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ISSN 1827-8817 00220

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Oggi il supplemento di arte e cultura del sabato

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 20 FEBBRAIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

La Camera approva il decreto sulla Protezione civile e Fini commenta: «Attenti, le regole non sono orpelli inutili»

Scaricabarile sul Titanic

Destra e sinistra riaprono la Grande Rissa attribuendosi a vicenda le colpe del malaffare. Intanto l’iceberg della crisi si fa sempre più minaccioso in un Paese senza guida e senza riforme MIOPIA DI STATO

di Errico Novi

Pensano alle escort mentre crolla il nostro export

ROMA. Dalla grande paura alla grande rissa. La paura è quella per lo scoppio di una nuova Tangentopoli e di un nuovo moto di antipolitica. La rissa invece è quella che è andata in scena ieri tra destra e sinistra (in margine alla votazione sul decreto-emergenza) per attribuire all’avversario la responsabilità dei casi di corruzione che stanno emergendo dalle inchieste di questi giorni. E intanto Gianfranco Fini richiama tutti alla necessità di regole e controlli.

di Enrico Cisnetto entre da giorni siamo impegnati ad chiederci se la signorina brasiliana che ha avuto per le mani Bertolaso gli abbia praticato un massaggio hard o soft, nessuno butta un occhio sugli ultimi dati che fotografano la condizione dell’economia italiana. Ed è cosa assai sbagliata, perché la crisi ha colpito così duro che ci costringe ad un pericoloso viaggio a ritroso nel tempo, al termine del quale non sappiamo dove andremo a finire.

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Bertolaso e Verdini insieme alla Camera per il decreto sulla Protezione civile

La netta denuncia di Imposimato

«Ormai la corruzione è quasi legalizzata»

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MELINA DI STATO

Fino a quando si può rinviare la riforma delle pensioni?

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A quattrocento anni dalla nascita

Caravaggio senza gossip

di Franco Insardà «Dal 1992 le cose sono cambiati, sì, ma in peggio. Perché la corruzione ormai è stata legalizzata»: sono durissime le parole di Ferdinando Imposimato, giudice istruttore di tanti processi alla mafia e alla camorra.

«Quando tutto è lecito comincia la tirannia»

Alle Scuderie del Quirinale si apre una mostra-evento con una scelta meritoria: priorità alle opere classiche, senza alcuna indulgenza alle mode che in questi anni hanno accompagnato la mitologia del grande artista

di Riccardo Paradisi

di Marco Vallora

Il filosofo Giovanni Reale commenta per liberal l’affermazione del Papa secondo il quale non è vero mentire e rubare sia umano, come molti spesso sostengono. Il problema, dice Reale, è che senza regole nasce la tirannia.

na volta tanto fare delle illazioni o immaginarsi una mostra, scrivendone prima d’averla vista può avere un senso curioso, una sua logica strana. Intanto i Caravaggio che andremo a vedere a Roma, alla Scuderia del Quirinale, a partire da oggi, li conosciamo e li conoscono tutti: li abbiamo frequentati, in questi anni, fin troppo, sino alla nausea (anche se sazietà non ci può essere, con un simile artista) ma comunque rivoltolati e risaltati in qualsiasi salsa di mostre e di mostriciattole, talvolta anche incongrue, o ingiustificate, per poter motivare il disinvolto “trasloco”di simili sacri capolavori, che dovrebbero riposare tranquilli o meglio agire sovversivi nei luoghi stessi per cui sono stati creati o dove sono stati allocati, dalla tradizione. (Dunque, non è soltanto una questione di sicurezza e di ragionevole buona salute delle opere, che nel caso di Caravaggio stanno, per lo più, piuttosto bene e ben solide, ma anche di coerenza simbolica, di rispetto dei luoghi, ove giacciono da sempre).

di Gianfranco Polillo

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Il j’accuse del filosofo Giovanni Reale

l tormentone sulla riforma del sistema pensionistico non accenna a diminuire. È come un torrente carsico: per mesi il silenzio, poi all’improvviso riemerge in superficie. Solo pochi giorni fa è stato lo stesso Berlusconi, di solito così attento a non toccare temi poco popolari, a riprenderne le fila sia pure all’interno di un quadro europeo. Al contrario, sia il Ministro dell’economia che quello del Welfare manifestano irritazione solo a sentirne parlare. a pagina 2

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Nel mondo è scoppiata la guerra dell’alluminio

Cade il silenzio sull’incontro tra Obama e il Dalai Lama

La corsa per la conquista delle materie prime è diventata uno dei principali terreni di scontro (non solo economico) tra l’Occidente e i Paesi emergenti, dalla Cina all’India al Brasile

I giornali statunitensi oscurano il summit di Washington mentre quelli cinesi pubblicano provocatoriamente le immagini del leader tibetano che esce dalla Casa Bianca tra l’immondizia

Pierre Chiartano • pagina 14

Vincenzo Faccioli Pintozzi • pagina 10

seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

35 •

WWW.LIBERAL.IT

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a pagina 12

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 20 febbraio 2010

Titanic. Mentre la politica litiga su appalti, corruzione e massaggiatrici, Bankitalia (inascoltata) lancia l’allarme economico

Ma l’escort non è l’export La produzione è ai livelli di 25 anni fa, l’esportazione è in difficoltà, di innovazione non se ne parla: è questa la vera Emergenza Italia di Enrico Cisnetto entre da giorni siamo impegnati ad chiederci se la signorina brasiliana che ha avuto per le mani Bertolaso gli abbia praticato un massaggio hard o soft e dove saranno finiti i preservativi che un tizio diceva ad un altro al telefono di aver cercato senza fortuna nella stanza dove il capo della Protezione Civile avrebbe commesso peccato, e mentre il presidente del Consiglio per allontanare dagli italiani l’idea che siamo di fronte ad una Tangentopoli 2 non trova di meglio parlando di “birbantelli” che evocare l’appellativo di“mariuolo” che Craxi diede a Mario Chiesa, insomma mentre si parla d’altro, nessuno butta un occhio sugli ultimi dati che fotografano la condizione dell’economia italiana. Ed è cosa assai sbagliata, perché la crisi ha colpito così duro che ci costringe ad un pericoloso viaggio a ritroso nel tempo, al termine del quale non sappiamo dove andremo a finire.

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Bankitalia ha avvertito che la produzione industriale è tornata ai livelli del 1985, quasi cento trimestri fa (92 per l’esattezza). Il confronto con l’estero dà un’idea della profonda contrazione della muscolatura del manifatturiero, vera anima del tessuto imprenditoriale italiano: in Francia i trimestri persi sono stati dodici, in Germania tredici. Otto volte meno. Il calo della domanda ha colpito non solo i produttori diretti ma anche i sub-fornitori. E così anche la catena dell’export si è bloccata. La riprova arriva dai recenti dati Istat sulla bilancia commerciale: nel 2009 le vendite di beni all’estero sono calate del 20,7%, mai così male da quarant’anni. E non è cosa di poco conto, se si pensa che le esportazioni valgono un terzo del pil nazionale. Capisco che Adolfo Urso debba fare il suo mestiere di sottosegretario al commercio estero e dica che avendo toccato il fondo nel 2010 possiamo solo migliorare, ma questo – purtroppo – non è affatto scontato. Per intanto le lancette della storia ci riportano indietro di 40 anni se si guarda alla nostra capacità esortativa e di 25 se si considera la capacità produttiva. Insomma, la recessione iniziata con la crescita zero del

2007 e che nel biennio 2008-2009 ci ha fatto perdere quasi sei punti di ricchezza, ha bloccato il timido ma pur evidente tentativo che l’industria italiana stava facendo di adeguarsi ai paradigmi della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica, un lento e faticoso processo di ristrutturazione che ha premiato le aziende più efficienti in termini generali, ma senza particolare attenzione ai settori più promettenti, come quelli posizionati lungo la frontiera dell’innovazione tecnologica. Il tentativo di abbassare i costi di produzione con la delocalizzazione, ma soprattutto la necessità di internazionalizzarsi ha inserito le imprese in un panorama sempre più competi-

Il premier e il superministro hanno opinioni opposte

E intanto ricomncia il tormentone delle pensioni di Gianfranco Polillo l tormentone sulla riforma del sistema pensionistico non accenna a diminuire. È come un torrente carsico: per mesi il silenzio, poi all’improvviso riemerge in superficie. Solo pochi giorni fa è stato lo stesso Presidente del Consiglio, di solito così attento a non toccare temi tanto poco popolari, a riprenderne le fila sia pure all’interno di un più generale quadro europeo. Al contrario, sia il Ministro dell’economia che quello del welfare manifestano irritazione solo a sentirne parlare. La loro posizione è comprensibile. In un momento di crisi come l’attuale, dove tutto si gioca sui meccanismi di solidarietà sociale, accennare alle riforme del sistema è come parlar di corda in casa di impiccato. La complessa geografia sindacale ne verrebbe alterata, rendendo più difficili i rapporti tra l’ala più dura della Cgil, che già non sopporta l’appeasement del suo segretario generale, e gli altri sindacati. I quali si troverebbero oltremodo spiazzati. Quindi meglio parlar d’altro e lasciare al mercato il duro compito di fare il suo mestiere.

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Il mercato, quindi: la situazione è paradossale. Le vecchie pensioni di anzianità, croce e delizia del sistema Italia, hanno perso gran parte del loro appeal. Di fronte alla crisi, i lavoratori si dimostrano più saggi dei propri rappresentanti sindacali. Hanno, di fatto, allungato l’età lavorativa riducendo di molto le domande di prepensionamento. La spiegazione è semplice: lavorando si sentono più tutelati. Innanzitutto perché guadagnano di più. Quindi perché sono, comunque, inseriti in un meccanismo più forte di solidarietà sociale. E infine – elemento tutt’altro che trascurabile – gli spazi per un lavoro succedaneo, dopo l’ingresso nel mondo ruvido dei pensionati, si sono ridotti. Le aziende faticano a mantenere in piedi i propri dipendenti, figuriamoci se sono propense a forme ulteriori di collaborazione atipica. Verrebbe, quindi, da concludere: se l’allarme sociale è svanito, perché non approfittarne. Perché esiste, ancora, un riflesso condizionato. Al Nord, la Lega continua a difendere una piazzaforte che è stata da tempo espugnata dagli stessi lavoratori. Un certo riallineamento, inoltre, c’è stato. Alla fine degli anni ’90 il peso della spesa pensionistica sul Pil – il totale delle uscite correnti degli enti previdenziali – era pari, nel suo picco, al 19 per cento. Nel 2008 siamo scesi al 18,1. Una buona notizia: peccato solo che la livella negli ultimi anni non si sia arrestata, ma cresciuta di oltre 1 punto e mezzo di Pil. Gli ultimi provvedimenti – compreso l’allungamento dell’età di pensionamento delle donne – hanno spianato la gobba che tanto preoccupava gli analisti, negli anni precedenti, ma non risolto i problemi strutturali del welfare italiano: troppo ai padri e poco ai giovani, confusione tra assistenza e previdenza, ammortizzatori sociali circoscritti e così via.

Giulio Tremonti giura che non siamo fuori linea rispetto all’Europa ed i dati, in qualche modo, gli danno ragione. All’estero, per le pensioni, si spende meno, ma la progressione della spesa è più forte di quella italiana. Nel lungo periodo le rette sono, quindi, destinate ad incrociarsi. Ma quella data, in una fase così accelerata di cambiamento, somiglia un po’ alle calende greche. Un giorno non contemplato dal calendario ed al quale si faceva riferimento per procrastinare ogni impegno. Seguiamo pure la corrente, ma manteniamo in caldo il tema. Saremo, nostro malgrado, costretti a riparlarne.

tivo e concorrenziale. Partito molto in ritardo, questo processo negli anni Duemila si è accelerato senza però arrivare a compimento, per poi collassare con il sopraggiungere della crisi mondiale. Con il risultato che chi aveva avviato costosi programmi di riqualificazione e allocazione oggi soffre di una forte posizione debitoria, mentre chi ha aspettato – e si ritrova con meno problemi di cassa – è rimasto al palo. Mentre lo scenario visto nel suo insieme ci dice che il modello di sviluppo basato sull’export di prodotti cari ma con un contenuto di qualità, glamour e design – avendo perso il supporto della svalutazione competitiva della lira, strumento fondamentale insieme alla crescita del debito pubblico della politica economica del dopo Bretton Woods – non regge più. E ci dice pure che, ammesso di essere capaci di farlo, non sarebbe comunque più sufficiente neppure il completamento di quel processo di ristrutturazione che la crisi ha interrotto, perché lo scenario è profondamente cambiato.

Dal 1999 il blocco dei cambi tra valute europee, in preparazione della moneta unica, ha cancellato l’unico volano efficace per ridare slancio alle esportazioni. L’ultimo intervento risale a quindici anni fa. Da allora le vendite verso l’estero hanno iniziato il declino; e così, di fronte a questa recessione, l’Italia per la prima volta si è trovata priva dello scudo che per decenni l’ha protetta dalle proprie carenze di competitività. La storia ha presentato il conto. D’ora in avanti, il traino dell’Asia e dei cosiddetti paesi emergenti rimarrà fondamentale, considerato che già oggi rappresentano il 20% del commercio mondiale. Ma se, da un lato, i Bric possono funzionare come una locomotiva, dall’altro, sono anche i più forti concorrenti su piazza. Offrono materie prime e ore lavorate a prezzi più bassi dei paesi tradizionali, il che costituisce un buon appeal nei confronti dei consumatori fiaccati dalla crisi. In questo contesto i prodotti del made in Italy sono i più colpiti. I beni del commercio al dettaglio non sono più insostituibili, o meglio, i consumatori sanno dove trovare surrogati decenti. Finora i paesi in rapida crescita sono stati usati come un gran-


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L’Europa non gradisce la decisione della Fed di alzare il tasso di sconto

La stretta Usa spinge la Ue a darsi un’exit strategy Una politica dei tassi più restrittiva colpisce i Paesi come l’Italia con strutturali problemi finanziari di Francesco Pacifico

ROMA. Il primo effetto è stato far de-

de contenitore dove posizionare merci griffate a costi sostenuti (prezzi superiori del 30-50% rispetto alla media), privilegiando una logica di profitto nel breve termine senza una strategia di insediamento coordinata e strutturale. Secondo i calcoli pubblicati nel rapporto «Il Mondo è cambiato», curato dalla Fondazione Manlio Masi e pubblicato da Rubbettino, una riduzione e differenziazione di prezzo in base alle aree di riferimento aumenterebbe le quote di mercato. Se nei paesi emergenti, poco reattivi alle variazioni di costo, un taglio del 10% rispetto ai concorrenti farebbe crescere la quota per meno dell’1%, in altri mercati sarebbe diverso. Da una simile riduzione il beneficio maggiore arriverebbe dalle economie avanzate, che acquistano il 60% dei beni italiani. In questo caso l’incremento sarebbe del 3,5%. La rivoluzione di prezzo, però, non può bastare. Gli imprenditori dovrebbero prendere coscienza del fatto che la crisi non è una parentesi temporale. Una volta passata, ogni assetto sarà cambiato, in sostituzione di quello attuale. E qui, anche la politica deve fare la propria parte.

L’ipotesi di riduzione delle aliquote fiscali, ammesso

che sia praticabile, è positiva, ma non risolve: il problema è quello di avere una politica industriale. Quale? Il caso francese è un valido esempio. Qualche anno fa – da Chirac presidente e da Sarkozy ministro dell’Economia – fu commissionato all’amministratore delegato della Saint Gobain, Jean Louis Beffa, un rapporto sul capitalismo transalpino. In esso si sosteneva che la Francia non poteva più esportare solo formaggi e profumi e che l’orientamento verso attività più moderne e competitive contestualmente a investimenti in ricerca, sviluppo e nuove tecnologie non poteva più essere rimandato. Si scelsero 69 settori (forse anche troppi) su cui puntare, nessuno fece inutili dibattiti se si trattava di dirigismo o meno, e oggi Parigi si posiziona, seppur con qualche incertezza, al primo posto per la ripresa. Imparata la lezione, una delle prime mosse contro la crisi di Nicolas Sarkozy è stata iniettare più liquidità nello sviluppo. A Roma, invece, il tema principale di dibattito sono le escort e una nuova Tangentopoli incombe. Aiuto. (www.enricocisnetto.it)

prezzare l’euro. Sceso infatti fino a 1,3520 sul dollaro dopo aver toccato gli 1,3440. L’altro, generare non poco panico sui mercati. Che è stato assorbito soltanto quando il dato sulla bassa inflazione Usa (+0,2 per cento a gennaio) ha fatto da scudo alle speculazioni, tanto che Milano ha chiuso in positivo dello 0,35 per cento. L’Europa non ha gradito la scelta – unilaterale – dell’America di dare il via all’exit strategy dalle politiche di debito. Vuoi perché nell’area c’è un picco di liquidità da 250 miliardi di euro; vuoi perché – l’ha ricordato il premier George Papandreou – «alti tassi per la Grecia significheranno alti tassi per tutti nel Continente».

Del clima che si respira, se n’è fatta interprete Emma Marcegaglia. E le parole del presidente di Confindustria possono applicarsi anche fuori dai nostri confini. Perché se «un ritorno a un valore dell’euro più basso può certamente aiutare le nostra esportazioni», dall’altro, e con le difficoltà del commercio mondiale, si acutizza «una congiuntura difficile dove i piccoli miglioramenti saranno comunque lenti». Nessuno crede a Ben Bernanke quando giura che la mossa di 48 ore fa è stata soltanto una misura tecnica. Non tranquillizza neppure sentirlo sottolineare che un conto è alzare (come ha fatto di 25 punti base) il tasso di sconto praticato sul denaro prestato alle banche, un altro lasciare invariati i Fed Funds, che garantiscono soldi ad aziende e famiglie. In questo rialzo si teme l’avvio di una nuova strategia economica degli Stati Uniti, sempre meno disponibili ad accollarsi i destini del mondo, ma decisi – anche alzando le tasse – a riportare energie e risorse sull’economia reale. Il parallelo naturale è con le decisioni di Paul Volcker (guarda caso oggi consulente ascoltato da Obama) da presidente della Fed negli anni Ottanta. Allora portò i tassi vicino al 20 per cento pur di spazzare via la stagflazione del decennio precedente e far partire una riconversione tecnologica che ha portato internet e la maggiore ondata di benessere dal dopoguerra in poi, durata fino all’inizio del nuovo secolo. Come allora, la decisione di Bernanke finisce a cascata per rimodulare il siste-

ma produttivo americano. Con i tassi più alti sarà più oneroso importare tutti i beni strumentali che oggi arrivano dall’Asia, Cina in testa. E se gli americani dovranno imparare a risparmiare e le banche a non traslare sui i mercati i rischi finanziari, dovrà darsi da fare anche un’industria locale, campione – come dimostra il caso iPod – nell’assemblare tecnologia studiata dai laboratori interni ma realizzata ovunque si risparmi sul costo del lavoro. Il trend l’hanno capito bene le Tigri del Fareast, con le borse di Tokio (-2 per cento), Hong Kong (-2,95Shanghai (-1,09) ieri non a caso negative. C’è timore che una stretta ai tassi renda meno conveniente investire sugli asset speculativi e che la crescita interna sia rallentata con il calo dei consumi in Usa e in Europa. Va da sé che un’America dà il via all’exit strategy costringe l’Europa ad aggiornare le proprie politiche anticrisi, non soltanto perché tarate su un mondo che vuole semplicemente difendersi. Ieri i ministri dell’industria della Ue hanno deciso che è ora di finirla di dopare il mercato dell’auto con gli incentivi alla rottamazione, preferendo tornare ai vecchi e consolidati aiuti alla ricerca. Con una nuova politica dei tassi, dovrà riscrivere le sue strategia di crescita anche l’Italia, che ha goduto del binomio bassa inflazione e scarsa tensione sociale. Ieri l’Istat ha comunicato che nel 2009 il fatturato dell’industria italiana è crollato del 18,7 per cento rispetto al 2008, gli ordinativi del 22,4. In realtà il peggio sembra passato se questi due dati a dicembre su novembre hanno rispettivamente segnato un incremento dell’1,9 e del 4,7.

