E sull’Italia pesa l’incubo della crisi greca di Gianfranco Polillo ultimo grido d’allarme sugli sviluppi dell’economia italiana è stato lanciato da Mario Draghi. Parlando alla tradizionale assemblea del Forex, non ha usato mezze parole: «Il ritorno alla crescita è ancora fragile, segnatamente nell’area dell’euro. L’occupazione tarda a riprendersi. Le condizioni del credito alle piccole e medie imprese, tuttora stringenti, frenano la ripresa». Se questo è il contesto, la situazione italiana non può brillare. Siamo entrati nella crisi, dopo il fallimento della Lehman Brothers, con «un tasso di crescita basso, ai minimi europei» e con lo stesso ritmo stiamo camminando. Ci vorrebbe uno scatto di reni, ma «la perdita di competitività del Paese» dura da troppo tempo: «da un quindicennio». Diagnosi impietosa, anche se non da tutti condivisa.

L’

Su «Il Sole24 ore», di qualche giorno fa, Marco Fortis giungeva a conclusioni, se non oppo-

do una superiorità europea. Da un lato, Stati Uniti, Gran Bretagna e Spagna, con il loro “trittico magico” composto da “meritocrazia - liberalizzazioni - servizi”, dall’altro Italia e Germania. Maggiore sobrietà dei consumi, prevalenza del manifatturiero – anche se Fortis non lo cita – e risparmio. L’equivalenza, per la verità, regge solo fino ad un certo punto. L’indebitamento delle famiglie tedesche è molto superiore a quello italiana. Il manifatturiero, a sua volta, è molto più sviluppato e competitivo. La Germania presenta, infatti, un forte attivo della bilancia commerciale. L’Italia è in deficit. Differenze, forse secondarie, nel confronto tra le due sponde dell’Atlantico, ma significative quando si guarda al futuro. Nel prossimo quinquennio, secondo le previsioni del FMI, il surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti tedesca dovrebbe essere pari, in media, al 4,5 per cento del PIL. Per contro: il deficit italiano dovrebbe rag-

Gli economisti si dividono tra modello anglosassone e modello tedesco. E c’è anche chi, in vista della possibile ripresa, invita a puntare più sul mercato interno che sulle esportazioni ste, almeno divergenti. Non sopravvalutiamo – questa era la sua tesi, se abbiamo ben compreso – «il deficit di competitività del nostro paese sui mercati internazionali». Né stracciamoci le vesti se il copione degli anni passati, segnati da una bassa crescita relativa, si riproporrà nel momento della ripresa. Se e quando verrà: aggiungiamo noi. La forza dell’Italia è altrove. È nella solidità finanziaria delle famiglie italiane, nella parsimonia dei loro costumi, nel fatto che a un grande debito pubblico, non ne corrisponde uno privato altrettanto grande. Tesi pienamente condivisibile – quella della ricchezza finanziaria - visto che il fenomeno è stato più volte commentato sulle pagine di liberal. Il problema è capire se questa sia una condizione, al tempo stesso, necessaria e sufficiente. Fortis se la prende con il modello anglosassone, rivendican-

giungere quota 2,5 per cento: 1 punto in più rispetto al precedente decennio. Una differenza, come si vede, non da poco.

La forza finanziaria delle famiglie è quindi un ottimo paracadute, per contrastare gli effetti, specie di natura sociale, della crisi. Ma da sola non basta ad invertire quella tendenza – la perdita di competitività – messa sotto accusa dal Governatore della Banca d’Italia. Né è sufficiente a garantire all’Italia una collocazione adeguata negli equilibri internazionali. In un momento in cui, negli stessi Stati Uniti, per lo stress della crisi, almeno una parte dell’establishment politico – culturale si interroga sul “mondo post americano” ed ipotizza di liberarsi della “zavorra” europea, nella ricerca di nuovi equilibri planetari. Se questi sono i dati di fondo del problema, il tema dello sviluppo – di una sua possibile ripresa –

non può essere archiviato, specie per un Paese, come il nostro, che ha ancora problemi storici – il Mezzogiorno – da risolvere. Come ripartire quindi, utilizzando anche – o forse soprattutto – il grande volano delle famiglie e dei consumi interni? Per impostare correttamente il problema, si deve sgombrare il campo da un’altra tesi: quella dello stato stazionario. Nel secolo scorso robusti pensatori – da Marx a Keynes – teorizzavano, seppure per motivi diversi, un limite allo sviluppo delle forze produttive. Il primo lo considerava inevitabile, quale anticamera dell’auspicabile superamento del sistema capitalista. Il secondo come il semplice riflesso dell’eccesso di capitale che lo stesso sviluppo era destinato a produrre. La sua efficienza marginale si sarebbe progressivamente ridotta, fino ad annullare qualsiasi convenienza ad investire. L’esperienza americana, dagli anni Ottanta in poi, ha dimostrato quanto poco realistiche fossero quelle ipotesi. Il tasso di sviluppo del più forte paese occidentale è stato superiore a quello del precedente ventennio e uno dei maggiori tra le economie avanzate. Ecco perché bisogna non esagerare nelle critiche al modello anglosassone. Si butterebbe il bambino con l’acqua sporta, facendo riemergere impostazioni di stampo millenaristiche.

Ma torniamo all’Italia ed alla sua necessità assoluta di riprendere il sentiero della crescita. Come stanno andando le cose? Gli ultimi dati sono contraddittori. Da una lato abbiamo infatti una caduta improvvisa del ritmo di crescita del PIL, almeno nell’ultimo trimestre del 2009; dall’altro un qualche segnale di miglioramento tendenziale. La perdita di prodotto, rispetto al terzo trimestre del 2009, è stata dello 0,2 per cento. Fa impressione vedere i confronti internazionali. Nella zona dell’euro, l’Italia si colloca all’ultimo posto. Ed è più meno, in questa situazione, dal quarto trimestre del 2007. La situazione migliora se si analizza il cosiddetto “tendenziale”.Vale a dire: se il confronto non avviene trimestre dopo trimestre, ma

Secondo l’Isae, il rapporto tra deficit e pil sarà al 5,1%

Debito pubblico al 117,2% nel 2010 ROMA. Il rapporto deficit/pil si attesterà al 5,1% nel 2010 e al 4,6% nel 2011. È la stima fornita dall’Isae nel rapporto «Le previsioni per l’economia italiana». Il rapporto debito/pil, tornato a salire nel 2008 e nel 2009 (114,8% nella stima Isae), aumenterà al 117,2% quest’anno e al 118,2% nel 2011. Le dinamiche delineate, secondo l’Isae, consentirebbero di recuperare nel 2011 il 40% circa della perdita produttiva sperimentata nel biennio 20082009. «Anche nel nostro Paese spiega l’istituto l’economia è in lento recupero. Le irregolarità che caratterizzano l’Europa appaiono più accentuate in Italia, dove incidono anche alcune accidentalità di natura statistica (forte balzo del III trimestre corretto dall’arretramento nel quarto). Al di là degli alti e bassi, il sistema produttivo è collocato su un sentiero positivo, ma con una dinamica molto contenuta». Sul fronte dei consumi, l’Isae segnala che,

dopo il calo del 2009, quest’anno torneranno ad aumentare (+0,8%). «Il ritorno su un sentiero positivo del reddito disponibile nominale - si legge nel rapporto - continuerebbe a sostenere le spese delle famiglie. Nel 2011 si verificherebbe un’accelerazione della spesa dei consumatori (+1,1%), a riflesso di migliori dinamiche

nel mercato del lavoro». Secondo le stime anche gli investimenti recupereranno «un’evoluzione positiva nel 2010 (+0,8%) dopo le pesanti flessioni sperimentate nel precedente biennio». Nel 2011 poi la spesa per investimenti si rafforzerà toccando il 2,8%.


economia

19 febbraio 2010 • pagina 9

Nuova puntata nella guerra di nervi con Bruxelles, che non si fida e pretende più rigore

Ora Atene minaccia l’Europa: pronti a rivolgerci all’Fmi George Papandreou teme che le richieste dell’Ecofin finiscano per mettere in ginocchio il Paese e scatenare le ennesime rivolte sociali di Francesco Pacifico

ROMA. Altro che ritorno alla dracma. Il governo di Atene non esclude di chiedere l’intervento del Fondo monetario. Di affidarsi all’istituzione deputata per salvare le finanze degli Stati vicini al crack, nonostante l’Unione europea abbia già escluso questa evenienza e si accinga a chiedere misure più draconiane per tagliare il deficit: ulteriori tagli tra i 2 e 2,5 miliardi di euro.

sul corrispondente trimestre dell’anno precedente: espressione della tendenza di fondo dell’economia italiana. In questo caso il recupero, al pari di altri Paesi europei, è evidente. Negli ultimi due trimestri, l’economia italiana ha recuperato circa il 40 per cento della perdita di prodotto, che si è manifestata nei trimestri - ben 10 precedenti, cumulando una caduta di 8 punti. Siamo tornati, più o meno, al quarto trimestre del 2008.

Il trend si muove all’interno di un corridoio compreso tra la Germania, che ha recuperato il 50,3 per cento e l’Inghilterra, che ha fatto molta meno (solo il 39,3 per cento) strada. C’è inoltre da dire, che in Italia la caduta è stata molto più morbida anche se più prolungata. Da un punto di vista sociale è stato meglio: ha consentito alle famiglie di intervenire con minore affanno. Ma ai fini prospettici, restano le inquietudini. Non siamo di fronte ad un colpo venuto solo dall’esterno. Piove, invece, sul bagnato e questo alimenta una deriva allarmante. Se poi allarghiamo l’orizzonte, il quadro peggiora. Sullo sfondo è il caso greco – non a caso l’unico Paese che registra un tasso di crescita congiunturale inferiore a quello italiano – e le incognite che ne derivano per la tenuta del fronte Sud dell’Europa, di cui facciamo parte, e delle stesse sorti dell’euro. Purtroppo siamo nel periodo peggiore – quello preelettorale – per discutere seriamente di questi problemi. Ma, per favore, non abbassiamo la guardia.

Va da sé che se l’ipotesi si realizzasse, la Ue segnerebbe la maggiore crisi della sua giovane vita. Così come è chiaro che questa mossa rientra in una guerra di nervi, dove è ancora difficile capire chi tra la Grecia e l’Euroburocrazia riuscirà a imporre le sue ragioni all’altra. Ma è inutile dire che già il modo di far trapelare la notizia rappresenta l’ennesimo schiaffo del governo ellenico ai 27, accusati dal premier George Papandreou di fare confusione e di ritardare il salvataggio greco. Ieri mattina i giornali locali hanno raccontato con ricchezza di particolari una riunione tra il ministro delle Finanze, George Papaconstantinou, ed esponenti del suo partito, il Pasok. E i parlamentari socialisti si sarebbero calmati soltanto quando il ministro ha garantito loro di «non escludere il ricorso al Fondo monetario se le trattative con Bruxelles non vadano nel modo giusto e la situazione peggiori ulteriormente».Tanto da aggiungere: Se ci fossimo rivolti al Fmi, saremmo ora obbligati a prendere le stesse misure che ci chiede l’Ue, ma avremmo già in cassa 30 miliardi di euro». Martedì scorso, ospite a Mosca di Dimitri Medvedev, Papandreou ha incontrato il numero uno della Banca mondiale, Robert Zoellick, e discusso con lui e con il presidente russo della possibilità di chiedere aiuto al Fmi. Un vertice “casuale”, che non era piaciuto in molte cancellerie perché si è tenuto nelle stesse ore in cui l’Ecofin provava a mettere un freno alle speculazioni sull’euro. Tra i più critici pare ci sia stata proprio la cancelleria tedesca, stanca della poca trasparenza del governo di Atene. Il quale non nasconde che dietro i ritardi della Ue ci sia proprio la Germania, rea di «stare tirando pericolosamente la corda». A riprova del clima che c’è, la coalizione di estrema sinistra Syriza ha invi-

tato l’esecutivo a chiedere a Berlino «le mai pagate riparazioni di guerra tedesche, in risposta al miserabile gioco speculativo da parte dei loro politici e delle loro istituzioni». A ben guardare Papacostantinou non ha tutti i torti quando dice che, se fosse intervenuto il Fondo, «avremmo già in cassa 30 miliardi di euro». Il problema – ed è questo il vero nodo della questione – è che l’istituto guidato da Strauss Kahn imporrebbe ad Atene un piano di rientro più stringente. La obbligherebbe a tagli molto ampi su pensioni, salari e spesa pubblica, forte del fatto che chi si rivolge al Fmi, deve di fatto trasferirle tutti i poteri sul governo dell’economia. Tra quasi un mese l’esecutivo greco e i ministri finanziari dell’Ecofin si rive-

zia, «si temono disordini sociali se saranno approvate nuove misure nel breve termine. La situazione è molto difficile». Secondo il piano studiato dai tecnici della commissione, il governo di Atene dovrebbe aumentare l’Iva di uno-due punti percentuale, rispetto all’attuale aliquota del 19. Quindi si deve avere il coraggio di ritirare i bonus concessi ai dipendenti pubblici per un ammontare pari a un mese di salario e serve anche lanciare un piano di licenziamenti massicci nella pubblica amministrazione. Queste misure non piacciano perché oltre alla pace sociale minerebbero la ripresa, visto che le spese per i consumi coprono circa due terzi del Pil totale. Nelle prossime settimane questa telenovela dovrebbe comunque arrivare a una conclusione. Dalla sua l’Unione europea può sempre affidarsi all’articolo 126.9 del Trattato di Lisbona che le permette di commissariare l’economia di un Paese membro e di redigerne le politiche di bilancio in casi eccezionali. E quello che avviene in Grecia lo è. Senza dimenticare i rischi connessi al maquillage ai conti pubblici fatto negli anni scorsi. Ieri il ministro il ministro delle Finanze francese, Christine Lagarde, ha fatto sapere che Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione, sta verificando se le banche d’affari Usa, in particolare Goldman Sachs, hanno aiutato la Grecia a truccare il proprio bilancio, ricorrendo a operazioni di swap.

L’Unione europea potrebbe imporre tagli alla spesa e licenziamenti nel pubblico impiego per recuperare altri 2,5 miliardi di euro. E vaglia tutte le operazioni elleniche di finanza creativa

dranno per controllare se il piano di rientro ellenico – taglio al deficit da 4 miliardi di euro soltanto nel 2010 – abbia avuto l’avvio. Ma fino ad allora il clima è destinato a surriscaldarsi.

