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Oggi il supplemento di arte e cultura del sabato
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 6 MARZO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Si apre lunedì a Ginevra il Summit 2010 per i diritti umani voluto da Havel e Walesa. Mentre il Consiglio Onu accoglie l’Iran
La mia vita nel gulag È nato in un lager della Corea dove ha passato 23 anni di inferno. La drammatica testimonianza di uno dei milioni di “invisibili del mondo” di Shin Donghyuk ono nato in Corea del Nord il 19 novembre del 1982. Sin dal giorno della mia venuta al mondo, sono stato considerato un prigioniero politico. So che sembra assurdo, ma è così. Ero un neonato nei gulag di Pyongyang. Secondo quello che sono riuscito a sapere da mio padre, Shing Kyong-sop, tutto è iniziato nel 1965. All’epoca mio padre, undicesimo di
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La mappa del terrore ignorato
dodici figli, aveva soltanto 19 anni: era nato nel 1946 nel villaggio di Yongjung-ni, distretto di Mundok, provincia di Pyongyang. Un piccolo posto, vicino alla capitale della Corea del Nord. Un posto sconosciuto, ma non per questo lontano dal controllo del governo o della polizia segreta. a pagina 11 •
Il conflitto tra diritto e politica
Una grande sfida La religione civile alle Nazioni Unite del XXI secolo Dissidenti riuniti contro il Consiglio dell’Onu • Faccioli Pintozzi a pagina 14
SETTE PAGINE SPECIALI
I diritti umani sono la base fondante del mondo • intervista a D’Agostino a pagina 15
Oggi la sentenza del Tar di Milano, per lunedì è attesa quella sul Pdl nel Lazio
Berlusconi in cul de sac
Partita a scacchi con Quirinale e opposizione sul decreto salva-liste I costituzionalisti: «Perché non rinviare il voto solo in Lombardia?» di Marco Palombi
ROMA. Sembra una storia già vista: di qua Silvio Berlusconi, di là Giorgio Napolitano. Il premier chiama a raccolta i ministri per scrivere un decreto che salvi Formigoni e la lista del Pdl nel Lazio. E invece il presidente della Repubblica chiede una soluzione condivisa. Soluzione “politica”, non soluzione tecnica. Salvo che Pierluigi Bersani (quello che dovrebbe condividere la soluzione prospettata da Berlusconi) di pasticci non ne vuol nemmeno sentir parlare. Che siano decreti o regolamenti o qualunque altra cosa. Ed ecco che sulle elezioni si forma un tappo politico che nessuno sembra in grado di togliere. A meno che il Tar non risolva tutto. I costituzionalisti, intanto, interpellati da liberal una soluzione ce l’hanno: «Perché non spostare solo le elezioni in Lombardia?».
Tra Napolitano e Berlusconi è ancora scontro
La politica sta toccando il fondo
L’opinione di Biagio de Giovanni
Un dovere: ricompattare le istituzioni
«Il Cavaliere ormai blocca anche il Pdl»
di Enrico Cisnetto
di Errico Novi
ra che la politica italiana ha toccato il fondo, ora che il ridicolo è stato ampiamente superato trasformandosi in farsesco, ora, soprattutto, che il “tutti contro tutti” ha portato alla completa atomizzazione della res publica, è giunto il momento di guardare oltre e ragionare. La querelle sulle liste regionali altro non è che la punta dell’iceberg di quel declino che sta lentamente ma inesorabilmente erodendo l’Italia.
el Pdl c’è più di quello che appare: lo dice Biagio De Giovanni che spiega: «La personalità di Berlusconi finisce per comprimere sempre più la complessità che invece si trova in quel partito». Il filosofo e politologo napoletano capovolge le analisi catastrofiche sulla maggioranza: a questo punto è la leadership, secondo De Giovanni, a impedire che si esprimano le migliori qualità del centrodestra italiano.
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
45 •
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
Laicità e cristianesimo
Un Centro di gravità permanente Un articolo di Paola Binetti: «Lavoriamo insieme nella Costituente per battere la dittatura del relativismo» Paola Binetti pagina 10
Le festa di Hollywood
Stanotte Lady Kathryn sfida Avatar L’uomo e la guerra al centro dei due film di Bigelow e Cameron, l’ex coppia che si contende le statuette Alessandro Boschi pagina 18 19.30
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pagina 2 • 6 marzo 2010
Caos elettorale. Le opinioni dei presidenti della Consulta Capotosti e Marini, di Michele Ainis e Paolo Armaroli
«Rinvio solo a Milano?»
I costituzionalisti contro la soluzione per decreto: «Piuttosto si potrebbe spostare la data della consultazione in Lombardia» di Franco Insardà
ROMA. L’Italia è un Paese di
mandosi al principio costitucalciofili. Ogni occasione è zionale implicito che è quello buona per fare dei riferimenti di impedire, proprio in nome calcistici. Nella settimana tra- dell’urgenza, di alterare le revagliata del «pasticcio» delle gole». liste elettorali da più parti si è Quando, cioè, la partita si sta invocato il rispetto delle rego- svolgendo, aggiunge il presile della partita, sostenendo dente emerito della Corte coche queste non PIERO ALBERTO CAPOTOSTI si possono modificare quando la gara è già cominciata. Alcuni esponenti politici dell’opposizione hanno dichiarato che a loro «non piace vincere a tavolino». Più che la soluzione in sé, ancora una volta il problema è quello della forma. E su questo la comunità dei costituzionalisti è stituzionale, Annibale Marini chiara: per uscire dal pastic- «non si può decidere che i ricio delle liste in Lazio e Lom- gori segnati valgono la metà». bardia non si può seguire la strada del decretazione d’ur- Marini aggiunge «c’è un genza, ma quella del Parla- problema di democrazia che mento e della legislazione or- va, però, garantita attraverso dinaria. Soprattutto se all’o- l’osservanza delle regole per rizzonte non resta che l’ipote- tutti i cittadini, non soltanto si di rinviare il voto nelle due per i partiti». E, molto prudentemente, analizza la situazioregioni. ne e auspica quella soluzione Al riguardo spiega il costi- politica «anche se, come ha tuzionalista Michele Ainis: giustamente osservato il capo «La legge 400 del 1988 vieta dello Stato, in astratto signifila decretazione d’urgenza in ca poco. Acquista valore, invemateria elettorale, richia- ce, nel momento in cui le op-
Ho molte perplessità su un decreto legge che intervenga in materia elettorale
Bersani chiude a ogni ipotesi di legge
Tra Berlusconi e Napolitano ormai è come una partita a scacchi di Marco Palombi
posizioni sono d’accordo nel trovare una via d’uscita. Non sarei per un rinvio generalizzato, se si trovasse un accordo si potrebbe rinviare il voto soltanto in Lombardia e nel Lazio».
Soluzione non condivisa da un altro presidente emerito della Corte costituzionale, Piero Alberto Capotosti, che, per spiegare l’attuale situazione, fa ricorso a un esempio da novantesimo minuto. «Spostando la data delle elezioni in una o due regioni si rischierebbe di alterare i risultati, che potrebbero essere condizionati dall’esito generale delle elezioni nelle altre Regioni. Una cosa è svolgere le elezioni a distanza di un anno tra diverse Regioni; altra cosa, invece, è votare in due Regioni dopo quindici giorni che si è votato in altre undici. Senza dimenticare che anche in altre Regioni diverse dalla Lombardia e dal Lazio sono state escluse alcune liste, che verrebbero inequivocabilmente penalizzate». Sulla misura da adottare il
ROMA. Il Consiglio dei ministri che dovrebbe sanare l’insanabile inizia più o meno nel momento in cui questo giornale va in stampa. All’ordine del giorno è finito un decreto interpretativo che mira a sanare la situazione delle liste del centrodestra escluse per ora dalla competizione. Il CdM potrebbe licenziare il provvedimento stasera dopo aver forzato la mano al Quirinale oppure farlo nonostante il no anticipato giovedì sera dal presidente della Repubblica e a quel punto saremmo davanti ad una crisi istituzionale sul tipo di quella seguita al caso Englaro: allora il Quirinale fece sapere con nettezza che non avrebbe firmato un decreto e Silvio Berlusconi lo insultò nella pubblica piazza (con annesse accuse di assassinio nell’aula del Senato). Questi gli scenari, a meno che, ed è una voce che circola in questi ultimi muniti, andata buca la “messa in mora” del Quirinale, il governo non si limitasse ad un’analisi prelimi-
presidente Marini è chiaro: «Prescinderei dal decreto legge, non userei la corsia della legge ordinaria, mentre, probabilmente, la soluzione più corretta potrebbe essere quella di fissare un termine diverso per le consultazioni in Lombardia e Lazio. È l’unica cosa possibile, mentre sarebbe impensabile modificare le regole che sono a garanzia di tutti e della democrazia». Anche il professor Michele Ainis concorda sul fatto che «non esistono ostacoli a spostare l’elezione in una, come in due regioni. Non sarebbe uno scandalo, occorre la volontà politica».
Dubbi espressi anche Capotosti:«Ho molte perplessità su
Qui accanto, la maratona oratoria organizzata a Roma nei giorni scorsi, a sostegno della candidatura di Renata Polverini e della lista del Pdl. Sotto, il presidente Napolitano che aveva più volte dichiarato la sua contrarità a una soluzione per decreto al pasticcio delle candidature per le Regionali
MICHELE AINIS
Con una legge elettorale è possibile fare tutto. È già successo in altre occasioni un decreto legge che intervenga in materia elettorale, tenen-
nare del testo rinviando il voto a lunedì prossimo, quando cioè buona parte delle vie giudiziarie saranno esperite. Il capo dello Stato, infatti, aveva chiesto preliminarmente al Cavaliere due cose: l’accordo unanime di tutte le forze politiche e attendere che le sedi istituzionali indicate, cioè i tribunali, si fossero espresse.
Da quel punto di vista la situazione è la seguente: i giudici amministrativi di Milano dovrebbero decidere oggi sul listino di Roberto Formigoni, la cui irregolarità ha cancellato l’intero centrodestra dalla competizione per la regione Lombardia, mentre il ricorso contro l’esclusione della lista del Pdl nella provincia di Roma verrà esaminato dal Tar del Lazio lunedì mattina (resta comunque il problema che quella lista, ufficialmente, non è mai esistita e quindi non si vede come possa essere riammessa). La giornata, ovviamente, era stata concitata co-
do anche conto che la riforma del Titolo V della Costituzione ha rafforzato le competenze regionali nella materia elettorale. Tra l’altro un decreto legge interverrebbe per ragioni che non sono di carattere generale, riguardando solo una parte, sia pure importante, dello schieramento politico. Così si altera quelle che sono le normali regole del funzio-
me si conviene. Chi dovrebbe governare questo Paese ha passato quasi l’intero pomeriggio in una surreale riunione a palazzo Grazioli: vertici del PdL, ministri, leghisti, consigliori, azzeccagarbugli tutti a studiare il modo di aggirare le leggi che regolano lo svolgimento delle elezioni venendo incontro «ai rilievi del presidente della Repubblica» (parola di Sandro Bondi). Il meeting giurisprudenziale è stato anticipato da una straordinaria dichiarazione di Roberto Calderoli secondo cui, ove si andasse al voto così, sarebbe compromesso l’articolo 48 della Costituzione, cioè «la segretezza del voto» e quindi «si aprirebbe la strada a un annullamento delle elezioni regionali». Come detto, il contenuto del testo non è ancora pubblico nel momento in cui liberal “chiude” la sua edizione, ma nella residenza del premier s’è ventilato la qualunque: rinvio delle elezioni di un mese e mezzo e riapertura dei termini per la
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Sulla rigidità delle norme per la presentazione delle liste elettorale è critico anche il presidente Annibale Marini: «Si potrebbe ragionare o interpretando rigorosamente la legge oppure con una formula più estensiva per garantire l’esercizio della volontà dei cittadini. Non ci sarebbe, invece, alcuna possibile deroga alla mancata presentazione delle firme o irregolarità».
namento del sistema elettorale e le condizioni di pari opportunità tra le varie forze che si presentano alle elezioni. Anche ricorrendo alla legge ordinaria non si risolverebbero i medesimi problemi».
Sul ricorso alla legge elettorale il professor Ainis si trova, invece, d’accordo: «Con una legge elettorale è
possibile fare tutto. Ovviamente i tempi sono diversi. Ma è già successo in altre occasioni. Per tutto cito il caso in cui si stabilì con una leggina, fatta in 3 giorni, che i referendum debbano avere un titolo, modificando la legge istituiva del 1970».
Per il professore Paolo Armaroli la questione è squisi-
tamente di accordo politico e sulla vicenda del decreto legge precisa: «Esiste una giurisprudenza parlamentare secondo la quale si è data sempre un’interpretazione restrittiva, tanto è vero non si è votato secondo le regole della Camera quando si trattò di trasferire i voti in seggi. Sarebbe preferibile che ci fosse un accordo ampio per un de-
presentazione delle liste (unica via per salvare il Pdl romano), rinvio e sanatoria per tutte le liste presentate (ma resta il problema del Lazio), decreto interpretativo della legge elettorale sulla scorta di una sentenza del Consiglio di Stato che avrebbe l’effetto di rimettere in corsa il listino di Roberto Formigoni. Quest’ultima soluzione, se accompagnata da un’ammissione di colpa del partito di Berlusconi (a cui Gianfranco Fini non era contrario), giovedì avrebbe ancora potuto essere la base per un accordo con le opposizioni da perfezionare dopo le pronunce dei tribunali. Il Cavaliere, però, non è uomo da ammissioni di nessun genere. E infatti, dopo l’inutile e istituzionalmente sgradevole pressing su Giorgio Napolitano di giovedì sera, s’è andati alla guerra totale. Già ieri mattina il segretario del Pd Pierluigi Bersani ha chiuso tutte le porte: «Loro stanno governando il Paese, devono rispondere per il Paese
creto legge che preveda un differimento di termini di pochi giorni per la regolarizzazione delle firme. È questa la strada migliore e meno invasiva, anche perché ritengo assurdo che forze politiche rappresentate in Parlamento siano costrette a raccogliere le firme per presentare le liste. Anche queste norme dovranno essere modificate».
e non per le liste di questo o di quello. È questo il problema di cui devono farsi carico se vogliono governare, altrimenti si riposino e vadano a casa». L’Udc, per bocca di Rocco Buttiglione, ha chiesto al governo di «non peggiorare la situazione con atti di forza e atteggiamenti di arrogante autosufficienza. Chi ha sbagliato ammetta l’errore, si scusi e faccia in modo di realizzare un’ampia convergenza su una possibile soluzione». Quanto ad Antonio Di Pietro è ricorso alla solita terminologia hard (“sarebbe un golpe”) validamente coadiuvato da Luigi De Magistris (“l’Italia è come il Cile di Pinochet”).