Dopo mesi di rialzi, il dollaro torna a rafforzarsi. Un vantaggio per le nostre aziende, a patto di recuperare competitività

Un primo aggancio alla domanda che arriva dall’estero è stato fatto, ma serve qualcosa in più per recuperare i 5 percentuali punti di Pil persi nel 2009 (nel 2010 si crescerà soltanto di uno) e frenare la disoccupazione che nella peggiore ipotesi viaggia verso il 10 per cento. Con l’America che costringe la Bce a ritoccare il costo del danaro sarà più caro il servizio del debito. E non potendo ricorrere agli incassi delle privatizzazioni o a artifici finanziari sul deficit, dove trovare i soldi per riconvertire la nostra economia? In fondo è questa la sfida di Tremonti per il 2010.


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Scaricabarile. Il dibattito sulle emergenze scatena un rimpallo di accuse tra Pdl, Pd e dipietristi su chi è più “inquinato”

Bertoladri & Sciacalli

Alla Camera va in scena il solito festival dell’insulto tra destra e sinistra. Passa il decreto sulla Protezione civile. Stop alla legge anti-corruzione di Errico Novi

ROMA. Bastano pochi elementi. Una mattinata qualsiasi a Montecitorio, trascorsa tra insulti, grida e rivendicazioni assurde. Un Consiglio dei ministri che partorisce non un disegno di legge sulla corruzione ma una semplice promessa di intervento. Un decreto legge sulla Protezione civile che ha ben poco di costruttivo al proprio interno, se non la dichiarazione che le emergenze per i rifiuti a Napoli e il terremoto in Abruzzo sono concluse. E un governo che viene giustamente battuto dopo aver detto, cosa che ha dell’incredibile, no a tre ordini del giorno, due del Pd e uno dell’Udc, che semplicemente propongono di restituire un minimo di dignità alle carceri e di ripristinare la black list delle aziende in odore di mafia. Basta questo a descrivere una brutta giornata per la classe politica, quella stessa che con buona premonizione il presidente del Consiglio sente minacciata «nel suo insieme», almeno da quando le inchieste sul G8 hanno turbato Gianni Letta. Soprattutto colpisce l’ostinazione con cui buona parte

dei deputati si abbandona al solito scaricabarile. Il dibattito che precede il voto finale su decreto emergense (approvato con 282 sì e 246 no e ora al vaglio definitivo del Senato) è infatti un festival di accuse reciproche. Nel giorno in cui il presidente della Repubblica vorrebbe solo apprezzare «il positivo confronto tra maggioranza e opposizione che ha evitato il ricorso al voto di fiducia», Montecitorio fa di tutto per deludere comunque il Quirinale. Tra gli insulti più imprevedibili c’è quello del dipietrista naif Franco Barbato, che dà dei «bertoladri» a tutti i colleghi di maggioranza. Dall’altra parte rispondono con la bandierina del bolognese Delbono. E il meno che possa succedere è che il capogruppo del Pd Fabrizio Cicchitto concluda il suo intervento con un passaggio sulla Campania dove, dice, «ci siamo misurati con la storia del vostro fallimento nazionale e regionale, a que-

sto fallimento abbiamo dato una risposta sul campo». E va bene. Ma nemmeno il navigato dirigente berlusconiano sa trattenersi un centimetro al di qua della soglia del buongusto quando chiosa: «Anche in questo dibattito abbiamo sentito l’urlo dello sciacallo».

Una specie di allucinazione. Acustica, visiva, comunque

collettiva e sgradevole. In cui ben ci si guarda dal conservare un po’ di energia e di spirito di servizio per cause più meritevoli della ripicca da bar. Come se la corruzione riemersa dalle macerie di sprechi e catastrofi avesse definitivamente interrotto le linee di collegamento tra il ceto politico e la realtà del Paese. Nel suo autismo il Parlamento preferisce litigare come

Quanto costa il malaffare in Italia ROMA. Quanto costa la corruzione agli italiani? Non è facile fare delle cifre precise, come si legge nel Rendiconto presentato dal Procuratore generale della Corte dei Conti Furio Pasqualucci. Ma una stima si può fare, quella sì: e siamo tra i cinquanta e i sessanta milioni di euro l’anno. Ma, quel che conta, il costo di questa malattia nazionale è duplice, cioè è come se la cifra – già in sé notevolissima – raddoppiasse: perché da un lato ci sono le spese propriamente economiche (la quantità di denaro sottratta agli investimenti pubblici dai corrotti e dai corruttori), dall’altra c’è la scarsa qualità delle opere realizzate, per così dire, «al risparmio» per stornare le mazzette. Dai dati elaborati, infine, si nota che fra le prime cinque regioni per numero di reati collegati ai fenomeni corruttivi, ben quattro appartengono al Mezzogiorno (Sicilia, Campania, Puglia e Calabria), mentre l’unica regione del Nord è la Lombardia; il Lazio, sede delle amministrazioni centrali è al settimo posto.

al solito anziché fermarsi a riflettere. Nella migliore delle ipotesi, e in questo caso è sempre all’intervento dell’incolpevole Cicchitto che si va a finire, ci si produce comunque in un eccesso di vittimismo. «Respingiamo questo vizio assurdo che c’è tragicamente in Italia, per cui gli uomini migliori devono essere distrutti e massacrati». È un po’ un’iperbole, anche se non c’è dubbio che contro il capo della Protezione civile l’Italia dei valori e il Pd mettano in scena un processo ingiusto. Così è difficile storcere il naso quando lo stesso Cicchitto esprime al sottosegretario inquisito la solidarietà del Pdl e tutti i deputati della maggioranza esplodono in un’ovazione da stadio.

La cattiveria non è solo nelle consuete carinerie di Antonio Di Pietro, che spreca addirittura una nota ufficiale per dire che il dipartimento di Bertolaso non può più essere l’ufficio «degli appalti e delle mazzette». Sorprende di più che un leader ragionevole come Pier Luigi Bersani si rivolga allo stesso capo della Pro-


prima pagina Dario Franceschini ieri alla Camera è stato uno dei più accesi contestatori del governo in occasione delle votazioni legate al decreto sulla Protezione civile che alla fine è stato approvato dall’Aula. A destra, il giudice Ferdinando Imposimato. Nella pagina a fianco, Guido Bertolaso

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Parla il giudice istruttore di tanti processi di mafia e camorra

«Ecco come la legalità si perde nei subappalti»

Per Imposimato, dal 1992 le cose sono cambiate in peggio. «E la gente non si fida più nemmeno della magistratura» di Franco Insardà

tivo, rimasto un po’ per aria nel Consiglio dei ministri. È Pierluigi Mantini a spiegare che «punto centrale della proposta è l’attribuzione all’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici del potere di segnalare direttamente alle stazioni appaltanti e alle magistrature competenti i casi più gravi di omissione o distorsione delle normative sugli appalti, anche per i cosiddetti grandi eventi».

tezione civile con un intimidatorio «vola basso». Casus belli è l’intervista a Panorama in cui il sottosegretario coinvolge il capo democratico in una metafora un po’ casuale («chi ci va a spalare, Bersani?»). L’interessato chiede «più umiltà e meno arroganza» perché lui a quindici anni «andava a spalare a Firenze». Tutti puntigliosi. È decisamente meno digeribile, rispetto alla retorica di Cicchitto, quella con cui Dario Franceschini fa un lungo elogio dei volontari della Protezione civile «che anche senza maglione blu» danno l’anima senza chiedere nulla in cambio. Cosicché quando il capogruppo dell’Idv Massimo Donadi, chiusa la camera di consiglio, comunica all’imputato Bertolaso che «noi la riteniamo politicamente colpevole per aver trasformato il suo dipartimento in una macchina di potere», il tutto suona come una carezza.

Ci si accusa. Punto. C’è poco altro, in una mattinata che pure Giorgio Napolitano si sforza di considerare «un precedente significativo per una auspicabile evoluzione dei rapporti tra i diversi schieramenti che conduca al pieno rispetto e alla valorizzazione del ruolo del Parlamento». Finisce che il pomeriggio si trasforma nell’overtime di una brutta giornata, con le accuse al governo di aver usato l’annunciata legge sulla corruzione come uno spot. A impegnarsi sul dossier sono soprattutto le democratiche Anna Finocchiaro e Marina Sereni. Con un atteggiamento più costruttivo l’Udc invece mette in cantiere a sua volta altre proposte per integrare l’eventuale ddl governa-

Molto convincente è soprattutto l’idea di «considerare le più gravi violazioni come danno erariale, con responsabilità penale per i funzionari» dal momento che «la violazione della concorrenza determina comunque un danno grave all’efficienza dei mercati». Non è il solo aspetto che qualifica positivamente il ruolo dei centristi in un dibattito comunque deprimente. In uno degli ordini del giorno approvato a Montecitorio prima del voto finale, Roberto Rao, Michele Vietti e Lorenzo Ria mettono in minoranza il governo sull’impegno «ad adottare una politica carceraria che contenga il sovraffollamento, attraverso la riduzione dei tempi di custodia cautelare, la rivalutazione delle misure alternative al carcere e la riduzione delle pene di lieve entità». È sorprendente che l’Esecutivo neghi il proprio parere favorevole (pagando oltretutto anche un prezzo elevato) perché si tratta delle proposte minime su cui il Guardasigilli Alfano si dice da tempo d’accordo persino con l’Associazione magistrati. Su proposte simili, e su una in cui si chiede di ripristinare la “black list” delle imprese infiltrate dalla mafia, il governo viene sconfitto su iniziativa del Pd, e anche stavolta è impossibile capire perché si sia esposto al colpo, se non nell’ambito di una rissa sempre più insensata. In questo quadro Berlusconi non riesce a nascondere il proprio affanno, che non gli sottrae comunque le energie per rivolgere un brusco “prego si accomodi”al dimissionario Nicola Cosentino e per invocare «qualcun altro con cui parlare» al termine di un concitato confronto con gli altri parlamentari campani del Pdl.

ROMA. «La corruzione paga. In tutti i sensi, ma corrotti, ma più scaltri e difficilmente persesoprattutto politicamente». Ferdinando Imposimato, giudice istruttore dei più importanti casi di terrorismo, che nella sua carriera si è occupato di mafia e camorra ed è stato membro della Commissione antimafia non ha dubbi e non nasconde tutto il suo pessimismo. Corruzione, tangenti, scambi di favori di vario tipo, il quadro non è certamente rassicurante? La situazione è quella esposta in maniera molto precisa dal procuratore generale della Corte dei Conti. Il fenomeno esiste e non è un persecuzione come sostiene il presidente del consiglio Berlusconi. L’allarme sociale dovrebbe portare alla condanna politica dei responsabili, ma così non è. In molti casi si può parlare di corruzione legalizzata. In che senso? Si sono trovati degli espedienti per consentire che il denaro venga sottratto alle finalità pubbliche per essere, invece, destinato a interessi privati. Tutto questo avviene nell’indifferenza generale, anche dei cittadini che sembrano non rendersi conto che questa loro assenza rispetto al fenomeno è molto grave. Se non ci fosse stata la presenza della magistratura anche gli episodi di questi ultimi giorni non sarebbero stati scoperti. Eppure alcune cose erano abbastanza conosciute. Ci spieghi. Conosco molte persone a L’Aquila, dove insegno alla facoltà di Scienze delle Investigazioni, che mi hanno manifestato dei dubbi, fin dai primi giorni del dopo terremoto, per alcune scelte poco felici e per l’esclusione delle imprese e dei professionisti locali. Mi hanno raccontato di essere stati trattati male, quando hanno provato a lamentarsi di questa situazione. È vero quanto sostiene il sottosegretario alla Protezione civile, Guido Bertolaso, che occorre velocizzare i sistemi, ma è anche vero che bisognerebbe garantire i controlli. Ed è qui che avviene il corto circuito, perché i controllori diventano complici. Purtroppo la corruzione è un fenomeno gravissimo che con il passare degli anni peggiora. Mi sono occupato dell’Alta Velocità e delle autostrade e il sistema è sempre lo stesso: si privatizzano i guadagni e s’imputano al pubblico le perdite. Qualcuna parla di una nuova Tangentopoli. Dieci anni fa scrissi un libro (Corruzione ad Alta Velocità ndr) nel quale si evidenziavano tutti i meccanismi che ancora oggi si usano. Tangentopoli non ha sconfitto la corruzione che è rinata in maniera più sofisticata e né si può parlare di una Seconda Repubblica rinnovata. Perché? Ci troviamo di fronte a personaggi ancora più

guibili per i loro comportamenti al limite della legge. Non dimentichiamoci l’approvazione di norme che di fatto hanno portato alla legalizzazione della corruzione. Mi riferisco, ad esempio, alle opere pubbliche che costano sette volte di più rispetto al resto d’Europa, dal momento che sono gravate dalle mazzette che vengono spartite tra imprenditori, politici, funzionari e criminalità organizzata. Questo fenomeno l’ho denunciato da anni anche come membro della commissione Antimafia. In Italia, però, si fanno soltanto analisi, ma soluzioni non se ne vedono. Il presidente della Corte dei Conti ha posto l’attenzione anche sulle consulenze. Un altro tasto dolente. Quando ero in Parlamento proposi una legge per arginare il fenomeno, perché è proprio questo uno dei sistemi più sofisticati della corruzione. In molti casi parliamo di consulenze affidate a magistrati e nella mia proposta era previsto un espresso divieto proprio per loro. Ma non si è riusciti ad approvarla e mi sono trovato tutti contro, a partire dai magistrati. La situazione è generalizzata e riguarda sia il centrodestra sia il centrosinistra. Direi che c’è un consociativismo anche nella spartizione delle mazzette. Perché rispetto al ‘92 i cittadini si fidano molto meno della magistratura? La considerazione nei confronti dei magistrati da parte dell’opinione pubblica si è ridotta, è un atteggiamento condivisibile perché ci sono stati degli abusi. Bisogna anche evidenziare che dal punto di visto politico non c’è una buona opposizione e manca il controllo, affidato soltanto a qualche magistrato isolato. Il Consiglio dei ministri ha dato un via libera di principio al disegno di legge che inasprisce le pene per i reati contro la pubblica amministrazione, tra cui la corruzione, non è troppo tardi? Il problema non è che non ci sono le leggi, mancano i controlli. Il no alla privatizzazione della Protezione civile mi trova d’accordo, ma non bisogna dimenticare che si sta procedendo alla realizzazione del Ponte sullo stretto di Messina. Lì che cosa succederà? Ci dica. Il sistema è sempre lo stesso: chi si aggiudica l’appalto prende le anticipazioni sul costo dell’opera e subappalta i lavori. In molti casi molto aziende che vincono le gare non hanno neanche operai assunti, passano le commesse. Va eliminato proprio questo sistema dei subappalti: è questo il vero scandalo.

La corruzione paga. In tutti i sensi, ma soprattutto politicamente. Per questo è difficile che le cose cambino davvero


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Costumi. L’opinione del filosofo Giovanni Reale sulla crisi dell’etica pubblica

L’anestesia morale è l’anticamera della tirannia

«La rivoluzione cristiana appare sempre più necessaria nel mondo dove i valori sono morti» di Riccardo Paradisi essere umano è ferito, il peccato ha ferito la natura umana. Per questo, si dice ha mentito, ha rubato, è umano, ma questo non è il vero essere umano. Essere uomo, secondo la volontà del Creatore, è essere generoso, volere la giustizia, la prudenza, la saggezza e con l’aiuto di Cristo uscire da questo oscuramento della nostra natura». La lectio divina di Benedetto XVI coincide con la riemersione del fiume carsico e fangoso del malcostume politico italiano: generalizzato, trasversale, pervasivo.

«L’

Malcostume che non è solo abituale condotta della “casta” politica ma che è largamente praticato anche dal cosiddetto Paese reale, da quella società civile che, rilevano Eurispes e Corte dei conti, pratica e subisce la corruzione come un dato ormai fisiologico, tendenza verso cui s’è ormai sviluppata un’assuefazione morale. È contro questa abitudine al morbo morale del furto e della menzogna che il Pontefice ha lanciato il suo monito: «Non è umano rubare o mentire: la vera umanità, il vero umanesimo è la formazione delle virtù umane». Rubare, mentire sono azioni che fanno scendere l’uomo nella scala della dignità, lo umiliano, lo sporcano. Essere uomo è un compito che prevede dunque, per essere assolto, l’adesione alle virtù cardinali della rettitudine, dell’equilibrio, della fortezza e della temperanza, la base per uscire «con l’aiuto di Cristo – dice il Papa – da questo oscu-

ramento della nostra natura». Giovanni Reale, filosofo cristiano e autore di saggi fondamentali sul male dell’anima dell’uomo moderno e sulle radici della nostra cultura europea riflette con liberal sulle parole di Benedetto XVI e sul terreno in cui esse vengono a cadere. «Il pontefice – dice Reale – rovescia il luogo comune ormai inverato per cui l’errore morale, il peccato, vengono contemplati come debolezze umane fisiologiche e, come tali, scusabili. A guardar bene questo atteggiamento, ad applicarvi

quella filosofia del sospetto che ha rovesciato gli antichi valori, ci si accorge facilmente che si tratta di una forma surrettizia di autoassoluzione. Sono il lassismo e la sciatteria morale a parlare quando cominciano a suonare le retoriche del relativismo morale e dell’assoluzione data al male. E del resto questa autoindulgenza sempre maggiore, sempre più disinvolta, questo rifiuto di fare i conti con se stessi, affonda le radici in un humus culturale creato dall’estremismo psicanalitico, dall’idea che in omaggio a una presunta esigenza di liberazione e emancipazione dai vecchi valori oppressivi, l’uomo deve fare quello che si sente dentro, tornare spontaneo, non lasciarsi inibire da obbedienze etiche viste come alienazioni.

possono comportare. «Ma nel suo foro interiore, nella sua coscienza, ormai spesso eliminata come un tirannico superIo – nota amaramente Reale –, il nostro contemporaneo sente d’essere in fondo sempre giustificato».