L’agenzia di stampa Dow Jones ha fatto sapere che sull’esecutivo arrivano nuove pressioni da Bruxelles per interventi ulteriori: tagli alla spesa pubblica e aumenti delle tasse in grado di far recuperare fino a 2,5 miliardi di euro. Papandreou avrebbero restituito al mittente gli ordini. Perché, stando all’agen-

Dal canto suo Atene può farsi forte dei 30 miliardi di euro di esposizioni verso la Germania, la quale non ha alcuna intenzione di rallentare la sua già lenta ripresa. Eppoi la sua richiesta non sono garanzie sulle future emissioni quanto prestiti a lungo termine, pari per 25 miliardi, in grado di accompagnare lo sviluppo e rafforzarsi verso Est. Intanto sta a guardare il Fondo monetario. Il suo portavoce, David Hawley, ha fatto sapere che «la Grecia non ha chiesto al Fondo sostegno finanziario, ma gli esperti dell’Fmi sono pronti a offrire l’expertise ed il supporto tecnico necessari. Un team era nel Paese a gennaio ed ha analizzato questioni relative all’amministrazione ed alla politica fiscale, alla riforma delle pensioni e alla preparazione del budget». Quindi know how e non liquidità, per la gioia di Bruxelles.


panorama

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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

La nuova famiglia si allarga alle «badanti» iamo il paese delle badanti. Da un bel po’ di anni, ormai. Nelle nostre città, grandi e piccole, nei nostri paesi, comuni, villaggi, un po’ ovunque ci sono queste donne, signore, ragazze che fanno le badanti. Vengono dall’Ucraina, dalla Romania, dalla Polonia, a volte dalla Bulgaria, dalla Moldavia e non sono viste né percepite come delle “extra-comunitarie”, ma quasi come delle persone di famiglia per le quali scatta un meccanismo privilegiato per una più veloce e giusta “integrazione”. Le badanti, infatti, non lavorano fuori casa, per strada, nei campi o in fabbriche incerte, bensì nelle nostre case. Il loro lavoro consiste nel 99 per cento dei casi nel “badare”ai nostri vecchi o a quelle persone che hanno bisogno di assistenza per le quali noi in famiglia non abbiamo tempo. La badante è semplicemente necessaria.

S

«Il Paese delle badanti» è il titolo di un libro di Francesco Vietti edito da Meltemi. È una ricerca sul campo che ha seguito passo passo la vita delle badanti e, in particolare, di Nadia che lavora a Torino e viene dalla Moldavia. Ha seguito la vita di Nadia a Torino e in Moldavia, con lei ha fatto il viaggio a ritroso: da Torino verso Ungheni, anzi verso un villaggio che si chiama Pirlita ed è talmente piccolo che sulla cartina non compare, ma si trova al confine tra la Romania e la Moldavia. Il titolo del libro lo si deve proprio a quanto dice Nadia: «Anche se sembrano molto diverse, in realtà Italia e Moldavia hanno una cosa in comune: tutte e due sono i paesi delle badanti. La Moldavia è il paese delle badanti perché tante persone partono per fare questo lavoro. Ma il paese delle badanti è anche l’Italia perché qui c’è tanto bisogno, tante possibilità di lavoro per noi, possiamo dire che tutte le famiglie italiane hanno bisogno di una badante. Dunque il collegamento tra i due paesi possiamo essere proprio noi, noi che facciamo su e giù con i pulmini, che siamo nate là ma che lavoriamo qui, che abbiamo un po’ della famiglia qua e un po’ là, che viviamo sia qua che là». Il lavoro della badante appare semplice e naturale, ma è apparenza. La badante di certo lavora: pulisce, veste, lava, fascia, medica, ascolta, controlla, veglia, stira, fa la spesa, cucina, tiene compagnia. I significati del verbo “badare”sono infiniti. In questi infiniti significati ci sono quelli della gentilezza, disponibilità, modestia, amicizia e poi c’è l’affetto, il calore, il conforto. Giustamente Francesco Vietti dice che il verbo badare sta a metà strada tra lavorare e amare. Dunque, è un lavoro che non conosce fine, sosta, riposo: la badante può badare perché non ha tempo libero e anzi il suo tempo coincide con il tempo della persona che accudisce. Non tutte le esperienze delle badanti vanno a buon fine, ma la percentuale è troppo bassa per diventare una statistica. La badante è invece “una di famiglia” e svolge quei lavori che una volta, e oggi sempre meno, erano svolti da donne italiane delle classi subalterne. La badante è quel “welfare nascosto” senza il quale l’Italia si fermerebbe.

Se la donna-gadget costa meno di un Rolex La corruzione rilancia una strana “questione femminile” di Gabriella Mecucci è un vero e proprio pluralismo nella corruzione. Il Belpaese è vivace e creativo, e se ne inventa ogni tanto una diversa. Questa volta assistiamo ad una formula a cui è stata aggiunto il pepe del sesso. Un po’, per la verità, ce n’è sempre stato, ma oggi è diventato dilagante. E poi non è solo questione di quantità, ma – diciamo così – di approccio. Ci sono le auto blu, ci sono i massaggi, ci sono le ville, e ci sono le donne. Tutte belle e disponibili, inviate da imprenditori senza scrupoli a politici o ad altissimi funzionari. Questi, stanchi per la faticosa impresa di gestire il potere, non sono più interessati al corteggiamento e alla “conquista”: ci vuole troppo tempo e troppa concentrazione. Senza contare il rischio di un rifiuto… Meglio trovarsi una bella ragazza, o magari due, nel letto senza dover perdere troppo tempo. Come gentile dono che col tempo frutterà, o come immediata contropartita per un favore ricevuto. La donna così diventa un benefit come tanti altri, e probabilmente nemmeno il più costoso.

C’

Una volta si mandavano in dono le schiave a re, imperatori e califfi. Se ne misurava l’altezza, il peso, si sceglievano bene le dentature, i capelli e gli occhi. Più l’insieme era bello e più serviva a coltivare l’amicizia del potente di turno. Qual è la differenza? È il ruolo della donna. Un tempo era privata di ogni e qualsiasi capacità di decidere. Adesso invece è d’accordo. Il mercimonio si fa in piena intesa con lei. Entrare in rapporto con un politico importante o un alto funzionario può far comodo anche a lei. Prostituirsi a questi livelli rende bene. Non è necessario farlo troppo spesso. Il più antico mestiere del mondo non è più un mestiere a tempo pieno, si può esercitare una volta ogni tanto. Può servire ad arrotondare i propri introiti, a concedersi qualche lusso. E poi, non si sa mai, può venir utile per la carriera. Dicono che così si può diventare anche parlamentari o ministre.

Sembra di essere tornati ai tempi lontani in cui si mandavano in dono le schiave a re, califfi e imperatori

Il corpo femminile è stato oggetto di mille umiliazioni: da quelle lascive e vecchio stile del casino, alle violenze subite da clienti e papponi sulle strade. Non era mai accaduto nella contemporaneità che la sua mercificazione avvenisse sotto forma di regalo al potente: in luoghi ovattati, dove il nuovo sultano arriva stanco dal lavoro e per rimettersi in sesto. Fra una doccia, un massaggio, e qualche leccornia, consuma – già che c’è – la sua ora d’amore. Il tutto gratis, paga l’impresa che ha ottenuto l’appalto. Alla fine paga la collettività. A ben guardare, come forma di corruzione non è nemmeno troppo cara. Finanziare un partito costa di più, ma quella è una vecchia storia. Oggi nessuno si sognerebbe di intascare tangenti per darle a una forza politica, o per investire in un progetto politico; i soldi uno se li prende tutti e subito per sé. Soldi o regali. E le donne sono un benefit che non costa nemmeno molto.Volete mettere con le cifre proibitive di un rolex o di un’auto?

Il cerchio si chiude. L’uomo perde lo spirito di avventura e di conquista e si trasforma in un sedentario e pigro utilizzatore finale di benefit comprati da altri. Coltiva una complicità con chi gli procura questo piacere proibito. La segretezza, infatti, è indispensabile. Nonostante la spudorataggine vigente, è sempre meglio che la moglie e i figli non lo sappiano. E poi se c’è lo scambio appalti-benefit, deve restare un fatto ben nascosto. Altrimenti entra in campo la magistratura. Quanto alle donne, dopo aver rivendicato «il corpo è mio», ora hanno deciso di gestirlo vendendolo al miglior offerente. E non si dica che tutto è già successo. No, questa è una novità bella e buona. La corruzione e la prostituzione cambiano a seconda delle epoche e dei luoghi. A noi è toccata questa. Sarebbe curioso cercare di capire se la donna-benefit, oltre a trionfare nel mondo imprenditoriale e politico, stia conquistando nuovi spazi anche in altri settori, tipo l’Università, il giornalismo, lo sport. Se insomma il fenomeno si sta allargando. Se un po’ovunque vanno nascendo piccoli sultani ai quali, per avere un piacere, si manda in regalo una donna bella e in carriera. Evviva.


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Una riflessione dopo la minaccia “al tritolo” del presidente del movimento “Italia colorata”, il marocchino M’Hamed Lekroune

Alla ricerca di un islam universale Il caso della moschea di Genova ricorda che l’integrazione non è (solo) affare politico di Giulio Battioni difficile spiegare ai ragazzi perché non ci permettono di costruire la moschea. Questa guerra tra poveri generata dalla Lega, ci ha portato a non riuscire più a controllare la rabbia dei ragazzi. Che è arrivata al massimo, tanto che potrebbero anche farsi saltare in aria». Firmato M’Hamed Lekroune, presidente del movimento politico “Italia colorata”. Le dichiarazioni del marocchino che si batte da ormai un lustro per il riconoscimento dei diritti civili e la libertà di culto dei musulmani in Italia sono per lo meno “al tritolo”, è il caso di dirlo, e superano i limiti della più elementare decenza democratica. Siamo a Lagaccio, Genova centro-est, in un quartiere popolare. Con un referendum, diverse migliaia di genovesi hanno espresso nei giorni scorsi la loro contrarietà alla edificazione di una moschea. Per contro, diverse centinaia di islamici insistono nel domandare l’apertura del luogo di culto che da molti sarebbe avvertito non come centro di spiritualità ma come tempio dell’islamismo radicale. Due osservazioni. La prima è una esortazione alla responsabilità politica. Il caso genovese è infatti l’ennesimo episodio in cui la complessità pluralistica e multireligiosa del mondo contemporaneo conferma la necessità di adottare un atteggiamento prudente e vigile, alla ricerca di una comunità di obiettivi tra tutti gli attori pubblici, le forze politiche,

«È

i rappresentanti della società civile e delle istituzioni. La seconda è invece un invito al coraggio intellettuale. Il caso genovese è infatti anche l’ennesima prova che il problema dell’integrazione sociale di collettivi tradizionalmente estranei al tessuto culturale occidentale, minoritari che siano, maggioritari che un giorno possano divenire, non è solo un problema politico. Se non è responsabile fomentare la xenofobia, d’altra parte non è responsabile neppure soprassede-

re o minimizzare. Il presidente di un’associazione politica che si permette la leggerezza di uno sfogo così volgare, l’agitazione di uno spauracchio che mai dovrebbe essere sfiorato, se da un lato non deve essere enfatizzato oltremisura, dall’altro non deve essere sminuito, né ambiguamente giustificato.

Non si tratta di rinfacciarsi le colpe di chi ha sparato per primo, come ha fatto l’assessore della Cultura del capoluogo ligure Ranieri, che ha rimproverato al presidente del Municipio centro-est, Siri, di aver paventato la «guerra civile tra religioni a Genova» e di aver soffiato sul fuoco del pregiudizio. Né ci si può arrampicare sugli specchi e limitarsi a constatare che il presidente di “Italia colorata” «non rappresenta la maggioranza democratica della comunità islamica». Antica repubblica marinara e porto franco aperto a tutte le umanità possibili, Genova non respira l’aria “antidemocratica”e “antireligiosa” della città che non vuole accogliere la comunità musulmana. Vero è, come ha sostenuto lo stesso Ranieri, che «dobbiamo lasciare spazio a tutti, anche agli abitanti di Lagaccio contrari alla moschea». È forse questo un non troppo ovvio punto di partenza dal quale muovere una riflessione strategica per una politica d’integrazione vera e veramente efficace. Il problema è politi-

«Prima o poi - ha dichiarato l’uomo - qualcuno potrebbe anche farsi saltare in aria per la rabbia...»

co, senza dubbio. Bisogna garantire a tutti, musulmani e non, stranieri e autoctoni, credenti o meno, che vogliano vivere legittimamente e legalmente nella comunità civile, a Genova come in ogni angolo d’Italia o d’Europa, il diritto a una vita dignitosa, il diritto alla salute come al lavoro, alla casa come allo studio, la libertà di associazione e la libertà religiosa. Il problema dell’integrazione, tuttavia, non è soltanto politico. Alcuni collettivi sociali, nel nostro caso islamici, hanno una identità culturale problematica e non sempre disponibile alla reciprocità. La grave superficialità delle parole del presidente di “Italia colorata” non devono indurre le malelingue a battere sul tamburo della nervosa e semplicistica discriminazione alterofoba, né all’indiscriminata esclusione sociale. Il mondo islamico, tuttavia, deve reagire, mostrarsi capace di isolare i violenti, dare prova di volersi realmente integrare attraverso la costruzione di leaderships adeguate alle sfide dell’umana società interculturale. Il mondo islamico deve manifestare con decisione e chiarezza la volontà di non rigettare i valori fondamentali dell’umanesimo, della libertà e della universale dignità della persona umana, alla cui formazione ha indirettamente contribuito, respingendo con iniziative simboliche efficaci l’ombra del fanatismo religioso, dell’ideologia del terrore e del fondamentalismo politico.

Successi. È la Clerici l’indiscussa trionfatrice di questa nuova edizione del Festival della canzone

Elogio dell’Antonella nazionale di Gaia Miani dunque la trionfatrice di queste settimane è l’Antonella nazionale. La Clerici sbanca l’audience superando la Sanremo di Bonolis che, fra le recenti, era quella andata meglio. In seconda serata ha superato il 43 per cento e per tutte le altre reti non c’è stata storia.