I toni continuano comunque ad essere alti anche nel centrodestra, alti fino alle vette del mitra anti-toghe della pagina della Lega di Marcheno su Facebook: curiosa reazione, peraltro, se si pensa che la lista dell’Udc fu esclusa dalle provinciali di Trento nel 2008
Il presidente Capotosti individua, invece, una misura tecnico-giuridica: «Propenderei per una soluzione giurisdizionale che si incentri su due momenti. Prima di tutto chiedendo ai Tar, in sede di sospensiva, di ammettere con riserva le liste escluse, così da garantire il regolare svolgimento delle elezioni. Nello stesso tempo i ricorrenti dovrebbero richiedere ai Tar di sollevare la questione di costituzionalità di queste norme, che appaiono irragionevoli sia per ragioni intrinseche sia estrinseche. Innanzi tutto perché comportano inutili complicazioni procedurali, poi perché vanno contro i principi stessi della Costituzione che intende favorire il più possibile la partecipazione dei cittadini alle cariche elettive. Oltre tutto, alle elezioni politiche, le formazioni politiche già rappresentate in Parlamento sono esonerate dalla raccolta delle firme. Sotto questo profilo, quindi, ci potrebbe essere un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina delle elezioni regionali. Se la Corte costituzionale deciderà in tempi brevi – come è presumibile tenendo conto di pronunce emesse in occasione di alcuni referendum – saranno rispettate le norme e garantito il regolare svolgimento delle elezioni». La partita è ancora aperta e i giocatori sono tutti impegnati a ottenere la vittoria. Anche in zona Cesarini.
proprio grazie ad un ricorso del Carroccio al Consiglio di Stato dopo che la lista centrista aveva avuto il via libera dal Tar. Con tutte queste sollecitazioni, è normale che sia passata quasi sotto silenzio la visita a palazzo Chigi, nella serata di giovedì, di Alfredo Milioni, formalmente indicato come il responsabile del patatrac della lista del Pdl in provincia di Roma. L’ex socialista, oggi presidente del XIX municipio della capitale, pare abbia lasciato in portineria delle carte e poi ha detto ai giornalisti parole interessanti: «Io non sono un capro espiatorio, alla fine la verità verrà a galla. Al momento giusto farò una conferenza stampa: la vendetta è un piatto che va consumato freddo». Poi ha avvertito gli ex amici: «Molti ora dicono di non conoscermi, ma io mi ricordo di loro. In un’intervista hanno detto che voglio suicidarmi. È vero, ho pensato davvero di mettere mano alla pistola, ma non per suicidarmi…».
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Tabù da abbattere. Il filosofo non nega «l’arroganza, la superficialità» dei dirigenti di via dell’Umiltà: «Ma c’è più di quello che appare»
«Il Cavaliere blocca il Pdl»
De Giovanni rovescia le critiche di questi giorni al “partito fantasma” «È solo un problema di leadership e di maturità della politica» di Errico Novi
ROMA. «Nel Pdl c’è più di quello che appare. E anzi», dice Biagio De Giovanni, «Berlusconi finisce per comprimere sempre più la complessità che invece si trova in quel partito». Il filosofo e politologo napoletano con un passato da europarlamentare del Pci trova il modo di capovolgere decisamente le analisi catastrofiche piovute nelle ultime ore sulla maggioranza. Dall’impietosa demolizione del ceto politico berlusconiano compiuta da Galli della Loggia con l’editoriale di martedì scorso, si passa dunque a un giudizio di carattere assai diverso. È la leadership, secondo De Giovanni, a impedire che si esprimano le migliori qualità del centrodestra italiano. E in forma neanche troppo implicita l’autore di A destra tutta fa intendere che la qualità dello stesso bipolarismo italiano è a sua volta condizionata dall’incombere del carisma berlusconiano. De Giovanni non è un ideologo dello schema bipolare ma nemmeno può esserne considerato un avversario, cosicché resta ferma la sua idea rispetto agli spazi che la crisi di questi giorni può offrire ai cattolici: «Il loro contributo può essere importantissimo, il che però non basta a dire che quel contributo debba per forza essere proposto in alternativa al bipolarismo». È in questa chiave tra l’altro che De Giovanni legge l’editoriale apparso ieri su Avvenire che sollecitava i cattolici a non omologarsi al “bipolarismo politico dominante”. Non bisogna essere subalterni al bipolarismo delle idee, ammonisce il quotidiano dei vescovi. Bisognerebbe però spiegare una cosa: per quale motivo un crollo dell’attuale tendenza bipolare dovrebbe risolvere il principale problema della nostra politica, ossia l’assenza del reciproco riconoscimento? Perché è questa la contestazione avanzata dai critici del bipolarismo: si esaspera la delegittimazione. Io dico invece che lo schema non influisce più di tanto. Anzi. Fuori dal bipolarismo se-
Da «Avvenire» a Panebianco alle «Ragioni del socialismo»: un modello è entrato in crisi
Il bipolarismo è fallito Ora se ne accorgono tutti di Riccardo Paradisi e anche il più irriducibile e convinto teorico e sostenitore del bipolarismo italiano, Angelo Panebianco, ha recentemente ceduto sul Corriere della Sera qualche argomentazione per dire che il sistema bipolare italiano rischia di essere al tramonto, beh qualche problema ci deve essere. Dopo avere elencato le contraddizioni tra politica e giustizia, fra pubblico e privato, fra maggioranza e opposizione, Panebianco nota che «alla luce di quanto si sta verificando in Italia sembra esserci spazio solo per le alleanze formali cementate dalla comune gestione del potere e per le contrapposizioni totali alimentate dal linguaggio e dai toni di scontro sistematico». E aggiungeva il professore che «il bipolarismo richiederebbe una prevalenza della moderazione sull’estremismo, una convergenza al centro. È necessario, perchè il sistema duri, che moderazione e convergenza al centro siano, almeno, le tendenze prevalenti ma in Italia non è così». A questa analisi ora si aggiungono anche le riflessioni di Emanuele Macaluso esposte sull’ultimo numero delle Nuove Ragioni del Socialismo (rivista di cui Macaluso è il direttore e che un qualche peso ce l’ha nel pensamento del centrosinistra italiano) e del quotidiano della conferenza episcopale italiana Avvenire dove in un lungo editoriale lo storico Giorgio Campanini si dispiega in una critica serrata e sostanziale al bipolarismo italiano. Muovendo dalla crisi del Pdl e della leadership berlusconiana messa a dura prova dagli scandali che hanno investito gli uomini a lui più vicini come il capo della protezione civile Stefano Bertolaso e il coordinatore del Pdl Denis Verdini Macaluso scrive «A me pare certo che dopo le elezioni regionali si apra una nuova fase politica. Anche perché nell’opposizione il Pd così com’è non regge, e si vedrà se l’ipotesi di una forza consistente di centro ha fondamento. È il sistema politico, così com’è, che non regge più ma ancora non si intravedono le forze che possano guidarne la scomposizione e la ricomposizione e indi-
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care una base politica che rimetta in movimento una dialettica virtuosa tra maggioranza e minoranza, tra governo e opposizione. Le prossime elezioni – conclude dunque Macaluso – sono quindi un appuntamento importante per cominciare a ragionare e capire se la crisi politica e sistemica ha uno sbocco». Uno sbocco che, va da sé, dovrebbe essere qualcosa di differente dal bipolarismo attuale a trazione estremista. Anche per Avvenire – per venire all’analisi del quotidiano della Cei – il bipolarismo italiano mostra la sua corda e i suoi limiti. «Molti cattolici italiani non si riconoscono nel bipolarismo politico – scrive Campanini – e devono adesso recuperare una loro autonoma capacità progettuale, così da offrire agli italiani un possibile modello di nuova società migliore, più giusta e solidale di quella attuale». Facendo riferimento ai numerosi inviti ad una progettualità politica dei cattolici arrivati in questi ultimi tempi dalla Chiesa, Avvenire sottolinea che «alla loro origine c’è la constatazione che - dopo la fine dell’unità politica dei cattolici e la diaspora dei credenti nelle varie formazioni politiche (ma, ancora più spesso, nel sociale e nel puro privato) - sono venuti meno molti dei luoghi antichi di elaborazione culturale e si assiste ad una pericolosa omologazione delle idee e delle convinzioni dei credenti alla cultura dominante, ad un bipolarismo politico nel quale molti cattolici non si riconoscono». I cattolici in Italia insomma sono di fronte ad un’alternativa secca: o recuperare una loro autonoma capacità progettuale, così da offrire agli italiani un possibile modello di nuova società migliore, più giusta e solidale di quella attuale; oppure rassegnarsi a essere subalterni, salvo svolgere il pur importante ruolo di coloro che si battono per evitare alcune storture e per impedire la radicale distorsione dei valori nei quali essi credono. Insomma il bipolarismo pone oggi più problemi, in termini di rappresentanza, di stabilità, di pluralismo culturale di quanti prometteva di risolverne.
Dopo le prossime elezioni si potrà capire capire se la crisi politica attuale potrà avere uno sbocco positivo. Il sistema così non regge più
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condo lei tirerebbe un’aria peggiore? In Italia si produrrebbe senz’altro una frantumazione da cui potrebbero nascere tensioni anche più forti. Avvenire sembra però piuttosto richiamare il rischio dell’appiattimento. E questo è senza dubbio un aspetto sul quale è legittimo battersi. Tutti auspichiamo che la politica entri nel merito delle grandi questioni sociali ed economiche. E che non si limiti a disegnare due campi contrapposti con una forzatura aprioristica. È chiaro. Come è chiaro che se la cultura cattolica dà un suo contributo questo può essere molto positivo. Ma io credo anche che il venir meno di un unico soggetto politico dei cattolici abbia rappresentato per l’Italia una forma di modernizzazione. Oggi abbiamo una confessione religiosa che si fa partito ma scelte di campo anche contrapposte: ci son i cattolici che vogliono il testamento biologico e stanno da una certa parte, altri che non lo vogliono. Non vedo l’urgenza di un terzo polo. E in base a questa logica personalmente vedo come positivo il fatto che nel Pdl non si sia creata una componente cattolica. Al di là di questo, professore, l’incidente in cui è inciampato stavolta uno dei due giganti d’argilla del nostro bipolarismo sembra più grave di altri. È serio e grave. Ma vorrei andare controcorrente e dire che a volte i magistrati dovrebbero interpretare la legge e non applicarla in modo cieco. Si richiedono 3500 firme per presentare una lista in modo da evitare che il sottoscritto, per dire, decida all’improvviso di correre alle elezioni, senza un minimo di legittimazione. Nel momento in cui si parla di un partito che prende quasi il 40 per cento in una certa regione è assurdo bloccarlo per 200 firme. Dopodiché non possiamo nasconderci l’altra cosa evidente. Quale? Che nel Pdl regnano confusione, superficialità e arroganza. Si presume di potersene infischiare di tutto. Questo non vuol dire che condivida l’editoriale di Galli della Loggia. Non condivido nemmeno l’altra tesi
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Da destra, Fini, Casini, Berlusconi e Bersani: la chiusura di questa lunga stragione di transizione è nelle loro mani. Nella pagina a fianco, Emanuele Macaluso e Biagio De Giovanni
Obiettivo:salvare le istituzioni Lo scontro ha toni tra l’apocalittico e il farsesco: è la fine della Seconda Repubblica di Enrico Cisnetto ra che la politica italiana ha toccato il fondo – purché non sia un piano inclinato – ora che il ridicolo è stato ampiamente superato trasformandosi in farsesco, ora, soprattutto, che il “tutti contro tutti” ha portato alla completa atomizzazione della res publica, è giunto il momento di guardare oltre e ragionare. Non sappiamo quale soluzione sarà adottata per porci rimedio, ma sappiamo con certezza che la querelle sulle liste regionali altro non è che la punta dell’iceberg di quel declino che sta lentamente ma inesorabilmente erodendo l’Italia da tre lustri a questa parte.
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Trovare una soluzione, condivisa, a questo ennesimo papocchio all’italiana dev’essere l’obiettivo prioritario di tutti. Non è neanche troppo importante quale essa sia: il rinvio della data delle elezioni, la ri-ammissione delle liste in Lombardia e nel Lazio, o altro. Perché mai come in questo momento la necessità di ricompattare l’intero arco parlamentare, e di cementarlo a sua volta con le altre istituzioni, si è fatto impellente. Tutto ciò che l’Italia sta vivendo in questo periodo ha un preciso responsabile: la personalizzazione della politica, unita al bipolarismo “bastardo” che ha annullato le molte anime culturali e politiche del nostro Paese dando vita ad uno scontro totale e permanente sia dentro sia al di fuori dei poli. Si è abbassato il livello del confronto renda lui sostenuta di recente secondo cui l’Italia sarebbe allo sfascio totale. Bisogna sempre fare delle distinzioni. Non è tutto da buttare, lei dice. Benedetto Croce mi ha insegnato a distinguere. Posso capire il gusto giornalistico del giudizio netto, ma credo che così rischiamo di farci sfuggire una parte della realtà. È evidente, ripeto, che i dirigenti del Pdl fanno di tutto per avvalorare quel giudizio, non ho
dendolo una litigata da bar sport o, peggio, da bordello.
La maggioranza? Divisa su tutto. Senza voler prendere in considerazione le esternazioni di Fini, che sono ormai rubricate come “fronte nemico”, si sarebbe dovuto ascoltare un uomo accorto e di riconosciuta levatura politica come Giuseppe Pisanu, quando ha sottolineato che il progetto Pdl stava rapidamente franando a causa delle continue fratture tra i suoi principali esponenti. Senza contare la mina vagante chiamata Lega Nord, capace di destabilizzare anche la coalizione più solida. Se a questo si aggiunge che lo scontro frontale e ad ogni piè sospinto con il Quirinale, così come con altre istituzioni, è sintomo di una mentalità che mal si concilia con un Governo solido e capace di prendere quei provvedimenti necessari per traghettare l’Italia fuori dalla palude in cui si trova (e si trovava, a dire il vero, già prima della crisi mondiale), se ne può concludere senza tema di smentita che per il centro-destra è davvero finita una stagione, e che la tragicomica vicenda delle liste è non la causa ma la conseguenza del suo fallimento politico. Ma se il Pdl piange, il Pd si strappa le vesti. L’esodo, lento ma continuo, dei cattolici verso
difficoltà a riconoscere la loro arroganza, il disordine, il pressappochismo. E di fronte alle critiche c’è un riflesso preoccupante, manifestato per esempio nella risposta a Galli della Loggia sul Corriere: ci si ripara dietro il totem di Berlusconi eludendo ogni contestazione. Sì, questo preoccupa. Io tifo perché il Pdl maturi, tocchi terra, e perché la stessa cosa
il centro di Casini avrebbe dovuto far riflettere sul fallimento di un progetto che, nato con l’ambizione di ricalcare i fasti del Labour inglese, si è sfaldato già al primo appuntamento elettorale nel 2008. E ancora, la candidatura “forzata” della Bonino nel Lazio, che ha lasciato l’amaro in bocca per come è stata subita, è il segno tangibile di una mancanza di programmazione che è peccato esiziale in politica. Per non parlare delle guerre intestine tra ex diessini, eternamente incentrate intorno alla figura di D’Alema.
