Le decisioni impetuose in un
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primo momento riempiono di entusiasmo, ma poi sono difficili a seguirsi e disastrose nei risultati
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Tito Livio di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 23 FEBBRAIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
I due uomini d’affari elvetici, protagonisti della contesa, sono stati consegnati dopo 19 mesi alle autorità libiche
L’Europa si piega a Gheddafi Il Colonnello, nella “guerra dei visti”, prende d’assedio l’ambasciata svizzera a Tripoli. Ma i ministri degli esteri Ue, riuniti a Bruxelles, non battono ciglio. Per l’ennesima volta di Vincenzo F. Pintozzi
Un dialogo sul tema più caldo dell’agenda politica
A volerlo aspettare, il battito che una persona normale si potrebbe attendere dall’Ue rischia di non arrivare mai. E fa male dire che, almeno in questo caso, dietro l’inattività dei 27 c’è con ogni probabilità la pressione di Roma. Che non vuole far irritare Tripoli e il suo dittatore, quel Gheddafi che continua a fare quello che vuole del diritto internazionale. Il caso è noto e vecchio: la crisi fra la Libia e la Svizzera, culminato ieri con un assedio di stile medievale, inizia con l’arresto del giovane Hannibal in suolo elvetico. Accusato di aver picchiato a sangue due domestici, il pargolo di casa Gheddafi viene trattenuto e rimandato a casa soltanto dopo il pagamento di una cauzione.
di Osvaldo Baldacci
di Alexandre del Valle
ncrociamo le dita e tutto finirà bene, ma gli svizzeri sono birbanti che non ci hanno consultati prima di fare dispetti ai nostri amici libici. Sembra questo l’atteggiamento del governo italiano di fronte alla crisi internazionale tra Libia e Svizzera. Frattini si è molto agitato da quando è iniziata la crisi dei visti, ma non si può dire che abbia ottenuto i risultati che si potrebbe aspettare il prestigio dell’Italia.
ll’apparenza l’attuale crisi tra la Ue e la Libia nasce dalla pubblicazione di una lista di 188 cittadini libici banditi dalla federazione elvetica, tra cui Moammar Gheddafi, i suoi familiari, i parlamentari e i funzionari dell’apparato di Stato. In risposta, la Guida della “Jamahiriyya araba socialista libica”ha deciso di sospendere il rilascio dei visti di ingresso ai cittadini Ue (tranne la Gran Bretagna), nonostante il Trattato con l’Italia.
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L’ITALIA IN PRIMA FILA
STORIA DEL TRADIMENTO OCCIDENTALE
Lo zelo filo-libico del ministro Frattini
Tra la verde Svizzera e il tiranno verde
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Intercettazioni: «Così la riforma non funziona» Nordio e Pisapia, magistrato e avvocato di diversa formazione, bocciano il progetto del governo. E Fini dice: «Dopo il voto riforme condivise»
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Nordio e Pisapia a pagina 8 • servizi a pagina 6
Un ritratto “anticipatore” delle inchieste di oggi
Distrutte due chiese cristiane dagli indù
Il politologo contro la difesa di un terrorista
L’Italia cialtrona
Gesù, birra e sigaretta: in India nuove violenze
Lo scandalo di Amnesty «Io non mi fido più»
Perché “Il figlio più piccolo”di Pupi Avati dovrebbe essere proiettato in Parlamento, nelle scuole e nella Pubblica Amministrazione
di Gabriella Mecucci
di Christopher Hitchens
iolenze contro i cristiani nel Punjab: due chiese protestanti sono state distrutte. Gli scontri sono scoppiati perché è apparso, prima sulle pagine di un libro e poi su altri media, un’immagine di Gesù raffigurato con in mano birra e sigaretta. I cristiani si erano rivolti al governo dello Stato, che aveva deciso la cancellazione dell’immagine, provocando la violenta protesta degli integralisti indù.
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L’immagine blasfema di Gesù che ha provocato violenti scontri nel Punjab, nel sudovest indiano
i tratta di una vecchia storia, ma vale la pena raccontarla di nuovo. Un giorno - siamo alla fine degli anni Sessanta - un avvocato di nome Peter Benenson - stava leggendo il giornale durante il suo consueto tragitto nella metropolitana londinese. Lo sguardo gli cadde su un piccolo articolo che parlava di due studenti del Portogallo, all’epoca sotto il pugno della dittatura fascista.
i può vederla anche così: bombardati da un’informazione triste, siamo ormai abituati a un’Italia melmosa e maleodorante e quindi ci ritroviamo emozionalmente vaccinati dinanzi a un film che ci sbatte addosso il volto dell’Italia corrotta, trafficona, cinica. Un film che dovrebbe essere proiettato in Parlamento (ma anche nelle scuole), che ci descrive un Paese incorniciato dentro il rettangolo del cattivo gusto. Eppure le sale sono sempre piene, tutti andiamo a vedere l’ultimo lavoro di Pupi Avati, Il figlio più piccolo. Siamo masochisti o abbiamo bisogno di quella catarsi superbamente inventata nei teatri greci e romani?
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Christopher Hitchens, giornalista, saggista, critico letterario e commentatore britannico, che vive e lavora negli Usa
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di Pier Mario Fasanotti
I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
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WWW.LIBERAL.IT
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Diplomazia. I due uomini d’affari elvetici sono stati consegnati dopo 19 mesi alle autorità libiche. Per uno si apre il carcere
In ginocchio da te
Gheddafi fa prendere d’assalto l’ambasciata svizzera a Tripoli, e i Ventisette non riescono neanche a condannare l’uso della forza di Vincenzo Faccioli Pintozzi volerlo sentire, il battito che una persona normale si potrebbe attendere dall’Unione europea rischia di non arrivare mai. E fa male dire che, almeno in questo caso, dietro l’inattività dei Ventisette c’è con ogni probabilità le pressioni di Roma. Che non vuole far irritare Tripoli e il suo dittatore, quel Muhammar Gheddafi che continua a fare quello che vuole del diritto internazionale. Il caso è noto e, a essere onesti, anche vecchiotto: la crisi fra la Libia e la Svizzera, culminato ieri con un assedio di stile medievale, inizia con l’arresto del giovane Hannibal in suolo elvetico. Accusato di aver picchiato a sangue due domestici, il pargolo di casa Gheddafi viene trattenuto e rimandato a casa soltanto dopo il pagamento di una ingente cauzione. Toccato nell’orgoglio, il padre-padrone libico inizia una serie di ritorsioni contro la Svizzera che culmina con la decisione, resa pubblica la scorsa settimana, di negare l’ingresso dei cittadini dei Paesi membri dello spazio Schengen in ritorsione per una decisione analoga presa dalle autorità svizzere nei confronti di 186 personalità del regime libico, fra cui lo stesso Gheddafi.
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Nel frattempo, però, Tripoli ha arrestato due uomini di nazionalità svizzera: Rachid Hamdani e Max Goeldi si erano rifugiati nel-
l’ambasciata elvetica 18 mesi fa dopo un processo farsa, in cui il primo è stato addirittura riconosciuto innocente ma comunque ricercato. Mentre, per il secondo, era stata spiccata una condanna a quattro mesi di carcere per una non meglio precisata violazione delle leggi sull’immigrazione. Ebbene ieri, forse stanca della lunga attesa, la polizia libica ha circondato l’ambasciata svizzera di Tri-
Il nostro ministro più realista del re: «La Svizzera doveva consultarci prima della lista»
Lo zelo di Frattini di Osvaldo Baldacci ncrociamo le dita e tutto finirà bene, ma gli svizzeri sono birbanti che non ci hanno consultati prima di fare dispetti ai nostri amici libici. Sembra questo l’atteggiamento del governo italiano di fronte alla crisi internazionale tra Libia e Svizzera. Frattini si è molto agitato da quando è iniziata la crisi dei visti, ma non si può dire che abbia ottenuto i risultati che si potrebbe aspettare il prestigio dell’Italia. Prima la critica alla Svizzera (se anche ce ne fosse stato motivo andava fatta in privato per ottenere qualcosa), poi il vertice con Malta e Libia giusto per far capire alla Ue da che parte stiamo, ieri le parole che chiedevano un passo indietro di Berna e Tripoli, con la sorprendente richiesta testuale: «Spero che si possa raggiungere un accordo, nel senso che i due cittadini svizzeri detenuti possano essere immediatamente rilasciati, almeno quello dei due che non è stato trovato colpevole».
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Cosa? Tanti ringraziamenti a Gheddafi per aver rilasciato un uomo che gli stessi giudici hanno riconosciuto innocente? C’è da essere grati! E intanto l’altro lasciato praticamente in ostaggio, col rischio di un nuovo piccolo caso tipo quello delle infermiere bulgare (ricordate?), e ieri il “dispiacere” per non essere stati consultati dalla Svizzera. In mezzo, l’altra sera una telefonata di Berlusconi a Gheddafi, cui si attribuisce il merito di aver sbloccato la situazione. Sarà anche vero, ma ci si dimentica di citare il fatto che poi ieri mattina i poliziotti libici hanno circondato l’ambasciata svizzera lanciando un ultimatum. Non proprio una galanteria diplomatica. «Ci permettiamo di continuare a pensare che dal punto di vista della credibilità democratica e dei diritti la Svizzera sia un po’ più affidabile della Libia», ha commentato qualche giorno fa il presidente dell’Udc Buttiglione. Va bene il dialogo, vanno bene gli affari, va bene l’indispensabile attenzione ai fornitori di energia, va bene un atteggiamento collaborativo verso chi controlla tra le altre cose gran parte dei flussi dell’immigrazione clandestina. Ma il passaggio al cedimento al ricatto è piuttosto sottile. Se l’Italia poteva dare un contributo a risolvere la que-
stione, magari con una mediazione, doveva farlo con un profilo più alto e con trattative più riservate.
Lo schierarsi così marcatamente a fianco di Gheddafi non ha certo contribuito né a rasserenare il clima né a dare del nostro governo un’immagine seria e credibile. I cittadini italiani per ora continuano a subire come tutti quelli europei l’umiliazione di essere respinti alla frontiera libica. E questo in cambio di che? Vanno bene il petrolio e il gas, vanno bene gli appalti, ma ricordiamo pure che li abbiamo pagati a carissimo prezzo, i miliardi promessi alla Libia come risarcimento dei danni del colonialismo. E forse qualcuno spera anche che, con le buone o anche con le cattive, la Libia impedisca ai migranti di partire dalle sue coste. Ma ci si dimentica che quella massa di disperati continua ad essere un’arma di pressione, e forse di ricatto, nelle mani di Gheddafi. Pronto a risospingerli in mare ogni volta che deve alzare la voce. Perché il problema non è stato risolto: il nostro governo infatti teme di sollevare con la Libia qualsiasi questione spinosa. Come quella della firma del trattato di protezione dei rifugiati internazionali. Se Tripoli firmasse, allora sì che la questione migrazione avrebbe uno sbocco: si potrebbe gestire i migranti in Libia con tutte le tutele, senza arrembaggio alle coste italiane. Ci sarebbero regole e tutele per affrontare il problema. Così invece l’Italia si limita a tenere gli occhi chiusi finché il colonnello tiene chiuse le porte. E poi tocca tacere durante le visite faraoniche con ritardi da record, e davanti agli abusi nei rapporti internazionali. Non una bella figura per l’Italia.
poli dopo avere dato un ultimatum allo Stato elvetico per la consegna due uomini che si erano rifugiati nell’edificio. Hamdani ha lasciato la Libia su un’auto diretta in Tunisia, mentre Goeldi si è consegnato alle autorità. Il ministro degli Esteri libico Moussa Koussa, tra l’altro, ha convocato due giorni fa gli ambasciatori dell’Unione europea per consegnare loro l’ultimatum. Koussa ha detto che la Svizzera, dando rifugio a Goeldi, ha violato le convenzioni internazionali sull’immunità diplomatica: «I provvedimenti saranno presi nel caso che l’ambasciata non faccia quanto richiesto», si legge sull’agenzia. Nessun dettaglio, però, è stato fornito sul tipo di «provvedimenti» che le autorità libiche avrebbero in mente di prendere.
Due giorni fa, proprio sulle tensioni fra i due Paesi, c’è stata anche una conversazione telefonica fra il premier italiano, Silvio Berlusconi, e il leader libico: secondo l’agenzia Jana, «la telefonata rientra nel quadro del continuo coordinamento e delle consultazioni su temi che riguardano questioni regionali e internazionali di comune interesse»; secondo Oea online, Berlusconi «ha fatto sforzi persistenti con il colonnello nel tentativo di contenere la crisi» dei visti. Meno disponibile al confronto il presidente della Confederazione svizzera Doris Leuthard, che in un’intervista al quotidiano spagnolo El Mundo ha affermato: «Solo la Libia è responsabile di questa situazione e delle sue conseguenze». Leuthard, da ieri in visita ufficiale a Madrid, ha detto di sperare che «la mediazione avviata a nome dell’Ue la settimana scorsa fra Berna e Tripoli dal capo della diplomazia spagnola Miguel Angel Moratinos, il cui Paese ha la presidenza di turno dei 27, sarà utile per dare una soluzione al problema» Leuthard ha aggiunto che «in questo sistema tutti gli Stati sono solidali: se la Spagna si trovasse in una situazione simile, avrebbe il nostro appoggio». Non la pensa allo stesso mo-
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Il governo italiano coccola Tripoli e dimentica le vittime
«Caro Berlusconi, perché svendi la nostra dignità?» Parla Giovanna Ortu, che guida l’Associazione rimpatriati dalla Libia: «L’Italia cede troppo» di Aldo Bacci
ROMA. «Non è cambiato nulla negli ultimi decenni, semmai la situazione è peggiorata». Commentando l’affaire internazionale intorno alla Libia sorride amaramente Giovanna Ortu, presidentessa dell’Associazione italiana rimpatriati dalla Libia, che conta ancora duemila capifamiglia iscritti: «L’Italia continua ad avere una politica di cedimento senza capire che non porta da nessuna parte». Cosa pensa della vicenda dei visti d’ingresso in Libia e del contenzioso con la Svizzera? Non so se in termini di diritto internazionale la Svizzera poteva fare una lista nera senza consultare gli altri Paesi coinvolti nell’area Schengen. Però è ridicola questa accondiscendenza verso Gheddafi. Non credo che avrebbe reagito così se gli svizzeri avessero accusato un libico qualsiasi invece che suo figlio. E poi la Libia ha proprio un atteggiamento di volontà di dare fastidio, è ineliminabile. E noi ogni volta sembriamo meravigliarci, e crediamo che cedendo saremo trattati meglio. Invece svendiamo la dignità incoraggiando a fare peggio. Anche questa cosa di accettare che i libici decidano alla frontiera chi entra e chi no, io non lo capisco. Come finirà? Libereranno lo svizzero incarcerato quando Berna annullerà la sua lista nera e magari inviterà Gheddafi in Svizzera. E l’atteggiamento filo-libico del governo italiano? È sempre il solito. De Michelis andò a Tripoli a festeggiare i 20 anni della Rivoluzione, e fu trattato a pesci in faccia. Ricordate i missili su Lampedusa e tutto il resto? C’è da rimpiangere la politica di Andreotti, che almeno con la sua personalità riusciva a tener buono Gheddafi, aveva il coraggio di dirgli che i risarcimenti erano stati già pagati con il trattato del 1956, e comunque a procrastinare ogni volta il problema. Adesso abbiamo regalato delle navi militari, ma lo avevamo fatto anche nel passato. E poi abbiamo restituito la Venere di Cirene.Tra l’altro io avevo detto che sarebbe stato meglio per tutti trovare nei nostri depositi i reperti per allestire in Libia un intero museo anche di arte più recente. Sarebbe stato più utile e più prestigioso sia per l’Italia che per la Libia. Ma subentrano sempre questioni di puntiglio.
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Invece questo governo ha firmato uno “storico” accordo e promesso un risarcimento. E questa resa non è servita a niente. Si sarebbe dovuto almeno ottenere dalla Libia che almeno da quel momento in poi avrebbe smesso con le provocazioni. Macché. Non solo questa crisi, ricordate la visita a Roma, le sceneggiate, la foto sul petto? Non so fino a che punto si potrà scivolare in questi inutili cedimenti. E per quanto riguarda i rimpatriati dalla Libia? Ignorati dal governo. Berlusconi non ci ha mai ricevuto, non ha mai risposto alle nostre lettere, nemmeno al telegramma di auguri quando fu colpito. Nel trattato con la Libia eravamo assenti. Siamo visti come un fastidioso ostacolo di fronte a questo nuovo idillio tra Italia e Libia. Il nostro atteggiamento responsabile non paga, anche la nostra disponibilità a rinunciare a molta sostanza dei risarcimenti in cambio della restituzione dell’onore. Grazie all’impegno di Fini, Casini, Buttiglione e Adornato il Parlamento ci ha sostenuto e nella legge 7 del 2009 è stato inserito un riconoscimento per noi, con un indennizzo praticamente simbolico: la metà del valore nominale al 1970. Ma almeno sarebbe stato un riconoscimento morale, un modo per chiudere con dignità la nostra vicenda. Invece la solidarietà del Parlamento si è scontrata l’inerzia del governo quando si è trattato di arrivare alle disposizioni attuative. Per ora è stato solo trasmesso al Parlamento un provvedimento con delle percentuali di risarcimento talmente inferiori a quanto stabilito da poter essere considerate un insulto. E ancora non se ne è fatto niente. I suoi rapporti con la Libia? Ottimi. Con i libici prima di tutto. Furono i libici a salvarci la vita nel 1970, e manteniamo amicizie. Ma anche con le istituzioni libiche, nonostante il contenzioso. Noi siamo animati da spirito collaborativo per trovare una soluzione. Sono stata in Libia e sono stata accolta benissimo. Da pochi mesi i rimpatriati hanno ottenuto l’autorizzazione ad avere il visto per la Libia, dopo decenni di divieti. Abbiamo anche realizzato delle iniziative comuni, come il restauro del cimitero di Tripoli.
Siamo visti come un fastidioso ostacolo di fronte a questo nuovo idillio tra Italia e Libia. Il nostro atteggiamento non paga, anche se abbiamo ceduto tanto
Il presidente della Confederazione Doris Leuthard afferma: «Solo la Libia è responsabile di questa situazione. Speravamo in più appoggio da parte dell’Ue» do il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, che ieri ha dichiarato di «esserci rimasto male» dal mancato preavviso da parte di Berna della preparazione della lista nera di indesiderabili. Insomma, una volta di più il nostro Paese, pur non schierandosi con foga, ha scelto il lato libico della situazione. E la realpolitik petrolifera ha imposto ancora una volta all’Unione europea un atteggiamento sinceramente poco edificante: chinare la testa, o quanto meno non esercitare le pressioni economiche che potrebbe sfoderare contro i regimi.
Arrivando addirittura a dei picchi che potrebbero sembrare imbarazzanti. Il nostro ministro, infatti, si è dimostrato più realista del Re dichiarando che Berna avrebbe dovuto «alzare il livello della consultazione politica», soprattutto dopo la lettera invitata dal ministro degli esteri Franco Frattini al collega svizzero Micheline Calmy Rey “per pregarlo” di non stilare una lista nera con i nomi di 186 autorita’ libiche, tra le
quali Gheddafi. «E se malgrado questo non ci si sente in dovere di alzare il livello della consultazione politica - ha commentato Frattini al termine della riunione dei ministri degli esteri di Bruxelles beh, io sono rimasto molto male».
In merito alla crisi tra la Libia e la Svizzera che ha portato alla sospensione dei visti, il ministro aveva precedentemente spiegato che «il punto è quello dell’informazione e della consultazione preventiva. Se sei in un club di 26 Paesi, non puoi fare una lista con 186 nomi di un Paese terzo senza avvisare gli altri Paesi che ne subiranno le conseguenze». E per quanto sul piano teorico gli si potrebbe anche dare ragione, rimane il fatto che questa Unione sembra sempre di più un circolo monetario ed economico, ben lontano dagli ideali che avrebbero potuto in ben altro modo muovere il Vecchio Continente. La speranza è che gli errori di oggi non ci vengano ripresentati, domani, tutti insieme: il conto potrebbe essere sinceramente troppo pesante.
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L’asse preferenziale con Tripoli indebolisce il nostro Paese e l’Unione europea. Invece rafforza i regimi totalitari islamici
Storia di un tradimento
Come è stato possibile che i Paesi europei, con l’Italia in testa, abbiano finito per negare la solidarietà alla verde Svizzera e dar ragione al tiranno verde di Alexandre del Valle ll’apparenza l’attuale crisi tra l’Unione europea e la Libia nasce dalla pubblicazione, pochi giorni fa, di una lista di 188 cittadini libici banditi dalla federazione elvetica, tra cui Moammar Gheddafi, i suoi familiari, i parlamentari e i funzionari dell’apparato di Stato. In risposta, la Guida della “Jamahiriyya araba socialista libica” Gheddafi ha deciso di sospendere il rilascio dei visti di ingresso ai cittadini di tutti gli Stati dell’Unione Europea,
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tranne la Gran Bretagna, che non fa parte di Schengen, inclusi gli Italiani, benchè l’Italia abbia concluso il 30 agosto 2008, un Trattato di Amicizia e Cooperazione che mirava non solamente a rafforzare il partenariato (lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, all’immigrazione clandestina, alla cooperazione energetica e militare, ecc), ma poneva fine al «contenzioso sul passato coloniale italiano in Tripolitania e Cirenaica». La terza parte del Trattato stipulava che l’Italia si dovesse impegnare a realizzare infrastrutture in Libia per un valore di 5 miliardi di dollari, tramite esborso di 250 milioni di dollari all’anno per 20 anni. Una misura che non fu nè apprezzata nè capita da molti italiani. Ma per salvare un accordo considerato importantissimo per l’economia italiana e per meglio gestire i flussi migratori in arrivo dalle coste libiche, alcuni politici italiani cercano adesso di giustificare, con delle scuse, il comportamento della Libia accusando la Confederazione elvetica di essere il primo responsabile della crisi.