E

Conduzione sobria, senza buttarsi nelle gag o nelle scene da cabaret, abiti improbabili ma gran sorriso simpatico, Antonellina facendosi largo fra veline anoressiche ed escort fascinose ha imposto il suo stile. Non è agile come una libellula, né aggressiva e sopra le righe come la Ventura e Bonolis, né mostro sacro come Mike e Pippo. È una mamma d’Italia che conserva le forme rotonde di un donna che ha avuto da poco un figlio. Cosa che in realtà le è capitata davvero e che lei ha raccontato con garbo in un libro uscito in questi giorni. In mezzo alla ridondanza di effetti speciali in cui siamo immersi, con la politica che diventa spettacolo e lo spettacolo che invade la politica, lei ha scelto l’effetto normale. È

la signora della porta accanto. E poi le giova quel ricordo, che porta con sé, di soffritti e di ricette improbabili che è ancora fresco fresco: le zaffate della Prova del cuoco hanno insaporito anche Sanremo. La trionfatrice del Festival della canzone italiana è solo lei con la sua “banalità dello spettacolo”. Le iperboli alla gente danno

lodia italiana, ma il festival dello spettacolo televisivo.

E in epoca di crisi, con gli operai che si arrampicano sui tetti per difendere il posto di lavoro, con la Fiat che vuole mollare Termini Imerese lasciando la Sicilia ancora più deindustrializzata, con le tasse alle stelle, l’italiano medio che si rifugia la sera nel potere del telecomando, vuole respirare un clima di calore, di buone cose di pessimo gusto, di “casalinghitudine”. Antonellina, conduzione non invadente, simpatica, professionale, mai una parola di troppo, non elegante ma non volgare, in questo periodaccio, è proprio quello che ci vuole. Magari quando arriva la ripresa e torniamo a richiedere donne semianoressiche, giovanotti muscolosi, fisici da vetrina. Sanremo in fondo è lo specchio di uno stato d’animo del Paese.

È sobria, simpatica, professionale, mai una parola di troppo, non elegante ma non volgare. E in epoca di escort e crisi, era proprio quello che ci voleva fastidio. Anche il principino che canta il suo amore per l’Italia non è piaciuto. Piace invece una regina elegante e bellissima come Ranja di Giordania.

E le canzoni? Per il momento niente di niente. Le emozioni che davano i Modugno, i Celantano e le Vanoni sono finite per sempre. Sanremo non è il festival della me-


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L’Italia unica “pecora nera”

Presidente Berlusconi, perché solo lei non lo incontra? di Giancristiano Desiderio l Dalai Lama ha incontrato i maggiori capi di Stato e di governo del mondo occidentale, ma non Silvio Berlusconi. L’Italia non ha saputo tenere la testa alta e la schiena dritta, purtroppo. Il capo spirituale del Tibet rappresenta nel mondo la tragica situazione del suo popolo e della sua nazione, ma la Cina, che nel 1959 invase il Tibet e tuttora lo schiaccia sotto il suo tallone di ferro e sangue, nega la stessa esistenza della “questione tibetana”. Non incontrare il Dalai Lama per un capo di governo equivale a non riconoscere pubblicamente la tragedia di quel popolo. Forse è bene ricordare di cosa stiamo parlando: 1 milione e 200mila tibetani, un quinto della popolazione, sono morti. Migliaia di prigionieri religiosi e politici vengono detenuti in campo di lavoro forzato: lì la tortura è una pratica. Sapete che cos’è il thamzing? I tibetani sono costretti ad autoaccusarsi di crimini non commessi e ad autodegradarsi. Le donne tibetane sono soggette a sterilizzazioni forzate e a procurati aborti: la Cina vuole che i cinesi in Tibet siano sempre più numerosi e i tibetani sempre meno.

I

La “questione tibetana” è lontana. Ma quando un capo spirituale come il Dalai Lama viaggia per il mondo come rappresentante del suo popolo sofferente e, forse, prossimo all’annientamento, come rappresentante del governo tibetano in esilio - ha la sua sede a Dharamsala in India - e incontra altri governi e chiede di incontrare altri governi per far meglio conoscere la tragedia e mostrare anche una possibile via di uscita, la “questione tibetana” non è più lontana. Non è più ignota. E non la possiamo ignorare. Il presidente Sarkozy non l’ha ignorata e, anzi, ha risposto a testa alta all’altolà della Cina. Il presidente americano ha fatto la stessa cosa accogliendo alla Casa Bianca il Dalai Lama. Si è detto e scritto, e si leggerà oggi sui giornali, che Obama non ha accolto il Dalai Lama nel suo studio ovale. Ma ciò che conta è la Casa Bianca. Ciò che conta è che l’America, che ha stretto rapporti diplomatici e commerciali con la Cina, non si sia tirata indietro. La “questione tibetana”è una questione mondiale e lo è ancor di più quando la Cina vuole che il mondo l’Europa, gli Usa - abbiano rapporti con Pechino. Roma tende ad essere troppo provinciale. Anche noi abbiamo stretto rapporti commerciali con la Cina. I nostri imprenditori e le nostre aziende vanno spesso a Pechino. Anche il nostro governo, i nostri ministri si son fatti vedere dalla parti del Dragone. Proprio questo ritrovata “via cinese” ha reso problematici i rapporti ufficiali tra il governo e lo Stato italiano e il Dalai Lama. Eppure, la posizione deve essere rovesciata: proprio perché l’Italia - e non solo - ha stretto relazioni economiche e commerciali con la Cina si deve accogliere a braccia aperte il capo spirituale del popolo tibetano che la Cina umilia e uccide da mezzo secolo. Berlusconi, che è alla guida del “popolo della libertà”, avrebbe dovuto accogliere il Dalai Lama a Palazzo Chigi.

Al Dalai Lama, Obama esprime «forte sostegno per la protezione dei diritti

Le relazioni peric di Vincenzo Faccioli Pintozzi

incontro tanto atteso, alla fine, si è svolto. Ma nonostante i due leader e premi Nobel per la pace abbiano parlato - come dichiarato dopo l’incontro - di “pace e valori umani”, il governo cinese non l’ha presa bene lo stesso. E non deve aver aiutato neanche l’affermazione su cui, c’è da scommettersi, oggi i cinesi si scateneranno: «Forte sostegno - esprime il presidente americano - alla protezione dei diritti umani dei tibetani in Cina». Si giustifica dunque la festa che si è svolta di notte a Rebkong, che i cinesi chiamano Tongren. Non potendo radunarsi in pubblico, a causa delle pesanti repressioni che il governo di Pechino impone alla Regione autonoma del Tibet, i monaci buddisti che vivono nel luogo di nascita del Dalai Lama hanno atteso il buio per celebrare l’incontro fra il loro leader e il presidente americano Barack Obama. Non importa, dicono a liberal, «con quale forma verrà ricevuta Sua Santità. Il fatto che anche questo governo americano non si faccia intimidire dalla Cina vuol dire moltissimo per noi». A parlare è uno degli abati di un monastero della contea tibetana di Amdo, che per motivi di sicurezza chiede l’anonimato. La zona in cui vive è sotto il ferreo controllo della polizia sin dagli scontri di Lhasa, avvenuti nell’estate del 2008: tuttavia, alla fine dell’incontro, i monaci sono riu-

L’

sciti persino a sparare dei fuochi di artificio. Le speranze riposte nel meeting riguardano più che altro la percezione internazionale della causa tibetana: «I cinesi parlano sempre molto male di noi tibetani, dicono che sia-

Dopo Taiwan, Google e debito pubblico, l’affronto compiuto da Washington leva il sonno ai leader del regime di Pechino. Che meditano vendetta e vendono buoni americani del Tesoro al Giappone. Il Tibet, invece, festeggia mo riottosi e indipendentisti. Ma questo non è vero, e il mondo lo deve sapere. Speriamo che questo incontro serva a far capire che noi vogliamo soltanto la pace».Tuttavia, l’interlocutore non si lascia sfuggire un’occasione ghiotta: «D’altra parte, i cinesi sono un miliardo e trecento milioni e non hanno neanche un Premio Nobel. Noi siamo sei milioni, e il nostro leader ha vinto quello per la Pace. Vorrà dire qualcosa, no?». Tuttavia, non si può ignorare il basso profilo

deciso dalla Casa Bianca per questo importante appuntamento nell’agenda di politica internazionale del presidente Obama. Il primo incontro da presidente con il Dalai Lama ha provocato e provocherà sicuramente proteste da parte di Pechino, che è sempre più ai ferri corti con Washington per controversie che riguardano il commercio, le valute, la vendita di armi americane a Taiwan e la censura su Internet. Con le due gigantesche economie sempre più interconnesse, si ritiene poco probabile che le tensioni sfocino in scontri: ma questo non toglie che le linee di confine possano diventare estremamente pericolose. Soltanto nelle ultime settimane, le due diplomazie sono state messe a dura prova. La Cina è insorta contro l’ approvazione da parte del governo di Washington della vendita a Taiwan di armamenti sofisticati per un valore di 6,4 miliardi di dollari. Pechino rivendica la sovranità sull’ isola, che è indipendente di fatto dal 1949, e non ha mai apprezzato il “Taiwan Defence Act”, la legge del Congresso che impone alla Marina Usa di difendere l’isola da aggressioni esterne.

E, secondo il governo taiwanese, Pechino ha oltre mille missile puntati contro l’isola. Sul piano internazionale il punto più delicato in questo momento è il disaccordo sul modo nel quale affrontare la questione del


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Il governo tibetano in esilio vuole soltanto libertà religiosa

«Anche senza foto, è un buon inizio»

Parla il rappresentante del Dalai Lama presso l’Unione europea: «Presto altri viaggi negli Usa» di Antonio Picasso i questo incontro fra Sua Santità il Dalai Lama e il Presidente degli Stati Uniti «vogliamo che siano evidenziati due punti importanti», dice Tseten Samdup Chhoekyapa, a capo della Rappresentanza del Dalai Lama presso l’Unione Europea, con sede a Ginevra. «Prima di tutto noi non siamo un movimento di indipendenza nazionale. Seconda cosa: la Cina, al di là delle polemiche di questi ultimi giorni, deve prendere atto che l’intera comunità internazionale riconosce l’identità tibetana, che resta comunque sotto la giurisdizione di Pechino. Ne consegue che anche quest’ultima debba fare altrettanto». Contattato telefonicamente, il dottor Chhoekyapa ci spiega che la visita del Dalai Lama a Washington non deve essere travisata. «Quella di Sua Santità non è un’azione politica». Del resto Barack Obama non è il primo Presidente Usa a incontrare il Dalai Lama. Anzi, in un’occasione precedente George Bush si espose in maniera molto più esplicita in favore del Tibet, suscitando davvero l’indignazione di Pechino.Tre anni fa, l’allora inquilino della Casa Bianca consegnò alla massima autorità spirituale del buddhismo tibetano la Medaglia del Congresso, cioè la più alta onorificenza civile degli Stati Uniti. Questa volta la linea di basso profilo tenuta dalla Casa Bianca impedisce agli osservatori, almeno quelli occidentali, di parlare di un summit ufficiale fra i due leader, bensì di un incontro tra due personalità popolari a livello mondiale.

D

umani dei tibetani in Cina»

colose

programma nucleare dell’Iran. Ovviamente, poi, le questioni economiche e finanziarie sono il nodo principale del rapporto fra i due giganti. Nodo che non sarà facile sciogliere, e che il Dalai Lama non aiuta ad allentare. Tuttavia, e questo è un dato che aiuta sempre, una netta maggioranza di americani crede che il Tibet debba essere libero ed indipendente, anche se rimane consistente la percentuale di chi crede che per gli Stati Uniti sia più importante tutelare le buone relazioni con Pechino che prendere posizioni in difesa dei tibetani. Lo dice un sondaggio realizzato dalla Cnn, che mostra come il Dalai Lama sia una figura molto popolare e rispettata negli Stati Uniti: il 56 per cento degli intervistati ha un’opinione favorevole su di lui e solo il 18 per cento dichiara di averne una negativa. E se i tre quarti degli intervistati crede che il Tibet debba essere indipendente ed il 53 per cento considera più importante per gli Stati Uniti prendere una posizione netta sui diritti umani che avere buone relazioni con Pechino, per un consistente pragmatico 44 per cento queste relazioni sono importanti. Più importanti della difesa dei diritti dei tibetani, affermano i fautori della realpolitik. Nel frattempo, Pechino continua ad attaccare: non appena il Dalai Lama ha posato il piede all’interno della Casa Bianca, una nota del ministero degli Esteri cinesi ha definito l’incontro «un grave danno» per i rapporti bilaterali. Come da copione.

Dall’alto, le proteste di Lhasa dell’estate del 2008; la facciata della sede di Google a Pechino; i missili americani inviati a Taiwan; un broker di Shanghai. A destra, uno dei pochi rappresentanti del Dalai Lama all’Ue

o a Los Angeles. Per la maggior parte purtroppo sarà impossibile sostenere un viaggio così oneroso per omaggiare Sua Santità». Il responsabile della Rappresentanza del Tibet a Ginevra valuta comunque positivamente la visita di ieri a Washington.

«Da una parte dimostra che il nostro lavoro procede sulla strada giusta. Dall’altra significa che gli Stati Uniti sostengono la nostra campagna». «Il popolo tibetano è un’identità che fa parte della Cina e come tale Pechino deve riconoscerla. Quando parliamo di autonomia, facciamo riferimento alla possibilità di esprimere il nostro pensiero religioso e spirituale, senza il timore di essere perseguitati come dissidenti. Quando chiediamo la libertà economica, lo facciamo per il bene del nostro popolo, che è rimasto vittima del comunismo maoista e oggi resta escluso dal sistema produttivo nazionale cinese». L’analisi di Chhoekyapa è cristallina e poggia su elementi concreti. Quando infine gli chiediamo se il Dalai Lama non abbia paura delle ritorsioni che sarebbero previste sul popolo tibetano da parte delle Autorità cinesi, proprio come reazione all’incontro di ieri con Obama, l’ottimismo di Chhoekyapa si fa ancora più forte. «La Cina deve rendersi conto di quello che sta succedendo nel mondo. Il Tibet è una realtà culturale e spirituale non riconosciuta ormai soltanto da Pechino. Spetta al suo governo cambiare atteggiamento e accettarlo non come un nemico, ma una ricchezza per l’intero Paese». Da Ginevra Chhoekyapa torna quindi a ripetere: «Noi siamo in favore del riconoscimento dell’autonomia tibetana, non dell’indipendenza del Paese». Una precisazione, questa, che lascia intendere che anche il Dalai Lama, dall’alto della sua spiritualità, disponga di acume politico e per questo capisca la scelta di Obama di incontrarlo sì, ma senza la visibilità che spetterebbe a Sua Santità. In una situazione in cui gli Usa sono impegnati a evitare altre frizioni con Pechino, il governo del Tibet in esilio è disposto a rinunciare alla sua identità politica. «Il risultato comunque non cambia. Sua Santità si è incontrato con il Presidente Usa. Il nostro scopo è stato raggiunto».

