La debolezza del potere
di e h c a n cro
00303
supremo è la più terribile calamità dei popoli Napoleone Bonaparte
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 3 MARZO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Oggi il responso sulla Lombardia mentre il governo dice no a una leggina ad hoc per riaprire i giochi delle candidature
Il fantasma di un partito È il titolo di un duro articolo sul Pdl di Galli della Loggia,prima stampato e poi rinviato a oggi.Perché? Al Corsera nasce un giallo.E Berlusconi è sempre più nei guai: nel Lazio esclusa anche la lista Polverini Il nuovo caos di Roma
No ai polveroni, attenersi alle regole in ogni caso di Giancristiano Desiderio a ragione Umberto Bossi quando dice «sono dilettanti allo sbaraglio», ma le parole di Roberto Formigoni rendono meglio il senso di quanto sta accadendo a Roma e a Milano con l’esclusione di tre liste del Pdl: «La legge è stata modificata a seguito di varie sentenze del Consiglio di Stato e del Tar e quindi certi timbri e certi orpelli non sono affatto indispensabili a certificare la volontà degli elettori che hanno firmato la mia lista». Il punto è proprio questo: se le liste sono presentate in ritardo è bene cancellare, ma si possono escludere dalle elezioni delle liste per mancano dei timbri? servizi da pagina 2 a pagina 5
H
Ultime novità dal risiko che si gioca da Piazza Affari a Trieste
Pezzotta: «Tutto questo è il frutto del populismo»
Niente decreti o rinvii, resta solo il Tar del Lazio di Marco Palombi
di Errico Novi
Il ministro Maroni boccia l’idea di una leggina riparatrice nel caos candidature. Ormai la maggioranza punta tutto sul Tar del Lazio.
«Appena i grandi giornali vedono che il bipartitismo scricchiola, scatta il riflesso di difenderlo», dice Savino Pezzotta.
Via Solferino e il mistero dell’editoriale scomparso
Pombeni: «Quale burocrazia, è un vero caso politico!»
Banche & potere: parte il valzer delle grandi poltrone di Giancarlo Galli
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha accolto il ricorso presentato dall’Italia contro la sentenza vietava la presenza del crocifisso nelle scuole.
senatore del Pdl Nicola Di Girolamo per il quale la magistratura ha chiesto l’arresto. La decisione,presa a maggioranza dalla conferenza dei capigruppo, è stata contestata dalle opposizioni che hanno votato contro, perché chiedevano di mettere ai voti la decadenza. Secondo il presidente dei senatori Udc, Gianpiero D’Alia «doveva essere dichiarato decaduto già un anno fa. Un atto chiaro sulla decadenza avrebbe preservato la linearità delle istituzioni. Fino a ora invece la maggioranza ha deciso semplicemente di coprire con le dimissioni le proprie responsabilità politiche nel caso Di Girolamo».
he strano modo quello delle “nostre carissime banche”! L’economia reale, soprattutto la spina dorsale delle piccole e medie imprese è in grave difficoltà, poiché viene loro lesinato il credito; e che fanno i nostri banchieri? Litigano, sgomitano, per il “valzer delle poltrone”, nel senso che nessuno, proprio Tutto ruota nessuno, vuole rinunciare alle intorno varie poltronis- ai ruoli sime. Incuranti (e al futuro) dell’anagrafe, e di Bernheim, dell’urgenza, fiBazoli nanco fisiologica, di un saluta- e Geronzi re ricambio generazionale. Proviamo a comporre lo scenario, con i suoi protagonisti. Un posto d’onore lo merita certamente Antoine Bernheim, parigino per nascita (1924). Nella sua stagione d’oro, in virtù dei lombi (una ricca famiglia ebraica) e delle amicizie, divenne partner della mitica Lazard, secolare crocevia della finanza internazionale.
a pagina 10
a pagina 8
a pagina 12
Sì al ricorso italiano
L’Europa apre al crocifisso nelle scuole
di Riccardo Paradisi
di Francesco Capozza
Che cos’è successo a Via Solferino nella notte tra lunedì e martedì? Perché il commento di Galli della Loggia è scomparso? Non si sa...
«Il caos delle liste nel Lazio e in Lombardia è un fatto politico. Vuol dire che i partiti non ci sono più», dice Paolo Pombeni.
Stiamo attenti, le norme fanno le democrazia
Romano: «Errori normali ma ora pressioni indebite» di Federico Romano
di Giuseppe Baiocchi Quello che colpisce del pasticciaccio delle liste è l’approssimazione del Pdl, come se seguire le procedure fosse solo burocrazia.
«Mi sembra – dice Sergio Romano – che ci sia un po’di disordine intellettuale e organizzativo dentro ai partiti. Ma non bisogna fare pressioni indebite».
Scaglia interrogato: «Mai conosciuti Mokbel né gli altri»
Il mistero Di Girolamo Oggi il Senato voterà sulle sue dimissioni di Franco Insardà
ROMA. Il Senato voterà oggi sulle dimissioni del
di Gabriella Mecucci
seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
42 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
C
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 3 marzo 2010
Si allontanano le ipotesi di un rinvio o un decreto ad hoc del governo
Il giallo del listino Il centrodestra appeso al Tar del Lazio
Roberto Formigoni e Renata Polverini sono appesi ai tribunali. Nella pagina a fianco, la prima pagina del «Corriere», con l’editoriale di Ernesto Galli della Loggia e il commento di Sergio Rizzo, che non è arrivata in edicola. Sotto, Sergio Romano
Un altro colpo sulle candidature e Fini tuona: «Sono affezionato al Pdl, ma non mi piace» di Marco Palombi
ROMA. «Dilettanti allo sbaraglio». Umberto Bossi si diverte a guardare lo spettacolo del Pdl che autoaffonda le sue liste e i suoi con lui: Luca Zaia ha parlato addirittura di «errori raccapriccianti». D’altronde, il partito di maggioranza relativa esce decisamente malconcio dal week end di presentazione ufficiale dei candidati, anche se comincia ad intravvedere una possibile soluzione. Andiamo con ordine. Ieri è stata un’altra giornata di passione: la Corte d’Appello ha comunicato a Renata Polverini che il suo listino – e quindi la sua candidatura a presidente del Lazio – non era accettato per un vizio di forma. «Ci manca solo che stanotte ci brucino la sede…», allargava le braccia all’ora di pranzo il senatore Andrea Augello. La cosa poi si è ridimensionata: su alcuni degli atti necessari, ha spiegato il responsabile elettorale Abbrignani, «manca la firma del vicecoordinatore regionale. Stasera (ieri per chi legge, ndr) produrremo queste firme e tutto sarà risolto». Quanto alla notizia dell’esclusione della lista civica di sostegno alla segretaria dell’Ugl è invece semplicemente falsa: nel pomeriggio aveva cominciato a girare la voce che quella lista era stata cassata dai giudici perché il suo simbolo era troppo simile a un’altra, quella di Fabio Polverini, presentata in appoggio al candidato di Forza Nuova, Roberto Fiore. È accaduto invece il contrario. Restano invece sul terreno le questioni riguardanti il listino regionale di Roberto Formigoni e, soprattutto, la lista del Pdl in provincia di Roma. Quanto al caso lombardo, ieri i radicali hanno presentato un’integrazione alla denuncia con cui è scattata la momentanea esclusione del presidente uscente e il centrodestra il suo ricorso contro la decisione: attorno al Pirellone restano comunque convinti di poter recuperare, stante la giurisprudenza del Consiglio di Stato, buona parte delle firme considerate non valide dalla commissione elettorale. Nel Lazio, invece, il caso è più spinoso, ma ieri una piccola luce è comparsa in fondo al tunnel. Curiosamente era ospitata a pagina 4 di Repubblica sotto forma di intervista al giudice Maurizio Durante, presidente della seconda sezione civile del Tribunale di Roma e responsabile dell’ufficio elettorale circoscrizionale. L’uomo, insomma, che sabato s’è ritrovato in mezzo al casino innescato dal famigerato panino di Alfredo Milioni. «Ormai era quasi l’una – ha raccontato il magistrato - Perciò ci siamo consultati (con una collega, ndr) e abbiamo deciso che solo chi era al di qua del cordone di polizia, disposto per delimitare l’area di consegna, poteva completare la procedura di deposito, gli altri no perché erano ormai fuori tempo». Tutto normale? Mica tanto, perché una circolare attuativa del ministero dell’Interno “suggerisce” ai responsabili di continuare a verbalizzare comunque, anche dopo la scadenza dei termini. Il giudice Durante in sostanza - e la tesi è “sostenibile” anche per fonti di opposizione - ha fatto una cosa che non poteva fare e quindi il Tar, l’Eldorado del centrodestra, dovrebbe intanto riammettere la lista del Pdl per poi giudicare nel merito. Resta il problema che di quei documenti non esiste alcuna verbalizzazione: nessuno può provare, in sostanza, che nello scatolone portato in Tribunale da Milioni e Polesi ci fossero davvero liste e firme e non, poniamo, un pacco di riviste.
In Lombardia la situazione dovrebbe risolversi oggi: sono attesi i pronunciamenti definitivi sui ricorsi di Formigoni
Anche di questo Renata Polverini, dopo una riunione tecnica al partito, è andata a discutere ieri pomeriggio con Silvio Berlusconi a palazzo Grazioli. Sul tavolo, però, ci sono anche le possibili “operazioni di salvataggio” del governo: possibili, ma non probabili. La cosiddetta “leggina” per rimettere le cose a posto, ad esempio, non è ben vista dalla Lega (Bossi la escludeva già lunedì sera) e bocciata categoricamente dal Pd: «Se la levino dalla testa», ha scandito Bersani. Poi c’è il possibile rinvio della competizione nel Lazio chiesto dal coordinatore regionale del Pdl: al di là della brutta figura (sicura), anche qui c’è il Carroccio, e in particolare il ministro dell’Interno Maroni, a fare muro. Resta, appunto, il Tar: una riammissione è l’unico modo per evitare che un partito confuso e inconsistente diventi un’arena per gladiatori. Anche andasse bene, Gianfranco Fini, dalla Sardegna, ieri ha già chiarito che così non va: “Al Pdl sono affezionato, ma così com’è non mi piace”.
Inchiesta. Dal caos delle liste al tramonto delle regole politiche
Fantasmi, & polveroni Dietro la storia dell’editoriale (mancato) del Corsera, la parabola della maggioranza ROMA. Fino a alle 23 di lunedì sera, sulla prima pagina del Corriere in edicola ieri c’erano due editoriali: a sinistra uno di Ernesto Galli della Loggia durissimo nei confronti del Pdl e intitolato «Il fantasma di un partito»; a destra uno di Sergio Rizzo dal titolo «Una promessa che va mantenuta» dedicato alle norme anticorruzione del governo. Ma sul giornale effettivamente in
Il blocco dei «listini» nel Lazio e nella Lombardia
B isogna a t t en er si a lle r eg ol e, in o gn i c as o di Giancristiano Desiderio
edicola l’invettiva di Galli della Loggia non c’era. Che cosa è successo? Nelle pieghe di questo mistero, la rappresentazione simbolica della crisi finale del Pdl, da partito di plastica a non partito, a coacervo di anime in conflitto senza alcuna parvenza di organizzazione unitaria. Al punto che gli stessi Berlusconi e Fini si sono detti sconcertati per quanto sta succedendo.
a ragione Umberto Bossi quando dice «sono dilettanti allo sbaraglio», ma le parole di Roberto Formigoni rendono meglio il senso di quanto sta accadendo a Roma e a Milano con l’esclusione di tre liste del Pdl: «La legge è stata modificata a seguito di varie sentenze del Consiglio di Stato e del Tar e quindi certi timbri e certi orpelli non sono affatto indispensabili a certificare la volontà degli elettori che hanno firmato la mia lista, e che è perfettamente chiara». Il punto è proprio questo: se le liste sono presentate in ritardo è bene che non prendano parte alle elezioni, ma si possono escludere dalle elezioni delle liste per mancano dei timbri?
H
Il Pdl non è un gran partito. E la vicenda dilettantesca delle regionali lo dimostra. Ernesto Galli della Loggia nell’editoriale di ieri che il Corriere della Sera ha prima pubblicato e poi ritirato lo definisce un “fantasma” e una “corte”. Forse, si tratta di definizioni un po’ eccessive: si
prima pagina INCIDENTI MEDIATICI
Il Corriere della Notte Il mistero della telefonata che ha fatto sparire il duro commento di Galli della Loggia di Riccardo Paradisi cripta manent. Soprattutto se quanto scritto, come l’editoriale di Ernesto Galli della Loggia, che il Corriere della sera aveva messo lunedì sera in prima pagina e poi sostituito in tarda serata con un pezzo di Sergio Rizzo, viene inviato alle rassegne stampa nella versione del quotidiano precedente alla modifica. Cosa è accaduto? Perché l’editoriale di Galli della Loggia è sparito dalla prima pagina in edicola ieri mattina del quotidiano di via Solferino? Per alcune ore la domanda rimbalza di redazione in redazione fino a che nel primissimo pomeriggio è lo stesso Corriere a intervenire con una nota del direttore che parla di un ”errore tecnico”. Una nota divenuta necessaria anche per smentire la tesi che circolava nell’ambiente giornalistico: un intervento in extremis dello stesso direttore che sarebbe rimasto perplesso di fronte della durezza che Galli della Loggia usava nei confronti del partito di Silvio Berlusconi. «La plastica si sta squagliando? – si domanda nell’incipit Galli Della Loggia a proposito del Pdl – Sembrerebbe. Certo è che coloro che si erano illusi che il Pdl fosse diventato un partito più o meno vero qualcosa di più di una lista elettorale sono costretti a ricredersi». Non è qualcosa di più ma qualcosa di peggio, scri-
S
ve ancora l’editorialista, «pare piuttosto una somma di rissosi potentati locali riuniti intorno a figuranti di terz’ordine, rimasuglio delle oligarchie e dei quadri dei partiti di governo della Prima repubblica e tra loro, mischiati alla rinfusa – specie nel Mezzogiorno, che in questo caso comincia dal Lazio e da Roma – gente dai dubbi precedenti, ragazze troppo avvenenti, figli e nipoti, genti d’ogni risma ma di nessuna capacità». È un fermo immagine da basso impero che si sviluppa nella denuncia di orditi e di congiure che, dice Galli Della Loggia, sembra siano diventate la cifra di un centrodestra «che non è riuscito a dare alla parte del paese che lo vota nient’altro che questa misera rappresentanza». Insomma un articolo durissimo che vedrà la luce solo oggi sulla prima del Corriere Non per un eccesso di prudenza, spiega De Bortoli, ma perché la direzione aveva deciso, a tarda sera, e in accordo con l’autore, di rinviarlo di un giorno per lasciare spazio a un editoriale di Sergio Rizzo sul disegno di legge anticorruzione appena approvato dal governo. «Per un errore tecnico poi – spiega sempre De Bortoli – la testata on line del Corriere della Sera ha riportato, per alcune ore, la versione precedente». E sempre per lo stesso errore tecnico, «è stata inviata a Sky per la rassegna
tratta pur sempre di un “fantasma” che è al governo del Paese. Tuttavia, c’è qualcosa di più del vero dell’articolo di Galli della Loggia censurato da Ferruccio de Bortoli: c’è che si tocca un tasto dolente ossia la strana commistione tra un comitato elettorale e gli avanzi di una oligarchia di partito. Detta in modo semplice e concreto è l’occasione storica che Silvio Berlusconi ha buttato al vento di costruire il partito dei moderati. Le cose goffe delle regionali - i ritardi, l’autentica delle firme, la ricerca dei candidati e le candidature sbagliate e vergognose come quella di Conte in Campania - hanno qui la loro origine. Un partito ben presente sul territorio e non solo alla corte del potente di turno cura queste cose con scrupolo e pazienza. Ciò detto, bisogna pur guardare anche l’altra faccia della medaglia: sono le democrazie decrepite quelle che spaccano il capello in quattro con “timbri e orpelli”. A Roma e Milano sta accadendo qualcosa che va l di là della forma. Riguarda prima di tutto la sostanza della democrazia: il Pdl può
stampa una bozza provvisoria della prima pagina, poi cambiata, che non è mai stata data alle stampe. L`articolo di Galli della Loggia verrà pubblicato nelle edizioni di domani, come già programmato d`intesa con l`autore». Resta il mistero di come si possano essere verificati due errori tecnici consecutivi, stranezza che ha fatto sospettare ai soliti retroscenisti azioni interne al Corriere. Ma queste sono teorie da dietrologi che possono interessare gli appassionati del genere. La realtà è che non c’è nessun motivo di dubitare della buona fede e della correttezza di Ferruccio De Bortoli, a cui nessuno deve insegnare la deontologia professionale e che avrà avuto i suoi motivi per rimandare ad oggi la pubblicazione dell’editoriale di Galli della Loggia. C’è piuttosto il fatto che questo episodio si inscrive in un’atmosfera
3 marzo 2010 • pagina 3
politica molto particolare, in un momento dove si varano provvedimenti tesi a silenziare tutte le voci mediatiche in nome di una declinazione molto particolare della par condicio, dove la polemica sulla libertà di stampa s’è riaccesa, dove il leader dell’Udc pier Ferdinando Casini sente il bisogno di fare appello a Berlusconi, uomo di televisione, «perchè non avalli una politica birmana che mette il silenziatore a tutta l’opinione pubblica». Ecco in questa particolare atmosfera l’incidente del Corriere rischia d’essere un involontario caso-spia. Un editoriale fantasma sparito che parla del fantasma d’un partito di governo ha fatto parlare a sproposito di una libertà di stampa divenuta fantasma. Fraintendimenti, ma fraintendimenti che risentono del particolare clima politico che sta respirando il Paese.
INCOMPETENZA ELETTORALE
«Tra errori normali e pressioni indebite» Sergio Romano: «Tutti i partiti hanno dimostrato di essere disorganizzati» di Federico Romano
ROMA. Che ne pensa l’ambasciatore Sergio Romano di quanto sta avvenendo in Lombardia e nel Lazio? Del caos avvenuto con la mancata presentazione delle liste provinciali di Roma al tribunale di piazzale Clodio e delle irregolarità formali riscontrate sia nella lista dell’aspirante governatrice del Lazio Renata Polverini sia in quella del governatore uscente Roberto Formigoni a Milano? «Mi sembra anzitutto – dice Romano – che ci sia un po’ di disordine intellettuale e organizzativo dentro ai partiti. Dentro tutti i partiti mi pare di po-
partecipare alle elezioni o si sta cercando di buttare tutto in caciara? Al punto in cui si è giunti, forse, dovrebbero essere gli stessi candidati del centrosinistra - Emma Bonino in testa a chiedere che le elezioni si svolgano con la partecipazione piena delle liste del Pdl.
Sarebbe qualcosa di più di un gesto di cortesia e distensione: sarebbe una lezione di democrazia. La conta delle firme, dei timbri, delle autentiche è un rito forse necessario, ma sicuramente non sufficiente a decidere il valore di una competizione elettorale e, ancor più, di una democrazia. Se il criterio di giudizio dovesse essere unicamente quello del timbro e della conta delle firme, allora, ci troveremmo di fronte a una democrazia minore, ma molto minore. Definiamola pure una “democrazia barocca”. Sappiamo benissimo che la forma della legge è sostanza, ma nel caos che si è determinato la forma della legge non c’è proprio perché ci sono solo formalismi e ritualità.
ter dire, anche considerando le cronache di questo ultimo anno. Ora però questo problema investe evidentemente soprattutto il Popolo della libertà. È chiaro che qualsiasi cosa sia avvenuta – dal banale incidente del ritardo alla lite per i
nomi da inserire o togliere dalla lista all’ultimo momento – il dato certo è quello della disorganizzazione».