Insomma l’uomo di oggi ha smesso di giudicarsi con severità ed è diventato il miglior avvocato di se stesso. Incline a giustificare tutto ciò che lui stesso e i suoi simili fanno. «Una cosa sola oggi sembra non essere perdonabile – dice Reale – ed è il successo altrui. Ecco questa cosa l’uomo di oggi proprio non la perdona al suo prossimo. Lo aveva capito bene Orwell: l’uomo è disposto a perdonarti tutto tranne il tuo riuscire bene in qualcosa per tuoi autentici meriti. È l’invidia che si scatena e che innesca quel senso di competizione furioso che per trovare soddisfazione e lenimento all’invidia del vero valore ricorre a tutto. Questo sistema di compravendite, di scorciatoie, questo mercimonio col potere che intrattengono l’economia e la cultura e

Quando la libertà diventa licenza generale, il corollario necessario e inevitabile sono la distruzione dei nessi sociali, la violenza e, per reazione, un brutale ritorno all’ordine con l’arrivo della tirannia

La conseguenza di questa visione, ma io direi di questa allucinazione, è chiarissima: l’uomo occidentale è ormai tendenzialmente portato ad ammettere tutto». E se esiste un qualche scrupolo nel trattenersi da comportamenti scorretti o illeciti nella grande maggioranza dei casi è solo per la paura delle conseguenze sociali che certi atti

che droga il mercato, la sana competizione, che umilia il merito è un sistema costruito sull’iniquità e sull’invidia. Un sistema che uccide l’etica pubblica e che diventa lo strumento di rivalsa dei mediocri, di coloro i quali sono disposti a prostituire se stessi per il piatto di lenticchie del potere e del denaro». Ma non c’è nulla di nuovo sotto il sole. «Già Platone – ricorda Reale – lo aveva capito molto bene: il desiderio del potere e del piacere prende la mano ed entra nella fortezza dell’anima. Qui, questa brama velenosa, fa breccia e svuota la psiche di validi ragionamenti che nella mente dell’uomo sono le più strenue forze di difesa che esistono. Noi oggi siamo a un nuovo tornante della decadenza della civiltà: l’uomo sta perdendo le forze di difesa.Tutto è lecito, tutto è permesso, la bussola interna sembra girare a vuoto, ma questa atmosfera generale apre la diga al caos. Quando la libertà diventa licenza generale il corollario necessario e inevitabile è la distruzione dei nessi sociali, la violenza e, per reazione, un brutale ritorno all’ordine attraverso la tirannia». E non ci salveranno i codici etici, le nuove tavole dei valori del civismo democratico o del


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che il Papa richiami energicamente la Chiesa e gli uomini a una forte responsabilità. Indicando nell’atto del furto e della menzogna delle colpe gravissime e da condannare. Il Papa ha richiamato dunque al compito di reagire dall’interno allo sfascio morale, ontologico e assiologico che avviene in ciascun uomo, sfascio dovuto allo smarrimento dei principi. Relativismo e nichilismo sono i mali di oggi ripete sempre il papa. Tutto vale perché tutto vale zero».

politicamente corretto da questa prospettiva drammatica. No – dice Reale – è una rivoluzione spirituale la nostra unica via d’uscita dalla gelatina morale che c’impantana. «Nelle Radici culturali dell’Europa dicevo che l’unità dei popoli del vecchio continente, la costruzione di un soggetto spirituale e politico, non si crea con i trattati, con i codici, con le buone intenzioni. Si ritrova riscoprendo le radici profonde dell’uomo europeo. È li la base solida, profonda, del nostro autentico essere. Se manca l’uomo europeo manca l’Europa. Nel nono libro della Repubblica Platone diceva che lo stato si costruisce nell’animo dell’uomo. Oggi si sente parlare di sfascio dello Stato, di crisi delle istituzioni: l’analisi è esatta ma ci si guarda bene di andare alla radice del problema, di guardarsi dentro cioè. La condizione politica in cui viviamo rispecchia il livello morale generale: lo Stato è la proiezione di ciò che c’è nell’anima della maggioranza delle persone». Ecco perché il Papa chiama alla conversione, al cambiamento interiore. «Il Papa ha ragione in quello che dice ma attenzione: il suo non è solo un monito etico, morale. L’etica e la morale umane non bastano

più. Si sono trasformate in convenzioni, al massimo regole a cui si aderisce esteriormente. L’etica è la base ma il passaggio dall’essere obbe-

mi”. Essere cristiani non è sbandierare un’idea è seguire Cristo. Oggi l’uomo segue se stesso. I propri impulsi, il proprio principio di piacere. Mu-

Anche la parola, vale pochissimo. «Non sembrano più esistere i fatti, la verità, ma solo le sue interpretazioni. Ma insomma siamo immersi nella Babele della falsa testimonianza mediatica, giornalistica, politica. E se la verità rende liberi la menzogna rende schiavi. Non è vero che relativismo e nichilismo abbiano liberato l’uomo dal giogo degli antichi valori. Lo hanno incatenato a ciò che è sotto l’umano, a forze che hanno preso il sopravvento sulla stessa ragione. Occorre arrivare al fondamento metafisico del relativismo e del nichilismo per scorgervi dietro le vere forze che vi operano. E che sono forze inumane. Nietzsche canterebbe vittoria di fronte a questo panorama. Ci direbbe, forse ghignando, ”Ve l’avevo detto che i secoli a venire sarebbero stati il tempo della morte di Dio”. Ma se questo è il superuomo che ne è derivato che misera cosa è questo superuomo». René Girard diceva che l’uomo è una creatura mimetica: forse è per questo che la corruzione si propaga con la forza di un virus. Oggi attenersi alla rettitudine sembra un’esercitazione di virtù, sembra ci si conceda il lusso di essere onesti, di dire la verità, di non aver paura delle conseguenze.

Siamo immersi nella Babele della falsa testimonianza mediatica e politica. E se la verità rende liberi, la menzogna rende schiavi. Relativismo e nichilismo hanno incatenato a ciò che è sotto l’umano

dienti alla regola all’essere testimoni di giustizia e giusti è Cristo. Smettiamola di fare i perbenisti farisei, credere che essere cristiani significa seguire un’ideologia. Essere cristiani significa vivere accanto a Cristo, vedere Cristo nell’uomo di oggi, nel prossimo. La fede dura finché si vive Cristo come un contemporaneo. Questa è l’idea più forte. Il cristianesimo non è un insieme di concetti, una dottrina, ma è l’incontro con una persona. Nell’uomo di oggi questa verità , che è poi l’essenza del cristianesimo, è dimenticata. Eppure Cristo è chiarissimo fin dall’incontro col suo primo evangelista: a cui dice “segui-

tevole per definizione, mutevole anche nel suo esito, che si trasforma alla lunga, in dolore». Ma questo atteggiamento, dice Reale, è peggio dell’ateismo. «Dostoevskij diceva che l’ateismo è il primo gradino che porta a Dio, oggi l’ateismo s’è trasformato in somma indifferenza. È non porsi il problema di Dio, la rimozione del dubbio su dio. È il colpo da maestro del nichilismo: non mettersi nemmeno più in antagonismo col mistero, con l’assoluto, con i principi primi, semplicemente rimuoverli. La fortezza dell’anima in questo modo non viene più aggredita ma occupata dall’interno. Per questo non mi stupisce il fatto

Eppure, dice Reale, la cosa più giusta da fare è sempre la più astuta. «L’essenziale è invisibile agli occhi, ma l’intelligenza lo coglie. Può apparire senza senso alla semplice ragione funzionale attenersi alla legge morale che abbiamo dentro di noi, mentre ciò che ci circonda corre in un’altra direzione, raccogliendo apparenti trionfi. Eppure i regni fondati sul nulla tornano nel nulla. Ciò che è costruito sulla solida pietra resta. Le cose belle come le virtù morali costano fatica. Sono un investimento a lungo termine. Ma l’unico possibile e fruttuoso. Se lo segui non sbagli».


diario

pagina 8 • 20 febbraio 2010

Paradossi. I due boss locali dei maggiori partiti (sia pure per ragioni opposte), sembrano intenzionati a «remare contro»

La ditta Cosentino/Bassolino

In Campania, nel Pdl e nel Pd ormai è una corsa a perdere le elezioni NAPOLI. Il Pdl è orfano di Nicola Cosentino e il Pd è orfano di Antonio Bassolino. Almeno così pare e si racconta. O, se proprio non sono orfani, sono un po’ azzoppati: Nicola - come lo chiamano con affetto gli amicinemici del Pdl - si è dimesso da sottosegretario e da coordinatore regionale del partito che in Campania ha contribuito in modo determinante a far uscire da una condizione di minorità, ma ha anche subito precisato che i suoi uomini restano nelle liste e lui non presenterà «liste ostili al mio partito». Ma il malcontento resta, eccome. Dall’altra parte, dopo anni di reciproche critiche, e dopo che Enzo De Luca ha inaugurato la campagna elettorale all’insegna dell’antibassolinismo più dell’antiberlusconismo, ecco che c’è stato un incontro a Palazzo Santa Lucia tra Antonio ed Enzo - il governatore e lo sceriffo - perché il sindaco di Salerno ha capito perfettamente che farà il pieno di voti a Salerno, ma senza Bassolino e il suo potere a Napoli rischia di farsi il bagno nel golfo.

È una situazione un po’ strana quella che va in scena in Campania: i due uomini più importanti dei due partiti più importanti non solo non fanno parte della partita, ma sono anche gli uomini che i loro stessi partiti hanno messo in fuorigioco. Eppure, non ne possono - per ora fare a meno. A Napoli si gioca il «tressette a perdere».

questo potere sia ancora ben saldo sulla poltrona e i bassoliniani sono bene radicati a Napoli e nel suo immenso hinterland. È qui che si decidono i giochi delle elezioni. Si potrà fare a meno di Bassolino dopo il voto, ma come si può fare a meno dei voti bassoliniani prima del voto? Questa è la contraddizione del Pd, ecco perché De Luca è costretto, in cuor suo, a dire a Bassolino come Catullo con Lesbia: “Odi et amo”.

Anche nel partito di Cosentino da un po’ di tempo Cosentino è diventato ingombrante. Non è solo una storia campana e non c’en-

Nel centro-sinistra, De Luca si propone come candidato di rottura, mentre nel centro-destra pesa la rottura con Carfagna e Bocchino Sembra che la stessa cosa stia accadendo nel Pdl e nel Pd. Nel partito di Bassolino da molto tempo Bassolino è diventato ingombrante, troppo ingombrante. Da tempo si canta il ritornello della “discontinuità” e della “svolta”. Enzo De Luca si è presentato come un uomo nuovo e, soprattutto, come “l’uomo della svolta”. «Con me - ha detto più volte e ripete a ogni piè sospinto - si volta pagina». Ma la pagina che si deve girare è, appunto, la brutta pagina del potere bassoliniano. Si dà il caso, però, che

un po’ di tempo dallo stesso Berlusconi, eppure dopo l’esplosione dell’inchiesta della procura di Firenze e dopo il coinvolgimento di Verdini, ecco che Berlusconi ha colto al volo la prima occasione per rimettere ordine del partito. Guarda caso, anche Cosentino fa parte della corrente verdiniana e il sistema di consenso e di partito che è riuscito a mettere su in questi anni in Campania tra Napoli e Caserta - quell’enorme hinterland di cui si è fatto cenno sopra - ha sì giovato al Pdl, ma era ormai diventato quasi un elemento di disturbo nell’esercizio della leadership di Berlusconi. La riprova ce la dà Stefano Caldoro, ossia il governatore in pectore della Campania.

di Giancristiano Desiderio

trano solo Mara Carfagna e Italo Bocchino che aspirano a prendere il posto di Nicola al vertice del Pdl in Campania. È una questione più grossa che arriva direttamente al vertice nazionale del partito di Silvio Berlusconi. Denis Verdini ha messo su - per usare le sue stesse parole - un sistema di potere che, in fondo in fondo, rappresenta nel partito di Berlusconi la prima vera corrente. La corrente di Verdini è percepita come una sorta di correntone doroteo. La cosa è stata tollerata per

Il leader dimissionario a palazzo Grazioli

Incontro con Berlusconi ROMA. È stato un incontro dai risultati segreti o, come ha detto uno dei partecipanti, «un caffè tra amici». Salvo che talvolta, per qualcuno, il caffè può essere indigesto. Ieri era previsto a Palazzo Chigi, in margine alla riunione del consiglio dei ministri, un incontro chiarificatore tra Berlusconi e Cosentino, invece la «pace» non è andata in scena (nessuna foto ricordo con sorrisi) né parole o comunicati ufficiali hanno rassicurato gli amici di Cosentino. Non solo, ma l’incontro non si è svolto a Palazzo Chigi ma a Palazzo Grazioli, per di più alla presenza di Iganzio La russa e Denis Verdini. E così, uscendo da via del Plebiscito, Cosentino ha rimandato i cronisti a un comunicato che verrà diffuso più avanti (chissà quando...). «Ho preso un caffé con un amico di sempre» ha spiegato Cosentino: non una parola, però sulle sue dimissioni da sottosegretario all’Economia e coordinatore regionale campano Pdl. Nel senso che prima Cosentino ha dato le dimissioni dai due incarichi, poi Berlusconi le ha respinte, e ieri an-

cora Cosentino non ha chiarito se il suo gesto di protesta è rientrato oppure no. Difficile però - pensare a un chiarimento, perché la posta in gioco, come è risaputo, è assai alta: Cosentino vuole per un suo uomo candidato alla presidenza della provincia di Caserta (la sua roccaforte), dove invece il Pdl ha candidato l’esponente Udc Domenico Zinzi. È, dopo l’abbandono della corsa per la presidenza della Regione, Consentino qualcosa dalle prossime elezioni

vuole pure averlo... Ma l’accordo per Casera, secondo il Pdl , è propedeutico a un accordo più generale - con l’Udc - per la regione Campania. Insomma, che fine faranno le dimissioni del politico accusato di concorso esterno in associazione criminale di stampo camorristico?

Governatore sì, ma con l’alleanza con l’Udc, senza la quale il Pdl in tasca non ha la vittoria ma la sconfitta. Caldoro è stato scelto e voluto proprio da Cosentino quando Nicola da “candidato naturale” che era per Palazzo Santa Lucia è diventato “candidato innaturale”. A quel punto è iniziata una guerra guerreggiata per trovare il candidato da candidare al posto del “candidato innaturale”, ma una guerra che in realtà proprio Cosentino ha vinto in partenza. Ma - ecco il punto ha vinto anche contro il volere dello stesso Berlusconi: sì, perché non sono prevalse le ragioni del presidente del Consiglio, il quale avrebbe voluto candidare un uomo estraneo allo stesso Pdl, ossia l’industriale Gianni Lettieri, sono prevalse invece le “ragioni del territorio”: questa è la definizione che Cosentino e i suoi uomini hanno dato al consenso che hanno costruito in questi anni dopo aver fatto le scarpe ai fratelli Martusciello. Anche nella vicenda della provincia di Caserta, dove sarà candidato Domenico Zinzi per stessa decisione di Berlusconi e Casini, il correntone verdianiano-cosentiniano che Berlusconi mal digeriva ha detto che Silvio doveva avere “capacità di ascolto”. Alla fine Silvio ha ascoltato Caserta ma anche Firenze e ha deciso. A questo punto Cosentino - Nicola - si è dimesso. E qui inizia la storia che già conoscete.


diario

20 febbraio 2010 • pagina 9

Scajola: «Il governo in campo per salvare lo stabilimento»

Successo per l’iniziativa di Moratti e Chiamparino

«Un bando internazionale per Termini Imerese»

Il 28 febbraio tutto il nord a piedi contro lo smog

ROMA. «Faremo un bando in-

MILANO. Il blocco del traffico ci

ternazionale pubblico per vedere se ci sono ulteriori manifestazioni di interesse» per il sito Fiat di Termini Imerese». È quanto ha dichiarato il ministro Scajola a margine di una riunione convocata dal commissario all’industria Tajani a Bruxelles, per discutere del rilancio del settore automobilistico. Scajola ha ribadito che finora sono 14 le offerte ricevute su Termini Imerese.

sarà ma, naturalmente, come gesto simbolico contro lo smog. Gli 80 comuni circa della Pianura Padana che ieri mattina si sono riuniti nella sala Alessi di Palazzo Marino sotto l’egida dei promotori Letizia Moratti e Sergio Chiamparino hanno dimostrato di poter reagire in modo compatto (il cosiddetto «dato nuovo» offerto dalla giornata secondo quanto hanno a più riprese sottolineato i sindaci di Milano e Torino) di fronte al nemico comune accettando di fermare le auto, tutti insieme, nelle rispettive città. A questi, pare si siano aggiunte un’altra ventina di amministrazioni che hanno manifestato la propria adesione senza essere presenti oggi a Mi-

«Abbiamo tempo, la fretta è una cattiva consigliera. Lo stabilimento produrrà laYpsilon fino al 31 dicembre 2011, quindi abbiamo tempo di scegliere con attenzione la migliore opportunità», ha sottolineato Scajola. In difesa di Termini si è pronunciato anche Tajani: «Se la Fiat lascerà sono convinto che bisogna difendere Termini Imerese come sito legato all’auto, ad esempio come sito avanzato di innovazione per l’auto elettrica». Tajani ha spiegato che «bisogna impegnarsi, anche se c’è il fondo di globalizzazione» destinato ad aiutare i lavoratori che perdono il posto di lavoro per ragioni legate a questo fenomeno. «Si può riflettere - ha detto il responsabile Ue - a chiedere nuovi fondi legati a questa nuova fase». Il rilancio e la trasformazione di Termini, ha ipo-

«Financial Times» fa guerra a Geronzi Nel mirino c’è la possibile presidenza di Generali di Alessandro D’Amato

ROMA. Per il leone di Trieste ci vuole un cacciatore di teste? «Generali è una bestia strana, non solo perché ha due amministratori delegati e un presidente di 85 anni, Antoine Bernheim, che dovrà lasciare in aprile. Ancora più anomalo è che il suo sostituto sarà deciso il mese prima a Milano, quando Mediobanca metterà a punto la lista dei candidati preferiti. Uno dei candidati più accreditati è Cesare Geronzi, attuale presidente di Mediobanca. Anche se uno è uno straordinario negoziatore, non è chiaro se Geronzi possiede le competenze industriali necessarie a condurla». Come spesso capita quando si giocano le partite più importanti del capitalismo italiano, il Financial Times segue con grande attenzione le vicende e non disdegna consigli conditi con un tocco di ironia. Nella fattispecie, fedele alla tradizione, passa all’attacco del presidente di Mediobanca, contro il quale, ai tempi di Capitalia, si era schierato apertamente. Oggi invoca l’arrivo di un head hunter, un cacciatore di teste, affinché sieda nella poltrona più alta del Leone di Trieste, per scongiurare il pericolo-Geronzi.

te. Se ci sarà il nome del suo presidente, questo significa che Piazzetta Cuccia avrà scelto: è Geronzi il nome giusto. E gli altri azionisti si dovranno soltanto adeguare. Ma sarà a quel punto che si aprirà la partita decisiva. Se il banchiere di Marino andrà alle Generali, chi diventerà presidente di Mediobanca?

