L’ingiustizia è relativamente
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facile da sopportare; quella che proprio brucia è la giustizia Henry Louis Mencken
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 24 FEBBRAIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Oltre cinquanta ordini di custodia cautelare per una rete internazionale di riciclaggio del denaro sporco da 2 miliardi di euro
Sedici anni buttati via
Mandato d’arresto per Scaglia (Fastweb) e Di Girolamo (Pdl) Non sarà Tangentopoli, ma l’Italia è ancora ferma lì. Dura critica di Montezemolo e Marcegaglia alla politica: la colpa della corruzione sta nella mancata Grande Riforma dello Stato di Riccardo Paradisi
Il discorso del presidente Fiat
Come nel ‘92, peggio del ’92. L’Italia degli anni dieci si guarda allo specchio e scopre un panorama di macerie morali come suo sfondo. Una nuova Tangentopoli? «No, peggio», dice Pisanu.
È arrivato il tempo di una nuova classe Seconda Repubblica «Tutti d’accordo dirigente da archiviare su come lucrare»
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on è certo un momento facile per l’Europa quello che stiamo vivendo. Eppure, proprio in un momento così difficile, si è potuto capire l’importanza che per tutti noi ha l’Europa integrata. La crisi economica e finanziaria testimonia che nessun paese europeo, anche se grande, può affrontare da solo le sfide di un’economia globale. Il mondo è ormai irreversibilmente globalizzato per poter pensare che i vecchi Stati nazionali europei, in quanto tali, possano ancora giocare un ruolo solitario. Il vero problema, infatti, è che abbiamo poca Europa e non già troppa Europa. Abbiamo una moneta unica, ma non abbiamo una politica economica e una politica fiscale europee. Siamo andati abbastanza avanti sulla strada dell’integrazione monetaria per evitare i fallimenti 3 nazionali, ma non abbastanza per promuovere una politica economica comune con cui governare l’integrazione monetaria. Ed è per questo che occorre discutere del Trattato di Lisbona e delle sue conseguenze per il governo dell’Unione Europea.
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La banda larga della ‘ndrangheta Il Gip: «Una frode colossale». Scaglia ancora latitante. Coinvolta anche la società Telecom Italia Sparkle
PARLA LUCA RICOLFI
MONITO DI PISANU
di Luca Cordero di Montezemolo
Sotto accusa il fondatore di Fastweb
di Giancristiano Desiderio
di Errico Novi
Sedici anni sono una vita. A sedici anni si è maggiorenni, gli studi superiori sono ultimati e ci si iscrive all’università. Sedici anni sono tanti, ma così tanti che non sono bastati alla Seconda repubblica per fare delle adeguate riforme per tenere sotto stretto controllo il fenomeno “nazionale”della corruzione. Pisanu, ex ministro dell’Interno e oggi presidente dell’Antimafia, dice che la corruzione è così dilagante che l’Italia “può esserne schiacciata”.
Pochi giri di parole: «La situazione è drammatica». Luca Ricolfi ha ben chiaro il grado di incidenza raggiunto dalla corruzione rispetto alla ricchezza del Paese: lo ha illustrato con spietata dovizia di particolari con Il sacco del Nord. E gli si fa sempre più chiara in questi giorni la perfida destrezza con cui la Seconda Repubblica è riuscita a peggiorare persino il quadro di Tangentopoli.
n’impressionante rete di riciclaggio di denaro sporco con ramificazioni internazionali, per un ammontare complessivo di circa due miliardi di euro e 400 milioni di Iva evasa. E tra le 56 ordinanze di custodia cautelare ci sono due grossi nomi. L’ex fondatore e amministratore delegato di Fastweb Silvio Scaglia, che ha dato mandato ai suoi difensori di concordare il suo interrogatorio nei tempi più brevi.
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di Alessandro D’Amato
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II disarmo nucleare di Obama rischia di favorire il Cremlino
Quel che accomuna Heidegger e Pasolini
Obama gioca con il fuoco
Premiata Ditta Martin-Pierpaolo
di John R. Bolton
I motivi (nascosti) del golpe ordito dal governo di Ankara
Marco ridimensiona Emma per tenersi stretto il partito
Il bluff di Erdogan
E Pannella mangiò Bonino
di Marta Ottaviani
di Francesco Ingravallo
di Franco Ricordi
Per molti in Turchia è ancora l’unico statista possibile, l’unica persona in grado di traghettare il Paese verso la modernità, la piena democrazia da una parte e l’ingresso nell’Unione Europea dall’altro. Ma Erdogan continua a rimanere un mistero.
L’Amministrazione Obama ha da poco lanciato alcune campagne per sostenere le sue iniziative chiave sul controllo degli armamenti. Queste offensive pubbliche servono a sostenere un trattato chiave che si sta portando a termine con la Russia.
«No, questa cazzata non la farà». Gli uomini attorno a Bersani ostentano sicurezza: Emma Bonino alla fine non ritirerà la sua candidatura nel Lazio, il segretario del Pd avrebbe ricevuto rassicurazioni dalla stessa vicepresidente del Senato.
Differenza e Diversità. Questi i due concetti che a nostro avviso avvicinano e mettono a confronto il pensiero di Martin Heidegger a quello di Pier Paolo Pasolini. Due personaggi diversi tra loro ma accomunati dalla stessa fame di ricerca e conoscenza.
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
37 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Paralisi. Anche nel ‘92 sotto accusa era l’immobilismo istituzionale. Dopo sedici anni, siamo ancora fermi a Tangentopoli
Scontro sulla corruzione Montezemolo e Marcegaglia: «È colpa della mancanza di riforme» Dura replica di Brunetta. E Casini: «Ormai è emergenza nazionale» di Riccardo Paradisi ome nel ‘92, peggio del ’92. L’Italia degli anni dieci si guarda allo specchio e scopre un panorama di macerie morali come suo sfondo. Una nuova Tangentopoli? «No, peggio – dice il presidente della commissione antimafia Beppe Pisanu – allora crollò il sistema del finanziamento dei partiti, oggi è la coesione sociale, la stessa unità nazionale a essere in discussione. Si chiude l’orizzonte dell’interesse generale e si aprono le cateratte dell’interesse privato, dell’arricchimento personale, della corruzione dilagante». Un quadro di pura decadenza, l’epicedio di un’ex nazione.
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La questione morale è un’emergenza nazionale come dice il leader dell’Udc Pierferdinando Casini: «si deve rispondere ora e subito contro i troppi ladri in politica. Non si tratta di Tangentopoli perché allora si rubava per i partiti e ora si ruba per se stessi. Ma così è molto peggio di ieri». Fabrizio Cicchitto, il capogruppo del Pdl alla Camera, non schiva il problema, ma chiede di non buttare la croce solo addosso alla politica: «È del tutto fuorviante lo schema fondato sull’esistenza di una società civile incorrotta e nobile e di un sistema politico degradato: il buono e il cattivo come minimo convivono in entrambe le aree». Non è una grande consolazione. E comunque è a nome di una non meglio identificata società civile che parla il presidente della Fiat Luca Cordero di Montezemolo: «La lotta alla corruzione è un’impresa titanica. La politica ha certamente una precisa responsabilità: quella di non aver introdotto riforme adeguate per far funzionare bene la macchina dello Stato. È anche qui, nella riforma dello Stato e delle istituzioni, che possiamo vedere una soluzione strutturale al gigantesco problema della corruzione. Perchè fin tanto che l’azione dello Stato non
I cambiamenti promessi sono rimasti soltanto espressioni retoriche
Sixteen Candles di Giancristiano Desiderio edici anni sono una vita. A sedici anni in America si può guidare l’auto. Sedici anni sono tanti, ma così tanti che non sono bastati alla Seconda repubblica per fare delle adeguate riforme per tenere sotto stretto controllo il fenomeno “nazionale” della corruzione. Giuseppe Pisanu, ex apprezzato ministro dell’Interno e oggi presidente dell’Antimafia, dice addirittura che la corruzione è così dilagante che l’Italia “può esserne schiacciata”.
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Il presidente della Camera non arriva a tanto, ma anche Fini nota che la corruzione è molto diffusa e, soprattutto, dopo il voto regionale occorre mettere mano a delle riforme e che siano condivise. Lo stesso tema della riforme necessarie e adeguate, riguardanti anche la pubblica amministrazione, è ripreso da Luca di Montezemolo e da Emma Marcegaglia presidente di Confindustria. Dopo diciotto anni, dopo che abbiamo portato al voto una nuova generazione di italiani che nel 1992 non erano al mondo, abbiamo fatto un giro di valzer su noi stessi e siamo ritornati al punto di partenza: riforme. E nel frattempo,
in questi lunghi diciotto anni di “Paese normale”, “rivoluzione liberale”, “nuovo miracolo italiano”, “governo del fare”, che cosa è stato fatto? Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera affrontando il tema di “Tangentopoli 2” ha detto che pensare che solo la politica conosca la corruzione mentre il Paese sia una educanda è solo ipocrisia perché la corruzione è italiana prima che politica. In verità, già Indro Montanelli era giunto alla conclusione che «noi italiani la corruzione l’abbiano nel sangue». Può darsi sia vero; anzi, ammettiamo pure che così sia: la corruzione pre-esiste alla politica.
Eppure, sia l’analisi storica di Galli della Loggia sia il lamento morale di Montanelli non possono suonare come una consolazione. Soprattutto per la politica e per chi governa: ossia per chi ha in mano lo Stato e la sua “macchina”. Se la Seconda repubblica ha prodotto dopo diciotto anni una Nuova Tangentopoli e, addirittura - per stessa ammissione di esponenti della maggioranza - ha visto aumentare la corruzione - il giudice Imposimato ha detto che «la corruzione è stata legalizzata» - allora significa che la Seconda repubblica è nella sostanza la storia di un aborto o di un fallimento. Come mai? Le espressioni retoriche usate sopra - rivoluzione, miracolo, fare, liberale - effettivamente non sono andate al di là della retorica. La politica, che pure ha e deve avere una componente teatrale, è stata risucchiata tutta dalla retorica e dalla comunicazione. A sentire le parole di Montezemolo, il ministro Brunetta si è risentito e ha detto che la riforma della pubblica amministrazione è stata fatta e gliela manderà. Brunetta non è stato e non sta con le mani in mano. Lo sappiamo. Tuttavia, fare le riforme per controllare la “corruzione dilagante” significa ridurre il peso della politica nella società e nell’amministrazione e, viceversa, evitare che la società si rivolga unicamente alla politica e all’amministrazione per affari e committenze. Ma la politica non vuole dimagrire, vuole solo ingrassare controllando la spesa.
sarà resa più efficiente e trasparente, fin tanto che gli spazi di intermediazione tra la società civile e la cosa pubblica saranno molteplici e confusi, fin tanto che il cittadino non avrà la possibilità di poter contare su una pubblica amministrazione pienamente funzionale e responsabile le occasioni per il malaffare si sprecheranno».\\u2028 Gli risponde a stretto giro di posta e piccatissimo il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta che sente d’essere stato chiamato evidentemente in causa: «Stimo Montezemolo, ma è molto impegnato a lavorare sulla Fiat e forse non è informato sulla mia riforma». Montezemolo replica a sua volta: «Brunetta non demonizzi chi ha opinioni diverse». Ma sullo stesso tasto di Montezemolo batte la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia: «La scelta della legalità è l’unico modo per avere un’economia che continui a crescere. Sulle riforme bisogna cambiare passo.\\u2028In questo momento c’è la necessità e soprattutto l’urgenza di attuare delle riforme: «Maggioranza e opposizione devono trovare insieme il coraggio di cambiare. Occorre immaginare uno scenario nuovo. Investire in innovazione, ricerca e tecnologia per uscire dalla crisi». In questo quadro «gli imprenditori devono fare la loro parte, per stare sul mercato ma anche le istituzioni devono fare la propria parte magari dopo le elezioni. Dopo le regionali le forze politiche si mettano insieme per fare le grandi riforme a partire da quella della pubblica amministrazione. Non si può più aspettare. Non ci possiamo rassegnare al declino e stare fermi in una sorta di immobilismo».\\u2028
Sollecitazioni che seguono l’auspicio del presidente della Camera, Gianfranco Fini che aveva chiesto l’apertura di un confronto su riforme condivise dopo il voto per le regionali. Ma come avverte Pisanu è un po’ difficile distinguere tra Paese legale e Paese reale come si diceva ai tempi della Prima repubblica. Da uno studio del Cnel appena pubblicato emerge infatti che nelle regioni del nord Italia è in corso una forte espansione della ’ndrangheta che ha riciclato i propri guadagni illeciti, provento dello spaccio di stupefacenti, in attività all’apparenza pulite. «Lo possono fare - si legge nel rapporto del Cnel - perché in questa avventura non sono soli ma si fanno aiutare da intermediari finanziari, i quali pur non appartenendo formalmente ad associazioni di stampo mafioso non disdegnano di dedicarsi all’attivita’ di riciclaggio». Lo studio del Cnel, durato circa 4 anni di lavoro, ha analizzato inchieste delle procure del nord Italia e rappor-
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Da sinistra: l’amministratore delegato di Fastweb, Silvio Scaglia e il senatore Pdl Nicola Di Girolamo. Nella pagina a fianco, Beppe Pisanu
Oggi tocca a Fastweb: 56 arresti Chiesto il carcere per il fondatore Silvio Scaglia e il senatore Nicola Di Girolamo (Pdl) di Alessandro D’Amato
ROMA. Un’impressionante rete di riciclaggio di denaro sporco con ramificazioni internazionali, per un ammontare complessivo di circa due miliardi di euro e 400 milioni di Iva evasa. E tra le 56 ordinanze di custodia cautelare ci sono due grossi nomi. L’ex fondatore e amministratore delegato di Fastweb Silvio Scaglia, che ha dato mandato ai suoi difensori di concordare il suo interrogatorio nei tempi più brevi per chiarire tutti i profili della vicenda e riafferma comunque la sua estraneità a qualunque reato. E il senatore del Pdl, Nicola Di Girolamo, accusato del reato di associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio transanzionale in quanto partecipe di un sodalizio criminale che, tra il 2003 e il 2006, avrebbe riciclato oltre 2 miliardi di euro. Di Girolamo è anche accusato di avere violato la normativa elettorale «con l’aggravante mafiosa». La sua elezione nel collegio estero di Stoccarda sarebbe stata favorita da un broglio elettorale realizzato dalla famiglia Arena, della ’ndrangheta di Isola Capo Rizzuto. La ’ndrangheta avrebbe acquistato numerose schede elettorali tra gli immigrati calabresi a Stoccarda, apponendo sulle schede il voto per Di Girolamo.
La richiesta di arresto dovrà adesso essere esaminata dalla Giunta per le Elezioni e delle Immunità del Senato. Tra gli indagati eccellenti c’è anche l’attuale ad di Fastweb, nel frattempo passata sotto il controllo di Swisscom. Le accuse per tutti gli indagati sono di associazione per deti delle forze dell’ordine. Negli anni l’investimento dei guadagni illeciti ha riguardato settori sempre più diversificati: edilizia, movimento terra, usura, impossessamento di aziende e attività commerciali in crisi, acquisto di immobili e truffe». Una miriade di attività e di presenze economiche che si sono insinuate dentro il cuore dell’economia, della finanza delle città e delle regioni del nord inquinando profondamente anche le faglie dell’area produttiva del Paese.
linquere finalizzata al riciclaggio e al reimpiego di ingentissimi capitali illecitamente acquisiti attraverso un complesso sistema di frodi fiscali. Agli arresti anche un ufficiale della GdF, Luca Berriola, attualmente in servizio al comando di tutela finanza pubblica, che avrebbe incassato una cospicua tangente su una delle operazioni di riciclaggio. Le 56 misure di custodia cautelare sono state disposte dal gip su richiesta della Procura Distrettuale Antimafia di Roma, coordinata dal procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo, e dei pm Giovanni Bombardieri, Giovanni Di Leo e Francesca Passaniti.
Le indagini, condotte dai Carabinieri del Ros e dal Nucleo di polizia valutaria della Guardia di Finanza, hanno accertato come i capitali illegali, riciclati attraverso un sofisticato circuito internazionale finanziario e bancario, provenissero da una serie di operazioni commerciali fittizie di acquisto e vendita di servizi di interconnessione telefonica internazionale, per un valore complessivo di oltre 2 miliardi, realizzate tra il 2003 e il 2006. Secondo gli inquirenti, le operazioni sarebbero state realizzate con la compiacenza degli ex vertici di Fastweb e Telecom Italia Sparkle (controllata di Telecom che si occupa del traffico telefonico verso l’estero), attraverso società di comodo di diritto italiano, inglese, pa-
namense, finlandese, lussemburghese e off-shore controllate dall’organizzazione che aveva ideato la truffa nei confronti del fisco italiano.
Il riciclaggio veniva realizzato attraverso la falsa fatturazione di servizi telefonici e telematici inesistenti, venduti mediante due successive operazioni commerciali a Fastweb e Telecom Italia Sparkle dalle società italiane Cmc, Web Wizzard, I-Globe e Planetarium che evadevano il pagamento dell’Iva per 400 milioni trasferendoli poi all’estero. Il danno all’Erario è stimato dagli inquirenti in 365 milioni di euro di mancati versamenti di Iva, derivanti da fatture per operazioni inesistenti per 1,8 miliardi emesse, tra gli altri, da Telecom Italia Sparkle e Fastweb. Per realizzare il riciclaggio, il sodalizio si è avvalso di società di comodo di diritto italiano, inglese, panamense, finlandese, lussemburghese ed off-shore, controllate dall’organizzazione indagata. Le società telefoniche coinvolte hanno ottenuto in cambio crediti Iva fittizi e un utile pari a circa 96 milioni. Due le operazioni illecite individuate dagli investigatori: la commercializzazione di schede telefoniche prepagate, denominate phuncards, e la commercializzazione di servizi a valore aggiunto per adulti attraverso servizi di interconnessione internazionale per il trasporto di traffico te-
Oltre cinquanta ordinanze di custodia cautelare colpiscono un network che si occupava di “pulire” denaro sporco
Per questo anche per il Cnel è sempre più necessario un decalogo per la composizione delle liste elettorali sia locali che nazionali e si propone di prevedere una norma che escluda definitivamente da qualsiasi competizione politica i condannati per corruzione e mafia. Sulla stessa linea l’associazione ”Italia decide”, il cui presidente onorario è Carlo Azeglio Ciampi, che ha messo a punto 5 proposte per la cui attuazione non sono necessari interventi legi-
slativi. Le proposte, illustrate dal presidente dell’associazione, Luciano Violante, sono state condivise da tutto il comitato di presidenza del quale fa parte anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. Il primo punto è quello di riformare le procedure, non di aggirarle, semplificando fortemente anche la disciplina normativa riconducendo la legislazione in materia di appalti alle direttive n.17 e 18 del 2004 dell’Unione europea. In secondo luogo va su-
lematico. I particolare, dalle indagini sarebbe emersa «la consapevolezza della dirigenza di Fastweb di far parte di un meccanismo fraudolento». Gli arresti e i sequestri per centinaia di milioni di euro hanno interessato, in Italia, Lazio, Umbria, Toscana, Lombardia e Calabria, e all’estero, Stati Uniti, Francia, Svizzera, Lussemburgo, Regno Unito, Hong Kong. Al vertice dell’organizzazione criminale c’erano, secondo gli inquirenti, Gennaro Mokbel, legato in passato ad ambienti della destra eversiva, e la moglie Giorgia Ricci. Il meccanismo delle frodi Iva sarebbe invece stato ideato dal consulente finanziario Carlo Focarelli.
Gli inquirenti hanno sequestrato 247 immobili , 133 autovetture, 5 imbarcazioni per un valore di 3,7 milioni, 743 rapporti finanziari, 58 quote societarie per un valore di 1,9 milioni, quadri e opere d’arte di valore.Tra i beni sequestrati anche «crediti nei confronti di Fastweb e Telecom Italia Sparkle per complessivi 340 milioni di euro», due gioiellerie e altre attività commerciali, beni all’estero per circa 15 milioni di euro. Per il senatore De Girolamo la procura di Roma aveva già chiesto nel 2008 l’autorizzazione all’arresto alla Giunta del parlamento, contestando i reati di falso e attentato ai diritti politici dei cittadini. Il senatore era accusato di aver dichiarato falsamente di risiedere all’estero e di aver fatto votare la sua scheda elettorale da un’altra persona. La giunta aveva respinto la richiesta. perata l’esperienza dei commissari straordinari introducendo il modello delle Unità di missione dentro le quali si ritrovino tutte le amministrazioni pubbliche interessate ad una determinata opera. Altro punto necessario per superare il ricorso al ”diritto dell’emergenza” secondo ”Italia decide” è rendere piu trasparente il rapporto tra imprese e Pubblica amministrazione. I fondamentali insomma. Dopo quindici anni da Tangentopoli siamo ancora lì.