Detto questo, Romano aggiunge che «incidenti come quello di Roma e Milano possono capitare nelle migliori democrazie del mondo e non c’è nulla di tossico o di velenoso nell’accadere di questi inconvenienti. Certo, quando una cosa del genere succede in Italia, un Paese che vive in uno stato permanente di guerra civile fredda, le conseguenze possono essere un ulteriore e ancor più esasperato fattore di divisione, di contrapposizione frontale. Perché perdere in un contesto del genere, intonato all’ordalia più che alla competizione per l’alternanza, diventa un fatto definitivo». Ora che succede? La destra a Roma promette maratone oratorie prolungate per giorni, fissa per giovedì prossimo una grande manifestazione di protesta contro l’esclusione delle liste del Pdl nella gara per la regione Lazio, fa appello, nei settori che furono di An, alla capacità di mobilitazione totale delle proprie truppe, promette addirittura per voce dell’esponente romano del Pdl Fabio Rampelli una campagna elettorale che resterà nella storia, di lanciare come Marinetti la sfida alle stelle. Un climax retorico su cui l’ambasciatore romano versa l’acqua fredda della ragione. «Pressioni e proteste dovrebbero attenersi al merito di quanto è accaduto e il merito deve deciderlo il tribunale del ricorso. La democrazia è fatta soprattutto di regole, di procedure. Carlo Cipolla diceva che il mondo anglosassone aveva elaborato una convenzione democratica fondata sulle norme degli statuti, quelle che ci dicono semplicemente come si deve affrontare un problema, sciogliere un nodo. Gli statuti delle società per azioni sono fatte di norme, regole, e sono quelle il sangue della democrazia; se si toglie quello tutto diventa incerto, confuso, arbitrario, la democrazia senza il loro rispetto, produce risultati contestabili, perchè viene a mancare la legittimità necessaria al vincitore ». Il rischio ora è che riparta anche il conflitto tra politica e magistratura, anche se Romano definisce fuori centro e inquesta giustificata polemica: eventuale «Anche i radicali in Lombardia sono stati esclusi, imputare alla magistratura un partito preso sarebbe un’assurdità, anche se il rischio che in in un contesto avvelenato come questo qualcuno possa farlo è purtroppo molto probabile».
prima pagina
pagina 4 • 3 marzo 2010
RIVOLUZIONI FALLITE
«È la giusta sorte del populismo» Pezzotta: «La politica senza militanza è debole, ma la stampa la difende» di Errico Novi
ROMA. «Appena i grandi giornali vedono che la logica del bipartitismo scricchiola, scatta immediatamente il riflesso di difenderla». Savino Pezzotta non può che notare questa anomalia, nel giorno in cui le contraddizioni del Pdl diventano così esplosive da innescare un caso persino al Corriere della Sera, con l’editoriale di Galli della Loggia prima bloccato e poi rinviato al giorno successivo. È il giorno in cui il presidente della Costituente di centro e candidato dell’Udc in Lombardia vede il suo principale avversario, Roberto Formigoni, annaspare nell’attesa della sentenza d’appello sulla sua lista: «È la dimostrazione che i partiti senza una vera militanza non hanno capacità, anzi alla fine non riescono a nascondere la propria debolezza. Noi abbiamo una diversa cultura e una diversa forma partito, che non si riduce solo ai leader, ai capi: i quali possono fare tante cose, ma se poi non hai chi va a raccogliere le firme, a mettere su i gazebo e a stare tra la gente, il risultato è quello che vediamo».
E a maggior ragione diventa fonte di dubbi e interrogativi un episodio come quello capitato al più autorevole quotidiano del Paese. «Certo, se non pubblicano un editoriale a Galli della Loggia, liberale a tutto tondo e osservatore attento, qualche sospetto c’è. Magari non ci sarà stato nessun veto, e so che persona perbene è De Bortoli, però resta il fatto che la grande stampa italiana dovrebbe uscire dalla logica bipolarebipartitica, e invece di fonte al primo scricchiolio, appunto, le scatta il riflesso difensivo». Ma come è possibile che la maggioranza dei moderati italiani si trovi rappresentata da un non-partito, incapace persino di presentare documenti in regola agli uffici elettorali? Pezzotta obietta che «il Pdl è tutto fuorché un partito moderato. I moderati siamo noi, il Popolo della libertà è populista, incavolato, e lo dimostrano i quotidia-
ni attacchi del suo capo carismatico ai magistrati, il modo di concepire i rapporti con l’opposizione». Eppure, dice il parlamentare dell’Unione di centro, «dopo che il partito di Berlusconi ci è stato presentato per anni come la soluzione ai problemi italiani, c’è una forte resistenza ad accettare la sconfitta di quella tesi».
Secondo Pezzotta non si può sostenere che «la debolezza oggettiva di un partito come il Pdl sia un problema per la democrazia, che non può essere messa in discussione così facilmente: costituisce casomai un problema di orientamento politico. Anche nel senso che appare sempre più incomprensibile ila collocazione di tanti moderati all’interno di quel recinto. È venuta ora di raccogliersi in una nuova grande area in cui prevalga l’idea di conciliare anziché favorire gli interessi. Noi dell’Unione di centro abbiamo avvertito in anticipo la crisi dell’assetto bipolare, il tempo ci darà ragione». Anche perché nel Pdl «proprio non si riescono a intravedere i segni dell’annunciata rivoluzione liberale: qui casomai si cavalca il populismo fino a consegnare il Nord nelle mani della Lega, si va insomma nella direzione opposta». È chiaro che il grave vulnus emerso in queste ore dal punto di vista della capacità organizzativa sia legato «a un modo diverso di intendere la politica:
noi che siamo un piccolo partito ci siamo preoccupati di consegnare le liste venerdì, in modo da avere tutto il tempo di intervenire di fronte a eventuali contestazioni». E nemmeno il Pdl può difendersi, in Lombardia come nel Lazio, «facendo appello a un meccanismo di raccolta delle firme che andrebbe semplificato. Io sono d’accordo con l’idea che si possano trovare dei modelli meno complicati, perché il numero delle vidimazioni, dei certificati da produrre è davvero impressionante. Ma il punto è che lo stesso Formigoni aveva proposto un’innovazione di questo tipo e poi non ha fatto nulla. E vedere scivolare su una cosa del genere uno che per quindici anni ha governato la regione più importante d’Italia lascia davvero stupiti. A prescindere dall’esito del ricorso ha dia mostrato tutti una debolezza che fa impressione».
LE FIRME NON FANNO IMMAGINE
Ma le regole fanno la democrazia Più che un «partito di plastica», il Pdl è un insieme di correnti clandestine di Giuseppe Baiocchi el caso dei pasticci sulla presentazione delle liste del Pdl alle regionali si sono sprecate molte nostalgie della Prima Repubblica, quando «i partiti erano una cosa seria» e «queste cose non succedevano», i controlli degli organi preposti erano sì rigorosi ma legati alla sostanza e non a cavilli di forma… e via ricordando con rimpianto. In realtà anche allora problemi, contenziosi e baruffe erano all’ordine del giorno . Erano infatti proverbiali i bivacchi e le risse nei corridoi delle Corti d’Appello per la conquista del primo posto in alto a sinistra sulla scheda elettorale (di solito ap-
N
pannaggio con metodi bruschi del Pci, nonostante molte zuffe con i radicali di Pannella) oppure la corsa al rallentatore per l’altrettanto ambìto ultimo posto in basso a destra (dove eccelleva in forme più paciose la tradizionale furbizia democristiana). Solo la più recente prassi del sorteggio ha tolto ragione e sapore ad una competizione tra partiti di raro ed estemporaneo fascino…
Un aspetto era comunque riconosciuto e necessario: la fase delicata e tuttavia indispensabile della presentazione delle liste avveniva in ogni caso con la presenza fattiva del respon-
prima pagina
3 marzo 2010 • pagina 5
LISTE BLOCCATE
«Quale burocrazia, è un caso politico!» Paolo Pombeni: «Cambiamo le leggi perché ormai i partiti non ci sono più» di Francesco Capozza
ROMA. Renata Polverini è fidu-
sabile politico più alto sul territorio. Che era insieme un modo di riconoscere l’importanza (se non la sacralità democratica) della competizione elettorale, ma anche di assicurare (ben più di oscuri funzionari) l’autorevolezza e la credibilità di quella formazione politica e in grado quindi di interloquire con efficacia e immediatamente, in caso di contenzioso, con gli uffici giudiziari. Molte controversie si erano in passato risolte così, con buon senso ed equilibrio alla fine condiviso. Quello che invece colpisce negativamente del pasticciaccio romano (meno quello lombardo, che invece appare più un gioco di puntigli e di protagonismi indebiti di scarso peso giuridico) è l’approssimazione e la fuga dalla responsabilità. Come se nel Pdl - che in fondo è la prima forza politica del Paese - il dovere di seguire con cura e competenza le minuziose procedure regolamentari necessarie per partecipare a buon diritto alla gara democratica delle elezioni fosse pura
mansione burocratica di impiegati di seconda fila e non una primaria responsabilità dell’esercizio politico. Certamente non è “sexy”, in un partito che coltiva l’immagine, la “bella presenza” (soprattutto femminile), il richiamo televisivo. E tuttavia con questa piccola croce delle liste e delle regole bisogna fare i conti. E sarà facile (e sommamente ingiusto) prendersela poi con sperimentati funzionari, esposti nei momenti decisivi alle pressioni e alla “guerra per bande” che fino all’ultimo secondo insistono per un frenetico “togli e metti” nelle liste delle candidature. Ma il partito dov’era ? E resta un’illusione affidarsi in ritardo ai cavilli degli azzeccagarbugli, paradossalmente esaltando il ruolo e il potere di una magistratura che per altri versi si vuole con qualche ragione tentare di contenere. Molto probabilmente il Pdl non è più da tempo il “partito di plastica”descritto all’inizio dell’avventura berlusconiana. Non è più nemmeno (o forse non lo è mai diventato) il
“partito-azienda”, dove una gerarchia, alcune funzioni e gli ambiti circoscritti di responsabilità manageriale assicurano l’efficienza formale e lo svolgimento dei compiti. Piuttosto come tanti altri episodi oltre a questo delle liste sembrano comprovare - appare sempre di più come un informe conglomerato di correnti clandestine, di ras territoriali, di sordi e feroci conflitti interni sinora coperti (ma fino a quando?) dal largo mantello del Cavaliere.
E anche la fusione a freddo tra Forza Italia e Alleanza Nazionale si va rivelando più una maionese impazzita che un sodalizio unito e propositivo. Le antiche appartenenze fanno premio in una lotta sotterranea senza esclusione di colpi proibiti. E la classe dirigente (ammesso che la migliore sia occupata nel governo) non si è temprata nell’umile fatica del contatto con il territorio e con le regole. Improvvisarsi politici, pretendere onori e responsabilità, può essere gratificante, ma quando non ci si dimostra all’altezza, può diventare decisamente doloroso. Fino alla domanda che non tarderà ad arrivare: ma chi ce lo fa fare di stare insieme ?
ciosa (e con tutta probabilità nel giro di un paio di giorni la questione si risolverà), Roberto Formigoni è sicuro della vittoria. I due candidati del Pdl alle regionali non sembrano affatto preoccupati dal caos liste. Ma al di là del risultato finale, al di là dei ricorsi accettati o meno, «tutta questa vicenda, non c’è dubbio, ha creato un vero e proprio caso politico» dice a liberal Paolo Pombeni, politologo e professore ordinario di Storia contemporanea presso l’università di Bologna. «Per quanto riguarda il “caso Lazio”credo che ci sia dietro qualcosa di più di quello che ci è stato detto» afferma il professore bolognese, «l’idea che mi sono fatto è che in realtà dev’essere successo qualcosa di più politico e di meno burocratico, fermo restando che anche dal punto di vista tempistico chi ha portato le liste in tribunale non è stato certo molto attento». Il fatto che emerge da quanto accaduto in questi giorni è per Pombeni «il limite di una legislazione che andava bene quando c’erano partiti veri, organizzati gerarchicamente e burocraticamente», mentre oggi assistiamo sempre più «al declino dell’idea stessa di partito e quello che è banalmente accaduto nel Lazio e in Lombardia altro non è che la prova che il Pdl è un partito debole da quel punto di vista».
In Lombardia, per quanto accaduto, rischia di rimetterci la faccia un governatore in sella da 15 anni e in corsa per il quarto mandato come Roberto Formigoni: «Cose del genere, presentazione di firme false intendo dire, sono del “mezzucci”che rischiano di essere scoperti facilmente e in un caso come questo di avere un’eco ancora più grande, visto il personaggio ed il partito che rappresenta». Tornando a Roma, c’è chi ha fatto notare che entrambi i responsabili delle liste del Pdl, quello romano – Piso – e quello provinciale – Milioni – sono due “exAn” che potrebbero aver giocato sporco contro il loro ex leader, il presidente della Camera Gianfranco Fini. «Ho letto queste ricostruzioni giornalistiche
– spiega Pombeni – ma non mi sento di commentarle per il semplice fatto che le scaramucce interne ai partiti non mi appassionano. In quasto caso, poi, non ho elementi per confutarle o credere che siano fatti realmente accaduti». Infine, in tutta questa faccenda che Umberto Bossi non esita a definire «gestita da dilettanti allo sbaraglio», si innesta anche un caso politico-giornalistico. Al professor Pombeni non è sfuggito che ieri, fra la prima e la seconda edizione del Corriere della Sera di ieri c’è stata una modifica evidente. Nella prima edizione, infatti, si può leggere un durissimo fondo di Ernesto Galli della Loggia nei confronti del Pdl dal titolo «Il fantasma di un partito». Nella seconda edizione, il fondo di Galli della Loggia scompare, per far posto a un fondo di Sergio Rizzo sull’etica pubblica. Che cosa è successo tra la prima e la seconda edizione? Cosa è accaduto dentro il quotidiano del gruppo Rcs? Chi si è lamentato?
Ernesto Galli della Loggia attacca duramente il Pdl. «Coloro che si erano illusi dopo le elezioni del 2008 che il Pdl fosse diventato un partito vero, qualcosa di piú di una lista elettorale, è stato costretto a ricredersi». È invece «una corte», una «somma di rissosi potentati locali riuniti attorno a figuranti di terz’ordine, rimasuglio di oligarchie dei quadri di partito dei Governi della Prima Repubblica». Tra questi, «mischiati alla rinfusa, spesso nel Mezzogiorno, gente dai dubbi precedenti, ragazze troppo avvenenti, figli e nipoti, genti di ogni risma, ma di nessuna capacità». «Certo – ammette il professor Pombeni a liberal – le parole scritte da Galli della Loggia erano molto forti, ed è per questo che, più che di censura, parlerei di una valutazione da parte della direzione del quotidiano di via Solferino, sull’opportunità di rimanere più cauti in una vicenda come questa. D’altronde è abbastanza palese a tutti che negli ultimi tempi il Corriere della sera ha scelto di essere libero e critico e proprio per questo il meno schierato possibile».
diario
pagina 6 • 3 marzo 2010
Paese reale. Il presidente delle Acli è tra i firmatari dell’appello-manifesto ai governatori: «Meno sprechi e più assistenza sulla sanità»
«Adesso salviamo le famiglie» Andrea Olivero: sulle politiche sociali serve una vera rivoluzione di Errico Novi
ROMA. «Serve un nuovo grande patto tra istituzioni e società civile. Una nuova forma di integrazione tra chi amministra il territorio, a cominciare dalle Regioni, e le organizzazioni sociali. Con un obiettivo chiaro: definire insieme vere politiche per la famiglia». Alla politica travolta da fantozziane inadempienze il presidente delle Acli Andrea Olivero concede fiducia ma nessun alibi. Secondo il rappresentante dei lavoratori cattolici italiani le elezioni del 28 marzo possono e devono essere l’occasione per voltare pagina, soprattutto «per avvicinare le politiche familiari alle reali esigenze che provengono dai cittadini, anche con un loro maggiore coinvolgimento». Le Acli sono d’altronde tra i fondatori del Forum famiglie, da cui è arrivato appunto un “Manifesto” destinato a tutti i candidati governatori. «Confidiamo che prima del voto venga sottoscritto dalla stragrande maggioranza dei candidati. In queste ore arrivano le prime adesioni». Vista la scarsa attenzione per la tutela delle famiglie a livello nazionale su cosa fonda la sua fiducia in una risposta positiva dei futuri governatori? Prima di tutto le Regioni hanno competenza sulle politiche sociali, possono organizzare servizi strategici. E poi tutte le amministrazioni locali hanno una vicinanza ai cittadini superiore rispetto allo Stato: l’augurio è dunque che le istituzioni cosiddette “di prossimità” facciano da stimolo al
solo nella politica ma anche in molti nostri concittadini. Ci sono certo modi scorretti di intendere la famiglia, ma non si può negare che essa sia una delle più grandi risorse che abbiamo a disposizione, a maggior ragione in momenti di difficoltà come questi.
«Nelle regioni ci vuole un’interazione più stretta tra le istituzioni e le organizzazioni dei cittadini, che dovono svolgere una funzione di controllo» governo, inducano una responsabilizzazione di tutto il Paese sul tema. È innanzitutto una questione di fisco. Serve anche un cambiamento di mentalità. In che senso? Abbiamo considerato per troppo tempo la famiglia se non come un male certo non come un grande patrimonio del nostro Paese. In qualche misura la campagna d’opinione fatta soprattutto all’estero contro il cosiddetto familismo italiano ha fatto breccia non
Lei evoca una specie rivoluzione culturale. Serve un lavoro comune. Si deve capire che ora ci vuole davvero una svolta. Perché è vero che tra mille difficoltà la famiglia ha retto, ma oggi è troppo stressata e rischia di essere la prima vittima della nostra società individualistica. Serve un sostegno maggiore, devono rendersene conto tutti, cittadini e istituzioni. I numeri non aiutano: le Regioni hanno impiegato molte delle proprie risorse per contribuire a fron-
teggiare l’emergenza occupazione. Nei fatti si è realizzata una riforma degli ammortizzatori sociali senza definirla per legge, ed è stato comunque positivo. Ma negli ultimi anni si è registrata una progressiva riduzione delle spese sociali. In particolare nelle Regioni, perché si è speso troppo e male soprattutto nella Sanità. Al Sud ma anche in qualche Regione del Nord c’è uno squilibrio troppo forte tra sistemi sanitari costosi e spesso comunque insoddisfacenti e servizi socio-assistenziali. Penso agli asili, alla tutela della non auto-sufficienza, in generale alle politiche attive necessarie a conciliare il tempo del lavoro con quello per la famiglia.
E qui le Regioni possono intervenire. Se lo fanno con politiche attente possono rimediare senz’altro. Resta il nodo delle risorse. Prima di tutto c’è l’evasione fiscale, ma subito dopo ci metto una gestione più razionale della sanità. Fuori la politica dalla sanità: molti candidati ne hanno fatto uno slogan. L’idea è condivisibile. In particolare credo che sia importante non andare a uno spoil system automatico, ma verificare anche i risultati. In questi anni abbiamo notato che si è fatto bene dove non si è badato allo spoil system ma alla qualità del management. Anche in questa tornata elettorale non vedo per la verità un’analisi attenta di quello che è stato realizzato, cosa che invece sarebbe pedagogica. Se la sente di essere ottimista su questo? Visto il clima che c’è è difficile poterlo affermare. D’altronde in questi cinque anni qualche esempio positivo si è
visto, oltre a casi effettivamente negativi. Andrebbe notata una cosa. Dica pure. Dove la Regione si è sentita un po’ più autonoma qualche risultato è arrivato. Credo che dobbiamo con maggior forza far emergere il ruolo della società civile e dei cittadini organizzati come soggetto controllore. Da questo punto di vista le Regioni sono carenti, le loro delibere sono tra le meno indagate dalle organizzazioni di cittadini. Quindi serve una svolta da parte della politica ma anche maggiore impegno delle organizzazioni sociali. E anche questa è una piccola rivoluzione, non lontana dal richiamo della Cei su tutela dei deboli e partecipazione. Forse il terzo settore non ha neanche cercato tutto lo spazio che dovrebbe assumersi. Anche perché è cresciuto il numero delle organizzazioni ma non si è rafforzata la rappresentanza. E come ci ha ricordato la Cei, l’impegno dovrebbe aumentare soprattutto in ambito formativo, facendo ragionare i cittadini e aiutandoli anche a uscire dalla logica della contrapposizione, che è tra i grandi responsabili delle difficoltà in cui ci dibattiamo.
diario
3 marzo 2010 • pagina 7
Un testo condiviso risponde agli «insulti» del premier
Sul posto carabinieri, vigili del fuoco e Protezione civile
Il Csm unito contro gli attacchi di Berlusconi
Nuova frana nel messinese, famiglie evacuate a Caronia
ROMA. Basta attacchi e tenta-
MESSINA. Nuovo pericolo frane nel messinese. Un movimento franoso sta infatti interessando dalla notte di ieri le contrade Lineri e Ricchio del comune di Caronia, piccolo paese sui monti Nebrodi in provincia di Messina. Circa 23 le famiglie evacuate nella zona, «per un totale di circa 70 persone». Lo ha riferito all’AdnKronos il sindaco di Caronia, Giuseppe Collura. Fortunatamente non c’è rischio per il Castello feudale di epoca Arabo-Normanna, monumento storico più importante della zona, costruito attorno al 1130 e interamente restaurato dall’avvocato Lelio Castro che lo acquistò nella prima metà del secolo scorso.
tivi di delegittimare la magistratura. È l’appello lanciato dalla prima commissione del Csm, che ieri ha approvato all’unanimità una bozza di testo che arriverà all’attenzione del plenum. La commissione ha così concluso l’esame della pratica a tutela della magistratura aperto dopo le continue dichiarazioni del premier Silvio Berlusconi contro le toghe. «È stato raggiunto un accordo di massima in commissione all’unanimità», hanno spiegato a palazzo dei Marescialli: la bozza, dunque, dovrà essere ora sistemata nei suoi diversi punti dai relatori, il togato Mario Fresa (Movimento) e Ugo Bergamo, laico dell’Udc. Il te-
Evasione, un tesoretto da 9 miliardi per Tremonti Nel 2009 recuperi record dalla lotta al sommerso di Francesco Pacifico
sto definitivo sarà di nuovo sottoposto al vaglio della commissione, e poi sarà portato in plenum. Sui tempi della discussione da parte dell’assemblea plenaria, la decisione spetterà al comitato di presidenza del Csm. Il testo, stando a quanto si è appreso, conterrà riferimenti all’appello diffuso sabato scorso dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, e ribadirà un netto «no» da parte del Csm a qualunque tentativo di delegittimare le toghe.