Se fosse un suo fedelissimo – sottolineava anche il FT - Geronzi controllerebbe non solo Mediobanca ma anche Generali che, con i suoi 414 miliardi di bilancio, è il suo salvadanaio. Secondo il quotidiano britannico «dovrebbe essere fonte di imbarazzo nazionale che un azionista di minoranza arrivi a decidere la leadership dell’assicuratore più grande d’Italia». Per adesso il via vai in Piazzetta Cuccia di alcuni nomi del capitalismo italiano (Tronchetti, Della Valle, Toti) ha prodotto soltanto pettegolezzi, mentre più significativo è il nervosismo registrato da grandi azionisti come Unicredit e dei soci francesi, che anche se non intendono più insistere sul nome di Bernheim intendono comunque contare, da una parte (Trieste) o dall’altra (Milano). Le volontà, insomma, sembrano ancora troppo contrapposte perché si trovi una sintesi attuabile in tempi brevi. Se davvero un fedelissimo di Geronzi come Tronchetti dovesse riuscire a sedersi sulla poltrona di Cuccia, significherebbe che il potere dell’ex presidente di Capitalia è davvero tanto grande da non avere contropoteri efficaci, in Italia. Mentre la candidatura di Pagliaro o Nagel, caldeggiata, sembra, dalle banche, potrebbe in un certo modo significare che la contrapposizione ancora c’è. Di certo, l’ipotesi meno probabile è che ci si affidi davvero a una società di cacciatori di teste. Per questo è difficile non dare ragione al Financial quando dice che: «È anche vero che c’è una logica nel fatto che la quota di Mediobanca, insieme a quella dei suoi alleati, può prevalere sulle quelle delle minoranze divise. Ma in realtà questo sistema nella gerontocratica Italia continua a resistere perché così è sempre stato».

Il banchiere di Marino (che già controlla Mediobanca) si ritiene l’unico in grado di «portare qualche vera novità» a Trieste

tizzato Tajani, potrebbe avvenire nell’ambito di un progetto finanziato con fondi Ue e inserito nella nuova strategia europea per lo sviluppo dell’industria automobilistica “verde” e in particolar modo elettrica. «Credo si possa avere un progetto anche europeo, innovativo, che punti a realizzare auto elettriche e, perché no, anche con un forte collegamento con l’università e con l’Europa». Il progetto di trasformazione dello stabilimento di Termini, quindi, «può trovare anche nell’ambito di una strategia europea dei finanziamenti per essere sviluppata», ha aggiunto Tajani. La Sicilia potrebbe quindi «diventare un’avanguardia per la realizzazione di questo tipo di progetti».

Non una novità, insomma, ma la guerra di Generali si protrarrà di certo fino alla fine di marzo, quando Mediobanca presenterà la sua lista di consiglieri, e forse anche oltre se per la fine di aprile gli azionisti non saranno arrivati a un accordo. Di certo, finora, c’è solo che il tempo di Bernheim si è ormai concluso. Non certo per l’età, come continuano a dire i suoi detrattori, visto che l’anno scorso questa non ha costituito un ostacolo alla sua elezione, e 365 giorni in più o in meno non fanno la differenza. Più decisiva dell’anagrafe è l’intenzione di Piazzetta Cuccia di procedere a un rinnovamento. Anche per questo si esclude l’ipotesi di una promozione interna e si punta su un presidente di cambiamento, quale di certo Geronzi sarebbe. L’annuncio da parte di Mediobanca di “fare da sola” nella presentazione della lista dei consiglieri, a differenza di quanto accaduto in passato, dà quindi la certezza che da quella rosa uscirà il nome del presiden-

lano. Per l’occasione, comunque verrà chiesto un «supporto a Province e Regioni». La data è quella trapelata nei giorni scorsi (domenica 28 febbraio), i distinguo anche. Perché se il sindaco di Torino può lasciare la sala assicurando di non aver «sentito voci discordi» e quello di Milano può parlare di «adesione più che ampia», è anche vero che tutti volevano sensibilizzare il Governo.

Quello di cui vogliono discutere i primi cittadini e di cui, di fatto, hanno discusso ieri è altro. Sono le cosiddette misure strutturali che Letizia Moratti va elogiando da tempo come unica via certa e duratura per sconfiggere un male che pare sempre più endemico in un’area che, come ha spiegato, «è la più produttiva e quindi anche la più inquinata». Sul tavolo c’è un documento che sarà poi approvato da tutti: si stabilisce di costituire un coordinamento permanente dei sindaci della pianura padana con l’impegno espresso di «far scattare misure straordinarie in condizioni di eccezionale persistenza di inquinanti in atmosfera; indirizzare il fabbisogno di mobilità verso una razionalizzazione dell’uso dell’auto privata; estendere le aree pedonali e le zone a traffico limitato».


mondo

pagina 10 • 20 febbraio 2010 WASHINGTON, CAMPANIA. Da sinistra, la sequenza fotografica che documenta l’ingloriosa uscita del Dalai Lama dalla Casa Bianca. I media cinesi hanno ripreso le fotografie e le hanno evidenziate sui propri siti. In basso, la fotografia ufficiale dell’incontro

G2. Per salvare i rapporti commerciali con l’estremo Oriente, si cerca la quadratura del cerchio sulla questione tibetana

La storia e l’imbarazzo I giornali di Cina e Usa oscurano l’incontro E Obama fa uscire il Dalai Lama dal retro di Vincenzo Faccioli Pintozzi e proteste di rito si sono verificate, ma il tono sembrava quasi dimesso. E la vergognosa copertura mediatica concessa dai media del mainstream americano e cinese ha fatto il resto. L’incontro avvenuto due giorni fa tra il Dalai Lama e il presidente statunitense Barack Obama ha soddisfatto in pieno le aspettative di Pechino. Se il leader della Casa Bianca ha espresso un concetto forse troppo azzardato - «rispetto per i diritti dei tibetani in Cina» - ha comunque reso omaggio al concetto di un’unica Cina e non è andato oltre. E soprattutto, come testimoniano le immagini che pubblichiamo sopra, ha fatto perdere la faccia al proprio ospite. Ora,“perdere la faccia”non è un concetto particolarmente noto agli occidentali, ma è il caposaldo dei rapporti (di ogni tipo) fra orientali. Uscire dal retro, passare in mezzo ai sacchi della spazzatura e non incontrare i media insieme non sono soltanto scortesie: in Cina vengono lette come una diminutio pesantissima del Premio Nobel per la Pace. Tuttavia, il balletto diplomatico - quando c’è di mezzo il Tibet - ha delle regole precise che vanno rispettate. Ed ecco che, per dimostrare la propria rabbia, il Celeste Impero ha deciso di convocare l’ambasciatore americano a Pechino per protestare formalmente contro gli Stati Uniti. E la solita nota del ministero degli Esteri, firmata dal

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portavoce-star Ma Zhouxu, ha fatto il resto: «L’azione degli Usa ha interferito negli affari interni cinesi, gravemente ferito i sentimenti del popolo cinese e gravemente danneggiato le relazioni sino-statunitensi. L’incontro ha violato gravemente le norme basilari delle relazioni internazionali e le promesse degli Stati Uniti di rispettare la sovranità cinese». Nella speranza di contenere le proteste cinesi, Washington aveva meticolosamente pianificato l’incontro, invitando il Dalai Lama in una zona priva-

nosciuto che la causa «è giusta e pacifica», aggiungendo di essere «molto felice di aver potuto presenziare all’incontro». Poco dopo la Casa Bianca ha diffuso la foto dell’incontro tra i due Premi Nobel per la Pace e inviato una nota nella quale Washington afferma che il presidente americano Barack Obama ha mostrato “forte sostegno” alla causa dei diritti umani e dell’identità culturale e linguistica del Tibet. Il portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, ha aggiunto che il presidente «ha parlato del suo forte

Washington ha espresso “forte sostegno” alla causa del Tibet, ma il leader buddista viene costretto a perdere la faccia passando in mezzo alla neve e ai sacchi della spazzatura presidenziale ta della Casa Bianca, la Sala delle Mappe invece che nello Studio Ovale, e non permettendo l’accesso delle telecamere al suo interno.

Tanti, piccoli dettagli che dimostrano quanto poco sia conosciuta la mentalità cinese: incontrare il Dalai rappresenta una sfida, non importa con quali mezzucci la si voglia coprire. Tanto più che il leader buddista ha voluto fermarsi davanti ai giornalisti al termine del meeting, durato 45 minuti, per dichiarare che il presidente Usa «ha mostrato il suo sostegno alla causa dei diritti civili in Tibet». Obama, secondo il Dalai Lama, avrebbe rico-

sostegno alla preservazione dell’identità religiosa, culturale e linguistica del Tibet e alla difesa dei diritti umani dei tibetani nella Repubblica cinese». Secondo quanto riportato da Gibbs in un comunicato, il presidente ha avuto parole di encomio per l’impegno del Dalai Lama «per la non violenza e la ricerca del dialogo con il governo cinese». Obama «ha sottolineato di aver sempre incoraggiato entrambe le parti al dialogo diretto per risolvere le controversie ed e’ stato contento di sapere della recente riprea dei colloqui». Il presidente americano e il Dalai Lama, ha concluso la nota della Casa Bianca, «hanno concordato

sull’importanza di una relazione comunque positiva e collaborativa fra Stati Uniti e Cina». Eppure, Pechino accusa il Dalai Lama di sostenere il separatismo e proprio perché ritiene il leader spirituale alla stregua di un ribelle accusa di collaborazionismo chiunque lo incontri. Una sorta di Asse del male senza cattivi di provata fama.

A meno che, e qui sta l’astuzia, quel qualcuno non sia il presidente dell’unica nazione in grado di tenere testa anche commercialmente a Pechino. Le due economie, infatti, sono troppo interconnesse per tentare di staccarle e questo lo capiscono anche i dirigenti cinesi. Che, quindi, non hanno attaccato con estrema violenza l’incontro. E lo stesso hanno ordinato di fare ai propori mastini, quei dirigenti e giornalisti di livello che scrivono sui media governativi. Ieri, tanto

per fare un esempio, l’iper ufficiale Quotidiano del Popolo apriva con un’intervista - tutto sommato, piuttosto moscia - a un accademico di Pechino presentato come “tibetologo”. L’oscuro docente ha attaccato con la solita retorica, denunciato gli ammuffiti e sinceramente non più credibili “piani di indipendenza”del leader spirituale e biasimato gli Stati Uniti per un appoggio che non hanno dato. Stupisce invece l’atteggiamento dei giornali, anche e soprattutto liberal, degli States. Il mainstream ha trattato l’incontro con pochissima enfasi, sbattendolo nelle pagine interne e pubblicando soltanto il comunicato o poco più. Il segnale non è confortante: nel giorno in cui vengono consegnati i “Ronald Reagan Awards for Freedom”, premi di secondo livello ma comunque un legame forte con l’eredità del presidente repubblicano, è


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È il cyberspazio uno dei campi di battaglia più delicati su cui si scontrano le Superpotenze

Gli esperti: «Gli attacchi a Google ordinati da Pechino» Un gruppo di informatici analizza i dati e accusa il governo cinese: «Il tentativo di spionaggio viene dalle Università del vostro Stato» li attacchi a Google sono partiti da Pechino. Non c’erano molti dubbi ma ora gli investigatori sono convinti di aver trovato le prove. Non c’è pace nei rapporti tra Cina e Stati Uniti. E ancora una volta, dopo il Tibet,Taiwan e gli scambi commerciali, il terreno dello scontro è il cyberspazio. Ormai il web è a tutti gli effetti un campo di battaglia. Dal quale passano interessi economici e modelli politici, e su cui quindi non ci si può attendere che non si ripercuotano le tensioni internazionali. Con le grandi potenze interessate a difendere i propri spazi e minare quelli altrui, con tanto di operazioni di spionaggio e sabotaggio. Inoltre è ormai evidente come il web sia lo strumento privilegiato attraverso cui le opposizioni riescono a far filtrare verso il mondo testimonianze delle repressioni cui sono sottoposte. È il caso dell’Iran, ma anche di altre situazioni, tra cui la Cina. I regimi più autoritari non sono certo rimasti inerti di fronte alla minaccia, e sono passati al contrattacco con tutta la potenza a loro disposizione. Ecco dunque che l’11 febbraio Teheran ha disabilitato le reti della telefonia mobile e bloccato gli accessi a Google. E i cellulari erano stati già nel mirino della Cina in occasione dei disordini nello Xingjang.

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quasi desolante leggere commenti privi di brio.

Sembra quasi che il crack finanziario internazionale abbia tolto le zanne a Washington, e che la potenza commerciale di Pechino l’abbia convinta che non ci sono alternative al baratto diritti umani-commercio. Certo, potrebbe anche risultare una lettura sbagliata: forse ci troviamo davanti a un capolavoro di diplomazia, all’unico presidente che ha coniugato la capra (del Tibet) con i cavoli (della Cina). Forse Obama ha trovato quella quadratura del cerchio che tanti, da tanto tempo, cercano in ogni modo di raggiungere. Ma vedere il Dalai Lama uscire fra la neve e i sacchi neri dei rifiuti fa comunque impressione. Il “dio-re”del Tibet che evita la neve. E il presidente americano che issa bandiera bianca, questa volta rivolta all’estremo Est.

di Osvaldo Baldacci cine all’inchiesta avviata dopo la denuncia contro la Cina da parte della compagnia di Palo Alto, denuncia che ha innescato il periodo di fortissima tensione tra Washington e Pechino che ha visto anche Hillary Clinton intervenire ufficialmente e duramente sull’argomento.

Gli Stati Uniti hanno anche messo al lavoro gli esperti di controspionaggio informatico della National Security Agency. Un lavoro difficile, anche perché gli abili pirati avrebbero disseminato false tracce alcune delle quali – guarda caso – portavano inizialmente a server taiwanesi, ma secondo il New York Times questo misto di investigatori è riuscito a ricostruire che alcuni degli attacchi sarebbero partiti dalla Shanghai Jiaotong University e dall’Istituto tecnico di Lanxian. Quest’ultima scuola è sovvenzionata anche dall’esercito cinese perché forma alcuni dei suoi esperti informa-

ipotesi, da quella statuale a quella di una grande azione di spionaggio industriale. E c’è anche chi ipotizza il ruolo di una terza entità: le università usate come diversivo per coprire un’operazione di intelligence gestita da un Paese terzo. I portavoce delle accademie cinesi, da parte loro smentiscono ogni addebito e affermano di non aver avuto notizia del fatto che gli investigatori americani colleghino i loro atenei agli attacchi a Google. Sugli hacker e la Cina c’è ancora qualcosa da aggiungere. Secondo uno studio dell’Internet security company i computer privati gestiti da hacker in Cina sono in numero superiore a quelli presenti qualsiasi altro Paese del mondo. Secondo la McAfee, i computer infetti in Cina nel 2009 sarebbero stati 1.095.000, contro 1.057.000 degli Stati Uniti.

Secondo il rapporto dell’ottobre 2009 della Commissione congiunta Usa-Cina sull’Economia e la Sicurezza, gli attacchi informatici partiti dalla Cina hanno fatto la primissima comparsa tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio del 2000, ma si sono decisamente intensificati a partire dal 2007. Il rapporto ne cita più di 30, fra i quali la diffusione di programmi pericolosi in laboratori nucleari statunitensi (2007) e intrusioni nei computer della Casa Bianca e della Nasa (2008). E poi c’è il discorso pubblico: l’esercito cinese, ma non è l’unico, ha organizzato un “reggimento”di hacker militari per la guerra cibernetica. D’altro canto il cybercrime sta per superare, per volume economico, crimini globali come il traffico di droga, uomini e armi, sostengono gli esperti. Ed è di giovedì la notizia del più grande attacco hacker della storia, sferrato a oltre 75mila computer in 196 Paesi. Un attacco stavolta chiaramente di carattere industriale, partito da Paesi dell’est e secondo la maggior parte degli esperti legato soprattutto alla mafia russa.

Gli attacchi informatici partiti da Oriente hanno fatto la prima comparsa negli anni Novanta, ma si sono molto intensificati dal 2007 in poi

Ma forse la Cina non si è limitata a questo. Ieri il New York Times ha rivelato che gli attacchi informatici alla rete di Google e di altre corporation americane – diretti probabilmente a sottrarre segreti commerciali e a ottenere gli indirizzi e-mail di attivisti per i diritti umani cinesi e iniziati nell’aprile 2009 – sarebbero partiti anche da una delle migliori facoltà di informatica della Cina e da un Politecnico che forma gli esperti informatici dell’Esercito. Quegli attacchi tra le altre cose miravano a superare le difese per individuare dissidenti che tramite la Rete diffondevano notizie ed idee. Il quotidiano americano cita fonti vi-

tici. C’è anche da aggiungere che la facoltà di informatica del Politecnico è gestita da una compagnia strettamente collegata con Baidu, il motore di ricerca cinese diretto concorrente di Google. La Shanghai Jiaotong University poi è al top nel mondo: i suo studenti proprio nelle scorse settimane hanno battuto quelli di Stanford e di altre università Usa nella competizione per programmatori di computer organizzata dalla Ibm. Questo non vuol dire automaticamente che si tratti di un’operazione statale cinese. Almeno, secondo il Times, su questo non concordano gli esperti statunitensi. Si nota anzi che l’attacco sarebbe partito da università e non da edifici governativi, ma cosa vuol dire questo? Le teorie divergono radicalmente e lasciano aperta quasi ogni


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Dopo il confronto con Bacon, un’altra mostra-evento dedicata al Merisi si apre oggi a Rom

na volta tanto fare delle illazioni o immaginarsi una mostra, scrivendone prima d’averla vista (un “vizio” invalso ormai nella stampa soprattutto italiana, assueffatta a questa follia irrazionale di “arrivare prima degli altri”, di “bruciare la concorrenza”- figurarsi poi, a proposito di una critica d’arte! - pur senza aver visto nulla, che è per una mostra che vuole appunto mostrare un contrasto bruciante e stolto), l’ambizione di una pre-view mentale (una volta soltanto, sia chiaro) può avere un senso curioso, una sua logica strana. Intanto i Caravaggio che andremo a vedere a Roma, alla Scuderia del Quirinale, a partire da oggi, li conosciamo e li conoscono tutti: li abbiamo frequentati, in questi anni, fin troppo, sino alla nausea (anche se sazietà non ci può essere, con un simile artista) ma comunque rivoltolati e risaltati in qualsiasi salsa di mostre e di mostriciattole, talvolta anche incongrue, o ingiustificate, per poter motivare il disinvolto “trasloco”di simili sacri capolavori, che dovrebbero riposare tranquilli o meglio agire sovversivi nei luoghi stessi per cui sono stati creati o dove sono stati allocati, dalla tradizione. (Dunque, non è soltanto una questione di sicurezza e di ragionevole buona salute delle opere, che nel caso di Caravaggio stanno, per lo più, piuttosto bene e ben solide, ma anche di coerenza simbolica, di rispetto dei luoghi, ove giacciono da sempre).

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Se pensiamo che recentemente un’opera, comunque autorevole, come il Narciso della Barberini (anche se poi in diretta, dai ponteggi di Correggio a Parma, Sgarbi l’ha “declassata” a opera del meno noto Spadarino) s’è preso alla malandrina la

sua oretta d’aria, con la complicità imperdonabile dei suoi tutori preposti, per andarsene a prendere il tè a Porta a Porta, dove si parlottava di lifting o di narcisismo dei nostri politici reggenti (in presenza del ministro e del sovrintendente stesso, che dovrebbero tutelare il destino di questi capolavori, prelevati di forza da un museo, ove il pubblico serio li va a cercare e non in trasferta mediatica per un talk show a Viale Mazzini); e se si pensa che in una mostra ben più seria, di comunque discutibile risultato, come il match agonistico tra Bacon e Caravaggio, alla Galleria Borghese di Roma, per dimostrare un confronto analogico, difficile poi da comprovare, è stato trapiantato un capolavoro non soltanto delicatissimo come la Madonna dei Pellegrini, ma pure un simbolo religioso, che dovrebber starsene nella sua legittima chiesa di Sant’Agostino, ebbene si evince che le occasioni d’aver visti omaggiati o strapazzati i più diversi Caravaggi, non è certo in questi anni mancata. Ma era anche fin troppo illusoria e quasi snob l’ipotesi, da qualcuno avanzata, che per omaggiare il quarto anniversario della sua tormentata morte, sulla battima desolata di Porto Ercole, fosse preferibile lasciarlo generosamente “decantare”, calmo, per un anno. Sospendendo ostensioni magniloquenti o sotto-mostre d’indole assessoriale e campanilistiche (visto che Caravaggio si è mosso abbastanza: dalla Lombardia a Roma, da Napoli alla Sicilia a Malta). Onde invece privilegiare studi più affidabili e ricerche meno affrettate, via dai riflettori del goloso e insistente “grosso pubblico”.