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prima pagina L’intervento. Il testo del discorso di Montezemolo alla presentazione della School of Government
È arrivato il tempo di una nuova classe dirigente «La corruzione è colpa delle mancate riforme, per sconfiggerla servirà un’impresa titanica» di Luca Cordero di Montezemolo segue dalla prima Il Trattato rappresenta indubbiamente un passaggio istituzionale di grande importanza per l’Europa. Conclude la lunga fase di discussione sul sistema istituzionale che l’Europa avrebbe dovuto darsi per integrare i paesi del suo versante orientale e meridionale. Tuttavia, sono rilevanti i problemi che quel Trattato ha lasciato irrisolti. Esso ha aiutato l’Europa comunitaria a ripartire, ma ha rafforzato anche l’Europa intergovernativa. Ciò obbliga tutti gli Stati membri, e l’Italia in particolare, a partecipare alla governance europea con un sistema di governo adeguato ed efficiente se non si vuole essere marginali. Per il nostro paese, ciò significa una vera e propria riforma del sistema pubblico. Ovvero una riorganizzazione della pubblica amministrazione, una riqualificazione dell’elite pubblica, una razionalizzazione del circuito che collega il legislativo, l’esecutivo e il primo ministro, una precisazione dei ruoli di governo e di opposizione.
Dunque, una riforma dello Stato per servire meglio la nostra società, ma anche e soprattutto per promuoverne gli interessi sul piano europeo e globale. La nostra School of Government è nata per contribuire, insieme e in collaborazione con le alte scuole già operanti in Italia, alla riforma dello stato attraverso la formazione di una nuova élite pubblica. È una scuola post-laurea impegnata ad internazionalizzare la formazione dei nuovi ceti dirigenti delle istituzioni pubbliche e private che costituiscono i vari livelli del sistema di governance europeo e internazionale. Tale formazione dovrà avere una dimensione teorica e pratica insieme. Dovrà, cioè, curare sia l’educazione (la conoscenza dei metodi analitici e
dei contesti teorici delle moderne discipline del governo) che la professionalità (la conoscenza delle tecniche per risolvere i problemi collegati alle politiche pubbliche). La nuova School della Luiss sarà dunque un luogo dove la teoria si sposerà alla pratica della leadership, dove gli insegnamenti saranno svolti con grande attenzione alle esercitazioni pratiche. La formazione di una nuova elite pubblica deve oggi misurarsi con sfide senza precedenti. Contrariamente alle Grand Ecoles istituite nel passato, oggi occorre formare una élite pubblica che guardi oltre lo stato nazionale. La fase della costruzione degli stati nazionali, che quelle Grandi Scuole dovevano contribuire a qualificare, è ormai alle nostre spalle. Non si tratta più, oggi, di nazionalizzare la formazione delle classi dirigenti, bensì di internazionalizzarne la prospettiva e le competenze. Nell’epoca che viviamo, in particolare in Europa, non è più possibile distinguere con nettezza ciò che appartiene al contesto interno (nazionale) e ciò che appartiene al contesto esterno (europeo e internazionale). Dopotutto, lo stesso modello delle Grandi Scuole è oggi oggetto di revisione, addirittura in un paese come la Francia che quel modello ha inventato. La nuova classe dirigente deve sentirsi a casa a Roma come a Bruxelles o a Washington, deve avere competenze non solamente formali ma anche operative.
passato. La Luiss School of Government potrà anche contribuire a far riscoprire il valore pienamente democratico del concetto di classe dirigente, di cui soprattutto l’Italia ha molto bisogno. Perché l’élite non può essere una barriera ereditaria e familistica alla mobilità sociale, ma deve risultare da un processo di selezione basata sul merito e sulle competenze Per questo motivo, è per me fonte di particolare orgoglio che sia un’università privata come la Luiss a porsi l’obiettivo di formare anche una nuova elite pubblica, un’elite che contribuisca a modernizzare il nostro stato.
Come le altre istituzioni della Luiss, anche la School of Government dovrà essere costituita di professori di grande preparazione scientifica, leader nelle loro comunità accademiche internazionali. Oltre a professori di riconosciuta reputazione, la School of Government dovrà avvalersi di giovani studiosi, altamente specializzati nelle discipline collegate sia al government nazionale che alla governance europea e internazionale, così da dar vita ad una vera e propria comunità accademica di indiscutibile valore. La nostra School of Government dovrà essere non solamente un luogo di formazione scientifica e tecnica della futura classe dirigente ma anche un centro di educazione intellettuale e morale. L’Europa, ma soprattutto l’Italia, hanno bisogno di una élite pubblica e privata dotata di un vero e proprio “patriottismo democratico”, consapevole che una società libera è tanto più al sicuro quanto più si basa su buone regole ed è guidata da buoni leader. È la qualità delle classi dirigenti che può fare la differenza tra un paese civile e un paese che non lo è. Una classe dirigente i cui esponenti siano forti nelle
La nuova classe dirigente deve sentirsi a casa a Bruxelles e a Roma come a Washington
Da tempo la forza non è più l’unica risorsa da utilizzare nelle trattative che si svolgono nei tavoli comunitari o nelle riunioni internazionali. Le idee e la capacità di argomentarle, la reputazione del paese che le elabora, la qualità personale dei suoi gruppi dirigenti, tutto ciò può contribuire a fare andare la storia in una direzione piuttosto che in un’altra, come mai era avvenuto nel
prima pagina loro specifiche competenze ma anche consapevoli di avere una comune e vincolante responsabilità verso la società civile facendosi carico degli interessi del paese. Sappiamo bene che la qualità delle classi dirigenti si misura anche sui valori etici e morali, oltre che sul senso delle istituzioni: istituzioni da rispettare ma anche da modernizzare, con tutti i necessari passaggi di riforma, affinché siano sempre più in grado di rispondere alle esigenze della modernità. È anche qui, nella riforma dello Stato e delle istituzioni, che possiamo vedere una soluzione strutturale al gigantesco problema della corruzione. Perché fintanto che l’azione dello Stato non sarà resa più efficiente e trasparente, fintanto che gli spazi di intermediazione tra la società civile e la cosa pubblica saranno molteplici e confusi, fintanto che il cittadino non avrà la possibilità di poter contare su una pubblica amministrazione pienamente funzionale e responsabile le occasioni per il malaffare si sprecheranno.
Proprio in questi giorni torniamo a interrogarci sulla diffusione del malaffare, dello sperpero del denaro pubblico e sul loro impatto per la credibilità delle classi dirigenti. Ma proprio in questi stessi giorni occorre tornare a guardare con fiducia all’Italia, alle sue risorse morali e alla grande maggioranza di italiani che si dedicano con impegno e onestà al proprio lavoro e alla costruzione del futuro comune. Dobbiamo fare in modo che questa maggioranza di italiani si affermi e si renda sempre più visibile nel paese. Perché siamo una nazione che troppo spesso tende ad autoflagellarsi, a cedere alla leggenda consolatoria secondo cui “tutti sono uguali e tutti rubano alla stessa maniera”. Non è così: lo sappiamo noi così come lo sanno i nostri studenti. Dobbiamo anche evitare di pensare che le colpe della corruzione siano tutte nella politica, perché anche in altri settori esistono fenomeni di malaffare che affligono la nostra vita pubblica. Eppure la politica ha certamente una precisa responsabilità: quella di non avere introdotto riforme adeguate per far funzionare bene la macchina dello Stato. E dove lo Stato non funziona si afferma inevitabilmente quella “società fai da te” dove ognuno si sente autorizzato ad arrangiarsi come meglio può, e dunque anche attraverso il ricorso alla corruttela. Talvolta la politica sembra profittare di questo vuoto dello Stato, occupando ogni spazio di mediazione tra i cittadini senza dare in cambio istituzioni efficienti. Il compito di una politica alta e responsabile non può che tornare ad essere quello delle riforme, del profondo senso dello stato e del suo buon funzionamento, della ricostruzione di un tessuto civile dove il malaffare sia l’eccezione e non la regola della mediazione. Voglio dirlo con chiarezza: la lotta alla corruzione è un’impresa titanica che occuperà quanto meno lo spazio di una generazione, che richiederà sforzi enormi e grande lungimiranza. Eppure tutti noi vogliamo e possiamo contribuirvi.
A sinistra, Luca Cordero di Montezemolo e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. A destra, Luca Ricolfi
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L’autore de “Il sacco del Nord” ricorda il ruolo delle società miste: «Nessuno vuole cambiarle»
«Su come lucrare sono tutti d’accordo» Ricolfi: situazione drammatica, gli sprechi superano quelli del ’92 di Errico Novi
ROMA. Pochi giri di parole: «La situazione è drammatica». Luca Ricolfi ha ben chiaro il grado di incidenza raggiunto dalla corruzione rispetto alla ricchezza del Paese: lo ha illustrato con spietata dovizia di particolari con Il sacco del Nord. Gli si fa sempre più chiara la perfida destrezza con cui la Seconda Repubblica è riuscita a peggiorare persino il quadro di Tangentopoli: la politica ha trovato nuove strade «perfettamente legali» per arricchirsi con le risorse pubbliche, a cominciare dalle società miste, e nello stesso tempo si è ben guardata da realizzare le riforme utili a rendere più efficiente la macchina dello Stato. Allora Montezemolo ha ragione: è tutta colpa delle riforme mancate. Fatta in questi termini l’affermazione non è chiara. Distinguo sempre tra le riforme economico-sociali e tutte le altre. Le prime con la corruzione non c’entrano nulla. Si può dire invece che c’è un nesso tra le malversazioni e alcune specifiche riforme. Faccia un esempio. Amo sempre citare il libro sui Costi della politica di Cesare Salvi e Massimo Villone. Vi è illustrata una serie di possibilità, di meccanismi messi in atto in modo perfettamente legale. Come quello delle società miste, strumento con cui il potere politico controlla i servizi pubblici locali. Una riforma mancata. Non per nulla c’è una comune e non casuale ritrosia fare la riforma dei servizi pubblici locali. Nella scorsa legislatura il testo della Lanzillotta venne impallinato. C’era la sinistra estrema contraria alla privatizzazione dei servizi idrici. Sì ma credo che se fosse passato quel testo non sarebbe piaciuto neanche agli amministratori del Pd, perché spadroneggiare sugli appalti e sulla gestione sarebbe stato decisamente meno semplice. Ci sono due conseguenze gravi. Quali? Primo, si limita la concorrenza con inevitabile aggravio dei costi. Secondo, nelle utilities vengono assunte persone di fiducia, segnalate e sponsorizzate dalla politica. Ecco, così si è trovato il modo di accrescerlo persino, quel potere che era degenarato venti anni fa. In pratica, professore, qui la fac-
cenda è persino più grave di come la descrive Montezemolo. È tutto capovolto. Ci sono molti meccanismi sui quali si sarebbe potuto intervenire: l’incandidabilità, per esempio, che ora è prevista per un massimo di cinque anni solo per reati gravissimi come quelli di mafia, o per poche fattispecie di reati connessi alla pubblica amministrazione. Su tutto prevale l’idea che il politico debba poter continuare la sua carriera. Su quali altri reati bisognerebbe
“
Altro che trovare argini al malcostume, si sono inventati meccanismi per praticarlo in modo apparentemente legale
”
intervenire con l’ineleggibilità? Mi chiedo perché non si sia mai nemmeno pensato di bloccare la carriera degli amministratori colpevoli di default. Se un presidente di Provincia eredita un bilancio sano e lo lascia devastato non dovrebbe più potersi candidare per alcun incarico. Governare male costa. È quello di cui parla nell’ultimo libro. Mi impressiona relativamente poco il potente che compra lo yacht. Villone e Salvi hanno calcolato che senza portaborse, benefit e optional vari, si risparmierebbero un paio di miliardi di euro: dai 5 o 6 miliardi attuali il costo della politica scenderebbe intorno ai 3. Ma è nulla rispetto alla mala amministrazione: lì arriviamo a 80 miliardi di euro. È la cifra netta degli sprechi?
Sì, 80 miliardi di sprechi, esattamente le risorse che mancano per assicurare servizi pubblici ovunque dignitosi, penso in particolare al Mezzogiorno. Il rapporto con il costo della politica in senso stretto è di 30 a 1. Altri esempi. Le false pensioni: voce per la quale Villone e Salvi calcolano 1 miliardo l’anno. Noi dell’Osservatorio del Nordovest, con la Fondazione David Hume, abbiamo calcolato che per gli indebiti vitalizi di miliardi se ne vanno 8 l’anno. E qui c’è un chiaro problema di controlli, è la macchina dello Stato che viene meno. I controlli: di questo si è molto parlato anche per la questione degli appalti. Ci arrivo esponendole il mio punto di vista sulla vicenda Bertolaso. Sarebbe il caso di spiegare come è possibile che senza la Protezione civile gli interventi per l’Expo 2015 non si fanno in tempo, nonostante i 6 anni a disposizione. Due sono le cose: o Berlusconi e Bertolaso ci raccontano favole anche su questo, come su molto altro… Oppure? Oppure c’è qualcosa che non va sulle procedure. Vuol dire che l’insieme dei conflitti di competenze, delle possibilità di ricorrere ai Tar, rappresenta un problema serissimo. E pensare che abbiamo un ministro alla Semplificazione. Montezemolo si riferiva a questo. E allora aboliamo la parola riforme, è troppo equivoca. Guardi, io non sono un moralista, credo che di fronte all’occasione il 90 per cento degli esseri umani ne approfitti. È alla politica che spetta eliminare le occasioni. Neanche questo è stato fatto. C’è una foresta che va disboscata. Non è possibile che le macerie dell’Aquila siano ancora lì, questo succede perché c’è una tale mole di autorizzazioni che nessuna autorità pubblica è in grado di procedere. Sono tutti responsabili. La differenza tra destra e sinistra è che i primi dicono: allora agiamo in deroga. Ma la sinistra, scongiurata la Protezione civile Spa, non fa niente per rendere più agile il sistema. Così nella migliore delle ipotesi si diffonde sfiducia verso le regole. E questa è la prova di quanto sia drammatica la situazione.
politica
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Scenari. Con un occhio critico anche al Pd, in una riunione di domenica scorsa ha sostenuto che secondo lui le liste vanno senz’altro ritirate
Il Pannella di controllo Il leader radicale cerca di ridimensionare Emma Bonino per “tenersi il partito” di Francesco Ingravallo
ROMA. «No, questa cazzata non la farà». Gli uomini attorno a Bersani ostentano sicurezza: Emma Bonino alla fine non ritirerà la sua candidatura nel Lazio, il segretario del Pd avrebbe ricevuto rassicurazioni dalla stessa vicepresidente del Senato. Un filo di preoccupazione, però, farebbero bene a coltivarlo perché a spingere per il gran rifiuto, nell’appartamento della romana via di Torre argentina che è l’unico bene al sole dei radicali, non è un passante, ma Pannella. E questa non è nemmeno un’idea che gli è venuta all’improvviso: per la prima volta l’ha sostenuta,
tante per la gran parte dell’elettorato, che rischia di complicare una campagna elettorale che nel Lazio cominciava a ingranare per il centrosinistra anche nei sondaggi sul voto di lista (Bonino ha fin dall’inizio un buon appeal personale).
Ma davvero, come s’affannano a dire tutti da Polverini ai democratici, non si vede quale sia la novità? Come se, trattandosi di radicali, ci si debba per forza aspettare qualche bizzarria, qualche capriccetto. Al di là della legittima campagna sulle firme, non è un capriccio quello che sta accadendo, ma uno
Ciò che sta accadendo è uno scontro politico in piena regola che ha come tema quello dell’eredità, il dopo-Pannella, che per il più antico partito in Parlamento sembra non arrivare mai... nella consueta conversazione radiofonica con Bordin, due domeniche fa. La faccenda, anche se ai più risulta oscura, è abbastanza semplice: per presentarsi alle elezioni i partiti devono raccogliere un certo numero di firme “certificate” a sostegno della lista e le esigue forze radicali non ce la fanno a metterle insieme tutte in poco tempo (almeno non in tutte le regioni). Colpa anche - sostengono non a torto - del silenzio sull’argomento dei mezzi d’informazione, Rai in testa, e degli ostacoli, colposi o dolosi, che i comuni frappongono alla raccolta. Da qui la protesta contro la «strage di legalità» che ha innescato lo sciopero della fame e della sete di Emma Bonino e la richiesta di asilo politico che Pannella ha rivolto ai Paesi dell’Ue.Tutta roba incomprensibile se non irri-
scontro politico in piena regola che ha come tema quello dell’eredità, in questo caso di un dopo-Pannella che per il più antico partito italiano in Parlamento sembra non arrivare mai. Emma Bonino presidente di una grande regione, autonomo leader nazionale con una posizione istituzionale di rilievo, è già l’inizio della fine per la condizione di dominio - psicologico prima che di potere - che il presto ottuagenario leader abruzzese esercita sul suo partito. Non è la prima volta che «Marco» si trova a dover ridimensionare «Emma» per “tenersi il partito”, ci torneremo, e anche stavolta lo fa ai danni di una
strategia politica - la convergenza del Pd sulla candidatura della vicepresidente del Senato - che era riuscita a tirar fuori i radicali dall’angolo in cui erano finiti. Lo fa perché Pannella, quando sente vacillare la sua primazia, non conosce altra soluzione che ricorrere alla mistica del «radicale ignoto», il militante senza nome che risponde al suono della sua voce come i serpenti nelle ceste di vimini a quello del flauto. «Corre per perdere». Questa è opinione anonima quanto diffusa in un partito che raramente ha il coraggio di “sfanculare” umori e visioni del nostro, anche quando siano improduttive o dannose. E oggi Pannella, nel rapporto con la sua creatura politica (ché è sua, davvero sua), sembra preda di una sorta di sindrome di Mazzarò, l’eroe verghiano che dopo una vita passata ad accumulare «roba» non riesce a rassegnarsi all’idea che la morte sia limite anche al diritto di proprietà.
Lui, peraltro, forgiato alla politica politicante nell’Ugi dei tempi d’oro, conosce la grazia del passo indietro per farne due avanti e la dolcezza della tattica, la musica delle alleanze e l’eccitazione delle prove di forza. Gli altri no. Adesso, al netto delle molte chiacchiere, l’occasione gliel’ha fornita la situazione in Lombardia dove il can-
didato governatore Marco Cappato - l’unico dirigente favorevole al suicidio propagandato dal capo - non riesce a raccogliere le firme necessarie a presentarsi e questo nonostante il segretario dell’associazione Luca Coscioni (che del grande vecchio pare sentirsi l’erede, forse dimenticando di non essere che l’ultimo a cimentarsi in questo sport) sia convinto di ottenere un risultato lusinghiero alle elezioni. Pannella ha prima costretto Bonino a candidarsi capolista nelle liste radicali in Lombardia proprio a sostegno di Cappato - dando una bella arma di propaganda a Polverini e uno schiaffo in piena faccia al Pd - e ora, dopo che
della fame e della sete che è il suo tributo, spera risolutivo, al potere sciamanico di Pannella. La faccenda delle firme, infatti, si chiude venerdì: dentro o fuori. Il decreto per prolungare i tempi chiesto dai radicali al governo, seppure abbia molti precedenti, presumibilmente non arriverà. A quel punto la candidata nel Lazio potrà dire: ho fatto il massimo, ma adesso per favore non costringermi al suicidio. Tornando a domenica sera, gli interventi successivi sono stati surreali: chi proponeva improbabili accordi al momento della consegna delle firme, chi teorizzava la necessità di distruggere il Pd per rifarlo meglio e chi voleva lo show down
La faccenda della raccolta firme si chiuderà venerdì: dentro o fuori. Il decreto per prolungare i tempi chiesto dai radicali al governo, seppure abbia molti precedenti, presumibilmente non arriverà l’intero centrosinistra laziale s’è già consegnato legato mani e piedi a una sua intuizione, pretenderebbe un disastroso ritiro. Domenica sera, come spesso accade a via di Torre argentina, lo psicodramma s’è consumato in tutte le sue varianti. Il leader-corsaro, nella versione custode del radicale ignoto, ha sostenuto senz’altro che secondo lui le liste vanno ritirate (il che imporrebbe la rinuncia non indolore ai rimborsi elettorali, vitali per un partito indebitato). Bonino, tesa e un po’ commossa, non ha detto proprio di «no», ma s’è proposta per uno sciopero
immediato. Dopodomani comunque, per quanto la situazione possa essere isterizzata dagli interventi di Pannella, il dramma dovrà trovare una conclusione per ognuno degli attori. Nel frattempo Bonino s’impegna nella campagna elettorale e in quella radicale sperando che basti e il suo staff osserva un rigoroso e significativo silenzio.