Il fascicolo era stato aperto nello scorso settembre, all’indomani dell’attacco che Berlusconi aveva lanciato contro i pm antimafia di Milano e Palermo: si era poi «arricchito» con le dichiarazioni fatte in diretta a Ballarò da Berlusconi, che in quell’occasione aveva ribadito un suo vecchio tormentone, parlando di «pm comunisti». Inoltre, il Csm aveva acquisito nella pratica le dichiarazioni con cui il presidente del consiglio aveva paragonato le «aggressioni» ricevute dalle toghe a quella subita, da parte di Massimo Tartaglia, nello scorso dicembre in piazza Duomo a Milano. Da ultimi, erano entrate nel fascicolo le colorite parole sui «pm talebani», che Berlusconi ha pronunciato venerdì scorso a Torino.
ROMA. Con il Pil che nel 2009 si è alleggerito di 70 miliardi di euro, nove miliardi faranno certamente piacere a Giulio Tremonti. Anche perché arrivano dalla lotta all’evasione, l’ormai la principale leva per recuperare munizioni da indirizzare allo sviluppo. Ieri il direttore dell’Agenzia delle entrate, Attilio Befera, ha annunciato risultati record in questo nel campo. Se l’attività del 2008 aveva riportato all’Erario quasi sette miliardi di euro, l’anno appena trascorso segna una crescita del 32 per cento, con 9,1 miliardi incassati. Il funzionario chiamato alle Finanze da Vincenzo Visco, non nasconde la sua soddisfazione: «Perché i numeri parlano da soli: stiamo percorrendo la strada giusta nel contrasto dell’evasione. I risultati ci danno ragione e sono risultati concreti e tangibili. Si parla di euro realmente entrati nelle casse dello Stato». Nota Stefano Caselli, ordinario di intermediazione dei mercati finanziari della Bocconi: «Questi valori sono un buon segnale in un Paese dove la lotta all’evasione è sempre stata dichiarata, ma mai condotta». Eppure siamo la vittoria della guerra è lontana. «Soffermarsi sulla qualità dell’accertato, va detto che un risultato incisivo passa per una crescita molto forte sul recupero delle imposte indirette». Come ha spiegato il direttore centrale accertamento, Luigi Magistro, lo scorso anno «l’incremento del gettito da ruoli è stato del 6 per cento arrivando a 3,5 miliardi, mentre per i versamenti diretti c’è stato un aumento del 56 per cento arrivando a 5,6 miliardi». Il dato sull’Iva parla invece di un recupero di 673 milioni. Il fatto che meno del 10 per cento del totale accertato riguardi l’imposta sul valore aggiunto fa ipotizzare che il grosso delle operazioni abbia riguardato interventi su rendite e patrimoni e non su transazioni aziendali. È proprio in questo ambito che si registrano le maggiori inadempienze per un’evasione complessiva che – stando alle stime più prudenti – è pari al 30 per cento del Pil. «Per intenderci», aggiun-
ge il professor Caselli, «le truffe sul versante dell’Iva registrano un livello così ragguardevole, che soltanto il fatto che l’uno per cento dei contribuenti dichiara più di 100mila euro ci sconvolge allo stesso modo». Che questa sia la vera emergenza lo conferma anche Befera: «Le frodi Iva», dice, «sono una piaga europea lavoriamo in stretta collaborazione con guardia di finanza, dogane, organismi nazionali e internazionali e stiamo avendo buoni risultati. Le nostre task force stanno lavorando e i risultati arrivano». Da registrare poi il picco registrato dall’utilizzo degli istituti definitori dell’adesione e dell’acquiescenza (4,3 miliardi di euro), con un balzo in avanti del +72 per cento rispetto al 2008 (2,5 miliardi). E un ottimo riscontro l’hanno segnato anche gli accertamenti sintetici, con +81 per cento per quelli eseguiti (oltre 28 mila) e +61 per cento per la maggiore imposta accertata (460 milioni). In generale gli interventi esterni sono concretizzati nel 2009 in più di 9mila verifiche e controlli mirati. Se a tutto questo sommiamo l’alto numero delle attività che non sono scaturite in contezioso – come il pagamento indotto o volontario del gettito pregresso – si comprende quanto sia cresciuto negli ultimi anni l’autorevolezza dell’Agenzia delle entrate. Quanto cresca il numero delle operazioni portate a buon fine.
I vigili del fuoco hanno però riscontrato il crollo di un fabbricato rurale disabitato e di un muro di contenimento; su un piazzale si è aperta una grossa crepa. La frana, che ha un fronte di circa 200 metri, è in continuo movimento ed è sotto stretto monitoraggio. È stato inoltre potenziato il dispositivo di soccorso e stanno arrivando squadre da tutta la Regione. Le famiglie che hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni dovranno attendere che la frana venga messa in sicurezza prima di poter rientrare in casa.
Il direttore delle entrate,Attilio Befera: «Sono euro realmente arrivati all’erario». Ma è basso il livello dell’emersione dell’Iva
Questi numeri saranno al centro del tavolo sulla riforma fiscale che Tremonti convocherà questa mattina. E che, sul versante della lotta al sommerso, non potrà prescindere da nuovi sistemi di tracciabilità come da meccanismi di semplificazioni (come la cedolare secca sugli affitti) e di deducibilità. Se Befera annuncia che con l’ultima proroga dello scudo fiscale si guarderà «soprattutto i grandi patrimoni e i beni immobili», il suo vice Marco Di Capua ha precisato che si «punterà al consolidamento dei risultati raggiunti migliorando ancora l’efficienza e l’efficacia dissuasiva dei controlli».
«A Caronia si è verificato un grosso movimento franoso che ha interessato la parte a monte. È stata evacuata la scuola media. Si tratta di una seconda San Fratello sia come portata che come tipologia di danni», ha riferito il sindaco di Caronia, facendo riferimento alla frana che ha interessato l’altro comune siciliano il 14 febbraio scorso. «Abbiamo iniziato l’evacuazione nella tarda serata di lunedì - ha aggiunto il sindaco di Caronia - non ci sono feriti per fortuna, solo danni ad abitazioni e alle scuole medie e a un lungo tratto della strada provinciale 168. Ora stiamo organizzando un coordinamento - ha concluso - per gestire l’emergenza».
società
pagina 8 • 3 marzo 2010
Mutua assistenza. Oggi il Senato voterà sulle dimissioni del senatore per il quale la magistratura ha chiesto l’arresto
Il lodo Di Girolamo Il giallo delle firme all’ordine del giorno che a gennaio bloccò la giunta di Franco Insardà
ROMA. Lo spettro delle firme aleggia anche sul caso Di Girolamo. Questa volta rischiano di finire nel mirino quelle dei venti senatori che il 29 gennaio 2009 hanno sottoscritto la mozione presentata da Sergio De Gregorio, senatore del Pdl, deus ex machina del movimento “Italiani nel mondo” e amico di Nicola Di Girolamo. Un atto che è riuscito a sospendere la decisione di ineleggibilità, presa all’unanimità dalla giunta per le elezioni e le immunità del Senato. Non a caso ieri mattina, durante la seduta della commissione presieduta da Marco Follini, è tornato sulla vicenda il capo-
no?». E per non lasciare nulla al caso: «Che verifica voleva fare, senatore Legnini? La prego, votiamo; lei sa che sono molto attento a tutto». Ma a guardare bene, forse non lo è stato sia sulla certezza delle firme sia sul fatto che le altre quattro sono state apposte dopo la chiusura della discussione.
Ma si sa, parlare in questi giorni al Pdl di firme e di orari è come parlare della corda in casa dell’impiccato. Non a caso si racconta che qualche settimana fa lungo uno dei corridoi ovattati di Palazzo Madama un collega del Pdl disse a Nicola Di Girolamo incontrandolo:
Follini replica a Schifani: «L’Aula voterà tredici mesi dopo aver smentito la giunta che ne aveva proposto la decadenza. Questi sono i fatti e queste le date. Il resto è umorismo» gruppo del Pd, Francesco Sanna. Parole che non sarebbero piaciute al senatore Cosimo Izzo, pronto a replicare ma subito bloccato dal suo collega di partito, Lucio Malan, il quale lo avrebbe invitato a far scivolare la cosa.
Eppure nel resoconto della seduta del 29 gennaio del 2009 ci sono dei passaggi che rendono questa storia ancora più ingarbugliata. Il presidente Schifani, alle 12,56, dando la parola al senatore Vetrella lo invitava a essere conciso, «perché aveva fissato per le ore 13 la chiusura della discussione». Cosa che faceva subito dopo, dichiarando chiusa la discussione, e ricordando la presentazione dell’ordine del giorno da parte di De Gregorio firmato da venti senatori. Lo stesso Schifani aggiungeva subito dopo: «Prima di procedere alla votazione, comunico all’aula che hanno regolarizzato l’apposizione della firma all’ordine del giorno i senatori Collino, Viespoli, Cursi e Paravia». Proprio sulla «certezza delle venti firme» il senatore del Pd Legnini chiedeva rassicurazioni. Pronto Schifani a replicare: «sono tutti presenti. Vogliamo invitare i senatori che hanno sottoscritto ad alzare la ma-
«Nico’, ci fai sempre lavorare». Perché dal giorno della sua elezione il senatore eletto nella circoscrizione europea è al centro di una serie di vicende che in questi giorni stanno arrivando a conclusione. Oggi in aula si discute delle dimissioni anticipate con una lettera al presidente Schifani dal senatore che secondo la procura di roòa è residente a Roma e non a Bruxelles. Su questa procedura la minoranza è insorta per il fatto che il voto sulle dimissioni arrivi prima di quello per la decadenza del senatore: in questo mondo potrà anche incassare 17mila euro che Palazzo Madama concede a chi non raggiunge i due anni necessari per poter maturare la pensione da parlamentare. Polemiche rese ancora più accese dall’assenza dello stesso Di Girolamo all’audizione di ieri presso la Giunta per le elezioni e l’immunità. E infatti i lavori del consesso, come è stato reso noto, in attesa del voto del Senato sono proseguiti «entrando nel merito con interventi dei
diversi gruppi parlamentari» e sono state fissate due sedute, oggi alle 13 e domani alle 14. «Se l’aula deciderà – ha spiegato il presidente della Giunta, Marco Follini – noi ne trarremo le ovvie conseguenze. Ma se l’Aula non dovesse decidere noi svolgeremo la nostra funzione di rete di protezione a tutela e a garanzia della funzione parlamentare».
Sulla vicenda Di Girolamo il presidente dei senatori Udc, Gianpiero D’Alia, ha aggiunto: «Doveva essere dichiarato decaduto già un anno fa. Un atto chiaro sulla decadenza avrebbe preservato la linearità delle istituzioni». Tra l’altro D’Alia che è anche componente della giunta per le elezioni e l’immunità del Senato, ha avanzato il timore che «questo costituirà un precedente. Ora serve un atto, una mozione bipartisan che, scevra da qualsiasi valutazione politica, annulli gli effetti disastrosi e perversi del-
l’ordine del giorno De Gregorio, che a suo tempo permise il “congelamento” della decadenza del senatore Di Girolamo, e che se non verrà cancellato, permetterà che in futuri eventuali casi analoghi la giunta e il Senato non abbiano alcun potere
di esprimersi e di agire fino a che non ci sarà una sentenza della magistratura».
L’opposizione ha delineato un percorso da seguire per arginare gli effetti “istituzionali e di diritto” che la mozione De Gregorio comporta. Secondo D’Alia la maggioranza sta sottovalutando questo aspetto, se non si rimuove questo macigno, resterà per sempre e impedirà di fatto e di diritto alla giunta di espletare le sue funzioni. La maggioranza deve farsi carico della revoca di quell’ordine del giorno ed è per questo che ci ha stupito il rifiuto a discutere prima della decadenza di Di Girolamo, rispetto alle dimissioni, perchè nelle mozioni sulla decadenza, sia quelle a firma della maggioranza che dell’opposizione si prevedeva il ritiro della mozione De Gregorio. Purtroppo le dimissioni precludono l’esame delle mozioni, da qui la necessità di trovare un’altra strada, che va nella logica del contenimento del danno. Fino a ora invece la maggioranza - conclude D’Alia - ha deciso semplicemente di coprire con le dimissioni le proprie responsabilità politiche nel caso Di Girolamo».
Stessa posizione espressa da Anna Finocchiaro, presi-
società dente dei senatori del Pd, che in una conferenza stampa ieri ha fatto sapere che è stata depositata dal Pd una mozione che chiede la revoca dell’ordine del giorno De Gregorio. «È incredibile - ha detto la Finocchiaro che tutto si chiuda quasi con un omaggio all’altruismo di Di Girolamo che, bontà sua, ci concede le sue dimissioni. Il Senato, per difendere il suo ruolo e la sua dignità, non può lasciare che tutto si chiuda senza una sanzione politica del comportamento di questo senatore». La presidente dei senatori Pd, comunque, ha lasciato aperto uno spiraglio rispetto alla possibilità di un documento bipartisan: «Se ci fosse la volontà della maggioranza di arrivare alla revoca dell’odg De Gregorio noi saremmo disponibili».
In alto Nicola Di Girolamo, sopra Gennaro Mockbel, Marco Follini e Gianpiero D’Alia; nella pagina precedente il presidente del Senato, Renato Schifani e a destra l’ex ad di Fastweb, Silvio Scaglia
Udc Pd e Idvnon hanno votato il calendario fissato a maggioranza, perché, ha accusato il vice presidente dei senatori dipietristi Fabio Giambrone «c’è stata l’ennesima prova muscolare del presidente del Senato». E Schifani, ieri, ha replicato: «Le opposizioni hanno il sacrosanto diritto di critica, ma ci sono tanti precedenti anche molto autorevoli in base ai quali le dimissioni assorbono tutti gli altri dibattiti e vanno poste quindi subito votate». Il presidente del Senato ha rivendicato di aver posto le premesse di un’“accelerazione” nella vicenda quando ha scritto al presidente della giunta delle elezioni e immunità del Senato, Marco Follini «sollecitandolo a riattivare il dibattito sulla decadenza» del senatore Di Girolamo. Decadenza bloccata proprio da quelle venti firme all’ordine del giorno di De Gregorio e che, come ha ricordato Follini, arriva in Senato «tredici mesi dopo aver smentito la giunta che aveva proposto la sua decadenza. Questi sono i fatti e queste le date. Che sia il presidente Schifani a vantarsi ora di accelerare le cose sarebbe una buona storiella per il festival dell’umorismo di Bordighera. Se non fosse un argomento serio». Intanto nascono già nuove polemiche su chi succederà a Di Girolamo: il primo dei non eletti nella stessa circoscrizione è Raffaele Fantetti, un personaggio dal curriculum immacolato – funzionario ministeriale, matrimonio a Westminster e sei lingue parlate – ma, sembra, sia residente anch’egli a Roma.
3 marzo 2010 • pagina 9
Continuano l’inchiesta su riciclaggio e grande truffa telefonica
Scaglia si difende: Gennaro Mokbel chi?
Ieri l’interrogatorio dell’ex ad di Fastweb che nega tutto e ripete: «Non c’entro e non conosco nessuno» di Alessandro D’Amato
ROMA. Mai conosciuti né Mokbel, né Di Girolamo, né Focarelli. Durante l’interrogatorio di garanzia davanti al Gip Aldo Morgigni, nel carcere di Regina Coeli, Silvio Scaglia nega di aver in qualche modo fatto parte del “gruppo” di persone oggi accusate di riciclaggio e di associazione per delinquere, e di essersi quindi mosso in accordo con loro. «Scaglia - ha detto il suo legale, l’avvocato Pier Maria Corso ha spiegato di non aver mai visto né conosciuto Mokbel. Lui non ha mai visto né conosciuto tutti questi soggetti venuti fuori a vario titolo in questa vicenda, a partire da Di Girolamo». Per quanto riguarda l’imprenditore Carlo Focarelli, figura chiave nell’inchiesta della Procura di Roma sul riciclaggio, per Scaglia, ha proseguito l’avvocato, «si trattava di un consulente esterno che ha avuto rapporti con qualche dirigente non di alto livello, ma non con Scaglia direttamente». L’ipotesi di reato per l’ex ad di Fastweb è quella di associazione per delinquere pluriaggravata finalizzata al riciclaggio transnazionale, al falso in atti pubblici e all’emissione di fatture per operazioni inesistenti. Scaglia si trova in carcere da giovedì notte, quando al suo rientro dal Sudamerica si è consegnato alla Guardia di Finanza. «Chiederemo la revoca della misura cautelare», spiega il suo avvocato, «o in subordine gli arresti domiciliari». L’interrogatorio si è svolto alla presenza del procuratore aggiunto, Giancarlo Capaldo e dei pm, Francesca Passaniti e Giovanni Di Leo. «Il mio assistito ribadisce che in questa vicenda la società è stata vittima», ha aggiunto Corso. Il legale, che assiste Scaglia insieme all’avvocato Antonio Fiorella, ha detto di avere trovato il fondatore di Fastweb «provato ma sereno». Durante l’interrogatorio, hanno riferito Corso e Fiorella, Scaglia ha ribadito al gip «che il suo ruolo non era di controllare la singola operazione commerciale e che c’era una struttura incaricata del controllo, che lui era convinto che tale struttura funzionasse bene». I legali di Scaglia hanno ribadito che il loro assistito «si è costituito proprio per chiarire la situazione e la propria estraneità ai fatti contestati».
illeciti. Ne prende atto. Ognuno si assumerà le proprie responsabilità». Il fondatore di Fastweb ha anche escluso che vi sia stata da parte di Fastweb un’evasione dell’Iva, ribadendo che «il comportamento della società è sempre stato corretto». Quanto alle truffe telefoniche contestate dai pm, Scaglia ha fatto presente che «a quanto risulta dalle macchine di rilevazione della società i servizi forniti sono stati effettivi, il traffico era effettivo». Scaglia ha ribadito al gip «che il suo ruolo non era di controllare la singola operazione commerciale e che c’era una struttura incaricata del controllo, che lui era convinto che tale struttura funzionasse bene». I legali di Scaglia hanno ribadito che il loro assistito «si è costituito proprio per chiarire la situazione e la propria estraneità ai fatti contestati». Durante l’audizione Scaglia non ha tuttavia escluso la possibilità che qualche altro manager di Fastweb sia colpevole dei fatti contestati: «Ha ribadito che per quanto ne sapeva lui, in Fastweb si sono sempre comportati lealmente - afferma Corso - ma legge negli atti che qualcuno potrebbe avere commesso degli illeciti. Ne prende atto. Ognuno si assumerà le proprie responsabilità».
Quanto alle truffe telefoniche contestate dai pm, Scaglia ha fatto presente che «a quanto risulta dalle macchine di rilevazione della società i servizi forniti sono stati effettivi, il traffico era effettivo». Nel frattempo, nulla è stato deciso riguardo il commissariamento di Fastweb e Telecom Italia Sparkle. Il giudice si è preso due giorni di tempo per dare una risposta alle istanze dei difensori delle due società, il professor Franco Coppi e Paola Severino i quali tentano di evitare il commissariamento come richiesto dalla Procura della Repubblica di Roma e consentire che l’attività delle due società prosegua nell’attuali condizioni amministrative. All’udienza di oggi hanno partecipato tutti e quattro i pubblici ministeri, il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e i sostituti Giovanni Bombardieri, Giovanni Di Leo e Francesca Passaniti ai quali è affidata l’indagine. Al giudice Morgigni i difensori hanno proposto una serie di questioni e annunciato anche il deposito di numerosi atti i quali dovrebbero convincere il magistrato della bontà delle proposte. Proposte che tra 48 ore saranno depositate in maniera scritta e quindi illustrate in udienza. E ieri si è costituito a Roma Paolo Colosimo, considerato dagli inquirenti il trait d’union tra Mokbel e le società di tlc.
Di fatto, di fronte ai gip ha scaricato le responsabilità su chi «doveva controllare sugli affari»
Durante l’audizione Scaglia non ha tuttavia escluso la possibilità che qualche altro manager di Fastweb sia colpevole dei fatti contestati: «Ha ribadito che per quanto ne sapeva lui, in Fastweb si sono sempre comportati lealmente - afferma Corso - ma legge negli atti che qualcuno potrebbe avere commesso degli
pagina 10 • 3 marzo 2010
panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
L’educazione mundial di Mario Balotelli ario Balotelli deve andare o no ai Mondiali di calcio? Il commissario tecnico della Nazionale, Marcello Lippi, pensa di no. Altri, ad esempio il giornalista Mario Sconcerti crede di sì. Altri ancora, ad esempio Zamparini, profetizzano: «Lippi non porta Balotelli ai Mondiali e l’Italia perderà». Cominciamo bene. Ancora non abbiamo giocato, ancora ci sono settimane e mesi prima di scendere in campo e già abbandona materiale per polemiche e polemiche. Ci siamo già precostituiti un alibi: se usciamo sarà colpa di Lippi che non ha voluto Balotelli.