Parlando di autonomia, facciamo riferimento alla libera espressione del nostro pensiero religioso e spirituale

«Autonomia, libertà di espressione, quindi religiosa e crescita economica. Questi sono i punti del nostro impegno civile», aggiunge Chhoekyapa. «Ed è per questo che il Dalai Lama si incontra frequentemente con i rappresentanti dei governi occidentali. Ieri è stato il turno degli Usa, poi seguiranno altre occasioni di dialogo». Sempre a Washington è prevista nei prossimi giorni la visita della piccola rappresentanza dei tibetani che vivono negli Stati Uniti. «Si tratterà di un gruppo comunque ridotto», spiega Chhoekyapa. «La nostra comunità laggiù è composta solo da 9 mila membri. Molti di loro vivono in Florida


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iente è per caso. Proprio nel giorno in cui Barack Obama incontra il Dalai Lama, tutti i giornali cinesi aprono commentando, ovviamente in modo positivo, la decisione di Pechino di liquidare una buona parte dei suoi investimenti in buoni del Tesoro degli Usa. Una scelta che è sembrata una sfida nei rapporti tra le due superpotenze ed è stata approvata anche dall’establishment: «La Cina ha scelto la giusta strategia nel ridurre drasticamente gli investimenti in titoli di stato americani», è stato il commento di Liu Yuhui, economista dell’Accademia di Scienze Sociali (Cass), alla decisione di Pechino di non essere più il primo finanziatore del debito pubblico americano. Liu ha aggiunto che la decisione è stata corretta anche considerando che non ci sono segnali di ripresa del dollaro, debole da ormai lungo tempo. «Il grosso debito americano e i tassi di interesse pari a zero hanno eroso il valore dei bond americani», ha invece detto Cao Honghui, direttore delle ricerche finanziarie di mercato della Cass.

N La vendetta

Ridotto l’investimento in Buoni del Tesoro americani

di Pechino si abbatte sul debito pubblico Usa di Alessandro D’Amato

Già nel marzo dello scorso anno, il premier cinese, Wen Jiabao, aveva dichiarato di essere «molto preoccupato» della situazione dei titoli americani e aveva detto di volere delle rassicurazioni circa la sicurezza degli investimenti del suo Paese negli

Usa. La Cina ha tagliato la propria quota di Treasury Bond portandola a 755,4 miliardi di dollari dai 789,6 miliardi di novembre. Ora è il Giappone a guidare la classifica dei maggiori investitori del Paese di Obama, avendo aumentato la sua quota di 11,5 miliardi elevandola a 768,8 miliardi di dollari rispetto ai 757,3 del mese prima, mentre la Gran Bretagna e il Brasile hanno cominciato ad acquistare massicciamente T-Bond in quella che potrebbe sembrare un’operazione di “ricopertura” eterodiretta da Washington. La mossa cinese, però, potrebbe essere stata dettata soltanto da input economici, anche se la sua pubblicizzazione, magari soltanto per fini propagandistici, ha finito per legarsi alla visita del Dalai Lama: Alan Ruskin, strategist di Rbs, interpretava ieri in un commento rilasciato al Financial Times proprio con la necessità di diversificare dopo la “saturazione” di acquisti di titoli di debito durante la crisi. Anzi: c’è chi ci vede persino un segnale positivo, visto il carattere prettamente “difensivo” dei Treasury Bond. Sarebbe un segnale che i cinesi credono sempre più nella ripresa mondiale, oltre ad avere meno fiducia nel Tesoro americano: per questo hanno deciso l’operazione. Ma c’è anche da dire che al disinvestimento nel settore pubblico non ha fatto eco l’uscita da quello privato: il fondo sovrano del governo di Pe-

Analisi. Il modello maoista non è scomparso: è stato soltanto trasformato in un capitalismo schiavista. Da cui si può fuggire

Se San Giorgio parla con il Drago Manuale etico per chi vuole fare affari con la Cina senza perdere la faccia l motore Google, simbolo stesso della “ricerca” quindi di quella libertà di comunicazione che oggi Internet consente all’uomo comune (tanto che nell’inglese quotidiano d’America si è ormai intronizzato il neologismo to google per intendere “navigo il web in cerca di quel che mi serve”), viene bandito dalla Cina neopostcomunista per paura che le persone si parlino. Gli uiguri musulmani sono perseguitati ogni dì dalle guardie rosse e ogni dì si stringono più forte attorno alla loro leader morale, Rebiya Kadeer. Lo scrittore Liu Xiaobo, 68 anni, condannato a 11 anni per “sovversione”, si presenta alla Corte d’appello di Pechino, gl’impediscono di difendersi e il suo memoriale finisce su queste stesse pagine, nell’edizione di venerdì 12. Succede tutto questo, quotidianamente, e allora è più che legittimo domandarsi: ma il cosiddetto mondo libero che fa? Non abitiamo più, infatti, nel passato dei blocchi contrapposti, irriducibili epperò immobili in una logorante guerra fredda

I

di Marco Respinti di posizione. Non siamo più ai tempi in cui il socialcomunismo spadroneggiava e i suoi avversari apparivano talvolta inebetiti e comunque incapaci di qualsiasi reazione costruttiva di libertà autentica. Non c’è più, insomma, il clima artefatto della menzogna in cui al comunismo internazionale ci si credeva a prescindere.

P e r c h é i l m o n d o l i b e r o non approfitta delle mutate condizioni globali per abbattere su se stesso quell’ultimo mattatoio mostruoso e liberare i milioni di persone che ancora ne patiscono quotidianamente gli orrori? Per sincerarsi di essi basta sfogliare i dossier elaborati dalla meritoria Laogai Research Foundation, diretta a Washington dal dissidente Harry Wu (alias Wu Hongda), classe 1937, 19 anni di lavori forzati, e prodotti anche in italiano grazie alla Laogai Research Foundation Italia (www.laogai.it), infaticabilmente diretta a Roma da Antonello

“Toni”Brandi. Ora la bugia, creduta da troppi, che vale il lasciapassare mondiale agli ideocrati cinesi è che il regime là vigente oggi non sia affatto più marxismo-leninismo-maoismo. Che sia invece capitalismo, anzi turbocapitalismo, persino anarco-capitalismo, insomma laissez-faire selvaggio. Che tutto sia cioè finito nel mercato, che il profondo rosso e il rosso antico cinesi siano oramai irrimediabilmente sbiaditi e che i danni al popolo che Pechino infligge ora siano “di destra”, “liberali”, “occidentali”. Ecco, il finire per riuscire a farlo credere sostanzialmente a tutti è stato il gran colpo da maestro sferrato al mondo dalla dirigenza cinese: ma un colpo perfettamente leniniano, cioè tattico, due passi avanti e uno indietro, che fare? Rifare, ristrutturare per non soccombere, Nuova politica economica, perestrojka stavolta riuscita, autofinanziamento, fund-raising e marketing da manuale, genio militare alla Sun Tzu, strategia

di sopravvivenza. La Cina di oggi, basta studiarla, è perfettamente in linea con la Cina rossa di sempre. Ha solo mutato quel che bisognava mutare, paradossalmente realizzando l’intuizione del maestro delle destre, Edmund Burke (1729-1797), per il quale conservare significa saper abbandonare quel che più non serve.

La Cina maoista si è riciclata attraverso una dirigistica gestione del proprio capitale di rapina onde pagarsi di che perpetrare sempre e comunque crimini aberranti. Nella Cina di oggi si ammazza annualmente un numero di “contro-rivoluzionari” proporzionale al fabbisogno di organi umani espiantati dai cadaveri venduti al mondo, si costringono le coppie all’aborto dopo il primo figlio, si cerca pure di sterilizzarle, si abbandonano le bambine al proprio destino perché meno utili nel lavoro coatto e, se si riesce, le si elimina preventivamente nel grembo delle madri con logica perfettamente eugenetica. Nella Cina di oggi s’incarcera


prima pagina chino (China Investment Corporation) è diventato azionista (di minoranza) della créme delle grandi imprese a stelle e strisce: Apple, Citigroup, Coca Cola, Bank of America, Visa, Johnson & Johnson.

Non è una ritirata, anche se tra Cina e Stati Uniti di altri motivi di contrasto ce ne sono: gli Usa accusano la Cina di tenere artificialmente basso il tasso di cambio della sua valuta, lo yuan, favorendo le esportazioni e la crescita del suo già enorme

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vernativi sono calati di 500 milioni di dollari, il debito pubblico toccherà quota 1560 miliardi e la domanda di Treasury Bonds, negli ultimi tempi, è in chiara difficoltà. Mentre Obama dice che vuole ridurre il debito, se la marcia degli investimenti esteri continuerà così gli americani saranno costretti a offrire un tasso di interesse maggiore per attrarre capitali, portando così a stressare ancora il bilancio. Preoccupazioni infondate, per ora, secondo Gregory Daco, economista di Ihs Global In-

La mossa cinese è un segnale politico alla Casa Bianca, ma è dettata anche da ragioni economiche: diversificare i suoi titoli di riserva. Ormai è il Giappone il Paese che guida la classifica dei principali investitori stranieri negli Stati Uniti avanzo commerciale. I due Paesi hanno in corso dispute davanti all’ Organizzazione mondiale del commercio (Wto) su una serie di settori - tra cui l’acciaio, l’alimentare e alcune materie prime - accusandosi l’uno con l’altro di pratiche protezionistiche. Gli Usa lamentano anche la scarsa protezione della proprietà intellettuale da parte di Pechino. Dall’altra parte, però, c’è l’America. Dove nel solo 2009 gli investimenti stranieri in bond go-

senza garanzie né ragione, si processa sommariamente, non si fornisce difesa, si tortura, si sevizia, si perseguita, si ammazza, si discrimina razzisticamente. Nella Cina di oggi non esiste libertà vera di credo, di parola, di stampa, di opinione, di religione. Nella Cina di oggi vige un sistema concentrazionario immane, fatto di centinaia e centinaia di campi d’internamento o di lavoro forzato, i tristemente noti laogai, in cui le vittime, spessissimo completamente innocenti, servono il regime come bestie da soma, producendo quella mano d’opera gratuita poiché schiavistica i cui prodotti moralmente ed economicamente viziati avvelenano poi il resto del mondo, ma che molte ditte occidentali acquisiscono di buon grado giacché a basso prezzo.

Nella Cina di oggi, insomma, il totalitarismo conosce una nuova primavera. «Nel mondo oggi molti credono che i diritti umani e la libertà di espressione siano cose belle, ma che su tutto debba avere il sopravvento la realtà economica», mi dice Toni Brandi. «Ecco, riguardo alla “questione Cina” peggio di così il problema non potrebbe essere posto. Diritti umani ed economia sono infatti due realtà strettamente legate.Tutto quanto è immorale, cioè, si rivela prima o poi controproducente sul piano economico». Brandi cita le regole stabilite dell’Organizzazione mondiale del commercio per consentire ai Paesi del mondo di difendersi dal dumping (la vendita di beni o di servizi su un mercato estero a un prezzo inferiore a quello di vendita o persino di produzione dello stesso prodotto sul mercato di origine) e della sovvenzione pubblica, ma aggiunge che ciò non previene il cosiddetto “dumping sociale” praticato da regimi, come la Cina, che impiegano industrialmente il lavoro forzato e il lavoro minorile per aumentare la competitività. «Se pure esistono», precisa Brandi «strumenti elaborati dal Gatt (l’Accordo generale sulle tariffe e il commercio) appositamente diretti contro il lavoro forzato, oggi un paese come la Cina se ne fa tranquillamente beffe. Lo fa mantenendo sul proprio territorio una rete vastissima di almeno 1400

campi dove milioni di persone vengono quotidianamente costrette a lavorare anche fino a 18 ore al giorno per il puro vantaggio economico del regime e di numerose imprese sia cinesi sia internazionali che in quell’inferno terrestre investono indisturbate». Recentemente, grazie all’alacre opera di lobbying svolta da Peter E. Müller, rappresentante ufficiale in quella sede della Laogai Research Foundation, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione riguardante l’etichettatura di origine dei prodotti immensi sul mercato internazionale. La Laogai ha

Dietro il boom c’è anche l’economia del laogai: nei campi di lavoro forzato i dissidenti forniscono mano d’opera a costo zero i cui prodotti avvelenano i mercati di tutto il mondo. E i dazi colpiscono i Paesi occidentali bloccando libri, dvd e prosciutto di casa nostra pure chiesto al Commissario europeo per il Commercio di sospendere il sistema di agevolazioni daziarie per la Cina dal momento che sfrutta il lavoro forzato e quello minorile per l’export. In Italia sta minuziosamente denunciando questa situazione intollerabile la Coldiretti. Danilo Merz, direttore della Coldiretti del Trentino, denuncia infatti che «molti laogai producono nel campo agro-alimentare ed alimentano le importazioni cinesi in Italia e in Europa». Inoltre, la legge varata in dicembre per proteggere il made in Italy richiede l’etichettatura obbligatoria dei prodotti del settore tessile, dell’abbigliamento, dell’arredo domestico, delle calzature e della pelletteria, tutti comparti dove l’import dai laogai è accertato e fortissimo. «Il nodo», torna a osservare Brandi, «dove s’intrecciano etica ed economia è questo. L’adultera-

sight, visto che i titoli pubblici americani sono ancora appetibili e l’alternativa, ovvero l’Europa, non gode certo di ottima stampa visto come sta gestendo l’emergenza Grecia e la questione dei Pigs in generale. Insomma, per adesso gli Stati Uniti possono ancora dormire sonni tranquilli. Ma la paura di vedere messa in discussione la loro leadership mondiale comincia ad esserci. E con qualche ragione.

zione del mercato conseguente alla violazione dei princìpi etici comporta slealtà palesi, corse al ribasso, peggioramento evidente delle qualità, ragionevolmente pure corruzione, quindi disoccupazione e spostamento di fabbriche in luoghi “concorrenziali”, nonché bancarotta delle imprese». E «chi, magari a ragione, tuona ora contro il protezionismo anzitutto dimentica che proprio un Paese come la Cina applica, contrariamente agli accordi raggiunti in sede di Wto, forti dazi sulle importazioni, come nel caso del settore automobilistico e del comparto agro-alimentare, senza dimenticare di come Pechino abbia bloccato le importazioni di prodotti quali i libri, i dvd e il prosciutto di casa nostra».