Undici anni fa, alla fine, vinse Pannella e perse il partito. Erano i tempi della geniale campagna «Emma for president» (poi al Quirinale andò Ciampi) che fruttò comunque alla lista Bo-
politica
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La maggioranza ha modificato il ddl. Il Pd: «Così hanno fatto un pasticcio»
Biotestamento, si potrà sospendere la nutrizione
La legge sarà estesa non solo ai pazienti in stato vegetativo, ma anche ai malati terminali «in casi eccezionali» di Franco Insardà
ROMA. Il ddl sul testamento biologico continua il suo cammino tra emendamenti, stop e polemiche. Ieri la commissione Affari sociali della Camera ha approvato, con 32 voti a favore e 13 contrari, un emendamento proposto dal relatore di maggioranza Domenico Di Virgilio del Pdl. L’emendamento modifica il comma 5 dell’articolo 3 della legge stabilendo che alimentazione e idratazione «devono essere mantenute fino al termine della vita ad eccezione dei casi in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo».
Di Virgilio ha chiarito che «non c’è alcun passo indietro. Nel testo si conferma che idratazione e nutrizione artificiale non sono terapie mediche e dunque non sono oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento (Dat). Non possono essere sospese, se non in casi eccezionali, quando cioè risultano inefficaci a fornire i principi nutritivi necessari al paziennino l’8,5% e 7 eletti alle successive europee. Quell’iniziativa fu un’idea di Giovanni Negri (solo uno dei giovani segretari radicali giubilati dal nostro) e altri, ma Pannella genialmente se la intestò dopo un iniziale momento di difficoltà. Leggenda vuole che fu lui, a quel punto, a “inventarsi” la lista Bonino e che lei, all’epoca commissario europeo, arrivando all’assemblea di Monastier (Treviso) in aprile svenne alla vista del suo nome scritto a caratteri cubitali sul fondo della sala ancora vuota. Dopo il botto della Bonino alle europee, però, Pannella decise di giocarsi tutto il capitale politico - e pure quello economico - sui venti referendum per la rivoluzione liberale dell’anno successivo, salvo poi bizzarramente rifiutare l’apparentamento con le regionali propostogli dall’allora ministro dell’Interno Bianco. Risultato: pochi voti radicali alle amministrative del 2000 e niente quorum per i quesiti. Il perfetto affossamento di un’intera stagione politica. All’indomani delle regionali, in un’assemblea, Rita Bernardini uscì addirittura per qualche tempo dal partito dopo una durissima critica pubblica al capo. «Stavolta Pannella non ha fatto Pannella...», gli disse a voce abbastanza alta dal palco dell’hotel Ergife: «Caro Marco, hai raggiunto il tuo obiettivo: siamo al 2%». Poi la cosa rientrò e tutto è bene quel che finisce bene. Oggi però siamo di nuovo lì, solo che sono passati altri undici anni per il paese e anche per i protagonisti di questa storia.
dere e di volere, per esempio a causa di un coma ipotossico. Se davanti a questi malati terminali – ha detto ancora il relatore - il medico ritiene idratazione e nutrizione inefficaci, può decidere di sospenderli» e ha aggiunto che il testo è stato modificato «proprio per venire incontro al bene del paziente e al medico, l’unico responsabile di giudicare, in scienza e coscienza, la condizione clinica dell’assistito». Dunque il disegno di legge sul biotestamento, secondo le previsioni di Di Virgilio «sarà in Aula dopo le elezioni regionali». Non sono mancate, comunque, le critiche soprattutto dal Pd e dall’Idv. Per Livia Turco, capogruppo democrat in commissione: «Votando l’emendamento Di Virgilio la maggioranza ha fatto un pasticcio perché non è chiaro in quali casi concreti sia possibile la sospensione della nutrizione artificiale e chi la decida». Per Livia Turco l’emendamento approvato «parla di eccezionalità del caso e dell’efficacia dei trattamenti medici nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo. Ma chi stabilisce se si è davanti a un caso eccezionale o no? Chi decide se i trattamenti medici non possono più fornire i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche del corpo? E quali sono queste funzioni essenziali del corpo? Una totale confusione e mancanza di chiarezza che in una materia delicata come questa sono inaccettabili». La Turco ha annunciato anche che l’opposizione «ripresenterà l’emendamento bocciato la settimana scorsa e che prevede, con chiarezza e coerenza, in quali casi sia possibile sospendere la nutrizione: quando non è più in grado di alleviare le sofferenze il medico e i familiari possono decidere lo stop». Anche nella maggioranza non sono mancate posizioni polemiche come quella di Alessandra Mussolini e Melania Rizzoli, componenti della commissione, che hanno abbandonato la seduta al momento della votazione. La Mussolini, molto chiaramente, ha detto che l’emendamento del
Per Dorina Bianchi,ieri «alla Camera ha vinto il buon senso.Volevamo evitare l’accanimento terapeutico,pur considerando cura idratazione e nutrizione»
Nella foto in alto, la candidata alla Regione Lazio Emma Bonino. A sinistra, il leader dei Radicali Marco Pannella. Qui sopra, Domenico Di Virgilio
te». Positivo il commento della neosenatrice dell’Udc che, da capogruppo del Pd in commissione Sanità a Palazzo Madama, aveva assunto posizione spesso criticate dal suo ex partito proprio durante la discussione del testo sul biotestamento. «Oggi alla Camera ha vinto il buon senso», ha dichiarato la vicepresidente dei senatori. «L’intento – ha continuato la Bianchi - è quello di evitare l’accanimento terapeutico, pur considerando idratazione e nutrizione cura. Un concetto, questo, espresso anche in un mio emendamento che però è stato bocciato al Senato. A maggior ragione, ritengo che con questa modifica abbiamo buone speranze che sia approvata una legge giusta, e speriamo che ciò accada in tempi brevi». Domenico Di Virgilio ha spiegato che «a differenza del testo Calabrò, approvato dal Senato, il disegno di legge all’esame della Commissione Affari sociali amplia la platea dei soggetti di riferimento: non solo le persone in stato vegetativo, perciò questi trattamenti non vanno mai sospesi, ma tutti quelli che in quel determinato momento siano incapaci di inten-
relatore Di Virgilio votato «è uno sbraco, rispetto al ddl Calabro, votato al Senato, perché non specifica in modo chiaro chi deve decidere l’interruzione e, inoltre, parla genericamente di pazienti, non solo di stati vegetativi. Dobbiamo fornire al Paese una legge che contenga certezze, che faccia chiarezza.
Mercoledì prossimo - ha annunciato la Mussolini - ci sarà una riunione di chiarimento tra i deputati del Pdl che siedono in commissione. Altrimenti mi farò sentire in aula». Ma la posizione del governo è stata chiarita dal sottosegretario alla Sanità, Eugenia Roccella in commissione: «Il governo è favorevole all’emendamento, affinché il testo sia coerente e il più condiviso possibile e che sia rispettoso dei principi di tutela della vita, diritto alla cura e non discriminazione che abbiamo fissato. Poi, se c’è la possibilità di studiare una formulazione che possa garantire meglio quello che vogliamo ottenere abbiamo tempo». Giusto per tranquillizzare anche i malumori della maggioranza.
panorama
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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
In Italia, tutti «in attesa di giustizia» C arlo Nordio, magistrato, e Giuliano Pisapia, avvocato, hanno scritto il libro In attesa di giustizia. Il titolo è emblematico perché ritrae la realtà: mentre sei in attesa di giudizio ti può anche accadere di morire visto che i processi durano più di una vita, le manette sono facili e i magistrati intoccabili. Le leggi penali sono talmente tante che è difficile conoscerne il numero certo: è certo, però, che il groviglio di leggi è la prima, ma non unica, causa della paralisi della giustizia. Le leggi non sono garanzia di certezza di diritto e di giustizia, ma di arbitrio e ingiustizia.
Una riforma della giustizia è di là da venire. Il ministro Alfano ci lavora, ma avere la garanzia che la riforma si faccia è un altro paio di maniche. Il cosiddetto “processo breve” - e già il concetto è bizzarro perché evidentemente è da pensarsi in relazione a un ingiusto “processo lungo” - è all’ordine del giorno, ma non si sa più bene in quale giorno. Però, intanto chiediamoci: è davvero necessaria un’altra legge per ottenere il risultato di un processo in tempi umanamente sopportabili? Se guardiamo alla macchina del nostro ordinamento giudiziario ci rendiamo conto che già ci sarebbero gli strumenti per avere un processo rapido. Sempre sia necessario arrivare al dibattimento. Perché non di rado quando si arriva in fondo al processo, alla sentenza, tutto finisce con un’assoluzione e l’imputato che si è fatto un bel po’ di carcere preventivo potrà uscire. Era necessario entrare in carcere? Era necessario arrivare al dibattimento? Prima dell’avvio del processo ci sono ben due passaggi che se funzionassero come si deve le aule dei tribunali sarebbero meno intasate: le indagini e l’udienza preliminare. Spesso però, le indagini sono fatte con i piedi, tanto poi ci penserà il giudice dell’udienza preliminare a stabilire se è il caso di proseguire o fermarsi. Infatti, l’udienza preliminare è fatta apposta per fare da filtro: far passare i procedimenti che hanno fondamento e fermare quelli infondati o che necessitano di ulteriori accertamenti e indagini o che possono trovare diversa soluzione dal lavoro dibattimentale. Invece, l’udienza preliminare più che un filtro è un lasciapassare: il giudice è una sorta di Ponzio Pilato che è messo lì proprio per lavarsi le mani e consegnare l’ennesimo procedimento all’aula di tribunale.
Negli ultimi tempi ho maturato una conoscenza non solo indiretta ma anche diretta della materia. Mio malgrado sono coinvolto in alcuni procedimenti giudiziari, o come indagato o come imputato, per aver omesso il controllo di alcuni articoli al tempo in cui ero vicedirettore responsabile de L’Indipendente. Eppure, se il pm prima e il giudice poi avessero solo fatto meglio il loro lavoro avrebbero potuto tranquillamente rendersi conto che non ho omesso il controllo di alcunché perché gli articoli contestati non rientravano nel lavoro della mia redazione (che non è stata mai querelata). È un piccolo caso, ma rende bene l’idea: in attesa ingiustamente di giudizio.
Se la democrazia “diventa” un Prodotto interno lordo Gli effetti della globalizzazione, tra politica ed economia di Francesco D’Onofrio el contesto delle riflessioni che si stanno compiendo o che si sono compiute in riferimento alle conseguenze che il processo di globalizzazione in atto può avere, occorre dedicare una particolare attenzione al rapporto tra globalizzazione e democrazia. Allorché si consideri che l’avvento di forme considerate democratiche si è concretizzato in molti Stati europei soltanto da non più di un secolo, e che negli stessi Stati Uniti d’America la proposta politica democratico-costituzionale è avvenuta poco più di due secoli orsono, è necessario riflettere proprio sul rapporto tra globalizzazione e democrazia perché si tratta di una questione di fondo che concerne la natura stessa liberal-democratica o meno dei sistemi politici nei quali ragionevolmente siamo chiamati a vivere.
N
mondiale porta alla democrazia da un lato e all’incidenza economica dall’altro. Può essere infatti sufficiente – per noi europei in particolare – ricordare che proprio sullo scontro tra la democrazia ritenuta imbelle e l’efficienza ritenuta propria degli Stati totalitari, fu combattuta a lungo una stagione nella quale in molti Stati europei si riteneva che la democrazia fosse un intralcio per l’efficienza. Allorché dunque consideriamo soggetti decisivi del processo di globalizzazione in atto Stati quali la Cina, l’India, il Brasile, l’Iran, dobbiamo valutare con il dovuto rigore il rapporto che in ciascuno di essi vi è proprio tra partecipazione al processo di globalizzazione da un lato ed istituti democratici dall’altro. È di tutta evidenza, infatti, che le esperienze dei Paesi sopra richiamati sono radicalmente diverse, in riferimento a ciascuno degli aspetti che il processo di democratizzazione ha conosciuto negli ultimi due secoli: il rapporto tra religiosità e Stato; il rapporto tra ricchi e poveri; il rapporto tra etnie e razze; la concezione del rapporto tra madrepatria e colonie; il rapporto tra Stato e mercato nell’equilibrio tra libertà ed eguaglianza.
In quest’epoca, il giudizio non riguarda più la natura democratica dei sistemi, ma la capacità di incidere sul Pil mondiale
Nell’intero mondo occidentale si dà infatti quasi per acquisita la evoluzione democratica dei rispettivi sistemi politici, finendo col porre in qualche modo tra parentesi tutte le forme autocratiche, e persino quelle espressamente dittatoriali, quasi che si consideri naturale l’evoluzione democratica dei sistemi politici occidentali medesimi. A far riflettere proprio sul nesso tra globalizzazione e democrazia, è la constatazione che dopo i lunghi anni della Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica – caratterizzati infatti da uno scontro sul concetto stesso di democrazia – si sta passando agli anni della globalizzazione, nei quali sembra che il giudizio non concerna più la natura più o meno democratica dei rispettivi sistemi, ma la rispettiva capacità di incidere sul prodotto interno lordo mondiale. Si sta passando in qualche modo da un confrontoscontro sul concetto di democrazia ad un confronto-scontro sulle diverse capacità dei singoli Stati a concorrere al prodotto interno lordo mondiale. Si tratta pertanto di un passaggio (forse non sufficientemente avvertito), dal concetto politico degli istituti di democrazia, al criterio quasi statistico dell’incidenza economica delle decisioni politiche. Risulta quindi di particolare significato considerare proprio quale è il contributo di fondo, che ciascuno degli Stati che concorrono al prodotto interno lordo
Allorché dunque si esaminano le conseguenze complessive che il processo di globalizzazione in atto può avere su ciascuno degli aspetti considerati fondamentali nella esperienza democratica, che ha incarnato una stagione ancora non troppo lunga e di una parte soltanto del pianeta, è opportuno soffermarsi a riflettere su ciascuna delle conseguenze, senza peraltro mai perdere di vista il significato complessivo delle modificazioni in atto. Si tratta – da questo punto di vista – di sottoporre ad una riflessione complessiva proprio il significato ed il funzionamento di alcune grandi istituzioni globali, nate tutte sull’onda di una scelta complessiva per la liberalizzazione degli scambi. Vi è stata in qualche modo la convinzione che la liberalizzazione significasse di per sé la vittoria della democrazia rispetto alle tentazioni protezionistiche. Occorre infatti considerare che l’evoluzione democratica dei regimi liberali è stata frequentemente registrata in molti Stati occidentali, ma che essa oggi appare del tutto compatibile con sistemi politici autoritari o persino dittatoriali.
panorama
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A cosa serve uno Stato democratico se non riesce ad aiutare i deboli e a favorire le reti sociali di carità?
Trasformiamo la crisi in opportunità Dobbiamo liberare la società dalle lobby della rendita, per premiare famiglie e merito di Luca Volontè eno 20% per import ed export, più cento miliardi il debito della pubblica amministrazione, meno 400 miliardi di entrate... Siamo tornati indietro di quarant’anni e la scoperta che le solite banche americane speculino sulle disgrazie dei Paesi europei in crisi non può risolvere i nostri problemi, né ridurre le nostre apprensioni.Tra qualche settimana emergeranno i dati sulla disoccupazione e allora avremo un quadro più preciso, conferme importanti sulla crisi reale che tocca milioni di persone e famiglie. Nero, tutto è nero e fosco. Ma c’è speranza. Sì, alle tante imprese che chiudono si contrappongono le tantissime che rilanciano, che sono uscite dal tunnel o che stanno uscendo. Il credito italiano non ha aiutato per nulla, solo pochi hanno capito la vera potenzialità della nostra struttura produttiva, la miriade di piccole e medie imprese, l’enorme capitale umano, l’encomiabile lavoro comune che caratterizza il lavoro in Italia.
M
prendersi cura dei figli più piccoli, superando le “barriere legislative”dello Stato e le cocciuta idea fordista di molte grandi imprese italiche.
Tuttavia, dall’uno e dall’altro caso, forza e debolezza delle imprese e sforzi impensabili delle famiglie, emerge un buco nero: la politica e il governo non sono stati in grado di conciliare la giusta attenzione ai conti pubblici con gli aiuti e il sostegno alla povera gente. I fatti non si cambiano, le patacche, scambiati per stimoli ai consumi, a favore delle fa-
miglie si sono rivelati inutili e hanno avuto l’effetto di frustrare le famiglie. Lo iato sempre più ampio fra gli annunci televisivi e le misure concrete intraprese dall’esecutivo, tra tutti l’annunciata riforma fiscale sul principio del “quoziente”, non è stata intrapresa. Il rischio è di non fare nulla di nulla, aspettare che la bufera sia passata, gongolarsi dei ridotti effetti che gli italiani hanno subito, cancellare dalla realtà politica la realtà sociale dei milioni di poveri e “tirare a campare”. Vorrei proporre invece un ripensamento, serio e giusto. È giusto spronare le imprese che sono uscite dalla crisi, grazie a loro stesse, esaltarne le virtù, la capacità di sacrificio e valorizzarne gli sforzi.
Si deve intervenire per reintrodurre il principio di equità fiscale e favorire la natalità
La speranza di questi milioni di uomini e donne italiane deve essere sottolineata e deve essere portata ad esempio, affinché si espanda la fiducia nel futuro. Ciò non basta, è necessario che all’esaltazione a parole, segua una puntuale politica economica di aiuti e sostegni, che concretamente dimostri l’attenzione dello Stato a coloro che“soli”sono riusciti a fare passi nella giusta direzione e, prevedibilmente, con un qualche sostegno possono passare dal lento cammino alla corsa ritmata. Così pure deve ripartire e dev’essere ripensata la politica familiare e occupazionale. Recentemente sono emerse ricerche che confermano
Le famiglie hanno sopportato per l’ennesima volta il compito proprio dello Stato, le famiglie sono state il miglior ammortizzatore sociale nei confronti degli anziani e dei giovani di casa. Non mancano grandi esperienze di sussidiarietà ed operosità sociale tra gruppi di famiglie che hanno sviluppato gli “acquisti comunitari”di generi alimentari e servizi. Tanti si “danno la mano” per
quanto poco spendiamo per le famiglie e quanto potremmo intervenire, cum grano salis, per reintrodurre il principio di equità fiscale e favorire la natalità. Investire nella famiglia significa investire nel bene della società, questo non è solo il dimenticato slogan del “Family day”, è il criterio di giudizio che sempre più governi europei hanno tradotto in azioni concrete in questi anni tremendi di crisi.
Se uno Stato democratico non aiuta i deboli e non favorisce le reti sociali di carità e accompagnamento, a cosa serve? Liberare la società dalla cappa asfissiante delle“lobby di rendita”, mettere in circolo la libertà di affermare i propri talenti, riportare l’equità familiare, favorire la sussidiarietà sociale, premiare i “primi”e creare opportunità per chi per ora non riesce ad emergere, non sono queste i compiti primari che la politica deve vagliare, se desidera perseguire il bene comune. Quindi forza, c’è di che preoccuparsi fortemente, la situazione è nera e non grigia, ma ci sono molti motivi di speranza, tante ragioni per guardare al futuro non attraverso il monocolo delle giustizia e degli scandali pruriginosi. Quest’anno si celebra l’anniversario dell’Unità d’Italia, piuttosto che discutere sui pennacchi di allora, diamo concrete ragioni della nostra Unità, la crisi è un’occasione, un compito e una responsabilità per ciascuno, in primis la classe dirigente.