M
Lippi sostiene che l’attaccante dell’Inter è troppo giovane, non è maturo, non è completo, deve ancora fare esperienza prima di poter dare il suo fattivo contributo alla Nazionale. Gli argomenti di Lippi non sono dei migliori, soprattutto perché il calcio - cioè il calcio giocato, quello del campo si è già da sempre incaricato di sconfessarli. Ai Mondiali di Spagna Beppe Bergomi era anche più giovane di Balotelli. Lo chiamavano già “lo zio”, ma era un ragazzino e diede il suo importante contributo alla vittoria finale.Tuttavia, Lippi ha le sue ragioni. Dalla sua ha soprattutto la vittoria di quattro anni fa in Germania: il peggior Mondiale di tutti i tempi, ma un Mondiale che la Nazionale ha vinto e - si sa - chi vince ha sempre ragione (in verità non è così, ma in Italia vale questo ed altro). Lippi vuole una Nazionale che sia il più vicino possibile alla squadra di quattro anni fa. Non è cosa facile perché non tutti i giocatori saranno della partita, ma ciò che Lippi tende a fare è più ricreare il gruppo, la squadra, lo spirito di corpo. Ecco, il ct della Nazionale mira soprattutto a questo: a ricostruire il clima di combattimento della Nazionale che cominciò a venir fuori dopo la sonora sconfitta con l’Olanda. E in questa “squadra operaia”, una squadra sostanzialmente grigia, noiosa, votata al risparmio e alla tenacia più che al gioco e al rischio non c’è spazio per Balotelli. SuperMario non è ancora un giocatore di esperienza e Lippi vuole mettere in campo undici giocatori affiatati ed esperti. Secondo il ct Balotelli sarebbe un elemento di disturbo. È un ragionamento, un’idea di squadra. Ha già funzionato una volta perché non dovrebbe funzionare anche in Sudafrica? Mario Sconcerti avanza, però, un argomento che non andrebbe preso sottogamba: Balotelli è un giocatore capace di inventare degli episodi importanti e spesso decisivi in una partita di calcio. Tenerlo fuori è come privarsi di un’arma che al momento opportuno potrebbe rivelarsi utile, forse letale. Va bene il gruppo, va bene costruire una squadra soprattutto esperta, ma in una Nazionale che partecipa ai Mondiali di calcio c’è sempre posto per un giocatore capace di rompere gli schemi e di giocare un po’ fuori dal coro. Anche il ragionamento di Sconcerti ha le sue buone ragioni: in un Mondiale di calcio anche l’immaturità - cioè l’eccezione alla regola, l’invenzione, la imprevedibilità - può essere non solo utile, ma necessaria.
Crocifisso nelle scuole, prima vittoria italiana La Corte di Strasburgo accoglie il ricorso del governo di Gabriella Mecucci
ROMA. Chi voleva togliere il crocefisso dalle aule scolastiche italiane ieri ha subìto una prima sconfitta. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha infatti accolto il ricorso del nostro governo contro la sentenza che definiva la presenza del più alto simbolo cristiano come «una violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni». Se quello di ieri è un passo avanti per chi si oppone a questa impostazione, resta ancora da attendere il pronunciamento definitivo di un altro organo europeo: la Grande Camera, la cui composizione verrà definita «in uno stadio ulteriore».
Le reazioni italiane a questa decisione di Strasburgo sono tutte molto positive si va dal «vivo compiacimento» del ministro degli Esteri Frattini, perché è stato accolto il contenuto del nostro ricorso, al «grande successo dell’Italia» che, secondo il ministro Gelmini, è riuscita «a far rispettare le proprie tradizioni cristiane e a dare un contributo all’integrazione non intesa come appiattimento o rinuncia alla propria identità». Anche l’opposizione è soddisfatta. Per il Pd parla Enrico Farinone, vice presidente della commissione Affari europei del Parlamento: «Non è negando il proprio passato che possiamo guardare al futuro del nostro continente». Sul crocefisso appeso nelle scuole, da tempo si era scatenata in Italia una dura polemica, alimentata sia dagli integralisti islamici sia dai laicisti, quando Soile Lautsi, una cittadina italiana originaria della Finlandia e socia Uar (Unione atei agnostici razionalisti) sollevò il caso a livello europeo. Era quello il culmine di una sua battaglia, condotta in precedenza nei tribunali italiani.
nente europeo». La risposta del mondo cattolico comprendeva anche un’osservazione che poi verrà ripresa nel suo ricorso dal governo italiano: «Stupisce che una Corte europea intervenga pesantemente in una materia molto profondamente legata all’identità storica, culturale, spirituale del governo italiano». Insomma, una serie di argomenti solidi e convincenti quelli del mondo cattolico che trovarono – come evidenziarono i sondaggi all’epoca – un grande consenso anche fra l’opinione pubblica.
Accanto alle dichiarazioni del mondo cattolico, ci furono anche quelle degli esponenti politici che quasi all’unanimità, anche se con toni diversi, accolsero criticamente la sentenza della Corte dei diritti dell’uomo. Si espresse contro il presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione che definì la sentenza di Strasburgo “una decisione aberrante”, mentre il leader del Pd, Pierluigi Bersani affermò: «Un’antica tradizione come il crocefisso non può essere offensiva per nessuno. Penso che su questioni delicate come questa, qualche volta il buon senso finisce per essere vittima del diritto». Favorevoli al pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo si dichiararono solo gli esponenti dell’estrema sinistra e i radicali. Il governo, forte di questo ampio schieramento critico, decise così di presentare un suo ricorso puntando sul argomento che «sulle questioni religiose la giurisprudenza europea ha sempre riconosciuto la libertà di riferirsi a regolamentazioni nazionali». E non c’è dubbio che in Italia, oltreché ad una diffusa convinzione popolare che il crocefisso debba restare nelle aule scolastiche, esiste anche una serie di regole e di sentenze dei nostri tribunali che si muovono in questa direzione.
A questo punto resta solo da attendere il pronunciamento definitivo della Grande Camera che si formerà per l’occasione
La Corte di Strasburgo, con il pronunciamento del 3 novembre 2009, le dette ragione e la decisione non mancò di sollevare un’accesa discussione. Il Vaticano espresse subito «stupore e rammarico» per una sentenza«miope e sbagliata». La Cei, Conferenza episcopale italiana, parlò «del sopravvento di una visione parziale ed ideologica». Per L’Osservatore Romano del 4 novembre «tra tutti i simboli quotidianamente percepiti dai giovani la decisione di Strasburgo colpisce quello che più rappresenta una grande tradizione, non solo religiosa, del conti-
Adesso occorrerà attendere il pronunciamento della Grande Camera che sarà particolarmente significativo non solo per il nostro paese, ma che potrebbe lanciare un messaggio anche ad altri. La sentenza di Strasburgo del tre novembre ha riaperto infatti la querelle sul crocefisso anche in Spagna e in Portogallo. Mentre la Germania lo vieta, ma non la Baviera. Quanto alla Francia – come è noto – impedisce l’esposizione di qualsiasi simbolo religioso.
panorama
3 marzo 2010 • pagina 11
Si è conclusa con il successo schiaccianate del segretario uscente il congresso della confederazione
Solo il riformismo salverà la Cgil Tutte le conseguenze della vittoria di Epifani (e della sconfitta di Rinaldini e Podda) di Giuliano Cazzola a netta affermazione della mozione di Guglielmo Epifani nel Congresso della Cgil è sicuramente un elemento positivo per tanti motivi. Il primo è di carattere generale. La sconfitta della «terribile coppia» Podda&Rinaldini dimostra ancora una volta che, persino in tempi di grande squallore come sono quelli che sta vivendo la politica italiana, resta in vigore una regola di carattere generale: le alleanze senza principi hanno scarso respiro ed ancor minori prospettive. Negli ultimi mesi l’union sacrée tra i vertici dei metalmeccanici e della funzione pubblica ha procurato seri danni, non solo al Paese e ai lavoratori, ma allo stesso buon nome della Cgil, tanto da bloccarne le iniziative e da estraniarla da qualsiasi presenza significativa che non fosse la proclamazione di uno sciopero generale (quasi sempre fallito) o lo svolgimento di una manifestazione destinata a divenire punto di riferimento di quel variopinto popolo accampato a sinistra del Pd, ma ad essere disertata dai lavoratori.
L
rate. Epifani ha certamente le mani più libere per cambiare politica, recuperare un ruolo negoziale e riavvicinarsi ai propri naturali interlocutori. Nella Funzione pubblica Podda non è riuscito neppure ad avere la maggioranza. Purtroppo resta il caso patologico della Fiom, a cui una soluzione
deve essere trovata, al più tardi avvalendosi delle regole – in questo caso provvidenziali – relative al limite statutario dei mandati elettivi (che non possono superare gli otto anni di permanenza nel medesimo incarico).
Infine non può non fare piacere lo
Negli ultimi tempi, il radicalismo di alcuni leader aveva messo ai margini tutto il sindacato
Un sindacato può sopportare di tutto, ma non di diventare irrilevante, come stava capitando alla più importante confederazione storica del Paese. Il secondo motivo di soddisfazione è determinato dai possibili cambiamenti di scenario derivanti dalla vittoria delle componenti più mode-
scoprire che, tutto sommato, la grande massa degli iscritti alla confederazione di Di Vittorio, Santi, Lama e Trentin è fatta di persone responsabili e di dirigenti e funzionari che hanno una sola ambizione: tornare al più presto a compiere il mestiere del sindacalista, che negozia, che stringe accordi, che trova tutte le possibili soluzioni ai problemi e, se e quando serve, chiede ai lavoratori di scioperare, ma lo fa con attenzione e con rispetto dei sacrifici altrui. La prossima settimana si apre il Congresso nazionale della Uil. Per il ruolo che questa confederazione svolge – non solo sul piano storico, ma anche grazie all’intelligente guida di Luigi Angeletti – l’assise può diventare un’occasione per valutare – ascoltando gli interventi degli altri leader sindacali – se una svolta è matura e prossi-
ma. Certo, dipende molto dalla linea di condotta di Guglielmo Epifani. Quale ricordo vuole lasciare di sé il primo ex socialista approdato, nel Dopoguerra, al vertice della confederazione «rossa»? Vuole passare alle cronache come una sorta di «re Tentenna» che si è barcamenato – pur tra mille difficoltà – all’insegna del più smaccato «cerchiobottismo» oppure intende chiudere la sua esperienza recuperando quei valori – il riformismo, l’unità, l’autonomia – che ispirarono la sua militanza giovanile vicino a leader come Piero Boni, Dino Marianetti ed Ottaviano Del Turco ?
Un primo banco di prova di una ritrovata collaborazione la sta fornendo la Cisl di Raffaele Bonanni, che ha deciso di stanare il Governo sul terreno fiscale. Può essere questa un’occasione per un’azione comune? Resta poi aperta la partita dei contratti ancora da rinnovare. Le linee guida saranno quelle dettate dai chimici e dagli alimentaristi e dalle altre categorie che non si sono tirate indietro oppure faranno di nuovo scuola i metalmeccanici e i dipendenti pubblici, con la loro innaturale (e sconfitta) alleanza? I tempi si sono fatti brevi anche per queste risposte. Soprattutto sono tanti i dubbi che riguardano la leadership di Susanna Camuso, la candidata di Epifani a succedergli.
Sfide. Il segretario della Uil fa la voce grossa aprendo il congresso del sindacato
Angeletti va alla guerra del fisco di Guglielmo Malagodi
ROMA. Luigi Angeletti vede nero sul futuro della crisi: ci sono altri 200mila posti di lavoro a rischio quest’anno. L’analisi è stata esposta dal segretario generale Luigi Angeletti durante il XV congresso nazionale a Roma. La crisi, ha spiegato, è stata epocale e non è ancora finita. Nel 2009, tuttavia, «grazie al complesso degli ammortizzatori sociali messi in campo, sono stati evitati circa 400mila licenziamenti». La Uil ha chiesto dunque al governo di «proseguire nella politica sin qui realizzata e mettere in campo tutte le risorse necessarie per governare le crisi aziendali ed evitare un disastro economico e sociale». Il congresso, cui partecipano 1.250 delegati, si è aperto con il monologo letto da una lavoratrice in cassa integrazione sulla «crisi che mette tutti in paro come la livella di Totò», scritto da Elisabetta Fiorito. Angeletti ha parlato di fisco e ha usato parole dure: «Occorre mettere mano a una riforma, in quanto l’attuale sistema è pessimo, non funziona. Incoraggia l’evasione ed è quanto di più iniquo e inefficace si sia potuto
immaginare». E ha fatto un esempio: «I gioiellieri dichiarano di essere più poveri delle maestre». Secondo la Uil già quest’anno, con il consenso di tutti, si può cominciare a costruire un nuovo modello, avviando una riduzione delle tasse sul lavoro. «Subito dopo le elezioni, se non dovesse ripartire il confronto, non staremo con
sulle plusvalenze derivanti dal trading finanziario, sia su alcuni beni di lusso».
Sul fronte previdenziale, al contrario, poi, la Uil non vede la necessità di una nuova riforma. Il problema, ha spiegato ancora il segretario, è aumentare l’importo degli assegni per far fronte a un sistema che sta «diventando insostenibile sul piano sociale». Il vero problema che dobbiamo porci ha sottolineato il leader della Uil - è come aumentare le pensioni». Infine il capitolo concertazione. Basta con la logica dell’emergenza, ha concluso Angeletti, «c’è bisogno di un grande progetto programmatico, di una vera e propria strategia per l’occupazione che coinvolga, in un tavolo permanente, insieme al governo, tutte le forze sociali e produttive del Paese».
L’assemblea è stata aperta da una lavoratrice in cassa integrazione che ha letto una lettera nella quale ha citato «’A livella» di Totò le mani in mano – ha annunciato il segretario -. Noi non facciamo piattaforme per proclamare gli scioperi, ma non abbiamo derubricato il conflitto dalle nostre iniziative». E le risorse per «avviare già da oggi una politica di riduzione delle tasse sul lavoro»? Potrebbero derivare, per Angeletti «da una concreta riduzione dell’evasione e da uno spostamento del carico fiscale sia
il paginone
pagina 12 • 3 marzo 2010
IL FRANCESE
Bernheim, l’onnipresente Antoine Bernheim nasce il 4 settembre del 1924 a Parigi, figlio del padre Antoine e della madre Renée-Marcelle Schwob d’Héricourt. Laureato in Giurisprudenza, ottiene la specializzazione in Diritto privato e pubblico ed una seconda laurea in Scienze. Nel 1973 entra a far parte del consiglio d’amministrazione delle Assicurazioni Generali. Nel 1990 è nominato vicepresidente e dal 1995 al 1999 ricopre la carica di presidente. Il brutale allontanamento dell’aprile 1999 lo addolora profondamente, anche perchè si sente tradito da Cuccia verso cui nutre sentimenti di affetto e di stima. Dopo la morte di Cuccia, nel 2001 è nuovamente nominato vicepresidente e nel 2002 rieletto alla presidenza. Dal 1988 al 2001 è vicepresidente di Mediobanca, del cui consiglio di sorveglianza è tuttora un componente. Dal 1967 fino al 2000 è senior partner presso la Lazard Frères & Cie; dal 2000 al 2005 è ”associé”della Lazard LLC. Dal settembre 2009 è vicepresidente di Alleanza Toro S.p.A. Dal 1972 al 1977 è stato Presidente della compagnia La France; dal 1981 al 1991 Presidente ed Amministratore Delegato di Euromarchè- Attualmente è Vice Presidente di Luis Vuitton Moët Hennessy e di Bollorè. Grande Ufficiale della Legione D’Onore e Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
IL CATTOLICO
Bazoli, l’inamovibile Giovanni Bazoli nasce a Brescia il 18 dicembre 1932. Attualmente è presidente del Consiglio di sorveglianza della banca Intesa Sanpaolo e presidente della finanziaria Mittel. Discendente da un’importante famiglia bresciana, impegnata in politica fin dall’inizio del XX secolo, è stato docente di Diritto amministrativo e Diritto pubblico dell’Economia all’Università Cattolica di Milano. Amministratore della Banca San Paolo di Brescia nel 1982, fu chiamato dall’allora ministro del Tesoro Nino Andreatta per contribuire al salvataggio del Banco Ambrosiano, travolto dallo scandalo Calvi. Diventa presidente del Nuovo Banco Ambrosiano, che continuò l’attività bancaria del Banco Ambrosiano e controlla la cessione della Rizzoli-Corriere della Sera, diventando egli stesso beneficiario della transazione in quanto presidente della Mittel. Nel 1997 dall’unione dell’Ambroveneto con Cariplo, nasce Banca Intesa, di cui Bazoli diventa presidente. Negli anni successivi, Banca Intesa si fonde con la Banca Commerciale Italiana (1999) e con il Sanpaolo di Torino, originando così l’attuale gruppo Intesa Sanpaolo. Bazoli è noto anche per la sua passione per gli studi biblici e per la simpatia politica nei confronti del centrosinistra. Secondo voci giornalistiche, Bazoli avrebbe declinato un’offerta di candidarsi alla guida della coalizione dell’Ulivo alle elezioni politiche del 2001, ruolo poi rivestito da Francesco Rutelli.
IL (QUASI) ROMANO
Geronzi, lo scalatore Cesare Geronzi nasce a Marino il 15 febbraio 1935. Nel 1960 ince il concorso in Banca d’Italia, entrando a lavorare nel 1961 nel settore cambi collaborando con il Governatore Guido Carli per 15 anni. Negli anni Ottanta si vede chiuso da Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini e si mette quindi sul mercato, diventando, proprio nel 1980, vicedirettore generale del Banco di Napoli. L’esperienza non è felice e Geronzi passa alla Cassa di Risparmio di Roma, come direttore generale. Alla fine degli anni Ottanta, il Banco di Santo Spirito, storica banca romana controllata dall’Iri si trova in difficoltà economiche. Geronzi vorrebbe acquistare il Banco, ma Cariroma non ha gli 800 miliardi di lire necessari per farlo. Per ottenere il capitale necessario Cariroma vende a Santo Spirito i propri sportelli, diventando una holding, e con il denaro ottenuto rileva il capitale azionario. Nel 1990 al gruppo viene aggiunta anche la Banco di Roma. Nel corso degli anni, attraverso l’unione di banche in crisi o pre-crisi, conduce Geronzi alla creazione nel luglio 2002 di un’unica unità bancaria, Capitalia. Nel 2004 Geronzi e Capitalia vengono coinvolti nella crisi dei crac Parmalat e Cirio. Il 20 maggio 2007, viene deliberata l’approvazione finale della fusione per incorporazione di Capitalia SpA in Unicredit SpA,. Dopo circa un mese avviene la fusione di Capitalia con Unicredit, e Geronzi viene nominato all’unanimità presidente del consiglio di sorveglianza di Mediobanca, di cui era già Vice Presidente.
he strano modo quello delle “nostre carissime banche”! L’economia reale, soprattutto la spina dorsale delle piccole e medie imprese è in grave difficoltà, poiché viene loro lesinato il credito; e che fanno i nostri banchieri? Litigano, sgomitano, per il “valzer delle poltrone”, nel senso che nessuno, proprio nessuno, vuole rinunciare alle varie poltronissime. Incuranti dell’anagrafe, e dell’urgenza, financo fisiologica, di un salutare ricambio generazionale. Proviamo a comporre lo scenario, con i suoi protagonisti. Un posto d’onore lo merita certamente Antoine Bernheim, parigino per nascita (1924). Nella sua stagione d’oro, in virtù dei lombi (una ricca famiglia ebraica) e delle amicizie, divenne partner della mitica Lazard, secolare crocevia della finanza internazionale. “Incomprensioni giudiziarie lo inducono a lasciare la Francia, e sbarca in Italia, immediatamente trovando una sponda amica nella Mediobanca di Enrico Cuccia, non immemore del sostegno francese quando, raggiunti i 70 anni, i politici romani volevano pensionarlo.