Ricompattiamo le istituzioni , quindi. E il modo migliore di farlo, ora, è quello di trovare una soluzione – almeno questa, condivisa – per risolvere la “questione elezioni regionali” e non relegarci ad altri lunghi periodi di recriminazioni. Ma, certo, non ci si faccia ingannare dall’idea che una volta posto rimedio a questo guazzabuglio si sarà usciti dall’immobilismo politico. Dopo questo appuntamento elettorale non sono previste altre consultazioni fino al termine della legislatura; ma se le cose non cambieranno radicalmente (e i dubbi in merito sono fin troppi), è altamente improbabile che si arrivi al compimento della legislatura nel 2013. Chi sarebbe oggi
La ripresa economica mondiale è iniziata: probabilmente non avremo altre chances per agguantarla
avvenga nel Pd. Nel Pdl in particolare secondo me c’è più di quello che appare. E c’è Berlusconi che esercita una funzione di blocco, di chiusura di sistema. Non ci sarebbe modo migliore di capovolgere in positivo le analisi di questi giorni. Sono reduce da un convegno sul Mezzogiorno con Fini: è un politico di destra, dice cose interessanti. Vede, il berlusconismo è una cosa complicata, e
pronto a scommettere sulla tenuta di partiti e coalizioni conciate in questo modo? Nessuno. Ma porsi il problema solo quando si manifesterà esplicitamente sarà troppo tardi. Intanto perché il treno della ripresa economica mondiale è già in moto e o ci saltiamo sopra ora, o sarà pressoché impossibile farlo più avanti. E poi perché dobbiamo evitare di commettere lo stesso errore fatto nel 1992-1994: arrivarci impreparati al prossimo cambio di stagione politica significherebbe ritrovarsi una soluzione ben peggiore, per quanto si possa pensar male di Berlusconi, di quella escogitata allora.
Il pasticciaccio brutto delle liste per le regionali è quindi la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso. Il sottoscritto, che aveva lanciato – inascoltato – numerosi allarmi all’alba della Seconda Repubblica, non gode particolarmente nel vedere che le sue previsioni si siano puntualmente avverate. Ma adesso che non siamo più in pochi ad avere la percezione della china discendente intrapresa dal nostro Paese, ora che sappiamo quali sono i difetti e dunque quali potrebbero essere i rimedi, non possiamo più fare gli struzzi. Chi ha retto le sorti dell’Italia dal 1994 ha fallito clamorosamente, ed è doveroso che si faccia da parte. Ed è giunto il momento di aprire il cantiere della Terza Repubblica. (www.enricocisnetto.it)
in un contesto del genere a me pare che Berlusconi funzioni sempre più come elemento repressivo di questa complessità. Insomma lei dice che bisogna essere prudenti nel giudizio sia sul sistema bipolare che sul suo pilastro più importante, il Pdl appunto, nonostante gli strafalcioni compiuti in questi giorni dai suoi dirigenti. Sono molto curioso di verificare cosa accadrà nel centrodestra dopo Berlusconi. Io
non credo che si squaglierà tutto: dopo una prima fase di grande difficoltà, anzi, il Pdl riuscirà probabilmente a esprimere meglio ciò che è. Resta senza dubbio il peso enorme che ha avuto Berlusconi, lo sconvolgimento che ha portato nel sistema, e l’influenza che ha avuto in tutta la scena politica, non solo nel suo campo. E a essere onesti dovremmo davvero chiederci che cosa uno debba fare di più per entrare nella storia.
diario
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In missione. È iniziato ieri a Berlino il tour di Papandreou per chiedere alle maggiori cancellerie aiuti sul debito ellenico
Atene non commuove la Merkel
La Germania promette soltanto aiuti politici ma non di natura finanziaria ROMA. Alla Grecia – per ora – non è servito minacciare la Ue di rivolgersi direttamente al fondo monetario. Lo ha compreso molto bene ieri George Papandreou, che da Berlino ha dato il via a un tour tra i maggiori governi mondiali (prossime tappe Parigi e Washington) per convincere le economie del G7 a sostenere la Grecia nel difficile piano di ristrutturazione del debito. Ma il viaggio non è iniziato bene, visto che per ora non è riuscito a convincere la cancelleria più restia in Europa sugli aiuti: la Germania. Il tutto mentre il suo Parlamento ha approvato il piano di lacrime e sangue da 4,8 miliardi di euro, con la folla a protestare e a scontrarsi con la polizia davanti a Boulé. Il premier lascia la prima economia di Eurolandia con un no molto deciso. E poco importa se il ministro dell’Economia, Rainer Brüderle, l’ha pronunciato con un brusco «non daremo neanche un centesimo», mentre Angela Merke ha preferito un più diplomatico «ci impegniamo a stare al fianco della Grecia». Non a caso Axel Weber, presidente della Buba e principale candidato a succedere a Trichet alla Bce, ha sottolineato che «le difficoltà in cui al momento di trova la Grecia non sono problemi dell’intera Eurozona». Figurarsi dei tedeschi. In attesa che Francia e Germania svelino le loro vere intenzioni, gli unici a rallegrarsi di quanto sta accadendo sono tutti i soggetti coinvolti nell’emissione record da 5 miliardi
maggiore è arrivata da Germania e Gran Bretagna, e in particolare dagli hedge fund, banche e fondi pensione e assicurativi». Forse gli stessi che 48 ore fa hanno fatto registrare un’accelerazione nei Cds.
Fatto sta che il successo dell’asta dimostri quanto sia diffusa la considerazione che Atene riesca a risolvere da sola i suoi problemi. Il presidente dell’Ecofin, Jean-Claude Juncker, dice «che se dovesse servire, siamo pronti ad assumere misure coordinate e de-
Un nuovo sciopero blocca il Paese. Nella capitale scontri con la polizia. Guadagni record per le banche dopo l’asta di bond dei giovedì di bond ellenici di giovedì. Intanto il sindacato di banche che ha curato il collocamento – Barclays, Hsbc, National ABank of Greece, Nomura e Piraeus – e che complici il picco di spread con i bund tedeschi e un contratto che doveva garantire il piazzamento anche dell’inoptato, avrebbe incassato commissioni pari a quasi 150 milioni di euro. E male non è andata neppure agli investitori istituzionali che si sono accaparrati i titoli di stato. Fonti infatti di Hsbc avrebbero confermato a Bloomberg che «la domanda
Guido Rey ha segnalato che «le misure di consolidamento dei conti pubblici prese della Grecia sono molto serie, hanno convinto i mercati, come ma anche la Bce e la Commissione Ue». Per concludere, «ora occorrerà verificare l’attuazione delle misure adottate nel corso dei prossimi mesi». È ancora questo il nodo della questione. Senza il quale sarà impossibile evitare che la speculazione sull’euro, dopo la Grecia e gli altri Pigs, possa colpire economie più solide. Spiega l’economista ed ex vicedirettore di Bankitalia Angelo De Mattia: «Quello che si dovrà verificare in Europa è ancora da vedere. Basta vedere le preoccupazioni delle autorità americane non tanto sull’azione degli hedge fund, quanto su una concertazione degli stessi, per attaccare le economie più deboli».
di Francesco Pacifico
cise. Ma ritengo che non si renderanno necessarie». E poco importa che quest’impressione venga messa in dubbio dallo stesso Papandreou. Attraverso il quotidiano tedesco Frankfurter Allegemeine Zeitung fa sapere che nel suo tour non «chiederà soldi». Ma siccome «non vogliamo essere la Lehman Brothers della Ue», dobbiamo ottenere prestiti alle stesse condizioni della Germania». Restituisce bene il clima del momento il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi. A margine di un convegno su
Performance positiva nel Superindice di febbraio
Ocse, l’Italia vola ROMA. I funzionari dell’organizzazione che riunisce i Paesi più sviluppati continuano a essere ottimisti sulla ripresa nel 2010. Compresa la crescita dell’Italia.
L’Ocse, sulla base dei risultati del suo superindice previsionale del mese di gennaio, ha rilevato nuovi segnali di rafforzamento. Per la media dell’intera sua area ha annunciato un incremento di 0,8 punti rispetto al mese precedente. Su base annua la crescita sale a 11,3 punti. Sull’Italia il superindice ha segnato un aumento di 0,7 punti dal mese precedente, con un progresso tendenziale di 14,2 punti. Un dato che resta tra i più elevati tra i Paesi dell’area Ocse, secondo soltanto a quella della Germania (16 punti su anno e più 0,9 punti su mese). Progressi nell’area euro ma anche negli Usa, che vanno meglio – per quanto marginalmente – rispetto alle eco-
nomie emergenti. Sull’Unione monetaria il superindice è aumentato 0,6 punti a gennaio, rispetto al mese precedente, e di 12,5 punti su base annua. Per gli Usa ha registrato un aumento di 0,9 punti su mese e 11 punti su anno. In Giappone più 1,2 punti su mese e più 10,7 punti su anno. Proprio dagli Stati Uniti arrivano dati sostanzialmente positivi dal mercato del lavoro. A febbraio, e nonostante le tempeste di neve che hanno colpito ripetutamente la east coast, il tasso di disoccupazione si è mantenuto al 9,7 per cento come a gennaio. I posti di lavoro perduti sono stati 36mila, con gli analisti che ne prevedevano invece ben 50mila.
Intanto Moody’s ha confermato il rating ’Aa2’ del debito sovrano italiano con outlook stabile. Rispetto ai Pigs l’Italia non registra deficit di credibilità.
Va da sé che la situazione non si risolve con il piano da 4,8 miliardi di euro approvato ieri dal Parlamento greco. «In attesa di capire che faranno Germania e Francia», aggiunge De Mattia, «è necessario da parte della Ue un intervento che dia la stura per la creazione di un sistema di garanzia qualora i collocamenti non vadano bene. Il che non vuol dire la cintura sui Bot della Banca d’Italia dopo il “divorzio consensuale”con il Tesoro sulle emissioni. E un segnale passa per strumenti che smontino le pressioni dei mercati, toccando nodi come gli hedge funds, le banche d’affari o le autorities della Ue». In Grecia la folla che ha bloccato il Paese con l’ennesimo sciopero, si accontenterebbe forse di meno. Soltanto ad Atene si sono registrati diversi scontri con la polizia – sei gli arresti – dopo che la manifestazione pacifica della mattinata davanti al Parlamento. Le frange più violente hanno assaltato il monumento del milite ignoto della capitale, cacciando le guardie d’onore, quelle in calzamaglie bianche e le scarpe a pon pon. In questo caso ne ha fatto le spese pure l’ultraottantenne ed eroe della resistenza ai nazisti Manolis Glezos. Colui che strappo’ la bandiera con la croce uncinata dall’Acropoli nel 1941 e che De Gaulle definì «il primo partigiano d’Europa», è stato caricato dalla polizia ellenica mentre provava ad affiggere alcuni manifesti.
diario
6 marzo 2010 • pagina 7
Al centro il coro di Ratisbona diretto da Georg Ratzinger
La Corte di Palermo non ritiene credibili le sue affermazioni
La chiesa tedesca ammette casi di pedofilia
Ciancimino non sarà ascoltato su Dell’Utri
BERLINO. Con una lettera pub-
PALERMO. I giudici della se-
blicata sul suo sito internet, il vescovo di Ratisbona ha riconosciuto che sono stati commessi abusi sessuali nell’ambiente del famosissimo coro di giovani di Ratisbona, all’epoca in cui esso era diretto dal fratello di papa Benedetto XVI, Georg Ratzinger. Nella lettera ai genitori, il vescovo di Ratisbona dice «di essere venuto a conoscenza di un caso di abusi sessuali avvenuti negli anni Cinquanta». «Il direttore dell’internato dell’epoca, per quanto ne sappiamo, è stato condannato. Poi è deceduto», prosegue il testo nel quale si assicura di voler indagare e di voler chiedere a tutte le potenziali vittime di farsi vive. A propria volta il portavoce della diocesi, Clemens Neck, ha detto all’agenzia di stampa France Presse di «disporre di informazioni sui presunti abusi avvenuti tra il 1958 e il 1973». «Vogliamo indagare in assoluta trasparenza», ha aggiunto.
conda sezione della corte d’appello di Palermo, che devono giudicare Marcello Dell’Utri, condannato in primo grado a 9 anni per concorso in associazione mafiosa, hanno rigettato la richiesta di audizione di Massimo Ciancimino, in questo modo assestando un duro colpo alla credibilità del figlio dell’ex sindaco mafioso di Parlemo. Osserva peraltro la corte presieduta da Nino Dall’Acqua che nei biglietti prodotti da Massimo Ciancimino «manca qualsiasi voglia riferimento nominativo all’imputato dell’Utri identificato dallo stesso dichiarante come il “sen.”. Riferimento incongruo - continuano i giudici - perché riferito al
Il fratello del papa Benedetto XVI, 86 anni, è stato il direttore del coro, fondato nel 975, tra il 1964 e il 1993. Interpellato ieri in merito dalla radio bavarese Bayerischen Rundfunk, ha detto al contrario di non essere a conoscenza di casi di abusi sessuali commessi
Quali aeroporti per il low-cost Alitalia? Al via i voli scontati, aspettando il piano del governo di Carlo Lottieri occo Sabelli ha annunciato la nascita di un comparto low cost dell’Alitalia: «stiamo avviando la copertura con un prodotto ad hoc, con aerei di taglio più piccolo da 100 posti e un costo inferiore». La questione non è di poco conto, anche perché è imminente il varo di un nuovo piano aeroportuale nazionale (l’ultimo risale agli anni Novanta) e quella che è in gioco è la possibilità di avere un minimo di concorrenza in questo settore cruciale. C’è già una data di partenza: 28 marzo.