Al riguardo, il ministro degli Esteri Franco Frattini ha dichiarato che «la scelta della Svizzera prende in ostaggio tutti i Paesi dell’area di Schengen». E credendo di fare una proposta che potrebbe calmare la “rabbia” della Libia gheddafiana totalitaria, Frattini propone come soluzione: «l’emissione di un visto che valga per tutto il territorio europeo Schengen, salvo che per la Svizzera». Prova dell’assenza totale di solidarietà tra i paesi europei. Non la prima volta che l’Europa o l’Italia non sono solidali con un paese europeo alleato di fronte alle “rappresaglie” della Jamahiriyya. L’ultima volta fu proprio in occasione della vera origine della crisi, quando nel luglio del 2008 venne arrestato il figlio
di Gheddafi, Hannibal, accusato dalla giustizia svizzera di aver maltrattato due dipendenti di un albergo di Ginevra. Al fermo (qualche ora) del figlio della Guida libica e della moglie, la Libia rispose con il processo a due uomini d’affari svizzeri accusati di «violazioni del permesso di soggiorno» e di «attività illegali», da quel momento costretti a rimanere in Libia. E davanti al rifiuto iniziale del presidente della Confederazione svizzera Hans-Rudolph Mertz di scusarsi, quando Gheddafi padre chiese di «smembrare» la Svizzera in occasione del vertice del G8 nel luglio 2009 a L’Aquila, o quando il figlio Hannibal paventò «l’atomizzazione della Svizzera», dopo avere brandito la minaccia di chiusura delle fonti di energia e di ritiro dei beni finanziari libici dalle banche elvetiche, l’Italia e il resto dell’Europa non dimostrarono
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A me sembra che per salvaguardare un accordo, alcuni politici cerchino di giustificare la Libia. Che errore!
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nessuna solidarietà con la Svizzera. Non solo non osarono minacciare la Libia di rappresaglie diplomatiche, ma il governo italiano propose alla Libia di investire nelle banche italiane il denaro che voleva ritirare dalla banche svizzere!. Abbandonato dai suoi partner occidentali e europei, Hans-Rudolph Mertz fece il suo pellegrinaggio a Canossa, ovveroTripoli, scusandosi pubblicamente per un errore che non aveva mai commesso, cioè per per quanto accaduto a Hannibal Gheddafi, il quale era stato rilasciato invece di essere condannato. Malgrado queste scuse, la Libia ha continuato a minacciare la Svizzera e i suoi cittadini trattenuti in Libia. La lezione di questo è che le scuse svizzere e la divisione europea hanno aumentato la “rabbia” libica invece di “calmarla”. Da li nasce la volontà legittima della Svizzera di bandire i visti alla nomenclatura libica solidale con le provocazioni e minacce di Gheddafi padre e figlio.
Alcuni dicono che il governo italiano di centro-destra può difficilmente schierarsi contro Gheddafi dopo aver concluso un accordo (oltretutto recentemente) di riconciliazione con la Libia. E ovvio che la diplomazia non va gestita in modo manicheo come dicono i “moralisti” della Sinistra italiana, che stanno strumentalizzando la vicenda libica per bassi motivi elettorali. E che le accuse di un compromesso con la dittatura libica lanciate contro il Centrodestra sia dalla Sinistra che dall’Italia dei Valori fanno ridere, se ricordiamo che questi buonisti filoislamici si schierano d’abitudine dal lato delle dittature arabo-islamiche anti-occidentali. Alcuni vogliono anche “dialogare” con Stati e partiti terroristi come l’Iran, Hamas o Hezbollah.
A parer mio, il centro-destra, non dovrebbe lasciare lo spazio delle analisi sane (anche se finte) alla sinistra pro-islamica anti-occidentale. Questo “ribaltamento” dei ruoli non serve certo alla maggioranza e rischia di far credere che sia la Sinistra a difendere l’Occidente democratico e la Destra a tradirlo. Rischia di far dimenticare le numerosi frasi e azioni coraggiose di Berlusconi, di Tremonti o di Maroni, riguardo la difesa delle democrazie occidentali: Israele, la civiltà giudaico-cristiana o la lotta al terrorismo internazionale. Pero invece di “temere”le reazioni di una Libia sempre più permalosa, o di temere di “dare ragione all’avversario”, il centro destra dovrebbe capire che non deve mai dare ai suoi elettori l’impressione che l’interesse partitico o privato superi il bene comune, l’orgoglio nazionale e il bisogno di identità. Dovrebbe capire, come ha spesso detto Nicolas Sarkozy in Francia, anche lui artefice di un accordo controverso con la Libia necessario (a parer suo) a controllare i flussi migratori, che «con gli amici si parla francamente» e che «con quelli che amano i rapporti di forza, la debolezza non paga», anzi. «Non avere paura»: La famosa frase di Papa Wojtyla è più che mai attuale. Bisogna ricordare, infatti, che la Libia ha da perdere molto più dell’Italia e dell’Europa. Dopo anni di embar-
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A sinistra, un immigrato clandestino viene fermato sulle coste libiche dalla polizia locale, messa spesso sotto accusa per i suoi metodi repressivi. Sotto il presidente della Confederazione svizzera HansRudolph Mertz costretto dal silenzio degli europei - a recarsi a Tripoli dopo l’arresto di Hannibal Gheddafi. A sinistra, Gheddafi
go internazionale dovuto al coinvolgimento libico nel terrorismo internazionale, è stata la Libia a beneficiare maggiormente degli accordi firmati nel 2006 con gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Francia e l’Italia. Sarebbe un merito elettoralmente produttivo del centro destra parlare come il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione: «Non è accettabile che la Libia impedisca pregiudizialmente l’accesso ai cittadini dei paesi europei, dai quali, e specie dall’Italia, pretende però di essere considerata partner privilegiato e di ricevere risarcimenti e trattamenti di favore. (...) Fa bene l’Italia a sollevare il caso a Bruxelles, ma ci auguriamo che più che a verificare il comportamento svizzero serva a verificare il comportamento libico. Ci permettiamo di continuare a pensare che, nonostante i “grandi progressi” ottenuti grazie ai rapporti Berlusconi-Gheddafi (quali?) dal punto di vista della credibilità democratica e dei diritti la Svizzera sia un po’ più affidabile della Libia».
È così, e l’Italia deve osare dire alla Libia di Gheddafi che gli accordi presi con Tripoli sono sottomessi al principio di reciprocità e di buona fede. Infine, si può anche capire perchè Silvio Berlusconi decise di chidere pubblicamente perdono in nome del popolo italiano per la colonizzazione della Libia quando firmò l’accordo italo-libico. Magari facciamo bene a pentirci se abbiamo sbagliato in passato. Però osservo due cose: primo che uno non si deve scusare eternamente con coloro che sono diventati ricchi grazie a un petrolio e un
gas scoperto e valorizzato dall’ex-colonizzatore. Secondo, ricordo sempre ciò che mi disse l’ex-presidente del Consiglio José Maria Aznar: «chiediamo perdono agli Arabi per averli mandati via dalla Spagna e per la colonizzazione, però in cambio, si scusino per averci colonizzato nel passato e smettano di invocare l’islamizzazione del’Europa». E a questo proposito Gheddafi non ha mai dato il cambio “all’amico” Berlusconi, e a differenza di molti dirigenti europei che chiedono scusa, lui non si colpevolizza mai.
Benchè si dichiari “anti-imperialista” e “anti-colonizzatore” o leader degli “Africani oppressi”, non si è mai pentito di essere
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vittime del terrorismo di Stato da lui concepito. Anzi, continua a negare i crimini. Gheddafi non nasconde mai l’odio che prova nei confronti dei Cristiani, degli Ebrei o dell’Occidente. Basta leggere le sue parole pronunciate a Timbuctu, il 10 aprile 2006, davanti alle telecamere di Al-Jazeera: «L’Europa e l’America dovranno accettare di diventare islamiche, o dichiarare la guerra ai musulmani (...). Ognuno deve diventare musulmano. (...) Ci sono 50 milioni di musulmani in Europa. Vi sono segni che Allah porterà il trionfo dell’Islam in Europa (...). I 50 milioni di musulmani trasformeranno l’Europa in un continente musulmano in pochi decenni. (...) E per questo fine, Allah mobilita la nazione
definitivamente chiuso, Gheddafi ha mentito. Per lui, l’accordo italo-libico non è un accordo di “pace” (Salam), ma una tregua (hudna), conclusa col nemico “infedele” che continua a odiare.
Invece di accusare la Svizzera di aver danneggiato i rapporti italo-libici e euro-libici, i dirigenti italiani dovrebbero studiare la tradizione islamica che stabilisce che i non-musulmani vanno trattati con disprezzo e combattuti fino a quando non saranno sottomessi e umiliati (sagirun) alla “Vera religione”, come prevede - senza ambiguità alcuna - il Corano (IX, 29). Pur collaborando con le polizie contro Al Qaeda per motivi di rivalità tra islamisti salafisti (Bin Laden) e rivoluzionari (Gheddafi), la Libia aderisce alla Tradizione islamica che vanta il trattato di Hudaibiyya, concluso tra Maometto e la Mecca nel 628 per 10 anni, ma che fu rotto dopo 18 mesi, quando il Profeta diventato ormai più forte decise di attaccare gli abitanti della città. Questa tattica della tregua fu imitata dai “Califfi ben Guidati” (Rachidun), successori di Maometto, nelle loro conquiste. Nell’epoca moderna, totalitari islamici come l’Ayatollah sciita
Con i dittatori islamici ogni dimostrazione di divisione, dubbio o debolezza, lungi dal «calmare la loro rabbia», aumenta al contrario la loro violenza sempre stato un colonizzatore in Africa e un irrendentista nell’Europa del Sud. Non ha mai chiesto scusa nè per aver rivendicato la Sicilia e Malta, nè per il suo sostegno al Sudan colpevole di un genocidio di 2 millioni di persone. Quando parla degli immigrati musulmani “perseguitati” in Europa, si tratta di una vera farsa, perchè Gheddafi non ha mai chiesto scusa per i migliaia di tunisini espulsi nel giro di una manciata di giorni dalla Libia negli anni Novanta, per le condizioni atroci con le quali sono trattati i neri in Libia, vittime di un razzismo (il nero è spesso chiamato schiavo: Aabd). Non ha mai chiesto scusa alla Francia, alla Gran Bretagna e all’America per le
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musulmana della Turchia. Questo aggiungerà altri 70 milioni di musulmani in Europa. Ci saranno fra poco 100 millioni di musulmani in Europa». E ancora: durante il vertice di Lisbona tra Unione Europea e Africa (89 dicembre 2007), invece di ringraziare gli Europei per essere ritornato nel gregge delle nazioni, il leader libico dichiarò che «gli Europei devono scegliere tra pagare le risorse rubate durante la colonizzazione in Africa o essere pronti ad accogliere gli immigrati africani a casa...». Questo si chiama, in parole povere, ricatto. O paghi o avrai problemi. La morale di questa storia è che quando fece credere all’Italia che il contenzioso fosse
Khomeini (un tempo rifugiato in Francia), il capo del Gama’à al-Islamiyya egiziano, AbdelRahman (che ottenne la Green Card) o il leader di Al Qaeda Osama bin Laden (che prima di dichiarare la guerra all’Occidente, face una Hudna con gli americani durante la guerra fredda e fino alla prima guerra in Iraq). Lo stesso leader palestinese Yasser Arafat firmò tante hudne, sempre rotte dopo.
Solo gli ingenui si possono stupire quando Gheddafi viola i trattati o quando il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad rompe l’ultimo accordo nell’ambito dei negoziati falliti sul nucleare con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica o i paesi occidentali del gruppo dei ”5+ 1” (Gran Bretagna, Francia Germania, Stati Uniti, Russia, Cina). O quando da anni, i movimenti palestinesi denunciano l’ultima tregua conclusa con gli israeliani. La conclusione è che con i dittatori islamici, cosi come con tutti i regimi totalitari, che io definisco “potenze predatrici”, ogni dimostrazione di divisione, dubbi o debolezza, lungi dal «calmare la loro rabbia», aumenta al contrario le loro pulsioni violente e la loro suscettibilità infinita. L’Europa deve capirlo se vuol fermare l’ingranaggio.
diario
pagina 6 • 23 febbraio 2010
Coscienza critica. «Ora c’è solo il carisma di Berlusconi», dice il deputato che prepara il decalogo liberale per l’ex leader di An
«Basta con il Pdl delle cicale»
Della Vedova: a furia di cullarci sugli allori saremo fagocitati dalla Lega ROMA. Prima ancora di calcolare le probabilità di vittoria Benedetto Della Vedova si preoccupa che almeno la partita si giochi. «È importante che ci sia un confronto di idee e anche una netta alternativa di opzioni, nel Pdl. Intanto perché non conviene cullarci troppo sul vantaggio acquisito rispetto agli avversari, e poi non possiamo dimenticare il nostro competitor interno, ossia la Lega». Non è un caso se la prima vera manifestazione di una prospettiva “finiana” in campo economico avrà come palcoscenico Milano, capitale del Nord e luogo dove venerdì e sabato prossimi si terrà la due giorni organizzata proprio da Della Vedova con la sua rete Libertiamo. Riforme di sistema declinate secondo la chiave dello sviluppo, strategie per scuotere una crescita altrimenti troppo lenta rispetto al resto d’Europa, ma soprattutto «proposte per ritrovare la funzione innovativa e riformatrice del ’94: o abbiamo la forza di disegnare una piattaforma diversa da quella leghista o l’assimilazione con il partito di Bossi sarà sempre a vantaggio di quest’ultimo». Diciamolo: il Pdl si è impigrito, tanto è convinto di non avere rivali. È la favola della cicala e della formica: è pericoloso cullarsi nella convinzione che il carisma elettorale di Berlusconi possa risparmiare al Pdl una sana competizione interna di idee e anche di alternativa nel solco del centrodestra. Cè appunto il rischio della cicala: finché c’è il sole si suona e si canta, ma bisognerebbe mettersi a fare un po’ le formiche, a prescindere dalla solidità dei nostri competitor ester-
di Errico Novi
cosa. Intanto si sono autoproclamati pretoriani. Ecco, ma il loro richiamo, più che alle promesse liberali del ’94, sembra rivolto alla struttura che aveva la Forza Italia degli inizi: carismatica e priva di apparati. I pretoriani insomma si inseriscono alla grande nell’unico dibattito che, in assenza di idee, spopola nel Pdl: quello tra diversi sistemi di potere. A cui io non partecipo, tanto per cominciare. Dopodiché non di-
L’appello alla condivisione di Gianfranco Fini
«Dopo il voto, le riforme e basta candidare corrotti» LUCCA. «Spero che, finita la consultazione elettorale di fine marzo, che è importantissima, si parta finalmente con un disegno di riforme della Costituzione, affrontando quei punti su cui c’è una larga condivisione». Lo ha detto ieri il presidente della Came-
«Va bene le geometrie ma servono anche le idee. Si torni al ’94 per ritrovare l’anima riformatrice, no al richiamo della foresta dei “pretoriani”» ni. Servono idee, proposte, confronti e discussioni. Si tratta di barattare il certo per l’incerto: il carisma di Berlusconi è un porto tranquillo e sicuro che consente di non mettersi mai in gioco. Non so se questo sia il punto di vista di Berlusconi. Io lavoro perché ci sia un confronto fecondo. Anche le cose più grandi hanno bisogno di essere sempre rivitalizzate. Lei vuole recuperare lo spirito del ’94. I cosiddetti pretoriani, i fedelissimi del premier, dicono la stessa
mentichiamo che il ’94 è stato anche l’anno di Fiuggi. All’iniziativa vincente e alla rottura vincente di Berlusconi fece eco la coraggiosa rottura di Fini: è così che si è strutturato il centrodestra italiano, con lo sguardo rivolto al futuro. Ecco, il mio richiamo del ’94 non è il richiamo della foresta, io vorrei che continuiamo a essere in marcia verso il futuro. Ora lo sguardo è concentrato solo sulle beghe interne. Non vengo dalla luna e so che il duello tra diversi sistemi di potere è inevitabile. Ma a preoccu-
ra Gianfranco Fini partecipando a Pietrasanta (Lucca) a un incontro del “Caffè della Versiliana” dedicato alla presentazione del suo libro Il futuro della libertà.
Secondo Fini è possibile utilizzare parte del 2010 e
gli anni 2011-2012 per realizzare le riforme istituzionali che maggioranza e opposizione possono condividere, come quelle che prevedono la nascita di un Senato federale e la riduzione del numero dei parlamentari. «Continuo ad essere ottimista, è arrivato il momento di fare le riforme», ha aggiunto Fini.
«Se domani il Parlamento approvasse col voto di tutti una leggina per cui chi è condannato con sentenza definitiva per reati contro la Pubblica Amministrazione per 5 anni non si può candidare - ha aggiunto il presidente della Camera la pubblica opinione direbbe “meno male”, reagirebbe positivamente, e le istituzioni politiche acquisterebbero un tassello di fiducia in più rispetto a oggi».
parmi sono alcune sbandate protezioniste, clericali, che vanno nella direzione opposta rispetto all’idea liberale.Vogliamo o no essere un partito inclusivo del 40 per cento? E allora basta pensare al country party evocato già da Andreatta a proposito della Dc, una forza in cui possono ritrovarsi tutti i moderati. Sia più chiaro: cos’è che non le piace del Pdl di oggi? Dio, patria e famiglia non può funzionare come slogan. Non può essere questo il nostro destino, non sarebbe vincente: sarebbe un respiro di chiusura, di paura, di insicurezza. Lasciamole alla Lega, queste cose, e guardiamo anche alle richieste reali che arrivano dalla società italiana per esempio in tema di famiglia, di coppie di fatto. Lei pensa davvero che temi laici come i suoi possano coesistere con l’anima cattolica del Pdl? Ne sono certo. I cattolici votano per tutti i partiti, magari in maggioranza per l’Udc, ma in tanti, e parlo di quelli che davvero frequentano la chiesa di domenica, sono con il Pdl, con la Lega e anche con il Pd dove l’impegno è riletto in chiave più solidaristica. Questo è un falso problema. Ne è sicuro? Facciamo l’esempio del divorzio: certo che nell’Udc molti possono percepirlo come un vulnus nella storia del diritto di famiglia, ma in quel partito nessuno pensa di rimettere in discussione la legge. Io comunque sono per i Pacs come per una fiscalità familiare basata sul meccanismo dei carichi. Ma Fini non ha esagerato nel distinguersi sui temi etici? Le sue posizioni sono apparse eclatanti perché negli ultimi anni il centrodestra ha vissuto di forti sbandate nella direzione opposta. Ma se pensiamo alla Francia o alla Germania, il problema non esiste. Torniamo ai “giochi di potere”che soffocano il dibattito delle idee: non crede sia impossibile uscirne, finché sopravvive il rapporto 70-30 tra azzurri e aennini? Credo che il formarsi di una leadership come quella di Fini possa contribuire anche a superare questo aspetto, perché il confronto sulla struttura interna può e deve stemperarsi in un discorso di fondo. Le leadership devono essere sostanziate anche dai contenuti, non solo dalle geometrie: confrontarsi è anzi l’unico modo per superarle.
diario
23 febbraio 2010 • pagina 7
Accordo con Telecom per fornire internet veloce sui treni dellaTav
Presentati a Padova i candidati ApI nelle liste dell’Udc
Trenitalia: addio a prima e seconda classe, nascono i livelli
De Poli e Calearo: un’Alleanza per il Veneto
ROMA. Celebrate da film e da
PADOVA. Massimo Calearo e Antonio De Poli lanciano “Alleanza Per il Veneto”. L’Alleanza per l’Italia di Francesco Rutelli, infatti, ha deciso di sostenere l’Udc per le prossime elezioni regionali come primo step di un percorso che porterà alla nascita di “Alleanza per il Veneto”, «un nuovo soggetto politico per i veneti, liberale e riformista, in grado di costruire iniziative concrete rispetto alle chiacchiere e alle liti della scena politica di oggi. Pmi, partite Iva e professionisti non dovranno più sentirsi soli». Con queste parole Massimo Calearo Ciman, coordinatore ApI per il Veneto, ha presentato i sei candi-
romanzi, le Ferrovie vogliono mandare in pensione la prima e la seconda classe sull’alta velocità. Entro la fine dell’anno i Freccia Rossa Ie sostituiranno con «quattro livelli di servizio», che altro non sono che quattro tipologie di offerta più profilate sulle necessità e sulle richieste della clientela. Ad anunciarlo è stato ieri l’amministratore delegato del gruppo, Mauro Moretti, nel corso della conferenza di presentazione dell’accordo con Telecom Italia per offrire la connessione a banda larga sui convogli Tav. Ma non si fermano qui i progetti del management dell’ex monopolista del trasporto di lunga percorrenza su ferro. Moretti infatti ha anche annunciato che dall’anno prossimo verranno presentati i nuovi allestimenti per i treni da riqualificare, così come sarà ultimato il progetto per i nuovi treni ad alta velocità in grado di raggiungere i 360 chilometri orari.