Il caso. Il governatore uscente della Calabria: «Se dovessero condannarmi non mi candido più»
L’ansia di Loiero tra Pd, Idv e Why not di Ruggiero Capone Idv era disponibile ad accordarsi in Calabria su un candidato presidente gradito alla componente Marino del Pd. Ma Loiero, prima di promettere il suo ritiro, ha sbarrato la strada a qualsiasi candidato frutto d’intese tra de Magistris e Marino. Loiero si prepara spiritualmente a fare un passo indietro, conscio che il fantasma dell’inchiesta Why Not possa azzopparlo. Ma prima sigla un accordo di ferro col segretario del Pd Bersani e perché solo un bersaniano di ferro possa subentrargli, tagliando così la strada a tutti gli uomini di Marino (graditi a Radicali e amici dei responsabili Idv). Scelta quella di Loiero su cui pesa l’inchiesta aperta da de Magistris (quand’era magistrato aprì il capitolo Why not). Oggi de Magistris è in politica, e ha proibito all’Idv qualunque accordo con Loiero. Che ieri ha annunciato che, se verrà condannato, non sarà più il candidato del Pd alle prossime regionali in Calabria. Lo ha detto durante una pubblica assise del Pd, e alla presenza del segretario Bersani e degli altri candida-
L’
ti presidenti. «Fra tre giorni ci sarà la sentenza - ha spiegato - non vorrei dare una brutta notizia a Bersani, ma se dovessi essere condannato, se i giudici dessero valore alle richieste del pm, io non mi candiderei». La sentenza del processo (con rito abbreviato) scaturito da Why Not è attesa a
stituirebbe, figurarsi! Il loierismo è giunto alla sua fase terminale, è in caduta libera nel consenso dei calabresi, si prepara ora ad inventarsi liste civiche ed a svuotare quel che rimane del Pd e di parte della sinistra che lo asseconda. L’onorevole Loiero - ha aggiunto - ha interpretato male la mia proposta, snaturandone il significato. La sua risposta tuttavia pone fine a ogni incertezza e ristabilisce le differenze insuperabili tra due offerte politiche, la mia e la sua, che sono inconciliabili, perché sono rappresentative di due modi opposti di sentire la politica». Loiero non vuole darla vinta a Callipo (quindi a de Magistris) e sbarra la strada a qualsiasi candidato frutto dell’intesa tra il Pd Marini e l’Idv. Callipo credeva che Loiero abboccasse al “passo indietro di entrambi”, per giungere a una candidatura che mettesse insieme Idv e Pd.
Il presidente scongiura un’intesa tra i democratici dell’area di Marino e il partito di quello stesso magistrato de Magistris che avviò l’inchiesta ore. È relativa a presunte irregolarità nella gestione di fondi pubblici in Calabria.
Il pm Facciolla ha chiesto di condannare Loiero (presidente uscente ricandidatosi) a un anno e mezzo di carcere per abuso d’ufficio. «Loiero - ha detto Callipo, candidato alla presidenza della Regione Calabria con Idv, liste civiche e Radicali - propone di indicare lui il nome del candidato che lo so-
mondo
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Equilibri. Mentre la Nato elabora il suo nuovo piano strategico, il Vecchio continente cerca il disarmo totale
Opzione Zero (bombe) Cinque Paesi europei chiedono agli Usa di liberarli dalle testate nucleari tattiche di Mario Arpino ossa a sorpresa di Belgio, Olanda, Norvegia, Lussemburgo e Germania. Sulla scia dell’auspicio di Barack Obama per l’Opzione Zero, i cinque Paesi passano a vie di fatto, chiedendo agli Stati Uniti il ritiro delle armi nucleari tattiche, si parla di circa duecento testate, ancora dislocate sul territorio europeo. A dire il vero, Angela Merkel già nell’ottobre scorso, riconfermata alla guida del governo, aveva indicato tra i suoi obiettivi quello di liberare la Germania da questo tipo di armamenti. L’appello è “a orologeria”, in quanto compare proprio nel momento in cui la Nato sta elaborando il nuovo concetto strategico - che dovrà anche comprendere la dottrina nucleare - ed è in preparazione a New York, per il prossimo maggio, la conferenza per la revisione ed il rinnovo del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp). Ora, il dibattito è aperto. In realtà, i non occidentali Cina, Russia, India, Pakistan e, per certo, Israele - non sembrerebbero particolarmente ansiosi di liberarsi di testate e vettori. Anzi, li stanno potenziando. Così come la Francia, che ha già ammodernato la force de frappe e, rientrata nella Nato a pieno titolo, non rinuncerà certo al tavolo del Nuclear Planning Committee (Npg). O la Gran Bretagna, che dismette molte cose, ma ha in corso di ammodernamento la flotta di sottomarini lanciamissili. Nemmeno gli Stati Uniti, nonostante il generoso appello di Obama, saranno felici per questa arcobalenante novità originata in centro Europa.
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Là si guarda con crescente preoccupazione alle imprese della Corea del Nord e dell’Iran, e si segue con attenzione la progressiva erosione della stabilità pachistana. Anche in America il dibattito sul nucleare c’è, ma in direzione che sembrerebbe assai diversa. Mentre i cinque europei dell’appello ingenuamente dicono: «Se non rinunciamo prima noi, con che faccia possiamo chiedere agli altri di farlo?», negli Stati Uniti si discute se non sia opportuno snellire gli arsenali, liberarsi
dall’ingombro delle vecchie armi, ma dotarsi nel contempo di mininukes pulite e precise, in modo di mantenere comunque in inventario un deterrente sufficiente, utilizzabile sia “controforze”, sia “controvalore”. Anzi, per quanto riguarda l’Iran, gli Stati Uniti e la comunità internazionale continuano a minacciare sanzioni, ma lo fanno sempre più stancamente, quasi con un senso di rassegnazione a vedere tra non molto un nuovo ingresso nel club nucleare. Anzi, comincia addirittura ad esserci qualcuno che, con tono consolatorio che ricorda molto la sto-
I non occidentali - Cina, Russia, India, Pakistan e Israele - non sembrerebbero particolarmente ansiosi di liberarsi di armi e vettori. Anzi li potenziano, come la Francia riella della volpe e dell’uva, fa acrobazia sugli specchi per convincere - e convincersi - che, in fondo in fondo, per l’America non è poi questo gran disastro se Teheran riesce a dotarsi dell’arma nucleare. Anzi, tornando alla
storia del bicchiere mezzo pieno, alla distanza gli Stati Uniti potrebbero addirittura trarne vantaggio. La singolare uscita non viene dalle elucubrazioni a tutto campo di un laureando, ma da un esperto in materia, Adam B. Lowther, analista del-
Ridurre gli ordigni atomici danneggia molto di più la forza di Washington che quella di Mosca
I giochi pericolosi di Obama di John R. Bolton Amministrazione Obama ha da poco lanciato alcune campagne per sostenere le sue iniziative chiave sul controllo degli armamenti. Queste offensive pubbliche servono a sostenere un trattato chiave che si sta portando a termine con la Russia, la ratificazione di trattati precedentemente bloccati e procedere con maggiori negoziati per il controllo degli armamenti. Sebbene fino ad ora trascurate dai media, le priorità sul controllo degli armamenti di Obama sono elementi fondamentali nella sua imminente agenda di politica estera. Le complessità del controllo degli armamenti e il denso linguaggio ne hanno tipicamente limitato la considerazione ad un quadro di alti sacerdoti e sacerdotesse, debitamente nascosti al pubblico. Questa condizione non è stata molto vantaggiosa, poiché la posta in gioco coinvolta nella disorientata politica dei controlli degli armamenti era straordinariamente alta. Proprio per la posta in gioco, la gente dovrebbe essere totalmente informata e
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coinvolta come in qualsiasi altra questione che riguardi la sicurezza nazionale. La maggior parte della teologia sul controllo degli armamenti giace su premesse sbagliate, le cui conseguenze possono essere molto nocive agli interessi in fatto di sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
Esiste un pericolo reale, per esempio, nel negoziare tetti massimi sul quantitativo di armi, così come sulle testate nucleari, senza alcun riferimento alle nostre vere esigenze strategiche. Gli obiettivi solamente numerici non riflettono i divergenti interessi globali e gli obblighi delle parti opposte, le loro asimmetriche convenzionali capacità militari e di intelligence e le loro variabili forze economiche. Non toccato da questi avvertimenti, tuttavia, il presidente Obama annuncerà presto un trattato con la Russia sulla limitazione degli armamenti nucleari. Secondo le dichiarazioni dell’Amministrazione (e secondo alcune soffiate della stampa) i nuovi limiti sulle testate saranno al di sotto di
quelli sanciti nel 2002 con il Trattato di Mosca. Allora, la Russia e l’America si accordarono per tetti massimi fra le 1700 e le 2200 testate nucleari strategiche dispiegate operativamente entro il 2012, dando per assodato che il numero di testate statunitensi sarebbe stato vicino al dato più alto. I nuovi limiti dell’accordo di Obama dovrebbero essere fra le 1500 e le 1675 testate, il che significa che dovremo affrontare notevoli riduzioni, e molto prima del 2012. Anche se la Russia dovesse scendere fino al dato più basso, le sue riduzioni sarebbero niente in confronto alle nostre. Tuttavia le posizioni degli Stati Uniti e della Russia non sono parallele e limiti equivalenti alle testate danneggiano Washington più che Mosca. L’America ha un impegno globale verso molti alleati, dai Paesi della Nato al Pacifico, protetti dal nostro ombrello nucleare. La varietà delle minacce e le contingenze pericolose che abbiamo di fronte, come da parte dei terroristi e degli stati canaglia quali la Corea del Nord e l’Iran, è sostanzialmente maggiore
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Una centrale nucleare. Sopra, mullah osservano un missile iraniano. In basso, Barack Obama. Nella pagina a fianco, il Cancelliere tedesco Angela Merkel, che ha chiesto il ritiro delle testate tenuerebbero l’atmosfera ostile che ha portato all’11 settembre. Secondo, il fatto di divenire il provider primario di sicurezza regionale consentirebbe di infrangere il cartello dell’Opec, porre fine al monopolio dei paesi arabi, abbassare in modo significativo il prezzo del barile, risparmiando ogni anno mil’Air Force Research Institute, presso l’Air University di Maxwell, in Alabama. In un articolo dell’inizio di questo mese, asserisce - e questo è vero che l’attuale politica di Washington verso Teheran finora non sta portando da nessuna parte. Se non ci sono piani credibili, allora occorre cambiare l’ottica secondo la quale l’America guarda a un Iran nucleare, e vedere i benefici che gli Stati Uniti potrebbero trarre se l’Iran dovesse davvero entrare in pos-
sesso della bomba. Il ragionamento dell’articolista si sviluppa in cinque proposizioni.
Primo, un Iran nucleare sarebbe primariamente percepito come una possibile minaccia ai Paesi sunniti dell’area - Arabia Saudita compresa - piuttosto che agli Usa. Questo darebbe a Washington l’opportunità di offrirsi come ombrello per la sicurezza regionale, ottenendo in cambio vantaggi economici, politici e riforme sociali che at-
e più impegnativa rispetto a quella che si trova di fronte la Russia, che essenzialmente non ha alleati da proteggere. Strizzare i livelli di forza degli Stati Uniti quindi non è solo un modo per rendere l’America più debole, ma anche per rendere i suoi alleati meno sicuri e meno fiduciosi nella nostra capacità di proteggerli. Inoltre, gli Stati Uniti sono molto avanti alla Russia nell’uso di avanzati sistemi di portata (missili balistici e da crociera e bombardieri pesanti) per trasportare carichi utili convenzionali. Si tratta di un elemento significativo della capacità dell’America di rispettare gli impegni di alleanza su larga scala e altri vitali interessi in tutto il mondo. Ridurre i numeri disponibili di sistemi di portata per le testate convenzionali, come sembra intenda fare il trattato, è un notevole passo indietro verso le obsolete “regole che contano” sul controllo degli armamenti che andranno irrimediabilmente a vantaggio della Russia alle spese dell’America e dei suoi alleati. Sembra che i consiglieri di Obama non capiscano quanto la riduzione dei sistemi di portata nuocerà alla strategia del Pentagono di incrementare l’affidabilità di testate convenzionali piuttosto che nucleari. Forse ancora più fastidiosi sono i comunicati stampa secondo cui Mosca sta ancora comprimendo le capacità di difesa missi-
scerebbe di certo indenni i Palestinesi. Questo diventerebbe quindi un pericolo condiviso da entrambi, e ciò potrebbe fungere da catalizzatore per la conciliazione. Paradossalmente, ciò che non è riuscito a cinque presidenti degli Stati Uniti potrebbe divenire merito indiretto dell’Iran nucleare. Quarto, il
Con coraggio, è necessario fare progressi in tutte le componenti del nuovo Trattato: la non proliferazione, il disarmo progressivo con i relativi controlli e l’uso specifico dell’energia nucleare liardi di dollari. O, come minimo, Obama potrebbe scambiare la sicurezza con un aumento della produzione, provocando comunque una diminuzione dei prezzi.Terzo, la minaccia di utilizzazione della bomba contro Israele, se attuata, non la-
tirarsi indietro, anche in modi minori, rappresenterebbe un errore di dimensioni straordinarie. Se Obama in ultimo rivela un trattato che limita i nostri programmi di difesa missilistica, per quanto in minima parte, solo questo potrebbe essere una ragione sufficiente per batterlo in Senato, qualsiasi siano i limiti alle testate e ai sistemi di portata. L’imminente trattato Russia-Stati Uniti è solo l’inizio del rinascimento del controllo degli armamenti. Il vice presidente Biden ha annunciato la scorsa settimana, ad esempio, che l’Amministrazione spingerà per ratificare il Trattato di bando complessivo dei testi nucleari, che fu in verità battuto in Senato nel 1999. Con gli anni non è migliorato. Negoziati multilaterali sulle armi nello spazio esterno, la produzione di materiale fissile, e le restrizioni alle armi convenzionali (che potrebbero anche essere un tentativo internazionale di limitare o proscrivere la detenzione civile di armi) sono tutti in fila per l’attenzione del presidente. Il Senato può e dovrebbe esaminare ogni trattato per i suoi singoli meriti.Tuttavia il criterio adatto deve basarsi su quanto un dato accordo migliori la sicurezza nazionale dell’America. Non è il luogo per teorie astratte e ingenue, o per giochi di numeri a discapito della strategia.
Il presidente statunitense annuncerà presto un trattato con la Russia sulla limitazione bilaterali degli armamenti. Ma questa proposta rappresenta un’equazione squilibrata, e il Cremlino lo sa bene listica statunitensi. L’apparente indisponibilità dell’amministrazione Obama di rifiutare queste costrizioni rappresenta un forte passo indietro rispetto all’incondizionata determinazione del presidente Bush di creare capacità di difesa missilistica. La decisione di Bush di ritirarsi rispetto al mal concepito, obsoleto Trattato Anti-Balistico e Missilistico del 1972 è stato un passo in avanti per le capacità di difesa dell’America e per la sicurezza dei nostri cittadini. Per il presidente Obama
rinnovato legame con il mondo arabo sunnita e le esigenze di una partnership attiva nella sicurezza regionale consentirebbe la ripresa delle forniture militari, dando una boccata di respiro all’occupazione e a un’industria che, dopo i tagli per la
crisi economica e la nuova politica sociale di Obama, sta dando segno di crescente difficoltà. Quinto ed ultimo concetto, sarebbe possibile contenere il formidabile flusso di dollari nelle casse di questi Paesi, non solo con la diminuzione del prezzo del barile, ma con la condivisione del costo della sicurezza regionale, risparmiando decine di miliardi nel finanziamento delle missioni oltremare. È convinzione dell’autore, ma il pensiero sta facendo breccia in molti ambienti dei due schieramenti, che lo shock iniziale di vedere un Iran con l’atomica sarebbe presto compensato da una nuova dinamica regionale, simile negli effetti a quella provocata dalla guerra fredda in Europa, ovvero un lungo periodo di “pax nucleare”. In più, sia Cina che Russia si guarderebbero bene dall’alterare il nuovo equilibrio, fornendo all’Iran armi e tecnologia.Fantasia, certo, ma è uno scenario possibile, che, tutto sommato, non è per nulla in contrasto con il raffreddamento progressivo che il Trattato di non proliferazione si prefigge.
Ma, al di là di questo, il Tnp rimane la pietra angolare del regime globale di non proliferazione, da adattare alla complessa realtà del XXI secolo. Con coraggio, è necessario fare progressi in tutte le sue tre componenti: la non proliferazione, il disarmo progressivo con i relativi controlli e l’uso specifico dell’energia nucleare. In questo quadro, che è ampio e con orizzonti lontani, la questione nordcoreana ed iraniana sono solo incidenti di percorso. Come pure lo potrebbero diventare, fatte salve le evidenti differenze, le fughe in avanti europee trainate da Belgio e Germania. Anche l’Italia, il cui riconosciuto impegno alla causa della non proliferazione è di lunga data, a New York avrà un ruolo importante. La recente nomina dell’ambasciatore Carlo Trezza a presidente del comitato consultivo dell’Onu per gli affari del disarmo ne è palese testimonianza.
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Dall’Essere al Pensare, dalla Voce al Silenzio, dalla Differenza alla Divers
Pasolini il filosofo, ifferenza e Diversità. Questi i due concetti che a nostro avviso avvicinano e mettono a confronto il pensiero di Martin Heidegger a quello di Pier Paolo Pasolini. Ma prima di addentrarci nel significato teoretico di tale parallelo, vorremmo precisare come esso nasca anche dalla contemporaneità che ha visto maturare la vicenda esistenziale di entrambi: Pasolini e Heidegger sono morti ad un anno di distanza, rispettivamente nel 1975 e nel 1976, anche se il filosofo tedesco superava di 30 anni il poeta friulano.
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Tuttavia è fuori dubbio che gli anni Cinquanta e Sessanta abbiano rappresentato per essi la fase maggiore: e l’importanza dell’analogia ri-
Analogie e convergenze esistenziali di due personaggi così diversi tra loro eppure accomunati dalla stessa fame di ricerca e conoscenza di Franco Ricordi siede anche nell’aver criticato, dai due paesi europei che avevano perduto la seconda guerra mondiale, l’anelito quasi cieco allo sviluppo univoco dell’industria e della tecnologia. È evidente come la ricostruzione del piano Marshall e il conseguente boom economico degli anni Sessanta rappresentò per entrambi un oggetto e anche una situazione di riflessione particolari: Heidegger annunciò la “svolta”, la celebre Kehre della sua filosofia, anche se non si trattò di un ripudio della più giovanile Seinsfrage: fu invece il tentativo di precisazione ulteriore del suo pensiero, che si rafforzò attraverso la nozione di differenza ontologica, la fondamentale distinzione fra l’Ente - inteso sia nel senso Supremo (Dio) che intramondano (l’oggettività della tecnica) - e l’Essere. Se nella prima parte del suo pensiero Heidegger aveva risollevato il problema che «tenne col fiato sospeso Platone e Aristotele», la domanda verso l’Essere (Frage nach dem Sein) pur in una forte suggestione con la teologia di ogni tempo da Agostino a Kierkegaard, nella fase più matura si concentrò sul rapporto fra l’Abbandono all’Essere (Gelassenheit) e la dispersione nell’utilizzabilità dell’ente, ovvero la tecnologia. E da tale riflessione nascono gli straordinari spunti del libro Che cosa significa pensare?, Was heisst denken?, laddove il verbo heissen si traduce anche con “chiamare”. Tale senso del chiamare ovvero dell’essere chiamati era stato già tematizzato da Heidegger nella sua prima grande opera Essere e Tempo, Sein und Zeit, dove nell’analitica esistenziale l’uomo perviene all’ascolto di una Voce che proviene da «qualcuno che chiama», qualcuno che sta «in me ma anche sopra di me». Che co-
sa afferma questa Voce che ci sottrae alla dispersione inautentica della quotidianità? Esattamente, scrive Heidegger, nulla. La Voce che «chiama all’ascolto» non racconta niente sul piano mondano, piuttosto ci ri-chiama alla percezione di quel «nulla», quella «possibilità più autentica» della nostra esistenza che è rappresentata dalla consapevolezza della nostra assoluta «impossibilità»; impossibilità di realizzarci se non nell’accettazione della morte; la morte come «scrigno del nulla», da cui proviene evidentemente la stessa Voce che «dice il Nulla», e in cui la Parola è intesa come Voce del Silenzio. Il Silenzio che promana da questa “Voce” è la Parola che “dice” il Nulla. Questa profonda suggestione accompagna l’intero arco della filosofia heideggeriana, fino a stemperarsi nel confronto con la poesia che sarà fondamentale per la sua evoluzione; e che in tal modo porta avanti il percorso
Entrambi hanno criticato dai due paesi europei che avevano perso la guerra, l’anelito quasi cieco allo sviluppo univoco dell’industria e della tecnologia iniziale, rimasto “interrotto”come i “sentieri nel bosco”, nella prima grande suddetta opera che come noto rimase incompiuta. Ora questa stessa percezione di una Voce che si può definire “altra”, diversa da ogni voce che ascoltiamo nella quotidianità, viene espressa tematicamente da Pasolini in una straordinaria descrizione di quel primo dopoguerra in cui, dopo l’immane conflitto, la gente delle città e dei paesi era caratterizzata da un “non parlare”.