Ora, infine, provare a immaginare che cosa sarà e che cosa potremmo e vorremmo preten-

dere, o attenderci, dalla mostraclou e patriottarda di Roma, simbolicamente ospitata nel cuore scalpitante del Quirinale (le Scuderie, affidate all’architetto De Lucchi) risulta dunque un esercizio non inutile e assai stimolante. Prendiamo per buona e assolutamente condividibile la tesi, già affiorata negli ultimi mesi e sancita da un recente articolo sul Sole 24 ore di Antonio Paulucci, preposto alla commissione giudicatrice dei meto-

Caravaggio s

Gli uomini, la natura, la religione: un lungo percorso a tappe nelle opere (e nelle meraviglie) del grande artista di Marco Vallora di di concezione di questa rassegna epocale (sarà l’ultima? come si avanza sempre, pessimisti) per il quarto centenario anniversario, la tesi cioè che si vedranno soltanto, concertati insieme, i capolavori certi e documentati del Gran Lombardo. Evitando tutte quelle repliche o malmascherate copie o up to date e sensazionalistiche attribuzioni, se non piratesche certo sorprendenti, che in questi anni hanno costellato le più diverse e controverse rassegne, spesso affidate anche ad autorevoli studiosi del Merisi, alcuni coinvolti pure in quest’impresa del Quirinale. I quali, però, di fronte al fascino facile dell’ultimo scoop, o all’indulgenza spaesante della scoperta sensazionale, che annulla anni di dignitosa carriera, pur di proporre una discutibile agnizione di de-

relitto neonato deforme, di cui non si sentiva certo il bisogno, hanno sdoganato in questi anni aborti indegni o tele più che discutibili, che non han fatto altro che intorbidire, non soltanto il discorso critico assestato, e alimentare polemiche anche personalistiche, ma soprattutto indebolire l’autorevolezza dell’artista stesso. Il problema è questo: nel caso di opere dubbie, anche interessanti, è meglio pensare tutelativamente alla qualità complessiva dell’artista, che non andrebbe abbassato con prove inequivocabilmente minori, che siano cavadenti sbilenchi o narcisi mancati, oppure bisogna dar libero spazio e sfogo al responsabile discorso saggistico, per quanto soggettivo e contrastato dalle altrui opinioni, ovviamente da parte di storici attendibili,

che han tutti i diritti di cercare, di sperimentare, di proporre, ma magari non subito esporre i risultati delle loro alee? È un problema serio, non così facilmente risolvibile: e di fatto c’è la certezza che questo sia stato un argomento assai dibattutto dal comitato scientifico e mai troppo risolto, anche se poi ha prevalso la tesi, per altro condivisibile, di Claudio Strinati, «il vero curatore della mostra» certifica Paolucci, di cassare le opere dubbie e discusse, e di mostrare soltanto le vere “eccellenze” (come ormai si tende a sproloquiare ovunque, con una formula divenuta insopportabile e tutta culinaria).

Certo una soluzione salomonica e un po’ cauta, quella delle Scuderie, anche se dovuta al povero bistrattato Caravaggio,


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ma, alle Scuderie del Quirinale

all’altro la musica, con liuti e spartiti cantabili, per non scontentare entrambi gli esosi committenti (magari in una sola notte, come vuole la leggenda).

Alcune opere di Caravaggio. Da destra, in senso orario: “Amorino dormiente”, la “Canestra”; “Cristo alla colonna”; “Bacchino malato”; “Vocazione di Matteo”; un autoritratto. La mostra che si apre oggi alle Scuderie del Quirinale di Roma celebra il quarto centenario della morte di Michelangelo Merisi

senza gossip e al fine benefica. Perché altri, più sperimentale, potrebbe invece ritenere, o l’avrà fatto, a conclave segreto, di sostenere, più romanticamente e futuristicamente, che proprio l’anno centenario sarebbe stato quello fatale e più acconcio e doveroso, per far continuare la ricerca spettacolare, per proporre assaggi nuovi e inusitati tentativi di riesame, per “rileggere”, insomma, in modo più moderno e

reattivo, un personaggio, che risulta già ormai imbalsamato e stereotipato. Ma che è stato, in questi anni (paradossalemente, dopo secoli di disattesa e d’incredibile invisibilità) fin troppo arato: da ipotesi, supposizioni, congetture, proposte, indagini (anche radiografiche: per cui bastava che una tela presentasse qualche incisione prospettica con il retro del pennello o qualche indecisione e pentimento,

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per diventare subito, cotto e firmato, un nuovo Caravaggio, riscoperto e gridato al mondo) ma soprattutto non pochi “teoremi” indiziari, che (scimmiottiamo ironicamente il linguaggio sconcio della politica) tiravano Caravaggio per la giacchetta del proprio, personale, credo ideologico. Così improvvisamente, da bettoliere e licenzioso-libertino, puttaniere ma anche omosessuale, un vero lusso da gossip iconologico (tesi “freudiana” non condivisa da tutti, vedi per esempio la posizione in catalogo di Maurizio Calvesi), Caravaggio diventava, nella lettura di Bona Castellotti, per dirna una, un uomo di tutta fede e devozione mistica, quale del resto le sue opere attestano. Da sovversivo anti-clericale, in odore quasi di eresia (come dimostra anche il rifiuto di molte sue opere da parte dei committenti religiosi) si tramutava in baro e truffaldino, anche nel gioco delle repliche, capace di accontentare insieme due padroni difficili e gelosi, come i Cardinali Barberini e del Monte, che abitavano a pochi passi dal suo atelier. A uno mettendo sul piatto (della natura morta) la frutta,

Se la vera novità filologica di questi anni è stato il reperimento di un documento (da parte di un outsider, destino della storia dell’arte) in cui si attesta che il Merisi non è nato a Caravaggio, come il collega Polidoro, ma a Milano, e ormai si ha anche la data certa della sua nascita, più precoce, come già aveva avanzato sempre il Calvesi, data assai importante, per ricostruire la sua cronologia; la vera scoperta critica, che ha un po’ distrutto, evviva, l’immagine isolata e idealistica del genio rapito e ispirato, che sì, effettivamente non ha avuto allievi (ma poi una pletora alluvionale di imitatori, anche illustrissimi, come i cosiddetti caravaggeschi ed è riconoscimento non da poco dare il proprio nome a una schiera di seguaci illustri, da Valentin a Manfredi, da Renieri a Preti, da Gentileschi a Saraceni, e poi anche, internazionalmente, Honthorst, Ter Brugghen, Finson...), la vera sorpresa è stato verificare (appunto da indagini spettografiche e poi un ulteriore confronto incrociato dei documenti) che il

pittore bizzoso e spadaccino, meno riottoso di quanto non si favoleggiasse, si autoreplicava da solo, tranquillamente, i suoi ghiotti prototipi, e si dilettava a variare pur minimi dettagli, pur di accontentare l’esigente committenza (e se avesse avuto allievi di bottega a sua piena disposizione?). Il mito non è crollato, ma certo è stato ripensato, a contatto anche con le diverse fonti. E c’è ancora la certezza, così, che quel misterioso pittore malvissuto di cui parlava cripticamente il Borromeo, fosse proprio il nostro Michelangelo Merisi, non più da Caravaggio? «Nei

miei dì conobbi un dipintore in Roma, il quale era di sozzi costumi, et andava sempre co’ panni stracciati, e lordi a meraviglia, e si vivea di continuo fra i garzoni delle cucine dei signori di corte. Questo dipintore non fece mai altro, che buono fosse nella sua arte, salvo il rappresentare i tavernieri, et i giocatori, ovvero le cingare che guardano le mani, ovvero i baronci, et i fachini, et gli sgraziati, che si dormivano la notte per le piazze: et era il più contento huomo del mondo, quando avea dipinto un hosteria, et colà entro chi mangiasse e bevesse. Questo procedeva dai suoi costumi, i quali erano somiglianti ai suoi lavori». E se in quell’hosteria plana san Matteo e filtra la luce del mistero divino? Ora, dopo tanto vagare critico, sarà interessante rileggerlo nella sua interezza e nella sua integrità formale, senza disturbi o dilazioni tangenziali, esattamente come quel «pittore eccellentissimo nel colorire et ritrarre dal naturale», così come si scrisse alla sua morte. Ferale notizia, che raggiunge il Papa, che lo avrebbe voluto salvare, e definizione non proprio così lusinghera, tenendo conto che la poetica del realismo non era allora la vincente. Che effetto farà vedere accanto il Cristo alla colonna di Capodimonte con la Deposizione vaticana, l’Omnia vicit amor di Berlino con la strepitosa Conversione di Saul Odescalchi, l’Amorino dormiente della Palatina con il Riposo della fuga in Egitto della Doria Pamphili, luminoso esempio di dolcezza domestica, che molti vollero attribuire al Saraceni? Non solo zingari, dunque, tavernieri o garzoni malaticci. Si partirà probabilmente dalla prodigiosa Fiscella o Canestra dell’Ambrosiana, che non aveva mai lasciato la sua sede, a quanto pare. E rimarrà probabilmente quell’incolmabile “buco” cronologico iniziale, di Caravaggio che abbandona già “imparato”e maturo la bottega lombarda del Pederzano, con gli occhi colmi di Savoldo e Moroni bergamaschi, per raggiungere la Roma dell’altro Michelangelo, cui non guarda nemmeno con eccessiva reverenza. Ma che ha fatto nel frattempo, che cosa ha “prodotto”, prima di arrivare a Roma e di lasciare in debito al Borromeo la sua già perfetta Canestra? Dove è stato? Forse in prigione, inattivo? Si sa quale disastri, anche feroci, provocò l’azzardo, quando Zeri si permise di proporre alcune nature morte del cosidetto Maestro di Hartford, come se fosse l’ipotetico Caravaggio-giovane. Notte dei lunghi coltelli, sfide e tenzoni, peggio che caraveggeschi. Forse non si può sperare che da questa mostra, tanto equilibrata quanto assestata, giunga nuova luce. Ma si sa, la speranza (luminosa) è sempre l’ultima a svanire.


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Materie prime. I cinesi hanno bisogno di metalli per le loro industrie in ripresa ma potrebbero bloccare la green economy

La guerra delle miniere Cina e Occidente usano l’alluminio e i minerali rari come armi di un nuovo confronto globale di Pierre Chiartano ra i lavoratori dell’Alcoa di Fusina serpeggia ormai un’amara consapevolezza. In molti ritengono che l’impianto di Portovesme alla fine si salverà, mentre la produzione di alluminio primario a Venezia sia destinata a scomparire. Non solo perché il decreto governativo parla esplicitamente di agevolazioni nelle tariffe elettriche per le «grandi isole». Ma soprattutto perché, a differenza della Sardegna dove la protesta si è estesa alle altre aziende e persino alle scuole e al commercio, non son pochi i lavoratori dell’Alcoa che non hanno partecipato allo sciopero indetto dai colleghi. La lunga notte bianca degli operai dell’Alcoa era iniziata quando Palazzo Chigi aveva chiuso le porte alle spalle delle delegazioni sindacali e dei sindaci, inghiottendo le residue speranze di una marcia indietro della multinazionale, decisa a rifiutare qualsiasi apertura. Questo per sommi capi il tassello italiano di una vicenda assai più complessa.

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L’affare Alcoa, come tante altri che spaziano dal settore politico all’economico, ha sottolineato come l’attuale governo persegua una politica del “giorno per giorno”piuttosto che una strategia che legga l’Italia all’interno delle dinamiche internazionali, sia politiche che economiche, che oggi, piaccia o meno, determinano la fortuna delle nazioni. Il caso Alcoa può essere preso come cifra di questo ti-

po d’approccio. Infatti, se letto all’interno di un quadro fatto di equilibri e nuovi scenari globali, avrebbe potuto essere gestito in maniera differente. Perfino a vantaggio degli interessi nazionali. Quantomeno si sarebbe potuta tentare un’azione preventiva da parte del governo italiano, anticipando scelte industriali che, in questo caso, potrebbero avere un’origine politica, all’interno di una scenario di confronto tra potenze. Parliamo

Alcoa aveva infatti riportato, nel secondo trimestre del 2009, perdite meno ampie rispetto a quanto pronosticato dagli analisti; nel dettaglio, il buco di bilancio si era attestato a 454 milioni di dollari. Il confronto con lo stesso periodo del 2008, conferma comunque come il gigante dell’alluminio abbia risentito fortemente della crisi, visto che nel secondo quarto del 2008 Alcoa aveva conseguito utili per 546 milioni di dollari. Pollice

Pechino ha programmato, per i prossimi sei anni, un livello d’esportazione di terre rare bloccato sulle 35 mila tonnellate all’anno. Appena sufficienti a soddisfare la domanda giapponese di una guerra per il controllo di alcune materie prime. Gli impianti italiani lavorano del prodotto che viene dal Sud America e che poi in parte finisce nel mercato cinese. Il destino della catena italiana era quindi irrimediabilmente segnato rispetto alle strategie dell’azienda. L’Alcoa (Aluminium company of America) è un’azienda di Pittsburg che opera nella estrazione e lavorazione dell’alluminio. Dopo l’australiana Rio Tinto e Rusal – del magnate russo Abramovich – è la più importante azienda del settore. La crisi ha colpito anche questo mercato che è legatissimo ai prodotti di uso domestico e automobilistico, e non solo. È poi stato positivamente influenzato dalla ripresa cinese della scorsa estate.

verso anche per il giro d’affari che aveva fatto registrare nel secondo quarto del 2009 un crollo del 41 per cento attestandosi 4,24 miliardi di dollari.

L’alluminio è un elemento fondamentale nelle costruzioni automobilistiche. La Cina lo scorso giugno aveva fatto un salto in avanti nella produzione di auto, dando per prima un segnale di ripresa dalla grande crisi. Con un più 48 per cento aveva fatto segnare la miglior ripresa industriale dei Paesi avanzati. Per alimentare i propri altiforni aveva però bisogno di quantità sempre maggiori di materia prima. Da tempo deteneva un pacchetto di minoranza, tramite l’azienda di Stato Chinalco, delle miniere Rio Tinto e stava lavo-

rando per aumentare il peso azionario nella società australiana. Alla base c’era una guerra sui prezzi. Le acciaierie giapponesi e sudcoreane avevano già siglato degli accordi in tal senso. La Cina chiedeva «prezzi di favore». La Chinalco aveva già interamente sottoscritto un aumento di capitale in Rio Tinto per 15,2 miliardi di dollari, per mantenere invariato il suo 9,3 per cento. Ma voleva fare il salto ulteriore, viste le prospettive di ripresa del proprio sistema industriale. Il drago andava sfamato, ragion per cui la sconfitta è sembrata ancora più amara. A metà giugno i cinesi si arrendono e dichiarano che la proposta d’investimento – intanto levitata a 19,5 miliardi di dollari – era ormai «fuori dal loro controllo». Rio Tinto aveva preferito l’offerta della britannica Bhp Billiton da cui avrebbe ricavato, secondo gli australiani, 21 miliardi dalla vendita azionaria. Un mese dopo era scattata quella che ha avuto tutta l’aria di

una ritorsione. L’arresto a Shangai «per spionaggio e furto di segreti di Stato» di un dirigente della Rio Tinto, di cui molto hanno parlato i giornali dell’epoca e che dovrebbe sfociare in un processo a breve. Quindi uno scenario che dipinge un pezzo di una vera guerra commerciale tra Pechino e uno dei pilastri dell’alleanza di Washington, cioé Camberra. In questo contesto di acceso confronto internazionale per l’accaparramento delle materie prime, è chiaro che l’Alcoa voglia fare squadra con Camberra e sviluppare le strutture più vicine al mercato più importante: quello cinese. Anche se l’azienda di Pittsburg ha interessi anche in Russia, è Pechino l’obiettivo primario.Tra Usa e Cina adesso è battaglia per le materie prime. Ora occorre fare un ulteriore passo indietro. Fino all’elezione del nuovo presidente Usa, Barack Obama. Con lui ha preso piede il nuovo concetto di green economy. Un progetto ambizioso quanto ne-


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neodynium che è una componente essenziale nei magneti presenti nei motori di ultimissima generazione. Per ogni turbina eolica ne servono due tonnellate. È giunto il momento di correre ai ripari. Un’azienda come la Toyota si è assicurata una propria miniera in Vietnam per garantirsi l’autosufficienza. Le Alluminium wars. In Russia, intorno agli interessi della Rusal, negli anni Novanta si scatenarono conflitti e una vera e propria guerra che ha provocato anche decine di morti. Da questo conflitto emerse vincente Roman per cento le esportazioni di terre rare e fonti del quotidiano britannicoIndipendent, legate all’industria, affermano che le autorità cinesi nel prossimo anno potrebbero bloccare l’export di altri due elementi.

Si pensa che per il 2012 Pechino voglia utilizzare tutto il materiale estratto per soddisfare il previsto boom nella domanda interna. Questo creerà sicuramente una crisi nei mercati occidentali, dove si scatenerà la corsa a fonti di produzione alternative. Già ora molte società stanno aprendo miniere in Sud Africa e in Groenlandia per rispondere alla domanda presente e futura. Si sospetta anche che Pechino voglia utilizzare il monopolio come strumento di politica estera. Le autorità britanniche tengono sotto osservazione il mercato, per vedere se esistono delle violazioni alle leggi sul libero commercio da parte della

sono create nuove miniere, ma ci vorranno dai cinque ai dieci anni perché diventino pienamente produttive». Solo recentemente questi elementi naturali sono diventati importanti per l’industria, specialmente con il boom degli IPhone e degli strumenti a raggi X di cui sono una componente essenziale. La do-

Nel 2001 Paul O’Neil lasciò l’Alcoa per diventare segretario al Tesoro e la società entrò anche nel segmento Difesa. Ora gli americani cercano un’alleanza con Rio Tinto per il mercato cinese cessario, viste le impellenze dettate da Kyoto prima e Copenhagen poi. Anche se in parte disattese per motivi che esulano la nostra analisi. La green economy si basa in parte sulla produzione di sistemi per il risparmio energetico, come le lampadine, le auto ibride – come la Toyota Prius – e le turbine eoliche, come quelle che sempre più spesso punteggiano il panorama delle nostre campagne. Bene, questo tipo di tecnologia ha la necessità di utilizzare dei minerali molto particolari.