Intanto, entro l’anno, Telecom garantirà l’accesso a internet a banda larga e il Wi-Fi su tutti la rete ad alta velocità delle Ferrovie dello Stato. Moretti ha spiegato che dopo «una sperimentazione abbiamo valutato la soluzione di Telecom la più convincente e la più rapida da
Export, piccola scossa per il Made in Italy A gennaio crescita del 4,7 per cento rispetto a un anno fa di Francesco Pacifico
ROMA. Non sarà il segno della svolta tanto agognato, ma il made in Italy riesce a dare un importante segnale di vitalità dopo un anno a dir poco catastrofico. A gennaio 2010 le esportazioni verso i Paesi extra Ue sono aumentate rispetto allo stesso mese di un anno fa del 4,7 per cento. Le importazioni, invece, sono diminuite del 3,7 per cento. Accanto a questi dati vanno sottolineato due aspetti, per capire la sua importanza. Intanto perché è proprio dai mercati non comunitari, Cina in primis, che arriverà la ripresa, come dimostrano le performance di Taiwan e Thailandia. Paesi che tra il quarto e il terzo trimestre del 2009 hanno visto il loro Pil balzare rispettivamente del 9,2 e del 5,8 per cento grazie alle vendite verso Pechino. Eppoi la crescita dell’export crea ottimismo tra gli operatori. E dimostra che se si sa lavora e intercettare le nuove direttrici del business, allora si possono chiudere buoni affari. Ma per farlo le aziende devono investire di più sui macchinari e sulla formazione del personale. Fattori, si sa, che si dimostrano imprescindibili per l’assunzione di ulteriori lavoratori. E che sono importantissimi in un Paese come il nostro che in un anno ha bruciato in crescita quanto aveva costruito nei cinque anni precedenti. Adesso bisogna sperare che questo trend di aumento delle esportazioni si consolidi. Cosa che non è ancora avvenuta visto che le esportazioni hanno subito un lievissimo arresto tra gennaio 2010 e dicembre 2009 (-0,3 per cento), mentre le importazioni nello stesso periodo sono cresciute del 5,4 per cento. Ma è impossibile non registrare già i primi benefici portati innanzitutto dalla ripresa cinese. A gennaio 2010 il saldo commerciale con i Paesi extra Ue risulta pari a -3.195 milioni di euro, in miglioramento rispetto al deficit (3.988 milioni di euro) dello stesso mese del 2009. Se poi si esclude il comparto energetico, la bilancia commerciale con i paesi extra Ue presenta un surplus di 482 milioni di euro, a
fronte del deficit di 57 milioni che si è avuto nel mese di gennaio 2009. Guardando invece ai mercati si scopre che le migliori performance riguardano le esportazioni verso la Turchia (+50,6 per cento nelle transazioni) e verso la Cina (+38,9 per cento). Diminuiscono invece le esportazioni verso il Giappone (-10,1 per cento), la Russia (-10 per cento), le nazioni dell’area Opec (-4,8 per cento) e gli Stati Uniti (-1,9 per cento). Il made in Italy, infatti, si indebolisce in Paesi con i quali ha stretto importanti legami negli ultimi anni (è il caso della Russia) oppure ha consolidati legami di scambi (come l’area del dollaro). Guardando invece ai settori, si conferma la forte debolezza di tutti quegli ambiti che hanno come mercati di riferimenti economie mature come la nostra, quali Germania o Francia. Soffre soprattutto la meccanica di precisione, indipendentemente che faccia strumenti per lavorare i metalli, per la trasformazione alimentare o per la movimentazione. Infatti, sul versante delle esportazioni, si registrano incrementi tendenziali rilevanti per l’energia (+56,7 per cento) e i prodotti intermedi (+9,5). E se i beni di consumo non vanno oltre uno scarso +1 per cento, le vendite di beni strumentali diminuiscono invece dell’1,6 per cento. Sul versante delle importazioni perfetta cartina di tornasole della riconversione che attende la nostra industria sono la crescita degli acquisti di prodotti intermedi (+ 6,9 per cento) e quelli di consumo durevoli (+1). In calo la compravendita di beni strumentali (-16,3 per cento), beni di consumo non durevoli (-11,2) ed energia (-1,5).
Calano le importazioni del 3,7 per cento. Migliori performance verso Turchia e Cina, soffrono gli scambi verso Usa e Russia
realizzare. I nostri clienti potranno utilizzare in continuo terminali sia voce sia dati nonostante le difficoltà date dall’orografia e dall’enorme numero di gallerie». Dal canto suo l’Ad dell’ex incumbent Franco Bernabé si è detta «soddisfatto per l’intesa. Entro fine anno avremo la connettività internet totale su tutta la rete ad alta velocità con la distribuzione di Umts e Wi-Fi all’interno dei treni attraverso ripetitori del segnale captato dal treno all’esterno e distribuito all’interno. Ci saranno anche una serie di altri servizi erogati da un server interno al treno come contenuti multimediali, film on demand, notiziari, informazioni e giochi».
Soddisfatto il viceministro al Commercio estero, Adolfo Urso: «L’anno parte con un ottimo segnale, può essere quello della ripresa». Per poi aggiungere: «Ma attenzione la crisi globale non è affatto finita: ci possono essere ulteriori colpi di coda e comunque la crescita è ancora troppo debole per recuperare la riduzione del Pil e la contrazione dell’occupazione.
dati di “Alleanza per l’Italia” al Consiglio regionale che saranno inseriti nelle liste dell’Udc verso il progetto ”Alleanza per il Veneto”.
Alla presentazione, avvenuta ieri a Padova, era presente anche Antonio De Poli, candidato alla Presidenza della Regione, che ha confermato il progetto di dare vita a un soggetto politico unico tra Udc e ApI in Veneto a seguito delle elezioni regionali. «La novità - ha continuato Calearo - è che la proposta politica questa volta viene dal territorio. Abbiamo deciso di costruire la nostra alleanza qui in Veneto e solo dopo lo abbiamo riferito alle nostre segreterie romane. Un segno di serietà verso i veneti. Il nuovo soggetto politico sarà animato dal vecchio motto alpino «tasi e tira». Sta a significare che il nuovo partito non avrà personalismi, solo così si potrà creare un Veneto migliore. Saremo un’Alleanza che lotterà per qualcosa e non contro qualcuno». «Le nostre ambizioni - conclude Calearo - sono perfettamente rappresentate dalle sei personalita’ che l’ApI ha scelto come candidati al Consiglio regionale e che verranno inseriti nelle liste Udc».
politica
pagina 8 • 23 febbraio 2010
Giustizia. Due garantisti di opposta estrazione ideologica bocciano il tentativo di revisione voluto da Berlusconi
La riforma che non va Nordio e Pisapia: «Il progetto del governo sulle intercettazioni non risove il problema» di Carlo Nordio e Giuseppe Pisapia Pubblichiamo un estratto del capitolo dedicato alle intercettazioni del libro In attesa di giustizia, dialogo sulle riforme possibili, in cui Carlo Nordio e Giuliano Pisapia (stimolati dall’editore, Angelo Guerini) discutono sui progetti di riforma all’esame del Parlamento. Secondo l’Eurispes, in 10 anni, sono state intercettate in Italia circa 30 milioni di persone, per una spesa che va da oltre 250 a 300 milioni di euro l’anno. Spreco o necessità? Nordio: La realtà dolorosa è che le intercettazioni telefoniche e ambientali sono in picco-
Mi sembra di capire che lei non «apprezza», per usare un eufemismo, queste forme di indagine, o sbaglio? Nordio: Infatti non le apprezzo, o almeno non le vorrei nel fascicolo processuale. Riconosco, però, che le intercettazioni telefoniche e ambientali sono un male necessario. Necessarie alle indagini, sono tuttavia perniciose ai cittadini, perché violano l’art. 15 della Costituzione, che stabilisce che «la libertà e la segretezza di ogni forma di comunicazione sono inviolabili». Come male necessario, dovrebbero essere limitate ed ecinvece cezionali, GIULIANO PISAPIA con proliferano enormi costi econo«Sono state mici e organizzatispesso vi. Poi, al momento assolutamente opportuno (per indispensabili. qualcuno), vengono Il che non ciclicamente pubsignifica blicate con sapiente non cambiare e programmata pernulla, quando fidia. Ne sono rimala legge sti vittima tutti: poè calpestata. litici, religiosi, imMa è assurdo prenditori, magiimpedirle» strati, uomini di scienza, di spettacolo e, più genericala parte utili (e forse indispen- mente, personaggi famosi. E sabili), ma nel complesso sono domani chissà a chi toccherà. costose e dannose. Costose, Questi strumenti ambigui hanperché gravano per centinaia no ripetutamente mostrato i di milioni di euro sul bilancio propri limiti, o meglio i pericoli già striminzito della giustizia. connessi a un loro uso spregiuDannose, per il cittadino che dicato. La segretezza delle consubisce intrusioni moleste, e versazioni è l’altra faccia della per l’investigatore che si ap- nostra libertà. Se sapessimo di piattisce sulla loro facile esecu- essere sempre ascoltati, non dizione, rinunziando a strumenti remmo mai quello che realpiù complessi, ma anche più af- mente pensiamo, e soltanto la fidabili. La loro connotazione meschina ipocrisia dei moraliodiosa non deriva tanto dall’in- sti senza morale può predicare tromissione clandestina nella che chi non ha nulla da nasconsacralità della sfera individua- dere non ha nulla da temere. le, quanto dalla manipolazione No. Come il giusto pecca sette selettiva cui sono soggette. Chi volte al giorno, ognuno di noi dispone di questi dialoghi può pronuncia ogni giorno settanscegliere con una buona dose tasette frasi di cui dopo si pendi arbitrio se farli filtrare, in te: sortite infelici del nostro fraquale misura e con quale fre- gile intelletto, vulnerabile all’equenza, magari applicando la motività e ai capricci del caso. tignosa logica di Richelieu: da- Frasi da relegare nella spazzatemi una lettera con un paio di tura della nostra stessa coforbici, e ne farò impiccare scienza, che opportunamente l’autore.Tagliando e incollando le ricicla nella macina della le nostre parole, ciascuno di noi quotidianità. Ma queste parole, può sembrare un pazzo furi- una volta pubblicate, inquinabondo, un viscido pervertito, un no e deformano l’immagine di pericoloso incendiario, o tutte e chi non le può più rinnegare. tre le cose. Chiacchiere e distintivi
Chi non ha mai fatto qualche battuta sul rapinare le banche o eliminare la suocera? Nordio: Esistono gli scherzi e le millanterie. Esistono le chiacchiere e i comportamenti. E in ogni caso c’è una differenza sostanziale tra il progettare un crimine e l’eseguirlo. Ma, una volta trascritte e presentate al magistrato, le intercettazioni perdono il loro connotato fondamentale: il tono di chi sta parlando, a seconda del quale anche una semplice parolaccia può assumere un significato scherzoso, ironico, oppure affermativo, negativo, interrogativo, interlocutorio. Sono infinite le sfumature di tono, che, in una conversazione, connotano il discorso in un senso o in un altro. Per giunta, ed è la cosa peggiore, le parole, pronunciate per essere ascoltate, una volta scritte, tolte dal loro contesto, vengono selezionate dalla polizia giudiziaria, che magari in buona fede trascura passi essenziali. Se parlo al telefono di polvere bianca si penserà alla cocaina, ma se aggiungo che mi ha attenuato la gastrite si capisce che è bicarbonato. La trascrizione del solo primo brano non è falsa, ma è parziale e dà una rappresentazione ingannevole: è una manipolazione. Pisapia: Condivido le sue parole, anzi, apprezzo la fotografia che illustra l’inciviltà di quanto ormai regolarmente accade. Io, però, a differenza di lei, non demonizzo le intercettazioni – telefoniche e ambientali – penso, invece, che siano uno strumento di indagine efficace e indispensabile. Nordio: Perché le piacciono tanto? Pisapia: Non mi piacciono particolarmente, ma trovo eccessive le sue conclusioni: siccome le pubblicazioni di stralci delle intercettazioni sono una brutalità, allora aboliamole, anche quando sono effettivamente necessarie. Scusi se semplifico, ma è come dire che siccome le automobili provocano incidenti, la soluzione è eliminarle. Non sono Alice nel paese delle meraviglie, né Candido, leibnitzianamente convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili, ma non condivido questo suo pessimismo cosmico.Trovo che abolire le intercettazioni sia una soluzione masochistica per la giustizia, anche se è difficile evitare che non raramente le
registrazioni, telefoniche o ambientali, finiscano sulla piazza (virtuale) dei media. Sono convinto, invece, che vadano salvaguardate e che si debba trovare il modo per impedire quello che sembra essere diventato un passaggio automatico, dal registratore alla prima pagina dei giornali. Le intercettazioni sono mezzi di ricerca della prova al pari di perquisizioni, sequestri, ricognizioni e in molti casi sono, e sono state, decisive per l’accertamento di responsabilità penali. Il codice prevede che siano utilizzate con la massima prudenza: solo in presenza di gravi indizi di reato e quando «assolutamente indispensabili al fine della prosecuzione delle indagini». Nordio: Non sarà Alice, ma non crederà sul serio che le cose vadano così. Sa benissimo, che l’abuso di intercettazioni è prassi quotidiana. Pisapia: Lei ha ragione: la legge è stravolta dalla pratica. Nonostante il legislatore abbia previsto l’utilizzo di questo strumento in maniera particolarmente limitata, le intercettazioni sono diventate uno degli strumenti più comuni di indagine. Oggi è quasi più facile trovare procedimenti penali in cui siano state disposte, piuttosto che processi conclusi senza l’utilizzo di questo «eccezionale» mezzo di ricerca della prova. È, dunque, successo che uno strumento di indagine «straordinario» si è trasformato
in uno strumento «ordinario», con flop giganteschi (e spese enormi) di cui raramente si viene a conoscenza. Credo però che, prima di parlare delle necessarie modifiche alla legge, sia necessario fare chiarezza. In gioco ci sono esigenze diverse: necessità investigative, libertà di stampa, diritto-dovere di informare e di essere informati, diritto alla privacy dei cittadini, dovere di impedire che la pubblicazione di atti di indagine possa nuocere all’accertamento della verità. Temi
CARLO NORDIO «Il progetto dell’esecutivo limita il diritto di cronaca durante la fase investigativa. Non si può impedire al cronista di seguire lo svolgimento delle indagini»
che vanno trattati separatamente. Invece, discutendo di intercettazioni, si commette spesso l’errore di mettere tutto insieme. Come se fosse automatico che quello che finisce nei brogliacci degli inquirenti, compresi fatti privati, particolari intimi, questioni processualmente irrilevanti finisca anche, spesso prima ancora che negli studi dei difensori, sulle pagine dei giornali. Si tratta invece di questioni separate e sarebbe opportuno che, da parte di tutti e in particolare del legislatore, si trattassero separatamente.
politica
23 febbraio 2010 • pagina 9
Il ritratto di un’Italia avida e corrotta nel nuovo film di Pupi Avati che dovrebbe essere proiettato in Parlamento e nelle scuole
Il figlio più piccolo, il grande vizio italico di Pier Mario Fasanotti i può vederla anche così: bombardati da un’informazione triste - perché tristi sono le cose raccontate dai media - siamo ormai abituati a un’Italia melmosa e maleodorante e quindi ci ritroviamo emozionalmente vaccinati dinanzi a un film che ci sbatte addosso il volto dell’Italia corrotta, trafficona, cinica. Un film che dovrebbe essere proiettato in Parlamento (ma anche nelle scuole), che ci descrive un Paese incorniciato dentro il rettangolo del cattivo gusto. Eppure le sale sono sempre piene, tutti andiamo a vedere l’ultimo lavoro di Pupi Avati, Il figlio più piccolo. Siamo masochisti o abbiamo bisogno di quella catarsi superbamente inventata nei teatri greci e romani? La pellicola del regista bolognese è la storia del declino di un faccendiere romano, Christian De Sica, creatore di un impero finanziario fatto di scatole vuote. Circondato da serpi, consigliato da un “professore” (Luca Zingaretti) che dell’antica vocazione religiosa conserva la stravaganza dei sandali, il palazzinaro diventa vampiro anche del figlio più ingenuo, cui intesterà il patrimonio di debiti.
S
Ma il progetto all’esame del Parlamento è adatto allo scopo? Nordio: Io rispondo di no, ma cedo il diritto di replica all’avvocato della difesa (delle intercettazioni). Pisapia: Anch’io rispondo di no. Ad esempio è sbagliato che si possa intercettare solo in presenza di reati gravissimi. Ipotizziamo pure un caso di omicidio: se il colpevole è reo confesso, se ci sono riconoscimenti testimoniali, se sono state trovate impronte, a cosa servono le intercettazioni? Invece può accadere che in casi meno gravi, ma meno chiari, siano davvero «assolutamente indispensabili» per individuare il colpevole. Nordio: Certo, possono essere indispensabili per cominciare l’indagine, ma senza per questo esser trascritte e rischiare, un giorno, di esser divulgate. Questo già accade oggi con le intercettazioni preventive. Se gli investigatori sentono qualcosa, si attivano, e procedono – o dovrebbero procedere – con strumenti assai più efficaci: pedinamenti, controlli, documentazione video ecc. Peraltro, voglio ricordare che le inchieste più importanti della nostra storia giudiziaria, quelle contro il terrorismo e le brigate rosse, si sono felicemente concluse senza una sola intercettazione utile. Pisapia: Però, nella gran parte di processi di mafia e camorra e, più in generale, di criminalità organizzata (droga, usura ecc.), le intercettazioni sono state spesso «assolutamente indispensabili». Il che non significa, come vorrebbero alcuni, non
cambiare nulla, quando è evidente che la lettera e la ratio della legge sono – a volte anche per mancanza di professionalità – calpestate. Ma è anche assurdo impedirle – com’è invece nel progetto del governo – nei procedimenti contro ignoti: è proprio quando c’è la certezza di un reato, ma non è possibile, con altri strumenti di indagine, individuare i responsabili, che servono le intercettazioni. Nordio: Al di là delle motivazioni differenti che possiamo avere, su un punto siamo d’accordo: la riforma così com’è non convince né lei né me. Contiene troppo, e insieme troppo poco. Troppo poco, perché mantenendo le intercettazioni come mezzo di prova ne consente l’accesso non solo ai magistrati che le dispongono e ai poliziotti che le eseguono, ma agli avvocati e alle parti che hanno diritto di selezionarne i punti utili. E saremo daccapo. Ma contiene anche troppo, perché limita fortemente il diritto di cronaca durante la fase investigativa. Se l’intercettazione deve restare segreta, esattamente come le fotografie pedopornografiche contenute nei fascicoli, non per questo si può impedire al cronista di seguire lo svolgimento delle indagini, e di raccontarle adeguatamente. Al contrario. Nei paesi di consolidata democrazia il bravo giornalista non si limita a pubblicare servilmente le dritte di poliziotti e magistrati, ma stimola entrambi con una critica serrata, e spesso con un’inchiesta parallela. Aggiungo, infine, che le intercettazioni atrofizzano le capacità investigative sia della polizia giudiziaria che dei giornalisti.
Avati non ha girato il film due o tre settimane fa. La precisazione in apparenza è idiota, ma è da fare visto che abbiamo, noi spettatori, la sensazione di nuotare nella cronaca di questi giorni: intercettazioni, ricatti, avidità da cenciosi anche se accomodati in elicottero, domande di raccomandazioni, “burinaggine”che nessun maquillage o ricchezza può far evaporare del tutto. Pupi Avati ha lavorato di fantasia sono nell’assemblare episodi, nello scolpire caratteri e macchiette. Nelle sue tasche, come in quelle di tutti, c’era l’ampia documentazione dell’Italia dei furbetti, degli squallidi. Nessun cenno alle risate di un diavolo che cammina sui tetti e guarda il mondo dall’alto. Completa assenza di tragedia shakesperiana: come non ne fossimo più capaci. Anche il sangue è pomodoro, anzi scherzo di carnevale. Siamo nel circo del grottesco. Avati in una intervista televisiva ha un po’ minimizzato il pugno cinematografico che ha dato a tutti noi. Forse perché sa di essere nella scia di vicende che raccontano la mediocrità privata con il volto di Sordi o Tognazzi, del funambolismo falso e irriverente con i tratti spavaldi di Gassman. E ha detto che la sua opera non è interamente negativa visto che alla fine c’è un ricongiungimento familiare. Non sono d’accordo: il finale è solo apparentemente consolatorio perché è vero che De Sica
viene accolto e protetto dall’ex moglie (Laura Morante) e dal figlio gabbato (Nicola Nocella, ottimo esordiente), ma non si deve far finta di dimenticare che il nucleo è di quelli disgregati, disfunzionali. Non una famiglia vera, ma ridicolo barlume di affetti, vortice di illusioni e centro gravitazionale dell’assoluta mancanza del senso della realtà. Altro che happy end. Anche la voluta contrapposizione tra la Bologna solidale e la Roma gaglioffa è solo apparente. Due poli geografici e morali, che però sono soltanto il grafico di un desiderio, un riferimento a precise esperienze di vita. Ciò che fa orrore, anche se non sorprende più (ecco il dramma), è l’ascesa di un finanziere che si muove così bene anche tra i lillipuziani della politica, che crede di avere il passepartout per aprire porte e cancelli. La chiave magica è una normale conoscenza della natura umana, un puntiglioso e sempre aggiornato elenco di debolezze e vizi altrui. È sufficiente un sussurro malevolo, non è necessario armare navi o eserciti. A vincere oggi è la spruzzata di veleno, non la spada.Vedendo Il figlio più piccolo si avverte il disagio della nostra pelle che diventa carta di un giornale letto appena ieri. Il cinema, la letteratura, l’arte in genere non hanno ovviamente il compito di esaltare ciò che non esiste. Non siamo angeli, siamo uomini tristi e non buoni, diceva Niccolò Machiavelli. Emmanuel Kant prudentemente ci consigliava di dirigere la barra verso il “meglio”, ignorando sogni vertiginosi.