Alla faccia del libero mercato, insomma. In Cina non esiste diritto di proprietà, esiste un sistema rigidamente controllato e centralizzato che consente esclusivamente a una certa fascia di cittadini di possedere i mezzi per giocare d’azzardo sul tavolo di un mercato sfigurato e quindi di perpetuare i meccanismi caricaturali e perversi qui descritti. In Cina non vi è competizione, concorrenza, né gara alla produzione di servizi e prodotti migliori, ma solo contraffazione e mal produzione schiavistica che deprimo il mercato e sviliscono l’uomo. In Cina, lo Stato-partito-governo sostiene pure a colpi di partecipazioni governative, d’incentivi statali e di sovvenzioni partitiche le imprese esportatrici, consentendo agevolazioni fiscali, bassi tassi d’interesse e uso gratuito di terreni. Ciliegina sulla torta, si fa per dire, se già nel giugno 2008 la Laogai Research Foundation aveva individuato 314 laogai fornitori accreditati dell’Occidente, il nuovo rapporto della Fondazione, fresco fresco di elaborazione, è una nostra esclusiva, rivela i dati dell’indagine compiuta fra il 6 e il 22 ottobre 2009 su 28 grandi siti di commercio internazionale in almeno 10 Paesi che identifica 120 imprese laogai. Ecco, ci sono anche in Italia intellettuali impegnati che raccolgono “libri neri sul liberismo” . Un poco più di attenzione al caso cinese potrebbe indurli a riscrivere almeno il sommario delle loro opere.

Il presidente cinese Hu Jintao. In alto, una veduta della capitale giapponese Tokyo. Nella pagina a fianco, operai cinesi



quadrante

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Ucraina. Aspettando la decisione della Corte suprema, il nuovo presidente studia la squadra di governo per sostituire la Timoshenko

Contro-rivoluzione arancione Yanukovich si prepara a “normalizzare” i rapporti con la Russia di Enrico Singer

iktorYanukovich non sa ancora se la Corte suprema amministrativa darà ragione a Yulia Timoshenko che non accetta la sconfitta nel ballottaggio delle elezioni presidenziali, denuncia brogli e chiede di ripetere il voto come avvenne nel dicembre del 2004. Ma non sembra preoccuparsene troppo. La Corte si pronuncerà, probabilmente, entro la fine della settimana e, per ora, ha soltanto sospeso il risultato elettorale: un atto dovuto che non ha fermato i preparativi per il giuramento di Yanukovich - previsto per il prossimo 25 febbraio - e che, soprattutto, non ha impedito al leader filorusso di preparare le prime mosse della sua svolta per cancellare quello che resta della“rivoluzione arancione”ucraina. E non è certo un caso se il presidente russo, Dmitry Medvedev, lo abbia già invitato a Mosca per «consolidare i rapporti con Kiev» - come è scritto nella lettera partita dal Cremlino - dopo gli anni di tensione con il presidente uscente,Viktor Yuscenko. Medvedev ha scritto che le elezioni presidenziali hanno dimostrato che gli ucraini «desiderano porre fine ai tentativi, falliti, di creare discordia tra i nostri due popoli».

V

In realtà, il risultato del ballottaggio - 48,9 contro 45,4 - ha confermato che il Paese è spaccato a metà e questo consiglia anche al “duro”Yanukovich una certa dose di prudenza tanto che, oltre alla normalizzazione con la Russia, ha promesso di

continuare a lavorare per l’ingresso dell’Ucraina nella Ue e ha messo al primo posto del suo programma la lotta alla crisi economica.

Il Pil dell’Ucraina è crollato del 15 per cento nel 2009 e questa è stata, al di là di tutte le divisioni ideologiche e geostrategiche, la vera ragione della sconfitta elettorale di Yulia Timoshenko che - da primo ministro del governo ancora in carica - non è riuscita a gestire il difficile passaggio dell’economia del Paese dalla fase di satellite dell’ex Urss alle regole

la ripresa adottati in numerosi Paesi, ci sono già state molte esperienze che dobbiamo introdurre anche in Ucraina», ha detto in campagna elettorale e, a sorpresa, ha anche sostenuto che il prezzo del gas negoziato con la Russia è «ingiusto per l’Ucraina» e che sarà proprio lui a difendere gli interessi nazionali rimediando alla situazione creata dall’accordo stipulato nel gennaio 2009 da Yulia Timoshenko con il suo collega russo, Vladimir Putin. Per spuntare un migliore prezzo del gas da Mosca, Yanukovich ha già in mente un baratto: of-

Qualcuno a Kiev ipotizza un “inciucio” clamoroso e vede per il filo-occidentale Viktor Yuscenko un futuro nel prossimo esecutivo del libero mercato. La “principessa Leila”come la chiamano in patria per la sua pettinatura copiata da quella della protagonista femminile del film Guerre Stellari, non è riuscita a risolvere né il contenzioso sul gas con Mosca, né la crisi delle esportazioni dell’industria pesante e la popolazione ne ha pagato i contraccolpi in termini di livello di vita. Ecco perché Yanukovich ha imparato dagli errori passati e, più che presentarsi soltanto come il paladino filo-russo, insiste su slogan populisti e promette che la sua priorità sarà quella di lottare contro la povertà e di avviare «interventi sistematici» per affrontare la crisi economica. «Ho studiato i programmi per

frire alla flotta russa sul Mar Nero di stazionare nel porto di Sebastopoli oltre la prevista scadenza del 2017.

La questione della base navale, che un tempo era sovietica e che ora è in affitto alla Russia, è un’arma di scambio potente. Per il Cremlino, mantenere la flotta a Sebastopoli è anche un modo per congelare il processo di adesione dell’Ucraina alla Nato che è stato avviato dal presidente Viktor Yuscenko che aveva battuto Yanukovich nel 2004. In cambio di una nuova concessione ventennale del porto sul Mar Nero,Yanukovich conta di ottenere minori prezzi del gas ed anche l’impegno di Mosca a non costruire nuovi

gasdotti per ridurre il transito di metano attraverso l’Ucraina. Questo secondo obiettivo è molto più problematico perché, ormai, i due progetti North Stream e South Stream, che porteranno il gas nell’Europa settentrionale e meridionale passando per il Baltico e il Mar Nero, sono a buon punto.

Ma la partita dei gasdotti è uno dei business del secolo e Mosca potrebbe avere interesse a tenere aperte più opzioni. L’Europa compra dalla Russia circa un quarto del suo fabbisogno di gas e il Cremlino ha detto che potrebbe aumentare le forniture attraverso l’Ucraina se le fosse permesso di assumere la comproprietà e la cogestione dei gasdotti. Kiev ha votato una legge che impedisce la privatizzazione delle pipeline, ma questo avveniva sotto la vecchia leadership. E quello che ha veramente in testa Yanukovich nessuno è ancora in grado di dirlo. Una cosa è certa: dalla squadra che sta creando attorno a se è evidente che gli affari - e in particolare quelli legati all’energia gli stanno molto a cuore. Il suo principale sponsor è Rinat Akhmetov, l’uomo più ricco dell’Ucraina che nel 2007 è stato eletto deputato nelle liste del movimento politico del neopresidente, il Partito delle Regioni. La sua holding - la Smc, System Management Capital si occupa di energia, acciaio e telecomunicazioni. Akhmetov è anche presidente dello Shaktar Donetsk, la squadra di cal-

cio che nel 2009 ha vinto la Coppa Uefa, e ha investito di tasca propria 400 milioni di dollari per il nuovo Donbass Stadium che ospiterà anche alcune partite dei campionati europei del 2012. Mykola Azarov, il numero due del Partito delle Regioni, geologo di formazione e membro dell’Accademia delle Scienze ucraina, sotto il vecchio presidente, Leonid Kuchma, è stato al vertice dell’amministrazione fiscale facendo dormire sonni non troppo tranquilli anche a Yulia Timoshenko, quando l’eroina della rivoluzione arancione controllava ancora il comparto del gas alla testa di Unified Energy Systems of Ukraine.

Qualcuno a Kiev crede che anche lo stesso ViktorYuscenko potrebbe avere un futuro nella squadra di Yanukovich e ipotizza un inciucio incredibile: il nuovo presidente filo-russo potrebbe scegliere l’ex presidente filo-occidentale per sostituire Yulia Timoshenko nella carica di primo ministro. Sembra impossibile. Ma la politica ucraina ha già riservato molte sorprese ed è anche vero che il neopresidente si trova in una posizione piuttosto scomoda, alla testa di un Paese spaccato a metà, senza una maggioranza in Parlamento e con un governo in carica che è ancora guidato dalla sua principale avversaria. Senza contare che in sedici distretti elettorali non ha avuto la maggioranza nemmeno al ballottaggio e che, tra questi, c’è il distretto della capitale.


cultura

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Cinema. Impazzano sui media le polemiche sul film di Nebbou, che “dimentica” le origini creole dell’autore dei Moschettieri

La Francia e il «fattore D» Il Dumas interpretato da Depardieu accende l’ennesimo dibattito sull’identità nazionale di Francesca Giannotti

PARIGI. I capelli di Gérard Depardieu. La pelle di Gérard Depardieu. Inutile arzigogolare: non sono quelli di un nero, nemmeno quelli di un meticcio. Niente da fare, non c’è maquillage, non c’è permanente di crespi ricci, non c’è finzione cinematografica che tenga: Depardieu è bianco, sfumato porpora quando esagera a tavola, e il grigio della capigliatura nasconde a fatica il castano chiaro per non dire biondo cenere delle radici. Nella Francia che dibatte della sua identità nazionale, che si affanna ad affermarsi come paese della diversità, un Gérard Depardieu bianco - che incarna al cinema un Alexandre Dumas - meticcio, anche se molti lo ignorano o fingono di ignorarlo o lo dimenticano non poteva non sollevare scandali e polemiche extracinematografiche.

cinematografica del film si è fermata qui. Forse anche perché non c’è moltissimo da dire e l’opera di Nebbou, gradevole, pimpante, servita da attori bravi se non eccellenti, non è probabilmente destinata a passare alla storia. Sul colore della pelle di Depardieu, al contrario, le penne e le menti si sono scatenate. Da quando, alcuni giorni fa, il quotidiano Libération ha dato il via alle danze, lanciando la spinosa questione: «Può il biondo Depardieu tenere il ruolo dello scrittore oggi al pantheon, uomo di colore?», i commenti non si sono più fer-

nanzitutto la storia. Alexandre Dumas era un «mezzosangue», un meticcio, un creolo, un quarteron come di diceva all’epoca, aveva un quarto di sangue africano nelle vene: figlio di padre meticcio, generale durante la Rivoluzione, a sua volta figlio di una schiava nera.

Lui stesso si descriveva come «un negro dai capelli crespi e l’accento vagamente creolo», e con lo stesso tono sarcastico amava rispondere agli attacchi razzisti di cui fu spesso vittima nonostante la fama. Nulla di tutto questo nel film di Nebbou. «Dumas è un monumento nazionale. I suoi romanzi sono diventati un’opera popolare, conosciuta all’estero e emblematica dell’immagine storica della Francia. Per questo l’aspetto “esotico” di Dumas è stato presto messo da parte. E l’omissione è diventata occultamento», ha spiegato Sylvie Chalaye, docente universitaria e grande studiosa Tre dell’autore dei Moschettieri. «In un momento in cui si parla di identità nazionale e di diversità - ha aggiunto la Chalaye - trovo un peccato che non si possa ancora oggi considerare serenamente l’a-

Tutto è iniziato sul giornale “Libération”, che giorni fa si è chiesto: «Può il biondo attore interpretare il ruolo dello scrittore di colore?»

Tutto comincia al cinema, appunto. Poco più di una settimana fa è uscito nelle sale di Francia L’autre Dumas, regia di Safy Nebbou, mercoledì presentato al festival Berlino. La trama non ha nulla di scabroso dal punto di vista razziale. È la storia del rapporto ambiguo tra l’irruente, bulimico, geniale, rivoluzionario Dumas, reduce dal successo dei Tre Moschettieri e all’opera sul Conte di Montecristo, e il suo alter ego letterario, il collaboratore, timido, represso, monarchico Auguste Maquet (interpretato da un bravissimo ma senza alcun interesse etnico Benoît Poelvoorde). I critici hanno salutato l’interpretazione come al solito magistrale di Depardieu (talmente a suo agio nei panni di qualsiasi ruolo da avere sempre l’aria di pensare ad altro mentre recita), altri hanno storto il naso davanti alla versione di un Dumas vicino all’impostura, debitore in quasi tutto al talento segreto del suo ghost writer. Nel film, Maquet diventa praticamente il vero autore dei Tre moschettieri. «Un po’ troppo» hanno mormorato i biografi dell’immenso romanziere di Francia. Ma l’esegesi

mati. Sintomo del malessere con cui la Francia affronta oggi il dibattito sull’identità nazionale - voluto e imposto da Nicolas Sarkozy e il suo ministro dell’Immigrazione Eric Besson - e della serie di complessi che animano qualsiasi dibattito tocchi alla «diversità», dal burqa, ai minareti, alle statistiche etniche alla laicità tollerante. La pelle di Depardieu è così diventata la valvola di sfogo di vecchi tabù e nuovi imbarazzi, una polemica epidermica. In-

spetto meticcio di Dumas. Al contrario, dovremmo esserne orgogliosi». «Tutto è possibile, in nome della libertà del cineasta» ha concesso Libération, che però, in nome di questa stessa libertà, chiosa: «Siamo anche noi liberi di esprimere il malessere nel vedere un Dumas imbiancato di tutto punto». A questo punto, tutti gli interrogativi diventano leciti: «Tra 150 anni il ruolo di Barack

Obama potrebbe essere interpretato da un bianco? George Clooney potrebbe essere credibile in Martin Luther King? E un Giulio Cesare nero come verrebbe accolto?». In realtà, il Dumas bianco del cinema ha sollevato in Francia anche questioni meno peregrine. Innanzitutto sul cinema: «Gli attori di colore non trovano ruoli all’altezza del loro talento perché giudicati dal produttori poco “redditizi”, e restano così sempre confinati a certi personaggi», scrive Libération. Dal cinema alla vita reale e politica il passo è stato breve. Il film «è sintomatico della discriminazione di cui sono vittime le persone della diversità e della difficoltà delle elite a riconoscerle», ha commentato il Cran, il Consiglio rappresentativo delle associazioni nere di Francia. L’attore Jacques Martial, nero, ha evocato «un meccanismo discriminatorio basato sul silenzio». Anche il centro nazionale del Cinema non ha mancato di sottolineare che «il ritardo della Francia sugli Stati Uniti è immenso».