C
Siamo nel 1995. Cuccia, pur quasi ottuagenario, è sempre potentissimo. «Non si muove foglie che don Enrico non voglia», si sente ripetere sia fra le ovattate boiseries della finanza che nei Palazzi romani squassati dal terremoto che ha investito la Prima Repubblica. Mediobanca è per definizione il “salotto buono”, il punto d’incontro dei potentati economici: Agnelli, De Benedetti, Pirelli. Fra le partecipazioni spiccano le Assicurazioni Generali, sorte nell’Ottocento in una Trieste ancora austro-ungarica. Un colosso assicurativo ben gestito, autentica gallina dalle uova d’oro. Ai vertici europei. E Cuccia impone Bernheim alla presidenza. Nessuno stupore: Antoine è da due decenni membro del Consiglio d’amministrazione, in virtù di complicati intrecci, movimenti di capitali transfrontalieri. Un uomo di fiducia, ha da pensare don Enrico... Invece i due primattori hanno uno scazzo tremendo. Cuccia scaccia Bernheim. Ma il Grande Vecchio muore e nel 2002 Bernheim riconquista la presidenza delle Generali. Inutile la reazione del governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio., che almeno nell’occasione aveva visto giusto: il formarsi di un centro di potere sottratto alla vigilanza della politica e della stessa banca d’Italia. Fu tacitato Fazio: Bernheim, con la sua età, avrebbe ballato una sola stagione... Senonché, si finse di non vedere: “dietro” Bernheim, quali influenti sponsor, vi erano fra gli altri il rampante finanziere francese Vincent Bollorè e Tarak Ben Ammar, affarista tunisino,
Disoccupazione e deficit in cre
Il valze intimo di Silvio Berlusconi. Non solo. Scomparso Cuccia e presto anche il suo delfino Vincenzo Maranghi, Mediobanca abdicava in buona misura al ruolo di arbitro super partes, per divenire, appunto, un “gran salotto” ormai aperto anche a quegli ambienti che nell’Era Cuccia erano tenuti alla larga. A “balla-
Nel 2002, dopo la morte di Cuccia, Bernheim riconquista le Generali. Inutile la reazione di Fazio re una sola stagione”, ovviamente, Antoine Bernheim mai ci aveva pensato. Infatti: rieccolo! Più gagliardo che mai. In Borsa le quotazioni delle Generali
il paginone
3 marzo 2010 • pagina 13
escita, Pil in picchiata: eppure l’Italia è l’unico Paese in cui la recessione non ha toccato l’establishment bancario
er delle poltrone d’oro Litigano e sgomitano, incuranti dell’anagrafe. Lo strano mondo dei banchieri che controllano (da decenni) la finanza italiana di Giancarlo Galli fanno tutto fuorché faville, ma Lui, con capolavori d’astuzia, ha rilanciato: perché non rinnovargli il mandato in scadenza a primavera? Un grande Finanziere, non ha età... C’è tuttavia chi preme, per il ricambio. A favore di Cesare Geronzi, attuale presidente di Mediobanca. Nato il 15 febbraio 1935 a Marino (Roma). Un lunghissimo curriculum, degno di un romanzo alla Dumas, che alla fine lo conduce dal Cupolone alla Madonnina.
Chi rema a suo favore? Per opinione diffusa, proprio i francesi un tempo suoi grandi elettori, ora alleati di Berlusconi, che con uno scacco matto in due mosse, realizzerebbero un autentico ribaltone nei piani alti della Finanza nazionale. Arrivato a Trieste, Geronzi (che naturalmente smentisce le illazioni) favorirebbe un matrimonio fra le Generali ed il colosso assicurativo francese Axa, nonché il passaggio di Telecom alla spagnola Telefonica. In Mediobanca s’installerebbe allora Marco Tronchetti Provera, erede non troppo brillante della Dinastia Pirelli e
Intorno a Mario Draghi sono in corso manovre a largo raggio. Come la mossa di candidarlo (con esiti incerti) alla Bce
calcio, Donna Letizia dal 2006 sindaco di Milano, sposata con Gianmarco, il petroliere che controlla la Saras, fra i maggiori raffinatori europei. Altre partite sono in atto nella giungla degli gnomi di Economia & Finanza. Fra le più significative, il rinnovo delle cariche nel Gruppo Intesa, dove in virtù del “sistema duale” (Consiglio di sorveglianza e Consiglio d’amministrazione) troviamo il bresciano Giovanni “Nanni” Bazoli (1932) e il torinese Enrico Salza (1935). Bazoli è per definizione inamovibile ed insostituibile, forte com’è del sostegno delle Fondazioni Bancarie, reso ancora più robusto dal legame con Giuseppe Guazzetti (comasco, 1934, ex presidente della regione Lombardia, ex senatore), ora dominus delle sesse Fondazioni, specie dopo aver fatto pace sia con la lega di Umberto Bossi che con l’arcigno ministro Giulio Tremonti.
protagonista della telenovela Telecom, che a 62 anni suonati è sempre considerato un “giovane promettente”. Sodale fra l’altro con i Moratti: l’Inter nel
E siamo a Giulio Tremonti. Sino a qualche anno fa, pareva determinato a promuovere un salutare rinnovamento ai vertici bancari. Ha finito invece col
rimettere nel fodero la spada. Anche lui timoroso di scuotere gli equilibri cristallizzatisi? Non casualmente, l’Italia è l’unico Paese in cui il grande crac, la recessione, non hanno avuto ripercussioni sull’establishment bancariofinanziario. Tutti al loro posto! Poi si aggiunge (sarà vero?) che stiamo meglio di altri. Sebbene gli ultimissimi dati Istat (disoccupazione schizzata all’8,6 per cento della forza-lavoro, deficit pubblico al 5,3 per cento del Pil, diminuzione delle entrate e aumento della spesa statale), facciano tremare le vene dei polsi.
A “vigilare”, si assicura, c’è la Banca d’Italia, col governatore Mario Draghi, ma attorno alla sua delicata poltrona sono in corso manovre a largo raggio. Ufficialmente la volontà di candidarlo al vertice della Banca centrale europea, dove il francese Jean-Claude Trichet è prossimo (2011) alla scadenza del mandato. Ma non sarà un tentativo (dall’esito peraltro incertissimo) di un promoveatur ut amoveatur? Ne riparleremo.
mondo
pagina 14 • 3 marzo 2010
Proposte. Oltre a costare meno, i vegetali modificati sono più resistenti agli attacchi
La Rivoluzione Verde Gli Ogm sono l’unica strada per salvare l’Africa dalla fame di Bjorn Lomborg oco dopo la Seconda Guerra Mondiale, una “Rivoluzione Verde” cominciò a trasformare l’agricoltura del globo terrestre, permettendo alla produzione alimentare di mantenere il passo con la crescita della popolazione mondiale. Attraverso mezzi di irrigazione, fertilizzanti, pesticidi e nuove piante di riproduzione, la Rivoluzione Verde incrementò, tra il 1950 ed il 1984, la produzione mondiale del grano di un sorprendente 250 per cento, rendendo possibile aumentare la quota-calorie assunta dalla gente più povera del mondo ed evitando così gravi carestie alimentari.Tuttavia, I benefici della rivoluzione sono andati diminuendo man mano che il numero delle bocche da sfamare cresceva e la coltivazione con metodi tradizionali di nuove varietà di piante avveniva con profitti decrescenti.
P
Si è così sentito il bisogno di una nuova rivoluzione. Fortunatamente, la maggior parte degli scienziati del settore crede che le necessità del pianeta, attraverso la produzione agricola, possano essere soddisfatte grazie alla modificazione genetica, sempre che gli attivisti ambientalisti non impediscano che ciò accada. La coltivazione convenzionale di piante legata alla Rivoluzione Verde era essa stessa una forma primitiva di modificazione genetica, avendo consentito di produrre elevate quantità di riso, frumento e grano. Queste erano versioni “nane” delle tradizionali colture, con steli più corti e che si coltivavano meglio in suoli irrigati e fertilizzati. L’agronomo americano Norman Borlaug che ha introdotto un elevato numero di queste varietà in Messico, Pakistan, India si è meritato il premio Nobel per la Pace, la Medaglia Presidenziale della Libertà e la Medaglia d’Oro del Congresso Americano. Durante un’onorificenza nel 2004, in occasione del novantesimo compleanno di Borlaug, il Senato degli Stati Uniti ha dichiarato:
«È molto probabile che il Dott. Borlaug sia direttamente responsabile di aver salvato molte vite, più di qualsiasi altra persona nel ventesimo secolo».
Oggi, continuando sul sentiero battuto della Modificazione Genetica, la biotecnologia offre la speranza di un aumento della produzione alimentare, con minore impatto ambientale. Mentre, una volta, gli scienziati incrociavano le piante attraverso un lento procedimento, cadendo spesso in errore nel tentativo di creare i geni dei caratteri desiderati, i produttori di oggi possono isolare con precisione i geni che desiderano ed inserirli direttamente nel codi-
Per anni, centinaia di milioni di consumatori americani hanno apprezzato i famigerati ogm. E questi non hanno procurato danni di sorta, anche se sono selezionati per resistere agli insetticidi ce genetico della pianta. Le possibilità sono enormemente stimolanti. Le piante potrebbero crescere in modo sostenibile in aree trascurate dalla prima Rivoluzione Verde, nell’Africa sub-sahariana, ad esempio, dove il fabbisogno alimentare è grande. I contadini potrebbero coltivare pian-
te resistenti alle malattie o alla siccità e che non abbiano bisogno di fertilizzanti chimici. La modificazione genetica offre anche un potenziale di miglioramenti destinati al consumatore, come prodotti alimentari più resistenti e ricchi di sostanze nutritive.
Per anni, infatti, il cibo geneticamente modificato è stato consumato da centinaia di milioni di consumatori americani. Le colture sono diffuse anche in altri 22 paesi, includendo Argentina, Brasile, Canada, Cina ed India. Il Servizio Internazionale per l’Acquisizione delle Applicazioni Agri-biotech stima che più di 50 milioni di agricoltori nel mondo abbiano coltivato, l’anno scorso, colture geneticamente modificate. Queste colture includono la canola, pianta resistente agli erbicidi e che permette agli agricoltori di ottenere raccolti più abbondanti e di utilizzare meno sostanze chimiche; il frumento che incorpora una proteina insetticida naturale che lo protegge dal tarlo del buco della radice senza ricorrere allo spray insetticida; il riso provvisto di ferro extra e di una proteina che aumenta l’assun-
zione del ferro, particolarmente promettente, visto il diffuso problema della carenza di ferro.
Nonostante non si siano riscontrati problemi di salute derivanti dall’assunzione di cibi geneticamente modificati, il diffondersi di notizie allarmistiche su tale pratica è quanto mai diffuso. In gran parte d’Europa, la campagna contro la modificazione genetica ha avuto un successo considerevole: Il Principe Carlo d’Inghilterra proclama con sicurezza imperiale: è «garantito che la modificazione genetica causerà il disastro più
sto fino al dicembre 2005, quando lo Zambia invertì il senso di marcia a fronte di eventuali carestie future e permise l’importazione di frumento geneticamente modificato. Ora una tale opposizione alla modificazione genetica è particolarmente controproducente. Nel 2008, la carente nutrizione delle madri e dei loro giovani bambini ha colpito 3.5 milioni di vite. L’anno scorso, le provviste di cibo globale hanno toccato i minimi storici e sono scoppiate delle sommosse per gli alimenti nell’Africa occidentale e nell’Asia del Sud. I consuma-
La campagna diffamatoria nei confronti di questo tipo di agricoltura è nato in Europa, ma si è diffusa nel Continente Nero. Lo Zambia ha rifiutato i “nuovi” alimenti, soccombendo a una carestia grande a livello ambientale di tutti i tempi», e lo spettro del Frankenfood ha fatto sì che tutti i cibi commestibili, geneticamente modificati, venissero eliminati sui mercati Europei. In modo più problematico, sia lo Zimbabwe che lo Zambia hanno bloccato gli aiuti alimentari che non fossero certificati come privi di materiale geneticamente modificato. Durante la siccità, nel 2002, l’allora Presidente dello Zambia, Levy Mwanawasa, rifiutò gli aiuti di cibo statunitensi, asserendo che la fame della sua gente non era «una giustificazione per dare loro del cibo intrinsecamente pericoloso per la salute». Que-
tori nelle economie di transizione, come la Cina e l’India, stanno reclamando più di una semplice dieta di sussistenza, mentre la siccità ha ridotto la produzione delle colture australiane. Il progresso è dolorosamente lento rispetto all’obiettivo dell’Onu che si è prefissata di dimezzare la proporzione di gente affamata entro il 2015.
Certamente, prima di adottare cibi geneticamente modificati, dovremmo sempre testarli con rigore a causa del loro potenziale impatto sull’ambiente e sulla salute delle persone.Tuttavia sarebbe criminale ignorare la speranza che la biotecnolo-
mondo
3 marzo 2010 • pagina 15
A fare da apripista sarà la Amflora, creata in modo da avere un maggior contenuto di amido
E Bruxelles apre i mercati a patate e mais modificati Dopo 12 anni, cade l’embargo dell’Unione europea contro gli Ogm Vibrate le proteste di ecologisti e coltivatori di tutti i Paesi membri di Giovanni Radini a sentenza della Commissione europea sulla produzione degli Ogm era attesa da tempo e trepidamente, sia dai sostenitori del piano industriale, sia da chi si è sempre manifestato contrario. Bruxelles ieri ha scritto la parola “fine” a una polemica che aveva coinvolto, anche da un punto di vista etico, tutti gli Stati membri dell’Unione europea e che in Italia aveva assunto toni particolarmente accesi. Il casus belli era nato in Svezia ancora nel 2003. A suo tempo, la Swedish Meats, uno dei principali produttori di carni svedesi con il 65 per cento di controllo del mercato nazionale aveva stabilito la macellazione e la commercializzazione di bestiame nutrito con mangimi a base di Ogm. Dopo il via libera concesso dal Consiglio di Stato italiano e dal Tar del Lazio, anche la Commissione Ue si è dichiarata favorevole alla coltivazione della patata geneticamente modificata dall’alto contenuto di amido, la “Amflora”, prodotta dalla multinazionale Bayer. Le istituzioni europee hanno sottolineato la soddisfazione nel raggiungimento di un risultato in giacenza da così tanto tempo. «Si tratta di un passo innovativo e responsabile – ha dichiarato il Commissario alla Salute e alla Politica dei consumatori, John Dalli – che segna l’inizio per come trarre vantaggio, in modo comunitario, dalle nuove tecnologie». Dalli ha anche replicato a chi ha avanzato le preoccupazioni relative alle conseguenze scientifiche e sanitarie. «Dopo un’attenta revisione di tutti i dossier Ogm aperti, ho ritenuto che vi fossero questioni scientifiche che richiedessero un’ulteriore valutazione», ha detto il Commissario Ue. «Una proroga ulteriore della sentenza avrebbe rappresentato un ritardo privo di motivazioni».
L
gia offre alla maggior parte della gente malnutrita del mondo. «Alcuni dei lobbisti ambientalisti delle nazioni occidentali sono il sale della terra ma appartengono ad una elite», ha sentenziato Borlaug memorabilmente, riferendosi alle fastidiose critiche in merito agli strumenti da lui utilizzati durante la Rivoluzione Verde. «Loro non hanno mai sperimentato la sensazione fisica della fame. Lanciano proclami da confortevoli suite d’ufficio a Washington o Bruxelles. Se avessero vissuto, anche solo un mese, in mezzo alla miseria del mondo in via di sviluppo, come ho fatto io per 50 anni, avrebbero protestato per i trattori, i fertilizzanti, i canali di irrigazione e si sarebbero indignati con quei gruppi elitari di tendenza che, comodi nelle loro case, stavano cercando di negargli queste cose».
In alto, il celebre “I mangiatori di patate” dipinto da Vincent Van Gogh durante il suo soggiorno nella zona mineraria del Belgio, all’inizio della sua carriera. A destra, la sede del Consiglio d’Europa
membri e aveva bloccato le attività produttive del settore in cui le multinazionali quali Bayer, Monsanto, Syngenta erano riuscite a convincere la Commissione. I governi nazionali a loro volta avevano fatto fronte comune per evitare l’ok di Bruxelles. Nel nostro Paese le reazioni sono stato apparse negative nella loro generalità. I tipi di mais “sdoganati”ieri infatti sono gli stessi dai quali verrebbe ricavata la materia prima per i prodotti agroalimentari del made in Italy di alta qualità.
Proprio i difensori dei marchi alimentari nazionali, in particolare la Coldiretti, si sono schierati contro l’ingresso degli Ogm nel nostro Paese. La loro posizione aveva ottenuto l’appoggio anche del Governo, il quale ancora ieri non ha nascosto la sua disapprovazione in merito alla scelta di Bruxelles. «La decisione presa dalla Commissione europea di concedere l’autorizzazione alla coltivazione di una patata geneticamente modificata ci vede contrari. Il fatto di rompere una consuetudine prudenziale che veniva rispettata dal 1998 é un atto che rischia di modificare profondamente il settore primario europeo», ha detto il Ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali, Luca Zaia. «Prendiamo le distanze da questa decisione che rischia di compromettere la sovranità degli Stati membri in una materia così delicata», ha aggiunto Zaia. Sulla stessa linea anche i governi di Parigi e Berlino. Si prevede quindi che i governi contrari alla coltivazione della “Amflora” facciano appello alla “clausola di salvaguardia” per impedire la coltivazione all’interno del territorio nazionale. Proprio in rispetto della sovranità nazionale, come ha detto il nostro Ministro dell’Agricoltura. «Esprimo grande perplessità per questa decisione, che mal si concilia con le produzioni agricole di qualità nell’Unione europea», dice in una nota il Vicepresidente del Parlamento europeo Roberta Angelilli commentando l’annuncio della Commissione europea. «In un momento così delicato per tutto il settore agricolo – conclude - tale decisione è inopportuna e stride con la politica di produzione avviata dagli imprenditori agricoli europei che punta sulla tipicità, sull’alta qualità e sull’eccellenza dei propri prodotti, e mira attraverso controlli e processi di tracciabilità a tutelare la salute dei cittadini». Positiva invece la reazione del Vaticano, il quale vede negli Organismi geneticamente modificati un «mezzo per combattere la fame nel mondo».
L’Italia, con il ministro dell’Agricoltura Zaia, «prende le distanze dalla decisione». Mentre il vice presidente del Parlamento europeo, Roberta Angelilli, esprime «perplessità» in merito
La Commissione si è espressa favorevolmente anche per la commercializzazione – su importazione e non mediante coltivazione su territorio comunitario – tre generi di mais trangenici destinati all’alimentazione degli animali. Si tratta dei prodotti che portano le sigle Mon863xMon810, Mon863xNk603, Mon863xMon810xNk603, per i quali l’Agenzia europea del farmaco, l’Agenzia europea per l’emergenza sanitaria (Emea) e l’Organizzazione mondiale per la sanità (Oms) si erano espresse in modo contrario. Peraltro la stessa Direttiva Ue n. 18 del 2001 proibisce l’autorizzazione per gli Ogm che contengono geni di resistenza agli antibiotici per la salute umana. La diatriba scientifica si era trasformata in uno scontro politico fra Bruxelles e le singole capitali degli Stati
quadrante
pagina 16 • 3 marzo 2010
Islam. Le popolazioni dell’Unione si dicono contrarie all’abito musulmano un tema tra i più caldi in Europa, segno di un grave disagio ma anche di grande confusione. Quello del burqa è un argomento che divide, e che troppo spesso viene utilizzato in modo strumentale, senza volontà di comprendere e di risolvere con chiarezza. Intanto però un messaggio arriva chiaro e forte dalla pubblica opinione: secondo un sondaggio dell’autorevole Financial Times gli europei il burqa vorrebbero vietarlo. Lo rivela una rilevazione fatta per conto del giornale dall’Istituto Harris nei cinque maggiori Paesi europei. In Francia il 70 per cento delle persone intervistate è a favore del divieto per legge promosso dal presidente Nicolas Sarkozy. In Italia e in Spagna le percentuali di opposizione rigida sono rispettivamente del 65 per cento e 63 per cento. I favorevoli al divieto del burqa in Gran Bretagna e Germania sono sempre la maggioranza, ma meno marcata, con il 57 per cento e il 50 per cento.