Ci sentiamo tutti un po’ “figli piccoli”, da illudere e imbrogliare a vita? Il borbottio che attraversa in questi giorni la società è l’esempio di come anche la vergogna possa avere il suo decibel. E poi il dubbio più atroce: siamo davvero così cialtroni? È di limitata consolazione il sapere che tra “clientes”, “patrones” e “pecunia” maleodorante ci siamo già stati al tempo dell’antica Roma. Basta magari rammentare tale Marco Postumio di Pyrgi titolare di contratti di fornitura per l’esercito, il quale faceva affondare di proposito vecchie navi, dopo averle caricate di merci di poco valore, per richiedere allo stato l’indennizzo di un valore molto superiore. Raffrontare tuttavia i contorni, dell’antica Roma e di quella emblematica (non s’illudano i leghisti, semmai scandaglino il sottosuolo di Milano) che subiamo, è imbarazzante. Come lo è la seguente domanda: dov’è quel “meglio”indicato da Kant? E perché è una boa che ci appare sempre distante anche se remiamo con l’onestà dei normali?
Il regista racconta l’ascesa di un finanziere che si muove così bene anche tra i lillipuziani della politica, che crede di avere il passepartout per aprire porte e cancelli. Attraverso debolezze e vizi altrui
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panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Ma che fine ha fatto l’influenza A? bbiamo davanti a noi ancora un mese scarso di inverno, poi avanti con la primavera. Finisce la stagione invernale e finirà anche l’influenza. Già, l’influenza. Quest’anno il nostro terrore è stata la cosiddetta influenza A o H1N1. Nonostante la grande massa di notizie ancora oggi non sappiamo bene cosa sia stata. Pare abbia avuto origine in un allevamento di maiali in Messico e da lì si sia allargata al resto del mondo. Ma anche sull’origine non si è poi così sicuri. Ma dell’influenza ci ha colpiti soprattutto l’annunciata pandemia che non c’è stata.
A
A conti fatti si è scoperto che la temuta influenza A ha fatto meno morti della stagionale. In agosto non si sapeva se le scuole avrebbero riaperto le aule secondo il calendario perché si prevedeva l’arrivo dell’influenza proprio nel mese di settembre. Poi le scuole sono state aperte regolarmente e l’epidemia è stata annunciata per Natale. Infatti, in origine il ministro dell’Istruzione aveva pensato di anticipare e allungare la classiche vacanze scolastiche per tenere meglio sotto controllo l’influenza A. Ma non c’è stato bisogno neanche di fare ricorso a questa soluzione. Dell’influenza A, infatti, con il passare dei giorni si sono perse le tracce. Come mai? Non è la prima volta che è annunciata un’epidemia e poi dell’epidemia rimane solo il nome e la paura. I mezzi di informazione contribuiscono in modo determinante a lanciare il cosiddetto “allarme” che, sulle ali della globalizzazione, diventa in una giornata appena mondiale. Ma gli allarmi come sono “lanciati” così svaniscono nel nulla e di loro non si sa niente più.
Che fine ha fatto la Aviaria? E la Sars? A sentire i tg nei giorni dell’allarme di turno si ha l’impressione di essere a un passo dall’Apocalisse. Ancora un passo, ancora un giorno e ci sarà la fine del mondo. Poi, come per incanto, tutto rientra. Tutto passa. E tutto ritorna a riprendere il proprio ritmo naturale. Si dirà: meglio prevenire che curare. Meglio essere previdenti. Meglio essere cauti. Se un allarme “lanciato” in anticipo serve a difenderci da rischi e contagi, anche se non sempre ci si prende non fa niente: è sempre meglio essere prudenti. Già, l’informazione è una risorsa e la conoscenza è la nostra forza. È pur vero, però, che le epidemie annunciate e non arrivate hanno alcuni effetti collaterali. Si prenda, ad esempio, quello del vaccino dell’influenza A. Era davvero necessario? Oggi, dopo che l’epidemia non c’è stata, sappiamo che il vaccino non era necessario. Eppure, nei giorni di allarme, il vaccino era consigliato e, anzi, era proprio il ministero della Salute che consiglia la somministrazione. I medici, in verità, sono stati meno perentori: hanno lasciato libertà di scelta e anche loro hanno evitato di somministrarselo. Il vaccino a sua volta presenta dei rischi che possono verificarsi subito o tra anni. Insomma, l’informazione è una risorsa e la conoscenza è la nostra forza, ma a volte possono anche essere delle trappole.
Basta incentivi, ma lo Stato aiuterà ancora Fiat Il governo continuerà a intervenire su sviluppo e ricerca di Andrea Giuricin
ROMA. Il ministro dello Sviluppo Economico Claudio Scajola ha detto stop agli incentivi auto per il 2010. Questa “svolta”nella politica industriale è stata annunciata lo scorso 17 febbraio e arriva in un momento di forte crisi del settore automotive. È notizia di ieri il blocco della produzione di Toyota in Gran Bretagna e Francia, dopo un periodo di estrema difficoltà per la casa automobilistica giapponese. E da ieri è iniziata anche la cassa integrazione per 30 mila dipendenti del gruppo Fiat in Italia. Il periodo di stop alla produzione da parte della casa automobilistica italiana arriva dopo un anno, il 2009, in cui il mercato italiano ed europeo hanno limitato le perdite grazie agli aiuti arrivati dai diversi governi. Lo scorso anno le vendite di autoveicoli nel nostro Paese sono rimaste pressoché stabili intorno a 2 milioni e 160mila, mentre per il 2010, si prevede una caduta a circa 1,7-1,8 milioni di immatricolazioni. Questa caduta non deve essere vista come una tragedia ma come il logico risultato della fine di un periodo d’aiuti governativi. Il normale livello di vendite raggiungibile in Italia senza il doping degli incentivi statali non raggiunge i 2 milioni di veicoli. Il ministro Scajola ha dunque annunciato che il settore auto non vedrà nel 2010 il prolungamento degli incentivi auto; tuttavia la politica degli aiuti statali non si può dire certo conclusa, se lo stesso Ministro ha annunciato un programma di centinaia di milioni di euro per sostenere la ricerca sempre nel settore automotive.
I cambiamenti nella visione governativa sono arrivati dopo il duro scontro con Fiat, che aveva giustamente deciso di chiudere lo stabilimento di Termini Imerese, il quale risultava avere dei costi di produzione e di logistica superiori agli altri impianti del gruppo torinese.
Sergio Marchionne, amministratore delegato della casa automobilistica, ha annunciato, che nonostante la fine degli incentivi alle vendite il gruppo dovrebbe chiudere in utile il 2010. La politica di porre fine agli incentivi alle vendite è positiva, perché chiude in parte il circolo vizioso che aveva afflitto l’Italia per troppi decenni. Questa politica tuttavia poteva andare bene fintanto che la concorrenza nel mercato automotive era limitata. Nel momento in cui altri gruppi sono entrati in forza nel mercato italiano, Fiat si è ritrovata ad avere troppi stabilimenti che non le permettevano di avere le economie di scala necessarie per essere competitiva. Il gruppo guidato da Marchionne si è ritrovato a competere in un mercato globale con cinque stabilimenti italiani che producevano lo stesso numero di automobili di un solo impianto produttivo in Polonia o Brasile. La razionalizzazione era dunque necessaria per la casa automobilistica italiana così com’era necessario un cambio nella politica del settore automobilistico da parte del governo. Lo scontro di Termini Imerese ha rotto questo circolo vizioso, ma il governo continuerà ad incentivare il settore auto e particolarmente Fiat nel settore dello sviluppo tecnologico con aiuti alla ricerca. Difficilmente con questa nuova politica si potrà supplire alla mancanza di competitività di cui soffre il nostro Paese, che ha prodotto nel 2008 meno autoveicoli della Repubblica Ceca o del Belgio. In questo modo si passerà da una politica che favoriva le vendite ad una che cerca di sviluppare la tecnologia in Italia, senza tuttavia avere un vero salto di qualità. L’Italia è stata troppo legata per troppi anni a Fiat nel settore automobilistico e favorire lo sviluppo tecnologico avrà degli effetti molto limitati. Sarebbero invece necessarie delle riforme strutturali per attrarre investitori stranieri che vogliano porre impianti produttivi nel nostro Paese. Quelle riforme che in Italia nessun governo ha mai trovato il coraggio di attuare, perché troppo impopolari.
Difficilmente con questa nuova politica si potrà supplire alla mancanza di competitività di cui soffre il nostro Paese
Quello che maggiormente stupisce sono state le dichiarazioni contrastanti dello stesso ministro che ha messo in subbuglio il mercato dell’auto. A dicembre gli incentivi sembravano quasi certi, seppur di minore entità. Nemmeno un mese dopo, una bozza che circolava prevedeva degli aiuti fino al 30 giugno, mentre ora gli aiuti sono stati eliminati totalmente. Se il risultato di eliminare non può che essere considerato positivamente, il processo per arrivare alla decisione ha messo a dura prova i concessionari e tutti gli operatori del settore auto. Il mercato, per funzionare al meglio, ha bisogno di certezze e non si può certo dire che i continui cambiamenti governativi circa la politica degli incentivi abbiano fornito certezze.
panorama
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Il rischio di isolamento del segretario democratico complica ulteriormente la vita al partito in vista delle Regionali
I radicali liberi debilitano Bersani L’ala dalemiana del Pd sempre più insofferente all’alleanza con Emma Bonino di Antonio Funiciello alleanza del Pd coi Radicali somiglia al classico idillio amoroso, in cui il partner debole (il Pd) s’innamora ed è convinto di poter cambiare il partner forte (i Radicali) per continuare a stare insieme. E non va mai in questo modo. Perché così come è impossibile pretendere che un pinguino voli (al massimo nuota), tutto si può fare fuorché chiedere a un radicale di non fare il radicale. Nonostante Bersani avesse più o meno chiesto questo a Pannella, quando strinse l’accordo di sostegno alla Bonino candidata presidente nel Lazio e il giorno dopo se la ritrovò pure candidata capolista in Lombardia contro il Pd stesso. Pannella è Pannella e la Bonino, per quanto riscuota successo nel cuore dell’elettorato piccolo borghese di centrosinistra e nel sedicente ceto medio riflessivo progressista, resta sempre la Bonino: una radicale. E che radicale!
L’
nei tempi d’oro (per i Verdi, non certo per l’Italia) in cui Pecoraio Scanio imperversava ovunque, ogni giorno fa girare un comunicato stampa in ricordo della sua solitaria, inascoltata protesta. Alla Bonino, invece, basta convocare una mezza conferenza stampa in via di Torre Argentina per accendere i riflettori sul suo partito. La politica è un’arte e in certe pratiche di quest’arte i radicali sono maestri indiscussi. Così il Pd si ritrova ad appoggiare nella ter-
za più grande regione italiana al voto (il Lazio segue Lombardia e Campania, dove il centrodestra ha già vinto) una candidata presidente che minaccia apertamente di ritirare le liste elettorali del partito. Con la conseguenza diretta che se è difficile per un giovane uomo nel pieno delle forze reggere i ritmi di una campagna elettorale nella terza regione più popolosa d’Italia, figurarsi per una donna in gamba e brillante, ma che è pur sempre nata nel 1948. Il Pd è avvertito perché è anzitutto contro il Pd che l’iniziativa è rivolta. I Radicali protestano perché con la loro sola rete nazionale non riescono a raccogliere le firme previste dalla legge per essere presenti in tutte le province delle regioni che vanno al voto. Avevano in tal senso chiesto al Pd un aiuto, nonostante gli schiaffi dati ai democratici, dalla candidatura della Bonino in Lombardia al voto contro il Pd in commissione vigilanza Rai. Il Pd, risentito (o rintronato) per i troppo schiaffi, ha finora risposto picche. Malgrado da un pezzo di minoranza interna sia arrivato un qualche soccorso. Non da Area democratica di Franceschini, che una settimana fa ha detto chiaramente che lui la Bonino non l’avrebbe mai scelta. L’aiuto arriva da Goffredo Bettini, regista della mozione Marino che al congresso democratico ha conquistato il
Il Pd si ritrova ad appoggiare nel Lazio una candidata presidente che minaccia a viso aperto di ritirare le liste
Lo sciopero della fame e della sete della Bonino contro «il regime che sta precipitando in una strage di legalità senza precedenti» è un tipo di iniziativa politica all’interno del quale i Radicali non conoscono rivali. Il segretario dei Verdi Angelo Bonelli è in sciopero della fame da quasi un mese contro la Rai che oscura il suo partito e nessuno fino a oggi se n’è accorto. Tanto che Bonelli, ex capo gruppo alla Camera
suo bel 12%. Lo stesso Bettini che, meno di due anni fa, aveva promesso ai Radicali l’elezione sicura di una decina di candidati parlamentari inseriti da Pannella nelle liste del Pd, che però se ne ritrovò poi soltanto sei promossi in Parlamento. Ma erano altri tempi: allora, con la storia della vocazione maggioritaria, il Pd faceva la parte del martello e tutti gli altri del centrosinistra (Di Pietro escluso) erano piccole incudini da battere e ribattere.
I più risentiti da questa subalternità ai Radicali sono i dalemiani, che già sabato con Nicola Latorre hanno provato a minimizzare le ultime uscite di Pannella e Bonino («film già visto») senza però riuscire a nascondere un fastidio generale e una precisa contrarietà politica. Ma è ovvio che non possono essere loro in campagna elettorale a criticare Bersani, dopo che la minoranza interna si è disciplinatamente rimessa alla linea del segretario. Eppure i dalemiani, a ogni uscita di Pannella e Bonino, ci tengo a sottolineare l’estraneità al tipo di rapporto che Bersani ha accettato di avere coi Radicali nel Lazio e nel resto d’Italia (soltanto in tre delle tredici regioni al voto, Piemonte e Veneto, i Radicali sostengono candidati presidenti del Pd). Un rischio d’isolamento che Bersani sa di correre e che certo non semplifica la vita ai democratici in vista del voto.
Successi. Alla faccia di chi gli vuole male, questo Festival è riuscito bene. Merito della Clerici, ma non solo
Ecco perché Sanremo è ancora Sanremo di Bruno Giurato na puntuale cronaca sanremese si potrebbe fare collezionando le critiche negative, con nome dello stroncatore, sunto dell’articolo, appartenenza politico-culturale. Un po’ secondo i canoni di Hans Robert Jauss, il teorico dell’Estetica della ricezione. Perché se Sanremo dice poco sulla musica che gira intorno, dice tutto su chi ne parla. Un festival di cinque giorni, tanti titoli da fare, tanti servizi da montare, tanti “casi”e tante polemiche da costruire, e in mezzo poche canzoncine. Inevitabile che la portanza mediatica si trasformi in un convettore di frustrazioni. Sanremo, appena vinto da Valerio Scanu, è l’animale sacrificale per tutti i critici della cultura, per i critici musicali, per gli osservatori del costume che si sentono in pectore tanti Karl Kraus, ma di fronte non hanno la Vienna laboratorio della fine del mondo e sciabolano su quello che c’è. Si prenda il caso Italia amore mio. Filippo Rossi di “Farefuturo magazine” ha minacciato lo sciopero della fame se avesse vinto. Sul sito letterario Carmilla è ap-
U
parsa una approfondita analisi retoricostilistica del testo, demolito con zelo degno di cause più importanti. Peccato che di musica nessuno sappia un accidente, si sarebbe potuto aggiungere che la canzone Dio, Patria e famiglia aveva una strofa costruita su un giro di accordi flamenco (sic), come infatti è. Alla fine il commento più centra-
voli, meno banali del solito. Le migliori non sono arrivate alla finalissima, e non è importante. Noemi con Per tutta la vita è già in testa alla classifica di iTunes, che comprende anche la raffinata canzone di Arisa, e Cristicchi che ha un testo imbarazzante ma anche l’ossessività del tormentone perfetto. Perfino la melodia della Verità di Povia si lascia ascoltare e ricordare. Il merito del successo va in buona parte alla Clerici, che nelle serate iniziali ha ripetuto il mantra giusto: «Non vogliamo farvi fare tardi» e ha condotto in maniera asciutta. Frase inaudita nei precedenti Sanremo roboanti e debordanti, e che è stata forse il segreto del successo. E nelle serate finali sono venute le polemiche, qualche sbrodolatura, qualche pacchianata fisiologica, e anche cose belle come la felliniana protesta degli orchestrali. Che volevate di più, Bayreuth?
Le canzoni erano davvero buone per i passaggi in radio, piacevoli, meno banali del solito. Le migliori non sono arrivate in finalissima, ma non è importante to e smagato è stato quello di Nino D’Angelo, secondo cui Italia amore mio è «’na chiavica». E buonanotte agli astratti furori.
A chi scrive, l’edizione 2010 è sembrata semplicemente, con tutti i limiti strutturali, un bellissimo Sanremo. Le canzoni, a parte quella del PrinciPupo e qualche altra, erano buone per i passaggi in radio, piace-
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il paginone
Per il filosofo siciliano il peccato è proprio ciò che rende ”le creature finite” diverse da Dio. G
Umano, Disumano ’ultimo, irto, libro di Manlio Sgalambro si chiama Del delitto. La tesi, in soldoni da quarta di copertina, è questa: «Se è vero che le vicende della sua vita sono parte integrante dell’importanza di Socrate, si deve comunque dare tutto il rilievo possibile al fatto che egli morì assassinato. Tuttavia Platone omette pietosamente quella parola, e dal canto suo Nietzsche afferma certo a ragione - che Socrate volle morire». «Ma chi desidera morire – osserva Sgalambro – si trova intrappolato in una insana contraddizione, giacché nello stesso tempo vuole vivere. E così fu anche per Socrate, che delegò infatti il compito a un ”benefattore” (euergetikós) - così egli definì l’assassino - e con ciò introdusse una volta per tutte nella filosofia la figura dell’omicida».
L
Insomma, Sgalambro pone un problema concreto: riassumendo, e sempre in soldoni, dice: «Socrate voi lo definite il giusto per eccellenza e però è vi resta nascosto il lato oscuro della sua vicenda. Egli è il mandante di un omicidio. Il suo omicidio certo, però l’affidare a qualcuno l’incarico di farsi uccidere è ha trasformato l’assassino che lo uccide un assassino». Scherzi della filosofia, che non semplifica, ma complica e molto le cose. Anche se i filosofi, dice Sgalambro, hanno per lo più evitato di porsi le domande cruciali che derivano dal paradosso di Socrate: quale mistero cela il delitto in se stesso? Chi è l’assassino, nella sua essenza? E tra la vittima e il carnefice, tra Caino e Abele, c’è poi tutta questa differenza? Domande che invece non teme di affrontare Sgalambro, esploratore delle zone vulca-
darci un compito impossibile. Parliamone pure però. E cominciamo col dire che a me, sentendo le parole del Papa, è venuto in mente Lutero: pecca fortiter ma credi ancora più fortemente. Il peccato è una questione centrale nella dottrina cristiana e rubare e mentire sono dei peccati, come uccidere, compiere atti impuri, disonorare il padre e la madre, eccetera. Ma il peccato non distingue l’uomo dall’animale – che per definizione non pecca, ma segue la morale del suo istinto – o da un’indeterminato inumano o subumano, lo distingue semmai dall’increato, ossia da Dio. È il peccato che render l’uomo creatura finita, peccaminosa per natura. Da questa verità fondamentale, che il cristianesimo propone, le varie obbedienza cristiane si sono confrontate e divise. Lutero immette una nuova visione del peccato: pecca fortiter ma credi ancora più fortemente. Una tesi a cui si reagisce con forme di edulcoramento. I gesuiti, in piena controriforma, parlarono della guida dell’intenzione, portarono il peccato a tutt’atra cosa. Nel ‘700 sorge una teologia particolare: dove ci si chiedeva se un ragazzo che tocca il seno di una ragazza pecca per solo aver toccato quel seno. Magari egli vuole semplicemente toccare il seno, se invece è l’intenzione iniziale quella di voler toccare il seno per un atto sessuale è cosa diversa. Altra cosa ancora è se sopraggiunge la voluttà durante un atto che in origine non aveva intenzioni peccaminose. Causidismi, che rivelano però l’ossessiva attenzione al centro teologico del cristianesimo: il peccato. Ora il papa pensa a portare la critica al peccato sul piano sociale ma la dottrina fondamentale del cristianesimo ha il suo
«L’uomo è datore di morte – secondo Sgalambro – sommo male e ingiustizia per i viventi, ma è anche datore di altri mali meno definitivi ma non meno gravi: mentire, rubare, ingannare» niche del pensiero, spingendo lo sguardo verso quel punto dove l’espressione «L’uomo è mortale non significa in primis che l’uomo muore - insigne banalità concettuale -, ma che l’uomo è datore di morte». L’uomo è datore di morte secondo Sgalambro, sommo male e ingiustizia per i viventi, ma è anche datore di altri mali meno definitivi ma non meno gravi: mentire, rubare, per esempio. Azioni che, ha sostenuto il Papa nella sua ultima lectio divina – e così siamo venuti al punto – tendono a essere giustificati come debolezze umane. Invece dice Benedetto XVI umane non sono. Ponendo un altro problema. A chi meglio che al filosofo siciliano Manlio Sgalambro sottoporre dunque il dilemma: «È umano troppo umano mentire e rubare oppure è umano e basta?» «Lei mi pone questa domanda a tarda mattinata per scrivere poi la mia opinione su un giornale. Io le risponderò – riflette paziente il filosofo – ma sappiamo entrambi di
perno sulla finità della natura umana: il peccato non è né sovraumano né sottoumano. Credo che le parole del Papa siano una variante sul tema della riflessione sul peccato. Non credo intendesse considerarlo inumano o qualcosa di diverso dall’umano, ma suggerire che la realizzazione dell’umano sia il cammino per liberarsi dal peccato. In un capitolo della summa teologica, ci sono passaggi fondamentali dove si attribuisce all’uomo questa qualità di peccatore, dove si può escludere che il peccato porti l’uomo a qualcosa di inferiore alla sua umanità. Ecco, interpretata così mi sembra, che il Papa abbia di voler dire qualcosa per aggiustare certi guai anche concettuali dei nostri tempi».