Nella sua prima e tragicamente autobiografica opera teatrale, Orgia, i due protagonisti si interrogano su quello che “dicevano” i loro padri. E descrivendo la vita delle città e dei paesi del Nord Italia nei tardi anni Quaranta pervengono ad un anelito per il “non parlare”che supera ogni possibilità di linguaggio e comunicazione. «La gente non parlava», scrive Pasolini, laddove in essi cercava di prendervi posto «la parola non detta». È un passaggio di alta poesia e, insieme, innovativa teatralità: Pasolini
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sità. Viaggio nell’intelletto ispirato di due grandi “ribelli” del Novecento
Heidegger il poeta ricerca e si avvicina a quella stesso Verbo, ovvero Parola teatrale, che nasce dall’ascolto di “chi non parlava”. Evidentemente questo “non parlare” è un qualcosa che parla in maniera assai più forte e profonda, al di fuori delle chiacchiere, degli equivoci e curiosità quotidiane, e che certo oggi risulta ancor più difficile percepire. Questo anelito per la “parola non detta”, ovvero per una parola che si afferma “non parlando”, quindi attraverso il Silenzio, è la peculiarità poetica e filosofica che avvicina Pasolini a Martin Heidegger, anche se probabilmente il nostro poeta non conosceva il filosofo della Selva Nera. Si potrebbe pensare ad una diversità della Parola, alla necessità di elevazione e percezione di una parola dell’Essere, ovvero della parola “inaudita”, che è sostanzialmente preclusa nella vita di tutti i giorni. Ma proprio questa diversità e questa inaccessibilità sono tematizzate da Pasolini all’inizio della tragedia, quando il suo alter-ego e protagonista si presenta al pubblico qualificandosi essenzialmente come un Diverso. Ecco, qui sta il nodo. La Diversità per Pasolini non fu mai vissuta tanto meno presentata come una sorta di apologia dell’omosessualità; piuttosto è vero il contrario: essa fu l’apertura per poter intuire e approfondire questa stessa nuova dimensione: «Cos’è insomma la Diversità/ quando essa stessa non divenga diversa da sé?», si chiede il suo alter-ego sempre nel prologo di Orgia.
Ecco, la ricerca poetica e filosofica di Pasolini non abbandona mai questa innata convinzione di una «diversità diversa da sé stessa». Una diversità che in tale maniera non rischia mai di divenire omologazione nella norma, dunque parte della norma essa stessa. E anche per questo motivo Pasolini fu bollato come un eretico dal Pci, pur rimanendo egli uomo di forte convinzione a sinistra. E il suo anelito, anche a livello esistenziale, fu sempre caratterizzato dalla ricerca di questa Diversità, in particolare nell’ambito dell’affermazione industriale e mediatica del secondo dopoguerra: laddove la sua celebre distinzione fra progresso e sviluppo rappresentò la prima tappa di tale itinerario, culminante a nostro avviso nella forte demonizzazione dello strumento televisivo: «La televisione è come la bomba atomica», affermò duramente Pasolini. Anche qui il parallelo continua: negli anni Cinquanta Heidegger notava, insieme a Gunther Anders, primo marito della sua amata Hannah Arendt, come siamo ormai destinati a vivere in un’epoca «dell’immagine del mondo», in una pianificazione planetaria che tende immancabilmente ad una omologante riduzione delle nostre libertà esistenziali. E qui è la stessa concezione della libertà che viene a toccare, in maniera inedita e complessa, il nostro rapporto con la televisione e i media in genere: Pasolini ci ha messo in
guardia nella maniera più istintiva e pure sospettosa sull’accettazione “democratica” di ciò che rappresenta la strumentalità televisiva. Ed è lo stesso problematicismo di Heidegger quando condanna l’essenza della tecnica sul piano metafisico. Così per entrambi diviene fondamentale il ritorno e la riflessione sulla dimensione rurale e contadina verso la quale fortemente anelano proprio in quegli anni di ricostruzione industriale. Essa non rappresenta soltanto un fattore ecologico, di salvaguardia della natura, ma qualcosa di più; la possibilità di attingere una nuova dimen-
Tutti e due hanno messo in guardia, nel modo più istintivo e sospettoso, sull’accettazione “democratica” di ciò che è la «strumentalità televisiva» sione che potremmo definire soteriologica: entrambi ricercavano il senso di una Voce “diversa”,“altra”, una Voce che potesse porsi in alternativa a questa univoca e fondamentale tendenza della nostra epoca, e votata evidentemente ad una diversa via di salvezza: «Ormai solo un Dio ci può salvare», disse drammaticamente Heidegger nella sua celebre ultima intervista a Der Spiegel del 1966, pubblicata postuma. Pasolini non si salvò, ma ci ammonì duramente con la sua disperata e inquietante ricerca di una alternativa esistenziale. Potremmo peraltro anche evidenziare gli errori politici di entrambi, che furono legati per Heidegger ad una opportunistica e non chiara adesione al nazismo (ripudiata peraltro dopo un anno), e per Pasolini allo sconsiderato attacco nei confronti dei potenti democristiani del tempo, tacciati senza distinzione di fascismo, in un messaggio che ha dato adito a forti fraintendimenti.
Senza mitizzare quello che è stato definito il “pasolinismo”, vorremmo invece riportare il suo discorso nel cuore del pensiero poetico e filosofico che lo sottende. Tanto più sarà giusto ribadire l’importanza e la forza ontologica di questo parallelo con Heidegger, dell’analogia fra la loro differenza e diversità, per molti versi ancora non compresa, che certamente non è applicabile né richiesta da alcuna dottrina o ideologia. E tuttavia, nel XX secolo, è stata forse la più grande interpretazione della Parola poetica, di quella “Altra Voce”che ci richiama nuova-
mente al pensiero, in una dimensione che non può sottrarsi al confronto essenziale con la poesia, come sempre più tematizzato da Heidegger, e sempre più realizzato da Pasolini. Il filosofo tedesco si avvicina al poeta italiano, la filosofia diviene amica della poesia.
E in ultima analisi non possiamo fare a meno di sentire il rapporto tanto più problematico quanto profondo e fraterno delle due nazioni in causa, Italia e Germania: un rapporto difficile, storicamente, tanto più avvolgente e fecondo sul piano culturale. Un confronto di stima e sospetti, odio e amore, ma anche di profonda complicità. Una relazione che vorremmo sintetizzare nello splendido quadro di Friedrich Overbeck, intitolato appunto Italia e Germania, dove le due bellissime fanciulle, la bionda e la bruna, si stringono la mano e appaiono amiche, profondamente amiche.
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Turchia. L’ondata di arresti che lunedì ha scosso il Paese (giustificata da un presunto golpe alle porte) non ha convinto nessuno
Il bluff di Erdogan
L’obiettivo del premier? Cambiare la Costituzione, limitare il potere di militari e magistrati e continuare a governare senza più ostacoli ISTANBUL. Per molti in Turchia
pubblicato una serie di articoli, sempre con materiale esclusivo, tutti contro l’esercito.
di Marta Ottaviani
è ancora l’unico statista possibile, l’unica persona in grado di traghettare il Paese verso la modernità, la piena democrazia da una parte e l’ingresso nell’ Unione Europea dall’altro. Ma adesso, dopo tre anni di arresti e inchieste, una fetta della popolazione comincia a chiedersi se Recep Tayyip Erdogan e il suo governo islamico-moderato stiano realmente cercando di tutelarsi da un pericolo che porterebbe alla destabilizzazione della Turchia, o se invece abbiano messo in campo una strategia di aggressione preventiva, per rendere più innocua possibile una parte dello Stato, l’esercito e la magistratura, che spesso ha fatto più opposizione al premier delle altre forze in parlamento. In nome di quel Paese laico fondato nel 1923 da Mustafa Kemal Ataturk.
Il Primo ministro due giorni fa ha parlato di golpe sventato e arresti importanti. Il quotidiano Zaman, vicino alle posizioni dell’esecutivo, ieri mattina scriveva che erano finiti in manette «toccabili e intoccabili», con chiaro riferimento ai 12 alti ufficiali coinvolti nella retata di ieri e fra i quali figurano niente meno che gli ex comandanti delle Forze aeree e delle Forze di mare, Ibrahim Firtina e Ozden Ornek. Eppure quella che dovrebbe essere una grande
tere. L’accusa rivolta all’organizzazione segreta è quella di aver in mente una precisa strategia della tensione per buttare il Paese nel caos e rovesciare il governo democraticamente e trionfalmente eletto dal popolo nel 2007. Il suo disegno eversivo è innegabile, come pure la
Fermi e catture vanno avanti da due anni, gli imputati sono centinaia, i filoni di processi aperti fino a questo momento sono tre. Ma le conclusioni non si vedono all’orizzonte vittoria per il governo e la stabilità interna del Paese rischia di trasformarsi in un boomerang. A molti è parso che questa volta si sia alzato un po’ troppo il tiro, oltrepassato quel limite dopo il quale le forze armate potrebbero anche cercare di reagire, anche se un golpe nel senso classico del termine sembra essere quanto mai improbabile. Le operazioni nelle quali sono coinvolti i 49 arrestati di due giorni fa fanno sorgere più di un dubbio. La prima è l’ormai celeberrima Ergenekon, che sembra essere diventata la madre di tutte le disgrazie che hanno colpito la Turchia negli ultimi anni, soprattutto da quando Recep Tayyip Erdogan ha preso il po-
lunga serie di fatti di sangue che hanno portato il Paese più di una volta sull’orlo del baratro, dall’omicidio di Don Andrea Santoro alla strage di Malatya, quando tre presbiteriani furono barbaramente trucidati per motivi religiosi.
Dall’uccisione del giornalista armeno Hrant Dink, a quella del giudice del Consiglio di Stato Mustafa Ozbilgin, troppo spesso dimenticato, freddato nel corridoio del Consiglio di Stato stesso da un avvocato islamico per una sentenza emessa contro il velo. Tutti eventi tragici, che hanno una regia e un burattinaio co-
mune. Ma le ondate di arresti vanno avanti da due anni, gli imputati sono a centinaia, i filoni di processi aperti fino a questo momento sono 3 e le conclusioni ancora non si vedono nemmeno da lontano. Forse perché, come pensano alcuni autorevoli turchi e stranieri, sarebbero molto meno eclatanti del previsto e soprattutto vedrebbero coinvolta solo una minima parte delle decine di militari e magistrati in pensione, accademici e giornalisti coinvolti fino a questo momento. Lascia scettici anche l’operazione Balyoz, il “martello” in turco, che prende le mosse da alcuni documenti top secret pubblicati per in-
tero dal quotidiano Taraf, e che descrivono un piano datato 2003 per sovvertire il primo governo Erdogan, che a quei tempi era stato eletto da pochi mesi. Per attuare questo piano era prevista una serie di atti di sangue, come bombe nelle moschee e dirottamento di aerei di linea. Al momento non è ancora stato dimostrato se i documenti pubblicati da Taraf siano autentici o meno. Non solo. Da quando è uscito in edicola, il quotidiano Taraf, che con poca diplomazia significa “la parte”, ha
E per quanto il quotidiano non abbia risicato critiche anche al governo, questo suo antimilitarismo e il sospetto che dietro ci sia il pensatore islamico in esilio volontario Fetullah Gulen non sono esattamente delle garanzie per l’elettorato che di Erdogan non si fida. Il Capo di Stato Maggiore, generale Ilker Basbug, fino a questo momento ha gestito i rapporti con l’esercito con grande diplomazia, incontrando periodicamente il premier Erdogan e cercando di tenere i toni bassi. Ma quando Taraf ha pubblicato il suo ultimo scoop, ultimo di una lunga serie, tutti piuttosto gravi, ha convocato una conferenza stampa, chiamando fuori le forze armate da ogni tipo di compromissione con questi piani e aggiungendo che qualcuno nel Paese stava facendo di tutto per screditare l’esercito, la cui pazienza stava per giungere al limite. Da quel momento non ha più parlato. Se dunque con le forze armate i rapporti non sono sereni anche con la magistratura vanno piuttosto male, soprattutto negli ultimi giorni. Giovedì scorso infatti, Ilhan Cihaner, Capo della Procura di Erzurum, è finito in manette, con l’accusa di essere anche lui un membro di Ergenekon. Nonostante l’appello di molti giuristi e magistrati perché il Procuratore capo fosse rilasciato, la seconda corte criminale di Erzurum ne ha convalidato l’arresto. Questo ha spinto a un gesto senza precedenti. L’Hsyk, il Consiglio per la ma-
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La tesi di Omer Taspinar, direttore del Turkey project alla Brookings ra veti francesi e grandi perplessità tedesche e con il grande punto interrogativo sui veri confini dell’Europa, esiste una corrente di pensiero americana che ancora vede nell’attuale premier turco e nel suo partito, Akp, un modello che viene definito come una specie di «Democrazia cristiana, islamica» per fare un paragone con l’esperienza italiana. Oltre Atlantico c’è ancora qualcuno che spera che il percorso fatto da Ankara possa portare il Paese verso una maggiore responsabilità internazionale ma che prevedeva che in una Turchia senza Europa i militari si sarebbero sentiti in pericolo. Omer Taspinar, direttore del Turkey project della Brookings Istitution e professore al National war college di Washington, ha risposto alle domande di liberal su islam, politica turca verso l’Europa e il Medioriente e sul nuovo modello che chiama «neo-ottomanesimo». Come potrebbe cambiare il ruolo della Turchia come membro della Nato, crede che col governo Erdogan potrebbe abbandonare l’alleanza? Non penso possa cambiare molto in un’Alleanza atlantica dominata da Usa e Inghilterra. E un’eventuale decisione di recedere dalla Nato creerebbe molti problemi interni alla Turchia. Romperebbe gli equilibri tra potere civile e militare. Le Forze armate contano e stimano molto le proprie relazioni con gli Stati Uniti. Dopo l’affare Ergenkon hanno perso molto potere e si è appannato il ruolo di guardiani del kemalismo nazionalista È vero, hanno meno potere oggi. Ma con il percorso avviato verso l’Europa si deve capire che la sottomissione del potere militare a quello politico è un passaggio obbligato. In una liberaldemocrazia, se il potere giudiziario scopre un piano per attuare
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L’Europa si allontana e i militari tremano La politica neo-ottomana di Ankara, che mira a unire Occidente e Islam di Pierre Chiartano un colpo di Stato organizzato dai militari, li persegue tramite un regolare processo. Così funziona la democrazia. Ci sono settori dell’esercito ancora interessati a prendere il potere, naturalmente, ma i rapporti sia con la Nato che con Washington sono troppo importanti sia per la politica che per i militari. L’ultima cosa che vorrebbe il governo Erdogan sarebbe una Turchia senza l’Occidente. Danneggerebbe anche la sua capacità di essere un ponte tra Oriente e Occidente. E la Turchia vuole essere questo. L’indebolimento dei militari non consente al radicalismo islamico di prendere piede nel Paese? No, perché la Turchia non è l’Egitto, non è l’Iran e non è nemmeno l’Algeria. In Turchia gli islamisti sono cambiati a causa delle condizioni socioeconomiche. La Turchia è un Paese capitalista, con una middle class con delle piccole e medie imprese che esportano in tutta Europa e in Russia. Esiste una borghesia interes-
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cordo di cooperazione militare tra i due Paesi, che autorizzava l’Aeronautica israeliana ad utilizzare lo spazio aereo turco, era in atto il processo di Oslo. È una conditio sine qua non per Ankara. Se Israele attacca il Libano, Gaza, non ferma gli insediamenti non ci può essere processo di pace. Nell’opinione pubblica turca c’è ancora una percezione di Israele come un’entità sionista radicale, a causa dell’invasione del Libano del 2006 e dell’operazione Piombo fuso a Gaza. In più le correnti islamiste sono populiste, guardano ai sondaggi, si accorgono che quando parlano contro Israele guadagnano consensi. L’attuale governo turco è molto interessato a diventare leader nel Medioriente. È quello che chiamo neo-ottomanesimo. Oggi è una Turchia che dice no agli Usa, a Israele e occasionalmente no all’Europa. È una Turchia islamica? No, è solo più ottomana, ma solo in senso regionale. È una normalizzazione post-kemalista e postguerra fredda.
Davotoglu, il ministro degli Esteri, è l’architetto del nuovo corso della politica turca. Ed è supportato sia dalla borghesia che dalla “middle class” del Paese sata allo sviluppo economico e alla stabilità politica. Non vogliono la sharia, non sono interessati a mettere il velo alle donne. La grande differenza tra la Turchia e tutto il mondo arabo è che la prima è capitalista. In più in Turchia c’è una radicata tradizione sufi e una scarsa vocazione politica dell’Islam, che è più culturale e sociale. I rapporti tra Ankara e Gerusalemme stanno peggiorando, che conseguenze può avere sul Medioriente? Alla Turchia per avere delle buone relazioni con Israele serve un processo di pace. Nel 1996 quando fu firmato un ac-
gistratura turco, è intervenuto rimuovendo direttamente, Osman Sanal, che aveva predisposto l’arresto di Cihaner, dal suo incarico. Sulla stampa nazionale nei giorni seguenti si è diffusa la notizia che il Capo della Procura stesse in realtà indagando su alcune organizzazioni islamiche eversive, il che ha gettato nuovi dubbi sul suo arresto. La reazione del governo islamico-moderato comunque non si è fatta attendere. Il ministro della Giustizia, Sadullah Ergin, noto per essere uno degli esponenti della corrente più conservatrice del partito islamico-moderato al go-
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verno (Akp), ha definito l’intervento dei magistrati «illegale, che non tiene conto di quanto scritto nella Costituzione e nel Codice di procedura penale».
Il Presidente della Repubblica Abdullah Gul, che ha lo stesso passato islamico di Erdogan, ha auspicato una riforma della Giustizia “in fretta”. Esternazioni alle quali ha fatto seguito da parte dell’Hsyk un richiamo a una maggiore oggettività rivolto al Capo dello Stato. In effetti a molti l’obiettivo di Erdogan sembra quello: cambiare la Costituzione, limitare il potere di militari e magistrati e continua-
Certo dipendesse solo da Ankara, ma ci sono altri attori che potrebbero non gradire... Sì, Iran e Israele contano. I turchi si percepiscono come un successo. Hanno un’economia forte, al sedicesimo posto nel mondo. Un’economia privata che cresce. Demograficamente sono forti e con un esercito potente. Vogliono essere gli special broker della regione. Ma esiste una classe dirigente all’altezza del compito? Penso al ministro degli Esteri Ahmet Davotoglu, un filosofo che ha delle idee in proposito. Sta cercando di unificare e coordinare la politica estera di Ankara col cambiamento d’identità in corso in Turchia. Possiamo definirlo come l’architetto di questa nuova visione del Paese, quella che ho definito come neo-ottomana. Alle spalle ha una corrente di accademici e una nuova classe intellettuale che lo supportano. Esiste una borghesia anatolica che crede nella politica di Erdogan e la sostiene, vengono chiamati anatolian tigers. Ma come si può trovare la quadra tra kemalismo e islamismo? Sta nel trovare un equilibrio nell’eccesso di secolarismo insito nella cultura kemalista. Si tratta di convertirlo in un modello che potremo definire più anglosassone di visione laica dello Stato. Noi vogliamo la separazione tra Stato e chiesa, ma non coniugata in forma laicista. Non vogliamo che lo Stato domini la religione o questa lo Stato. La chiave è l’Europa, solo all’interno di un quadro europeo si può comporre senza conflitti la rottura tra questi due aspetti della Turchia moderna. Soprattutto senza che si tenti un nuovo colpo di Stato. Fino a che la direzione di Erdogan è stata l’Europa allora i militari hanno fatto un passo indietro. Ma ora quella direzione sembra essere stata abbandonata.
re a governare il Paese senza più ostacoli. Non è un caso che il premier, due giorni fa, dopo aver detto che era stato sventato un golpe, ha aggiunto che era pronto a sottoporre il pacchetto di riforme a referendum nel caso, probabile, che non passi la prova del Parlamento. In una Turchia sempre più nervosa, dove l’opposizione spera nel voto anticipato e si va avanti a spallate. Bloccare Erdogan con il voto democratico, costringendolo a un governo di coalizione sarebbe già una vittoria importante. Con l’esercito e la magistratura fuori gioco l’unica possibile.