A questo punto, il regista Nebbou non è più potuto restare zitto. «Dumas era per tre quarti bianco, sarebbe stato un errore storico scegliere un attore meticcio, anche se è una pos-


cultura

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Ritratto di un personaggio stravagante alla corte del Duca d’Orléans

«Io, negro dai capelli crespi e dall’accento creolo...»

Così lo scrittore amava definirsi, abituato com’era agli sberleffi della Parigi ottocentesca pervasa dal razzismo di Marco Ferrari apete, dicono che abbia parecchio sangue nero» si sentiva dire alle sue spalle. Alexandre Dumas si voltava e rispondeva: «Ma certo signori, mio padre era un mulatto, mio nonno un negro e il mio bisnonno una scimmia! Vedete bene che le nostre famiglie hanno la stessa filiazione, ma in senso inverso». Dumas si era abituato allo sberleffo nella Parigi ottocentesca, ancora pervasa dal razzismo, di cui era diventato un protagonista. Figlio delle colonie dello zucchero e del rum, amava definirsi «negro dai capelli crespi e dall’accento creolo» oppure «negré delle Nazioni Unite» avendo il padre generale, negro dei Caraibi e la nonna paterna schiava liberata di Haiti.

«S

A sinistra, un’immagine di Alexandre Dumas. Nella pagina a fianco, un fotogramma del film “L’autre Dumas”, con Gérard Depardieu. A destra, la copertina de “Il conte di Montecristo”. In alto, un disegno di Michelangelo Pace non si riduce alla genetica hanno fatto sapere in un comunicato Frank Le Wita e Marc de Bayser - Se la diversità, nel suo insieme, ha bisogno di essere promossa, questo non deve avvenire a scapito della libertà artistica. Che si fonda sull’analogia e la metafora, come per la scelta degli attori».

sibilità alla quale abbiamo riflettuto» ha detto Safy Nebbou, tra l’altro lui stesso meticcio. E ha poi precisato: «Dumas aveva gli occhi azzurri, come Depardieu, e i capelli ricci, crespi. Per questo abbiamo arricciato la capigliatura dell’attore e gli abbiamo scurito la tinta». Sullo stesso livello la linea difensiva scelta dai due produttori del film. «Il cinema, come la vita,

La spiegazione non basta per evitare l’affondo di due giornalisti e scrittori, Emmanuel Gujon e Serge Bile, che in una tribuna pubblicata dal sito d’informazione Rue 89 e ripresa da tutti i giornali, hanno accusato il film di Nabbou di iscriversi nella «linea negazionista francese che, quando non “sbianca”, cancella dalla memoria collettiva le grandi personalità originarie d’oltremare, dal politico Felix Eboué al corpo dei fucilieri senegalesi che ha “salvato”la Francia».Tutti sono comunque d’accordo: Dumas non deve essersi rivoltato nella tomba. «Durante la sua vita - ha scritto un suo biografo - ne ha viste ben di peggiori».

Arrivato nella capitale appena diciottenne da VillersCotterêts, in Aisne, dove era nato il 24 luglio 1802, entrò nella cancelleria del Duca d’Orléans per la grazia della sua calligrafia, ma utilizzò gran parte del tempo passato in ufficio per scrivere drammi teatrali, anche se il suo primo lavoro per la Comédie Française, Cristina di Fontainebleau non venne rappresentato. Ottenuto un discreto successo con drammi cappa e spada e sdolcinati amori, Dumas perse il lavoro presso il Duca d’Orleans e cominciò a scrivere sui giornali soprattutto con reportage di viaggi. Nel 1834 gli capitò tra le mani un foglio di giornale con un fatto di cronaca che trasformò in romanzo creando Il cavaliere d’Harmental. Da allora iniziò una febbrile attività con l’ausilio di una nutrita schiera di “negri” ai quali dettava pagine su pagine. Siccome all’epoca i romanzi uscivano prevalentemente a puntare sui giornali, si può dire che la premiata ditta Dumas è da considerarsi il primo “service” per giornali capace di produrre ben cento opere tra cui I tre moschettieri, Il Conte di Montecristo e l’interminabile Il visconte di Bragelonne in tre volumi. La schiera dei suoi accoliti o scrivani dipendenti era guidata proprio da August Maquet, al quale è dedicato il discusso film di Safy Nebbou, L’autre Dumas. Il procedimento usato da Dumas era semplice: prendeva spunto dalla cronaca o da pubblicazioni locali per dare un valore universale e simbolico ai casi della vita, casi che i giornali francesi chiamano faits divers. Prendiamo Il Conte di Montecristo: lo spunto lo ebbe da un racconto di un certo Puchet intitolato Il diamante e la vendetta che, in una ventina di pagine, narrava le vicende vere di François Pacaud, giovane imbianchino parigino che nel 1807 fu ingiustamente considerato spia degli inglesi per la falsa delazione di un rivale in amore. Poi fece un viaggio in Toscana

durante il quale notò l’isoletta di Montecristo e infine soggiornò tre mesi a Marsiglia dove ideò la figura di Edmon Dantès. Il gioco era fatto. Amante della vita godereccia e di gesti spregiudicati, Dumas padre era un personaggio stravagante che se ne fregava della politica, della religione e dell’arte. Costruì un castello, ovviamente detto di Montecristo e un teatro, ma fallì e fu costretto a fuggire in Belgio. Nella spedizione dei Mille andò incontro a Garibaldi consegnandogli armi ed entrando al suo fianco a Napoli e fermandosi tre anni nella città partenopea quale responsabile degli scavi archeologici. Rientrato a Parigi aprì un giornale, L’indipendente, a cui collaborò Eugenio Torelli Viollier, il futuro fondatore del Corriere della Sera. A lui interessavano solo i soldi e le belle donne. Poco prima di morire confessò di averne portate a letto almeno 500, gran parte costosi amori occasionali. La sua agenzia letteraria si occupava di tutto: romanzi, biografie, storia della Francia, storia della Chiesa, stili di vita e viaggi. Passava da Napoleone a Caterina de’ Medici, da Richelieu a Garibaldi con facilità dimenticando le verosimiglianze storiche. Dumas, infatti, quando dettava ai suoi collaboratori, non lesinava lavorare di fantasia. Solo nella biografia di Napoleone cercò di essere obiettivo: il padre, infatti, aveva osato ribellarsi al còrso durante la campagna d’Egitto e fu per questo imprigionato. Morì nel 1806 senza ottenere il perdono dell’imperatore che, invece della pensione di guerra, offrì alla vedova uno spaccio di tabacchi, come era d’uso. Immerso negli eroismi occulti di un’epoca sanguinaria, al fondo delle sue opere emergono fatalismo, pragmatismo e fideismo.

Suo padre era un generale di colore dei Caraibi, mentre sua nonna paterna una schiava liberata di Haiti

A un ragazzo una volta disse: «Ti piace la storia, vero? Vai avanti purché non la studi sui miei romanzi!». Arrivò al punto di redigere un Dizionario di cucina per l’editore Lemerre, sua ultima fatica, stabilendosi in un paesino della Bretagna dove imparò a preparare i manicaretti del nord francese. In quell’anno si presentò a casa del figlio a Puys senza preavviso, bussò alla porta, gettò i bagagli a terra e disse: «Sono venuto a morire a casa tua». Poi pose sul tavolo due luigi d’oro, tutto ciò che gli era rimasto, e disse: «Mi si accusa di essere uno scialacquatore di denaro. Quando arrivai a Parigi mezzo secolo fa avevo due luigi d’oro. Li ho ancora». E in quell’appartamento morì il 6 dicembre 1870 nel momento in cui la Francia era alla prese con l’ennesima guerra contro i prussiani, così che nessuno, a parte i famigliari, si accorse del suo ultimo vero viaggio.


spettacoli

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orna in Italia la Dave Matthews Band (il 22 febbraio al Palasharp di Milano, il 23 al Palalottomatica di Roma, il 25 al Palasport di Padova), e stavolta tira davvero aria di evento cult. Il concerto del 5 luglio scorso in Piazza Napoleone a Lucca ha investito i sensi come un uragano benigno (e già si fa la conta di chi c’era: un po’ come a San Siro nel giugno del 1985 per Springsteen), tre ore e mezza di musica impetuosa e debordante che sembrano aver vinto le ultime resistenze nei confronti di una band dagli anni ‘90 campione di incassi negli Stati Uniti.

T

Una serata talmente speciale che lo stesso Matthews ha pensato bene di immortalarla dando alle stampe un lussuoso cofanetto, tre cd contenenti l’intera esibizione toscana corredati da un elegante libro fotografico e da un dvd con le riprese effettuate durante uno show alla Brixton Academy di Londra. Sembrava difficilmente esportabile dalle nostre parti, la DMB, a dispetto dei quasi 33 milioni di dischi venduti in patria. Troppo “americani”, si diceva: ma niente a che vedere con Starbucks e Pizza Hut, quell’entusiasmo genuino e contagioso prima o poi era destinato ad attecchire anche qui. Il concerto acustico che il leader tenne nel 2007 al Dal Verme di Milano in compagnia del fido chitarrista Tim Reynolds, esaurito in poche ore, era la spia che qualcosa stava cambiando, che il brusio del passaparola cresceva di volume e intensità (in Italia Matthews è sostenuto da un fan club e da un sito internet attivissimo). Sì,

Musica. La band di Matthews in Italia: a Roma il 23 febbraio e il 25 a Padova

Dave, un’onda rock nella nostra Penisola di Alfredo Marziano musica. Ai fan è sempre stato permesso di registrare i concerti e di scambiare i nastri con altri appassionati, tra loro e i musicisti si è sviluppata una salutare e intensa interazione, una complicità e un affetto corrisposto. La pianta musicale della DMB è stata coltivata con

cato ai valori tradizionali ma abile a cavalcare le onde del web, tra i primi artisti rock ad aprire una pagina su Facebook e a utilizzare Twitter per diffondere non solo messaggi ma anche musica. Dinamico e in prima linea quando si tratta di attivarsi per salvare l’ambiente,

co, inguaribile ottimista che ha reagito con veemenza anche a una tragedia che l’ha colpito duro e da vicino: la scomparsa nell’agosto scorso dell’inseparabile sassofonista Leroi Moore, morto in seguito alle ferite riportate in un incidente domestico mentre era alla guida di

nessun altro. Anche quando cantiamo di morte, di perdita o della fine del mondo, al centro di tutto ci deve essere la speranza», ha spiegato al settimanale Billboard in occasione dell’uscita del nuovo album, Big Whiskey And The GrooGrux King, dedicato proprio all’amico scomparso (si apre con un suo solo di sax) e tuttavia pervaso dell’atmosfera carnevalesca di New Orleans, la città in cui è stato registrato e in cui anche i funerali diventano occasione di celebrazione festosa. Stanno sempre in equlibrio sul filo, Dave e i suoi. Tra l’incudine di una casa discografica che invoca da loro sfracelli in classifica e il martello dei fan che esigono fedeltà allo spirito originale e all’identità libertaria del gruppo. Quando il pendolo oscilla troppo dalla parte del mainstream si solleva il mugugno: è successo con Everyday, nel 2001, tentativo di “normalizzazione” rock operato dal produttore di Alanis Morissette, Glen Ballard; ancora di più con quello Stand Up (2005) sciaguratamente affidato alle mani di Mark Batson, uno abituato a Eminem, a Beyoncé e a 50 Cent, mica ai Dead o alla Allman Brothers Band. Con Big Whiskey Rob Cavallo (Green Day e My Chemical Romance) ha trovato un buon compromesso tra suoni acustici e radiofonici, poliritmi e arrangiamenti lineari, cantabilità e complessità strutturale, “ganci” melodici e virtuosismi di una band che ha nel dna il gusto del controtempo, della fuga strumentale, della libertà espressiva: le nuove canzoni, Funny The Wai It Is e Lying In The Hands Of God, suonano come un mix di

La loro è una storia di enorme successo che con il marketing e le strategie industriali c’entra fino a un certo punto. Il business si è trovato a inseguire dall’inizio un fenomeno frutto di grande dedizione e qualità sonora metodi biologici, senza bisogno di additivi e di fertilizzanti. perché questa è una storia di (enorme) successo che con il marketing e le strategie industriali c’entra fino a un certo punto, il music business si è trovato a inseguire dall’inizio un fenomeno a combustione spontanea frutto di grande dedizione, qualità della proposta musicale e dialogo intimo con il pubblico. Matthews e compagni sono l’ultima incarnazione della jam band alla Grateful Dead, votata alla musica “totale” (rock, jazz, gospel, fusion, rhythm’n’blues, etnica? Impossibile appiccicare etichette) all’improvvisazione, al mutamento costante. Nel pieno rispetto di quell’etica e filosofia di vita non sono mai stati troppo gelosi o protettivi della loro

Lui, il signor Dave, affezionatissimo alla sua Charlottesville in Virginia, è il perfetto american boy, anche se è nato a Johannesburg (Sud Africa). Un uomo normale per niente appariscente e molto stempiato, un antidivo per eccellenza. Attac-

tutelare i diritti dei pellerossa e delle minoranze etniche, stimolare la gente a partecipare alla vita politica della nazione (nel 2004 partecipò alla campagna “Vote for Change” accanto a Springsteen, Ben Harper, R.E.M e Pearl Jam), portare conforto alle popolazioni afflitte dalle grandi tragedie nazionali (l’uragano Katrina in Louisiana) e mondiali (lo tsunami, il terremoto di Haiti). Un energi-

Nella foto grande, i componenti della Dave Matthews Band. Qui sopra, ai lati, il cofanetto DMB e il nuovo album

un veicolo agricolo nella sua fattoria. Con le maniche di camicia rimboccate e il sudore sulla fronte, perché questa è una band di gente che lavora sodo e senza tanti grilli per la testa. «Non c’è bisogno di rinchiudersi in se stessi, né di esprimere in modo autoindulgente il proprio dolore. Non serve a noi, non serve a Roi e a

Red Hot Chili Peppers e del Paul Simon “sudafricano” di Graceland, del Peter Gabriel world music e di Eddie Vedder, degli Spin Doctors e della solarità di un Jack Johnson.