È
Molto meno caldo il tema è negli Stati Uniti, e di conseguenza anche i risultati del sondaggio sono diversi: solo il 33 per cento degli intervistati da Harris vede di buon occhio una proibizione del velo integrale, mentre il 44 per cento è contrario. Il sondaggio a mio avviso va preso sul serio, e anche il confronto con la situazione statunitense può tornare utile. Il punto centrale infatti non è il burqa in sé. Il problema evidenziato è piuttosto il confronto di identità, il bilanciamento di diritti (quello di religione e di espressione a fronte di ga-
Se l’Europa vota contro il burqa Pubblicati i dati del sondaggio Harris: in prima fila Francia, Germania e Italia di Osvaldo Baldacci
(ma nel senso di notorietà, non certo di utilizzo) anche in Europa e tra chi qui è immigrato. Ma per capire di che rilevo stiamo parlando basta ricordare il dato francese: indossano il burqa me-
Il tema negli Stati Uniti è meno sentito, e di conseguenza i risultati dell’inchiesta sono diversi: solo il 33 per cento è contrario ranzie pubbliche e di sicurezza e in rapporto ai diritti delle donne), e alla fine il senso di minaccia percepita. Andiamo con ordine. In molti Paesi europei si parla di vietare per legge il burqa nei luoghi pubblici. In realtà il tema è spesso mal posto. Molti infatti confondono i diversi veli delle culture islamiche, e fanno di tutta l’erba un fascio. Il burqa è solo l’abito afghano che copre le donne dalla testa ai piedi e lascia una sottile grata di telo sugli occhi. Con la “pubblicità” ricevuta dalla guerra in Afghanistan il burqa ha valicato quelle lontane frontiere ed è diventato popolare
no di duemila donne su sei milioni di musulmani. Analogo ma propriamente arabo è il niqab, il velo integrale nero. In molti Paesi comunque, a partire dall’Italia, già esisto leggi e regolamenti che impongono l’obbligo di farsi identificare. Questo vuol dire che non si può avere il viso coperto nelle foto né davanti a pubblici ufficiali. Peraltro il tema non è neanche propriamente religioso, perché una diffusissima giurisprudenza islamica nega l’obbligo di velo inte-
Sarkozy ha proposto di bandirlo dagli uffici
La crociata di Parigi PARIGI. Il burqa «non è benvenuto sul territorio della Repubblica». Il primo ad accendere le polveri in Francia è stato già mesi fa lo stesso presidente Nicolas Sarkozy. Ed è stato sempre lui a promuovere la legge in discussione per vietare il velo
lori della Repubblica e la dignità delle donne». Su questo concordano più o meno tutte le forze politiche, ma i socialisti, d’accordo sul principio, sono gli unici contrari a un divieto per legge, caldeggiato invece anche dall’estrema sinistra.
integrale nei luoghi pubblici. A gennaio, dopo sei mesi di lavoro, una commissione parlamentare ha consegnato un rapporto di duecento pagine per indicare le linee legislative da seguire. Per la commissione, come per la stragrande maggioranza dei francesi, «il burqa offende i va-
Ma è soprattutto l’estrema destra che in questi giorni ha ripreso a cavalcare la protesta, forse anche spaventata dal rischio di essere scavalcata dall’Ump di Sarkozy sui temi dell’identità. In vista delle elezioni regionali il Fronte Nazionale di Le Pen ha diffuso un manifesto che raffigura una donna con il burqa e sette minareti che tappezzano il territorio francese con lo slogan: “No all’islam”. Nel frattempo, le Associazioni islamiche francesi tacciono, anche se qualcuno aveva proposto di portare il caso all’attenzione del Consiglio europeo. Che, proprio ieri, ha riabilitato il crocifisso negli edifici pubbli(O.B.) ci italiani.
grale, e una parte diffusa contesta persino l’imposizio del velo tout-court.
Non sorprende quindi che la maggior parte degli europei sia fortemente contrario al burqa in sé, peraltro da alcuni indicato come possibile strumento di mascheramento di terroristi. Ma allora qual è il problema? Il fatto è che molti con burqa intendono generalmente il velo islamico – l’hijab che copre capelli e collo lasciando scoperto il tondo del viso, oppure il semplice foulard sulla testa – e di fatto vedono in questo una serie di significati contrastanti con i propri valori fondanti e quindi una minaccia. In Francia ad esempio – prima di discutere tanto del burqa – hanno varato una legge che impedisce di mostrare a scuola qualsiasi simbolo religioso, e pensando al velo islamico sono arrivati a impedire il velo delle suore, i crocifissi, la kippah ebraica. Una paura dell’identità quindi che si manifesta con la paura dell’identità altrui che viene contrastata, ma in realtà nasconde una paura della propria identità e della propria debolezza. L’ostilità al burqa – come quella ai minareti consacrata dal referendum in Svizzera – è il segno di un sentirsi minacciati. Non ha nulla a che fare con certi presunti libertarismi secolaristi. Al contrario. Nello stesso sondaggio infatti dove si è chiesto cosa si pensava se il divieto di burqa fosse accompagnato anche da quello per i simboli cristiani ed ebraici, la risposta è stata chiara: solo il 22 per cento dei francesi e il 9 per cento dei britannici sosterrebbe questi divieti. Quindi il tema vero non è il divieto quasi scontato di qualcosa che copre il volto, ma il fatto che i fondamentalisti del secolarismo hanno talmente minato l’identità europea da suscitare nella popolazione una reazione di paura e di chiusura perché si sente minacciata da una identità esterna. Un conflitto che tende ad aumentare, e che non a caso – il sondaggio insegna – non è altrettanto forte negli Usa dove le identità, a partire dalla propria e da quelle religiose, non sono negate e combattute.
quadrante
3 marzo 2010 • pagina 17
Ieri Hillary Clinton ha incontrato la Bachelet e promesso aiuti
Il “certificato di residenza” blocca i movimenti interni
Cile, cresce il numero delle vittime a Santiago
I giornali cinesi chiedono di abolire lo hukou
SANTIAGO DEL CILE. È di 723 morti il bilancio, ancora provvisorio, delle vittime del terremoto di sabato notte in Cile, ma si continua a scavare sotto le macerie e prosegue anche la ricerca dei dispersi. Per la popolazione la situazione è sempre più difficile, in molte zone manca ancora l’elettricità e comincia a scarseggiare il cibo. Il governo cileno ieri ha chiesto all’Onu l’intervento della comunità internazionale, anche se nella notte ha dovuto stoppare un team di medici giapponesi perché la situazione nel Paese è ancora ”instabile” e non è possibile accettare soccorsi internazionali. Per arginare i saccheggi da parte dei sopravvissuti, oltre a Concepción, città vicina all’epicentro della prima devastante scossa, altre tre città sono state sottoposte nella notte a coprifuoco: si tratta di Talca, Cauquenes e Constitutión, tutte nella regione del Maule. Secondo una prima stima del governo, il terremoto costerà al Cile 30 miliardi di dollari di danni.
PECHINO. Almeno 13 giornali
Hillary Clinton è atterrata a Santiago del Cile per offrire personalmente l’aiuto e il sostegno degli Stati Uniti al Paese colpito. Il sSegretario di Stato americano, impegnata in un tour in America che ieri l’ha portata a Mon-
Tra Delhi e Riyadh, un mare di petrolio Conclusa la visita del premier Singh in Arabia Saudita di Antonio Picasso due giorni di visita appena terminata del Primo ministro indiano, Manmohan Singh, in Arabia Saudita costituiscono un passaggio epocale nelle relazioni tra New Delhi e Riyadh. Ed è possibile che abbiano incidente significative di breve periodo sullo sviluppo delle relazioni diplomatiche di tutta l’Asia. Era da quasi trent’anni che un premier indiano, quindi leader di un Paese da sempre al centro di scontri confessionali con il mondo musulmano, non si recava nel cuore dell’islam. Nel 1982 era stata Indira Gandhi – l’esatto opposto della monarchia assoluta saudita – a stringere la mano all’allora Custode dei Luoghi Sacri al Profeta Maometto, re Khaled. Il summit di questi ultimi due giorni quindi ha un evidente peso storico, nonché una valenza religiosa. Per i 160 milioni di cittadini indiani fedeli al Corano, l’incontro fra Singh e re Abdullah appare come un primo gesto di conciliazione fra la loro comunità e il governo federale di New Delhi. Altrettanti rilevanti sono le decisioni emerse in ambito economico e politico. Nel corso della visita a Riyadh, Singh si è incontrato con le massime autorità del Regno, al fine di avviare una partnership strategica completamente nuovo nel quadrante dell’Oceano indiano nord-occidentale. New Delhi e Riyadh hanno firmato una serie di accordi volti a incrementare l’interscambio commerciale fra i due Paesi. Sono 2 milioni i lavoratori indiani presenti in Arabia Saudita, per lo più impiegati nel settore petrolifero, e ben 500 le joint venture operative tra società private dei rispettivi Paesi. Si tratta di un giro di affari che ha raggiunto i 25 miliardi di dollari per il biennio 2008-2009. L’obiettivo dell’India tuttavia è incrementare sensibilmente la fornitura di petrolio che Riyadh, insieme agli altri Parsi arabi del Golfo, già le offre e che sarebbe capace di aumentare. Stando al Ministro delle Attività petrolifere indiano, Shri Murli Deora, la monarchia saudita si è dichiarata disposta a soddisfare il 50% della domanda di greggio indiano entro il prossimo biennio. Come contropartita, il governo india-
I
no si è detto disponibile alla raffinazione dell’oro nero saudita presso gli stabilimenti della Indian Oil Corp, con un ritorno di guadagno del 10% in favore della Saudi Aramco.
La promessa farà sobbalzare la Cina, la cui presenza nella regione è ormai radicata. Pechino rischia di scontrarsi con il suo primo competitor asiatico anche in Medioriente. Collaterali, ma non di minore importanza sono le questioni strettamente geopolitiche trattate nel corso del vertice di Riyadh. Il primo nodo da sciogliere che è stato affrontato è la questione pakistana. Le frizioni tra India e Pakistan, attualmente sedate, seguono un andamento imprevedibile. Sono fonte di apprensione per gli alleati di entrambi i Paesi, in primis gli Stati Uniti. Infine rappresentano un ostacolo ai tentativi di risoluzione dell’“AfPak war”. Singh è conscio dei buoni rapporti che il Governo di Islamabad mantiene con quello saudita. Non è da escludere che si sia confrontato con re Abdullah proprio perché quest’ultimo assuma il delicato incarico di mediatore fra le parti, nell’interesse degli equilibri regionali e quindi anche dei sauditi. C’è poi l’Iran. Né l’Arabia Saudita né l’India vedono favorevolmente l’eventualità che il regime degli Ayatollah realizzi le sue ambizioni in ambito nucleare. Questo significa che adesso Teheran si trova di fronte un ulteriore ostacolo, oltre al Governo di Washington.Osservandolo “a caldo” il summit di Riyadh sembra liberare una forza diplomatica assolutamente nuova. Da una parte l’India, la più grande democrazia del mondo, dotata di un arsenale nucleare e con prospettive economiche di leadership globale. Dall’altra il primo esportatore di petrolio al mondo. Va aggiunta infine la posizione geografica dei due Paesi. Nella congiuntura diplomatica attuale, l’Asia centrale è l’asse portare della politica internazionale. Ne consegue che il tandem “Delhi-Riyadh” potrebbe creare un’alleanza fra titani difficile da affrontare per chiunque.
Erano quasi trent’anni che un leader indiano non si recava nel cuore dell’islam. L’ultima nei Luoghi santi fu Indira Gandhi
tevideo per l’insediamento del presidente uruguayano Josè “Pepe” Mujica, è accompagnata dal vice segretario di Stato Arturo Valenzuela, che è nato in Cile e da giovane ha vissuto a Conceptión, la città maggiormente devastata dal terremoto. Con la delegazione di Clinton, sono arrivati i primi aiuti statunitensi: attrezzature per le comunicazioni. «Abbiamo portato dei telefoni satellitari», ha detto la Clinton stringendo la mano alla presidente. «Erano alcune cose che potevamo portare immediatamente con gli aerei». Il segretario di Stato ha comunque promesso che gli Usa stanno inviando altri aiuti. Il Cile ha chiesto attrezzatura mediche e strumenti per purificare l’acqua.
cinesi hanno pubblicato ieri un editoriale comune in cui chiedono al governo di abolire il sistema dello hukou, il certificato di residenza obbligatoria, che limita movimenti e benefici della popolazione, soprattutto dei contadini. L’editoriale è stato diffuso a pochi giorni dell’Assemblea nazionale del popolo, l’assise parlamentare che si raduna una volta all’anno per legiferare sulla nazione, per spingere all’abolizione di questo sistema di controllo della popolazione. Lo hukou è stato introdotto nel 1958 per frenare l’urbanesimo selvaggio e bloccare i contadini a lavorare la terra. Dopo le modernizzazioni di Deng Xiaoping, la crescente in-
dustria cittadina ha sempre più avuto bisogno di manodopera e l’ha pescata proprio dai migranti provenienti dalle campagne. Ma non avendo la residenza nelle città, i migranti sono stati sfruttati come forza lavoro, senza concedere loro benefici legati alla residenza, come sanità, educazione per i figli, giustizia. L’editoriale afferma che il sistema dello hukou ha fatto crescere una divisione sempre maggiore fra la popolazione urbana e quella rurale, aprendo un mercato corrotto di vendite di certificati falsi di residenza. L’articolo sottolinea pure che lo hukou è contro la costituzione cinese e che “tutti gli uomini sono nati liberi di muoversi”. Per questo si chiede alle autorità di “lanciare una riforma e abbandonare l’ossificato sistema dello hukou”.
L’editoriale fa notare che lasciando libere le persone di decidere dove vivere si potrà aumentare e stabilizzare la domanda interna di beni, tanto necessaria all’economia cinese in questo periodo di crisi. Vi è un’altra ambiguità che emerge dalla richiesta dei giornali: molte fabbriche nelle zone costiere fanno fatica a trovare tutta la manodopera necessaria. Il “benefit” dello hukou potrebbe offrire ai contadini più incentivi per migrare nelle città.
cultura
pagina 18 • 3 marzo 2010
L’intervista. Il cineasta oggi vive tra Stati Uniti, Kurdistan ed Europa. E proprio a noi lancia un appello: «L’Occidente aiuti gli artisti indipendenti a uscire dal Paese»
«Salvate i registi iraniani» A tu per tu con Bahman Ghobadi, in fuga da Ahmadinejad dopo le riprese del pluripremiato “I Gatti Persiani” di Cristiana Missori hissà se Ahmadinejad ha mai visto I Gatti Persiani. Di sicuro li hanno visti Negar e Ashkan, i giovani protagonisti del nuovo film del regista curdo iraniano Bahman Ghobadi, presentato nei giorni scorsi a Firenze, in anteprima nazionale, al Film Middle East Now, la prima rassegna italiana interamente dedicata al cinema del Medioriente. A metà tra film e documentario, I Gatti Persiani rappresenta una realtà sconosciuta ai più: quella del mondo sotterraneo in cui ragazzi qualunque, con il pallino per la musica, sono costretti a vivere per poter suonare senza che la polizia iraniana confischi loro gli strumenti, distrugga dischi faticosamente incisi, e li metta in galera con l’accusa di satanismo.
C
È a loro che Ghobadi ha voluto dedicare la sua quinta opera cinematografica, schierandosi apertamente con il regime che gli ha giurato guerra eterna. Già vincitore del Premio speciale Un certain regard al Festival di Cannes 2009, I Gatti Persiani, racconta la storia vera di due musicisti indie, Ashkan (Ashkan Kashanejad) e Negar (Negar Shaghaghi), che in perenne fuga dalla polizia, cercano di organizzare un concerto a Teheran per finanziare l’acquisto di passaporti falsi, grazie ai quali potranno emigrare a Londra, la patria del rock. Ghobadi gira il film in poco più di due settimane, seguendo i due ragazzi in giro per la Capitale iraniana mentre cercano disperatamente un luogo dove fare le prove e suonare: nelle cantine buie, nei cantieri edili, in appartamenti insospettabili o sui tetti. Quegli stessi tetti iraniani da cui è partita, il 24 giugno scorso, la protesta delle donne contro la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad a presidente della Repubblica islamica, e immortalati dall’italiano Pietro Masturzo, tra i vincitori del World Press Photo 2010, il più importante premio internazionale di fotogiornalismo. Ashkan e Negar - che per quella maledetta passione per la musica, nella vita reale hanno già conosciuto il carcere girano freneticamente giorno e
Il Leone d’Oro è stato arrestato ieri insieme con la figlia
E il regime intanto mette il bavaglio anche a Panahi di Gaia Miani
TEHERAN. Stretta del regime iraniano su artisti e intellettuali dissidenti. L’ultimo a farne le spese è stato Jafar Panahi: il regista de Il Cerchio (con il quale nel 2000 vinse il Leone d’oro a Venezia) è stato arrestato a Teheran assieme alla moglie e alla figlia. 50 anni da compiere a luglio, sposato con figli, il regista de Il Cerchio nel suo paese è sempre stato censurato.
Nato e vissuto a Teheran, dove ha studiato all’Università del cinema e della televisione, esordisce nel ’95 con Il palloncino bianco, sceneggiatura di Abbas Kiarostami, delicata favola morale con commoventi personaggi infantili presi direttamente dalla realtà, che gli vale la Camera d’or a Cannes. Nel ’97 vince il Pardo d’oro a Locarno con Lo specchio, apologo sulla difficile condizione femminile in una società dominata dalla morale islamica. Lo stesso tema torna anche in Il Cerchio, film corale sulla storia di otto donne incarcerate nell’Iran contemporaneo, premiato e applaudito a Venezia. Nel 2003 vince a Cannes il premio della giuria nella sezione Un certain regard con Oro rosso, noir in bilico tra neorealismo e astrazione, ancora una volta sceneggiato da Abbas Kiarostami e proibito in patria. Del 2006, premiato a Berlino con l’Orso d’argento, è un altro dei suoi film più belli, Offside, che racconta la storia di un grup-
po di ragazze che a Teheran si travestono da maschi per poter andare allo stadio per una partita di qualificazione ai Mondiali di Calcio. Un successo che lo vede incensato all’estero, con i suoi film bistrattati in patria dalla censura. Una sofferenza che non lo fa demordere né abbassare la guardia dell’impegno civile. «C’è un prezzo da pagare in Iran per lavorare in modo indipendente dal governo e questo prezzo è non vedere i propri film nelle sale del proprio paese», spiegò in un’intervista in Italia a maggio 2004. «Io continuo a resistere, valutando gli umori della commissione censura, cercando dei trucchi per farmi approvare le sceneggiature e arrivando anche a minacciarli per riuscire ad ottenere l’autorizzazione a girare».
Arrestato già una prima volta a luglio del 2009 in un cimitero di Teheran mentre partecipava ad una commemorazione delle vittime delle proteste post elettorali, Panahi si era visto negare a ottobre gli era stato ritirato il passaporto a poche ore dalla partenza - la possibilità di partecipare in India al Festival del Cinema di Mumbai, dove doveva far parte della giuria. Pochi giorni fa, l’ennesimo stop, con il permesso negato anche per il festival di Berlino, dove avrebbe dovuto partecipare ad una tavola rotonda su “Cinema iraniano: presente e futuro. Attese fuori e dentro l’Iran”.
notte per trovare nuovi elementi per il gruppo grazie al quale potranno organizzare il concerto che consentirà loro la fuga. Ogni volta, però, che si trovano in un appartamento, o in cima a un palazzo, il timore è che qualche vicino senta la musica e li denunci ai basij, la temibile milizia - occhi e orecchie - dei Guardiani della Rivoluzione. «Da quando il film è stato premiato al 62esimo Festival di Cannes - racconta Ghobadi, che a Firenze è stato ospite nell’ambito della vetrina speciale sull’Iran - sono stato costretto a lasciare per sempre l’Iran».
Oggi, dice, «sono un uomo senza più una vera casa, che vive a cavallo tra Europa, Stati Uniti e Kurdistan iraniano, ma a cui la voglia di affrontare te-
“
Sono un uomo senza una vera casa, ma a cui la voglia di affrontare temi scomodi non è per nulla passata. Anzi...
”
mi scomodi non è per nulla passata». Tutt’altro. «Sapevo ammette il regista che insieme a Hossein M. Abkenar e alla fidanzata, la giornalista iraniano-statunitense, Roxana Saberi, ha scritto la sceneggiatura che girando I Gatti persiani avrei rischiato di non potere più mettere piede in Iran, ma ho voluto lo stesso raccontare il mondo underground in cui i giovani iraniani sono costretti a vivere». Nella Repubblica islamica, precisa, la musica, ma anche l’arte, la poesia, la pittura e tutte le forme di arte sono considerate haram, proibite, e quindi contro la morale religiosa imposta dagli ayatollah. Ma la chiusura di tutti gli spazi democratici, dice l’artista, «non ha nulla a che vedere con la religione o la politica, ma soltanto con il terrore: il terrore instaurato dal regime per impaurire la gente». Girato in digitale e in totale sordi-
na, l’ultima opera di Ghobadi sembra un video-clip, per i suoi ritmi serrati e la musica. Niente a che vedere con le pellicole che hanno fatto del cinema iraniano un cinema per pochi, con le sue lunghe pause intervallate da dialoghi scarni. «Mentre facevo le riprese - in totale clandestinità - ho incontrato e intervistato tanti gruppi rock di Teheran. In quei momenti, mi sono sentito molto più vicino a Dio di quanto non lo fossi mai stato prima», racconta visibilmente emozionato Ghobadi, che dopo il
cultura
3 marzo 2010 • pagina 19
Makhmalbaf, per cui è stato attore e sceneggiatore, oggi Ghobadi è un artista affermato. Finora, però, fino al mondo sotterraneo de I Gatti Persiani, il regista non aveva mai sferrato un attacco così diretto al regime di Mahmoud Ahmadinejad.
successo in Francia ha tentato di ritornare in semi-clandestinità nel suo Paese. «Ho cercato di rientrare in Iran passando dal confine con l’Iraq, evitando di atterrare nella capitale iraniana, per paura di essere arrestato». Accorgimenti inutili perché, nonostante le precauzioni prese su consiglio di alcuni amici, Ghobadi viene arrestato e trattenuto per sette giorni. In seguito viene rilasciato, ma con la promessa di non fare più ritorno in Iran.