E in effetti c’è chi ha messo le parole del Papa in relazione con quanto sta accadendo nella politica e nella società italiana: «Nell’uomo politico – ha scritto Sgalambro – si incarna lo stato medio di una
Dopo l’invito del Papa a non confondere Bene e Male, viaggio con Manlio Sgalambro nel complesso territorio della nostra condizione terrena di Riccardo Paradisi
IL “PENTALOGO” DEL PONTEFICE MENZOGNA FURTO POTERE ORGOGLIO PRESUNZIONE
GIUSTIZIA BONTÀ SAGGEZZA GENEROSITÀ COMPASSIONE
Ecco le “parole chiave” con cui Benedetto XVI, nell’Angelus di domenica scorsa e nella lectio di giovedì, ha denunciato il degrado morale della nostra vita pubblica. A sinistra ciò che il Pontefice che considera non degno dell’essere umano, a destra i sentimenti che viceversa danno conto della pienezza dell’umanità.
società – i vizi, le mediocrità, i difetti – come se egli ne assorbisse i mali alla maniera dei vecchi stregoni che succhiano la ferita purulenta succhiandone anche il maleficio. Così i loro vizi, le turpitudini, il malaffare, sanno di qualcosa di diverso. È come se essi imbrigliassero tutto ciò che di turpe vi è in una convivenza e ne liberassero gli altri». È insomma come se chi cerca e detiene il potere si sottoponesse inconsciamente a un sacrificio anche per gli altri, rendendo se stessi schiacciati sulla forma e dunque estinguendosi. A dimostrazione che il peccato è una cosa complicata.E comunque al netto di torsioni e cavilli gesuitici sul peccare, o dell’estremismo luterano, l’elemento limite che ci distingue da Dio è proprio il peccato. «Non
la finitezza esistensizalista,– insiste Sgalambro – ma proprio il peccato. Il resto è un puro discorrere di cenere e di fumo perché il peccato è l’elemento limite che ci distingue da dio. E rinunciare al peccato non significa rinunciare alla condizione dei peccatori, ma fare le cose che i cristiani sostengono che devono essere fatte mondandosi dal peccato». C’è da domandarsi, e lo fa venire in mente un gruppo di abietti su facebook che chiedono la soppressione dei bimbi down, se sia umano eliminarli invece in sede prenatale «Questi gruppetti di cui lei mi parla non sono degni d nota, sono spazzatura, roba da non so se prendere troppo sul serio. Facezie non innocenti ma innoque. Con il nazismo invece è accaduto davvero. L’eli-
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Gli uomini, da soli, non si liberano dal male
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Origini e conseguenze degli ultimi interventi di Benedetto XVI
La lezione “tedesca” che ci sveglia dal sonno Con le parole della sua lingua, Ratzinger ha infranto vecchi tabù richiamando la schiettezza evangelica di Luigi Accattoli on l’angelus di domenica e la lectio di giovedì il Papa ha dettato un pentalogo di ciò che è umano e di ciò che non lo è – e che dunque inclina al disumano – usando parole che suonano insopportabili ai nostri orecchi dimentichi di ogni responsabilità morale. Ha detto che sono fuori dall’umano la menzogna, il furto, l’inganno e l’adorazione del potere, l’orgoglio e la presunzione. Forse Benedetto XVI non mirava a questo – nella prima delle due occasioni parlava ai preti di Roma – ma ne è venuta una provvidenziale denuncia del degrado della nostra vita pubblica. Il 17 febbraio – mercoledì delle Ceneri – la Corte dei Conti ci informa che quel degrado galoppa: nel 2009 le denunce di atti di corruzione alla Guardia di Finanza sono aumentate del 229 per cento rispetto al 2008 e quelle per concussione del 153 per cento. Il 18 – primo giovedì di Quaresima – il Papa argomenta parlando a braccio che «si dice: “ha mentito”, “è umano”; “ha rubato”, “è umano”; ma questo non è il vero essere umano: umano è essere generoso, è essere buono, è essere uomo della giustizia, della prudenza vera, della saggezza».
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compassione! È diventato un luogo comune irridere a queste parole della tradizione quando si rivendica – poniamo – l’esigenza di essere duri e puri nel combattere il buonismo e il perdonismo. Baget Bozzo, che pure era un prete, aveva scritto negli ultimi anni pagine accese contro «il primato della compassione» nel cristianesimo contemporaneo.
La chiamata del Papa al rispetto dei comandamenti che sono alla base della convivenza sociale – e a cogliere il carattere idolatrico degli “inganni” del potere – è arrivata al culmine di una stagione della nostra vita pubblica segnata da ogni sorta di scandali intrecciati tra sesso, denaro e potere: nel nostro Paese – come dice la Corte dei Conti – «la corruzione è diventata un fenomeno di costume». E disponiamo di neologismi in gran quantità per rendere comprensibile – e forse anche accettabile – il carattere pervasivo di questo fenomeno: “gelatina criminale” ha detto ultimamente un magistrato, ma c’erano già i “furbetti”, i “mariuoli”, i “birbantelli”, la “cricca” e la “casta”. E le escort, i trans, i massaggi, la segretaria amante, l’arte delle “note spese”, l’inserimento nelle liste, il favore nelle commesse: nessun partito esente, nessuno schieramento restato senza macchia. «Avete capito che non sono un santo» aveva detto di sé – ma anche, senza volerlo, a nome di tutti – il premier il luglio scorso e se ne risentì il povero Dino Boffo su Avvenire tirandosi addosso l’ira fredda del povero Feltri che ora va giurando che gli dispiace «davvero molto» di avergli fatto del male usando carte false contro di lui . Ci voleva un Papa tedesco per far risuonare – in questo contesto – un “no”di sapore biblico al furto e alla menzogna e all’idolo del potere che instancabilmente li legittima. Benedetto ha un suo candore che sempre ci sorprende nell’usare la parola proibita e che io ritengo debba essere interpretato sia come guizzo dell’intellettuale che vuole nominare il tabù, sia come schiettezza evangelica: «Il vostro parlare sia sì sì, no no». Quella volta in aereo fu lui a usare per primo la parola “preservativo”e ora è stato lui a dirci che stiamo imboccando una china “disumana” se cediamo all’idea che rubare e mentire sia proprio dell’uomo e dunque di ognuno e perciò veniale, anzi innocente.
Forse non mirava a questo (nella prima occasione parlava ai preti di Roma) ma ne è venuta una provvidenziale denuncia del degrado della nostra vita pubblica
minazione intendo dei diversi. Qualcosa che l’umano ha pensato e agito. È umano anche questo? E umano selezionare gli uomini prima o dopo la nascita e decidere se farli vivere o eliminarli? Di che parliamo di ontologia o di morale? È complesso usare queste categorie di umano non umano in una conversazione dove
non si pongano le regole del linguaggio da usare, del paradigma di riferimento dentro cui ci si muove. La filosofia occidentale è una filosofia ontologica e la filosofia occidentale queste cose le mette nel novero di ciò che l’umano è capace di fare. Risponderebbe che è umano, molto umano, anche l’orrore»
Considero una fortuna per la predicazione cristiana nel nostro Paese che a un Papa polacco sia succeduto un Papa tedesco: una fortuna anche linguistica, che ci fa percepire in maniera nuova parole antiche. Grazie alla difficoltà della lingua una volta Giovanni Paolo chiamò «confratelli» i musulmani e un’altra volta – alla vigilia dell’elezione – il cardinale Ratzinger parlò di «sporcizia» nella Chiesa. Due parole che un Papa italiano non avrebbe usato e che ci hanno dato la sveglia. Metto in questa serie degli scarti linguistici che aiutano la predicazione anche il richiamo della settimana scorsa all’alienazione dall’umano che comporta la legittimazione del furto e della menzogna: «Settimo non rubare, ottavo non dire falsa testimonianza». E ci metto anche «l’adorazione del potere» di cui ha parlato domenica. Tanto più appare forte il doppio monito se badiamo alla serie positiva delle parole che il Papa teologo ha contrapposto a quella negativa, segnalando come rispondenti alla “vera umanità” la generosità, la giustizia, la bontà, la saggezza e la compassione. Sissignori: la generosità, la bontà, la
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Diritti Umani. L’accusa (e l’appello) del politologo inglese. «La difesa del terrorista Berg è sbagliata, basta donare soldi»
L’errore di Amnesty Scoppia lo scandalo nella Ong più famosa del mondo. Che licenzia in tronco un’impiegata di Christopher Hitchens una vecchia storia, ma vale la pena raccontarla di nuovo. Un giorno - siamo alla fine degli anni Sessanta - un avvocato di nome Peter Benenson - stava leggendo il giornale durante il suo consueto tragitto nella metropolitana londinese. Lo sguardo gli cadde su un piccolo articolo che parlava di due studenti del Portogallo - all’epoca sotto il pugno della dittatura fascista e intento a salvaguardare il proprio impero in Africa - condannati a sette anni di prigione per aver brindato pubblicamente in una piazza di Lisbona alla libertà. Dopo averci riflettuto un po’, l’avvocato prese carta e penna e scrisse una lettera aperta dal titolo: prigionieri di coscienza che venne pubblicata sulla prima pagina del London Observer. Potreste non aver mai sentito parlare di questo micro-evento o delle sue
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In senso orario: Chritopher Hitchens; un condannato a morte; Peter Benenson; Gita Sahgal; Salman Rushdie e il terrorista Moazzem Berg
macro-conseguenze, ma io sono certo che ognuno di voi ha sentito citare almeno una volta Amnesty International, di fatto il frutto (al tempo imprevedibile) di quella lettera. Le sue filiali ovvero gli innumerevoli gruppi e gruppetti sorti attorno al suo nome - sono stati responsabili del rilascio di moltissimi prigionieri politici e dello smascheramento di molti regimi. Come tutte le grandi idee, il concetto attorno al quale venne costruito Amnesty era meravigliosamente semplice. Ad ogni filiale veniva chiesto di “sponsorizzare” un minimo di tre prigionieri di coscienza: uno di un paese Nato, uno proveniente da un stato del Patto di Varsavia e un altro dal terzo mondo.
Nel tempo, l’organizzazione decise di battersi anche contro quelle nazioni che utilizzavano la pena di morte e la tortura, anche se il “core business”rimaneva sempre il prisoner of conscience. Uno “status” con-
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Cageprisoners difende dei criminali che hanno fatto della violenza il loro vessillo. Uomini finiti in galera per una serie di ragioni che nulla hanno a che spartire con la libertà di opinione cesso soltanto a una determinata conidzione: e cioè che il prigioniero rispondesse esattamente alla definizione e fosse una persona incarcerata per aver espresso un’opinione. Amnesty su questo fu inflessibile e decise di non “adottare” chi propugnava (o usava) la violenza. Questa organizzazione è cara a me e a milioni di persone, incluse quelle migliaia di uomini e
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donne che dopo essere state incarcerate e maltrattate per il loro coraggio di dire quello pensavano ed essersi trasformati in dissidenti, hanno riconquistato la loro libertà grazie al lavoro certosino e senza sosta di Amnesty International.
Ecco perché fa difetto e male assistere alla degenerazione e politicizzazionedella struttura e
leggere di una crisi morale dalle implicazioni globali. Amnesty International ha appena sospeso uno dei suoi funzionari più anziani, una donna che si chiama Gita Sahgal e che in quest’ultimo periodo guidava un dipartimento di Amnesty. È fin troppo semplice sintetizzare il suo disappunto in poche parole. «Scendere in campo e batterci per la libertà e i diritti umani di un cittadino inglese famoso per essere un supporter dei Talebani - ha scritto in una lettera la donna in questione - è un grosso errore di giudizio». Uno potrebbe pensare che una critica di questo tipo - ad Amnesty - avrebbe al massimo com-
Dall’operazione Piombo Fuso a Guantanamo, dal Kashmir all’Iraq: le principali critiche al gruppo
Se i diritti diventano un po’ storti di Luisa Arezzo l caso di Moazzem Berg, terrorista filo-talebano difeso da Amnesty, contro cui si è scagliato anche Salman Rusdhie accusandola di «bancarotta morale» è forse quello che sta facendo più rumore. Ma non è certamente l’unico. Sono anni ormai che l’organizzazione è nel mirino di critiche più o meno autorevoli che avanzano dubbi sulla sua credibilità e imparzialità. L’accusa principale è quella di avere troppi scrupoli “politically correct”e di dare più spazio alle presunte violazioni dei diritti umani che avvengono in Gran Bretagna e negli Stati Uniti a causa della lotta al terrorismo che a quelle che invece
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caratterizzano da sempre regimi come l’Arabia Saudita e l’Iran. Per non parlare del Sudan o del Kashmir. Sotto accusa in particolare è la gestione della ong da quando ne è diventata padrona la signora Irene Khan. La Khan, originaria del Bangladesh, è un’ideologa più che un’operatrice umanitaria e non ha mai nascosto le proprie simpatie per le ragioni degli islamici contro la lotta al terrorismo. Un po’ come quegli avvocati di Soccorso Rosso che non nascondevano il proprio tifo per le ragioni dei brigatisti rispetto allo stato italiano. Così nemmeno un anno fa furono non poche le defezioni all’interno della
stessa Amnesty quando qualcuno lesse la frase secondo cui «Guantanamo è un gulag dei nostri tempi».
Ma sotto accusa è soprattutto il sito internet che con i propri high lights rimanda sempre alle violazioni occidentali dei diritti umani e mette in secondo piano quelle dei regimi dispotici arabo islamici. O comunisti. nel 2009, il settimanale britannico The Economist (da sempre icona dei liberal inglesi) si è scagliato contro Amnesty dicendo che la ong ha perso la propria caratterizzazione in difesa dei diritti umani per diventare un supporter di
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gioni che nulla hanno a che spartire con la libertà di opinione. Eppure Amnesty International ha inserito Begg nella lista di una petizione sulla difesa dei diritti umani inviata al governo britannico. Per Saghal è stato troppo: affermare che «Cageprisoners porta avanti un programma per la difesa dei diriiti dei prigionieri», è mascherare la vera essenza di quell’organizzazione. O, nelle sue parole «dire solo una parte di verità». Ebbene, tanto è bastato a farle perdere il posto di lavoro. E mentre vi sto scrivendo, so con certezza che ha non poche difficoltà a trovare un avvocato pronto a rappresentarla. Già, perché è dura mettersi contro Amnesty: il troppo prestigio fa paura. «Benchè sia stato detto che bisogna difendere chiunque, non importa che reato abbia commesso lei dice - è chiaro che se sei una donna anglo-asiatica, atea e laica, non hai il diritto alla difesa da parte del nostro ordinamento giuridico». Questo potrebbe ovviamente cambiare, e mi auguro che sarà così. Ma Sahgal non è completamente in errore. Amnesty International non è nata per difendere chiunque, non importa cosa abbia fatto. Nessuna organizzazione al mondo potrebbe sperare di farlo.
I retroscena sono altrettanto
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semplici da raccontare. Moazzem Begg, cittadino britannico, è stato arrestato in Pakistan dopo essere scappato dall’ Afghanistan all’indomani dell’avvio della War on Terror, nel 2001. Condotto a Guantanamo, è rimasto in prigione per un certo periodo e poi rilasciato. Da quel momento è diventato la mente e il braccio di un’organizzazione che si chiama Cageprisoners. Begg non nega affatto di essere stato un attivista
islamico e di essere volato in Afghanistan proprio per questo. Nè ha mai ricusato una sua dichirazione: «Il governo talebano è in assoluto il miglior governo possibile per l’Afghanistan». Cageprisoners ha fra le sue fila anche un altro membro che si chiama Asim Qureshi, che parla regolarmente in difesa del jihad e sostiene pubblicamente il gruppo terrorista
portato un chiarimento con la direzione. E invece no. La donna è stata immediatamente sospesa dai suoi incarichi.
I terroristi dell’Ira, gli spietati Khmer rossi e i generali Pinochet e Videla non finirono nella lista di Amnesty quando si trovarono sul banco degli imputati. Sarebbe stato impossibile il solo pensarlo
tutta quella ideologia terzo mondista che si occupa di commercio equo e solidale, di povertà, di traffico di armi.
Ma vede solo i traffici dei governi e mai quelli delle organizzazioni paramilitari come le Farc o Sendero luminoso. E che dire del silenzio su migliaia e migliaia di prigionieri politici in Egitto, la persecuzione religiosa in Arabia Saudita ai danni dei musulmani sciiti, la drammatica situazione dei campi profughi in Iraq? A destare smarrimento tra i fan di Amnesty anche la discutibilissima posizione espressa dalla Ong sulla guerra a Gaza, la cosiddetta operazione Piombo Fuso lanciata da Israele lo scorso anno. Il suo rapporto è infatti quantomeno squilibrato. Secondo gli ufficiali dell’esercito di Davide, l’associazione per i diritti umani avrebbe ignorato gli sforzi fatti dai soldati israealiani per evitare vittime civili durante l’offensi-
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Hizb-ut Tahrir (messo al bando in molti Paesi musulmani).
Cageprisoners inoltre difende uomini del calibro di Abu Hamza, leader della moschea che ha dato asilo a Richard “shoe bomber” Reid e molti altri criminali che della violenza fanno il loro vessillo e che si sono macchiati di crimini orrendi e sono poi finiti in galera per una serie di ra-
va contro Hamas lanciata all’inizio del 2009.«Il rapporto - secondo lo stato maggiore israeliano - prova che Amnesty è stata vittima delle manipolazione di Hamas, un’organizzazione terroristica». Amnesty ha accusato Israele di “crimini di guerra”e di non aver fatto “distinzione tra obiettivi civili e militari”uccidendo i civili, bambini inclusi, usati come scudi umani da Hamas.
tificio consiglio Giustizia e Pace, annunciò l’interruzione di ogni finanziamento rivolto ad Amnesty a causa della sua posizione filo-abortista dimostrata dopo essersi schierata per la depenalizzione dell’interruzione volontari di gravidanza.
«Un tradimento delle finalità istituzionali della stessa organizzazione» disse il cardinale «e della sua conseguente cultura della morte», per usare le parole di Giovanni Paolo II. In passato era stata solo la stampa dei moderati e dei neocon americani a prendere in giro l’organizzazione con il facile gioco di parole amnesty-amnesy, ora però dall’Economist ad Al Jazeera, sono in molti ad averla messa nel mirino assieme alla sua Segretaria generale. Cambierà Amnesty o fin quando a comandare sarà la Khan diventerà sempre più unfit to rule human rights?
Nel mirino la gestione di Irene Khan, settimo segretario generale, accusata di seguire molte istanze terzomondiste senza mettere mai sotto accusa clan come Sendero Luminoso o le Farc Peccato che per nove anni un quarto di milione di israeliani siano stati sotto il costante tiro dei razzi di Hamas e Amnesty non abbia mai detto una parola. Ad andare contro la Ong anche il Vaticano, che nel 2007, per bocca del cardinale Renato Martino, presidente emerito del Pon-
I terroristi dell’Ira, gli spietati Khmer rossi, i generali Pinochet e Videla non finirono nella lista di Amnesty quando si trovarono sul banco degli imputati. L’unica vera ragion d’essere di questa nobile fondazione è quella di difendere e proteggere tutti coloro che rischiavano la propria vita per aver detto ciò che pensavano. In teoria, suppongo, questo potrebbe includere coloro che pensano che le donne siano una proprietà, gli ebrei, gli omosessuali e gli Hindu degli schiavi da marchiare e tutto il resto del simpatico credo jihadista. Ma, come ho già detto, Cageprisoners difende uomini che sono andati ben oltre siffatte (e gravissime) dichiarazioni. E a questo punto è incomprensibile e incredibile che Amnesty abbia deciso di difendere un gruppo di persone di questa statura e una vera disgrazia che abbia scelto di sospendere dai suoi incarichi un’impiegata modello che ha solo dato voce al suo sincro e profondo disappunto. Infine, tornando ai primi giorni di Amnesty International. A farla grande fu il supporto assolutamente spontaneo e volontario. Di fatto, un grand numero di cittadini liberi decise di offrire il proprio tempo e il proprio denaro per una causa: la libertà di altre persone. Alcune stime ci dicono che questi volontari, oggi iscritti ad Amnesty, siano oltre due milioni. Ebbene, è quanto mai urgente che ogni membro di Amnesty che prende sul serio il principio fondativo dell’organizzazione, sia pronto a chiudere la borsa finché Begg non venga espunto dalla lista e Sahgal riassunta.