L’Inghilterra e molti altri Paesi rischiano di vedere le proprie scorte di metalli rari assottigliarsi. I timori si stanno trasformando in certezze da quando Pechino ha drasticamente ridotto l’esportazione di una risorsa di cui detiene il monopolio mondiale. Nella tavola degli elementi di Mendeleev si chiamano «terre rare» (tra queste il neodynium) ed è molto difficile che in breve si riesca a sostituire le esportazioni che la Cina ha tolto dal mercato internazionale. Gli effetti sarebbero diretti e immediati sull’industria delle tec-

nologie anti gas-serra che fa affidamento su questi 17 metalli per costruire delle componenti vitali per la produzione di energia verde. Parliamo, ad esempio, delle turbine per l’eolico e delle lampadine a basso consumo. La Cina, sul cui territorio ci sono le miniere che producono il 97 per cento di questi minerali, si vuole assicurare che la trasformazione della materia prima in prodotti per l’industria ecologica venga fatta all’interno dei propri confini. Negli ultimi sette anni Pechino ha ridotto del 40

Cina. Jack Lifton, un esperto del settore, afferma che «siamo vicini a una vera crisi. Negli Usa come in Inghilterra non c’è ancora la consapevolezza di quanto sia urgente trovare una soluzione rapida per nuovi approvvigionamenti alternativi a quelli cinesi di terre rare. La Cina è passata dall’esportazione del 75 per cento del prodotto delle proprie miniere ad appena il 25 per cento e non si sente assolutamente responsabile rispetto alla necessità e alle esigenze del mercato internazionale. In Occidente si

manda globale negli ultimi dieci anni è triplicata, passando da 40 mila e 120 mila tonnellate annue. Pechino ha annunciato di aver programmato, per i prossimi sei anni, un livello d’esportazione bloccato sulle 35 mila tonnellate all’anno. Una quantità appena sufficiente a soddisfare la domanda giapponese. Ad esempio la Toyota quest’anno produrrà circa un milione di autovetture Prius a propulsione ibrida. In ogni vettura sono presenti circa 16 chilogrammi di terre rare. Si prevede per che il 2014 la domanda dovrebbe salire a 200mila tonnellate annue, se la green economy dovesse mantenere lo sviluppo previsto. L’industria mondiale che fa affidamento sulle qualità di questi elementi «rari» è piuttosto vasta, va dalla produzione di sofisticati sistemi guida per missili a quella di fibre ottiche. Un giro d’affari stimato intorno al 5 per cento del pil mondiale. La quasi totalità della produzione cinese proviene dalla miniera di Baotou nella Mongolia interna. Il resto è fornito da piccole miniere, spesso illegali, nel sud del Paese. L’elemento più diffuso è il

Abramovich, proprietario del Chelsea Fc e dalle grandi disponibilità finanziarie. Nel Duemila, si racconta che l’idea di creare la Rusal nacque, a Londra, dall’intesa di quattro oligarchi russi: Abramovich, Berezovsky, Patarkatsishvili e il giovane Oleg Deripaska. Nel 2007 la società russa, grazie alla fusione con un’altra azienda del settore, riuscì a scavalcare l’Alcoa nell’Olimpo dell’alluminio. Nello stesso anno il giornalista Andrei Kalitin che stava per pubblicare un libro sulla guerra dell’alluminio in Russia (Mafia in Black), fu eliminato.

Relazioni tra economia e politica. Nel 1987 Paul O’Neil divenne chairman dell’Alcoa. E fu anche il primo scelto all’esterno della società di Pittsburg. La sua politica fu quella di ridurre la diversificazione puntando sul core business: l’alluminio. Invertì la struttura piramidale dell’azienda puntando tutto sulla soddisfazione dell’utente finale. Nel 1989, con il collasso dell’Unione Sovietica, ci fu il crollo dei prezzi dell’alluminio. Mosca, nel tentativo di raccogliere soldi, invase il mercato con il suo prodotto «a buon mercato». A metà degli anni Novanta la politica del Ceo cominciò a pagare. Nel 2001 O’Neil lasciò l’Alcoa per diventare segretario al Tesoro e la società entrò anche nel segmento Difesa. Non è difficile intuire come questo genere di attività entri, a pieno titolo, nel campo del confronto strategico tra Washington e Pechino e come scelte industriali possano subire influenze di carattere politico. E il Free trade agreement vagheggiato tra Pechino e Camberra rimane impantanato nello stagno di un nuovo confronto.



quadrante

20 febbraio 2010 • pagina 17

Khamenei risponde sdegnato Preoccupate Mosca e Berlino

L’ultimatum per l’italiano Cicala scade il prossimo primo marzo

L’Aiea lancia allarme sull’Iran nucleare

Mali, liberi i guerriglieri scambiati con ostaggi

TEHERAN. «La nostra religione ci impedisce di utlizzare armi atomiche». Lo ha dichiarato, l’ayatollah Ali Khamenei, Guida suprema dell’Iran, ribadendo che la Repubblica islamica non intende procurarsi l’arma nucleare. «Recentemente responsabili occidentali e statunitensi hanno ripetuto commenti vecchi e assurdi secondo i quali l’Iran cerca di costruire bombe atomiche. Le accuse dell’Occidente sono senza fondamento: il nostro credo religioso ci impedisce di usare armi del genere. Noi non crediamo nelle armi nucleari e non stiamo cercando di procurarcele», ha detto Khamenei parlando al varo del primo cacciatorpediniere costruito interamente in Iran. Il minstro degli Esteri russo, Serghiei Lavrov ha afferamato che Mosca è molto allarmata per il rifiuto di Teheran di collaborare con l’Aiea. «Siamo molto allarmati e non possiamo accettare che l’Iran si rifiuti di cooperare con l’Aiea», ha dichiarato Lavrov in una intervista radiofonica, come riferisce l’agenzia Itar-Tass.

BAMAKO. Quattro combattenti

Anche il rappresentante iraniano presso l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Ali Asghar Soltanieh, ha definito ieri «senza fondamento» il rapporto nel quale l’Aiea afferma che la Repubblica islamica potrebbe essere impegnata nella fabbrica-

Golpe in Niger, spodestato Tandja Il colpo di Stato appoggiato da alcuni governatori di Antonio Picasso timori di un Colpo di Stato in Niger erano cominciati a sorgere già all’inizio dell’anno. Ieri se ne è avuta la realizzazione. Una giunta militare ha fatto breccia nei palazzi del potere della capitale Niamey, spodestando e mettendo agli arresti il Presidente Mamadou Tandja. La guida del Paese è passata temporaneamente a un gruppo di governatori locali con a capo il generale Salou Djibo. Stando alle fonti locali, si sono registrati intensi scontri a fuoco nella capitale, ma non si ha notizia del numero preciso delle vittime coinvolte. La situazione resta al momento tesa, sebbene il Consiglio del governo provvisorio abbia già revocato il coprifuoco e riaperto le frontiere. Il gesto vorrebbe indicare che la giunta di Djibo ha il pieno controllo del territorio nazionale. È il quinto golpe in cui cade vittima un Paese africano negli ultimi due anni: prima in Mauritania in agosto 2008, in Guinea alla fine dello stesso anno, successivamente è stata la volta della Guinea-Bissau a marzo 2009 e contemporaneamente del Madagascar. Ieri è toccato appunto al Niger. La cronaca dell’accaduto ha seguito il “canovaccio classico”dei Colpi di Stato in terra d’Africa, che vede un gruppo di militari assumere il potere promettendo il ripristino della democrazia e delle libertà individuali abrogati dal governo destituito. Ed è proprio questo il caso del Niger.

I

vogliano trasformare il Niger in un regime militare. Questo sarebbe una nuova fonte di criticità in una regione sempre più instabile.

Siamo infatti nel cuore del Sahara, dove i confini dei Paesi dell’area – tra cui Algeria, Ciad, Libia e Mali – hanno un mero valore cartografico. Le tribù tuareg, che praticano ancora il nomadismo e che conservano un’orgogliosa tradizione di guerrieri, sono spesso tenaci avversarie dei governi locali. Sempre in questa area sono state tracciate le piste percorse dai flussi di immigrazione clandestina verso le coste del Mediterraneo. La presenza di al Qaeda è confermata dal ripetersi di rapimenti di visitatori stranieri. Il fatto quindi che il Niger possa cadere nel vortice dell’ingovernabilità preoccupa i suoi partner locali ma anche gli osservatori occidentali. Dall’Unione Africana e dalla Francia è giunta la condanna per i fatti di ieri a Niamey. Segno, questo, che per quanto la Presidenza Tandja stesse assumendo i connotati di un regime autoritario, gli interessi internazionali avrebbero preferito la stabilità del suo governo piuttosto che la presenza di una giunta militare, che promette la restaurazione di una democrazia in un Paese in cui quest’ultima non c’è mai stata. Infine bisogna ricordare che i negoziati aperti per la realizzazione del Transaharian Gas Pipeline (Tsgp) hanno coinvolto anche il governo di Tandja. L’obiettivo è quello di unire i giacimenti di gas in Nigeria con gli impianti di trasporto in Algeria, tra cui l’italiano Galsi. In questo modo l’Europa avrebbe accesso alle ricchezze nigeriane di idrocarburi in modo più veloce. Le stime prevedono che il progetto del Tsgp termini nel 2015 e la sua installazione cominci tre anni dopo. Il tutto per un costo di 7 miliardi di euro, finanziati da una joint venture costituita dai governi nazionali africani, quelli europei, oltre che dalle grandi multinazionali energetiche, tra cui Eni, Gazprom, Shell e Total. Una volta terminato, l’impianto potrebbe trasportare 30 miliardi di metri cubi annui di gas. Se però Niamey non fosse in grado di assicurare la sua stabilità, verrebbe messo in discussione il più remunerativo progetto energetico di tutta l’Africa.

I militari hanno assunto il potere promettendo il ripristino delle libertà abrogate dal governo destituito

zione di una carica per un missile nucleare. «Ho dichiarato più volte che, quando ci hanno mostrato questi documenti, nessuno di essi era confidenziale o recava un sigillo segreto», ha detto Soltanieh, alludendo ai documenti citati dall’Aiea. Per la Germania, invece, il rapporto dell’agenzia atomica internazionale (Aiea) «conferma le serie preoccupazioni che il governo nutre da lungo tempo sul programma nucleare iraniano» lo ha afferamato ieri il portavoce del governo tedesco, Ulrich Wilhelm. Stessa preoccupazione espressa da Parigi. L’ultimo rapporto dell’Aiea «mostra quanto sia urgente agire con determinazione», ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri, Bernard Valero.

islamici detenuti in Mali e dei quali al Qaeda avrebbe chiesto la liberazione per rilasciare alcuni ostaggi, saranno scarcerati a breve. Lo ha riferito una fonte giudiziaria all’Afp. I quattro islamisti, membri dell’Aqmi, sono stati ascoltati nel corso di un processo durato due ore presso un tribunale di primo grado nella capitale maliana, che li ha condannati per possesso illegale di armi a nove mesi di carcere, pena leggermente superiore alla durata effettiva della loro detenzione. Al termine del processo sono stati condotti verso una destinazione ignota e poi liberati nel corso della giornata, come hanno

Ancora all’inizio di agosto 2009, il Presidente Tandja era riuscito a riformare la costituzione attraverso un referendum palesemente pilotato, affinché potesse prolungare la sua permanenza alla leadership del Paese per un terzo mandato. La decisione era stata osteggiata dal Parlamento e dalla Corte suprema nazionale. Tandja, per tutta risposta, aveva sciolto l’Assemblea Nazionale e delegittimato la massima autorità giudiziaria nazionale. Quanto è accaduto ieri quindi ha, per alcuni aspetti, i caratteri di un contro-golpe, nell’ottica di un ritorno allo statu quo precedente alla prova di forza espressa da Tandja. A questo punto il futuro del Paese si immerge in una coltre di dubbi. È lecito chiedersi se i sostituti di Tandja siano capaci di ripristinare i diritti e le libertà che erano state soppresse, oppure se

svelato fonti vicine al dossier. Tuttavia oggi erano ancora in carcere. Secondo una fonte vicina al dossier, per la liberazione dell’italiano, i rapitori hanno chiesto la scarcerazione di questi quattro islamici detenuti in Mali ma anche dei combattenti detenuti in Mauritania. Secondo l’Afp, si tratterebbe degli islamici di cui al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) reclama la liberazione per rilasciare l’ostaggio francese Pierre Camatte rapito a fine novembre nel nord del Mali: due algerini, un mauritano e uno originario del Burkina Faso. L’ultimatum dell’Aqmi all’ostaggio francese scade oggi.

Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) detiene attualmente sei ostaggi europei nella zona desertica del nord del Mali. Oltre al francese, tre spagnoli, catturati il 29 novembre in Mauritania, e una coppia di italiani, di cui una donna originaria del Burkina Faso, sequestrati il 17 dicembre, anche in Mauritania. Al Qaeda nel Maghreb islamico aveva fissato un primo ultimatum al 30 gennaio per i francesi che poi ha spostato al 20 febbraio, minacciando di ucciderlo se le sue richieste non saranno soddisfatte. Nel caso dell’ostaggio italiano, Sergio Cicala, l’ultimatum è stato fissato al primo marzo.


cultura

pagina 18 • 20 febbraio 2010

Riletture. Si può senz’altro considerare la prima commedia del Bardo. Ed è fra le più laiche, disincantate (e a tratti anche ciniche) delle sue creazioni

La bisbetica svelata Tutto quello che c’è da sapere sull’opera che diede inizio al “meta-teatro” di William Shakespeare di Franco Ricordi i può considerare la prima commedia di Shakespeare, sicuramente il testo in cui il Bardo da inizio al suo straordinario metateatro, il discorso del “teatro nel teatro”, che anticipa Pirandello e tutti i maggiori autori e registi moderni: La bisbetica domata inizia infatti attraverso un prologo in cui viene fatto uno scherzo ad un vecchio ubriacone, di nome Christopher Sly, al quale viene detto di essere un nobile smemorato da 15 anni e per il quale si terrà una divertente recita di comici. Il vecchio stenta a credere, ma poi sta al gioco, e da qui nasce la commedia che tutti conosciamo. Ma questo prologo è assai importante, e non solo stilisticamente, per il discorso shakespeariano. Esso anticipa, tanto per fare un esempio, l’arrivo degli attori a metà di Amleto, di cui il principe si servirà per smascherare il delitto del suo ZioRe. Ed è significativo come il compositore veneziano Ermanno Wolf-Ferrari, che musicò varie commedie di Goldoni, ne abbia addirittura tratto una sua opera lirica nel 1927, intitolata appunto Sly.

S

E qui si apre il secondo sipario, in una Padova che viene definita lombarda, e nell’ambito di una società benestante, borghese, ma pure agricola e aziendale. Shakespeare intuisce bene l’evoluzione dell’Italia settentrionale, e la dipinge senza critiche, ma nemmeno entusiasmi. E certo La bisbetica domata risulta fra le più laiche, disincantate e a tratti anche ciniche fra le sue commedie. Il ricco Battista Minola ha evidentemente due belle doti da sborsare per “mettere a posto” le sue figlie, Caterina, la bisbetica, e Bianca, la più dolce e arrendevole figlia minore. Quest’ultima ha addirittura tre pretendenti, Lucenzio, Gremio e Ortensio, laddove nessuno ha il coraggio di avvicinarsi a Caterina, tanto scorbutica e indomabile. Ma il padre non ha intenzione di maritare Bianca fino a quando anche Caterina non sia sposata, così per tutta Padova

si cerca qualcuno che possa tenere testa alla figlia ribelle. Sopraggiunge Petruccio da Verona, vecchio conoscente del padre di Caterina da poco rimasto orfano del padre: è certamente uno dei personaggi più italiani, vero e pro-

nozze a Padova, e ricche significa felici». E sotto questo aspetto non teme nemmeno di affrontare una nuova Santippe. Qualcuno ha pensato che Petruccio – certamente il personaggio più macho che Shakespeare abbia delineato

Due protagonisti al di fuori degli schemi, un matrimonio bizzarro, ma riuscito: non sarà forse un capolavoro, ma la cornice divertente e la trama spiazzante ne hanno fatto un successo

prio vitellone del Nord, che Shakespeare abbia dipinto: molto simile ai giovani e altrettanto «in cerca di dote» del Mercante di Venezia, ma dalla personalità ancor più spiccata. Egli afferma subito come intenda «fare ricche

– sia in qualche maniera un marito fascista, un vero e proprio maschilista di prima data. Non siamo d’accordo. La realtà è più complessa, e Petruccio non riuscirebbe mai a conquistare Caterina con le sole armi burbere, con la

semplice e ovvia autorità maschile. C’è infatti nell’Italia del secondo novecento un personaggio, un geniale cantante-attore, che a nostro avviso ha reincarnato e ulteriormente sedimentato quella che potremmo definire la “maschera di Petruccio”: questi è Adriano Celentano. Siamo certi che sarebbe stato, 20-30 anni fa, un grandissimo interprete di Petruccio, nella versione musical Kiss me Kate, ma anche probabilmente in quella classica shakespeariana.

Non a caso Celentano ha interpretato una sorta di suo alter-ego al contrario, in un film del 1980 intitolato proprio Il bisbetico domato. La maschera di Celentano è anzitutto autoironica: è burbero, è macho, a tratti caparbio e insistente. Ma riesce sempre a sgattaiolare dal rischio della seriosità, riesce sempre ad essere spiazzante nei confronti del pubblico e dei suoi interlocutori, ed è proprio questo il segreto di Petruccio: solo lui riesce a conquistare Caterina proprio in virtù di un’arma, la sottrazione, che alla fine risulta irresistibile; si potrebbe pensare che Petruccio provenga da una delusione amorosa per come ci sa fare, e per come riesca ad impostare la sua vincente strategia. Analogamente a Jago Petruccio-Shakespeare non ignora la celebre Arte di amare di Ovidio. Alla fine è semplicissimo, «in amore vince chi fugge», ma tutto funziona a meraviglia. Petruccio riuscirà a conquistare Caterina, quasi avesse organizzato tutto lui, come se fosse un suo “combino” di cui lo stesso padre della sposa rimane piacevolmente sorpreso. E in questo gioca anche l’incredibile utilizzo del tempo che Petruccio è in grado di esercitare: egli si presenta come un vero business-man, un uomo letteralmente “preso dal tempo”, assolutamente indaffarato, anche se poi scopriamo che non aveva assolutamente nulla da fare. Addirittura sarà in grado di abbandonare la novella sposa e la festa nuziale al momento culminante, con la

scusa di aver qualcosa da sbrigare per la quale, se gli altri la conoscessero, sarebbero i primi a spronarlo a partire! È questo il suo segreto. Andiamo per gradi: Caterina si presenta subito nella sua forte irruenza, tanto che aggredisce e bastona persino la sorella più piccola. Tutti sono atterriti dalla sua esuberanza, ma Petruccio ostenta sicurezza e lo dice chiaramente: «Voglio corteggiarla a modo mio: farà la faccia feroce, dirò che il suo viso è più


cultura grande coppia del teatro shakespeariano, una drammaturgia che è basata anche sul confronto e sullo scontro fra marito e moglie, in maniera tanto complessa e diversificata da anticipare pienamente il teatro di Strindberg, l’Autore svedese che alla fine dell’Ottocento ha inventato la nuova drammaturgia da camera, e il cui leitmotiv risulta proprio il grande e inesauribile scontro fra uomo e donna. E certo si può dire che per Caterina avvenga una vera e propria metamorfosi, una trasformazione così forte che ci colpisce: una virago si è ridotta ad una mansueta donna di casa; non solo: una donna che elogia la propria stessa sottomissione al marito.