«Credo davvero - dice Ghobadi - nell’importanza di realizzare opere realmente capaci di indagare quella realtà iraniana che non appare in superficie. Ma non mi nascondo che questo possa provocare problemi sia a me che a coloro che credono nel mio lavoro». E così è stato. Il primo a essere arrestato dai pasdaran, il corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica, è stato proprio uno dei componenti della band: il batterista venticinquenne Ali Ghomashchi. In seguito all’episodio, Negar e Ashkan hanno chiesto asilo politico alla Gran Bretagna. «Iniziare le riprese de I Gatti Persiani - ammette Ghobadi mi ha salvato dalla depressione. Erano tre anni che aspettavo i permessi dal ministero degli Affari religiosi per girare un altro film. Ormai credevo che
non ce l’avrei più fatta». Sono alcuni amici che aiutano Ghobadi a uscire dal torpore e dal disagio e sono quei ragazzi che sognano la fuga da una dittatura soffocante che fanno trovare al regista il coraggio di girare la pellicola senza i permessi governativi. E così, insieme a Roxana, la sua compagna - imprigionata per cento giorni dal regime iraniano con l’accusa di spionaggio e per cui la scorsa primavera il mondo intero si è mobilitato - il regista inizia a girare per la Teheran underground. Un viaggio nei garage e nelle cantine della capitale, dove si esibiscono le oltre 2 mila band della città, e dove si svolge la maggior parte del mercato nero su cui si possono trovare tutti i generi musicali: dal jazz al pop, dal heavy metal all’indie rock. Dopo gli studi di cinema seguiti a Teheran, tra il 1995 e il 1999, Bahman Ghobadi che è anche musicista, realizza una decina di cortometraggi con i quali riscuote un immediato successo, pur senza sconfiggere le reticenze in Iran. È con Il tempo dei cavalli ubriachi (pellicola interamente girata in curdo - lingua messa al bando in Iran sin dagli anni Quaranta), che il quarantunenne cineasta si rivela sulla scena internazionale e vince, nel 2000, la Camera d’Or a Cannes. Seguono pellicole come Marooned in Iraq (2002), e Anche
A sinistra, il regista iraniano Bahman Ghobadi; sopra, il cineasta (a destra), insieme con il compatriota e co-produttore Hussein Mortezaeiasu. A destra, la locandina e un fotogramma del suo film “I Gatti Persiani”. Nella pagina a fianco, nella foto piccola, il regista iraniano arrestato ieri, Jafar Panahi
Le pellicole che lo hanno consacrato al cospetto dei critici cinematografici occidentali sono infatti pellicole in cui Ghobadi, che si autodefinisce «curdo nel cuore e iraniano nel corpo», parla della cultura del suo popolo, della musica, delle tradizioni, o delle paure provocate dall’attacco americano in Iraq, che i curdi separati artificialmente al di qua e al di là della frontiera tra Iran e Iraq devono affrontare. Con I Gatti Persiani, che nelle sale uscirà a maggio per Bim, Ghobadi entra a fare parte di una “nouvelle vague” del cinema iraniano, di cui fanno parte tutti quegli artisti emergenti accusati dal regime di dissidenza, ma che nelle loro opere non fanno che raffigurare l’effervescenza che sta percorrendo la società iraniana: quella parte di società che vuole cambiare le cose, che non smette di lottare e che ha aderito al Movimento dell’Onda verde. Insieme a Ghobadi ci sono giovani leve come Hana Makhmalbaf, la figlia più piccola di Mohsen, che all’ultima edizione di Cannes è riuscita a portare clandestinamente Green Days, pellicola choc, fuori concorso, che documenta - con l’uso abbondante delle immagini dei videofonini - i giorni della speranza verde del popolo iraniano di eleggere il moderato
le tartarughe volano (2004), con cui vince svariati premi tra cui il Peace Film Award al Festival di Berlino. Nel 2006, con Half Moon, conquista la Concha d’oro per il miglior film al Festival internazionale di San Sebastian, nei Paesi baschi. Formatosi con due maestri della cinematografia iraniana, Abbas Kiarostami e Mohsen
Mousavi e quelli della delusione, repressa dalla polizia, per i brogli elettorali che hanno riportato Ahmadinejad sullo scranno del capo di Stato. O Sepideh Farsi, altra regista che con un telefonino riprende i fermenti della capitale iraniana nei mesi precedenti alla Rivoluzione verde, la cui pellicola, Teheran without permission, è
stata presentata in anteprima nazionale a Firenze. Sempre a Firenze, un’altra anteprima italiana è stata About Elly, il film di Asghar Faradhi, pellicola con cui il regista iraniano ha vinto l’Orso d’argento all’ultimo Festival del Cinema di Berlino e candidato agli Oscar 2010 per l’Iran. Grazie a questi riconoscimenti internazionali, gli artisti indipendenti iraniani possono dire la loro. Cineasti i cui lavori raggiungono l’Occidente ma che spesso non riescono a lasciare fisicamente il loro Paese. «L’Occidente - rimarca Ghobadi - deve aiutare i registi iraniani a uscire dal Paese e consentire loro di realizzare i propri lavori in Europa e negli Stati Uniti». Per sfuggire alle strette maglie del controllo dei Guardiani della rivoluzione, dice il regista, gli artisti iraniani hanno bisogno del sostegno delle ambasciate occidentali che devono facilitare il rilascio dei visti necessari all’espatrio. Oltre alle istituzioni, però, anche il mondo dell’arte può fare qualcosa per aiutare i tanti registi in fuga considerati dissidenti e per questo perseguitati dal regime di Teheran. «Decisioni come quella adottata dal mio collega britannico, Ken Loach, di boicottare il Farj international Film Festival di Teheran, rappresentano segni importanti». Una manifestazione, dice Ghobadi, «totalmente pilotata dal regime e a cui non ho mai potuto presentare un mio lavoro».
Ancora lontana invece la collaborazione tra cinema statunitense e quello iraniano. «Collaborazioni come quella instaurata tra la Academy of Motion Picture and Sciences - che organizza i Premi Oscar - e la Casa del Cinema iraniano, che la scorsa primavera aveva inviato a Teheran una sua delegazione per organizzare seminari con attori e registi iraniani sono semplici buffonate», avverte Ghobadi. «La Casa del Cinema pullula di informatori infiltrati dal regime». Nei progetti futuri di Ghobadi, c’è sempre l’Iran. «Sto lavorando contemporaneamente a tre progetti», anticipa Ghobadi, che ammette: «Ho appena passato la soglia dei quarant’anni e ho paura di non avere il tempo di portarli tutti a termine». In primis, comunque, ci sarà una pellicola che il regista intende dedicare ai curdi iraniani e che girerà a Berlino, luogo in cui ultimamente passa molto tempo, ma dove ancora non si sente veramente a casa.
spettacoli
pagina 20 • 3 marzo 2010
BOLOGNA. Beckett, Beckett, Beckett. L’ormai triplice sposalizio tra l’autore irlandese e i Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa è un’unione profonda, poiché fondata su basi solide e mature; per questo, il terzo lavoro della compagnia basato su un testo di Beckett ha vinto, lo scorso giugno, il Premio della Critica Teatrale 2009, assegnato dall’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, con la seguente motivazione: «Per la forza espressiva e la qualità di ricerca teatrale raggiunta dai loro più recenti lavori fino all’ultimo, folgorante allestimento Ma bisogna che il discorso si faccia da L’Innominabile di Salmuel Beckett». E L’Innominabile, mascherato da Ma bisogna che il discorso si faccia, si è presentato lo scorso 27 e 28 febbraio all’Arena del Sole di Bologna, ha accolto gli spettatori con la sua enorme testa e gli occhi sbarrati sulla platea, e nudo, come sempre un pensiero di fronte alla propria coscienza, ha aspettato con loro che lo spettacolo iniziasse.
«L’Innominabile può essere considerato la risposta di Beckett all’Ulisse di Joyce; un flusso di coscienza interrotto da quei puntini di sospensione, come nell’ultimo capitolo dedicato a Molly Bloom», spiega Maria Luisa Abate, attrice e cofondatrice della compagnia insieme a Marco Isidori, regista, e alla scenografa e costumista Daniela Dal Cin. Il gruppo torinese è stato fondato nel 1985 e, inizialmente, si è imposto soprattutto per il lavoro sulla tragedia, portando in scena rielaborazioni e riscritture di testi classici come Una giostra: l’Agamennone (1988) Musica per una Fedra moderna (1992) e Spettacolo (1993). Del 1997, invece, è il primo spettacolo tratto da Beckett, Happy Days in Marcido’s Field - da Giorni Felici - doppiato, nel 2004, da Trio Party, basato sui tre brevi testi Quella Volta, Dondolo, Non io. Con questa produzione, dunque, i Marcidos Marcidorjs tornano all’autore irlandese, partendo da un romanzo non molto frequentato, l’Innominabile, in cui un uomo, o quel che ne resta, è seduto in fondo a un vaso, solo e al buio, e scrive. Non sappiamo come riesca a farlo, sappiamo solo che scrive, non sappiamo che aspetto abbia, sappiamo solo che ha un’enorme testa, gli occhi - «li apro e li chiudo, quindi ho gli occhi» - e, forse, una bocca. Entrando in sala, la messa in scena è già aperta. L’immagine di un enorme innominabile, infatti, sostituisce il sipario e, man mano che le luci si spengono, la sua voce emerge da dietro il telo dipinto: è lì che aspetta l’inizio dello spettacolo,
Teatro. A Bologna, “Ma bisogna che il discorso si faccia” dei Marcido Marcidorjs
L’«Innominabile» arte di essere Beckett di Diana Del Monte chiedendosi cosa accade, chi è quella gente - il pubblico - e se, chissà, avrà pagato per vedere quella rappresentazione. Si tratta di una voce corale, fatta dell’eco della solitudine a cui è condannato, di quel pensiero che trova risposta solo in se
correttamente da Maria Grazia Gregori, come un «cimitero espressionista». Cinque croci, o meglio tre più due, riempiono completamente, sostenute da una serie di linee di costruzione dinamica, il quadro scenico; un’immagine costruita seguendo e, allo stesso tempo, stravol-
metricamente e plasticamente lo spazio. La Dal Cin riempie invece - come mossa da un horror vacui - gli spazi vuoti creatisi tra le tre insegne principali con altri due crocifissi che, ben lontani dall’ergersi monumentali sulla scena, scivolano, crollano verso il terre-
Grande successo per il terzo lavoro della compagnia torinese, tratto dal romanzo dell’autore irlandese e per intero realizzato nell’ambito di un progetto dell’Università di Bologna stesso e che si realizza nell’eccellente lavoro vocale dei cinque attori in scena. Il fiume di parole, che era il flusso di pensiero nel romanzo di Beckett, è frammentato, ma mai spezzato, nei cinque interpreti che recitano, alternativamente, in coro o in assolo; con il viso coperto da delle imponenti maschere e bloccati su cinque croci, Marco Isidori, Maria Luisa Abate, Paolo Oricco, Anna Fantozzi e Stefano Re combattono l’inevitabile staticità della scena attraverso una qualità di movimento e una dinamica del corpo che richiama il teatro dei burattini. Un’attenzione particolare va al lavoro di Daniela Dal Cin che disegna una scenografia incisiva come un quadro di James Ensor, definitita, molto più che
gendo l’iconografia tradizionale cristiano cattolica in cui i tre crocifissi si ergono isolati e monumentali, dividendosi sim-
no, simbolicamente si arrendono alla forza della gravità e al tempo. I volti sono completamente nascosti da grottesche e
In questa pagina, alcune immagini dello spettacolo “Ma bisogna che il discorso si faccia” dei Marcido Marcidorjs, tratto dal romanzo “L’innominabile” di Samuel Beckett
impressionanti maschere, anche queste disegnate dalla scenografa, tutte con gli occhi sbarrati, tristemente e disperatamente alla ricerca della luce, dell’altro. Tutte tranne una: la maschera indossata da Isidori, l’uomo legato al crocifisso centrale, è l’unica ad avere gli occhi chiusi, l’unica in cui è possibile scorgere, fra i tratti deformati, il volto di un uomo con lunghi capelli che ricadono scomposti sulla fronte e sulle guance. Sopra le loro enormi teste, le corone di spine formate da un cerchio di lamina di metallo cui sono attaccate mollette da bucato in legno.
La chiusura è affidata a Isidori, l’uomo in centro, l’uomo con la maschera dagli occhi chiusi, l’unico a rimanere illuminato mentre gli altri scivolano nell’oscurità, la cui voce è alternata a quella di Mina che canta Ancora ancora ancora - la scelta, forse, meno efficace e funzionale dell’intero lavoro. Il coraggio di questa compagnia che si è affidata alle tante, ma non facili, parole di questo romanzo di Beckett, non è solo apprezzabile, è soprattutto necessario per la vitalità della ricerca teatrale; da parte sua, però, lo spettatore, seppur pienamente ripagato dal lavoro dei cinque interpreti, ha bisogno di una buona capacità di concentrazione per godersi tutti i 75 minuti, senza intervallo, di questo monologo polifonico. La messa in scena del terzo libro della trilogia di Beckett dopo Molloy e Malone muore (1951) - è stata al centro di un progetto realizzato dall’Università di Bologna in collaborazione con l’Arena del Sole; curato dal professor Giovanni Azzaroni, lo spettacolo è stato anticipato da un incontro pubblico con Maria Luisa Abate lo scorso mercoledì.
spettacoli
3 marzo 2010 • pagina 21
Musica. Dopo due anni di silenzio (e un lutto doloroso), arriva “The Sea”: il nuovo album della britannica Corinne Bailey Rae
Un ritorno in punta di piedi di Valentina Gerace
uattro anni fa la guardavamo pedalare spensierata canticchiando sulle note solari di Put Your Records On, il singolo che l’ha lanciata, incredula di fronte al successo del suo album di debutto. Ma mentre il suo cd colleziona dischi di platino e premi in tutta Europa, perde suo marito, nonché suo collaboratore, il sassofonista 31enne Jason Rae, morto di overdose nel 2008.
Q
Dopo due anni di pausa, lontana da tutti e sopratutto dalla musica, Corinne Bailey Rae mostra di essere in piena forma nella produzione del suo nuovo disco, The Sea, che segna un grande ritorno per la grande compositrice pop-soul britannica. Dolce e romantica al di sopra della norma.Voce angelica,
sereno ed estivo del suo primo album lascia spazio a toni leggermente più cupi. Melodie sognanti accompagnano una riflessione sul senso di perdita e smarrimento. Ma non è un sogno infantile e non è un incubo angosciante. Quello di Miss Bailey Rae è un fluttuare in uno stato di mezzo. Vegliano su di lei i suoi artisti di riferimento, dai Radiohead più onirici al
Dallo stile quasi sempre acustico, il disco raccoglie diverse ballate ritmate, meditative, romantiche ma anche forti, sensuali e sempre coinvolgenti
Paper Dolls e The Bleakest Lily, alle balalte Love’s On Its Way e The Sea, che dà il titolo all’album e lo chiude. Dopo tanto tempo trascorso nella sofferenza dettata dalla perdita del compagno, Corinne rincontra la sua band di Leeds, i produttori John Ellis e Steve Brown. Ma sembra che la sua lunga assenza non abbia in nessun modo intaccato le sue doti di musicista e compositrice. The Sea è un disco commovente, una rinascita musicale e emotiva. Le canzoni, prendono una piega un po’ cupa, alla Paul Weller o Bjork. Lo stato d’animo è definito in Are you here una canzone d’amore delicata e personale. Un affascinante lamento in cui il senso della perdita è portato avanti con dolci ricordi lontani. Notevole la sanguigna I Would Like To Call It
qualcosa, questo motivo di speranza che Corinne canta in queste sue ultime composizioni. L’intento non è mai quello di manifestare il suo profondo dolore. Ma anzi mostrare la sua forza, il suo bisogno di rialzarsi e celebrare nuovamente il bello che c’è dentro ogni piccola cosa, giorno dopo giorno. Quel bello che viene da una vita vissuta pienamente, unica efficace arma che possa combattere la paura e il buio creato da una grande perdita. Lo stesso titolo fa pensare. Potrebbe essere uno spunto letterario. O più verosimilmente una metafora per sottolineare come il mare lavi via tutto il male, pulisca e smussi ogni angolo, lavando via ogni strascico di sofferenza e dolore. Per lasciare spazio a un momento nuovo, fresco. A una forte voglia di vi-
Sopra, sotto e a fianco, alcune immagini dell’artista britannica Corinne Bailey Rae. A sinistra, la copertina di uno dei suoi dischi più famosi. La cantante è di nuovo sulla scena musicale con il nuovo e attesissimo “The Sea”
soave, sottofondo di un romantico pianoforte, proprio come nelle canzoni delle grandi star del pop femminile, Ayo, Norah Jones, Eddie Brickell. Corinne passa da un esordio tutto soul e folk, un po’ retrò anni Settanta, a una raccolta più funcky, jazz, R&B e a tratti rock, che restano impressi al primo ascolto e che ricordano molto un’altra stella del momento, la stravagante Amy Winehouse. Disco acustico, viscerale e sincero, The sea raccoglie ballate strepitose, meditative, romantiche ma anche forti, sensuali, coinvolgenti. Onde emotive dettate da sofferenza e sentimenti irrisolti. Dopo Corinne Bailey Rae del 2006, The Sea segna un ritorno in punta di piedi, teso tra il bisogno della cantante di esprimere il suo dolore e la necessità di guardare avanti. Un album in bilico, in equilibrio precario, così come la musica dei suoi brani: il pop
soul di Marvin Gaye, di cui c’è traccia in ogni pezzo del suo album: chi con la sua musica l’ha ispirata sembra ora pronto ad aiutarla a rialzarsi. Il singolo del disco è I Do It All Again, una ballata che si ricol-
lega nei suoni e nello stile al suo primo album. Le altre nove tracce della nuova fatica discografica spiazzano per ricchezza di varianti e sonorità. Si va dal pop rock anni Settanta di
Beauty, un brano lento in cui mostra il meglio di sé come cantante: intima, elegiaca, con uno splendido sottofondo di triste organo. Praticamente la punta di diamante, una sintesi perfetta di chitarra acustica e atmosfere jazzate, accarezzate dalla dolce voce di Corinne. E poi proprio The Sea, in cui sembra consolare se stessa e salutare per sempre il Paradiso. Una produzione densa, sofisticata, ricca di sfaccettature. Colorata da influenza soul, rock, jazz, pop. E non manca un approccio meditativo in molti momenti del disco, caratterizzati da profondi e riflessivi gospel. Nonostante la morte del marito abbia lasciato una ferita per sempre nel cuore della cantante, il suo nuovo album è ottimista. C’è qualcosa che ci fa andare avanti nella vita, ci dà la forza di superare anche I dolori più strazianti. Ed è il mistero di questo
vere e ricominciare a credere nella vita. The Sea è una bella riconferma per una artista cui molti giovani di oggi (provenienti da talent show e non) dovrebbero ispirarsi in termini di umiltà e freschezza di idee.
Undici brani mai scontati, mai banali, che confermano la versatilità di una grande promessa della musica che alle soglie dei trent’anni ha venduto quattro milioni di copie con la sua opera prima, osannata dalla critica, ha messo a segno quattro nomination ai Grammy Awards, incluso Best New Artist e due ai Brit Awards. Un miraggio se non un miracolo in un panorama internazionale ma ancora di più italiano in cui la forma-canzone è sempre fine a se stessa, ripetitiva e oggettivamente noiosa. E se Corinne è riuscita a creare un album così creativo e significativo in un momento tanto doloroso, chissà cosa potrà fare in momenti più sereni.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Bambini fino in fondo: quali sono le condizioni dei piccoli in Italia? La Convenzione Onu ha sancito diritti inviolabili di cui sono titolari tutti i bambini e gli adolescenti, imponendo al nostro Paese di creare le condizioni e farsi garante affinché vengano rispettati, e ribadendo che «l’interesse superiore del fanciullo deve essere preminente a qualsiasi ordine di priorità in tutte le decisioni di competenza delle istituzioni, dei tribunali e degli organi amministrativi». Come si sono modificate in questi venti anni le condizioni dei bambini e adolescenti nel nostro Paese, con particolare attenzione a quelli con disabilità. I bambini e gli adolescenti con disabilità godono realmente degli stessi diritti di tutti i bambini? Sono bambini fino in fondo? La risposta a questi, ed altri, interrogativi potrà essere ricavata grazie alla situazione fotografata, in Italia, dal rapporto supplementare sullo stato di attuazione della Convenzione redatto dal Gruppo Crc (Convention on the Rights of the Child), che accompagnerà il rapporto governativo sotto esame nei prossimi mesi da parte del Comitato Onu ed in cui 86 associazioni, tra cui Anffas Onlus, mettono in evidenza luci e ombre rispetto agli impegni assunti dai governi che si sono succeduti nel nostro Paese negli ultimi cinque anni.