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Scontri. Il governo centrale si dice scioccato, ma non fa nulla di concreto iolenze induiste contro i cristiani nel Punjab: due chiese protestanti sono state date alle fiamme e sono state distrutte. Gli scontri sono scoppiati perché è apparso, prima sulle pagine di un libro per le scuole elementari e poi su altri media, un’immagine blasfema di Gesù, raffigurato con una bottiglia di birra e una sigaretta in mano. I cristiani avevano segnalato l’episodio al governo dello Stato, che aveva deciso la cancellazione dell’immagine, provocando la violenta protesta degli integralisti indù. L’aggressività si è particolarmente scatenata nel nordovest dell’India. Il ritratto blasfemo, in risposta alla scelta governativa, è stato esposto per le vie della città di Jalandhar e Batala. L’ondata di violenza è stata denunciata dall’agenzia vaticana Fides che racconta in dettaglio lo svolgimento dei fatti. Alcuni giovani cristiani sarebbero stati coinvolti in uno scontro perché hanno tentato di rimuovere l’immagine di Cristo con birra e sigaretta da un mercato di Batala. Un tentativo bloccato dall’aggressione di un folto gruppo di estremisti indù. Subito dopo, la violenza si è estesa all’intera città. Due chiese protestanti sono state attaccate, bruciate e completamente rase al suolo.I pastori sono stati picchiati a sangue e versano in gravi condizioni.Per la prima volta il ritratto blasfemo era apparso su un libro per le scuole elementari, edito da Skyline Publications a New Delhi. Le prime ad accorgersi erano state alcune suore cattoliche di Shillong, nello stato di Meghalaya, che avevano chiesto subito il ritiro del testo. Il governo aveva prontamente accolto la richiesta. Per tutta risposta, gli integralisti hanno attaccato sui muri della città il Cristo blasfemo. Da quel momento ore e ore di scontri, al termine dei quali, ad essere fermati dalla polizia sono stati solo i cristiani. Gli artefici della provocazione e dell’incendio sono invece tornati liberi a casa loro. Un comportamento quello delle locali forze dell’ordine piuttosto diffuso un po’ ovunque
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Ampareen Lyngdoh, ministro dell’Educazione di Maghalaya, ha condannato la scelta fatta dall’editore del testo che sta all’origine delle violenze. Si è detta “sgomenta” per quell’immagine pubblicata in un libro che dovrebbe finire nelle mani di milioni di giovani alunni. Ha fatto sapere che tutte le copie sono state ritirate dalle
India, nuove violenze: bruciate due chiese Gli scontri nascono da un’immagine blasfema di Cristo nei libri di testo di Gabriella Mecucci
biblioteche, dalle librerie, dalle scuole dello stato. I cristiani in India rappresentano una nettissima minoranza, pari al due per cento della popolazione, ma questo
In 5 anni gli attacchi indù sono stati 3800. Nel mirino non soltanto i cristiani, ma anche ebrei e musulmani
Parla padre Cervellera, missionario e direttore di AsiaNews
«Perseguitati da secoli» ROMA. Sono in crescita gli atti di violenza religiosa in India da parte degli induisti? Perché gli indù si scatenano contro i cristiani? Lo abbiamo chiesto a padre Bernardo Cervellera, missionario e direttore dell’agenzia AsiaNews. La violenza contro chi professa una religione diversa dall’induismo «c’è sempre stata. Oggi il fenomeno appare in aumento anche perché se ne ha notizia, mentre in passato molti di questi gesti sfuggivano al circuito informativo. L’aggressività contro i cristiani assume una forza particolare nell’Ottocento quando arrivano numerosi missionari sia anglicani che cattolici. In quel periodo gli induisti si dividono in due spezzoni: quelli che dialogano con i cristiani e quelli che si irrigidiscono in una posizione nazionalistica che vede in tutte le religioni, fatta eccezione per l’induista, e in tutte le razze, eccettuata l’ariana, dei nemici dell’India. Quanto ai cristiani, oggi vengono mosse loro le accuse più pesanti: ad esempio di essere i più
corrotti e di fomentare la corruzione. Questa volta le violenze si sono verificate nel Punjab, dove i cristiani sono pochi, al Sud ce ne sono di più… È così. Ma nel piccolo centro del Punjab dove si è verificato l’incendio delle chiese, e cioè Batala, la presenza cristiana è percentualmente molto forte. Al sud ed in particolare in Orissa, dove le comunità cattoliche e protestanti sono numerose si verifica una vera e propria persecuzione: centinaia di morti, migliaia di villaggi incendiati. Il governo centrale potrebbe fare di più? Ufficialmente il governo si schiera per la libertà religiosa. Ma il più grande partito dell’opposizione è nazionalista e induista integralista, quindi questa posizione pesa anche sugli atteggiamenti dell’esecutivo che assicura giustizia, ma in realtà in Orissa a fronte di trecento denunce di gravi violenze fatte da cristiani, si sono svolti un paio di pro(g.m.) cessi in tutto.
non frena l’odio nazionalista di chi identifica la religione con gli “invasori occidentali”. Del resto nel Paese, negli ultimi cinque anni, sono nettamente aumentati le violenze religiose ed etniche.
Il dato è stato fornito dal ministro degli Interni alla Camera. Fra il 2004 e il 2009 gli attacchi estremisti sono stati 3800. Si tratta naturalmente delle aggressioni rilevate dalle autorità, ma il numero potrebbe essere nettamente superiore anche perché molti episodi non vengono denunciati: chi li subisce infatti preferisce non presentarsi alla polizia visto che esporsi può significare diventare oggetto di ulteriori violenze. La crescita dell’aggressività induista è continua e progressiva: nel 2004 gli attacchi erano stati in tutto 677, mentre nel 2009 sono diventati 943. Mentre il governo di Delhi cerca di ricorrere ai ripari, le vittime della violenza lo accusano di promesse alle quali non corrispondono mai i fatti.Il caso dell’Orissa è il più eclatante. In un incontro promosso il 7 dicembre scorso a Berhampur, leader cristiani, attivisti per i diritti umani e abitanti del Kandhalman, hanno fatto il punto della situazione: oltre 5mila case bruciate o saccheggiate, quasi 300 chiese distrutte, più di 50mila sfollati. Le vittime dei pogrom diffidano del buon esito dei processi, per questo hanno dato vita ad un’associazione per difendere chi ha subito gli attacchi dell’estremismo induista. I problemi irrisolti sono innumerevoli: dalla lentezza della ricostruzione delle case e delle chiese, all’insicurezza in cui sono costretti a vivere oggi i non indù. Mentre in tutta l’India si fa più forte la richiesta che cessino gli attacchi e che il governo s’impegni realmente a favore della pacificazione e del rispetto, continuano ad esplodere gravi focolai di intolleranza e di violenza. Gli episodi verificatesi nel Punjab non sono altro che la punta di un iceberg che “pesca” in profondità e contro il quale si fa ancora troppo poco. In realtà, all’interno del mondo politico regna una grande divisione sulle scelte da fare. Questo produce una sorta di paralisi istituzionale, grazie alla quale gli integralisti sono liberi di continuare a perpetrare violenze di ogni tipo.
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Il generale McChrystal si scusa con Karzai: «Danni collaterali»
Le autorità cinesi bloccano una protesta pacifica nel Gansu
Afghanistan, strage di civili in due attacchi della Nato
Tibet, arrestati altri tre monaci buddisti
KABUL. Il generale McChrystal
LHASA. In un raro segno di pro-
si è dovuto scusare con il presidente Karzai a causa dei “danni collaterali” causati dalle operazioni Nato in corso. Sono 27 i civili rimasti uccisi, domenica, in un attacco dell’Alleanza atlantica nella provincia afghana meridionale dell’Uruzgan: il nuovo bilancio è stato fornito dal governo di Kabul, che ha definito l’incursione dell’Alleanza «ingiustificabile». In precedenza l’esecutivo afghano aveva parlato di 33 morti: tra le vittime vi sarebbero quattro donne e un bambino, mentre altre 12 persone sono rimaste ferite. La Nato ha confermato che domenica erano stati colpiti tre veicoli in cui si sospettava viaggiassero degli insorti talebani: solo dopo si è scoperto che a bordo dei mezzi vi erano donne e bambini. Secondo quanto riporta il sito web del New York Times, il comandante delle forze statunitensi in Afghanistan, il generale Stanley McChrystal, si è scusato personalmente con il presidente afghano Hamid Karzai per l’accaduto: «Siamo estremamente addolorati per la tragica perdita di vite innocenti», ha affermato il generale. «Ho detto chiaramente che le nostre forze sono qui per proteggere gli afgani, e che l’uccisio-
testa, centinaia di tibetani hanno manifestato pacificamente contro la Cina il giorno del Capodanno lunare. I manifestanti hanno chiesto al governo cinese di rilasciare i loro compatrioti, arrestati durante le proteste che sono esplose in Tibet nel marzo del 2008. La polizia ha caricato e allontanato i dimostranti, arrestando tre persone.Nel frattempo, dopo l’atteso incontro con il presidente americano Barack Obama, il Dalai Lama si è detto “tranquillo” riguardo l’accoglienza di basso profilo con cui è stato ricevuto alla Casa Bianca: «Dopo 60 anni di esilio, sono abituato a tutto questo. La cosa importante è vedersi faccia a faccia, il resto non conta mol-
Maxi retata in Turchia contro l’esercito Fermati 40 militari. Erdogan: «Preparavano un golpe» di Marta Ottaviani
ISTANBUL . Golpe sventato secondo il governo, regolamento di conti secondo una parte del Paese. Sta di fatto che ieri in Turchia è andata a segno una retata senza precedenti. Fra ieri notte a questa mattina all’alba almeno 40 persone sono state fermate all’interno delle indagini su Ergenekon, l’associazione segreta accusata di voler attuare una strategia della tensione, destabilizzare il Paese e far cedere soprattutto l’attuale esecutivo islamico-moderato, guidato da Recep Tayyip Erdogan. Al momento ci sono circa 300 persone sotto accusa per questi capi di imputazione, ma la retata di ieri è da considerarsi straordinaria perché per la prima volta sono finiti dietro le sbarre in un colpo solo 14 alti membri dell’esercito, di cui 12 ancora nel pieno delle loro funzioni. Fra i pezzi da novanta ci sono Ibrahim Fitina, ex comandante delle forze aeree e Ozden Ornek, ex comandante delle Forze di Mare e già nel mirino della magistratura per alcuni suoi diari, rinvenuti nel 2007, che parlavano di un golpe che stava per essere attuato nel 2004, durante il primo mandato di Recep Tayyip Erdogan e nel quale erano coinvolte 4 grosse cariche dell’esercito che però non furono mai identificate. Il premier Erdogan è molto soddisfatto. Parlando da Madrid dove si è recato in visita ufficiale su invito di Re Juan Carlos, il primo ministro turco ha detto «Le nostre forze di sicurezza hanno avviato oggi un processo di detenzioni. Sino ad ora sono state arrestate più di 40 persone», aggiungendo subito dopo che era stato sventato un vero e proprio golpe. L’aria ad Ankara è tesa. Il capo di Stato maggiore turco, Generale Ilker Basbug, non ha ancora fatto dichiarazioni però ha fatto sapere di aver interrotto il viaggio di Stato in Egitto programmato proprio per ieri. La retata di militari di ieri, in particolare, farebbe parte di un’operazione più complessa, sempre all’interno di Ergenekon, chiamata“Bayloz”, il martello, in turco e che parla chiaramente di un golpe contro l’attuale esecutivo. A rivelarne l’esistenza è stato qualche settimana fa il quotidiano Taraf, che ha pubblicato in esclusiva carte dal contenuto esplosivo, del quale però deve ancora essere verificata l’at-
tendibilità. Il Paese è spaccato in due. Da una parte c’è chi crede che un repulisti generale come quello messo in campo dalla indagini su Ergenekon sia la grande occasione per la Turchia di liberarsi da un passato molto doloroso, segnato da tre golpe militari ufficiali e da vari tentativi di correzione. Sono gli elettori dell’Akp, e più in genere quella Turchia che si considera progressista ed europea e che vorrebbe vedere definitivamente attuato quel processo di democratizzazione che Erdogan ha portato avanti grazie alle sue riforme.
Dall’altra parte però c’è il Paese di chi non si fida e continua a vedere nell’esecutivo islamicomoderato una minaccia per la tenuta dello Stato laico. Ergenekon sarebbe insomma il mezzo da parte dell’esecutivo di liberarsi di oppositori politici scomodi, come i militari e la magistratura, da sempre garanti dell’ordinamento secolare dello stato turco.A dimostrarlo, secondo i detrattori del premier e anche alcuni osservatori internazionali, il fatto che su decine di arresti fino a questo momento solo una parte sarebgiudicati bero realmente pericolosi. A destare sospetti c’è anche la linea editoriale del quotidiano Taraf, che si sospetta essere finanziato dal pensatore islamico Fetullah Gulen (in autoesilio negli Stati Uniti) e che da quando è uscito in edicola ha come punto principale della sua linea editoriale quello di pubblicare documenti compromettenti contro l’esercito. L’atmosfera è molto tesa. L’attuale capo di Stato maggiore, fino a questo momento ha richiamato alla calma e incontrato regolarmente il premier Erdogan su richiesta del presidente della Repubblica Abdullah Gul. Ma nell’ultima conferenza stampa aveva anche dichiarato che pure la pazienza dell’esercito aveva un limite. Non aveva specificato che limite fosse e in molti sono certi che non si trattasse della minaccia di un golpe. Una cosa è certa: con le elezioni che si avvicinano (sono previste per il prossimo anno) Erdogan si trova con un programma elettorale ancora incompleto e con esercito, magistratura e una parte del Paese che di lui non si fida.
Due i pezzi da novanta: Ibrahim Fitina, ex comandante delle forze aeree e Ozden Ornek, ex comandante delle Forze di Mare
ne o il ferimento fortuito di civili mina la loro fiducia nella nostra missione. Raddoppieremo gli sforzi per guadagnarci quella fiducia».
Intanto il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, ha detto ieri a Bruxelles che non sarà l’italiano Ettore Sequi il rappresentante dell’Ue in Afghanistan, ma che l’Italia «non è delusa» per questo. Sequi era già stato rappresentante dell’Ue a Kabul. Ma Frattini, evidentemente già informato della scelta della Ashton, arrivando al Consiglio Ue, ha annunciato che vi sarà un avvicendamento. «Non c’è delusione da parte dell’Italia - ha detto - si tratta di una normale rotazione».
to». Sembrano così confermate le teorie di alcuni analisti, secondo i quali questa amministrazione americana, complice anche la crisi economica che la lega a Pechino, non ha intenzione di intervenire sulla questione tibetana.
In ogni caso, la popolazione locale non sembra perdere le speranze. Secondo alcuni testimoni oculari, l’imprevista protesta si è verificata nella provincia sudoccidentale del Sichuan. Centinaia di monaci e monache buddisti, provenienti dai monasteri di Gede e Se e dal convento di Mani, si sono riuniti nella città di Ngaba, che i cinesi chiamano Aba. Secondo Dekyi Dolma, monaca di Ngaba residente a Dharamsala, i luoghi di culto che si sono uniti alla protesta sono invece «almeno otto o nove. Si sono riuniti per un sit-in, chiedendo alle autorità che fine hanno fatto i tantissimi tibetani arrestati nel 2008. Alla manifestazione c’erano anche dei bambini, ma la polizia li ha circondati e costretti ad andare via.Tre persone, che non hanno fatto nulla, sono state arrestate». Secondo le fonti ufficiali di Pechino, le proteste di marzo si sono concluse con la morte di 22 persone. Secondo il governo tibetano in esilio, invece, le vittime sono oltre 220.
cultura
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Ricorrenze. La casa editrice fondata da Marco Cassini e Daniele di Gennaro celebra l’exploit di quest’anno con una serie di iniziative speciali
Piccoli già grandi Da magazine di nicchia a solida realtà libraria: così la Minimum Fax è diventata protagonista di Valerio Venturi
MILANO. I piccoli diventano grandi. L’editoria italiana invita al cenobio dei numeri uno delle realtà che hanno solo qualche lustro sulle spalle – ed è un bene: si tratta di piccoli editori che hanno scommesso sul nuovo, su un modo inedito di presentarsi, di raccontare la realtà; di soggetti che hanno svolto attività di scouting e di attenta importazione.
Tra questi inediti protagonisti, non si può non nominare la Minimum Fax, azienda strutturata e solida, ormai ben inserita nel panorama culturale italiano. Pensare che la casa editrice romana, fondata da Daniele di Gennaro e Marco Cassini nel 1993-’94, è l’evoluzione di una rivista nata da corsi di scrittura creativa; era tutta in nuce, per linee-guida, in un magazine che girava per Roma e che consisteva soprattutto in una serie di rubriche: “Ipse dixit”, collana di autorecensioni lampo; “Mosaix”, schegge di letteratura comica; “Faxtotum”, una bussola per orientarsi nell’ universo dei premi e degli appuntamenti del settore. Il periodico prevedeva anche un inedito firmato da un grande nome e uno spazio allestito come un laboratorio di scrittura a puntate - a cui hanno partecipato autori come Dacia Maraini, Maria Luisa Spaziani, Dino Verde e Stanislao Nievo. Molti intellettuali, tra cui Raffaele La Capria, Sandro Veronesi, Filippo La Porta, Gino Castaldo, Goffredo Fofi, si appassionarono al foglio che ancora aveva un’esistenza semiclandestina. Fu allora che Cassini e di Gennaro decisero di fare il gran salto: nel 1994 uscirono le prime due collane di libri: “Filigrana”, saggi sulla teoria della scrittura, e “Macchine da scrivere”, che portava per la prima volta in Italia gli storici libri-intervista della “Paris Review”. Poco dopo apparve la collana “Sotterranei”, dedicata alla narrativa americana, alla musica e alla poesia. Quindi la “Nichel”, dedicata alla nuova narrativa italiana, e “I libri di Carver”, di cui nel frattempo la Minimum Fax era riuscita ad ottenere i diritti per la pubblicazione. Nel 2003 nacque “minimum fax
media”: obiettivo, produrre audiovisivi per la televisione e film per il cinema. Poi la strada dell’editrice, che ha conquistato spazio e lettori, si è ancora allargata: recuperando lo spirito originario, si organizzano eventi e c’è una libreria di proprietà. Minimum Fax, che pubblica per l’Italia libri di Raymond Carver, Richard Yates, Charles
Bukowski, David Foster Wallace, Lester Bangs e Lawrence Ferlinghetti, vanta anche bei nomi nella collana di narrativa italiana: sono state editate, tra le altre, le storie di Ernesto Aloia, Antonio Pascale, Ivano Bariani, Paolo Cognetti, Raffaele La Capria, Nicola Lagioia, Giordano Meacci, Francesco Pacifico, Valeria Parrella, Fabio Stassi, Marco Drago, Christian Raimo, Carlo D’Amicis e Paolo Mascheri. Le ’new entry’ di peso sono rappresentate da un Giuseppe Genna versione sperimentale e da Giorgio Vasta, autore “freddo” che può non piacere – non è sacrilegio – ma che è celebrato da buona parte della critica e vende bene.
Marco Cassini racconta la “mirabile impresa” al cronista Antonio Prudenzano di affaritaliani.it. «Quest’anno le cose stanno andando benissimo. Nonostante la crisi, infatti, nei primi mesi del 2009 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso siamo a +54% di fatturato». I numeri sono il risultato di due investimenti felici: Il tempo materiale di Giorgio Vasta e la riedizione di Revolutionary Road di Richard Yates. Ma anche di molte altre politiche. Cassini spiega come riescono a ’catturare’ grandi autori o a convincere piccole scoperte a non fuggire, o a ritornare a pubblicare con loro: i grandi esercitano fascino, ma «ormai è scomparsa la consuetudine del legame indissolubile tra autore ed editore. Così spesso sono gli stessi scrittori a preferire per un determinato libro un editore più piccolo: a noi è successo di recente con Giuseppe Genna; anche Domenico Starnone si aggiungerà alla nostra famiglia, come pure Laura Pugno, che ha già pubblicato con Einaudi». Ed ancora: «La nostra linea editoriale prevede di pubblicare ogni anno un esordiente assoluto. Nel 2009 è toccato a Peppe Fiore con La futura classe dirigente, poi sarà il turno di Stefano Jorio. I grandi editori evidentemente hanno limiti strutturali, e si affidano al risultato della nostra prima scrematura. La nostra collana dedicata all’editoria italiana è quella con più anni alle spalle
A sinistra, dall’alto al basso, Dacia Maraini, Goffredo Fofi e Gino Castaldo. A destra, Raffaele La Capria, M.L. Spaziani, Dino Verde e Filippo La Porta, tutti protagonisti del progetto Minimum Fax. Qui sotto, di Gennaro e Cassini
in circolazione. Da sempre, inoltre, statisticamente le nostre antologie di esordienti vedono gli scrittori partecipanti guadagnarsi in breve tempo importanti contratti con le principali case editrici». Poi si parla della struttura della casa editrice, che conta «8 dipendenti, 4 collaboratori, a cui va aggiunta una vasta rete di consulenti, traduttori e curatori», e delle numerose attività trasversali e di collaborazione: «organizziamo dei corsi per aspiranti editori, e quindi entriamo in contatto con molte nuove realtà, come NeoEdizioni e i casertani di Spartaco». Parole anche per gli scenari del futuro prossimo, rappresentato quasi sicuramente dagli e-book: una possibilità ed un rischio; per Cassini, difficile dire se amplieran-
no il parco-lettori o se invece – a causa della pirateria – porteranno ad una implosione di un settore che – incredibile a dirsi, in un Paese in cui si leggono pochissimi libri – riesce a portare utili e a far emergere talentuosi produttori di contenuti.