Con un’energia a stento trattenuta e pronta a esplodere sul palco: l’habitat naturale di una formidabile orchestra di sax e violini, trombe e tastiere, chitarre elettriche e percussioni a frullare di tutto, Miles Davis e James Brown, Leadbelly e Johnny Cash, gli Zeppelin e il Dylan corretto Hendrix di All Along The Watchtower in un afflato di musica universale, cosmica, contagiosa che stordisce e difficilmente lascia indifferenti.


spettacoli

19 febbraio 2010 • pagina 21

Palcoscenico. A Roma due protagoniste del teatro partenopeo: la Danieli è Ecuba al Teatro Eliseo, la Maglietta al Valle

Isa e Licia, l’oro di Napoli di Enrica Rosso

il debutto con Falso movimento e la partecipazione ad alcuni spettacoli memorabili (dal pluripremiato Tango Glaciale a Ritorno ad Alphavile), si ritroverà automaticamente a far parte della prestigiosa formazione di Teatri Uniti, frutto della fusione datata 1986 tra Falso Movimento di Martone,Teatro dei Mutamenti diretto da Antonio Neiwiller e Teatro Studio di Caserta diretto da Toni Servillo. Poi il salto. Struggente, immolata alla sua causa, friabile e suadente, l’abbiamo vista e ancora avremo l’opportunità di vederla nel testo che l’ha definitivamente consacrata. Parliamo di quel Delirio Amoroso che si cucì addosso e che la lucente Alda Merini le affidò nel 1995, trasposto dieci anni dopo su pellicola a opera del regista Silvio Soldini. Grazie a Soldini che la vuole interprete di Le acrobate e successivamente di Pane e tulipani, vince il David di Donatello nel 2000 come miglior attrice protagonista e, ancora diretta da Soldini nel 2003 sarà protagonista di Agata e la tempesta. La ricordiamo anche nel poco distribuito (dopo un passaggio lampo al festival del Cinema di Venezia) Luna Rossa di Antonio Capuano. Manca solo la domenica di Silvana Grasso, in scena fino al 21, è l’opportunità per carpire alla letteratura un nuovo carattere a tinte decise, certa Liboria Serrafalco detta Borina. La signora ha un solo sogno nella vita: vivere la vedovanza in pienezza. E fa niente se il legittimo consorte non collabora, troverà lei il modo.

na combinazione rara e felice ci offre la possibilità di godere del talento di due signore del palcoscenico: impegnate contemporaneamente a Roma in occasioni teatrali ad alto livello, Isa Danieli è reduce dall’ Ecuba andata in scena al Teatro Eliseo per la regia di Cerciello; Licia Maglietta è stata chiamata a concludere la monografia di scena che il Teatro Valle ha dedicato a Teatri Uniti.

U

Due personalità di spicco della scena partenopea. Due mondi. Meglio: i due emisferi dello stesso globo o anche le due facce della medesima medaglia. Napoletane veraci, diverse per generazione (diciassette anni con in mezzo due guerre mondiali con tutto ciò che ne consegue) entrambe godono del supporto di un fan club. Le accomuna l’humus del territorio di formazione, non il linguaggio, non le prospettive da cui vivono la scena, seppure ambedue siano libera espressione di un femminile completamente espanso. Schietta, ironica, istrionica e volitiva , capace di scene madri da storia del teatro, Isa Danieli rimane un faro per la magnifica generosità d’interprete che da sempre la contraddistingue. Che sia baronessa o lavannara, che faccia la regina madre o la vajassa, la sua carica umana travol-

del Kirie di Ugo Chiti, nel 1990 vince l’ambito Biglietto d’argento Anicagis a Taormina, segno palese dell’affetto che il pubblico nutre nei confronti della sua arte. Nel 2001 interpreta Filumena Marturano, che le vale il Premio Ubu come migliore attrice, nel 2006 Ferdinando con cui si aggiudica, sempre come miglior attrice, il Premio Gassman.

Negli stessi anni interpreta vari film diretta da registi come Monicelli, Comencini e Loy, Ettore Scola, Carlo De

si affaccia su una morgue mattatoio), Isa Danieli, un Ecuba ridotta in schiavitù, ormai isolata, senza mai perdere dignità o spessore trova infine la forza di pareggiare il danno subito perché «chi ha il potere non deve spingersi oltre il lecito». Cerciello firma uno spettacolo di strepitosa eleganza in cui una drammaticità autentica, senza orpelli, si ripercuote in scena illividendo tutto. Le musiche originali di Paolo Coletta evolvono da sonorità liquide con intercessioni metalliche per aprirsi a contenere il coro e infine divenire epiche. Costumi fluidi, fluttuanti, glamour, di Daniela Ciancio. Altro l’avvio di Licia Maglietta che in un’Italia economicamente più assestata si forma con uno sguardo ampio alle altre arti spettacolari, la danza e il cinema, e che si dedica al teatro solo dopo essersi messa in tasca una laurea in architettura. Una visione d’insieme che la porterà alla regia dei suoi allestimenti, tracciando un percorso personalissimo sempre in equilibrio tra teatro tradizionale e forme più innovative e dunque più consone alla sua sensibilità di interprete. Dopo

Napoletane veraci, diverse per generazione, le accomuna l’humus di formazione ma non il linguaggio. Eppure entrambe esprimono una femminilità ricca ed espansa ge il pubblico e incide la memoria. Figlia d’arte da parte di entrambi i genitori (la madre Rosa Moretti rimane memorabile voce di Radio Napoli; mentre la famiglia paterna è la storica dinastia dei Di Napoli), Luisa Amatucci decide di cambiare nome per distinguersi dalla zia omonima anch’ella attrice. Un inizio alla grande con una formazione sul campo nella compagnia di Eduardo De Filippo per poi condividere la scena con Nino Taranto e girare il mondo con La gatta Cenerentola per la regia del Maestro Roberto De Simone. Sostenuta da un’energia formidabile, sola in scena dando voce alle tre diverse lamentatrici

Palma, Giuseppe Bertolucci, Fabio Carpi. Ricercatissima anche dai cineasti della “scuola napoletana”: Anna Maria Tatò, Enzo De Caro, Luciano De Crescenzo, Vincenzo Terraciano. Stabilisce un sodalizio speciale con la regista Lina Wertmuller con cui collabora a ben otto pellicole tra cui Un complicato intrigo di donne vicoli e delitti, che le farà vincere il Nastro d’Argento come attrice non protagonista. Partecipa inoltre al film premio Oscar Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore. Ora, avvolta in un’atmosfera di algido, dilagante orrore, grazie alla scena di Roberto Crea (un abisso di mortifera vacuità che

Nella foto grande, un frame di “Ecuba” in scena a Roma per la regia di Cerciello. Qui sopra Licia Maglietta, più in basso Isa Danieli

La Maglietta si appropria totalmente del progetto firmandone l’adattamento,la scenografia, la regia e instaurando in scena, lei stessa protagonista, un dialogo stretto con la fisarmonica dell’ammiccante maestro Vladimir Denissenkov. Elabora un divertissement garbato, di gusto, in cui volentieri si fa prendere la mano dal gioco leggero dello sberleffo a volte un po’scontato. Il pubblico ci sta alla grande, ma noi di più l’amiamo per altre sue rapinose interpretazioni.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Dinamismo e entusiasmo al servizio del territorio Questa sera alle 19,00 in via Mario Pagano 247, ex bar Bomboniera, si terrà un meeting dei giovani dell’Udc. Ospite e relatore atteso della serata sarà Sergio Adamo, che sta notando, in ogni parte di questo splendido Mezzogiorno d’Italia un dinamismo operativo e un entusiasmo in termini di idee e di proposte che non ha eguali: atteggiamenti che lasciano sperare in un futuro, in cui i giovani dell’Udc potranno e sapranno dire la loro». Carlo Laurora ha mostrato nei cinque anni di legislatura regionale di essere un politico ancorato e affezionato al territorio di appartenenza e ha ben evidenziato caratteristiche quali competenza, professionalità e passione: lo sosterremo in modo forte, così come sosterremo con determinazione la nostra candidata Adriana Poli Bortone». L’invito a presenziare ai lavori viene lanciato dall’ideatore del meeting Antonio Befano, che invita le ragazze e i ragazzi tranesi e di Terra di Bat a prender parte alla serata a prescindere dalle personali convinzioni ideologiche, ma al fine di offrire suggerimenti, idee, critiche e proposte valide per il futuro di noi giovani su questa terra che amiamo e per la quale ci spendiamo con dedizione.

Antonio Befano

CUPOLA BOLOGNESE DEL MALGOVERNO Sono grato per l’amore per Bologna e il coraggio che Gianfranco Pasquino ha dimostrato con il durissimo atto d’accusa che ha lanciato contro quello che lui stesso definisce non solo «un affare di donne e di soldi» bensì la prova dell’esistenza, nella città, di un «blocco di potere che aveva deciso, con la sola motivazione di mantenere il controllo del comune, di appoggiare il candidato del Pd, a prescindere da qualsiasi altra considerazione. Poi, ci avrebbero pensato loro». L’esistenza di questa “cupola” del malgoverno e degli affari particolari a Bologna è quello che ha sempre sostenuto il centrodestra. Il fatto che un uomo di sinistra come Pasquino abbia deciso di raccontare quello che sa della «cupola del Pd a Bologna e su chi ne fa parte» è la conferma della gravità della situazione e sono convinto non mancherà

di aprire nuovi fronti di indagine. I bolognesi ora sono stanchi di questo modo di fare e di questa “cupola” che sembrerebbe avere avuto solo altri interessi che non il bene della città.

Giancarlo

Ginnastica pre-parto Durante la gravidanza bisogna mantenersi in forma. Soprattutto quando la gestazione dura un anno e mezzo e la futura mamma pesa 3 tonnellate! Per questo Panang, elefantessa asiatica, ospite del Tierpark Hellabrunn zoo di Monaco, ha seguito tutte le lezioni di Andi Fries, suo istruttore di stretching prenatale

BERTOLASO RESTI MA SENZA LICENZA D’APPALTO In attesa che la magistratura compia il suo dovere, è un bene che sia abortito il mostro che stava per nascere dall’attuale sistema della protezione civile. Bertolaso nel frattempo resti pure commissario straordinario semplice,ma senza licenza di appalto. Basta infatti quanto già è emerso dalle indagini, per darci un’idea dei pericoli che incombono e di quanto sia indispensabile limitarne il campo di azione alle effettive emergenze, ma soprattutto quanto sia cruciale un sistema

di controlli e di garanzie contro frodi e ruberie.

R.N.

IN NOME DELLA VANITÀ L’avversione all’utilizzo di pellicce è opinione comune di sempre più persone che la ritengono una pratica crudele e inutile. Un gruppo di Centopercentoanimalisti si è presentato davanti a una pellicceria; il negoziante spaventato è riuscito a chiudere la porta d’ingresso, ma non è servito a nulla: i

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

nostri militanti sono riusciti a lanciare in aria oltre 20.000 coriandoli e bombette puzzolenti. ati immediatamente ad abbassare in fretta e furia la serranda della pellicceria. La battaglia contro l’utilizzo di pellicce da parte dei militanti di 100%animalisti, non si fermerà, e poiché a chi ne fa uso non importa conoscere la sofferenza degli animali, noi continueremo a far vergognare chi vende e chi indossa i capi frutto di milioni di animali uccisi e squartati in nome della vanità…

100%animalisti

da “The Moscow Times” del 18/08/2010

Russia e Usa parlano su Twitter di Rachel Nielsen e Anatoly Medetsky arrivata al Cremlino una squadra di esperti della Casa Bianca, gente che conosce bene le nuove tecnologie e new media. Sono arrivati mercoledì per una visita di una settimana ai loro colleghi russi per discutere di innovazione. Da un punto di vista formale l’incontro non è che un prolungamento delle iniziative previste all’interno della Commissione presidenziale bilaterale, creata nel luglio scorso da Mosca e Washington. La innovation delegation, come è stata chiamata, comprende anche i capi di importanti società della rete, come Twitter ed eBay e sono in Russia per incontrare il governo, gli imprenditori e pubblici amministratori per spiegare la nuova frontiera dei social media e l’influenza che hanno su società civile ed economia. Così hanno spiegato dall’ambasciata Usa di Mosca.

È

«Si tratta di utilizzare i social network per il bene pubblico, di questo si occupa il gruppo d’esperti» ha spiegato a Moscow Times Jonathan Korach addetto stampa dell’ambasciata. La delegazione americana è arrivata in Russia proprio nel momento in cui gli sforzi del governo per riportare nel Paese investimenti, tecnologie e idee stavano riprendendo con vigore. È stato lo stesso primo ministro Vladimir Putin a prender in mano le redini della commissione, come ha confermato durante un’intervista a Vedemosti,Vladislav Surkov, uno dei responsabili dello staff del Cremlino e uno dei primi sostenitori della necessità di modernizzare l’economia. Anche il presidente Dmitri Medvedev, la scorsa settimana, si era mosso nella stessa direzione. Aveva sollecitato,

durante un meeting a Tomsk, un gruppo d’imprenditori a investire nelle nuove tecnologie. I tredici membri del team Usa hanno incontrato mercoledì Surkov e altri membri dello staff presidenziale e la loro agenda sarà fitta d’impegni per tutta la settimana. Giovedì, sarà la volta del ministro della Stampa e comunicazione, Igor Shchyogolev, assieme all’amministratore delegato della Yandex, Arkady Volozh e il responsabile del governo per l’Electronic gov project nell’azienda statale Rostelecom,Valery Zubakha. E tanto per restare in tema di nuove abitudini e social network uno dei membri del gruppo statunitense ha scritto un resoconto del suo incontro con gli uomini del Cremlino sulla sua pagina di Twitter. «Abbiamo passato due ore eccezionali di brainstorming» ha scritto Jason Liebman, responsabile esecutivo di Howcast Media. Citando anche Arkady Dvorkovich che è uno dei capi economisti del presidente Medvedev. Una visita pensata e organizzata da Jared Cohen, un esperto di tecnologia per il planning staff del segretario di Stato Hillary Clinton, e Howard Solomon, direttore del dipartimento Russia del National security council. Ma nel gruppo i nomi importanti si sprecano a cominciare dall’inventore di Twitter, Jack Dorsey e dal responsabile tecnologico di Cisco System, Padmasree Warrior e John Donahoe, ceo di eBay che presto debutterà con una piattaforma in lingua russa, secondo le indiscrezioni pubblicate da Kommersant. Nel gruppo sono rappresentati anche

Mozzilla, EDventure, Social gaming network e l’Accademia delle scienze di New York. La delegazione volerà anche in Siberia e avrà come compito fondamentale quello di gettare le basi per future joint venture o semplicemente per aprire l’economia russa ai nuovi strumenti della tecnologia e fargli fare un grande balzo in avanti. Al Cremlino sono consapevoli da anni della necessità di uno scatto deciso verso il futuro. Anche impiantando i cosiddetti innovation cluster, come ha affermato Kendrick White, direttore generale della società d’investimento Marchmont Capital Partners.