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Nato/Isaf. Ogni arresto sembra un successo. Peccato che bin Laden sia libero a recente cattura del leader talebano, Abdul Ghani Baradar, offre lo spunto per delineare una mappatura dei mujaheddin most wanted catturati o uccisi dalle forze Nato e Isaf in Afghanistan, oppure dall’esercito pakistano oltrefrontiera. Baradar è stato preso grazie a un’operazione congiunta delle truppe Usa e delle Forze di sicurezza di Islamabad. Già questo ha portato gli osservatori a parlare di un successo. Significa che la cooperazione fra i due governi, lubrificata dai 7,5 miliardi di dollari della Legge Kerry-Lugar, stavolta funziona. La cattura di quello che è stato definito “lo stratega della lotta talebana” è stata un colpo durissimo assestato al nemico. Per capire chi fosse Baradar, basta ricordare che sarebbe stato lui il compagno del Mullah Omar nella rocambolesca fuga da Kandahar nel novembre 2001, in sella a una moto. L’episodio è rimato sempre coperto da un velo di leggenda. Baradar era considerato quindi il “Numero 2” di tutte le forze talebane congiunte afghano-pakistane. D’altra parte, e questo ridimensiona l’importanza attribuita al personaggio, era trapelata anche la notizia di una sua eventuale disponibilità al dialogo offerto dal Presidente afghano Karzai in occasione della Conferenza di Londra alla fine di gennaio. Viene da domandarsi quindi come il vice Comandante in capo dei talebani abbia potuto replicare positivamente alla mano tesa da Karzai, quando il suo diretto superiore, il Mullah Omar, si sia dichiarato sempre contrario a qualsiasi ipotesi di negoziato con Kabul e i suoi alleati occidentali. Da qui un’ul-
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Ma quanti numeri 2 ci sono in al Qaeda? Baradar è l’ultimo vice del mullah Omar preso in Pakistan. Prima di lui, una lunga serie.. di Antonio Picasso
stan, era considerato il diretto successore di Beitullah Mehsud, ucciso alla fine dell’agosto precedente. Per entrambi si è parlato di comandanti secondi solo al Mullah Omar e detentori di un’influenza senza pari sulle tribù nemiche. Il caso di Mehsud peraltro è particolare. Al momento della sua morte infatti è emersa l’importanza del
A ogni eliminazione o cattura di un leader talebano si innesca un meccanismo perverso di “rigonfiamento” della notizia teriore provocazione. Questa etichetta di “Numero 2”, a ben guardare, è stata attribuita a fin troppi leader talebani.
Procedendo a ritroso nelle cronache dell’“Af-Pak war”, si incontra una lunga lista di personaggi che avrebbero ricoperto questo incarico. Ilyas Kashmiri, capo del “Pakistan Occupied Kashmir”(Pok) al momento del suo arresto, il 17 settembre dello scorso anno in Waziri-
suo intero clan. Di questo bisogna ricordare gli esponenti di maggior rilievo: Hakeemullah Mehsud, tuttora a piede libero, e Qari Hussein Mehsud. I due uomini sono ricercati in Afghanistan e Pakistan proprio perché si è convinti che, una volta eliminati loro, non resti che il Mullah Omar da catturare. E quindi vincere la guerra. Un altro clan che sarebbe in grado di tenere le fila di tutta la lotta talebana è quello degli Haqqani.
Mawlawi Lalaluddin Haqqani e suo figlio Sirajuddin sono alla guida dell’“Islamic Emirate of Waziristan”, un movimento considerato come il collettore delle forze fondamentaliste impegnate sia nella guerra in Afghanistan, sia nelle attività terroristiche in Pakistan. Si passa poi ai singoli individui. Abu Laith al-Libi, di evidente origine libiche, è stato ucciso circa due anni fa. Per la sua cattura gli Usa avevano posto una taglia di circa 200 mila dollari.
Mentre di Tahir Yuldash, leader dell’“Islamic Movement of Uzbekistan – anch’egli “valutato”200 mila dollari – le agenzie di intelligence non riescono a recuperare alcuna informazione ormai da anni. Ancora più illustre è il nome di Obaidullah Akhund, Ministro della Difesa del Governo talebano negli anni Novanta. Catturato nel 2007, è stato rilasciato nel maggio 2008 in circostanze poco chiare. I talebani parlano infatti di uno scambio con l’ambasciatore pakistano in Afghanistan,
Tariq Azizuddin, caduto nelle loro mani nel febbraio dello stesso anno. Secondo Asia Times, Baitullah Mehsud avrebbe pagato 20 milioni di rupie per il ritorno di Akhund tra i suoi uomini. La lista prosegue con tanti altri “numeri 2” la cui eliminazione avrebbe dovuto risolvere l’intero conflitto. Alla morte del Mullah Dadullah, nel maggio 2007, si è parlato chiaramente della decapitazione della leadership talebana. Lo stesso è stato scritto quando è stato ucciso Reza Khan, sempre nel 2007, e Ahmad Shah l’anno successivo. Di Qari Ahmadullah, fondatore dello“United Islamic Front for the salvation of Afghanistan”e capo dell’intelligence talebana, non si hanno notizie da circa dieci anni. Altrettanto interessante è la figura del Mullah Abdul Ghafour, catturato nel 2007. In questo caso la coalizione occidentale non è mai stata certa di chi abbia arrestato. Quello di Ghafour infatti è un nome attribuito a tanti comandanti nemici. Ancora una volta tanti, trop-
pi “numeri 2”. Infine bisogna menzionare il Mullah Mohammed Rabbani Akhund, co-fondatore (anche lui) insieme al Mullah Omar, del movimento talebano e Primo ministro del regime dal 1996 al 2001, anno in cui morì di cancro.
Da questo breve riepilogo, emerge una serie di elementi che fanno pensare quanto difficile resti la situazione dell’“AfPak war”. È evidente che a ogni eliminazione o cattura di un leader talebano si inneschi un meccanismo perverso di rigonfiamento della notizia. I comandi operativi e le agenzie di intelligence, soprattutto la Cia e l’Isi, sono portati a sottolineare il loro successo per dimostrare ai loro governi che il conflitto in Afghanistan si sta comunque evolvendo in senso positivo e che la cooperazione con il Pakistan ha la sua ragion d’essere. Lo stesso atteggiamento viene raccolto dalla classe politica in Occidente – a Washington in particolare – la quale di fronte agli elettori deve rispondere in modo convincente del perché combattiamo. Il film Leoni per agnelli di Robert Redford spiega come funzionino queste sottili manovre politiche. Infine arrivano i media, affamati di notizie da lanciare come breaking news. Volendo ridimensionare la situazione, bisogna ricordare che la guerra in corso non può essere conclusa grazie alla cattura di un solo uomo. Il movimento talebano in questi oltre otto anni di conflitto si è evoluto più volte. Ha assunto identità differenti, stringendo alleanze con movimenti di guerriglia che aspirano a obiettivi totalmente differenti dal suo. Lo stesso target dei talebani è mutato rispetto a quello originario. I legami con i mujaheddin uzbeki, gli indipendentisti kashmiri, i signori della droga e ovviamente alQaeda sono alleanze strumentali, che hanno provocato un aumento di visibilità dei leader delle singole realtà in armi. Per questo la recente cattura di Baradar necessita di essere, per alcuni aspetti, ridotta del suo peso specifico. La presa di un generale può significare la disgregazione della sua armata, ma non di tutto un esercito. Soprattutto perché del Mullah Omar o dello stesso Osama bin Laden, menti politiche che decidono la strategia al fronte, non si sa davvero nulla.
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24 febbraio 2010 • pagina 17
Non si ferma l’offensiva della Timoshenko, pronto il ricorso
Il governo locale pronto a riparare i luoghi di culto distrutti
Per la “prima” Yanukovich sceglie l’Ue, non la Russia
India, si calma la situazione dopo il rogo delle chiese
BRUXELLES. L’Ucraina di Viktor
DELHI. L’Amministrazione del
Yanukovich non guarda solo a Mosca: sarà infatti Bruxelles la meta del primo viaggio del neo presidente. Yanukovich - che si insedierà ufficialmente giovedì prossimo - volerà nella capitale belga il primo marzo e qui incontrerà i vertici dell’Unione, riferiscono fonti comunitarie al quotidiano locale KommersantUkraine: il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, il presidente dell’Europarlamento, Jerzy Buzek, e quello della Commissione europea, Jose Manuel Barroso.
distretto di Batala ha programmato i lavori di riparazione delle due chiese protestanti e delle attività commerciali, danneggiate durante gli scontri del 20 febbraio scorso fra fondamentalisti indù e cristiani. A scatenare la nuova ondata di violenze, un’immagine di Gesù ritratto mentre beve birra, fuma sigarette e definito “idolo”, pubblicata su alcuni libri scolastici e appesa in diverse aree del distretto. L’importo necessario per la sistemazione verrà coperto dalle autorità statali e distrettuali. P. K Thomas, dell’Ordine de frati minori, direttore del Francis Ashram a Batala, nel Punjab, India del nord-ovest, spiega ad AsiaNews i detta-
La visita a Mosca - su invito del presidente Dmitrji Medvedev - è rimandata a un secondo momento, comunque entro i primi di marzo. La data verrà decisa dopo la nomina del nuovo primo ministro (sono in lizza Sergiy Tigipko, Arseniy Yatsenyuk e Mykola Azarov). Intanto non si ferma l’offensiva di Yulia Tymoshenko, che continua a non riconoscere la vittoria del rivale. Sul suo sito personale ha pubblicato una sorta di appello alla popolazione, ma anche alle forze politiche, esortandole a costituire un unico fronte di opposizione nel parlamento ucraino, la Verkhovna Rada. «Abbiamo bisogno di superare le nostre differenze e creare una squadra forte che
Teheran insiste: «Italia serva degli Usa» Dopo le accuse a Berlusconi, l’Iran attacca di nuovo di Massimo Fazzi Italia? Con il suo comportamento, «dimostra di essere sotto l’influenza della propaganda di altri Paesi, quando insiste perché vengano adottate sanzioni contro l’Iran per il suo programma nucleare». È l’accusa lanciata ieri al governo italiano dal portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Ramin Mehman-Parast, con riferimento ai rapporti fra il nostro Paese e gli Stati Uniti. Facendo seguito alle accuse lanciate all’Italia dopo il discorso di Silvio Berlusconi alla Knesset – il Parlamento israeliano – Teheran torna all’attacco. Questa volta, nel mirino, c’è il ministro degli Esteri Franco Frattini che - parlando da Bruxelles in occasione di una riunione dei ministri degli Esteri dell’Unione europea – ha dichiarato due giorni fa di «non poter accettare che l’Iran continui a prendere tempo». La risposta di Mehman-Parast è arrivata il giorno dopo: «Paesi come l’Italia o la Francia non hanno motivo di essere preoccupati. Le nostre attività nucleari si svolgono sotto la sorveglianza degli ispettori internazionali e servono solo a rispondere ai nostri bisogni interni. Ma sembra che la propaganda di alcuni Paesi eserciti una certa influenza su altri Paesi dell’Unione». Evidente il riferimento a Washington, che nella propaganda del regime continua ad essere il burattinaio che muove la posizione occidentale per tutto ciò che riguarda il dossier iraniano. Immediata la risposta della Farnesina e del sottosegretario agli Esteri, Alfredo Mantica, che così ha commentato: «Siamo addolorati che l’Iran non lo capisca. Ogni Paese ha i suoi problemi e l’Iran ne ha molti e non credo possa scaricarli sugli altri. L’Italia ha una sua politica, allineata a quella dell’Occidente». Il tono di entrambi gli interessati mostra comunque un importante abbassamento. Lo scambio di questi giorni non è infatti neanche paragonabile a quello di circa un mese fa, quando il premier italiano aveva paragonato il presidente iraniano Ahmadinejad a Hitler. Dal palco della Camera di Tel Aviv, il capo del governo aveva aggiunto che «bisogna impedire all’Iran di sviluppare l’arma atomi-
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ca». Per Berlusconi, quindi, se l’Iran dovesse insistere, la comunità internazionale dovrebbe «mettere in campo delle sanzioni forti, perché è nostro dovere sostenere e aiutare l’opposizione democratica in Iran».
In risposta, anche Teheran aveva scelto la propaganda meno diplomatica: «Nel suo discorso alla Knesset, Berlusconi ha completato tutta la serie di servigi fatta ai padroni israeliani. L’Italia è serva di Israele». E sempre Tel Aviv rimane il bersaglio preferito del governo degli ayatollah, che ieri – per bocca dello stesso Ahmadinejad – ha lanciato un accorato appello ai Paesi arabi che confinano con il territorio: «Se Israele dovesse lanciare una nuova guerra contro un Paese vicino, dopo quelle contro Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza, dovrà essere sradicato». Il dittatore iraniano, che sconta ancora una situazione interna estremamente fragile a seguito della sua contestatissima rielezione, ha aggiunto: «Ho contattato alcuni Paesi che si trovano attorno al regime sionista - ha detto Ahmadinejad in un discorso tenuto nell’est dell’Iran e trasmesso in diretta televisiva - e ho detto loro di essere pronti, di equipaggiarsi e se i sionisti commettono ancora un errore, di mettere fine alle loro attività, di sradicarli». In una conversazione telefonica con il presidente siriano Bashar al-Assad, avvenuta il 10 febbraio, Ahmadinejad aveva detto inoltre che «se il regime sionista dovesse ripetere i propri errori e avviare una operazione militare, essa dovrà essere respinta con tutta la forza per porre fine una volta per tutte (ad Israele, ndr)». In una conferenza stampa di una settimana fa, il presidente iraniano ha detto che Israele «sta preparando una nuova guerra per la primavera o l’estate, anche se non è ancora decisa». Nel discorso di ieri, Ahmadinejad si è soffermato anche sull’eventualità di un attacco militare contro le installazioni nucleari del suo Paese, avvertendo che «se una mano da qualsiasi parte del mondo si dovesse stendere per attaccare la nazione, questa nazione la taglierà dal braccio».
Il presidente Ahmadinejad lancia un nuovo appello ai Paesi arabi: se Israele colpisce, deve essere sradicata del tutto
non permetta lo stabilirsi di una dittatura anti-ucraina. Sto pubblicamente proponendo questa soluzione e ho già iniziato il processo di negoziazione». E ha aggiunto: «Mai, in nessuna circostanza, farò una coalizione con Yanukovich» perché «non lo riconosco come presidente e non accetto le sue politiche anti-ucraine e anti-europee». Già dalle prime battute post-elettorali, è cominciato comunque il nuovo riavvicinamento del Paese a Mosca, “interrotto” per qualche anno da Viktor Yushenko e dalla rivoluzione arancione. Il ministero degli Esteri ucraino avrebbe proposto di fermare per i prossimi tre anni i tentativi di adesione del Paese alla Nato.
gli dell’incontro, tenuto ieri, fra i leader cristiani e i funzionari dell’Amministrazione statale del Punjab e distrettuale di Batala. Lo Stato, conferma il religioso, ha acconsentito a pagare dei compensi per i danni frutto delle violenze interconfessionali dei giorni scorsi.Verso le 4 del pomeriggio, aggiunge, «lo Stato ha chiesto un incontro chiarificatore fra le varie denominazioni cristiane e i gruppi indù, per riportare la pace e la riconciliazione».
Il frate francescano, che è anche presidente della All Pastors Association di Batala, precisa i motivi che hanno portato allo scontro fra cristiani e fondamentalisti indù. «Il 20 febbraio tutte le denominazioni cristiane avevano indetto una marcia di protesta, in risposta alla degradante immagine di Gesù. La dimostrazione è degenerata quando un gruppo di giovani cristiani ha invocato la chiusura dei negozi nell’area». In risposta, gruppi fondamentalisti indù fra i quali il Viswa Hindu Parishad (Vhp) e l’Hindu Parisad Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss) hanno mobilitato i loro quadri, aizzando la folla e spingendola a vendicarsi. Essi hanno incendiato la Chiesa dell’Epifania, una ex chiesa anglicana.
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Tibet. Tutto cominciò con una lettera portata dal nipote del romanziere Tolstoj e un Rolex d’oro e finì con i gruppi della resistenza tibetana in Nepal
In fuga da Lhasa Storia del rapporto tra gli Stati Uniti e il Dalai Lama, da Francis Delano Roosevelt alla Cia di Allen Dulles di Pierre Chiartano ra il 3 luglio del 1942 quando il presidente Fraklin Delano Roosevelt prese carta e penna per scrivere a un Dalai Lama poco più che bambino. Tenzin Gyatso aveva appena sette anni. Erano passati solo sei mesi dall’attacco a Pearl Harbor, il 15 febbraio era caduta Singapore e l’8 maggio, a Corregidor nelle Filippine, americani ed inglesi si erano arresi alle truppe imperiali giapponesi. Il presidente dette l’incarico di messaggeri sul tetto del mondo a due ufficiali dell’Oss (l’Office of strategic service, antesignano della Cia). Si trattava del maggiore Ilya Tolstoj, nipote del grande romanziere russo, e del capitano Brooke Dolan un rampollo di Harvard,e di una ricca famiglia di industriali, specializzato in questioni sudasiatiche e cinesi. Tolstoj era emigrato in America nel 1924 e in breve era diventato famoso come naturalista, esploratore e documentarista. Dopo lo scoppio della guerra si unì al gruppo di «Wild Bill» Donovan.
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Dolan era associato all’Accademia di scienze naturali ed era stato in Tibet con spedizioni scientifiche nel 1931, nel 1934 e 1935. I due intrepidi messaggeri riuscirono ad arrivare in Tibet solo nel dicembre successivo, dopo aver superato numerosi ostacoli, diplomatici, politici e anche pratici, non era proprio semplice raggiungere Lhasa. La loro storia venne poi raccontata una prima volta sul National geographic magazine dell’agosto del 1946. Non era semplice arrivare sul tetto del mondo e a quei tempi anche l’Oss non era altro che un ufficio di coordinamento di una realtà piuttosto frammentata dell’intelligence americana. Lo stesso Donovan aveva l’incarico di Coordinator of information (Coi). L’obiettivo della mis-
sione era quello di stabilire una sincera e duratura amicizia tra l’America e la giovanissima guida spirituale dei tibetani. E i due emissari tornarono a Washington dopo aver compiuto con successo l’inca-
Nel 1942, il presidente degli Usa aveva inviato al Lama bambino una lettera per mano del nipote di Tolstoy, agente dell’Oss rico. La finalità pratica del viaggio era stata invece l’autorizzazione alla costruzione di una strada carrabile che collegasse l’India alla Cina, vista che la famosa via birmana (Burma road) lunga quasi
1.200 chilometri, era stata interrotta dall’invasione giapponese. Quindi per gli alleati non c’erano più strade per rifornire i nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek. Una trattativa condotta naturalmente con i collaboratori tibetani del Lama bambino. L’operazione ebbe il via libera del Foreign office britannico, ma provocò qualche malumore a Pechino che, ben prima dell’avvento dei comunisti, considerava il Tibet come una questione interna, nonostante avesse guadagnato l’indipendenza dall’impero Manchu già dal 1911.
Nel 1947 poi la prima delegazione commerciale tibetana si recò presso l’ambasciata Usa di New Delhi, chiedendo un incontro con il presidente Truman. Negli anni successivi la situazione internazionale volse al peggio il popolo dell’Himalaya. Nel 1949 le truppe cinesi entrarono in Tibet, il conto alla rovescia per l’indipendenza del Paese era scattato. Ci misero due anni per sconfiggere il fiero, ma male armato e fragile esercito tibetano. E nel 1951 entrarono a Lhasa costringendo il Dalai Lama ad accettare un
Nella foto grande, Lhasa la capiale del Tibet. In basso a sinistra, il Dalai Lama. Foto piccola Gyatso da bambino. Qui in basso, il capo dell’Oss, ”Wild” Bill Donovan. Nella pagina a fianco da sinistra a destra, un gruppo di resistenti tibetani degli Nvda. Ilya Tolstoy, nipote del grande romanziere e agente dell’Oss. Allen Dulles capo della Cia all’epoca dei fatti
compromesso. Nel 1956 i comunisti cominciarono a radere al suolo molti monasteri nel Tibet orientale. Ci fu una rivolta e si cominciarono a formare bande clandestine. Molte di queste mandarono emissari in India col compito di chiedere aiuto agli Stati Uniti. Il fratello maggiore del Dalai Lama, Gyalo Thondup, in esilio in India, si attivò in questo senso. Quindi cominciò una guerra segreta, meglio chiamarla guerriglia, condotta da poche migliaia di coraggiosi tibetani che riuscirono a tenere testa a potente esercito popolare cinese. La Cia
ebbe un ruolo nell’addestramento e nell’organizzazione di queste formazioni combattenti. Una storia poi descritta qualche anno fa da un documentario della Bbc The Shadow Circus: The Cia in Tibet. Alcuni tibetani furono inviati in campi d’addestramento in Virginia e sulle Montagne rocciose del Colorado. Tra questi Lhamo Tsering un membro della resistenza anticomunista e responsabile delle operazioni di Langley sul tetto del mondo.