Alla Minimum comunicano comunque che sono pronti per le sfide e che hanno tante idee per il “post”. Sul sito sottolineano pure l’importanza delle iniziative sociali: «Quest’anno (come pure è stato fatto fatto più volte in passato in occasione di offerte speciali, come ricorderanno i molti lettori che hanno aderito alle nostre campagne del 2009 e che ci hanno permesso di fare donazioni alla Croce Rossa Italiana in occasione del terremoto dell’Aquila, e all’Airc in occasione dell’offerta natalizia) senza che i lettori debbano fare nulla di più, sarà minimum fax a donare 10 euro in beneficenza
cultura
23 febbraio 2010 • pagina 19
In ristampa la collana dedicata alla settima arte, che brinda ai dieci anni
Alla festa del cinema con Truffaut e Scorsese Un pregevole catalogo che racconta la storia dei film dalla parte dei registi
er festeggiare i successi conseguiti negli ultimi mesi, Minimum Fax si celebra con il ripristino della collana “minimum fax cinema”: in una più moderna ed elegante veste grafica, verranno riproposti i titoli di maggior successo, accanto a nuove scoperte, che erano stati presentati nel 2000.
P
per ciascun ordine “Abbonaminimum” ricevuto. La casa editrice pubblicherà sul suo sito copia del bonifico effettuato. Per il 2010, ovviamente, i destinatari della donazione saranno le associazioni che operano ad Haiti, in particolare Agire, l’associazione italiana di risposta alle emergenze. «Poi una new per i romani e i ’metropolintani» del Belpaese: «offriamo un abbonamento gratuito annuale all’intera rete a tutti i dipendenti che si impegnino a utilizzare i mezzi di trasporto pubblici per recarsi in casa editrice. Questo per disincentivare l’uso dell’automobile e favorire così quello dei mezzi pubblici, per una maggiore tutela dell’ambiente».
Insomma: carino, no? In attesa di trovare simili messaggi sui siti dei grandi editori, impossibile non riconoscere a Minimum Fax ed altri – come le edizioni Isbn svincolate dal gruppo Saggiatore – il coraggio e la capacità di aver riempito preziosi spazi lasciati vuoti da realtà che ormai sono istituzionali, ma forse un po’ più pigre e sicuramente meno veloci e disposte a spostarsi dal ’mainstream’ all’underground.
“Minimum fax cinema” è di fatto diventata un punto di riferimento per gli appassionati e gli studiosi della settima arte; i “castorini” sono forse inarrivabili, ma nelle pagine dell’editrice romana il cinematografo viene raccontato bene e dalla viva voce dei maestri (da Charlie Chaplin a Stanley Kubrick, da Orson Welles a Woody Allen, da Alfred Hitchcock a Werner Herzog): sia sotto forma di approfondite interviste (La politica degli autori, La Nouvelle Vague), che di saggi critici (Antonin Artaud, Jean-Luc Godard), sceneggiature (Lars Von Trier), reportage (Lillian Ross, Eleanor Coppola); opere in cui trovano spazio la metodologia e la tecnica, ma anche l’entusiasmo e il sogno per la ’settima arte’ che anima gli stessi editori romani. Si inizia alla grande: i primi titoli sono dedicati a François Truffaut e a Martin Scorsese. Il piacere degli occhi è il libro in cui François Truffaut aveva deciso di presentare una selezione di quanto aveva scritto in più di trent’anni, prima come critico e polemista per riviste celebri come Arts e Les Cahiers du cinéma, fino ai saggi degli anni Settanta e Ottanta in cui, ormai cineasta affermato, traccia una galleria di ritratti vividi e penetranti di registi (Rossellini, Hitchcock, Orson Welles, Woody Allen), scrittori (André Gide, François Mauriac) e attori (Fanny Ardant, Julie Christie, Charles Aznavour, Gene Kelly). Si tratta di una testimonianza importante di un artista che ha vissuto dall’interno un periodo tra i più fecondi del cinema francese e mondiale e che apre a nuove chiavi di lettura. Scrive Truffaut: «Fare un film significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio. Significa prolungare i giochi dell’infanzia, costruire un oggetto che è allo stesso tempo un giocattolo inedito e un vaso dove si disporranno, come se si trattasse di un vaso di fiori, le idee che si provano in questo momento o in modo permanente. Il nostro film migliore è forse quello in cui riusciamo a esprimere, più o meno volontariamente, sia le nostre idee sulla vita che le nostre idee sul cinema».
ma volta fuori dalla Francia, gli articoli scritti da Martin Scorsese per riviste del settore (in particolare quelli realizzati per il numero 500 di Cahiers de Cinema), nonché interviste e conversazioni finora inedite in Italia. Il regista americano racconta in prima persona i suoi capolavori: dal rapporto con gli attori (Robert De Niro su tutti, ma anche Leonardo di Caprio) alla sceneggiatura, dalla colonna sonora agli aspetti tecnici del montaggio, e commenta con la passione del cinefilo e l’esperienza del grande maestro i film che ha amato e l’hanno ispirato, così come lo stile dei grandi autori di cui ha subito il fascino fin da ragazzo. Si susseguono aneddoti dal set, ritratti di amici, riflessioni teoriche, ricordi familiari e dichiarazioni di poetica: una raccolta imperdibile per qualunque fan del regista. Insomma, due chicche che vanno ad aggiungersi ad un nutrito catalogo – soprattutto di narrativa italiana e straniera – che prevede poi testi dedicati a Kubrick, Kurosawa.... «Già nel 2000 la casa editrice pubblicò il suo primo libro di cinema, La politica degli autori», spiegano alla Minimum: «allora non esisteva uno spazio apposito nel nostro catalogo, e quindi il volume uscì come fuori collana. Ma da quel momento iniziammo a interrogarci sulla possibilità e sulla necessità di continuare a esplorare quel territorio. Oggi “minimum cinema” è riconosciuta come uno strumento di consultazione, di studio, di lettura per gli appassionati e gli esperti del settore». Mica male. Così «nel 2003 spingemmo quella nostra riflessione ancora oltre, e decidemmo di replicare l’esperienza di costituzione di un gruppo creativo, dando vita a ’minimum fax media’: una società di produzione di film e documentari nata dall’incontro con la produttrice indipendente Rosita Bonanno, a cui si è di recente affiancato l’infaticabile Matteo Raffaelli». La collana dedicata ai grandi maestri della settima arte va quindi integrata dai progetti libro+dvd usciti in libreria: dal reading-concerto della cantautrice-poetessa Suzanne Vega al recentissimo Memorie di Adriano, in cui Giorgio Albertazzi interpreta il grande imperatore.
Il debutto nel 2000 con “La politica degli autori”: l’inizio di un’avventura che oggi è il punto di riferimento per cinefili e studiosi
La seconda uscita è Il bello del mio mestiere: un testo che raccoglie, tradotti per la pri-
Casa editrice “ufficiale”dell’ultimo Festival Internazionale del Film di Roma, la creatura di Cassini e company guerreggia sul campo con Fandango e altri bei nuovi nomi. Bene per i fruitori di oggetti culturali; lontano dalle televisione – su internet e in libreria – è ancora possibile trovare nutrimenti sani. (v.v.) Storie e cinema.
cultura
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opertina semplice, immagine colorata, scritte rosse su fondo chiaro. Non è certo un libro comune Polvere e Luce, il terzo lavoro di Massimiliano Coccia, scrittore emergente romano di ventiquattro anni. Un libro che rappresenta, insieme con altri, una mosca bianca rispetto a tutta la scelta che ci viene messa a disposizione nelle grandissime librerie che incontriamo quando passeggiamo per le strade delle nostre città. Un libro che sa di piccole botteghe, di biblioteche impregnate dall’odore d’epoche diverse, dove l’antica qualità del testo che rende un libro degno di questo nome batte il conteggio minimo di parole richiesto ora dagli editori.
C
Dopo altri due libri, Gli occhi di Piero, storia di Piero Bruno un ragazzo degli anni 70 (Allegre) e Esterno estivo (Terre Sommerse), un cortometraggio e uno spettacolo teatrale all’attivo, Massimiliano Coccia propone una raccolta di poesie e di racconti su centoquaranta pagine da leggere tutte d’un fiato. «Scrivo per raccontare, per dire la mia» ammette l’autore, aggiungendo che «un libro, quando ci lascia qualcosa, quando unisce persone lontane, quando ci fa riflettere sul valore delle cose che viviamo, smette di essere solamente una raccolta di pagine e diventa un volano di bellezza e cambiamento». Un modo per cambiare quello che ci circonda, insomma. Il titolo, evocativo, ha per Coccia grande importanza, dal punto di vista personale e sulla base della vita in sé: «La polve- l’immaginario dell’autore, ma re e la luce sono due elementi sempre consapevoli della straciclici nella mia vita. Dove c’è da che si sta percorrendo. polvere - ci spiega il giovane «Le stanze sono il luogo dove scrittore - c’è vita o c’è memoria. Dove c’è luce, c’è bellezza o delle cose che ti circondano o delle persone che ami». Polvere e Luce parla della quotidianità, dei sentimenti, della città e delle emozioni che ognuno di noi, giorno per giorno, vive con innocenza ma sempre con l’intelligenza critica necessaria a comprendere quello che ci circonda. Coccia sceglie le “stanze” per suddividere le varie parti del libro, inventandosi con astuzia e fantasia un artificio letterario sostitutivo ai capitoli, introducendo il lettore ad un vero e proprio percorso mentale dal quale difficilmente si può sfuggire. Leggere il libro è come passeggiare dentro un appartamento colorato, di Qui sopra, la copertina periferia o del pieno cendi “Polvere e luce”, il nuovo libro tro, perdendosi ad ogni di Massimiliano Coccia. In alto, passo nelle parole e nelun disegno di Michelangelo Pace
Libri. A tu per tu con Massimiliano Coccia, autore di “Polvere e luce”
«Ecco come i giovani possono affermarsi» di Bianca Penna tutto rimane celato in un velo d’intimità e segretezza, un posto dove può accadere di tutto, dove si sviluppa la nostra vita», commenta l’autore, ammettendo che è sempre stato colpito «dalle storie di molte persone anziane che raccontavano con orgoglio di essere nate nel letto nel quale ancora dormivano, e di vivere ancora nella loro prima casa che mai avrebbero lasciato». Le stanze hanno dunque il sapore pungente di una solida e concreta metafora delle radici, «che molto spesso in tanti dimenticano di avere».
C’è il racconto del muro e del ragazzo innamorato, divertente e profondamente realistico; ci sono le lettere mai spedite che tutti noi conserviamo in un cassetto, dolci, appassionate, dolorose; c’è l’amore, c’è la memoria che non va mai dimenticata; ci sono poeti e immagini in bianco e nero che rical-
Lo scrittore, 24enne romano, è già al suo terzo lavoro. Oggi ci racconta il nuovo libro e ci spiega come si può emergere nell’editoria cano fotografiche sensazioni passate, e poi c’è il “Fioraio”, il racconto «che narra di Naghib, un marocchino che vive in un chiosco nel quale vende fiori di giorno e di notte, insieme al suo compagno di vita, il suo cane Mustafà» e che rappresenta uno dei racconti a cui Coccia è più legato. Si tratta, ci dice, di «una storia intima e rappresentativa che è allo stesso tempo sintesi di moltissime cose, passando dall’amore alla morte, e toccando il ruolo della città di Roma».
Quella Roma che si dimostra immancabile nel libro, che rappresenta una città che non è nascosta, che è lì, forte e presente, protagonista come gli al-
tri delle pagine di questo libro: «È la città che amo e nella quale vivo - ci racconta Massimiliano -. Non si tratta di un recipiente sterile che contiene tutte le storie, o di un contorno fotografico, ma di un posto dell’anima che plasma ogni singola azione dei protagonisti». «Roma – spiega ancora Coccia – sa consolare come una madre, sa amare come una madre, anche come una donna offesa. Ma Roma non è mai rassegnata». «Polvere e luce nasce dall’esigenza di raccogliere racconti e poesie che erano sparsi nei meandri della mia stanza e degli appunti della mia vita. Dentro ci sono poesie e racconti che partono da almeno tre o quattro anni fa». Scrivere questo libro, per lo scrittore emergente, «è stata anche una vera e propria sfida nei confronti di un mercato letterario sempre più attento ai fenomeni commerciali e di massa piuttosto che al valore di ciò che si scrive». «Sono pochi gli editori che credono in un progetto come questo, ma io fortunatamente ne ho trovato uno – ci racconta -. Gli altri che ho incontrato per presentare il mio manoscritto hanno dimostrato di apprezzare il progetto da un punto di vista letterario, ma tutti hanno avuto grosse riserve da un punto di vista commerciale». «La poesia non la legge nessuno», era la frase che più spesso costituiva la più attenta giustificazione per i numerosi rifiuti ricevuti.
Eppure, come lui stesso ci racconta, «dalle presentazioni, dai reading, dalla gente che mi scrive e che compra il libro sto avendo grandi soddisfazioni. Sono gli editori e la scuola che hanno ucciso la poesia. Gli editori ci sono riusciti dando spazio solo a dei prodotti spregevoli, mentre la scuola ha ucciso la poesia rendendola solamente una ripetizione mnemonica di versi». «La poesia – continua Massimiliano Coccia – può ancora esistere e le tante persone che comprano Polvere e luce ne sono in parte la dimostrazione». In Italia sono migliaia i giovani che ogni giorno inviano manoscritti agli editori, e che hanno come sogno di una vita quello di poter pubblicare i propri lavori. Secondo Massimiliano non bisogna solo non arrendersi, ma è soprattutto necessario combattere. «Combattere perché se si ha qualcosa da dire prima o poi esce fuori. Combattere perché se siete sicuri delle vostre parole nessun editore può fermarvi. Combattere perché riuscirete prima o poi a trovare alleati ed editori che sapranno valorizzarvi. È difficile pubblicare un libro, ma non è mai davvero impossibile».
spettacoli
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Cinema. I pronostici della vigilia del Festival sono stati rispettati. Grande assente ma vero trionfatore, ovviamente, Roman Polanski
Berlinale, tutto secondo copione di Andrea D’Addio Alcune fotografie dell’appena concluso Festival del Cinema di Berlino, del quale (film a parte) si è molto parlato a causa dell’assenza del comunque premiato Roman Polanski. All’Italia è stato consegnato il premio Teddy Award grazie al documentario “La bocca del lupo”
BERLINO. L’Orso d’oro per il migliore film in competizione è stato assegnato al turco Bal (Miele). Semih Kaplanoglu, il regista, racconta la storia di un bambino di sei anni e della sua povera famiglia nel sud della Turchia. La loro unica fonte di reddito è la raccolta del miele, ma quando le api svaniscono, il papà si allontana per le montagne alla ricerca di nuovi alveari. Il suo non ritorno spinge il figlio prima al mutismo e poi ad un solitario e disperato viaggio per quei luoghi per cui ha sempre nutrito paura. Uno spaccato della vita di campagna nella penisola anatolica dove il progresso è ancora rappresentato da una piena alfabetizzazione e il rapporto con la natura non conosce web e moderne tecnologie. Raccontato ad altezza bambino, con un finale quasi fiabesco, il film ha convinto la giuria presieduta da Werner Herzog superando la concorrenza di The Ghost Writer di Roman Polanski e del russo How I ended this summer, che hanno ricevuto ex-aequo l’Orso d’argento. Proprio il regista polacco naturalizzato francese è stato il grande assente, per quanto annunciato, della premiazione. Al suo posto, sul palco a ritirare il premio, è salito il produttore del film che ha prima ringraziato e poi ha chiuso il discorso riportando una battuta dello stesso regista, sentito precedentemente via telefono: «Anche se avessi potuto, non sarei venuto visto che ogni volta che mi reco a un festival, mi arrestano». I pronostici della vigilia sono stati rispettati. Fin dal giorno della sua presentazione Bal ha ricevuto l’apprezzamento di giornalisti e spettatori. Unico film che sembrava poterlo impensierire era la commedia norvegese intrisa di humor nero, A Somewhat Gentle-
man con uno straordinario Stellan Skarsgård. Come ogni anno però la Berlinale ha preferito propendere un film più che mai serio e difficile, senza dubbio di difficile distribuzione internazionale, piuttosto che su un prodotto più leggero. Pochi saranno i film passati a Berlino che potremo vedere da noi: l’Italia, assieme alla Germania, è considerata uno dei mercati europei più difficili per film non americani. Le stes-
i diritti italiani. Buona prova è stata quella offerta dal cinema tedesco. Con lo storico Jud Suss si sono puntati i riflettori sulle modalità della propaganda nazista di Goebbels raccontando la storia vera dell’attore Ferdinand Marian, costretto suo malgrado ad interpretare uno spietato ed avido ebreo in uno dei film (l’omonimo Jud Suss) che ebbero più successo in Germania all’inizio degli anni ’40. Con il corale Shahada, sono state invece raccontate, senza ipocrisie o volontà di spettacolarizzare, varie storie di mussulmani di seconda gene-
L’Italia ha comunque portato a casa il Teddy Award, premio che la rassegna tedesca assegna al migliore film con tematica omosessuale.Ad aggiudicarselo, il documentario “La bocca del lupo” se pellicole statunitensi con cast conosciuti che sono passate al Berlinale Palast, non hanno sicure distribuzioni, se si escludono l’opera di Polansky e il bruttino Greenberg con Ben Stiller. L’atteso thriller The killer inside me con Casey Affleck e Jessica Alba si è rivelato un film da cui tenersi alla larga per l’ingiustificata gratuità della violenza rappresentata (tante le fughe a metà proiezione), il biografico Howl su Allen Ginsberg con James Franco è sembrato più un esercizio di stile che un film a tutto tondo, mentre la commedia Please Give con Amanda Peet e Rebecca Hall ha annoiato non poco sia la critica che il pubblico pagante (classico esempio in cui non succede niente). Da segnalare in positivo invece è The kids are all right, simpatica e profonda riflessione sull’amore omosessuale tra donne, interpretato magistralmente da Julianne Moore e Annette Bening, di cui purtroppo nessuno ha finora comprato
razione a Berlino. I premi per migliori attori sono andati tra gli uomini, a pari merito, ai protagonisti di How I ended this Summer, Grigori Dobrygin e Sergei Puskepalis, mentre tra le donne alla giapponese Shinobu Terajiima, interprete dello sconvolgente Caterpillar (storia vera di un ex soldato tornato dal fronte nipponico-cinese senza nessun arto e con il volto sfigurato) Anche l’Italia porta qualcosa a casa: è il Teddy Award, importante premio che il festi-
val tedesco assegna al migliore film con tematica omosessuale. Ad aggiudicarselo è il documentario La bocca del lupo di Pietro Marcello, già passato con successo a Torino e dallo scorso venerdì nelle sale italiane.
Dovendo tirare le somme di questo sessantesimo festival di Berlino c’è prima di tutto da confermare come il livello della competizione ufficiale attesti al di sotto dai concorrenti festival di Cannes e Venezia. Tanti sono i film già presentati al Sundance e a Toronto e il criterio di scelta sembra sempre orientato a soddisfare unicamente il pubblico cinefilo. Poco male: le sale cinematografiche che ospitano la manifestazione registrano ogni giorno il tutto esaurito, sia che si trovino al centro della città, che nelle zone periferiche. Le file davanti ai botteghini sono all’ordine del giorno. Ci è capitato di vedere anche gente con il sacco a pelo aspettare nelle anticamere dei cinema l’apertura delle casse alle nove del mattino. Non è importante che film andare a vedere, ma è fondamentale in qualche modo partecipare ad un evento che unisce per dieci giorni tutta la città. Se da una parte il festival non offre grandi anteprime internazionali (a parte il film di Polanski, Shutter Island di Martin Scorsese e Nine di Rob Marshall erano già stati presentati prima e altrove), il mercato dei film è senza dubbio la parte forte del festival. All’interno dell’edificio del Gropius Bau, poco distante da quella Postdamer Platz dove hanno luogo première e red carpet, si sono riuniti con successo distributori e produttori di tutto il mondo. L’Italia è riuscita a vendere i diritti in Spagna e in altri paesi di tutta la trilogia di Federico Moccia (Amore 14, Scusa, ma ti chiamo amore e Scusa, ma ti voglio sposare), oltre che il film di Ferzan Ozptech Mine vaganti (presentato nella sezione collaterale Panorama).
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Per una nuova protezione civile con risorse, personale e mezzi degni Il campo base dei vigili del fuoco a Monticchio, frazione de L’Aquila, è stato eretto su una discarica di rifiuti tossici. Da mesi “gli angeli del terremoto”sono stati collocati a loro insaputa in un sito dove giacciono sostanze pericolose per l’uomo e per l’ambiente, lascito della ex Agriformula, azienda che produceva diserbanti, insetticidi, fungicidi. A fare la scoperta alcuni vigili del fuoco di stanza nel campo di Monticchio, che, in un’operazione di livellamento del terreno, hanno visto emergere contenitori dall’aspetto inquietante. Dall’Apat la preoccupante conferma: si tratta di sostanze chimiche come tetraconazolo, penthoate, carbaril. Ormai siamo all’epilogo finale delle nostre condizioni di lavoro. Dopo l’impegno svolto a l’Aquila, con turnazioni senza limite di orario, ci hanno fatto vivere per quasi un anno in mezzo ai veleni. E pensare che noi saremmo anche i garanti della sicurezza altrui! Non ci basta lo stralcio della protezione civile spa, vogliamo un’altra protezione civile, che non si occupi di grandi eventi ma delle vere emergenze sul territorio. Vogliamo che in questa nuova struttura, pensata per le necessità della cittadinanza, i vigili del fuoco ricoprano un ruolo centrale, svolgendo il soccorso tecnico urgente con risorse, personale e mezzi degni di un Paese civile.