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Petruccio e Caterina sono la prima grande coppia del teatro shakespeariano, una drammaturgia che è basata anche sul confronto e sullo scontro fra marito e moglie, in maniera tanto complessa da anticipare il teatro moderno

Non a caso nella prima scena del primo atto Tranio e Lucenzio fanno riferimento ad Ovidio, che rimane fino a quel punto proprio con la lezione delle sue Metamorfosi, il modello fondamentale del Bardo. Ed è infatti quello che accadrà alla bisbe-

Sembra che Petruccio sia un vero e proprio maschilista. Ma la realtà è più complessa: non riuscirebbe mai a conquistare Caterina con le sole armi burbere, con la semplice autorità maschile

sereno e fresco d’una rorida rosa all’alba. Si ammutolirà nel silenzio? Loderò la sua versatile conversazione e travolgente eloquenza».

Così Petruccio inventa anche un nomignolo, Kate, con cui la apostrofa fin dall’inizio, al posto di Katherine. L’impatto è forte, fortissimo, quasi una corrida, molto teatrale, e soprattutto riesce ad impostare una sfida linguistica fra sessi che continuerà in altre coppie shakespeariane: tali

saranno ad esempio Beatrice e Benedetto in Molto rumore per nulla, ovviamente assai diversi da quelli che sono gli amori più romantici ovvero problematici di Shakespeare.

La storia d’amore e di sesso nasce anche “per antipatia”, ovvero per la forza che il linguaggio - più che mai protagonista nei diverbi che si scatenano - riesce a sprigionare da una parte come dall’altra. Certamente Petruccio e Caterina sono la prima

tica. Caterina è l’unico personaggio femminile di Shakespeare che assurge a title role, il ruolo del titolo, gli altri sono tutti maschi eccetto i titoli in coppia: e tuttavia dobbiamo in qualche maniera considerare questo suo taming, l’essere domata, quasi come una conditio-sine-qua-non del suo protagonismo. Nel IV atto Caterina sembra addirittura volere accettare il linguaggio sconnesso di Petruccio: «Allora, Dio benedetto, è il sole benedetto. Ma non è il sole quando dite che non lo è. E la luna cambia, quando cambiate parere». Ma si potrebbe anche pensare che si tratti di una ulteriore strategia: Caterina si mostra arrendevole e cambiata, in tutto e per tutto domata, ma la sua vita con Petruccio è in realtà soltanto all’inizio. Che accadrà in seguito? E certamente l’aspetto femminista o antifemminista in Shakespeare non finisce qui: continua quasi subito nella Commedia degli errori, e ritorna in tante occasioni come ad esempio

nell’atto finale di Otello, quando Desdemona ed Emilia mettono in crisi proprio le prerogative delle donne e della loro possibile fedeltà in rapporto alle rispettive opportunità di potere. Si insinua insomma, fin da La bisbetica domata, la possibilità di un potere diverso, alternativo,

che le donne hanno esercitato ed esercitano attraverso il matriarcato nella società occidentale, anche se non necessariamente. Caterina riconosce addirittura l’inferiorità della donna per quello che riguarda gli aspetti più evidenti della forza fisica, e in questo sembra ricordare gli strali misogini di Leopardi contro la sua Aspasia. E tuttavia il dishakescorso speariano è più carsico, profondo e sottile al contempo: la bisbetica Caterina si è arresa, ma si potrà forse pensare che lo scontro finisca qui? Non sarà una ritirata strategica in vista di altri e inesauribili attacchi e conflitti? E non rimarrà la donna proprio intenzionalmente “alle spalle” dell’uomo, meno appariscente, ma tanto più importante e fondamentale come dice l’antico adagio per il quale «dietro ad ogni grande uomo c’è sempre una donna»?

Forse sta proprio in questa “non conclusione”il senso di smarrimento, e anche di precarietà, che promana da questa prima commedia shakespeariana. La bisbetica domata non sarà certo un capolavoro del Bardo, ma il suo successo va ascritto anche al dubbio che già serpeggia sotto la cornice divertente e divertita, al senso di spaesamento che deriva dalla trama spiazzante di Petruccio ovvero dalla forte mutazione di Caterina che sorsembrano prendere anzitutto i loro stessi interlocutori in commedia: alla fine sono tutti allibiti per il fatto che lui sia riuscito a domare lei, ma forse ancor più per il repentino cambiamento di carattere della ragazza. E in questa maniera, che in qualche modo esalta il battibecco, si da ancora più importanza ai due grandi protagonisti che risultano proiettati al di fuori della consuetudine sociale, pur essendoci clamorosamente rientrati anche per una questione di dote. Un matrimonio bizzarro, certamente al di fuori dalle regole, ma alla fine riuscito!


cultura

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Un pluriverso di segni dunque il post capitalismo da cogliere in un minority report a voci che è la cifra del libro di Mariotti. Eccone alcuni di questi flash di Un mondo alla rovescia, capaci di bucare il velo d’una visione superficiale che si limita a cogliere appunto i sensi delle cose senza coglierne il senso. “Consulenti globali”. «L’economia nasceva come qualcosa di molto diverso dalla gestione del denaro. La crestomazia. Finendo per consegnare dopo l’astrazione che lo strutturalismo impone a tutte le discipline del Novecento, le nostre vite all’aridità degli indici di produzione e ai grafici di borsa». “Efficienza”: «Ultimo dei miti degli anni Novanta a cadere nella bufera del decennio che sta per concludersi: il mito dell’efficienza è costato troppo non solo in termini economici ma soprattutto in termini reali rendendo più acuti». “Ezra”. «Perché non ritrovare il Pound che pone il problema: ci sono merci a sufficienza, c’è una sovrabbondante capacità di produrre merci, perché, allora si muore di fame?». “Fuga”. «Nel ventunesimo secolo che tutto ha visto e tutto ha detto il viaggio non sarà solo il guardare il mondo con occhi nuovi. Ma mantenere un’originalità di giudizio, costruendosi uno stile capace di trasformare lo spostamento, di lavoro o di piacere in un’epica».

ripensarli oggi i teorici della net economy e delle magnifiche sorti e progressive della finanza globale, anche alla luce del giovedì nero delle borse europee, verrebbe da sorridere... se non fosse naturalmente che l’esito della loro ciarlataneria è la tragedia planetaria in corso. Una crisi finanziaria diventata crisi economica e ora crisi strutturale, di produzione e di occupazione. Sono i cicli del capitalismo s’è detto, è la dialettica della distruzione creatrice. Dove non si vede ancora bene quale sia la fase creatrice di questo capitalismo virtuale che ha scardinato le strutture che ne avevano retto l’esistenza per più di mezzo secolo, mentre s’assiste al ritorno in grande stile del vecchio Stato impegnato a puntellare e sostenere, non si sa ancora per quanto, ciò che resiste dell’economia reale e produttiva delle nazioni.

A

La realtà è che non sono crollate solo le borse, è andato in frantumi un paradigma che solo oggi comincia ad apparire nella sua realtà di fondo: l’illusione cioè che si potesse fare economia senza la società, con la connessione telematica, con le stock option e gli hedge found. Un mondo alla rovescia lo chiama nel suo libro Walter Mariotti, direttore del mensile del Sole 24 ore IL, intellettuale non conformista dalla solida cultura filosofica. Un giornalista colto e quindi raro nella categoria abituato a prendere le misure al mondo senza pregiudizi, senza soggiacere ai trend e ai luoghi comuni che invecchiano con volgere d’una stagione. Un mondo alla rovescia. Alfabeto del postcaptalismo di Mariotti è dunque il tentativo riuscito non di fare il punto sul mondo post-capitalista ma di mettere a fuoco lo stile di vita del capitalismo quando il capitalismo viene spinto in un campo di forze sconosciute. Già, perché gli avvenimenti seguiti al fallimento di Lehman Brothers sono stati soltanto l’ultimo macroscopico sintomo dell’inverarsi di una dimensione che incarna il sogno proibito dell’ideologia del puro mercatismo: «Un mondo dove finalmente bene e male, passato e futuro, segni e valori si confondono e si scambiano in un’infinita fluttuazione». E in questa dimensione di dissolvimento però il tardocapitalismo ha ancora la pretesa di credere o di far credere che esista ancora la possibilità di riattivare vecchi piani di sviluppo, creare consumi superati, ipotizzare posti di lavoro novecenteschi. «Un restart del sistema, tutto come se niente fosse accaduto. E invece qualcosa è accaduto – dice Mariotti – è accaduto che a far saltare il gioco è stato un lifestyle irreale, l’elemento che ha gonfiato fino al paradosso una bolla dove la ricchezza si è virtualizza-

Tra gli scaffali. Il saggio “Un mondo alla rovescia” di Walter Mariotti

Insostenibile leggerezza del post-capitalismo di Riccardo Paradisi ta raggiungendo vette mai viste, superiore anche a venticinque volte la stima reale dei bisogni e degli utili».

Quale sia il principio di realtà di questa megamacchina che fabbrica miti virtuali e accelerazioni finanziarie Mariotti lo svela in una notazione di gran-

gni». Il fatto è che il capitalismo non ha mantenuto le promesse che lo avevano fatto trionfare sul suo antagonista storico, il comunismo: «Abbandonandoci in un indistinto individuale, politico e culturale dove le contraddizioni tra produzioni di beni e promesse di felicità, consumo e godimento, mercato glo-

elargire distinzione mentre garantiscono soltanto un superiore stadio di omologazione essendo ormai anche l’esclusività realizzata su scala industriale.

Per l’autore, oltre alle Borse, è andata in frantumi l’illusione che si potesse fare economia senza la società, con la connessione telematica, con le stock option e gli hedge found de finezza: «I ventenni cresciuti nel mito della leggerezza, della flessibilità, dell’abolizione del luogo di lavoro, che scoprono una vita pesante, rigida e privata del lavoro, che ha cessato di essere una forza di produzione per diventare un segno tra i se-

bale e realizzazione individuale, si sono del tutto rovesciate, scoprendo una vita sempre più organizzata attorno alla simulazione di segni, forme di un nuovo ordine dove la simulazione si estende al corpo e all’anima». Segni che dovrebbero

A fianco, il saggio di Walter Mariotti “Un mondo alla rovescia”. In alto, un disegno di Michelangelo Pace

“Gioventù”. «Alla fine del Novecento la gioventù novecentesca muore. E dalle sue ceneri rinasce l’idea classica del puer aeternus, il bambino capriccioso che rifiuta semplicemente il senex, ovvero l’accettazione del tempo, del lavoro, dell’ordine. La gioventù non è più il soggetto che si fa carico della storia e del destino umano ma che rifiuta la continuità, l’apprendere e il sopravvivere». Telesofia: «Berlusconi è l’esecutore testamentario della filosofia occidentale, che incapace di rivoluzionare la realtà ha ceduto il testimone alla televisione, che in questi anni sta completando la teorizzazione del mondo». Flash appunto, annotazioni, che però si iscrivono in una visione d’insieme, uno sguardo che demistifica ideologia ed estetica d’una vita leggera, amorale, indifferente, in una parola spettacolarizzata, dove il godimento è il nuovo imperativo categorico che tenta, senza riuscirci, di purificarsi dalle scorre tradizionali come la fatica, l’attesa la memoria, il senso. Che sono le funzioni dell’umano che consentono invece di navigare senza naufragare nella globalizzazione appena cominciata. Nel mondo alla rovescia su cui Mariotti ha lanciato lo sguardo, guidato da quella vecchia massima per cui non è importante ridere o piangere, ma è importante capire.


spettacoli

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Canzoni. Stasera il Festival decide il vincitore. Sarà Irene Grandi? O Ruggeri? O Arisa? L’importante è che se ne parli

Chiacchiere su Sanremo di Valerio Venturi

SANREMO. Perché Sanremo è Sanremo, occorre parlare di Sanremo. Dei vestiti tutta panna di Antonella Clerici, dei tempi pachidermici della kermesse, del “Dopofestival” improbabile di Youdem Tv - l’emittente del Partito Democratico in cerca di un posto al sole; di Corona & Belen che girano per la città paparazzati; oppure dei vip o presunti tali che mangiano nei ristoranti mentre i fan o presunti tali li fotografano e li guardano come fossero pesci colorati di un tropicalissimo acquario. Del sosia di Morgan e del sosia di Luciano Pavarotti, che gira senza senso del pudore: l’originale è defunto; oppure dei giornalisti che intervengono al Question Time di Maurizio Costanzo perché qualche volta è bello pure farsi inquadrare. Sanremo è il premio dell’Afi (Associazione Fonografici Italiani) consegnato ai Jalisse, che si sarebbero distinti durante l’anno per l’attività musicale. Ed è anche la storia di una cantautrice di vent’anni, Alex, che si becca una multa di 150 euro perché suona senza permesso per strada: pazienza se s’è sempre fatto e che Sanremo dovrebbe essere la città della musica.

Insomma, il Festival «da» Sanremo è più che altro questo: un Circo Barnum dove c’è chi guarda e chi si fa guardare e dove accadono tante piccole cose. E la musica? Sì, un po’ capita che se ne parli. Da questo punto di vista, l’edizione numero 60 un po’ loffia, ma comunque riesce a catalizzare l’attenzione e a diventare argomento di discussione nei bar. In previsione della serata conclusiva si azzardano pronostici e si celebrano i giovani vincitori delle Nuove Generazioni: i rotocalchi scrivono di Jessica Brando, minorenne penalizzata, e di Tony Maiello scoperta di Mara Maionchi. Tra i big, brindano a italianissimo spumante Pupo, Emanuele Filiberto e il tenore Luca Canonici: sono stati ripescati a sorpresa e ora lottano per la Champions League. Non ce la faranno mai. Speriamo non si notino troppo all’estero. Per Valerio Scanu si mobilitano i «sorcini» di Amici: il voto popolare potrebbe fare la differenza. Mercoledì, Belen Rodriguez non ha salvato uno sfiatatino Toto Cutugno e nemmeno Dodi Battaglia, chitarrista dei Pooh, è riuscito a fare il miracolo per i Sonohra. Cassati pure gli etnici Nino D’Angelo e Maria Nazionale, rimangono nella lista dei papabili soprattutto Noemi di Xfactor, Irene

Grandi griffata Baustelle, Malika Ayane eroina della critica, ma anche Fabrizio Moro e Simone Cristicchi (piacciono al popolo delle primarie, ma i loro brani paiono riproposizioni incerte di cose meglio fatte da Caparezza). Garbano anche Povia, Marco Mengoni, pure lui talento televisivo, Enrico Rugge-

Dall’alto, in senso orario alcuni dei protagonisti del Festival di Sanremo di quest’anno: Antonella Clerici, Nilla Pizzi, Enrico Ruggeri, Irene Grandi, Massimo Ranieri, Arisa, il trio ”Pupo, Emaunele Filiberto, Luca Canonici”, Povia, Malika Ayane e Simone Cristicchi

Gli ascolti, l’unica cosa che conta all’Ariston, quest’anno sono andati bene. «Merito della semplicità», dice Antonella Clerici

ri - che piace all’assessore alle manifestazioni della città, Giuseppe Di Meco e Arisa. Mengoni ci può stare, Ruggeri può «dare di più senza essere eroe«”, Arisa vestita da Mery Poppins annoia riproponendosi come “la” sfigatella che fa canzoni perfette per le feste dei bimbi – dopo la collaborazione con Luttazzi non poteva mollare l’immagine da brutto anatroccolo piacione? (Cristina d’Avena salvaci tu).

Insomma, questi sono quelli che lotteranno con il pugnale tra i denti. Il vincitore esulterà, ma non necessariamente venderà più dischi degli altri – è l’esperienza che insegna. L’interpretazioneesecuzione delle 10 canzoni degli Artisti sarà valutata con sistema di votazione misto: giuria tecnica composta dai musicisti della “Sanremo Festival Orchestra” (con peso percentuale del 50%) e pubblico attraverso il sistema del televoto (con peso percentuale del 50%); le 3 “canzoni-artisti” più votate saranno ammesse alla seconda fase della serata finale. Infine, i tre brani dei big più votati se la giocheranno. Poi ci sarà l’esibizione dell’artista vincitore nella sezione Nuova Generazione. Questa la formula, ma come sapere a Sanremo contano sopratutto gli ascolti. E da questo punto di vista le cose sono andate bene. Antonella Clerici ne approfitterà per fare politica? «La politica non mi piace e non me ne occuperei mai. Ma piaccio agli italiani perché vedono in me la normalità. Se notate, anche le mie colleghe non sono particolarmente avvenenti o mondane. È importante semmai l’italiano e l’aver studiato, perché passa quello che sei». L’Auditel – chi controlla il controllore? - segnala picchi del 45%. Sarà. Di fatto così si giustifica il ricorso agli ospiti: piacciono al pubblico. Infatti, bella figura ha fatto la principessa Rania di Giordania, che è riuscita a uscire bene anche dalle domandepatacca della Clerici. Applausi adolescenziali per i Tokio Hotel e J. Lopez, popstar americana un po’ in decadenza che ha snobbato il Question Time di Maurizio Costanzo; applausi anche degli amanti della tradizione a Nilla Pizza, premiata alla carriera, a Elisa. Ma anche a Luigi Tenco, Mia Martini e Domenico Modugno ad memoriam. Applausi ormonali a Dita Von Teese e alle gnocche del Moulin Rouge. Critiche per il super-cachet pagato anche da chi legge a Antonio Cassano, il calciatore poverello che parla un italiano incerto ma che è più espressivo di Alex Del Piero con l’acqua minerale (Francesco Totti sta migliorando). Stasera sfilano Maurizio Costanzo e Maria de Filippi consorte Raiset, Lorella Cuccarini desnuda, i ballerini di Michael Jackson (quali)? Poi si brinda. A tarda notte, dopo un’elefantiaca, lenta processione di artisti o presunti tali. Poi scorreranno fiumi di parole.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Meno show e più comunicazione: è lo slogan del Popolo della libertà L’Italia deve risorgere sotto la spinta dei candidati del Pdl che dal nord al sud cercano di conferire con la gente per capire le loro necessità, esigenze e priorità. Nel contempo occorre smitizzare questa faccenda del sesso come propulsore di ogni meandro organizzativo che, dopo riunioni e fatiche varie, dispone massaggiatrici per chissà quale ristoro. Ciò è anche conseguenza di una privacy completamente inesistente, di una serietà che pare ormai una parola obsoleta e sull’attenzione delle persone che, eludendo i risultati della politica, punta i riflettori solo sulle anticamere del percorso che li ha resi possibili. Resto sconcertata e penso che la prima cosa da fare, in un momento dove i media destano nella popolazione una credibilità relativa, è avvicinarsi a loro per farsi conoscere, nei mercati, nelle fabbriche. Meno show e più comunicazione, uno slogan vincente che da sempre è stato portato con successo dal Popolo della libertà, perché invece di mostrare festoni e fuochi pirotecnici, permette di mettersi in discussione con il vivido apporto del contatto umano.