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Bisogna partire da un dato elementare: e cioè che fino ad oggi abbiamo dovuto fare i conti con tariffe molto alte, servizi di qualità modesta e sprechi di denaro pubblico a ogni livello. Il “salvataggio” di Alitalia è costato un’enormità ai contribuenti, ma a quelle tasche continuano ad attingere tutti i politici locali che – in mancanza di meglio – si mettono in testa uno scolapiatti e si credono imprenditori, progettando nuovi aeroporti o difendendo l’esistenza di scali fallimentari. In poche parole, c’è una drammatica carenza di mercato in tutto il settore e ciò continua a produrre conseguenze drammatiche. Sul fatto che Sabelli abbia qualità, non si discute. Il bilancio 2009 ha chiuso con perdite operative di 270 milioni di euro ma già si assiste a notevoli miglioramenti, come evidenziava qualche settimana fa Andrea Giuricin su “Chicago-blog”. La cura avviata dalla nuova gestione sta insomma producendo effetti, anche grazie ad alcune buone operazioni (come, ad esempio, un massiccio acquisto di carburante quando il barile erano scambiato a soli 35 dollari). È però importante che la nuova Alitalia giochi sempre più su un piano di parità con le altre imprese, italiane oppure no. In tal senso, la questione cruciale è quella degli slot (i diritti a volare da un aeroporto all’altro), a dispetto del fatto che, grazie a Dio, il monopolio aereo sul Milano-Roma è già oggi molto contestato da Trenitalia e il prossimo anno sulla medesima tratta si avrà anche la presenza della NTV di Montezemolo. C’è però da fare chiarezza egualmente su tutto il resto, perché difficilmente usci-
remo dalla situazione attuale (ripetiamolo: tariffe alte, servizi modesti, sprechi pubblici) senza un’apertura del mercato e il passaggio ad un quadro veramente concorrenziale. Per questo è cruciale che il nuovo piano non rappresenti una camicia di forza per gli aeroporti minori (da Bologna a Bari, da Genova a Trapani, da Pisa a Bergamo, ecc.), che finora sono cresciuti sfruttando il dinamismo di Ryanair e Easyjet.Tempo fa il ministro comunista Alessandro Bianchi, poi passato al Pd, aveva lanciato l’idea di una sostanziale decapitazione di tutti gli aeroporti secondari. Allora l’obiettivo era aiutare l’azienda di Stato: oggi il rischio è che si segua una strada magari in parte diversa, ma sempre allo scopo di favorire Alitalia. All’interno di tale quadro, la stessa proprietà degli aeroporti è un dato non secondario, perché vi sono situazioni (quella di Milano, in particolare) in cui i medesimi enti locali controllano più aeroporti che, in teoria, dovrebbero competere e si guardano bene dal farlo.
Il rischio è che il progetto di Matteoli mantenga in vita anche gli scali in perdita solo per aiutare Sabelli
nell’ambiente del coro di ragazzi di Ratisbona, di cui all’epoca era direttore. Malgrado ciò, nelle reazioni ufficiale al caso, la Santa Sede ha detto che «sta prendendo molto sul serio tutta la vicenda dello scandalo di pedofilia in Germania». Queste sono state le parole dette dal vicedirettore della Sala Stampa Vaticana, padre Ciro Benedettini, il quale però ha precisato che il Vaticano non vuole intervenire direttamente sul caso del coro di Ratisbona. In pratica, anche in questo caso il Vaticano vuole seguire la strada della trasparenza adottata nella denuncia degli abusi commessi in Irlanda e “coperti” dalle gerarchie ecclesiali di quel paese.
Non stupisce comunque che anche Alitalia voglia entrare nel settore del low-cost: e anzi la cosa può solo essere salutata positivamente dai consumatori. È probabile che l’azienda di Sabelli punti ad usare la propria posizione (non solo l’antica alleanza con Air France, ma soprattutto il fatto che i francesi sono oggi il primo azionista) per spostare su Parigi una parte rilevante del traffico internazionale. L’idea è che per andare da Genova o Trapani verso l’America o l’Asia si faccia insomma scalo nella capitale francese. Fin qui tutto bene. Ma è essenziale che l’arbitro agisca correttamente e che quindi si proceda rapidamente a far sì che tutte le compagnie rispondano alle stesse regole, introducendo una gestione trasparente e non discriminante degli slot. Il piano che il ministro Altero Matteoli, a quanto è dato di intendere, presto renderà noto dovrà insomma evitare di fare figli e figliastri. Sarebbe stato un grave errore quanto Alitalia era pubblica ed “italiana”; lo è evidentemente anche oggi, con un’azienda che è ormai in mani private e sempre più francesi.
periodo tra luglio e agosto 2000, quando dell’Utri non era ancora divenuto senatore, ma era solo deputato e a Palazzo Madama sarebbe stato eletto per la prima volta soltanto nel 2001». Tutti questi elementi, assieme a una serie di contraddizioni risultanti dal confronto tra i vari verbali resi dallo stesso Ciancimino, contribuiscono a non rendere credibili le sue affermazioni e per questo i giudici non ritengono di dovere ascoltare Massimo Ciancimino. Del resto, in un’altra parte delle motivazioni, aveva chiaramente parlato di dichiarazioni generiche e contraddittorie, prive di riscontri e soprattutto provenienti quasi tutte da un soggetto defunto come Vito Ciancimino, il quale peraltro, aggiungeva la corte, «a sua volta non conosceva Dell’Utri e anche lui aveva informazione de relato».
Prima che i giudici entrassero in camera di consiglio per decidere sulla richiesta avanzata dal procuratore generale Nino Gatto, il legale di Dell’Utri, Nino Mormino, era stato chiaro: «Non siamo assolutamente preoccupati da quello che potrebbe dire Massimo Ciancimino». La difesa si era opposta, ma si era rimessa alla decisione dei giudici.
economia
pagina 8 • 6 marzo 2010
L’Intervista. «L’automobile di domani dovrà essere sostenibile», dice il manager che ha lasciato la Fiat per approdare in Germania
«Il futuro? È ibrido» Luca De Meo, direttore marketing Volkswagen: «Più che verdi, saremo blu. Come l’aria pulita» di Paolo Malagodi
MILANO. Dopo una fugace apparizione al Salone di Francoforte nello scorso settembre, con l’80° edizione della rassegna in corso a Ginevra dal 4 marzo, Luca De Meo è tornato alla ribalta internazionale dell’auto. Nel nuovo ruolo di responsabile, dal 1° agosto di quest’anno, del marketing per il brand Volkswagen - divisione autovetture - e dopo che l’oggi quarantaduenne manager aveva lasciato il gruppo Fiat, dove era alla guida dei marchi Alfa Romeo, Abarth e del Group Marketing. Con una decisione a sorpresa che, il 12 gennaio 2009, l’amministratore delegato del Lingotto, Sergio Marchionne, così commentava: «Voglio ringraziare Luca De Meo per l’eccellente lavoro svolto negli ultimi anni. Dal punto di vista umano sono dispiaciuto per questa sua scelta, anche se sono consapevole che un giovane brillante e capace come Luca possa avere il desiderio di compiere nuove esperienze in altre realtà aziendali. Gli formulo i miei migliori auguri per il suo futuro personale e professionale». In un percorso iniziato da alcuni mesi, che consente a Luca De Meo di osservare il panorama del settore dall’alto di una plancia di comando privilegiata; quella del principale brand di un colosso impegnato a contendere, già in questo periodo, alla nipponica Toyota la leadership del mercato automobilistico mondiale. Dopo i ruoli in Fiat, quali nuovi stimoli offre l’esperienza Volkswagen? Quelli di operare in un brand che ha grandissima forza, non solo in Europa ma con enorme visibilità in tutto il mondo, dalla Cina al Brasile e agli Stati Uniti. Mi trovo, perciò, a confrontarmi con i valori di una marca globale che è tuttavia percepita con sfumature diverse nelle varie aree di mercato, per mettere a punto azioni di marketing che permettano di interpretare al meglio il prodotto Volkswagen come “Das Auto”. Ad esempio, dopo tanti anni siamo rientrati nel SuperBowl come momento topico della comunicazione per gli Stati Uniti e il tema era far capire che Volkswagen non è solo quella del Beetle, ma che abbiamo una gamma di ben 13 modelli. Mentre in Cina, basandoci sul grande successo di Golf abbiamo superato nel 2009 il milione di consegne, facendo di quello cinese il nostro primo mercato mondiale. Che tipo di approccio, fantasia latina o razionalità teutonica, prevale ora? Sarebbe stato presuntuoso pensare di cambiare qualcosa in Volkswagen, senza averne capito prima e ben a fondo uno spessore fatto di elevati contenuti ingegneristici e di grande eleganza formale: caratteri che distinguono Volkswagen come uno dei veri e grandi brand a scala planetaria. Anche se, istintivamente, tendo a trasfondere la mia originalità nelle nuove campagne e come in quella, ad esempio, appena partita il 27 febbraio. Che, sotto il titolo “Think Blue”, intende promuovere nel mondo intero una particolare attenzione alla mobilità sostenibile e con la scelta del blu quale colore dominante dell’intera strategia di comunicazione. Lo stesso colore che, non a caso, come
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“BlueMotion”, identifica per Volkswagen una serie di versioni a basso impatto ambientale e che oggi vengono richiamate, dalla campagna “Think Blue”, come prova di un lavoro capace di combinare la tradizione con un’incessante evoluzione. Il fenomeno del downsizing, è da ritenersi irreversibile o transitorio? Considero difficile, se non azzardato, leggere il mercato in un arco di tempo che superi i cinque anni. Tuttavia, è certo che nella mente dei consumatori si è fatta strada una grande attenzione all’utilizzo di auto con ridotti consumi e minori emissioni. Il che non significa, necessariamente, la tendenza verso auto piccole quanto, piuttosto, più efficienti o meglio abitabili a parità di ingombri. Una tendenza che ritengo oggi esemplarmente applicata con l’ultima Polo e come lo sarà, domani, con l’innovativa Up. Anche se, va ribadito, non vi è una sola definizione per un downsizing universalmente applicabile e come dimostrano, ad esempio, i diversi modi di intendere una piccola vettura in Europa piuttosto che negli Stati Uniti. Tra il tutto elettrico e l’ibrido, quale sarà la scelta vincente? Siamo e saremo ancora per diversi anni in una fase transitoria, con l’affiancamento delle due tipologie all’utilizzo di motori endotermici che, peraltro, non cesseranno di migliorarsi. Tuttavia, già in questa fase, è stata chiaramente enunciata la scelta del gruppo Volkswagen di puntare ai vertici dell’elettromobilità. Sia per fare uscire l’ibrido da un mercato di nicchia, sia per mettere l’elettrico alla portata di chiunque. Come marchio Volkswagen seguiamo ambedue i percorsi, a partire dal lancio in questo 2010 del Touareg Hybrid e con test, nei prossimi mesi, di veicoli elettrici sulle strade europee, nordamericane e cinesi. Da affiancare, nel 2011, a una flotta sperimentale di cinquecento Golf elettriche, cui seguirà l’ibrido di serie su Jetta nel 2011, come su Passat e Golf nel 2013; anno nel quale Volkswagen lancerà altre elettriche, come la nuova E-Up e la E-Golf, con la E-Jetta entro lo stesso 2013. Per quale target di clientela? Quello che oggi esiste, in tutto il mondo e anche nelle congestionate metropoli cinesi, di persone particolarmente sensibili all’uso di vetture ad emissioni zero. Con l’apertura di una breccia nelle tendenze di scelta anche dei restanti consumatori e per volumi che, da pochi punti percentuali sulle vendite del prossimo quinquennio, sono destinati a divenire un fenomeno relativamente di massa nel medio e lungo periodo. Un ultimo giudizio, in questo 2010 centenario per la marca, su Alfa Romeo? Premetto che rimango grato all’importante esperienza avuta nel gruppo Fiat e vedo la ricorrenza con ammirazione ed affetto per questo brand, il cui fascino nel mondo ha solo bisogno di essere supportato da prodotti della giusta immagine e qualità. Come ritengo sia stata la MiTo, alla quale mi sono tanto dedicato, e come mi auguro sia la nuova Giulietta.
Vorremmo convincere chi compra una macchina nuova a fare scelte ecologiche. Perché saranno queste a spostare davvero quote di mercato
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economia
6 marzo 2010 • pagina 9
Fiat, governo e sindacati riuniti a Roma per trovare una soluzione
E Termini Imerese fa la conta cercando (gratis) un acquirente Nuovo vertice per lo stabilimento siciliano. Montezemolo rilancia: «Per salvare i lavoratori, noi siamo anche disposti a regalarlo...» di Alessandro D’Amato
ROMA. Nulla di deciso, ma soltanto l’ennesima tappa di un percorso ancora da compiere. Il tavolo tecnico sul futuro dello stabilimento Fiat di Termini Imerese, ieri, ha detto il ministro dello Sviluppo Claudio Scajola, è soltanto una parte delle iniziative «che stiamo portando avanti nel tempo necessario sulle offerte che sono pervenute e sulle altre che ci auguriamo che pervengano». «Abbiamo tempo - ha sottolineato poi il ministro - perché la produzione a Termini Imerese proseguirà ancora fino a tutto il 2011». Scajola ha aggiunto di augurarsi fra l’altro che «i prodotti fabbricati oggi a Termini Imerese, avendo successo, possano far crescere la produttività, ma nel frattempo stiamo cogliendo le opportunità che si presentano, compresa la disponibilità della Fiat a cedere lo stabilimento e anche a potere eventualmente intervenire su qualche progetto».
Intanto, si profila un nuovo sciopero a sostegno della vertenza di Fim, Fiom e Uilm: della proposta i sindacati hanno parlato ieri prima dell’incontro al ministero dello Sviluppo Economico; la protesta arriverà sicuramente prima del 21 aprile, giorno in cui l’amministratore delegato, Sergio Marchionne, presenterà il piano di sviluppo di Fiat. Si riuniranno il 18 marzo, Fiom, Fim e Uilm, per decidere. Franco Martini, segretario generale della Filcams Cgil, spiega: «Il 21 aprile è giorno in cui l’amministratore delegato, Sergio Marchionne, presenterà il piano di sviluppo del gruppo. La Fiom ha ragione: non è aprendo nuovi supermercati o ipermercati che si dà risposta al bisogno di sviluppo di un’economia dissestata, come quella siciliana. Il terziario, senza una robusta industria manifatturiera alle spalle, rischia di essere un castello costruito sulla sabbia, una fabbrica di precariato, che la crisi dei consumi rischia di accentuare e rendendola socialmente sempre più insostenibile». Già, tutto vero: il commercio senza l’industria non va da nessuna parte. E l’attenzione su Termini è massima: dalla presenza degli operai a Sanremo sul palco, dovuta a Maurizio Costanzo con le ovvie polemiche sull’opportunità che ne sono seguite, all’appello di Fiorello alla Fiat arrivato dopo le richieste di boicottaggio arrivate via Facebook all’artista siciliano; dalle parole durissime del presidente del Senato Renato Schifani alle visite del segretario del Partito Democratico Pierluigi Bersani. Ma per oggi di certo ci sono sostanto le otto-sedici (il numero varia a seconda delle dichiarazioni) proposte arrivate sul tavolo del ministero per il sito, delle quali però non si possono conoscere i dettagli, e l’i-
dea di un invito internazionale da pubblicare sui principali quotidiani economici, dal Financial Times al Wall Street Journal, per riqualificare l’ area. Con una dote di 100 milioni di euro pronti dal ministero attraverso lo strumento del contratto di programma, da aggiungersi ai 350 della Regione Sicilia.