Antonio Jiritano
ACCOGLIENZA E SOLIDARIETÀ Parlare di accoglienza e di solidarietà nel nostro Paese è importante, ma ciò cozza con una realtà che si fa preoccupante proprio per la mole ingente di stranieri in condizioni ultime che vedono nel nostro Paese il nuovo Eden. Le vicende di cronaca parlano chiaro, e ora bisogna fare i conti anche con gli scontri tra diverse nazionalità, per un grado di civiltà pregresso degli extracomunitari, che non può spalmarsi sul nostro territorio. Però mentre lo stesso Bossi fa ravvedere chi nel suo entourage parla di rastrellamenti casa per casa degli stranieri colposi, occorre domandarci come si sia arrivati a questa situazione che non è un fiore che sboccia dal giorno alla mattina; piuttosto è il risultato di una lunga catena di errori e mancanze legislative che non è difficile attribuire ai passati governi dove re-
gnava l’attuale opposizione. Ricordo che allora si parlava di immigrazione controllata come molte democrazie europee o gli stessi Usa, ma non si volle adottare il concetto che un problema si può gestire solo se misurato e limitato. Adesso molti responsabili si nascondono nelle solite critiche, mentre le rivolte scoppiano e ci marciano anche le intramontabili connivenze degli interessi del malaffare, che usa la povertà e lo sfruttamento per il proprio tornaconto.
Bruno Russo
SCHELETRI NELL’ARMADIO Non c’è niente da fare: il fenomeno della densità degli indagati che sbocciano come fiori nel deserto delle incertezze, sa troppo di propaganda antigovernativa in un momento prossimo alla consultazione elettorale. Eppure l’opposizione è sui fatti che
Tra terra e cielo Davanti a un arcobaleno come questo, gli antichi osservatori celesti si lanciavano nelle interpretazioni più fantasiose. Secondo la mitologia greca per esempio, questo cerchio colorato era il sentiero che percorreva Iris, messaggera degli dei, portando i messaggi dall’Olimpo alle case dei mortali
dovrebbe essere smentita, perché ancora una volta non è capace di creare un programma concreto, sostanzioso e innovativo sui principali problemi che attanagliano il Paese, e mantiene ben serrato il suo armadio dove giacciono chissà quanti scheletri.
Lettera firmata
INTERCETTAZIONI: DUBBI E INCERTEZZE È facile con una intercettazione finire sui giornali ed essere preda delle infamie che indubbiamente possono ledere seriamen-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
te l’immagine di una persona nella società e in particolare nel lavoro che uno svolge. Dove è finita la giurisprudenza che regola i danni morali di una persona, che sono di per sé motivo di cause giudiziarie? Se fosse certo il diritto anche in questo, lo stesso strumento dell’intercettazione non sarebbe così diffuso senza ritegno. Forse è l’ulteriore labilità dell’applicazione dello stesso codice civile e penale, che lascia oggigiorno solo dubbi e incertezze.
Gennaro Napoli
da ”Asharq Alawsat” del 21/02/10
Pronto Nasrallah? di Tariq Alhomayed stata una telefonata galeotta quella tra il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah e il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Tanto che alcuni membri dell’Allenza del 14 marzo (quella che ha vinto le ultime elezioni con Saad Hariri, ndr) hanno avuto da ridire. Fin qui tutto normale, in un Paese dove le ingerenze esterne non sono mai mancate. Visto anche che il leader iraniano chiedeva di essere pronti per rispondere a un’aggressione. Una prontezza militare che Ahmadinejad definiva dovesse essere sufficiente a rendere l’intervento degli israeliani – chiamati «sionisti» – l’ultima incursione in territorio libanese. Una specie di «madre di tutte le battaglie» e figlia dello stesso genere di retorica che non porto tanta fortuna a un’altro dittatore. Naturalmente la risposta di Nasrallah è stata in linea con la richiesta: «la resistenza è pronta, in buone condizioni e non teme la minaccia israeliana». Tutto secondo canoni, tradizioni oratorie e liturgie ben conosciute. La cosa buffa invece è stata la reazione di Ali Mekdad, membro del blocco parlamentare di Hezbollah (Alleanza 8 marzo, ndr).
È
Visto che l’accusa lanciata dai banchi della maggioranza era quella di voler trasformare il Libano in un’arena degli interessi iraniani. La risposta è stata sarcastica e fuori tono per il contesto parlamentare in cui si è svolta. Si invitava i membri della maggioranza a tornare all’università per studiare meglio «analisi politica». Forse sono gli stessi libanesi ad aver poca voglia di studiare questa materia e invece vorrebbero essere più attenti nel percepire i metodi dissimulatori usati dagli uomini di Hezbollah. Una
maniera per gestire meglio i rapporti con il partito di Dio e le sue perenni ambiguità. I libanesi sono perfettamente coscienti di tutto ciò che afferma il movimento sciita anche perché sia le affermazioni di Nasrallah che quelle di Ahmadinejad sono convergenti. Mercoledì scorso, durante una conferenza stampa a Teheran, il presidente iraniano ha affermato che nel caso Israele dovesse attaccare l’Iran «la resistenza islamica e le potenze regionali la finirebbero».
Lo stesso giorno il leader degli sciiti libanesi era apparso pubblicamente per lanciare minacce contro Israele. La prossima guerra contro i «sionisti» sarà occhio per occhio dente per dente. «Se attaccheranno le nostre infrastrutture, noi risponderemo facendo altrettanto» aveva promesso Nasrallah. Ciò che preoccupa è che ha anche affermato che «se gli israeliani dovessero bombardare i sobborghi di Beirut, Hezbollah bombarderà Tel Aviv». Non ha menzionato la capitale libanese nella sua interezza, ma solo i quartieri sciiti. Una distinzione pericolosa. Questo non tenendo conto delle disquisizioni sulla tradizione e la storia arabista di Beirut, decantata pochi giorni fa da Walid Jumblatt. Ora oltre la reazione dei libanesi al colloquio telefonico tra Ahmadinejad e il leader di Hezbollah, rimane il fat-
to che una guerra per l’Iran non è non sarà mai una guerra dei libanesi. Nonostante l’ambasciata iraniana di Beirut si sia subito affettata in chiarimenti e sottolineature del testo della conversazione telefonica, il messaggio sembra essere arrivato molto chiaro a tutti in Libano. Non è dei libanesi la guerra dei palestinesi, non lo è nemmeno quella degli arabi o quella di Teheran. Sarebbe un conflitto di origine settario per tentare di incendiare tutta la regione, ragione per cui gli iraniani continueranno a soffiare sul fuoco delle divisioni e alimentando le frizioni nelle fazioni contrapposte.
Ecco le ragioni per cui i libanesi dovrebbero studiare bene, più che l’analisi politica o geopolitica, il modo in cui le ambiguità del partito sciita di trasformano in discorsi e poi in azioni. E ricordando che le armi che Nasrallah definisce strumenti della «resistenza» contro gli invasori, poco tempo fa furono le stesse armi che a Beirut Hezbollah usò contro i libanesi.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Un modo dell’amore che è più forte della morte Giungono uno dopo l’altro i compleanni dei ragazzi. Io posso loro soltanto augurare anticipatamente ogni bene e mandare a tutti i baci di cui un padre in tali circostanze può disporre. Se si trattasse di dare in regalo un libro, consiglierei una storia della letteratura tedesca (Scherer? Vilmar? Mehring ti potrà consigliare). I ragazzi saranno ragionevoli, come lo furono per Natale, e limiteranno i loro desideri con consapevolezza del proprio valore. Acquisteranno una sempre più elevata comprensione dalle alte nozioni morali; i miei giovanotti la posseggono già in misura consolante, con mia grande gioia. Il modo di discorrere di Bobbi, che tanto ti ha rallegrato, si deve salutare come segno di natura che si sprigiona fresca da questo sottosuolo. Stanotte ho sognato mia madre - in modo strano - benché tu non l’abbia conosciuta, essa era con te e con i ragazzi. Come io, come noi tutti eravamo coi nostri genitori, con nostra madre, non si può descrivere con parole. Ciò si spiega con molte cose, anche con la pazienza delle nostre comuni pene e persecuzioni. In realtà esiste un grado e un modo dell’amore che è più forte della morte, al quale la morte non può nuocere: il morto continua a vivere nell’immagine e nel senso dei superstiti. Karl Liebknecht a Rosa Luxemburg
AL PDL COPYRIGHT RAPPRESENTANZA FEMMINILE DI QUALITÀ Il copyright della rappresentanza femminile di qualità appartiene al centrodestra. A chi ha cercato inutilmente per mesi di screditare la nostra classe dirigente femminile, rispondiamo con l’orgoglio di un partito che punta fortemente sulle donne. Donne che riescono a coniugare impegno politico ed eccellenza professionale a dimostrazione che, quando si hanno le capacità, è possibile farsi valere. Sfidiamo la sinistra a riuscire ad arrivare ad un simile risultato.Vorrei sottolineare che non si tratta di candidature di bandiera. Le quattro candidate del Pdl sono donne su cui puntiamo per governare. Sono certa che grazie al loro entusiasmo, alla loro dedizione, alle loro capacità riusciremo ad espugnare le roccaforti della sinistra dove il mito del buongoverno rosso, che ci hanno raccontato per anni, è crollato miseramente.
Barbara Saltamartini e Beatrice Lorenzin
STD NON GESTIRÀ IL CANILE COMUNALE DI CERNAVODA Std non ha firmato il contratto di gestione del nuovo canile pubblico. Il contratto era stato lungamente discusso tra le parti e approvato dal consiglio comunale lo scorso dicembre. La ragione per cui Std prende le distanze da tale progetto non sta nelle clausole capestro che esso contiene, ma è legata ai principi che ispirano gli amministratori locali. È stata infatti manifestata la volontà di voler “rastrellare” tutti i cani
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
ACCADDE OGGI
23 febbraio 1956 Nikita Khruscev attacca la venerazione di Josif Stalin come un culto della personalità 1958 Ribelli cubani rapiscono il 5 volte campione del mondo di formula 1Juan Manuel Fangio 1966 Un golpe militare in Siria rimpiazza il precedente governo 1974 L’esercito di Liberazione simbionese richiede 4 milioni di dollari per la liberazione di Patty Hearst 1980 L’ayatollah Ruhollah Khomeini dichiara che il parlamento Iraniano deciderà del destino degli ostaggi nell’ambasciata statunitense 1981 Antonio Tejero tenta un colpo di stato catturando la camera dei deputati spagnola 1982 Il governo socialista di Felipe González e Miguel Boyer nazionalizza la Rumasa, una holding di José María Ruiz Mateos 1987 Viene osservata una (denominata supernova 1987a) nella Grande Nube di Magellano 1999 Öcalan viene accusato di tradimento ad Ankara,
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
randagi presenti sul territorio, anche quelli sterilizzati e vaccinati da Std.Tale approccio è contrario ai valori e alla missione dell’associazione, che sostiene la necessità di procedere con il programma di sterilizzazione e rilascio sul territorio. Inoltre Std chiede con forza da anni l’avvio di misure quali la creazione di un’anagrafe canina locale, la sterilizzazione obbligatoria dei cani di proprietà e la sanzione per coloro che abbandonano.
Lettera firmata
FAX INDESIDERATI Arrivano dall’estero molti dei fax indesiderati (pubblicità) che intasano i nostri apparecchi di ricevimento e consumano quantità consistenti di carta in aggiunta all’occupazione della linea telefonica. È quanto ci comunica il Garante della protezione dei dati personali. I fax-spam riportano una numerazione il cui prefisso inizia con 02 (Milano) o 06 (Roma), il che lascerebbe intuire una provenienza nazionale, invece provengono da una società con sede a Londra. Il Garante ci ha comunicato l’avvio di una istruttoria d’intesa con le autorità brtitanniche. Siamo sommersi da posta, elettronica o tradizionale, per la quale il consumatore ha poche armi di difesa. Per la posta elettronica-monnezza ci sono appositi filtri ma per quella via fax o ordinaria la difesa è quasi impossibile. L’unico modo di reagire è quello di non acquistare prodotti o servizi reclamizzati con la postamonnezza.
APPUNTAMENTI FEBBRAIO 2010 VENERDÌ 26, ORE 11, ROMA PALAZZO FERRAJOLI Convocazione Consiglio Nazionale dei Circoli Liberal. SEGRETARIO
VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Primo Mastrantoni
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
Direttore da Washington Michael Novak
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Collaboratori
Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,
Roberto Mussapi, Francesco Napoli,
Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
IL CENTRO TRA CATTOLICESIMO ED ILLUMINISMO (PRIMA PARTE) Augusto Del Noce definì il Centro non «compromesso, politica flaccida priva di ideale; il borghese e non idealista, politica mercantile e non eroica. Se destra vuol dire “conservare” e sinistra “innovare”, la posizione della “fedeltà creatrice” definisce una politica di centro. Il termine Centro è screditato; ma questo non per altro che una politica di centro è veramente difficile». Concetti espressi nel 1945, ma su cui bisogna riflettere tutt’ora. Il Centro non può essere una “palude” di incontro neutro, generato dall’affievolirsi di due spiriti violenti: il reazionario di destra e la sua reazione, e cioè il rivoluzionario di sinistra diventati destro prudente o esperto e sinistro fiacco. E neppure qualcosa che richiama la “pratica”priva di ideali e di principi, dove si sono dissociati teoria e prassi, al punto da non riuscire a dar luogo a una “élitè intellettuale”, un “partito senza filosofia, in ultima analisi senza religione” nel senso largo del termine. Insomma pragmatico e basta. Di fronte a un dopoguerra dove permaneva lo scontro, fatto inevitabile dopo la guerra civile che i più chiamano “resistenza”, tra un passato totalitario di destra, che anteponeva violentemente lo Stato alla persona e un presente di altrettanto ideologicamente violento a sinistra, sempre per la caratteristica trascendentale della visione salvifica dello Stato stalinista, non poteva non scaturire un Centro di mediazione moralmente, in termini di principi fondativi, rigenerante. Un processo che dissociasse la violenza rivoluzionaria dalle reali esigenze da soddisfare «che muovono, esse sole in sostanza, le anime ad aderirvi». Per “fedeltà creatrice” Del Noce intende non fedeltà a fatti, a istituti legati alla storia e quindi provvisori. Una fedeltà a principi che «prendono un sapore d’oppio». Del Noce ritiene che il Cristianesimo non deve relativizzarsi a una determinata società, in quanto in tal caso diventa sia passato da difendere che nemico da combattere, e perciò non più eterno. Parole che a 65 anni di distanza sono molto attuali. Come il suo errore di fondo di considerare per Illuminismo quella che è solo un aspetto comune a ogni altro pensiero, e cioè la conseguenza di diventare anche ideologie politiche “finite”, assunte a verità definitive, che nel tentativo di rendere l’utopia in realtà assumono forme intolleranti, totalitarie, aberranti e violente. Errore, tra l’altro, che ha anche portato in Italia l’abitudine di considerare il termine “laico” univocamente come “antireligioso”. Leri Pegolo C I R C O L O LI B E R A L PO R D E N O N E
Mario Arpino, Bruno Babando,
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
John R. Bolton, Mauro Canali,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
Franco Cardini, Carlo G. Cereti,
Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,
Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,
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PAGINAVENTIQUATTRO Cartolina da Vancouver. Una Olimpiade del tutto fiacca, senza guizzi, ma con suggestive distese bianche
Altro che sport, qui va in scena di Alessandro Boschi l mesto medagliere olimpico italiano, al momento che scriviamo un argento, tre bronzi e molto legno (leggi quarti posti), ci porta a considerare di molto azzeccata l’impressione rilevata qualche giorno fa di assistere a una manifestazione sotto tono. Ma non è solo quella del medagliere asfittico la questione che ci demoralizza. Il fatto è che sembra una Olimpiade senza guizzi. Anche la splendida Lindsey Vonn, sulla quale avremmo scommesso come reginetta della festa di Vancouver e delle medaglie è stata subito ridimensionata nel SuperG dall’austriaca Andrea Fishbacher e dalla slovena Tina Maze, bella, fotogenica e disinvolta (vedi foto sul web con amiche parimenti belle e disinvolte). Le due sono infatti salite sul podio più alto lasciando alla statuaria statunitense il terzo posto. Che a nostro modo di vedere vale per una volta un po’ meno del quarto (legno ma pregiato) della nostra Johanna Schnarf, formidabile outsider che nemmeno avrebbe dovuto gareggiare.
’50, si svolge tutta in Antardide. Tutta neve, interni a parte. Ebbene, una delle scene è rifatta in studio, con un piccolo spazio innevato circondato da un prato assolutamente verde poi “imbiancato” dal computer.Vi sfidiamo a scoprire di quale scena si tratti, senza guardare gli extra. Tutto in studio invece il capolavoro di Charlie Chaplin La febbre dell’oro, con la neve che sottolinea il disagio del protagonista, affamato, mingherlino e infreddolito.
I
Parafrasando un celebre scrittore si ha comunque la sensazione di assistere a una Olimpiade in cui nessun personaggio abbia saputo impossessarsi dell’immaginazione del pubblico. C’è poco da fare, finora sono state giornate che hanno offerto uno spettacolo mediocre. E pensare che Vancouver è chiamata l’Hollywood del nord. Soprannome coniato dagli americani, che di spettacoli, e cinema, se ne intendono come pochi. Vancouver è inoltre sede della Vancouver Film School, che rappresenta la maggiore istituzione canadese di arti dello spettacolo. Come dice lo slogan della scuola: «Se avete sempre desiderato una carriera che premi la creatività, contattate subito un Consigliere d’Ammissione. E preparatevi a un anno che vi cambierà la vita». Non sappiamo se sia davvero così, e se sia così semplice contattare un Consigliere d’Ammissione, ma non c’è dubbio che la città canadese negli ultimi anni sia davvero diventata uno dei luoghi più frequentati dalle produzioni cinematografiche e televisive. Le location di serie notissime come Smalville, Supernatural, The Sentinel, X Files e Millennium per citarne alcune, sono state ricostruite proprio qui. Come motivo indiretto di questa liaison ci piace anche considerare il fatto di come cinema e neve abbiano sempre avuto un rapporto molto stretto. Partendo dal bellissimo noir Neve rossa di Nicholas Ray. Ora, il fatto che un film come Neve rossa sia un noir innesca un gioco di parole e di colori che, vorremmo rassicurarvi, è tale solo in italiano. In originale il titolo è infatti On dangerous ground. Peraltro Ray ha diretto anche il più
Di valenza diversa la neve di Fargo, dei fratelli Coen, che rende invece tutto faticoso.Vi risparmiamo poi le considerazioni su film catastrofici come il mai superato Valanga.Tra il cinema sulla neve e lo sport esiste però una via di mezzo. Che è quella di atleti che passano dalle piste al set. Avendo già detto di Alberto Tomba interprete del micidiale Alex l’ariete (insieme a Michelle Hunziker, nel film Antavleva Bottazzi), non possiamo esimerci dal ricordare Gustavo Thoeni che con la complicità di Duccio Tessari diede vita a quel piccolo capolavoro intitolato Un centesimo di secondo. Stabilito che al compianto Tessari piacevano le imprese impossibili come quella di portare sul
la NEVE
grande schermo il personaggio dei fumetti Tex Willer, siamo certi che non gli è mai passato per la testa di fare un seguito. Vedasi per conferma le scene romantiche tra Gustavo e Antonellina Interlenghi. Una impresa da titani, e confidiamo che il buon Duccio se ci leggesse saprebbe di cosa parliamo. Forse i migliori film su neve sono però quelli… sul ghiaccio. Su tutti Slap Shot, ovvero Colpo secco. Diretto da George Roy Hill e interpretato da Paul Newmann è la storia di una scalcinata squadra di hockey che cerca di risollevare le proprie sorti facendo leva su orgoglio e colpi di bastone. A Vancouver si attendono battaglie simili e forse questa volta lo spettacolo ci sarà davvero. In questa disciplina Canada e Stati Uniti sono infatti tra le favorite per la medaglia d’oro, la più “pesante” di queste Olimpiadi.
La città canadese, chiamata la Hollywood del Nord, negli ultimi anni è davvero diventata uno dei luoghi più frequentati dalle produzioni cinematografiche e televisive. Il motivo indiretto, lo stretto rapporto tra cinepresa e manto candido
modesto Ombre bianche, che sempre in originale risulta The savage innocents. Il che ci fa ipotizzare che il titolista italiano sia un maestro di sci. Ora, partendo dal concetto che la nostra tesi sul rapporto neve cinema potrebbe venire smontata in quattro balletti dal momento che la neve dei film molto spesso è solo un effetto speciale, nulla contraddice il fatto che lo spettacolo di distese bianche sul grande schermo sia molto suggestivo. Recentemente abbiamo rivisto quel capolavoro di John Carpenter del 1982 intitolato La cosa. Beh, se è un po’ che non ve lo rivedete o se non lo avete mai visto vi consigliamo di farlo. L’inseguimento iniziale del cane da parte di un elicottero è davvero formidabile, come la scena successiva in cui l’elicottero precipita (tanto si sa come va a finire). La storia, che peraltro è il remake di un film dei primi anni