Lettera firmata

PARCHEGGIO “CARLO PRANZO” NUOVAMENTE IN STATO D’ABBANDONO Dovreste vedere in che modo impietoso è lo stato di totale abbandono in cui è lasciata l’area di parcheggio “Carlo Pranzo”. Era l’inizio di ottobre quando denunciavamo le condizioni pietose della zona di sosta. L’intervento del comune fu immediato e limitato, sostanzialmente, a consentire l’applicazione delle tariffe di sosta ed ad una superficiale rasatura dell’erba presente. È innegabile che un lieve miglioramento dell’area ci sia stato: da un’iniziale stato pietoso, infatti, si è passati semplicemente ad un’ordinaria condizione di degrado e disagio. I problemi più grossi ci sono oggi come allora. Gli avvallamenti del terreno non sono stati eliminati, così alle prime piogge (basta una leggera pioggerellina) si riempiono creando dei veri e propri bacini d’acqua che rendono impraticabili vaste zone del parcheggio. L’erba, ricresciuta vi-

stosamente, è pronta per il pascolo! Il rischio è sempre lo stesso: rompere le sospensioni dell’auto. Il disagio è immutato: per scendere dalla macchina è necessario indossare i classici stivaloni in gomma usati per andare a pesca! È sconsolante dover riscontrare che laddove ci siano da recuperare soldi l’amministrazione comunale si muova immediatamente, mentre quando il problema è il disagio della cittadinanza l’attenzione è ridotta all’osso. L’ennesima, triste, conferma della sconfitta della legalità e dello Stato di diritto. Siamo cittadini/utenti con dei diritti e doveri o, forse, più probabilmente siamo visti come dei sudditi che altro non possono fare che pagare il tributo ai signori di turno?Chiediamo all’amministrazione comunale d’intervenire, immediatamente, per risolvere il problema ed eliminare un disagio di tutti.

Alessandro Gallucci

In punta di piede Quella che vedete è la punta di uno stivale. O meglio, del nostro Stivale: questa infatti è la Calabria, così come si vede nello spazio. La sottile lingua scura coperta di nuvole è la Calabria, circondata da una superficie biancastra quasi luminescente. Sono il Mar Ionio e il Tirreno

L’INDUSTRIA DEGLI ARMAMENTI NON VA MAI IN CRISI L’industria degli armamenti non va mai in crisi, come si evince da un’inchiesta che ho seguito alla radio, ma si fanno largo nella richiesta potenze emergenti come l’India. Ne consegue che se un tempo l’esercizio bellico era anche un modo per equilibrare le aspettative di due potenze

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

fondamentali come Unione Sovietica e Stati Uniti d’America, adesso si rischia di arrivare ad una confusione oggettiva e pericolosa. Lo dimostra, per esemoio, la politica ambigua della Francia, che, da un lato condanna la Russia di Putin e la sua politica, e dall’altra ci fa affari con l’acquisto e la vebdita di armi.

Bruna Rosso

da ”The New Yorker” del 15/02/10

Obama e il neopopulismo di James Surowiecki otremo definirlo l’equivalente di un intervento politico ciò che è successo nelle scorse settimane. I democratici sono stati letteralmente bombardati da consigli sulla maniera in cui dovrebbero reimpostare, meglio reinventare un’agenda economica. Secondo questa visione, gli elettori vorrebbero un Obama più populista in economia e meno ambizioso nelle riforme. Dovrebbe, al contempo, essere più aggressivo nella creazione di nuovi posti di lavoro e meno largo di manica con i soldi pubblici. Un consiglio questo piuttosto contraddittorio, ma queste sono le opinioni sull’economia di tanti elettori un “tantinello” arrabbiati. E starebbero alimentando un clima che molti definiscono già di neopopulismo. Mentre il populismo degli anni Ottanta e Novanta, come pure quello più recente della destra politica, rappresentano delle ideologie più o meno coerenti e razionali, questo nuovo populismo è riuscito ad incollare preoccupazioni e obiettivi totalmente incompatibili fra loro, alla «sono fuori di testa». La gente ha esposto così il proprio pensiero. Ora non è ben chiaro se tutto questo possa avere un senso. Una caratteristica di questo neopopulismo è che vede chiaramente Main street (la gente comune) schierata contro Wall Street (la finanza) e si basa sulla reazione furiosa degli elettori contro l’intervento pubblico per salvare i banchieri. Ma non è così semplice come sembra. Mentre le banche sono il nemico pubblico numero uno, c’è molto di più nella rabbia che si percepisce in giro. Sembra che tutti, eccetto gli appartenenti alla comune middlle class, ottengano una sorta di sovvenzione, di aiuto. Big business, big gover-

P

ment e big labor, sembra che i cittadini americani non amino nessuno di questi concetti. Anche il grande salvataggio dell’industria automobilistica – sempre con soldi pubblici – dopo tutto, è stata una mossa impopolare alla stregua di quella a favore delle banche. Anche se con le case automobilistiche si è usato il guanto di ferro, lasciando che Gm e Chrysler fallissero, cancellando gli azionisti e mandando a casa i manager. E ne traesse beneficio la classe operaia del settore. Molti si potevano aspettare una transazione che avesse aiutato i lavoratori a mantenere il lavoro e a giocare un ruolo in un Paese afflitto da una crescita esponenziale della disoccupazione. Molti elettori avrebbero odiato anche un simile intervento. Allo stesso modo il fallimento dei meccanismi del libero mercato, durante la crisi finanziaria, ha portato molti cittadini a pensare che sarebbe stato utile un maggior coinvolgimento del governo nell’economia. Invece la percentuale di americani che pensano che lo Stato sia troppo invasivo è superiore a quella degli anni Novanta.

La riforma sanitaria offre un utile caso di studio. La proposta di legge è passata al Senato, grazie alla consapevolezza che molte delle riforme proposte fossero supportate dagli elettori: la copertura sanitaria estesa alle persone senza assicurazione, l’eliminazione delle pratiche più scorrette da parte delle assicurazioni, la copertura dei lavoratori che perdono il posto. Di nuovo, molti elettori ora non so-

stengono una legge che li aiuta e molti affermano che il governo abbia esagerato. E se tutti si lamentano per l’eccessivo costo del sistema sanitario nazionale, sono proprio le normative che hanno introdotto tagli alla spesa ad essere maggiormente contestate. In un recente sondaggio, fatto in un campione di elettori del Massachussets, che nel 2008 votarono Obama e che recentemente hanno invece dato il voto al repubblicano Scott Brown, è emersa una stranezza: non sanno neanche perché sono contro la riforma sanitaria. Di una sola cosa i cittadini sono convinti: vogliono il lavoro. E vogliono che sia il governo a darglielo, ma desiderano anche che tagli le spese. Insomma la solita contraddizione. Serve riconoscere che la rabbia che circola è meno ideologica che pragmatica. È figlia di un’economia debole e di un mercato del lavoro inefficiente e assomiglia molto al populismo alla Ross Perot. Quindi serve far ripartire l’economia anche a costo, sul breve periodo, di scontentare qualche americano.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Voglio stare con te ogni giorno di più Voglio raccontarti l’ultima storiella su Mae West. Mae West visita una fattoria durante un giro per gli Stati del West, accompagnata da un garzone aitante. Si imbattono in un toro che sta coprendo una vacca. «Scusa», dice Mae West, «come fa il toro a sapere quando la mucca vuole, diciamo, essere montata?». «Be’», fa il garzone, «con quelle bestie lì è tutta una questione di odore». Poi s’imbattono in un ariete e una pecora, anch’essi in posizione alla Lawrence. Mae West fa la stessa domanda e ottiene la stessa risposta. Quando il garzone la riaccompagna alla macchina, lei si volta e dice: «È stata una gran bella giornata. Senti, una volta vienimi a trovare, quando ti sarà passato il raffreddore». Il che mi porta naturalmente alla fine di questa ridicola lettera. Ti amo, Pamela, ogni giorno di più, ti penso ogni giorno di più, e voglio stare con te ogni giorno di più. Non badare troppo alle mie ciance e brontolii, meno ancora a quella poesia orribile che ti ho mandato. Ti amo e ti amo. Credo solo in te. Dolce, tonda Pamela, ti amo. In ogni momento. E ti amerò sempre. Scrivi prestissimo e tienimi vivo. Se quel che conosco di te è la maschera, non togliertela mai. Con amore e le x che non posso scrivere perché manca lo spazio. Dylan Thomas a Pamela Hansford Johnson

ACCADDE OGGI

SI SEPARANO E LEI... TORTURA LE CAGNOLINE La fine di un matrimonio segna soprattutto gli esseri più indifesi, normalmente sono i bambini, ma tante volte sono anche gli animali. Una coppia di Riva dell’Olmo decide di separarsi, ma in mezzo ci sono due cagnoline senza alcuna colpa di questo amore finito, eppure il prezzo più alto lo hanno pagato proprio loro. Le due pelose sono state salvate dall’intervento di Alessandro Nosarti (accalappiacani), dal veterinario Dalla Morte dell’usl locale e dai carabinieri. Si trovano ora presso il canile di Monselice in condizioni fisiche e psichiche terribili, completamente denutrite e spaventate. In parole povere, la donna che aveva in custodia le due creature, ha sfogato la sua frustrazione sulle cagnoline che in un primo tempo aveva deciso di tenere, ma dopo un paio di mesi, ha iniziato a tenerle chiuse in casa per diversi giorni, tra i propri bisogni, senza cibo e, non contenta, successivamente ha iniziato a picchiarle con violenza. Da qui, il sequestro. Una delle due cagnoline ha la coda perennemente tra le gambe, spaventata da ogni persona che si avvicina; ha la paura nel cuore nel vedere una mano che si alza, pensando che si tratti di schiaffi e pugni. Che colpa avevano queste due piccole? Perché hanno dovuto pagare un prezzo così alto? Ora attendono un’adozione.

20 febbraio 1943 I dirigenti degli studi cinematografici statunitensi accettano di permettere all’Ufficio dell’informazione di guerra di censurare i film 1944 Seconda guerra mondiale: Gli Stati Uniti catturano l’Isola di Eniwetok 1952 La Grecia aderisce alla Nato 1958 Viene approvata la legge Merlin che sospende la regolamentazione delle case chiuse 1965 La Ranger 8 si schianta sulla Luna al termine di una missione volta a fotografare possibili punti di atterraggio per gli astronauti del Programma Apollo 1976 Si scioglie la Southeast Asia Treaty Organization 1986 L’Urss lancia il primo modulo della stazione spaziale Mir 1995 Dopo un lungo restauro, riapre l’Arena del Sole di Bologna 2002 È il cosiddetto giorno “palindromo”: la data, scritta come 20/02/2002 può essere letta sia da sinistra verso destra che all’inverso

100%animalisti

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

ROVINATO DALLE SUE INCHIESTE Mi chiamo Piero Angelini. Sono stato parlamentare della Dc dal 1983 al 1994. E dal 1989 al 1992 ho ricoperto l’incarico di sottosegretario all’Ambiente. Sono uno degli imputati eccellenti della procura di Lucca ai tempi del procuratore capo Quattrocchi, l’attuale capo della Procura di Firenze. Il procuratore Quattrocchi, a cominciare dal 1993 per finire nel 2007, mi ha inquisito, tramite i suoi sostituti, ben otto volte, con quattro processi celebrati a Lucca, quattro a Roma al Tribunale dei Ministri. Otto processi finiti tutti con la mia assoluzione. Di tutti questi processi ricordo, con angoscia, non solo l’infondatezza, ma anche l’approssimazione. Cito, tra i tanti, l’esempio di un processo celebrato a Roma sulla base di un’accusa avallata a Lucca: come sottosegretario all’Ambiente avrei dato finanziamenti al fiume Serchio, sito nel mio collegio elettorale, chiaro esempio di abuso di ufficio. In realtà avevo firmato, insieme al ministro Ruffolo, il Piano previsto dalla legge 183/1989, che sulla base di criteri rigorosi dava finanziamenti a tutti i fiumi d’Italia, in particolare ai fiumi di rilievo nazionale, compreso il bacino del Serchio: dunque, un atto dovuto. Questi processi - ripeto, tutti manifestamente infondati - sono durati sedici anni. E hanno rovinato la vita a me e alla mia famiglia, sia dal punto di vista morale e politico, sia da quello economico.

APPUNTAMENTI FEBBRAIO 2009 VENERDÌ 26, ORE 11, ROMA PALAZZO FERRAJOLI Convocazione Consiglio Nazionale dei Circoli Liberal. SEGRETARIO

VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Piero Angelini

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Direttore da Washington Michael Novak

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Collaboratori

Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,

Roberto Mussapi, Francesco Napoli,

Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

QUOZIENTE FAMILIARE Quella del quoziente familiare è la battaglia ideale che l’Udc fa a livello nazionale. A differenza di quanto avviene oggi in Italia, dove la tassazione ha una base individuale, che - a parità di reddito - penalizza le famiglie monoreddito e quelle con figli a carico, il quoziente familiare comporta l’applicazione dell’imposta sul reddito all’insieme dei redditi dei membri della “famiglia fiscale”, composta dal contribuente, dal coniuge, dai suoi figli minorenni e dalle persone invalide conviventi. L’applicazione concreta del quoziente familiare, secondo il modello francese dove è già in vigore, passa attraverso le seguenti operazioni: 1) determinazione delle quote che spettano a ciascun contribuente: lo sposato, il celibe o divorziato ed il vedovo (per ogni tipologia di contribuente occorre poi considerare le persone che sono a suo carico); 2) divisione del reddito complessivo per il numero di quote; 3) calcolo dell’imposta dovuta sul quoziente familiare; 4) moltiplicazione dell’imposta dovuta per ogni quota per il numero delle quote stesse. Il risultato corrisponde all’imposta lorda dovuta. Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

Mario Arpino, Bruno Babando,

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

John R. Bolton, Mauro Canali,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

Franco Cardini, Carlo G. Cereti,

Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Cartolina da Vancouver. Presente alle Olimpiadi dal 1924, la disciplina oramai è tra le più popolari

Nel mondo, tutti pazzi per di Alessandro Boschi l fatto che a Cindy Crawford il curling non interessi non fa altro che rinforzare la nostra opinione: il curling è una cosa seria. Presente alle Olimpiadi di Vancouver in quanto pagatissima madrina di uno degli sponsor, la ex modella ormai quarantaquattrenne (sigh!) ha ammesso sì di subire il fascino della manifestazione, ma al tempo stesso di non subire quello di uno sport che fa uso della scopa. Certo, come massaia è difficile immaginarla, ma forse da chi ha disinvoltamente interpretato un film come Fair game, in Italia Facile preda, sarebbe lecito aspettarsi una maggiore elasticità. Magari la stessa elasticità che sempre a Vancouver le ha consentito di fare coppia fissa (ma Cindy era col marito) con Alberto Tomba, formidabile sciatore degli anni che furono che condivide con la bellissima un tragico trascorso da attore. Immagino che solo i masochisti ricordino quel piccolo cult intitolato Alex l’ariete, sceneggiato da uno dei papà del “mondezza”Nico Giraldi alias Tomas Milian, l’ottimo Dardano Sacchetti, e diretto, non si sa per quale motivo, da una gloria del cinema italiano come Damiano Damiani.

resta la nostra disciplina olimpica preferita. Questo gioco ci ricorda un po’ l’asino cui Mark Twain fa riferimento nel suo libro intitolato Wilson lo svitato, a volte tradotto anche come Wilson lo Zuccone: «Prendete l’asino (…): ha un carattere perfetto e fra tutti gli animali più umili ha l’animo più nobile; eppure guardate come l’ha ridotto il ridicolo. Invece di sentirci onorati quando ci danno dell’asino, restiamo perplessi». Così il curling, che la sua dignità se la deve guadagnare e difendere ogni giorno. Mettevi voi nei panni dei giocatori che effettuano lo scopamento, quell’operazione cui accennavamo prima che consiste nello spazzolare il ghiaccio davanti allo stone (la boccia col manico che pesa venti chilogrammi) per indirizzare lo stesso verso il punto indicato dallo stratega della squadra. Ve le immaginate le battute vero?

I

Ora, soddisfatte le nostre pruderie cinefile che comunque non vi risparmieranno un altro pezzo interamente dedicato al cinema e a Vancouver in quanto Hollywood del Nord, torniamo al vero argomento del giorno: il curling. In maniera poco professionale lo abbiamo paragonato nei giorni scorsi ad un gioco che assomiglia alle bocce, solo con il manico, che consiste nel lanciare sul ghiaccio delle pietre (pietre rigorosamente scozzesi) intorno alle quali degli assatanati fanno pulizia con una piccola scopa. In realtà le cose più o meno stanno così, ma questo non rende giustizia ad uno sport che esiste da più di cinque secoli. Diffuso specialmente in Scandinavia, Gran Bretagna, Canada e Stati Uniti, il curling viene giocato da due squadre di quattro elementi che si affrontano su di un campo ghiacciato chiamato rink, lungo 44,5 metri per 4,75. Alle due estremità del campo sono disegnati due bersagli, detti house in originale e, guarda un po’, case in italiano, che rappresentano l’obiettivo del lancio. Questo è un altro particolare che ci ricorda il gioco delle bocce. Infatti, anche lì i campi hanno in fondo una tavola per tutta la larghezza del campo che sostituisce il pallino quando questo, magari a causa di una bocciata violenta, viene scagliato fuori dal terreno di gioco. Addirittura in certe regioni, non chiedeteci perché, viene infisso un chiodo (chiamato bulletta) proprio al centro

Ci sarà da divertirsi a Vancouver, perché la crema del curling si è data appuntamento per stabilire a chi spetta il primato di una disciplina che è presente alle Olimpiadi dalla edizione del 1924 a Chamoniz-MontBlanc. Intanto si registrano le prima sorprese, con la Svezia, che peraltro è anche il team più giovane, che ha battuto i campioni in carica dell’Inghilterra. Dopo una combattutissima partita i padroni di casa hanno sconfitto i norvegesi per 7 a 6 e successivamente i tedeschi hanno superato piuttosto

il CURLING nettamente gli americani. Nemmeno nella categoria femminile sta andando benissimo per gli Stati Uniti. Il Giappone ha infatti avuto la meglio sulla compagine a stelle e strisce per 9 a 7. Aggiungiamo un particolare importante: esiste anche il curling in carrozzina. Si tratta di una disciplina che è già presente alle Olimpiadi. In inglese è nota come wheelchair curling, e rappresenta la variante dello stesso gioco che può però essere praticato da persone che non hanno l’uso degli arti inferiori. Giustamente, la federazione è la World Curling Federation, la stessa che regola l’attività del curling praticato dai normodotati. Curling, più lo conosci e più ti è simpatico.

Dopo una combattutissima partita, i padroni di casa hanno sconfitto i norvegesi per 7 a 6 e subito dopo i tedeschi hanno superato gli americani. Nemmeno nella categoria femminile sta andando bene per gli Usa: il Giappone li ha sconfitti per 9 a 7 della tavola che diventa il punto esatto cui avvicinarsi con il tiro. Qui, al contrario del calcio, non esiste per il povero pallino la scappatoia della rimessa in gioco. È anche vero che i regolamenti variano molto da zona a zona e la Federazione Italiana Bocce insieme ad altre federazioni ha tentato di realizzare un unico regolamento per portare questa disciplina alle Olimpiadi, ma l’impresa si è rivelata impossibile.

Questo secondo noi è piuttosto curioso, dal momento che il gioco delle bocce esiste da un bel po’ di anni prima del curling, che ovviamente alle Olimpiadi c’è. Si ha infatti notizia del gioco delle bocce a partire dal 7000 a.C. Settemila, non settecento. Ciononostante il curling


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