La soluzione dunque, non c’ è ancora o comunque non è a fuoco: non per niente l’advisor Invitalia sta chiedendo a chi ha fatto una proposta, di dettagliarla. Ma i tempi sono ancora molto lunghi. Due i particolari da tener presente perché potrebbero condizionare la scelta finale: il sito della Fiat occupa solo un terzo dell’area disponibile, che dunque potrebbe ospitare più di una iniziativa. E l’ anzianità dei dipendenti
Fim, Fiom e Uilm hanno già “promesso” un nuovo sciopero da fare prima del 21 aprile, il giorno in cui Sergio Marchionne presenterà il nuovo piano ai vertici del Lingotto che, come la stessa Fiat ha rilevato, sono in buona parte prepensionabili. Aspetto che, per ora, sta passando sotto traccia per non scatenare proteste, ma che rende possibile anche una profonda mutazione della vocazione del sito. Di pretendenti si è parlato tanto. I sindacati puntano a una soluzione che mantenga a Termini un impianto automobilistico, privilegiando le offerte che vanno in questa direzione: tra queste ci sa-
rebbe la proposta della cinese Faw (First automobile works), un’ ex azienda statale che produceva macchine da guerra. Poi c’è il progetto della macchina elettrica avanzato dall’ imprenditore siciliano Simone Cimino. Ma l’ attenzione dei sindacati è rivolta alle mosse di Gian Mario Rossignolo che però non ha ancora presentato un’ offerta e si mostra estremamente cauto. Anche la Fiat o, meglio, il suo presidente Luca Cordero di Montezemolo, ha cambiato atteggiamento, anche se si tratta di minime correzioni di rotta, fatte soprattutto in omaggio al coté politico del Lingotto: «Potremo valutare la possibilità di un investimento piccolo in presenza di una soluzione seria e siamo disposti, sempre in presenza di un’offerta seria, a mettere a disposizione a costo zero lo stabilimento di chi sarà scelto dal Governo», ha detto qualche giorno fa Montezemolo, dicendosi anche disposto a “regalare” lo stabilimento in caso fosse necessario ai nuovi padroni. Gli ha risposto, indirettamente, Luigi Angeletti: «Gli operai sanno perfettamente come va il mondo - ha detto intervenendo concgresso anniversario della Uil - e sanno perfettamente che il loro posto dipende dalle macchine che si vendono. Si arrabbiano però quando dicono: io lavoro, so lavorare bene, come un operaio tedesco o giapponese, ma il mio imprenditore non è così bravo come uno tedesco o giapponese. Si arrabbiano quando percepiscono che non tutti sono all’altezza delle proprie responsabilità».
Parole, parole, parole. E tutte di una vaghezza impressionante. Tranne quelle di Sergio Marchionne, che come al solito quando è fuori dalla diplomazia riesce a essere di una chiarezza disarmante: «Termini Imerese? Quello che mi dispiace è che tutta questa storia la stanno vivendo sulla loro pelle i lavoratori. Invito tutti a fare discorsi seri e precisi, mediaticamente si stanno aggiungendo pezzettini e cerotti a un discorso che era di una semplicità e una chiarezza incredibili». Ovvero, utilizzare il prepensionamento per gli operai e ripartire da zero. Se alla fine dovesse andare davvero così…
politica
pagina 10 • 6 marzo 2010
Dibattito. La crisi economica che si prolunga impone un nuovo messaggio di salvezza impregnato di amore e di umiltà
Centro di gravità permanente La Binetti risponde a Mantini: «Insieme contro il relativismo» di Paola Binetti
na lettera impegnativa quella che ho trovato stamattina su liberal… L’amico Pierluigi Mantini mi aveva accennato all’idea di un confronto sul tema della Costituente di Centro, come luogo aperto a credenti e non credenti, ma lo spazio che ha voluto dare a questa riflessione politica e culturale, e nello stesso tempo laica e profondamente spirituale, richiede una risposta di maggiore respiro. Mi ha un po’ sorpreso il punto di partenza, e in un certo senso la chiave della soluzione dei problemi posti nella sua lettera: l’esigenza di un nuovo umanesimo cristiano che sappia farsi carico dei peccati della globalizzazione, secondo la suggestione del Cardinal Martini. Il mio approccio al tema è diverso nella premessa e nella conclusione. Non sento il bisogno di un nuovo umanesimo cristiano, come se quello a cui ci siamo riferiti per tanti anni, per secoli dovrei forse dire, fosse usurato e non potesse più dare risposte efficaci all’uomo di oggi! Ciò di cui c’è bisogno oggi è un cuore nuovo e una mente nuova per ascoltare e comprendere il senso del messaggio evangelico che definisce l’umanesimo cristiano: quello di sempre, senza diluirlo con argomentazioni di comodo e senza filtrarlo con sofismi autoreferenziali.
sapevolezza delle conseguenze delle loro azioni. Un abuso di fiducia, una frode umana prima ancora che economica, un impoverimento complessivo a cui forse la Politica avrebbe dovuto rispondere con un sistema di regole più chiaro, con un sistema di sanzioni più severo, con un sistema di welfare più generoso. Non ci stupisce che la nostra cultura, inseguendo il mito della modernità, stia perdendo di vista l’esperienza delle sue radici cristiane e per questo sperimenti uno spaesamento che fa sentire tutti noi estranei in casa nostra, smarriti davanti a realtà che non comprendiamo.
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Perché oggi in un tempo di crisi che si prolunga ben più di quanto avremmo sperato, abbiamo un estremo bisogno proprio di quel messaggio di salvezza impregnato di amore e di umiltà, di capacità di perdonare e di consapevolezza di dover essere noi stessi perdonati. Abbiamo bisogno di tornare a riflettere sulla responsabilità che ci è stata affidata e che investe la cura degli altri, anche quando questo implica l’anteporre le loro necessità alle proprie. L’umanesimo cristiano è da sempre fortemente relazionale e ha ben poco a che vedere con l’individualismo che caratterizza una modernità miope e ripiegata su di sé. È un umanesimo che mentre ribadisce la pari dignità di tutti gli uomini, ricorda contestualmente i vincoli di una fraternità, che non giustifica soluzioni egoistiche e proprio per questo guarda al potere
solo nella prospettiva del servizio: «Chi vuol essere più grande tra di voi si faccia vostro servo».
In politica tutto ciò ha una profonda attualità, ricordata
Cosa chiedeva Mantini
Le ragioni della Costituente Ieri, dalle pagine di liberal, Pierluigi Mantini ha inviato una lettera aperta a Paola Binetti sulla Costituente di Centro e sul peso che in essa devono avere le ragioni cristiane. Il nodo è quello del rapporto fra regole laiche e ragioni religiose. La lettera, infatti, parte dalla condivisione di un’affermazione del presidente Usa Barack Obama, per il quale «ha torto chi vuole appendere la sua religione all’uscio prima di presnetarsi sulla pubblica piazza». Ciò non toglie, secondo Mantini, che sia necessario fondare un nuovo «umanesimo cristiano che sappia farsi carico dei “peccati”della globalizzazione», come ha spiegato più volte il Cardinale Carlo Maria Martini.
da Benedetto XVI nel suo discorso di pochi anni fa a Cagliari e ripresa recentemente con grande incisività dal cardinal Bagnasco, al termine dei lavori della Cei. I cattolici impegnati in politica devono essere prima di tutto fedeli alla loro vocazione di cristiani e quindi devono essere capaci di tradurre quegli stessi valori del loro agire politico. La loro laicità di credenti si misura proprio a partire dalla loro fedeltà al messaggio evangelico, una fedeltà esigente che impegna ad una forte coerenza nello stile di vita e che richiede una costante tensione morale nell’analizzare problemi e questioni del nostro tempo, alla ricerca della migliore soluzione possibile. Non sono quindi i peccati della globalizzazione ciò che dovrebbe spingere alla riflessione su di un nuovo umanesimo cristiano, ma le virtù umane che avrebbero dovuto nutrire e rilanciare una autentica globalizzazione, intesa in senso cristiano.
Sintetizzerei i peccati della globalizzazione a cui si riferisce Mantini in tre punti chiave: avidità nel possesso dei beni materiali, fame di potere e assoluta indifferenza per il destino di molti popoli. Solo così si spiegano sia uno sfruttamento che contraddice
Qui sopra, Paola Binetti con Pier Ferdinando Casini, dopo la sua adesione all’Udc. Sotto, Pierluigi Mantini gravemente al senso della giustizia, che la superficiale assunzione di impegni per contrastare la fame del mondo, a cui non seguono mai le iniziative indispensabili, in cui pure - almeno teoricamente - i paesi più ricchi sembrano volersi impegnare. Il paradosso culturale del nostro tempo sta proprio nelle nuove forme di “schiavitù”che vedono diventare sempre più poveri proprio i paesi poveri, spesso i più ricchi di materie prime e di risorse energetiche. Per contrasto in questi stessi paesi c’è la testimonianza operativa di missionari, di laici credenti, concretamente mossi da quella visione antropologica che contraddistingue l’umanesimo cristiano, e che si spendono in una incessante attività di formazione, di assistenza, e di promozione umana.
Ma anche la crisi economico-finanziaria che ha recentemente colpito i paesi occidentali aveva alla radice una profonda avidità, un bisogno di accumulare ricchezze nella sostanziale indifferenza verso le conseguenze che scelte spericolate avrebbero avuto nei confronti di persone più sprovvedute, forse non del tutto povere sul piano economico, ma certamente povere di conoscenze e prive di con-
Ecco perché la proposta della Costituente per il Centro, come luogo politico e culturale in cui si incontrano tutti gli uomini di buona volontà è un importante fattore di speranza nell’attuale panorama politico italiano. Ma il nuovo Centro sarà tanto più credibile quanto più ancorato alle radici cristiane, attraverso due binari: da un lato la coerenza personale di quanti accetteranno di farne parte e dall’altro una riflessione esigente sui contenuti specifici dell’umanesimo cristiano, avendo sempre presenti in controluce i falsi modelli della cultura attuale; dal relativismo al nichilismo, dal successo facile al materialismo consumista, dalla libertà incondizionata alla labilità dei legami affettivi. Non si tratta però di limitarsi a fare “due passi per il Centro”, ma di impegnarsi coraggiosamente a costruire soluzioni nuove, che denunciano a tutti i livelli le diverse forme di conflitto di interessi, che rivelano la fragilità delle soluzioni puramente ad effetto, perché si vuole diventare davvero cercatori di verità nella speranza di ridare al Bene comune il valore centrale in tutto il sistema sociale in cui viviamo. Un bene comune che coinvolge tutti, credenti e non credenti, e che si confronta costantemente con le alternative possibile, purché siano ancorate al tema della responsabilità sociale assai più che non a quello dei diritti individuali… Martedì, l’intervento di Enzo Carra
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Si apre lunedì il Summit per i diritti umani, la democrazia e la tolleranza
«Quando non ero più un uomo» Figlio di due dissidenti di Pyongyang, Shin Donghyuk ha passato 23 anni fra torture, lavori forzati e repressione feroce, ordinati del regime stalinista di Kim Jong-il. Cinque anni fa è riuscito a scappare in Corea del Sud. Oggi racconta a liberal la sua tremenda storia di Shin Donghyuk ono nato in Corea del Nord il 19 novembre del 1982. Sin dal giorno della mia venuta al mondo, sono stato considerato un prigioniero politico. So che sembra assurdo, ma è così. Ero un neonato nei gulag di Pyongyang. Questa è la mia storia. Secondo quello che sono riuscito a sapere da mio padre, Shing Kyong-sop, tutto è iniziato nel 1965. All’epoca mio padre, undicesimo di dodici figli, aveva soltanto 19 anni: era nato nel 1946 nel villaggio di Yongjungni, distretto di Mundok, provincia di Pyongyang. Un piccolo posto, vicino alla capitale della Corea del Nord. Un posto sconosciuto, ma non per questo lontano dal controllo del governo o della polizia segreta. Una notte del 1965, poco prima dell’alba, un battaglione di poliziotti entrò con la forza nella nostra casa: portarono via tutto quello che potevano rubare e caricarono tutti i miei familiari su un camion. Erano tutti membri dell’Agenzia per la sicurezza statale (Ssa). Il viaggio in camion durò un giorno intero: la meta era il Campo di lavoro numero 14. Dal momento esatto dell’arrivo, la mia famiglia è stata separata e i suoi membri sono stati trattati come bestie in un recinto. Con la rara eccezione di alcuni incontri sporadici con i fratelli, detenuti in un blocco vicino, mio padre non ha più saputo nulla dei suoi familiari. A mio padre venne ordinato di lavorare nell’unità meccanica del campo. Il suo lavoro era così ben fatto che, un giorno, gli venne concesso un pre-
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Shin Donghyuk, 28 anni, in una foto recente scattata a Seoul. Il ragazzo non ricorda la sua famiglia, morta nel lager. In alto, una punizione dentro un campo di lavori forzati
mio ambito all’interno del campo: avrebbe potuto sposare una detenuta donna. Chang Hye-kyong, mia madre, venne dunque “concessa” a mio padre: i due si sposarono. Le autorità del campo concessero loro di passare insieme circa cinque giorni, dopo di che li separarono di nuovo. Non si potevano vedere mai, se non per brevissimi momenti concessi in seguito a performance straordinarie sul lavoro. So di avere un fratello, nato pochi anni dopo di me, ma non riesco a ricordarne i tratti o la voce. Sono riuscito a vederlo soltanto tre o quattro volte: nel 1996, è stato condannato a morte e ucciso nel campo. Ho vissuto con mia madre per i primi dodici anni di vita. Lei era una contadina, si alzava per lavorare alle cinque di mattina e tornava a casa alle undici di sera: in effetti lavorava fino alle nove, ma poi doveva passare due ore nelle sessioni ideologiche. Queste sono in realtà dei pretesti: qui i detenuti sono costretti a denunciarsi l’un l’altro e a picchiare chi non ha raggiunto la quota di lavoro prestabilita. Mia madre tornava distrutta da queste sessioni. Portava a casa 900 grammi di granoturco per lei e 400 per me, insieme a un minuscolo canestro con dentro del carbone. Dalle undici scattava il coprifuoco: non si poteva uscire dal giaciglio per nessun motivo, e questo vale per tutti i prigionieri. Non c’è spazio per l’affetto in quei posti: non ricordo un abbraccio fra me e mia madre. Semplicemente, non aveva le forze per dimostrarmi amore. Oggi la ricordo a stento.