La «città del futuro» di cui già parlava la settimana scorsa Medvedev, oltre al progetto di voler duplicare la Silicon valley americana. Incontri a trecentosessanta gradi che hanno investito vari campi, anche quello farmacologico. Un ponte sul futuro che la Russia vorrebbe costruire con l’aiuto di Washington.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Non fatemi perdere ogni diletto Saggio non sono stato ad avvalermi tanto prontamente della mia prima impressione favorevole. Come di recente quel tizio di Cambridge, di cui ha sentito parlare mia sorella, cui, all’esame di teologia (anzi di storia delle Scritture) fu chiesto dal professore, che voleva fargli avere vita facile: «Chi fu il primo re di Israele?». «Saul», rispose il giovane tremante. «Bene!», annuì il professore in segno di approvazione. «Altrimenti detto Paul», soggiunse il giovane nella sua euforia! Ora ho chiesto perdono, e rosso in volto vi ho assicurato che quello è stato solo un lapsus, e che intendevo veramente, nel contempo (Paul o non Paul), l’autentico figlio di Kish, colui che possedeva gli asini, e che pensava che ascoltare l’arpa fosse la cosa migliore in assoluto per uno spirito malvagio.Vi prego di scrivermi una riga per dirmi «Ah, se è tutto qui» e che mi credete buono (il che è molto compatibile con un momento di stupidità) e di non farmi, per un solo errore (che sarà l’unico) perdere ogni diletto, perché la vostra amicizia sono sicuro di non averla persa. E a proposito, non sarà meglio, per collaborare in modo più efficace alla vostra gentile promessa di dimenticare il refuso, restituirmi la bozza, se non le avete inflitto giustizia equa e sommaria? Robert Browning a Elizabeth B. Barret

ACCADDE OGGI

UN TAVOLO PERMANENTE SUL RISCHIO IDROGEOLOGICO IN SICILIA Sicilia e Calabria sono unite dai disastri ambientali. Nella provincia di Messina l’ennesima frana, dopo quella di Giampilieri, rischia di far scomparire l’intero paese di San Fratello. L’intera provincia messinese e l’intera regione deve essere messa in sicurezza, e il denaro rivolto alle opere faraoniche deve essere destinato al recupero idrogeologico. Il governo pubblicizza opere come il Ponte sullo Stretto, ma poi, quasi a smentire il vicecapo della protezione civile De Bernardinis, dichiara che in Sicilia c’è fragilità idrogeologica diffusa. Bisogna istituire un tavolo permanente sul rischio idrogeologico, con l’intento di permettere l’aggiornamento in tempo reale della mappa del rischio, grazie alla presenza al tavolo, oltre che degli esperti del settore, anche dei referenti tecnici dei comuni della nostra provincia. L’individuazione delle cause non può essere liquidata con la straordinarietà degli eventi atmosferici; spesso i campanelli d’allarme hanno suonato invano, abbiamo ancora negli occhi e nella mente i fatti di Giampilieri e di Scaletta Zanclea. La ricetta non passa soltanto da un necessario piano di riforestazione ma da tante azioni che gli amministratori devono mettere in campo a partire da un corretto piano degli interventi di prevenzione e salvaguardia, senza tralasciare quelli meno popolari,

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

19 febbraio

che porteranno qualche voto in meno ma qualche vita salvata in più!

Domenico S.

1928 Si chiudono a Sankt Moritz i II Giochi olimpici invernali 1942 Seconda guerra mondiale: Circa 150 aerei giapponesi attaccano Darwin (Australia) 1949 Ezra Pound riceve il primo Premio Bollingen di poesia dalla Fondazione Bollingen e dall’Università di Yale 1953 Censura: la Georgia approva il primo comitato di censura letteraria degli Stati Uniti 1959 Il Regno Unito concede a Cipro l’indipendenza 1985 William Schroeder è il primo paziente dotato di un cuore artificiale a lasciare l’ospedale 1986 Dopo 37 anni di attesa, il Senato degli Stati Uniti approva un trattato che dichiara illegale il genocidio 2003 Iran, precipita un aeroplano militare con a bordo 270 soldati. Nessun sopravvissuto 2007 Due bombe sul Samjhauta Express uccidono 66 persone 2008 Fidel Castro annuncia il suo ritiro dalle cariche presidenziali

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

EVASIONE FISCALE L’evasione fiscale è dura da combattere, ma indubbiamente è correlata oltre che dall’estrema onerosità delle tasse italiane, anche ad una deduzione che molti fanno: se non ho nulla o non dimostro nulla il recupero dei crediti o del fisco evaso non può prendere nulla, mentre se ho una casa subito rischia di essere venduta all’asta. In sintesi palesare fiscalmente la povertà è un modo per non essere toccati dalla propria irregolarità. Qualcuno al governo ha però parlato spesso di tale situazione indotta, riportandola al comportamento sbagliato e iterato nel tempo di molte banche e istituiti finanziari.

Bruna Rosso

NUCLEARE: SI SEGUA L’ESEMPIO OBAMA Con la sua iniziativa, Barack Obama dimostra inequivocabilmente che non solo la green economy ma anche i green jobs e il risanamento ambientale possano trovare soluzione grazie al rilancio dell’energia nucleare. Dal momento che il presidente degli Stati Uniti sembra avere più sostenitori in Italia che nel suo Paese, speriamo che le sue indicazioni, tanto nette ed inequivocabili, mettano fine alla politica del “non nella mia regione”, che vede impegnati - con identica irresponsabilità e in modo bipartisan - alcuni candidati governatori.

APPUNTAMENTI FEBBRAIO 2009 VENERDÌ 26, ORE 11, ROMA PALAZZO FERRAJOLI Convocazione Consiglio Nazionale dei Circoli Liberal. SEGRETARIO

VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Francesco Comellini

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Direttore da Washington Michael Novak

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Collaboratori

Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,

Roberto Mussapi, Francesco Napoli,

Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

A CHIAROMONTE L’OSSERVATORIO SCIENTIFICO ETNO-ANTROPOLOGICO Con l’approvazione all’unanimità della legge sulla istituzione dell’Osservatorio scientifico etno-antropologico, intitolato a Edward C. Banfield, l’Unione di centro si riconferma convinto sostenitore della promozione dei territori deboli. Istituire a Chiaromonte un osservatorio culturale significa tutelare e sostenere le aspettative dei territori interni della Basilicata. Dopo la convinta battaglia per recuperare il ruolo della montagna, l’Udc da un altro significativo segnale politico a favore delle popolazioni afflitte da esodo e disoccupazione. La regione Basilicata, in considerazione dell’alta valenza sociale ed economica che rappresenta, ricca di un patrimonio culturale da salvaguardare, istituisce l’osservatorio scientifico etno-antropologico regionale per la ricerca e lo studio delle trasformazioni sociali ed economiche dell’ultimo Novecento, osservate e analizzate da studiosi europei ed americani. L’osservatorio, intitolato all’antropologo americano “Edward C. Banfield”, per riconoscimenti acquisiti sul campo, opera con il coordinamento del dipartimento regionale alla Formazione e Cultura e in stretto raccordo con le istituzioni territoriali e scientifiche. Compiti dell’osservatorio regionale sono il recupero ed il monitoraggio costante delle esperienze sociali ed antropologiche avviate da numerosi studiosi stranieri che, operando in diverse comunità della Basilicata, hanno fatto conoscere al mondo intero l’identità di una regione del mezzogiorno d’Italia. L’osservatorio, aggregati i dati scientifici a disposizione e operata una cernita basata sulla qualità delle fonti e sulla loro attendibilità, redige annualmente un documento sullo stato delle condizioni socio- culturali che viene inviato alla giunta e al consiglio regionale. Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

Mario Arpino, Bruno Babando,

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

John R. Bolton, Mauro Canali,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

Franco Cardini, Carlo G. Cereti,

Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,

Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,

Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Cartolina da Vancouver. Il buffo “segreto” di Lindsey Vonn, medaglia d’oro nella discesa libera

Le Olimpiadi si vincono di Alessandro Boschi ne di scelte, e la bella Mancuso, che forse a causa del cognome ha ereditato un’anima un po’ irrequieta, può solo prendersela con se stessa. Quando entrambe gareggiavano nella categoria juniores Julia stracciava Lindsey con una regolarità disarmante. E disarmante era stata la facilità con cui a Torino si era aggiudicata l’oro nel gigante. Poi più nulla o poco più. Sembra quasi la storia della lepre e della tartaruga, anche se forse il paragone è un po’ irriverente considerando che la tartaruga in questione è in grado di sfrecciare a velocità stratosferiche su di una pista ancora una volta difficile e pericolosa. Ciò per significare quanto abbiano inciso la costanza e la ferocia della Vonn.

ppello a tutte le persone sovrappeso, magari di poco ma abbastanza perché la moglie (ci rivolgiamo agli uomini, è ovvio) li martelli con frasi del tipo «non mangiare questo», «non mangiare quello». E soprattutto: «non toccare il formaggio perché ti fa ingrassare». Magari è pure vero, ma da oggi lo è un po’ meno: il formaggio può anche essere un alimento per atleti. Come in tutte le belle notizie c’è però una controindicazione: il formaggio in questione non lo si può mangiare. Lo si deve infatti cospargere sui garetti, esattamente come ha fatto la splendida Lindsey Vonn prima di affrontare la gara di discesa che si è aggiudicata stracciando la concorrenza alle Olimpiadi di Vancouver. L’atleta statunitense ha infatti usato questo rimedio che se esportabile farebbe la gioia di tanti pastori. Poi, inafferrabile, è volata sulla pista di Whistler Mountain, una pista pericolosa come purtroppo la maggior parte di quelle che gli atleti stanno affrontando in questi giochi olimpici canadesi.

A

Lindsey Vonn è un personaggio davvero interessante. Partiamo dal nome. Sì, perche Vonn è in realtà il nome del marito,Thomas Vonn, un discesista di terza o quarta fascia, che la bella Lindsey ha deciso di sposare nonostante l’opposizione del padre, mister Kildow, famoso avvocato del Minnesota. Ciò ha determinato che dal 29 settembre del 2007 la sciatrice abbandonasse il nido dalla propria famiglia per crearsene uno tutto suo con il fortunato Thomas. Lindsey è un tipetto tosto nel carattere come nel fisico. Si parla di un metro e settantotto di altezza per settantadue chili, ma altre fonti bene informate sostengono che il peso si aggiri sugli ottanta. Però Lindsey possiede anche uno spiccato senso degli affari: è vero che la Federazione non le assegnerà premi per questa medaglia, ma la bella sciatrice ha già contratti pubblicitari per tre milioni di dollari. Che questa vittoria, verosimilmente, provvederà a raddoppiare a breve termine. Inoltre, siccome si deve anche dare l’esempio, si è provveduto a ricucire lo strappo con il padre. Le due famiglie, Kildow e Vonn, erano infatti presenti per l’abbraccio cumulativo dopo la performance di Lindsey.

Italiane così così. Poco ma qualcosa sì. Lucia Recchia si è classificata nona, e questo dopo un ottimo avvio. È uscita di pista invece Elena Franchini. La sensazione che si respira è sempre quella un po’ frustrante di essere fuori dai giochi che contano prima di iniziare. Il punto è che De Coubertin ha sempre un po’ meno ragione. Questo non perché il par-

col FORMAGGIO

Ciononostante, la formidabile discesista dà la sensazione di possedere anche una forte struttura emotiva, tale da consentirle di affrontare certe sfide anche in solitudine. Magari per favorire una migliore concentrazione. Infatti, e questa è una cosa che ha un po’ stupito, non ha voluto il marito Thomas vicino a lei nei momenti immediatamente precedenti al via: «Ero convinta di farcela anche senza di lui», ha affermato. E

tecipare sia diventato meno importante che vincere. Ma perché questo é quello che purtroppo “passa”. I vinti diventano contorno, non fanno pubblicità e nessuno li conosce. La cultura della sconfitta è appunto tale, sconfitta. Tutti contribuiscono a darci questo messaggio: perdere è bene ma vincere è molto meglio, molto ma molto meglio.

La campionessa americana, dopo aver rotto con la famiglia, ha trovato un sistema per tenere in caldo i muscoli. L’Italia, intanto, conquista una nuova medaglia in Short track, ma per il resto, siamo molto al di sotto delle aspettative così è stato. D’altra parte, nonostante la grande classe dimostrata, Lindsey è persona che ha sempre inseguito i suoi obiettivi con una feroce determinazione. Già da quando, ancora bambina di soli sei anni, aveva già stabilito che nella sua vita l’obiettivo principale sarebbe stato affermarsi in una Olimpiade. C’era andata vicina a Sansicario nel 2006, ma fu fermata da una caduta. Poi ancora Salt Lake, niente. Al terzo tentativo è andata meglio. Lindsey, ventisei anni, è giovane ma non giovanissima. Questo sta a dimostrare che l’applicazione e l’esperienza a questi livelli deve integrare il talento. Ne sa qualcosa la seconda classificata alle sue spalle, quella Julia Mancuso che trasuda classe ma che non ha mai considerato come invece Lindsey, una vittoria alle Olimpiadi come un traguardo irrinunciabile. Questio-

Invece esistono atlete come Magda Genuin. Un nome una garanzia. Magda è nata a Belluno nel 1979, é laureata in pedagogia e ha lavorato con bambini affetti da autismo cui ha dedicato la tesi. Magda è arrivata solo quinta nella gara di sci di fondo, ma questo è solo un dettaglio. Magda ti adoriamo, come avrebbe detto il celebre Furio di verdoniana memoria.


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