Altri sei uomini vennero fatti uscire attraverso il confine indiano e inviati nell’isola del Pacifico di Saipan per essere addestrati alle tecniche di guerriglia e come operatori radio clandestini. Cinque mesi dopo i primi due agenti vennero paracadutati sull’altipiano dell’Hi-
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fine furono decimati e solo pochi membri dei team riuscirono a salvarsi. Langley allora pensò subito di spostare la zona delle operazioni in un angolo remoto del Nepal, a Mustang vicino al confine tibetano. In breve, circa duemila guerriglieri tibetani furono ammassati in quella zona, perché continuassero la lotta per liberare il loro Paese. Un anno più tardi la Cia effettuò il primo lancio di armi a Mustang e poi cercò di organizzare quegli uomini secondo le linee di un vero esercito. Al comando fu messo Bapa Yeshe, un ex monaco che continuò le azioni di guerriglia attraverso il confine.
malaya. Le formazioni Nvda vennero spinte a lasciare la zona della capitale per spostarsi a sud, dove diedero non poche soddisfazioni ai vertici della Cia, nel contrasto alle truppe cinesi. Tanto che fu deciso il primo aviolancio di armi per la resistenza tibetana. Fu subito organizzato un campo d’addestramento in una zona della Rocky Mountain che assomigliava all’aspra morfologia delle vette del Karakorum. L’Achiamata genzia, the Company, addestrò nei cinque anni successivi 259 tibetani a camp Hale. Si trattava fondamentalmente di tenere occupati i cinesi con operazioni di disturbo. I progetti non potevano prevedere niente di più impe-
gnativo, come avrebbero invece desiderato i resistenti tibetani. Nel 1958 dopo otto anni dall’avvento di Mao, i sostenitori del Dalai Lama si convinsero che il regime di Pechino avrebbe voluto eliminarlo oppure tradurlo in catene in una
prigione cinese. Perciò si cercò di trovare la maniera di «esfiltrarlo». Desmond Fitzgerald responsabile della Far East operations division della Cia convinse il suo capo Allen Dulles che fosse giunto il momento di andare a prende l’ormai ventitreene Lama dal suo monastero di Lhasa. Fitzgerald era stato uno dei «ragazzi» di Bill Donovan, leggendario capo dell’Oss durante la seconda guerra mondiale. Il capo dell’Oss era stato compagno di corso di Roosevelt alla Columbia University.
Fitzgerald aveva una grande esperienza in operazioni paramilitari in Asia, che l’avevano convinto di voler portare a termine la missione in prima persona. Idea che fu subito scartata per i rischi che avrebbe corso, visto la responsabilità di capo operazioni. Serviva un agente sul campo. Il problema era che in Tibet non esisteva alcun agente coperto della Cia, eccetto i tibetani addestrati a camp Hale. La
cosa che più gli assomigliava erano due operatori radio, addestrati da Langley per le formazioni di guerriglia locale Nvda. Anche se in realtà il circo della Cia da quelle parti, come abbiamo visto, aveva cominciato a costruire qualcosa di più serio. Dopo una laboriosa selezione si optò per un giovane di 29 anni, con un curriculum d’operazioni in Europa, Africa e Asia, ma senza alcuna esperienza specifica in Tibet. Avrebbe dovuto avvicinare il Dalai Lama, convincerlo e prepararlo per «l’esfiltrazione» con il limitato aiuto di alcuni agenti dell’intelligence indiana a Lhasa. Alla fine si decise per il 17 marzo 1959.
Proprio in quel mese la Cia effettuò un secondo lancio di armi nelle regioni meridionali, ormai quasi completamente controllate dalla resistenza. Poi avvenne un episodio che convinse ulteriormente la guida spirituale a preparare le valigie. Ci fu uno strano invito delle autorità cinesi ad assistere a un evento sportivo in un loro campo. L’invito non prevedeva la presenza delle guardie
del corpo di Gyatso. Ci fu una sommossa popolare, perché la gente si era convinta che i cinesi preparavano qualcosa di non piacevole per il loro leader religioso. La guida spirituale travestita da contadino – altre fonti lo descrivono in abiti militari – e accompagnato da pochi dignitari, attraversò il fiume poco a nord della capitale su una barca di pelli di yak. Qui fu raggiunto dai due operatori radio delle Nvda che subito comunicarono la richiesta d’asilo al primo ministro indiano Nehru. Tutti poi si diressero a sud verso le zone controllate dalla resistenza.
Dopo dieci giorni Gyatso era nella base dell’Nvda. Di lì attraverso un collegamento radio con Okinawa si seppe che i cinesi stavano passando alle vie di fatto. Il 31 marzo fu varcato il confine con l’India in Assam, attraverso un percorso di alta montagna molto pericoloso e difficile. Questo passaggio aprì la strada a un successivo esodo di tibetani verso l’India, lasciando solo poche sacche di resistenza nel Paese dei monaci. I quattro gruppi addestrati a camp Hale che la Cia aveva già paracadutato in Tibet continuarono il loro lavoro tra il 1959 e il 1960, cercando di contattare e coordinare i gruppi della resistenza rimasti operativi. Alla
The Company fornì ancora armi al gruppo di Mustang, con altri due aviolanci. L’ultimo fu nel maggio del 1965. Poi ci fu un cambio del clima politico con la Cina e agli inizi del 1969 l’Agenzia si sganciò dall’operazione. Stava cominciando la distensione diplomatica tra Pechino e Washington. Poi nel 1974 anche il governo di Kathmandù, costretto da quello cinese, inviò delle truppe a Mustang intimando ai guerriglieri tibetani di deporre le armi. In quell’occasione intervenne anche il Dalai Lama che temeva ci fosse uno spargimento di sangue. Inviò un messaggio registrato in cui invitava i combattenti ad arrendersi. Molti obbedirono sepur malvolentieri, altri – secondo alcune testimonianze – preferirono suicidarsi. Oggi i reduci di quelle formazioni vivono in due campi profughi nepalesi. Nell’incontro privato tra Barack Obama e il Dalai Lama, che tanto ha fatto infuriare la Cina, il presidente americano ha fatto un regalo speciale al leader spirituale tibetano: la copia proprio di quella lettera che, nel 1942, Franklin D. Roosevelt gli aveva inviato per mano del nipote di Tolstoy, insieme ad un Rolex d’oro nel 1942, quando il leader spirituale aveva solo sette anni. È stato lo stesso Dalai Lama a confessare che all’epoca aveva così tanto apprezzato l’orologio da essersi completamente dimenticato di leggere quella lettera.
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n fascio di luci rosse, verdi, blu e gialle attraversano il centro di Berlino. Partono dalla Haus der Kulturen der Welt (Casa delle culture del mondo) nel centro del grande parco del Tiergarten e, passando sopra la Porta di Brandeburgo e il grande viale del Karl Marx Forum, arrivano fino alla simbolica antenna di Alexanderplatz. Circa tre chilometri di fotoni via laser che nel grigio cielo berlinese ricordano a cittadini e turisti la ventiduesima edizione della Transmediale, festival della cultura digitale, andato in scena dal 2 al 7 febbraio scorso.
U
L’opera realizzata dalla portoricana Yves Mattern è stata l’attrazione principale di una manifestazione che ogni anno richiama nella capitale tedesca alcuni tra i più importanti video artisti, studiosi di new-media, scrittori di fantascienza e musicisti elettronici del mondo. Dall’inventore della letteratura cyberpunk Bruce Sterling al sociologo e scrittore Alan Shapiro, dal grande suonatore di banjo Jem Finer al poliedrico musicista Charlemagne Palestine, e poi il deejay Ryoji Ikeda, la lituana Zilvinas Kempinas (già vista alla scorsa Biennale d’arte di Venezia), il designer Julius von Bismarck e molti altri. In una delle città dal fermento artistico giovanile più interessante del mondo, dove quasi la metà dei suoi cittadini sotto i quarant’anni si definisce “artista”, la partecipazione di gallerie d’arte e club notturni è stata pressoché totale. Il braccialetto degli accreditati (sia giornalisti che pubblico) è diventato una sorta di status symbol: significa poter partecipare a tutti gli eventi della manifestazione, serate in discoteca, concerti, workshop (interessantissimo quello sul rapporto sempre più stretto, e quindi creativamente “soffocante”, tra l’arte e il finanziamento pubblico, tenuto dalla curatrice Ela Kagel), vernissage, performance artistiche di ogni tipo e installazioni. Tra queste da segnalare la simpatica Paparazzi Boots, macchina fotografica collegata ad una sorta di carrello mobile che una volta individuato il viso della persona da fotografare, lo segue nei suoi spostamenti scattando flash a ripetizione, proprio come un
Media. Al Festival della cultura digitale decine di nuove tecnologie
Al centro di Berlino va in scena il futuro di Andrea D’Addio paparazzo. La Panoramic Wifi Camera riesce invece a catturare le ombre delle persone che gli passano accanto grazie al rimbalzo dei segnali wifi inviati (non quindi attraverso la luce, come le normali videocamere) e a mandarle direttamente sullo schermo sempre grazie
stidiosi” come mosche e zanzare. Se si inventasse un robot che trae la propria energia grazie all’uccisione di questi insetti (attraverso un sofisticato sistema di assorbimento di calore) l’uomo non potrebbe che esserne contento. Ma così facendo non si porterebbe la macchi-
il premio come migliore operainstallazione del festival.
Ad aprire invece la serie di incontri con il pubblico, focalizzati sul fare il punto della situazione sul futuro della comunicazione e sul rapporto sempre più stretto tra uomo e tecnolo-
De segnalare la “Panoramic Wifi Camera”, strumento che riesce a catturare le ombre delle persone che gli passano accanto grazie al rimbalzo dei segnali wifi inviati, e non attraverso la luce come le normali videocamere ad una trasmissione senza fili. Il Carnivorous Domestic Entertainment Robots parte invece da un presupposto etico molto interessante: se i robot, intesi come elettrodomestici, sono davvero sempre benvoluti nelle case di tutti noi, senza dubbio lo sarebbero ancor di più se una delle loro funzionalità fosse l’eliminazione di animali “fa-
na ad assomigliare sempre più all’umano, non si inizierebbe un percorso che, nella peggiore delle ipotesi, potrebbe portare agli scenari apocalittici descritti nei film di Matrix? Gli artisti Auger-Loizeau & Zivanovic alla Berlinale hanno presentato un piccolo prototipo di questa sorta di macchina dalle infinite potenzialità e il risultato è stato Nella foto grande, un’opera del video artista viennese Gebhard Sengmüller. Qui a sinistra, “The Discovery” di Félix Luque Sánchez. A destra, un’installazione della portoricana Yves Mattern a Berlino
gia (intesa come flusso di informazioni disponibile in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo) è stato Richard Barbrook, uno dei primi studiosi ad aver affrontato, fin dagli anni ’80, il riflesso del cambiamento della comunicazione sull’economia capitalista (suo il celebre neologismo “cyber-communism”): «Se si parla di comunicazione,
la tecnologia è neutra, non è né dalla parte dei politici né dei pubblicitari né dei cittadini. Ognuna di loro cerca di piegarla ai propri interessi ed ognuno di loro, per certi versi, ci riesce. Rimane però il fatto che una nuova tecnologia, quando nasce non conosce le proprie potenzialità né chi la promuoverà rendendola conosciuta agli altri protagonisti della comunicazione. Giudicare a priori una scoperta tecnologica è, quindi, sempre sbagliato. Una volta che un ingegnere o un semplice ragazzo che ci sa fare con il computer inventa qualcosa, ciò che viene dopo è responsabilità di altri». È invece stato Bruce Sterling a spiegare il significato di Il futuro è ora, slogan di questa edizione della Transmediale: «Sarà banale dirlo, ma il mondo, e soprattutto noi, stiamo cambiando più velocemente che in passato. Ci stiamo avvicinando a un momento in cui non esisteranno più le le cosiddette prospettive del futuro, vivremo un periodo di atemporalità in cui si controlleranno gli attimi; il flusso di informazioni e di nostre azioni, spesso semplici clic, sarà continuo e così il giorno dopo significherà centinaia di azioni passate. Troppe per delineare un orizzonte degli eventi a lungo raggio. È per questo che possiamo dire che il futuro è già ora, è già questo istante». Un domani di questo tipo non significa però necessariamente progresso culturale. «Ho paura che ci si appresti a vivere un decennio di grandi preoccupazioni, da piano d’emergenza. Questo modo di intendere il futuro crea infatti anche irresponsabilità. Si continuano a vedere nazioni che si sfaldano, vertici del clima importanti come quello di Copenaghen non portare a nessuna soluzione, ma fallire miseramente dopo tanti bei proclami, mentre la crisi economica è tangibile e ci tocca ogni giorno nonostante le avvisaglie fossero partite già dall’inizio del millennio. Si rimandano i problemi, sicuri che non ci toccheranno mai davvero, fin quando almeno non sarà troppo tardi».
Parole condivisibili da Cassandra che, logicamente, hanno strappato applausi a tutti i presenti. Basteranno per creare consapevolezza?Il futuro, dopotutto, è già ora.
sport
24 febbraio 2010 • pagina 21
Cartolina da Vancouver. Quasi sempre sotto tono, questa edizione è stata “rianimata” dalla vittoria degli States sul Canada
E l’hockey risollevò le Olimpiadi di Alessandro Boschi
A fianco, un’immagine della squadra statunitense di hockey su ghiaccio, che ha appena sconfitto nella disciplina il team canadese, alle Olimpiadi invernali di Vancouver. In basso, un hockeista canadese e uno scatto del match
uando nei giorni scorsi parlavamo di una Olimpiade modesta avevamo sottolineato l’importanza che l’hockey su ghiaccio avrebbe potuto avere nel restituire un po’ di verve ad una manifestazione decisamente sotto tono. Così è stato. Certo, i canadesi, in primo luogo quelli di Vancouver, avrebbero volentieri fatto a meno di tutto ciò perché una sconfitta, anche se spettacolare, sempre una sconfitta resta. Se poi le si buscano dagli eterni rivali statunitensi la sconfitta diventa doppia. Intendiamoci, eterni rivali non significa che le due squadre si siano equamente spartite nel corso degli anni sconfitte e vittorie, anzi. Gli States non superavano i canadesi dal 1960, dai Giochi di Squaw Valley.
Q
Dopo di allora sei incontri e solo un misero pareggio. Cinquanta anni di attesa, una vita. Precisiamo, non si trattava di una finale, ma comunque questa sconfitta costringerà i padroni di casa ad una ulteriore partita contro la Germania. Poi, se come crediamo dovesse andare bene, si dovrà affrontare in una sorta di finale anticipata la Russia. Ha un bel dire il portierone del Canada Martin Brodeur (un po’ discusso in verità) quando afferma che una gara in più potrà solo fare bene alla squadra. Il fatto è che quella (eventuale) con la Russia sarà una finale anticipata. I russi sono infatti una compagine formidabile, adesso e sempre. Non è un caso se gli americani
(sempre loro) definiscono la vittoria alle Olimpiadi invernali di Lake Placid di trenta anni fa (un’altra vita) un Miracle on ice. Alla vigilia di quell’incontro l’editorialista Dave Anderson del New York Times scrisse: «A meno che il ghiaccio non si sciolga, o a meno che la squadra americana non compia un miracolo, come fece quella del 1960 ci si attende che
te si arriva ad un totale di 45 tiri totali nello specchio della porta: una cifra pazzesca. Il giorno di domenica, il Super Sunday come è stata appropriatamente ribattezzato, ha davvero offerto uno spettacolo fantastico agli appassionati di hockey su ghiaccio. Nemmeno il più fortunato organizzatore di eventi avrebbe potuto programmare nello stesso im-
Gli Usa non superavano i canadesi nella disciplina dal ’60, vale a dire dai Giochi di Squaw Valley. Dopo di allora, sei incontri e solo un pareggio. Cinquanta anni di attesa prima del trionfo... i russi vincano la medaglia d’oro per la sesta volta negli ultimi sette tornei». E il miracolo avvenne. L’unica differenza è che all’epoca la Russia si chiamava Urss e i campioni avevano nomi diversi. Allora si chiamavano Boris Mikhailov, oggi Alex Ovechkin, fuoriclasse che due anni fa ha stipulato un contratto della durata di tredici anni con i Capitals di Washington per l’importo di 124 milioni di dollari. A nostro modo di vedere il vero miracolo è questo. Meglio di lui, di Alex Ovenchkin, c’è solo Sidney Crosby, super asso del Canada. Che nonostante abbia letteralmente bombardato la porta statunitense non è riuscito a portare sé e i compagni direttamente ai quarti. Colpa del portiere, il nuovo eroe, il nuovo uomo del miracolo, Ryan Miller. Ora, se ai tre gol, la partita è terminata 5-3, aggiungete altre 42 para-
pianto, il Canada Hockey Place, una giornata del genere.Tre partite, una dopo l’altra, che hanno riproposto le ultime tre finali olimpiche: Russia - Repubblica Ceca (1998), Canada – Usa (2002), Svezia – Finlandia. Differenti gli esiti: infatti solo gli Svedesi confermano il risultato imponendosi sulla Finlandia. Per rendere l’idea, una sconfitta del Canada contro gli
Usa equivale a quella dell’Inghilterra contro la Scozia, magari il Galles. Non solo, ma come era già successo a Lake Placid la squadra statunitense era considerata una squadra “underdog”, vale a dire una squadra destinata all’inevitabile eliminazione. Curioso come tutto riporti
al cinema, innanzitutto perché la partita del Miracle on ice è diventata un film con Karl Malden e Steve Guttenberg e, anni dopo, un’altra pellicola sulla stessa vicenda intitolata semplicemente Miracle è stata interpretata da Kurt Russell. Prendendo poi un po’ la tangente, anche Lake Placid è il titolo di un film, che però è un divertente horror, interpretato tra gli altri da Oliver Platt, che è nativo dell’Ontario, in Canada. Se non ricordiamo male finisce mangiato dal mostro che si nasconde nel lago.
Sembra quasi un avvertimento, un presagio. Poi, se proprio vogliamo divertirci, anche Underdog è il titolo di un film. Il protagonista è un cane, nel senso proprio di cane e non attore cane, che parla, vola e acciuffa i delinquenti. E anche lui, piccolo bistrattato e come gli americani destinato al fallimento, sovverte tutti i pronostici e vince. Ma è ancora presto per assegnare i ruoli. Siamo ancora ai quarti e la finale resta distante, tutto può succedere. Ci piace però sottolineare un particolare che sono per noi italiani, avvezzi al sospetto ed alla dietrologia, è un particolare importante. I quattro arbitri della partita tra Stati Uniti e Canada si chiamano Sharrers, Watson, Nelson e Rooney. Due di loro sono canadesi e due americani. Ora, se per una partita che più che importante è una partita storica, vengono tranquillamente designati degli arbitri che magari potrebbero avere dei trasporti personali e che invece non danno adito alla benché minima polemica, significa che forse la nostra “cultura”sportiva, specialmente quella legata al calcio, è decisamente “underdog”.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Immigrati. Rastrellamenti? Memoria che non c’è La parola “rastrellamenti”, usata dopo gli incidenti nel quartiere multietnico a Milano, ricorda le operazioni di “pulizia”delle SS e dei repubblichini durante la seconda guerra mondiale. Di quella storia, come di quella degli emigrati italiani, che all’estero venivano chiamati “zingari”, non c’è, o c’è poca traccia, poca memoria. Non va bene. Un popolo privo di memoria è un popolo privo di sé. Forse qualche programma televisivo, che non sia un polpettone soporifero, potrebbe essere proposto all’attenzione degli italiani per rinfrescare un passato non lontano. L’invito è alla Rai, per la quale paghiamo una tassa detta canone, ma anche alle altre emittenti televisive. Gli immigrati attuali, come gli emigrati italiani di un tempo, fanno lavori che nessuno vuol fare. Raccogliere pomodori o mandarini a 0,1 euro al chilo non è lavoro per noi. Non siamo buonisti ma tra l’attenzione smielata e la voglia di rivalsa c’è una via di mezzo percorribile. Sembra, però, che i nostri governanti, di qua e di là, ne siano incapaci.