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Le guardie uccidono anche i bambini Nei gulag non esiste pietà per nessuno. Bisogna produrre, fino alla morte cinque anni ho iniziato la scuola: non ricordo il primo giorno, ma c’erano trenta bambini. In totale, la scuola aveva 400 alunni. Ci insegnavano a leggere, scrivere, aggiungere e sottrarre. Un giorno, avevo nove anni, la mia insegnante sorprese una bambina con cinque chicchi di grano in tasca: la fece inginocchiare davanti a tutti e la prese a bastonate in testa. Ricordo che rimasi molto sorpreso, perché dal cranio non usciva sangue: era soltanto sempre più pieno di bozzi. Dopo un’ora, la bimba non si muoveva più. La riportarono a casa, e il giorno dopo dissero che era morta nella notte. Una bambina picchiata a sangue fino alla morte, e nessuno era responsabile. La maestra, ovviamente un membro della Ssa, poteva fare quello che voleva, così come tutti gli altri agenti nel campo. L’anno dopo, i dirigenti del lager dissero che anche i bambini dovevano partecipare al lavoro: io accompagnai mia madre a piantare il riso, insieme agli altri bambini. L’ordine era imperativo: dovevamo raggiungere la quota lavoro stabilita dagli agenti. Il lavoro iniziò alle nove del mattino, ma in quel particolare giorno mia madre si sentiva debole e aveva anche vomitato, in preda al mal di testa. Nessuno, però, veniva mai esentato dal lavoro: questa era la prima regola del campo. Lavorai molto duramente per aiutare mia madre, ma nonostante questo il nostro era un procedere molto lento. La guardia che controllava la nostra quota era furiosa per quanto stava avvenendo: mia madre venne punita, costretta a rimanere durante la pausa per il pasto inginocchiata al sole con le mani sopra la testa. Io la guardavo, ma senza la possibilità di fare nulla. Dopo un’ora e mezzo in ginocchio, la guardia tornò da mia madre e le ordinò di tornare al lavoro. Lei era malata, la punizione l’aveva fiaccata ancora di più e inoltre non aveva pranzato. Eppure, fece il suo meglio per raggiungere la quota prestabilita: ma, a fine giornata, non era riuscita nel suo scopo. Quella sera venne prelevata dalla capanna e costretta a tornare inginocchiata per due ore, durante la sessione politica, mentre quaranta prigionieri l’accusavano di essere una donna pigra che andava contro la Rivoluzione di Kim Il-sung.
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Quello è l’ultimo ricordo netto che ho di mia madre, perché nel frattempo eravamo stati divisi: io sono stato mandato alla scuola media, e quindi ho iniziato a vivere insieme agli altri ragazzi del campo. Ma la nostra scuola media non aveva abbastanza alunni, quindi i ragazzi erano impiegati per seminare, arare, raccogliere i frutti della terra. Nessuno studio per noi, soltanto lavoro. Fino a che non venne il momento di costruire la centrale energetica: era la primavera del 1994, e ci venne affidato un lavoro che riusciremo a terminare soltanto nell’inverno dell’anno successivo. Parliamo di ragazzi fra i 13 e i 16 anni, mobilitati dalle guardie per mettere in piedi una centrale di medio livello e di media potenza. Durante questo periodo ho visto decine di bambini morire per incidenti sul lavoro, ma altre centinaia sono morti per mano delle Ssa. A volte, le esecuzioni pubbliche erano talmente
violente che non riuscivo a tenere gli occhi aperti; altre volte, vedevo morire cinque o sei compagni di lavoro al giorno. In un incidente avvenuto davanti a me, sono morti otto bambini tutti insieme: c’erano tre piccoli idraulici che lavoravano su un altissimo muro di cemento, mentre tre ragazze di quindici anni e altri due ragazzi della stessa età li aiutavano, dal basso, con un mortaio. Stavo portando uno strumento ai cinque in basso, quando ho visto cedere il muro di cemento: ho urlato per avvertire gli altri, ma era troppo tardi.
Sotto decine di tonnellate di cemento, davanti ai miei occhi, sono morti otto ragazzi. Nessuno li ha aiutati: le guardie ci hanno urlato di ricominciare a lavorare. Lo ripeto una volta di più: questo non è stato un caso isolato, di episodi del genere ne ho visti a decine. Il 6 aprile del 1996, alle otto del mattino, sono stato raggiunto da una guardia che mi ha ordinato di andare immediatamente nella scuola dove avevo studiato.
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Un uomo ha acceso un fuoco e l’ha spostato sotto i miei piedi: per evitarlo, ho continuato a attorcigliarmi su me stesso fino a che un colpo alla testa non mi ha fermato
”
Arrivato lì, ho subito notato una piccola macchina in attesa davanti all’edificio: da quella macchina sono uscite delle persone che, senza parlare, mi hanno ammanettato e incappucciato. Mi hanno caricato in macchina e portato via, verso un posto sconosciuto. Mi sentivo come se stessi scendendo in un ascensore, fino a quando non mi sono ritrovato in una camera illuminata soltanto da una lampadina. Davanti a me, un uomo seduto dietro a una scrivania: per il resto, la stanza era vuota. Quell’uomo mi ha porto un foglio di carta e mi ha ordinato di leggere: c’era il nome di mio padre e quello di alcuni suoi fratelli, accusati di aver collaborato con il Sud durante la guerra di Corea. In quell’istan-
te, per la prima volta, ho capito per quale motivo erano stati portati nel campo. Dopo aver letto, ho aggiunto il mio nome e posto il pollice per lasciare l’impronta sull’inizio del documento. Mi trovavo in una camera segreta delle torture, nel Campo di lavoro numero 14. Ero nella cella numero 7, una stanzetta spoglia senza illuminazione se non quella proveniente da una piccola lampada appesa al soffitto. L’uomo che mi aveva porto il foglio è tornato, per dirmi che mia madre e mio fratello erano stati arrestati una mattina mentre cercavano di lasciare il Campo. Mi ha ordinato di parlare, di raccontare la cospirazione ordita nella mia famiglia. Quello di cui mi parlava era un crimine che ci avevano insegnato essere orribile, quasi impensabile: per questo, ho reagito con piena sorpresa davanti all’accusa. Il giorno dopo sono stato portato nella stanza, ma questa volta era piena di strumenti terribili: sono stato legato, le mie gambe immobilizzate e le mie mani legate con una corda. Sono stato appeso al soffitto, mentre un uomo mi intimava di confessare tutto quello che sapevo sul piano di fuga. Ma io non ne sapevo nulla, e gliel’ho detto. Stranamente, in quel momento non provavo paura: ancora oggi non mi spiego come sia riuscito a non avere terrore di quella situazione. Un uomo ha acceso un fuoco di carbone e l’ha spostato sotto i miei piedi: per evitarlo, ho continuato a attorcigliarmi su me stesso fino a che un colpo alla testa non mi ha fermato. Non so per quanto tempo sono rimasto incosciente, ma mi sono svegliato in una camera piena delle mie feci e delle mie urine. Ho fatto uno sforzo enorme per alzarmi, ma il dolore mi ha costretto di nuovo per terra: avevo delle ferite profonde sull’addome, da cui usciva sangue.
I giorni passavano senza cure, mentre il dolore aumentava e la carne iniziava a deteriorarsi: le mie ferite puzzavano così tanto che le guardie carcerarie evitavano di entrare nella mia cella. Dopo qualche tempo, sono stato spostato nella stanza davanti alla mia, dove si trovava già una persona anziana. Parlando, mi ha detto di essere prigioniero in quella cella da venti anni: era pelle e ossa. Non ha detto altro di sé per tutto il tempo della prigionia, ma non dimenticherò mai quanto mi abbia aiutato nei miei momenti di difficoltà. Una volta è arrivato a darmi metà della sua razione di cibo, un sacrificio enorme in quelle condizioni, dicendo: «Tu sei giovane, hai bisogno di cibo. Per rimanere vivo». Grazie alle sue attenzioni e all’aiuto di Dio, ho ricominciato a mangiare: pian piano, la mia salute è iniziata a migliorare. Dopo molti mesi di prigionia, insieme a quell’anziano, sono stato trasferito: prima di andarmene, sono tornato in cella a guardare negli occhi il mio compagno. Era oramai uno scheletro vivente, e sapevo che quella sarebbe stata l’ultima volta che lo guardavo negli occhi. Non lo dimenticherò mai, perché sono arrivato a volergli bene più che ai miei genitori. Quell’uomo mi ha insegnato la volontà, una cosa che i miei non erano stati in grado neanche di raccontarmi. Dopo aver salutato il vecchio, sono stato portato in una stanza. Dentro
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ho visto mio padre, inginocchiato sul pavimento, e ho capito che era stato arrestato insieme a me. Siamo stati costretti a firmare delle carte, in cui giuravamo sotto pena di morte di non rivelare nulla di quello che avevamo visto in carcere e di non cercare mai più di contattare gli arrestati trattenuti all’interno. Era il 29 novembre del 1996.
Subito dopo la firma, siamo stati di nuovo incappucciati e riportati fuori. Ero stato tenuto in una cella sotterranea, senza poter vedere il sole, per sette lunghi mesi. Appena ripreso il passo, le guardie ci hanno condotto in una piazza del Campo, dove si era riunita una grande folla. Riconosco la piazza, dove sono stato costretto ad assistere esecuzioni pubbliche due o tre volte l’anno. Le guardie ci levano le manette e ci fanno sedere nella prima fila: davanti a noi due condannati, un uomo e una donna, vengono trascinati verso il centro della piazza. Più si avvicinano, più mi sembra di riconoscerli: a un certo punto capisco di avere davanti a me mia madre e mio fratello. Questi non si reggeva in piedi, era molto debole: le sue ossa si vedevano chiaramente sotto la pelle. Mia madre sembrava non riuscire a tenersi in piedi, con gli occhi in fiamme. A quel punto, una voce dall’altoparlante ha iniziato a leggere delle accuse che non ri-
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Mia madre venne presa insieme a mio fratello piccolo. Le guardie mi costrinsero a guardare mentre li uccidevano, lui impiccato e lei fucilata
cordo. Se non per le ultime parole: «Chang Hye-kyong e Shin Ha-kun, nemici del popolo, sono condannati a morte». Mia madre è stata impiccata; a mio fratello hanno sparato. Non sono stato in grado di guardare il momento della loro morte: mi sono concentrato su mio padre, guardando le lacrime che gli scendevano dagli occhi. Dopo l’esecuzione, sono stato separato di nuovo dalla mia famiglia: mio padre è stato mandato a costruire un edificio, io sono tornato a scuola.
Ma le cose lì non erano più come prima, per quanto prima non fossero rosee: ora, infatti, ero figlio e fratello di traditori. I maestri mi punivano a ripetizione e senza alcun motivo; gli alunni mi discriminavano. Le guardie arrivavano a non permettermi di usare il bagno. Non ricordo un giorno in cui non abbia sentito una fame lancinante. Una volta, in una pila di sterco di mucca, ho trovato mezza pannocchia di mais: l’ho raccolta, ripulita e mangiata. Quello è stato il giorno più fortunato della mia vita nel Campo, per quanto miserabile possa sembrare. Quello che voglio dire è che questi non sono ricordi lontani di una realtà astrusa: sono cose che nei Campi nordcoreani accadono ogni giorno che passa, anche oggi. Anche ieri.
” I detenuti, cavie di laboratorio
Il regime usa i campi di lavoro per testare nuove armi batteriologiche er quanto sembri tragica, non è una storia solitaria. Anzi, per quanto ne posso sapere io, è il fato dei 60mila prigionieri del mio Campo. Finite le scuole medie, sono stato assegnato a una fattoria con il ruolo di riparatore di macchinari. Nella fattoria lavoravano 2.500 prigionieri, di cui duemila donne. Ogni mese, sette fra le più belle venivano scelte per fare le pulizie negli alloggi degli ufficiali delle guardie: come si può immaginare, questo è uno dei lavori più ambiti dell’intero Campo, perché permette di sfuggire dalle normali violenze del lavoro. Persino le ripetute violenze sessuali erano preferibili a quello che accadeva fuori. Park Yong-chun era una bella ragazza che proveniva dalla mia stessa classe. Se fosse ancora viva, oggi avrebbe 25 anni. Un giorno venne scelta per i lavori di pulizia, e dopo poco tempo rimase incinta. Della ragazza non si seppe più nulla. Questo era il Campo, questo è il Campo anche oggi.Violenza inaudita, punizioni severissime per un nulla, impunità assoluta per le guardie. Il Campo serviva, e probabilmente serve ancora, per fare esperimenti bellici. Un giorno, a metà del 2004, un gruppo di guardie si presentò nelle baracche dormitorio subito dopo la fine del lavoro. Si fecero avanti e chiesero in quale baracca ci fossero più pulci. Queste sono uno dei tormenti peggiori per i detenuti, dato che non si può riposare in un giaciglio infestato. Eppure non ci si può sbarazzare di loro annegandole, perché l’acqua è razionata. Un gruppo di prigionieri si fece avanti e disse: «Noi siamo quelli con più pulci di tutti». Le guardie, allora, dissero: «Ecco, montiamo una nuova cisterna. Lavatevi con quest’acqua e liberatevi di quelle bestie». Loro iniziarono a pulirsi, a bere, a cantare persino. Immediatamente non si vide nulla; ma alcuni giorni dopo, l’acqua divenne color del latte e la pelle dei detenuti prese a puzzare di insetticida. In una settimana, il
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corpo dei miei compagni si è ricoperto di macchie rosse, che hanno iniziato a suppurare. In un mese, non potevano alzarsi dal letto. Dopo la loro morte, un camion pieno di calce venne a prenderli. Un giorno del 2004, venne assegnato alla mia sezione un giovane di nome Park. Giovane prigioniero nordcoreano, divenne ben presto un mio amico: conversando con lui, venni a conoscenza di un mondo che non avevo neanche immaginato: io ero nato e cresciuto nel
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In una settimana, il corpo dei miei compagni si è ricoperto di macchie rosse, che hanno iniziato a suppurare. Sono morti tutti, uccisi dall’acido versato nell’acqua dalle guardie
”
Campo, lui aveva viaggiato per l’Asia intera. Mi raccontava le sue esperienze e io gli spiegavo la sopravvivenza all’interno del lager. Il 2 gennaio del 2005, un gruppo composto da 25 prigionieri, fra cui Park, venne mandato in montagna a fare legna. Io, che oramai ero un veterano della prigionia, venni messo in testa al gruppo. Arrivati in cima, vidi davanti a me il filo spinato che mi separava dal mondo; mi girai e vidi i miei compagni impegnati a raccogliere tronchi. In quel momento, una serie di lampi mi ha attraversato la testa. Ho visto la camera della tortura, il vecchio, mia madre e mio fratello uccisi davanti a me. Insieme a Park, con cautela, ci avvicinammo al filo: io non avevo più paura di nulla, non mi interessava neanche sapere se nel filo spinato c’era o meno elettricità. A un certo punto, di scatto, abbiamo attraversato il filo. Park, però, non era dietro di me: colpito da una guardia alla schiena, era rimasto impigliato nel filo. In quei momenti non sono riuscito a fare altro se non scappare via, e non ne vado fiero. Ma la sensazione di essere nel mondo libero, quella non saprei neanche descriverla. Dopo aver rotto la finestra di una casa, sono entrato per riposare e – non mi vergogno – rubare del cibo. Ho venduto quel cibo e con i soldi ottenuti ho corrotto le guardie di confine per passare in Cina. Non vi dovete stupire: nel mio Paese, con una ciotola di riso puoi ottenere praticamente qualunque cosa. Sono arrivato in Cina dopo aver attraversato il fiume Tumen nel gennaio del 2005. Ho lavorato per un anno, guadagnando 90 dollari americani. Con una parte di quei soldi sono riuscito ad arrivare a Quingdao, e qui ho conosciuto un uomo che veniva dalla Corea del Sud. L’ho implorato di aiutarmi e lui, che non nomino per prudenza, lo ha fatto. Dopo sessanta giorni nel consolato corano a Shanghai sono stato ammesso in Corea con lo status di rifugiato politico. E oggi posso raccontare la mia storia.