Roberto Speziale - Presidente Nazionale Anffas Onlus
GIUSTA SENTENZA, INTERNET NON SIA TERRA DI NESSUNO
ATTENDIAMO COMODAMENTE L’AUTOBUS
Con una sentenza giusta e di grande sensibilità il tribunale di Milano ha finalmente sancito che Internet non può essere una terra di nessuno, dove la dignità delle persone viene calpestata senza alcun controllo. Chi gestisce motori di ricerca deve operare una vigilanza. Anzi, tale vigilanza deve essere tanto più rigorosa quanto più il motore di ricerca è esteso e diffuso. Non è ammissibile che un video che oltraggia un minore, per di più disabile, continui a circolare per giorni sulla rete e venga cliccato da migliaia di utenti. Non si tratta di censura ma di una questione di civiltà. I principi di libertà su cui è costruito internet devono conciliarsi, così come avviene per la stampa, con quelli della tutela della privacy e della dignità di tutte le persone.
Barbara
Le fermate Atac delle linee 779 e 776 di Via Tommaso Marinetti, angolo via Kafka erano prive di pensilina e panchina. Ora, dopo tre mesi, finalmente i residenti si potranno sedere e attendere comodamente l’autobus. Ricordiamo che per protestare contro questa inadempienza dell’Atac, i cittadini esasperati avevano posizionato, agli inizi di dicembre, un divano proprio alla fermata in oggetto. La mancanza di pensiline è un atto di grave inciviltà, inoltre situazioni di questo tipo sono frequenti in tutta la Capitale, come ad esempio Grottaferrata, esattamente la strada conosciuta come il senso unico di Grottaferrata, dove la fermata dell’autobus è praticamente sul ciglio di una strada urbana, ma percorsa dalle automobili a velocità piuttosto elevata. Bisogna ora che l’Atac e il comune
Prova a prendermi Si scalda i muscoli questa giovane zebra di Burchell. Se vorrà sopravvivere ai pericoli della savana, dovrà diventare presto una scheggia. Ma soprattutto, dovrà imparare a nascondersi. In questo la zebra parte avvantaggiata: la particolare disposizione delle sue strisce serve proprio a disorientare i predatori
di Roma intervenga anche in altre zone della Capitale, tra cui Grottaferrata.
Ilaria Zona
ASILO CRISTIANO. IL KU KLUX KLAN PASSA DA GOITO? La notizia del regolamento comunale per l’accesso all’asilo di Goito (Mantova) ai soli bambini che provengono da famiglie che accettano «l’ispirazione cristiana della vita» è di una tale violenza che fa venire in mente le crociate. Come è pos-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
sibile che in uno Stato laico che nella sua Costituzione riconosce la libertà di pensiero e di religione si arrivi a tali degenerazioni? Nella fobia razzista, la decisione del consiglio comunale è da Ku Klux Klan, la croce usata come arma e minaccia per il diverso. La norma è di palese incostituzionalità e decade al primo ricorso al Tar, ma lascia l’amaro in bocca che amministratori pubblici siano arrivati a tanto.
Donatella
da ”Al Ahram weekly” del 28/02/10
Candidato a sorpresa di Abdel-Moneim Said re giorni fa ero in Kuwait per partecipare a un convegno sui fattori strategici in Medioriente. Anche se naturalmente la discussione era dominata da argomenti come l’Iran, l’Iraq, Palestina e Obama, di Egitto si è parlato molto a proposito di quello che viene gà definito come “il fenomeno el-Baradei”».
«T
La domanda che si pone l’autore del pezzo sullo storico giornale egiziano (il cui nome significa Le Piramidi, ndr) è quanto una singola persona che decida di scendere in campo possa cambiare istantaneamente il panorama politico di un Paese. Non si può che essere contenti se un personaggio che ha portato tanto lustro all’Egitto decida poi di tornare, per mettersi al servizio della propria nazione. «E non solo perché ha vinto un premio Nobel, ma soprattutto per la motivazione che gli ha fatto guadagnare quel riconoscimento» afferma l’autore dell’articolo che è direttore del Saban Center for Middle East Policy alla Brookings Institution. Insomma, sotto la sua direzione l’Agenzia atomica internazionale ha attuato una politica ferma e coraggiosa contro la proliferazione delle armi nucleari. «Le sue caratteristiche, la personalità, anche il modo unico nel quale parla e affronta gli argomenti, hanno fatto di lui un rispettabile esponente del Paese». Il fatto che più stupisce e scatena un certo tipo d’ammirazione è la sua volontà di entrare nell’arena politica egiziana come candidato presidente. In un Paese che da sempre ha sofferto per la mancanza di candidati nazionali all’altezza della situazione è una buona notizia. Mancano personaggi come Amr Moussa segretario
generale (dal 2001, ndr) della Lega araba, come Mansour Hassam, eminente ministro dell’informazione sotto l’amministrazione di Sadat. Ma rispetto a questi personaggi, ElBaradei sembra l’unico che si muova nella direzione giusta e che faccia le mosse giuste per l’obiettivo che si è proposto. Ha evitato la sovraesposizione mediatica che l’avrebbe costretto a intervenire su ogni argomento, rischiando il più delle volte di dire della banalità. Ha preferito concentrarsi su pochi temi, dove è più facile avere un consenso allargato, come la materia che riguarda alcuni aspetti della Costituzione egiziana. Il primo test di polarità sarà concentrato sulla capitale, poi si permetterà altre prove di dialogo con le masse del Paese. Forse qualche appuntamento nei talk show dei canali satellitari per tastare il terreno dell’opinione pubblica. Solo dopo cominceranno gli incontri con la società civile, allargando gradualmente il circolo dei contatti. L’obiettivo è quello di diventare lentamente un volto familiare per la gente. «Posso prevedere che durante la sua campagna elettorale sfiderà il National democratic party e si potrà sentire una mosca bianca rispetto a gente come Yehia El-Gamal, Hassan Nafaa, Ayman Nour or Osama El-Ghazali Harb. Dovrà aspettare, fino a quando la sua popolarità non riuscirà a richiamare centinaia di migliaia di persone per un suo comizio. Se ciò non dovesse accadere, sono certo che riprenderà la strada dell’impegno internazionale in giro
per il mondo». Una strategia che non solo aiuta a rientrare in Egitto, dopo 27 anni di assenza, ma procura anche forza politica – sia al governo che all’opposizione – di acconciarsi alle dinamiche innescate dal «fenomeno». Fino ad oggi, le risposte sono state di varia natura. Il partito Wafd (rappresenta la borghesia nazionale, sciolto da Nasser e poi ricostituito nel 1978, ndr) non si è pronunciato. Ayman Nour (fondatore del partito d’opposizione El Ghad, ndr) ha subito annunciato la sua candidatura indipendentemente dalla legittimità di una corsa alle presidenziali. Essam El Erian ha rilasciato alcune dichiarazioni positive, anche se non è dato di sapere se riflettono tutte le posizioni all’interno della Fratellanza musulmana.
El-Baradei è un’autentico liberale. La sua comparsa nel panorama egiziano è una speranza per trasformare quella che sembra essere una democrazia «ereditaria» verso un modello più simile a un modello maturo di contesto democratico. Una iniezione di vitalità nel sistema politico egiziano che non potrà che far bene al Paese.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog
dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Bacio le tue rose fiammanti
NUCLEARE: DOPO IL DECRETO DEL GOVERNO TORNA LA PAURA TRA I LUCANI (II PARTE) Il via libera del Consiglio dei ministri al decreto pro nucleare è stato già duramente criticato dalle regioni, che si sono viste espropriate delle relative competenze. Un fatto grave con aspetti di incoerenza istituzionale, ed è strano che, dopo la precedente esperienza, il governo non abbia voluto considerare l’opportunità di prevedere la forte concertazione con le regioni su tale delicata materia. A protestare sul decreto, oggi come ieri, non sono solo le regioni governate dal centrosinistra ma anche quelle di centrodestra. Molte regioni avevano già espresso criticità rispetto alla delega al governo, né può essere sottovalutato il fatto che hanno deciso di ricorrere alla Corte costituzionale, dopo il parere negativo espresso in sede della Conferenza delle regioni. Il governo ha unilateralmente deciso di licenziare il decreto legislativo sul nucleare, anche in assenza di un parere della Conferenza unificata. Tutto ciò senza la necessaria concertazione istituzionale. Sarebbe il caso di conoscere quali siano
Elda mia, le ho qui le tue lettere divine, le ho qui le tue rose fiammanti, e le bacio, e chiudo gli occhi e mi par di sentire la tua bocca profumata! Ho dovuto aspettare tanto prima di averle. Le lettere me le stringevo al cuore forte forte, ma non sapevo ancora cosa ci fosse dentro. Figurati che supplizio di Tantalo. Finalmente la lezione di tedesco è terminata, e il babbo mi ha dato le rose: c’erano lì gli altri miei compagni, e quindi egli ha dovuto dire ch’erano fiori donati da quella brutta vecchiaccia che sta alla stazione col canestrino pieno e corre dietro alla gente... Lo diceva con un viso indifferente, come se proprio fosse stato vero; e io pensavo fra me: «povera la mia Elda! Che c’entra mai ora quella brutta megera della stazione?». Ma intanto io ho qui ogni cosa, e sono felice per ora, felice, felice, felice. Chi sa ora che vado a letto che bei sogni farò! E anche tu farai degli splendidi sogni, perché fra poco leggerai le mie lettere anche tu. Non leggere però Fra Lucerta: ti farebbe paura, e ti sveglieresti tutta spaventata a metà della notte. Avrei voluto mandarti dei fiori anch’io, ma dove prenderli? Non m’è riuscito di scendere giù nel prato furtivamente, e qui tengono quei miserabili roseti come se fossero tanti tesori. Gabriele d’Annunzio a Giselda Zucconi
ACCADDE OGGI
AVIDITÀ PERSEVERANTE DEI POLITICI Non è stato diminuito l’eccesso di compensi e privilegi goduti dalla pletora dei politici e dei loro collaboratori, diretti e indiretti. Così i politici si pongono in luce sinistra agli occhi del cittadino comune. Non danno un buon esempio. Antepongono i loro interessi al bene della gente. Si dimostrano avidi, ingordi e venali: pure i cattolici, che esaltano la povertà, nonché i marxisti e paramarxisti, sedicenti difensori dei lavoratori sfruttati. Al contrario, gli uomini della strada e i poveri cristi si dibattono fra difficoltà, fatiche e ambasce. Al complesso di schede non votate dovrebbe corrispondere la mancata elezione, e quindi l’adeguata riduzione dei membri dell’assemblea eletta. Le campagne elettorali sono turbate da manovre torbide. Enzo Tortora - allora liberale - fu arrestato e mostrato ammanettato alla televisione, 3-4 giorni prima delle votazioni. Furono promossi i pm e i giudici che lo accusarono e condannarono.
Gianfranco Nìbale
GOOGLE, LA SENTENZA METTE A RISCHIO LA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE Tre dirigenti di Google sono stati condannati a sei mesi di reclusione per violazione della privacy, in relazione al filmato che riprende le angherie inflitte da compagni di classe a un ragazzo down, caricato sul motore di ricerca nel 2006. Questa sentenza, se fosse confermata nei gradi successivi, potrebbe mettere a rischio tutti i siti che in Italia ospitano contenuti creati dagli utenti, dai social network ai blog, dai
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
3 marzo 1964 Felice Ippolito viene arrestato per presunte irregolarità gestionali nel Cnen 1969 In un tribunale di Los Angeles, Sirhan Sirhan ammette di aver ucciso il candidato alla presidenza Robert F. Kennedy 1971 Inizio della guerra Indo-Pakistana del 1971 e ingresso ufficiale dell’india nella Guerra di liberazione del Bangladesh in aiuto di Mukti Bahini 1972 La Nasa lancia la sonda spaziale Pioneer 10 1974 Funzionari cattolici e luterani raggiungono un accordo per una riconciliazione in una comunione, segnando il primo accordo tra le due chiese 1991 Un video amatoriale mostra il pestaggio di Rodney King da parte di agenti della polizia di Los Angeles 1995 In Somalia, finisce la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite 1999 Bertrand Piccard e Brian Jones iniziano il loro tentativo riuscito di circumnavigare il globo senza scalo a bordo di una mongolfiera
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
motori di ricerca ai forum. Questi siti potrebbero dover applicare forti censure preventive o addirittura andarsene dall’Italia, con grave danno per la libertà di espressione. Invece di punire gli eventuali responsabili che hanno aggredito la vittima, l’hanno filmata e poi hanno caricato le immagini online, si va a colpire chi offre strumenti di comunicazione e espressione a miliardi di utenti, sotto la pretesa di un mancato, quanto tecnicamente impossibile, controllo preventivo. Un po’come punire i dirigenti di una casa produttrice di automobili perché qualche imbecille guida ubriaco. Aspettiamo le motivazioni, ma è chiaro,che parte della magistratura fatica a comprendere Internet, ancorata ad un codice penale del 1930 a scapito di quei principi costituzionali che sanciscono la libertà di espressione e la natura personale della responsabilità penale.
Pietro Yates Moretti
LA QUESTIONE È CAMBIARE LA LEGGE La decisione sulla nutrizione artificiale che, in casi eccezionali, può essere sospesa non fa altro che ingenerare confusione e non va nella linea finalizzata a confermare e a riconoscere la centralità al malato, non al medico. Ancora una volta si lascia al medico l’ultima parola, calpestando il diritto all’autodeterminazione del paziente e la relazione di fiducia e paritaria fra quest’ultimo, la classe medica, e la famiglia stretta. La vera scommessa è quella di modificare il testo di legge.
Ferruccio
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
Direttore da Washington Michael Novak
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Collaboratori
Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,
Roberto Mussapi, Francesco Napoli,
Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
Mario Arpino, Bruno Babando,
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
John R. Bolton, Mauro Canali,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
Franco Cardini, Carlo G. Cereti,
Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,
Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,
Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,
state le ragioni di urgenza, che hanno imposto tale iter, visto che - come ha affermato il governo stesso - i cantieri non potranno partire prima del 2013. È strano, come si sia lavorato così velocemente per varare i criteri, ma si è deciso di rimandare al dopo elezioni regionali la scelta dei siti. Intanto, nonostante le preoccupazioni e le forti polemiche da parte delle regioni è tornata la paura tra i lucani di rivedersi assegnata la Basilicata quale sede del sito, e sono pronti a riorganizzarsi per contrastare fino in fondo qualsiasi decisione assunta. Anche se sussiste da più parti la necessità di un ritorno al nucleare, sino a quando non verrà avviata una corretta informazione ed una seria cultura sui benefici e i rischi che si corrono, il Paese continuerà a ritardare le sue scelte strategiche per un nuovo e moderno piano energetico, necessario al rilancio dell’economia e soprattutto alla tasca e alla salute degli italiani. Gianluigi Laguardia C O O R D I N A T O R E PR O V I N C I A L E CI R C O L I LI B E R A L PO T E N Z A
Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1
Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
Angelo Crespi, Renato Cristin,
Katrin Schirner, Emilio Spedicato,
Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano
Francesco D’Agostino, Reginald Dale
Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”
Abbonamenti
06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
e di cronach
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it
Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
PAGINAVENTIQUATTRO Miti. Domenica prossima in uno storico teatro di East Village si aprirà una collezione molto particolare
A New York è nato il museo di Marco Ferrari ucky Luciano, al secolo Salvatore Lucania da Lercara Freddi, appena giunse a New York nei primi anni del Novecento si alleò con la banda ebraica di Lansky e Siegel e da là decollò per diventare il re del proibizionismo stringendo un patto di ferro con Frank Costello e Vito Genovese e quindi con un reticente Joe Masseria, detto “The Boss”. Nacque allora il mito del gangster. La mafia ha proliferato tra i grattacieli di New York sino ai giorni nostri nonostante altri italo-americani, da Joe Petrosino a Rudolph Giuliani, l’abbiano ostinatamente combattuta. La mitica contrapposizione tra Italian Branch, la sezione di polizia formata da italo-americani, e la potente organizzazione della Mano Nera è uno dei temi ricorrente della letteratura noir statunitense. Ora quel mondo assurge addirittura a dignità museale. Domenica prossima, infatti, a Manhattan, 80 St. Marks Place, viene inaugurato il Museum of the American Gangster, prezzo d’ingresso, per l’occasione, 10 dollari. La struttura è ospitata in uno storico teatro dell’East Villege sorto sulle ceneri di un bar clandestino della mafia ucraina, che nel gergo banditesco veniva chiamato “Speakeasy”, dove si mangiava, beveva, giocava, intratteneva il cliente e dove illegalmente si vendevano alcolici. Nel locale, poi, nel 1917 trovò ospitalità Leon Trotsky, in seguito vi cantò Frank Sinistra e divenne quindi un tempio della Off Broadway.
L
E sempre in questi giorni il Museum darà il via ai primi Mob Tour (Mobster sta per malavitoso nello slang di New York) ovvero giri organizzati in autobus alla scoperta dei luoghi simbolo delle principali gang della Grande Mela. Così si potrà conoscere il luogo dove Lucky Luciano si formò, nella 10th Street, i posti dove operava la banda di Scarface ovvero Alphonse Gabriel Capone, il negozio di scarpe a Mulberry Street dove il boss mafioso della famiglia Gambino, John Gotti, fu catturato dalla FBI e i sotterranei del Museo dove venne nascosto, tra bottiglie di birra e resti di cadaveri, il leggendario tesoro di Walter Scheib, il gangster ucrainoamericano che accumulò più di due milioni di dollari dalle sue attività non proprio oneste. Fuori dalle mura dell’ex bar clandestino il più popolare giro è quello denominato «Nascita del crimine organizzato a New York»: 25 dollari, 3 ore di percorso e 150 anni di omicidi e vizi riassunti in una lunga camminata nel Lower East Side. Dal quartier generale della Five Points Gang di Paul Kelly fino alla casa della Eastman Gang passando per gli uffici del ”boss dei boss” del proibizionismo. Un “parco giochi” dell’illegalità che non mancherà di fare scalpore come ha anticipato il direttore del museo, Eric Ferrara: «La cultura popolare ha sempre amato i gangster, i fuorilegge e tutti quei personaggi che hanno vissuto oltre i limiti del sistema. Ora credo che, in piena crisi economica, non abbiamo più il controllo delle nostre vite e fantastichiamo su chi, nel bene o nel male, sembra essere riuscito a controllare il proprio destino». Il Moag, che vanta uno spazio di 800 metri quadrati, una collezione permanente di oggetti, documenti e giornali, inizierà l’attività temporanea con una mostra sull’evoluzione delle armi – dalle pisto-
dei GANGSTER Sempre in questi giorni il Museum darà il via ai «Mob Tour» (Mobster sta per malavitoso) ovvero giri organizzati in autobus alla scoperta dei luoghi simbolo delle gang della Grande Mela
le con il calcio di legno sino a quelle semiautomatiche – e un’altra dedicata a Lucky Luciano, dall’arrivo a Ellis Island sino al suo apice attraverso un percorso fotografico e d’archivio. Ma il Museo offrirà anche spettacoli, rievocazioni storiche, conferenze, seminari, studi dello slang malavitoso e documentari storici cercando di cavalcare l’onda lunga del successo di romanzi, film e serie televisive, come I Sopranos dedicati alla mafia newyorchese.
La struttura è stata realizzata da Eric Ferrara e Lorcan Otway, con la consulenza di storici del crimine, studiosi, giornalisti e persino discendenti di figure cardine della storia della criminalità. Ferrara, quarta generazione di immigrati siciliani, vanta dalla sua il successo del
Sopra, il poliziotto Joe Petrosino e Al Capone. Qui accanto, l’ultima foto segnaletica di Lucky Luciano e più a sinistra, un giocatore di baseball firma un autografo a Al Capone
suo ultimo libro A Guide Gangsters ed una perfetta conoscenza del Lower East Side newyorchese. Adesso lancia l’idea: «Vivete un giorno da gangster senza aver bisogno di indossare scarpe a due colori e di portarsi una pistola in tasca o un mitra nascosto nel cappotto». Come si conviene ad ogni evento così clamoroso e controverso, non è mancata la querelle mediatica. Chi tra ebrei, ucraini, cinesi e italiani ha diritto a fregiarsi del titolo di inventore del genere gangster? «La Little Italy, non c’è dubbio» ha sostenuto dalla pagine dei quotidiani John ”Cha Cha”Ciarcia, attore protagonista di due serie dei Sopranos nel ruolo di Albie Cianflone, oltre che impresario di boxe, padrone di un noto ristorante italiano e soprattutto sindaco non ufficiale di Little Italy. ”Il museo dei gangster dovrebbe sorgere a Little Italy e io dovrei essere tra i fondatori”sostiene Ciarcia, il quale ha lanciato un tour alternativo tra i luoghi del Padrino e dei numerosi film che hanno visto per protagonista Cosa Nostra italo-americana con annesso un lauto sconto su un bel piatto di spaghetti. Come dire: giù le mani da Lucky Luciano e Al Capone! Chi l’avrebbe mai detto che un giorno ci sarebbe stata una contesa su chi era peggio dell’altro?