Primo Mastrantoni
Per il bene dell’umanità, conviene affidarsi alla scienza, evitando l’oscurantismo. La natura non è necessariamente benigna. Esistono piante velenose o cancerogene. I cibi detti naturali non sono naturali. Le piante sono normalmente coltivate (non spontanee) e derivano da incroci, ibridazioni e trattamenti. Alcune mele subiscono 34 trattamenti chimici all’anno. Una pianta Ogm è un organismo in cui è stato introdotto un frammento di codice genetico d’un altro organismo vegetale. Dopo 15 anni di studi, una nota ufficiale dell’Unione europea afferma che le indagini di 400 gruppi di ricerca pubblica palesano i benefici delle piante Ogm, le quali non mostrano alcun nuovo rischio per la salute e l’ambiente. Oltre 3 miliardi di persone producono e mangiano cibi Ogm. Il 93% della soia importata in Italia è Ogm: alimenta animali, che producono carne, latte e latticini, da noi abitualmente consumati. Le
piante Ogm consentono sensibili incrementi produttivi: il mais Ogm rende il 35% in più (266 euro aggiuntivi per ettaro). Così si riduce la fame nel mondo e si calmierano i prezzi delle derrate. Gli Ogm permettono di ridurre l’uso di erbicidi, insetticidi, fungicidi, diserbanti e concimi chimici. Consentono la sopravvivenza dell’agricoltura italiana. L’Italia è l’unico Paese al mondo che ha vietato la coltivazione e perfino la sperimentazione di piante Ogm - sulle quali occorre la corretta informazione scientifica (che rifiuta allarmismo, immobilismo e oscurantismo).
Franco Padova
IL RUOLO DEI MEDIA Qual è il ruolo dei media nell’universo di Avatar? Quanti siamo nell’Universo? La pluralità dei mondi per Isaac Asimov e il telescopio spaziale Keplero: inizia la conta. Il numero medio di pianeti abitabili solo nella nostra galassia è di 650 mi-
Indovina cos’è? Provate a indovinare... Ancora oggi come nell’antichità, viene talvolta trasportato con un sistema di ”catapulte”. Dà il meglio di sé durante i temporali. È resistente all’esterno ma molto fragile internamente. Se ne sono occupati di recente perfino gli scienziati della Nasa
(soluzione: polline)
VALE LA SCIENZA E NON L’OSCURANTISMO
lioni. La razza umana, la libertà di stampa, la blu vision, la cultura dell’impunità e il tradimento su Pandora. Avatar di James Cameron è l’esaltazione dei valori della vita e della libertà. I barbuti dittatori non fanno più paura né su Pandora né sulla Terra: c’è una generazione di giovani intellettuali che in Iran non vuole più vivere rispettando regole stabilite 14 secoli fa. Le donne in particolare. Per far
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
vincere la pace e la democrazia, basta Internet, la vera Onda Blu. Scoperto metodo per il calcolo esatto delle proprietà dei gas ultra-freddi: ricercatori della Sissa raggiungono importante risultato nel campo della fisica delle basse temperature, come spiegano su Physical Review Letters. Chissà, il viaggio su Alpha Centauri, è sempre più vicino.
Nicola Facciolini
da ”The Indipendent” del 23/02/10
Le trivelle dello scandalo e isole Falkland stanno tornando di moda. Almeno come argomento politico. Infatti i Paesi sudamericani e quelli dell’area caraibica stanno appoggiando il governo argentino sulla nuova disputa nata con la Gran Bretagna sulle quelle isole perse nell’Atlantico meridionale. Il caso è nato dalla decisione di Londra di effettuare delle trivellazioni in alcune zone dell’arcipelago delle Flakland. Al summit del Gruppo di Rio le trentadue nazioni ospitate dal Messico il governo argentino ha presentato una mozione in cui erano citate le parole del presidente messicano Felipe Calderon.
L
«I capi di Stato che sono qui rappresentati riaffermano il loro appoggio alle legittime rivendicazioni sui diritti di sovranità con la Gran Bretagna della Repubblica argentina». Anche se Calderon non intervenuto in prima persona sulla materia. Londra e Buenos Aires si sono storicamente scontrati per i diritti di quelle isole – conosciute in America latina come isole Malvinas – fino ad arrivare ad un vero conflitto armato nel 1982 che vide contro il presidente Leopoldo Galtieri e il premier Margaret Tatcher. Un conflitto che provocò poco meno di mille morti contando entrambi i fronti. La situazione si era relativamente stabilizzata fino a quando una compagnia petrolifera inglese non ha deciso di pianificare delle trivellazioni per la prospezione di pozzi. La Desire petroleum plc aveva dichiarato, lunedì, di aver deciso alcune trivellazioni solo 60 miglia a nord della isole dello scandalo, nonostante la netta opposizione dell’Argentina che da sempre rivendica diritti di proprietà sull’arcipelago. Il
nome Desire probabilmente deriva da quello della nave dell’esploratore inglese, John Davis che per primo, nel 1592, raggiunse quelle terre. Si tratta di circa 740 isole che si trovano ad una distanza media dalla costa argentina di circa 800 chilometri a sud est. Si è cercato di promuovere il tuirsmo visto il tempo abbastanza soleggiato anche d’inverno e le temperature non troppo rigide nonostante la vicininza col circolo polare antartico.
«Il pozzo è stato trivellato ad una profondità stimata di 3.500 metri» ha affermato un portavoce della compagnia inglese. «È probabile che le operazioni di perforazione richiedano una trentina di giorni». La disputa sulle isole risale al XIX secolo quando gli inglesi le occuparono. Da allora l’Argentina ha sempre cercato di riprendersele, fino all’aprile del 1982, quando le invase militarmente fino a giugno quando le truppe britanniche le riconquistarono. Dei pieni rapporti diplomatici furono ristabiliti nel 19900 e entrambi i governi decisero di evitare di tornare sull’argomento della sovranità. Naturalmente era solo brace che covava sotto la cenere visto che appena si è trattato di dover decidere sullo sfruttamento di risorse naturali Buenos Aires ha ripreso subito l’argomento. La presidentessa argentina Cristina Fernandez ha de-
pennato ogni piano che preveda l’uso della forza contro le navi britanniche. «Non crediamo in metodi tipo blocco navale» ha spiegato la Fernandez durante una conferenza stampa. Uno degli obiettivi primari della due giorni caraibica, che si tiene nello splendido scenario del resort Playa del Carmen, è quello di costituire un nuovo gruppo regionale che comprenda tutti gli Stati americani esclusi Canada e Stati Uniti.
In un documento preparato durante il summit si legge che i diplomatici stanno ancora lavorando al possibile nome di questa nuova organizzazione. Comunità latinoamericana e caraibica potrebbe essere una possibile denominazione. Si pensa che l’organismo possa essere stabilito entro il 2011. Nelle more del summit sudamericano il presidente Claderon ha annunciato anche che verranno donati 25 milioni di dollari per gli aiuti ad Haiti colpita dal tremendo terremoto del 12 gennaio.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Ho demeritato il tuo amore Tu sei raffreddata, mia Antonietta? Mi pare di sì: il tuo contegno di iersera, mi han fatto tremare. Ho io demeritato il tuo amore, o il tuo cuore si va cangiando per me? Confessalo: non temere da me né rimproveri, né trasporti: qualunque sarà la ragione della tua indifferenza verso di me, io ti prometto di rispettarla e di tenerla celata a tutti i viventi. Gemerò nella mia solitudine: se il dolore della tua perdita mi sarà sopportabile, vivi sicura della mia amicizia, e molto più della mia riconoscenza; la confessione leale di non amarmi più ti renderà stimabile, come la confessione di amarmi mi ti ha reso cara e necessaria. Ma se il cordoglio di averti perduta congiurerà con le mie sventure e con la mia triste salute, se non potrò vivere senza di te. Morirò col tuo nome sulle labbra, io ti amerò sempre, sempre, io ti consacrerò tutti i pochi giorni raminghi e amari che ancora mi avanzano. Morirò, ma non ti accuserò mai: anzi non benedirò la vita se non per quei pochi momenti felici che tu mi hai fatto gustare. Credimi Antonietta, io non merito di essere amato eternamente da te, Né tu forse lo potrai, ma né tu devi tradirmi, né merito di essere tradito. Non merito di essere avvilito con la presenza di un altro amante o con la tua indifferenza. Ugo Foscolo ad Antonietta Fagnani Arese
ACCADDE OGGI
ASSOLUTA SOTTOMISSIONE DELLA DONNA MUSULMANA La cultura musulmana non prevede le pari opportunità. Prescrive la subordinazione assoluta delle donne ai loro mariti e, in genere, agli uomini: l’intimidazione e il pestaggio domestico sono pratiche diffuse. Le moschee sono istituzioni prevalentemente maschili: in Francia sono frequentate dal 15% degli uomini e dal 6% delle donne. Secondo i tradizionalisti musulmani, la virtù assume la forma della castità e l’abbigliamento succinto costituisce un invito all’aggressione maschile: alcuni genitori richiedono il “certificato di verginità” ai ginecologi delle figlie. Usanze musulmane non escludono la poligamia, né la circoncisione femminile (mutilazione clitoridea infantile) e neppure l’infibulazione (cucitura vaginale). Padri o fratelli (spesso minori, perché quasi impuniti) uccidono - per delitto d’onore ragazze musulmane, giudicate colpevoli di abbigliamento occidentale, frequentazione di uomini non musulmani o altre “indecenze erotiche”. Nel 2001-2005 si sono verificati 45 omicidi di questo tipo in Germania. Vigono la legge del taglione in Arabia Saudita e la lapidazione delle adultere in Iran. Numerosi stranieri immigrati - di prima, seconda e terza generazione cercano e trovano mogli nei Paesi di provenienza della famiglia, con matrimoni spesso combinati. La popolazione immigrata esplode, per alta fertilità, matrimoni con mogli straniere e ricongiungimenti familiari. Così ri-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
24 febbraio 1836 Samuel Colt ottiene il brevetto per il revolver Colt
1839 William Otis ottiene il brevetto per la scavatrice a vapore 1848 Re Luigi Filippo di Francia abdica 1917 Prima guerra mondiale: la Germania si impegna a restituire Nuovo Messico, Texas, e Arizona al Messico se questo dichiara guerra agli Usa 1918 L’Estonia si proclama indipendente dalla Russia 1922 Va in scena al Teatro Manzoni di Milano la prima dell’Enrico IV di Pirandello 1945 Il premier egiziano Ahmed Maher Pasha viene ucciso in parlamento 1946 Juan Domingo Perón viene eletto presidente dall’Argentina 1975 I Led Zeppelin pubblicano il doppio album Physical Graffiti 1980 A Lake Placid, negli Stati Uniti, si chiudono i XIII Giochi olimpici invernali 1981 Buckingham Palace annuncia il fidanzamento del principe Carlo del Galles con lady Diana Spencer
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
schiano d’accentuarsi: multiculturalismo, comunità chiuse, scarsa o mancata assimilazione. Caratteristici indumenti femminili musulmani - velo, hijab, niqab, abaya e burqa - appaiono un simbolico rifiuto dei costumi occidentali. Intervenendo nel dibattito sulle regole sessuali islamiche, Jacques Chirac ha affermato che un paziente non può rifiutare per principio un medico curante dell’altro sesso.
Gianfranco Nìbale
IMMIGRAZIONE: HANNO CAVALCATO PROBLEMI CHE NON SANNO RISOLVERE Il governo si affretta ora a mandare rinforzi di polizia a Milano, ma quanto è avvenuto a via Padova è la conferma che il diavolo insegna a fare le pentole, ma non i coperchi. Per prendere voti, Lega e alleati, hanno cavalcato per anni i temi della sicurezza e dell’immigrazione, facendo finta che tutti i guai dipendessero dal centrosinistra. Se oggi fossero all’opposizione, avrebbero invocato l’uso dell’esercito e del coprifuoco. Pensano di cavarsela con l’invio di 170 agenti di rinforzo, ma è solo fumo negli occhi. La verità è che in tutti questi anni il centrodestra non è riuscito a fare né integrazione né prevenzione, e neppure la repressione che ha spesso invocato nelle piazze. A cominciare dai milanesi, tutti ora si accorgono del fallimento più totale delle politiche populistiche e demagogiche di questa maggioranza, a cominciare da quella per l’immigrazione.
APPUNTAMENTI FEBBRAIO 2010 VENERDÌ 26, ORE 11, ROMA PALAZZO FERRAJOLI Convocazione Consiglio Nazionale dei Circoli Liberal. SEGRETARIO
VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Pia
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
Direttore da Washington Michael Novak
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Collaboratori
Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,
Roberto Mussapi, Francesco Napoli,
Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
IL CENTRO TRA CATTOLICESIMO ED ILLUMINISMO (SECONDA PARTE) Per Del Noce il Centro deve evitare il pericolo della relativizzazione storica dei principi cristiani, e cioè di intendere il «sacro valore della persona umana» come la difesa di «profani interessi della proprietà capitalistica». E in questo caso al senso cristiano della persona umana se ne sostituisce un altro, di origine illuminista; e così per il “diritto naturale”. Sono i concetti filosofici che pervadono il mondo cattolico nel suo anti-illuminismo, anticapitalismo e poi anti-angloamericanismo. Che lo porta nei fatti e nella realtà storica all’inevitabile incontro con le parti politiche. Come oggi e nel concreto, riguardo il primato dell’assistenzialismo a prescindere dal problema di come produrre le risorse necessarie. Un errore che diventa un corto circuito di pensiero e di politica. Come si può imputare solo all’Illuminismo sia l’ideologia del capitalismo sia le sue reazioni patologiche ideologiche del ’900 del comunismo e del totalitarismo corporativista, senza considerare che le società moderne più illuministiche, quelle angloamericane, non hanno mia conosciuto né comunismo né fascismo?Illuminismo pensato come origine e causa delle idee violente e distruttive sia della libertà economica senza freni, sia del comunismo, sia del fascismo. Come si può confondere il metodo di produzione, con le ideologie? Tra l’altro il capitalismo era già presente da secoli come metodo di produzione molto prima dell’Illuminismo e, a mio avviso, dell’esistenza del mondo protestante. È l’etica protestante che si è sovrapposta, come proprio strumento di forza e potenza, al capitalismo già esistente, poi trasformandolo da prevalentemente mercantile e bancario a industriale di conseguenza alle scoperte scientifiche e tecniche. E tenuto conto di quanto l’Illuminismo e il misticismo pre-rivoluzionario del ’700 devono nelle idee di giustizia sociale al Cristianesimo, non vuol dire forse ammettere che, nelle sue conseguenze politiche, lo stesso Cristianesimo ne fu la causa originante, creando quel sentimento del bisogno di massa di giustizia e quindi le conseguenti contrapposte ideologie tese a modificare la società? Correzioni nella storia talvolta riuscite (democrazie non violente e tolleranti) e altre volte tragicamente no (comunismi e fascismi)? Non fu poi la paura dell’impossibilità di conciliarsi sopravvivendo ad essa con la “modernità”in generale a ritardare nella Chiesa una maggiore evoluzione nel pensiero sociale e politico e ad allargare quindi sempre più il Tevere? Leri Pegolo C I R C O L I L I B E R A L PO R D E N O N E
Mario Arpino, Bruno Babando,
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
John R. Bolton, Mauro Canali,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
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Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,
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PAGINAVENTIQUATTRO
Miti. Intende acquistare il Cahuenga Peak (in mano ai privati) per salvare la famosa scritta che domina Los Angeles
Un gruppo no profit si “compra” di Velia Majo eccentrico miliardario Howard Hughes acquistò il Cahuenga Peak, la collina che sovrastra Los Angeles, nel 1940 e Ginger Rogers era in quell’anno la sua fidanzata. Era sua intenzione, in quel lotto di terra di circa 60 ettari, costruire un nido d’amore per la futura moglie Ginger, in cima alla collina con l’ampia veduta di Los Angeles e della San Fernando Valley. Per questo motivo avrebbe avuto bisogno di una strada che portasse a Cahuenga Peak, ma vi furono dei contrattempi perché il comune di Los Angeles cercò di impedirne la costruzione. Nel frattempo anche Ginger ebbe dei ripensamenti a proposito del matrimonio con Hughes (la cui bizzarra vita è stata portata sullo schermo da Scorsese con The Aviator nel 2004).
L’
Ginger Rogers era rimasta affascinata dall’eccentricità di Howard Hughes, ma nello stesso tempo era molto spaventata dalla sua paranoia, aggravata dall’uso di antidolorifici e dalla sua sordità, che si era rifiutato di riconoscere e trattare, oltre a un grave caso di disturbo ossessivo-compulsivo che si manifestava in fobia di germi e con la mania di fare cose strane, come ordinare e contare i piselli nel piatto. La Rogers confidò ad alcuni amici che temeva che il tycoon Hughes l’avrebbe tenuta prigioniera nella futura casa in cima alla collina. Dopo la rottura del fidanzamento, Hughes abbandonò il progetto del Cahuenga Peak, lasciando la terra ai turisti, agli escursionisti e ai romantici, che salgono sulla collina per godere un po’ di solitudine e della vista panoramica di Los Angeles. La proprietà di Cahuenga Peak è appartenuta all’agenzia immobiliare di Howard Hughes fino al 2002, quando è stata venduta a un gruppo di
investimento, il Fox River Financial Resources di Chicago, che nel 2007 l’ha rimessa sul mercato. Gli abitanti di Los Angeles sono rimasti sorpresi nell’apprendere che il Cahuenga Peak è una proprietà privata, tutti pensavano che appartenesse alla città di Los Angeles. Ma è su quella collina che campeggia la celebre scritta “Hollywood” ed è per questo che il gruppo no profit di San Francisco “The Trust for Public Land”sta cercando di reperire i fondi per comprarla. Solo in questo modo si potrà esserre sicuri che la scritta rimarrà su Cahuenga Peak e si eviterà che le ruspe la deturpino per far po-
te per San Francisco - ha detto Tom LaBonge, un consigliere comunale di Los Angeles Quando i turisti arrivano a Los Angeles la prima cosa che vogliono vedere è la scritta Hollywood sulla collina. Se quella montagna venisse circondata da costruzioni, rovinerebbe la vista ed anche lo spirito libero di Los Angeles». Per salvare la scritta è nato su Facebook il gruppo “Save the Hollywood sign!” Cahuenga Peak, è stata acquistata dagli investitori di Chicago per 1,7 milioni di dollari nel 2002 e hanno messo il terreno in vendita per 22 milioni dollari nel 2008, ma sono riusciti a trovare nessun
HOLLYWOOD Il terreno in vendita è posto sulla sinistra della “H”. Finora è stata raccolta metà della cifra richiesta (11,7 milioni di dollari) e l’acquisto deve essere concluso entro il 14 aprile sto a nuovi edifici. Il terreno in vendita è posto sulla sinistra della lettera H della scritta “Hollywood”. Finora è stata raccolta metà della cifra richiesta (in totale 11,7 milioni di dollari) e l’acquisto del terreno deve essere concluso entro il 14 aprile prossimo. Per sensibilizzare l’opinione pubblica, il gruppo Public Trust for Land che si batte affinché i parchi rimangano pubblici, ha coperto per cinque giorni da venerdi 12 a mercoledi 17 febbraio scorsi la scritta con lo striscione “Save the Peak”(“Salvate la collina”). Nella speranza che alcuni giorni senza il famoso segno potrà indurre i cittadini di Los Angeles a donare i rimanenti cinque milioni di dollari necessari per raggiungere la cifra pattuita e salvare la collina. Il gruppo Trust for Public Land ha dichiarato che una volta ottenuta la titolarità di questo terreno la cederà al vicino complesso municipale Griffith Park, il quarto parco più visitato ogni anno negli Stati Uniti. «Questa scritta rappresenta per noi qualcosa di importante come la Statua della Libertà per la città di New York o il Golden Ga-
acquirente. Dei soldi finora raccolti poco più della metà provengono dalle casse pubbliche di Los Angeles, il resto da fonti private come la Hollywood Chamber of Commerce e Tiffany & Company, che ha donato un milione di dollari. Un capriccio del destino vuole che la scritta “Hollywoodland” sia stata posta sulla collina in via temporanea nel 1923 proprio per promuovere un progetto di sviluppo edilizio l’Harry Chandler’s Hollywoodland Housing Project e venne riconosciuta come simbolo dell’industria cinematografica americana nel 1930. Ogni lettera fu contornata di lampadine da venti watt che sfavillano durante la notte.
Nel corso degli anni, la scritta cadde in rovina fino al 1949, quando la Camera di Commercio di Hollywood, decise di rimuovere le lettere “land” e riparare la lettera H che si era rovesciata. La scritta venne sostituita con una definitiva nel 1978, in occasione del settantacinquesimo anniversario di Hollywood dopo una campagna lanciata dalla rock star Alice Cooper e i resti della vecchia insegna sono stati venduti di recente su eBay. «L’idea è quella di attirare l’attenzione sul fatto che abbiamo due mesi per salvare questa terra - ha detto il portavoce del Trust for Public Land - Questo segno è l’icona più importante di tutto il paese e non abbiamo nessuna intenzione di mollare». Se la scritta “Save the Peak” ha coperto Hollywood per cinque giorni è stato solo per renderla, si spera, ancora più visibile.