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Venticinque Ong, trenta testimoni, una dichiarazione di libertà. Un Summit per risvegliare le coscienze del mondo
Gli invisibili del mondo
Due giorni di sfida all’indifferenza della comunità internazionale. Cina, Iran, Sudan ma non solo: ecco la mappa del terrore ignorato di Vincenzo Faccioli Pintozzi ina, Corea del Nord, Sudan, Iran, Libia, Arabia Saudita… E si potrebbe continuare ancora a lungo, se si volesse stilare la lista completa di coloro che, quotidianamente, violano nel mondo i diritti umani protetti dal potere e dal diritto. Quello che impressiona, sempre di più, è che si tratta delle stesse nazioni che dettano l’agenda dei grandi della Terra, che costringono il mondo occidentale a inchinarsi chiudendo gli occhi davanti alle nefandezze che compiono. Un esempio lampante di questa orribile dicotomia viene da quello che dovrebbe essere il garante mondiale della tutela della democrazia, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Invece di condannare le atrocità commesse dai regimi asiatici e africani, l’emanazione del Palazzo di Vetro ha deciso che si deve trattare con tutti. Ed ecco che il dittatore Ahmadinejad potrebbe presto presentarsi in Svizzera e pretendere un seggio fra i quindici Stati membri che monitorano e in teoria tutelano il rispetto delle norme contenute nella Carta dei diritti approvata alcuni decenni fa.
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Quando il curriculum del suo esecutivo permetterebbe un mandato di cattura internazionale. Lo denunciano i dissidenti interni e gli analisti esterni: il mondo è pieno di mascalzoni. Le colpe sono varie e molteplici: si va dalle detenzioni arbitrarie all’uso della tortura, dalla censura dei mezzi di comunicazione all’eliminazione (in senso lato e letterale) degli oppositori politici. Che reagiscono alle accuse con tecniche diverse: si va dalle dichiarazioni di Pechino – che chiede agli Usa di «smetterla di fare i guardiani al mondo» - alla totale assenza di Mosca, che non commenta e
non dà segni di aver recepito il messaggio, fino ai deliranti proclami del solito Ahmadinejad, che da Teheran difende «l’unico, vero governo islamico (e quindi giusto) del pianeta». L’anno appena concluso è stato però caratterizzato da tre anime: una crescente richiesta di libertà politica e personale, un’uguale pressione contraria da parte dei governi interessati e la conferma che i diritti umani fioriscono soltanto nelle democrazie in cui le società civili hanno voce in capitolo. Per quanto riguarda la Cina, ad esempio, vengono citate la repressione contro le minoranze etniche, la mancata libertà di parola, la censura opprimente e le detenzioni immotivate. Questi rappresentano il segnale di un peggioramento della situazione nel Paese asiatico, che lo scorso anno aveva promesso un miglioramento degli standard interni in materia. E a chi gli chiede lumi, come gli Stati Uniti, sulla questione, il dragone risponde a tono: «Invitiamo gli Usa a riflettere sui loro problemi legati ai diritti umani. Devono smetterla di considerarsi i guarLech Walesa, leader della polacca Solidarnosc, e Vaclav Havel, autore di Charta ’77 ed ex presidente della Repubblica ceca. In alto, immagini di esecuzioni pubbliche all’interno di un laogai cinese. I nuovi campi di lavoro, secondo l’Onu, «non esistono»
Gli storici leader della dissidenza anti-sovietica presiedono il Convegno
Lech Walesa e Vaclav Havel, i “padri nobili” di Ginevra e venticinque Organizzazioni non governative che da due anni portano avanti l’incontro sui diritti umani, la democrazia e la tolleranza di Ginevra lo hanno annunciato con il giusto orgoglio: saranno Vaclav Havel e Lech Walesa i due “co-presidenti” dell’appuntamento di quest’anno. Appuntamento che, sin dalle prime battute, si annuncia ricchissimo: una due giorni di incontri, dibattiti e testimonianze di grande valore. Spiccano quest’anno gli asiatici: Shin Donghyuk, dalla Corea del Nord; Rebiya Kadeer, che guida la resistenza del popolo uighuro all’influsso cinese; Yang Jienli, l’eroe di piazza Tiananmen. Il Summit è stato convocato per l’8 e il 9 marzo, in strategica connessione con la sessione annuale del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Questa coincidenza, dicono gli organizzatori, «offrirà un’opportunità unica ai dissidenti: portare alla luce della ribalta le varie situazioni di intolleranza che animano il mondo». D’altra parte, l’obiettivo del Summit è proprio questo: dare voce alle vittime dei peggiori abusi commessi nel mondo contro i diritti umani, sostenendo coloro che soffrono le repressioni troppo spesso tollerate dalle Nazioni Unite. Secondo un dirigente di Human Rights Watch, Ong presente all’appello, «la situazione dei diritti umani nel mondo va peggiorando. L’Iran, che oggi cerca persino un seggio al Consiglio Onu, con la repressione dell’Onda verde ha dato soltanto l’ultimo degli esempi». Ma la cosa peggiore, aggiunge, «è proprio l’indifferenza non soltanto del mondo, ma delle Nazioni Unite. Gli organismi preposti alla difesa dei diritti umani hanno fallito nel loro scopo e sono divenuti scatole politiche come tante altre. Eppure, la possibilità di fare qualcosa di pratico c’era». La presenza dei due “padri nobili”della dissidenza europea è simbolicamente fondamentale. Un dissidente cinese spiega a liberal: «Walesa e Havel, all’epoca delle loro ribellioni, erano considerati dei traditori della loro patria anche da noi cinesi. Oggi abbiamo capito che enorme sbaglio stavamo commettendo. Sono molto felice che ci siano anche loro, perché il loro esempio può aiutare molti di noi a fare di più».
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Parla Francesco D’Agostino, titolare della cattedra di Filosofia del Diritto: «Bisogna superare il globale e tornare al locale»
«Una nuova religione civile» I valori del diritto naturale devono diventare la nuova Carta del secolo ROMA. Non è un caso che i diritti umani siano stati definiti“l’unica religione civile e globale” del nostro tempo, ma «è impensabile che possa esistere un sistema sovranazionale che ne tuteli in maniera efficace la promozione e il rispetto». È l’opinione del professor Francesco D’Agostino, giurista e presidente onorario del Comitato di Bioetica, attualmente titolare della cattedra di Filosofia del Diritto presso l’università di Tor Vergata dove ricopre anche l’incarico di direttore del Dipartimento di Storia e Teoria del Diritto. Professore, quanto sono importanti i diritti umani per il legislatore italiano e per quello europeo? È chiaro che i diritti umani sono fondamentali. Non a caso, sono stati definiti “l’unica religione civile e globale”del nostro tempo. Su questo non ci possono essere dubbi, perché nessun progetto ideale o ideologico ha mai avuto tanto peso nella storia quanto la proclamazione e la promozione dei diritti umani. Il problema riguarda un’altra questione, e cioè che all’interno del vasto campo dei diritti umani vanno delineandosi due linee divergenti, o forse anche più, di interpretazione. Una linea ha un carattere esplicitamente individualistico, di matrice anglosassone, e sotto un certo profilo ostile a ogni esperienza locale, tradizionale o religiosa. Un’altra linea, che mi sembra oggi minoritaria, è quella che cerca di proclamare – attraverso i diritti umani – l’esistenza di un’etica planetaria condivisa. Quella che i movimenti cattolici definiscono “un’etica fondata sul diritto naturale”, cioè su un diritto pre-confessionale e quindi in qualche modo pre-religioso. In questa prospettiva, naturalmente, la visione individualistica dei diritti umani si riduce ed entra fortemente in gioco la dimensione comunitaria. Ora, queste rivendicazioni – e quelle politicamente più accesa a favore dei diritti – hanno un carattere “politico”: sono cioè popoli, o minoranze all’interno dei singoli Stati, che lamentano la violazione dei diritti. Non sono tanto gli individui: e da questo punto di vista il tema dei diritti umani si sta incatenando con le nuove esigenze di un’etica planetaria globale, che non riesce più ad essere governata
diani del mondo, e di intromettersi con questi pretesti negli affari interni degli altri Paesi».
La Corea del Nord rimane un esempio di violazione ai diritti umani talmente eclatante da non essere necessario neanche dedicarle troppo spazio. Pyongyang, infatti, è talmente autoritaria da non permettere neanche un controllo dei margini della situazione. La questione del rispetto dei diritti umani in quel Paese rimane totalmente ignorata. Fra i pochissimi casi accertati, quello di autorità carcerarie che in prigione uccidono i neonati dei detenuti. Questo perché - secondo l’ideologia del regime – le colpe dei padri ricadono fino alle tre
dal vecchio e tradizionale sistema ottocentesco degli Stati e dell’equilibrio delle potenze. Nel campo dei diritti umani è ancora valido il primato del diritto sulla politica? Anche qui, purtroppo, dovremmo fare un discorso pedante e faticoso. Perché se noi intendiamo per politica una mera gestione del potere in contesti locali determinati, è ovvio che dobbiamo anteporre il diritto alla politica perché il primo è portatore di valori di giustizia – valori assoluti – mentre la seconda è semplicemente portatrice di interessi locali, a volte neanche troppo onorevoli. Se invece intendiamo per politica non un sistema di potere, ma una ricerca del bene comune – secondo quella che è una antichissima definizione, che risale addirittura a Platone – allora è chiaro che non c’è conflitto tra i due fattori. Perché se la politica si muove in ricerca del bene comune avremo sicuramente delle politiche locali, ma ne avremo anche una pla-
generazioni successive. E la testimonianza agghiacciante del giovane Shin Donghyuk, che pubblichiamo nelle pagine precedenti, conferma e peggiora la percezione del tutto. Contro tutto questo, dunque, ecco ergersi il Summit di Ginevra per i diritti umani, la democrazia e la tolleranza. Per il secondo anno di seguito, venticinque Organizzazioni non governative hanno unito gli sforzi per portare in Svizzera i dissidenti più conosciuti del mondo moderno. Per gridare non soltanto contro le violazioni che avvengono in tutto il pianeta, ma anche (e forse soprattutto) contro il mondo occidentale che volge lo sguardo dall’altra parte. Ed ecco che, nella due giorni del Summit, sono pronti ad
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Non è un caso che il diritto naturale sia considerato l’unica religione laica del mondo. È fondamentale per lo sviluppo dell’umanità
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netaria: ne abbiamo un esempio quando si discute dei problemi relativi all’ecologia, problemi altamente politici perché l’inquinamento colpisce tutto il genere umano allo stesso modo. Se non immediatamente, almeno in prospettiva. Allora, se intendiamo la politica come ricerca di questo bene comune, il diritto diventa il migliore fra gli strumenti al servizio di questa. Che non è più settoriale o localistica ma diventa una politica per il genere umano. Credo che in questo momento storico assistiamo a un grande scontro fra questi due concetti di politica, che purtroppo molto spesso vengono
avvicendarsi i principali accusatori di Pechino, Teheran, Pyongyang e Khartoum: chiedere all’Onu di intervenire, dicono, oramai non serve più a nulla. Il motivo di questa inadempienza è abbastanza semplice da capire, ma vale la pena ricordarlo una volta di più: il denaro, che non puzza e aiuta a far scivolare nel dimenticatoio torture, detenzioni arbitrarie e violenze di ogni genere.
Ad aprire le danze, due dei campioni della dissidenza occidentale: Vaclav Havel e Lech Walesa, che distanti (ma non troppo) hanno combattuto entrambi la battaglia contro l’Unione Sovietica. Oggi, lo scacchiere internazionale è diverso: il mondo libero non ha più i confini
confusi. Non dico per ignoranza, ma l’opinione pubblica molto spesso – su questo tema – viene manipolata: si cerca di far intendere che l’interesse settoriale di uno Stato equivale a un interesse planetario. Quindi la dialettica diritto-politica va risanata, attraverso una modifica del concetto stesso di politica. Perché quello di diritto non ne ha bisogno. In questi ultimi anni il mondo si sta semplificando. Eppure, sul tema dei diritti umani si assistono nello stesso blocco a delle crepe e degli scontri preoccupanti. Sarebbe auspicabile la creazione di un organismo di tutela dei diritti sovranazionali? Non esistono tecniche che possano risolvere problemi di portata così ampia. Non esistono istituzioni o nuovi ordinamenti che - come per magia - possano rinnovare il mondo. Il concetto che ha espresso è molto interessante: il paradosso della semplificazione planetaria che si scontra con delle situazioni conflittuali in un mondo globalizzato. E questo perché la crisi dello Stato centralizzato ottocentesco sta ridando fiato, io direi anche giustamente, a interessi e soprattutto a rivendicazioni identitarie molto locali, molto particolareggiate. Che nell’Ottocento venivano soffocate in nome del primato dello Stato-nazione. Quindi, ecco perché poi oggi è nata l’espressione “forzata” della glocalizzazione: cioè, la globalizzazione è l’ipotesi di una unificazione globale del pianeta a livello economico, giuridico e culturale; la glocalizzazione è invece la percezione che, quanto più il pianeta diventa globale, tanto più nascono rivendicazioni identitarie locali. Che però meritano di essere protette, perché l’identità umana si sviluppa più nel locale che nel globale. Allora, quello che noi dobbiamo cercare di capire è che non si arriverà a una giustizia planetaria esaltando soltanto i diritti individuali; bisogna prendere sul serio le istanze collettive, le comunità che hanno una tradizione (storica, linguistica, religiosa) e che proprio per questo meritano rispetto. Il problema è mediare tra le esigenze lo(v.f.p.) calistiche e quelle globali.
netti - e i mercati finanziari - di un tempo, e i blocchi non sono più in contrapposizione. La globalizzazione ha compiuto il suo corso, e il petrolio saudita vale molto di più della dissidenza antiislamica. E viene anche il dubbio legittimo che, ai suoi tempi, l’Occidente abbia agito più sulla spinta del conformismo che dell’ideologia. Forse il piatto in gioco negli anni Ottanta era meno ricco di quanto non lo sia ora, ed era più facile aiutare dissidenti che - dalla nostra ottica - lottavano per il libero mercato. Perché, se così non fosse, vorrebbe dire che gli occidentali hanno abdicato al loro ruolo. Il Summit di Ginevra cerca di smentire questa tesi, e la speranza è che ci riesca.
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Come nella peggiore tradizione delle Nazioni Unite, i numeri prevalgono sul buon senso e non tengono conto dei comportamenti degli Stati membri
Così l’Onu è un ente inutile Malgrado le proteste di Stati Uniti ed Europa, Teheran potrebbe conquistare un seggio in Consiglio, battendo la concorrenza di Qatar, Maldive, Thailandia e Malesia. È il paradosso di un metodo che favorisce le dittature di Osvaldo Baldacci talia e Germania sono state tra le prime ad alzare la voce contro la candidatura beffa dell’Iran al Consiglio Onu dei diritti umani. Cosa ne pensino gli Stati Uniti è immaginabile. Resta il fatto che Teheran potrebbe spuntarla. Era la metà di febbraio. Tra il 9 e il 12 Italia e San Marino, tra gli altri, erano sotto esame davanti al Consiglio Onu per i diritti umani. Per inciso, l’Italia è stata promossa solo con riserva, e il rapporto è stato accompagnato da ben 92 raccomandazioni, vale a dire critiche. Tra gli esaminatori la Cina, Cuba, l’Arabia Saudita, la Russia, Stati africani, asiatici e arabi dalla democrazia giovane e quantomeno faticosa. Negli stessi giorni, per dire, l’ambasciata italiana a Teheran era sotto attacco da parte di miliziani indignati per le accuse di Berlusconi all’Iran. E l’11 febbraio la celebrazione della Rivoluzione Islamica, con la repressione durissima che ancora non è finita. E poi, il paradosso finale: l’Iran, proprio l’Iran, è un candidato favorito per conquistare un seggio nella commissione. Vedere Teheran – peraltro in buona compagnia - che disquisisce delle altrui violazioni dei diritti umani potrebbe fare un certo effetto, e non gioverà certo al prestigio dell’istituzione.
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Basterebbe ricordare che il Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani nasce dalle ceneri della precedente Commissione Onu, creata nel 1946 e protagonista della stesura del testo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Forse l’ultima azione di rilievo storico, perché da allora venne paralizzata - come spesso tutta l’Onu da veti incrociati e interessi di parte. Fino a che Kofi Annan la sciolse con lo scopo di ampliarne i poteri creando un organo con potere decisionale più forte. In realtà lo scioglimento venne anche sull’onda delle critiche all’inefficienza della Commissione, che aveva troppo spesso chiuso gli occhi su tutti i dittatori del mondo, lasciando soli i dissidenti, ed era riuscita persino a darsi la Libia come presidente nel 2003, quando Gheddafi non era ancora stato sdoganato. Il nuovo Consiglio nasce il 15 marzo 2006 con una risoluzione dell’Assemblea Generale ricevendo l’appoggio di 170 Paesi su 191.
Votarono contro gli Stati Uniti, le Isole Marshall, Palau, ed Israele, si astennero Venezuela e Bielorussia, e proprio l’Iran che oggi vuole un posto. La composizione del Consiglio passò dai vecchi 53 membri a 47 eletti dall’Assemblea Generale con rotazione triennale. Nella risoluzione si dice che i «membri eletti al Consiglio devono promuovere, proteggere e alzare a standard più alti di diritti umani». Più o meno proprio quello che stanno facendo anche oggi suoi membri eminenti come Cuba (dove è appena morto in carcere un dissidente dopo uno sciopero della fame) e Cina (sui cui processi ai dissidenti c’è poco da aggiungere), o candidati come l’Iran. D’altro canto in questi quattro anni il Consiglio per i diritti umani si è già “distinto” nella sua attività: dal 2006 ha lanciato 33
L’organismo nasce dalle ceneri della precedente Commissione, creata nel 1946 e protagonista della stesura del testo della Dichiarazione Universale sui diritti dell’uomo Il presidente iraniano Ahmadinejad e, sotto, al Bashir. In alto, il Consiglio Onu per i diritti umani. Nella pagina a fianco, Roberta Angelilli
condanne, di cui sei riguardano Myanmar e Corea del nord, e ben 27 contro Israele. Zero per Iran, Cina, Sudan, Cuba, Zimbabwe e via discorrendo. È una tradizione dell’Onu, dove spesso i numeri prevalgono sul buon senso e non tengono alcun conto della realtà dei membri. A prescindere da qualsiasi criterio di merito: il Paese più piccolo vale quanto il più grande, quello meno democratico quanto il più avanzato, il meno sviluppato quanto il più potente. Potrebbe sembrare un positivo tributo al principio di uguaglianza, in realtà è un paradosso. Accentuato dalle contingenze storiche attuali. Le democrazie limitate e gli Stati autoritari sembrano essere molti di più delle democrazie mature. E anche i Paesi che hanno conquistato di recente una fragile democrazia appaiono traballanti di fronte da un lato ai problemi e alle tentazioni interne, dall’altro alle pressioni dei Paesi più forti, spesso autoritari. A questo si aggiunga l’esistenza di blocchi regionali precostituiti. Ad esempio i Paesi islamici sono moltissimi, mentre Israele è uno solo.
In questo contesto non può stupire più di tanto che l’Iran ambisca a un seggio tra chi giudica l’applicazione dei diritti umani. D’altro canto Teheran è già uno dei 36 membri del direttivo del Programma Onu per lo Sviluppo, membro del direttivo del World and Food Program, dell’Unicef, della Commissione narcotici dell’Onu. Teheran vanta molti amici: chi per comune opposizione all’Occidente (Cuba e Venezuela tra gli altri), chi per comunanza di affari, chi per so-
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Parla il vicepresidente del Parlamento europeo, Roberta Angelilli
«Sui diritti umani, l’Europa deve avere una sola voce»
«Abbiamo tutti gli strumenti legislativi necessari per agire, ma troppo spesso non li utilizziamo per convenienza o ipocrisia»
lidarietà islamica (e sono decine), chi per timore, chi per scarso interesse verso i diritti umani. L’Iran non gode davvero delle simpatie dei Paesi arabi, ma questi spesso preferiscono giocare la loro rivalità su altri terreni, senza provocare il gigante mediorientale anche su una questione “secondaria” come i diritti umani. Possibile quindi che a maggio, quando si voterà, l’Iran riesca a ottenere uno dei quattro posti che spettano all’Asia, spuntandola su Qatar, Maldive, Thailandia e Malesia.
A poco quindi sembrano servire le proteste occidentali. L’Italia con Francia ed altri già in febbraio ha levato la sua voce contro la candidatura iraniana all’Onu, e in settimana ha protestato anche la Germania. Proteste che non hanno portato a nulla: il petrolio iraniano continua a pesare troppo sulla bilancia commerciale, e la crisi economica non perdona nessuno. Stati Uniti ed europei stanno lavorando a dure sanzioni per il caso nucleare che potrebbero paradossalmente arrivare in contemporanea all’elezione di Teheran nel Consiglio. Così come si discute di condanne internazionali per la repressione dell’opposizione e proprio per la violazione di diritti umani. Ma per un seggio questo è ininfluente. Come non contano le 440 condanne a morte ufficiali nell’anno persiano (che inizia il 21 marzo), né le decine di giornali chiusi, gli almeno mille arresti di oppositori negli ultimi due mesi, il rifiuto rivolto all’Onu sulla liberazione dei detenuti politici e il diniego a collaborare contro la tortura. Ma anche questa – a volte - è l’Onu.
ROMA. L’Europa «ha gli strumenti legislativi per dare il giusto valore ai diritti umani. Ma purtroppo, per ipocrisia o convenienza, sceglie molto spesso di non usarli. Tutto questo deve cambiare, con l’approvazione del Trattato di Lisbona, per dare una nuova speranza a chi tratta con l’Unione». Roberta Angelilli, vice presidente del Parlamento europeo, è una delle figure politiche con più esperienza in campo comunitario. Al suo quinto mandato consecutivo, conosce molto bene la diplomazia internazionale e i limiti che si auto-impone per continuare a fare affari con chi, come la Cina, fa a pezzi ogni giorno la Carta dei diritti umani delle Nazioni Unite. Una situazione che, spiega a liberal, «nasce da convenzioni ipocrite che vanno cambiate. Se necessario, con la riforma del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite». Presidente, il Parlamento europeo dimostra sempre molta attenzione per i diritti umani. Eppure, l’Europa sembra non riuscire a parlare con una voce unica contro le violazioni ai diritti dell’uomo che avvengono in tutto il mondo. È un problema di “gioventù” dell’Unione o è una questione strutturale dei Paesi membri? Da poco tempo abbiamo qualche speranza in più di parlare con una voce sola, perché con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona abbiamo un Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari esteri, la baronessa Ashton. Questa figura dovrebbe avere anche la pretesa di poter parlare a nome dei ventisette Stati membri per quanto riguarda le relazioni internazionali, soprattutto rispetto alla difesa e all’affermazione dei diritti umani. Tant’è che lo scorso 24 febbraio il Parlamento ha approvato una vera e propria risoluzione sulla sessione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, dopo un intervento in Emiciclo della stessa Ashton. Il Summit internazionale per i diritti umani, la tolleranza e la democrazia si svolge proprio nell’edificio che si erge al fianco di quello che ospita il Consiglio per i diritti umani dell’Onu. Molti dissidenti sottolineano che la scelta non è casuale e accusano il Consiglio di non fare nulla in difesa della democrazia. È d’accordo con questo giudizio? Io credo che sia un giudizio certamente duro, ma anche realistico. I dissidenti non hanno la necessità di essere troppo diplomatici e quindi neanche un po’ ipocriti, come invece a volte
succede nell’ambito della diplomazia internazionale. Nelle risoluzioni che stiamo elaborando nel Parlamento europeo, però, questa criticità emerge tutta: che ci siano dei problemi credo sia chiaro a tutti. Quindi l’idea di orientarsi verso una riforma del Consiglio è diventata ormai una priorità. L’Europa ha delle linee guida sui diritti umani, sulla carta, molto solide. Ma queste sembrano decadere quando si parla di accordi commerciali con la Cina. Non sarebbe il caso di essere più duri con Pechino?
“
Dobbiamo essere più duri con la Cina.Il mancato rispetto della Carta Onu dovrebbe annullare gli accordi commerciali
”
Sarebbe senz’altro il caso, perché quello cinese è un caso emblematico. Noi abbiamo delle indicazioni molto chiare sugli accordi commerciali, che ovviamente prevedono il rispetto dei diritti umani nei Paesi con cui si stipulano. Si tratta di un principio essenziale nelle relazioni fra le parti, quando si parla di accordi. Il mancato rispetto dei diritti umani dovrebbe comportare l’annullamento di questi rapporti, che l’Unione stipula con Paesi terzi. Ma in realtà ci sono delle eccezioni, e la Cina è una di queste. Fa eccezione in nome di quella ipocrisia di cui parlavo prima, perché evidentemente è un partner economico a questo punto troppo importante – anzi, in alcune questioni arriva a dettare legge – e quindi è difficile stabilire un approccio troppo rigoroso. Da questo punto, poi, si trovano delle vie di fuga al prin-
cipio espresso prima. Ma, chiaramente, il Parlamento europeo come organo sopranazionale dovrebbe invece avere il coraggio di parlare con una voce unica e concordare con gli Stati membri una politica di coerenza nei confronti di chi viola i diritti umani. Tra l’altro, dal primo dicembre siamo più vincolati al rispetto dei diritti dell’uomo: con l’entrata in vigore di Lisbona, anche la Carta europea dei diritti fondamentali è di fatto diventata legge. Siamo più vincolati, rispetto a un obiettivo di piena democrazia: all’interno dell’Unione ma anche all’esterno. Rispetto alla realtà italiana, abbiamo difficoltà ad emergere sul piano internazionale. E all’interno del nostro Paese sembra molto bassa l’attenzione nei confronti dei diritti umani. Eppure, i dissidenti che si riuniscono a Ginevra guardano all’Europa e all’Italia con molta speranza. Come spiega questa apparente contraddizione? L’Italia, che pure da un punto di vista dei valori è una delle nazioni europee più coinvolta rispetto alla difesa dei diritti umani, sullo scenario internazionale non riesce ad affermare delle posizioni forti. Non è un caso che abbiamo dovuto lottare per avere D’Alema come rappresentante estero dell’Unione, ma abbiamo purtroppo fallito. Questo io credo che derivi dal fatto che il “sistema Italia”, tradizionalmente, non ha investito molto nell’acquisizione e nella valorizzazione di ruoli importanti a livello internazionale. Quando li ricopriamo, facciamo fatica a raggiungere degli obiettivi. Con la svolta di Lisbona, qual è la strada che l’Europa deve seguire per trasformare in realtà i valori espressi dai diritti umani? Credo che, dopo l’approvazione del Trattato, abbiamo oggi tutti gli strumenti legislativi e gli ingredienti per poter parlare con una sola voce anche nell’ambito dei diritti umani. Abbiamo tutte le premesse anche per far rispettare gli accordi. Certo, è fondamentale che a questa infrastruttura legale si unisca anche la volontà, soprattutto politica e della diplomazia internazionale, di non trovare sempre delle eccezioni (come avviene per la Cina e non solo) in nome di una serie di convenienze ammantate di ipocrisia che poi mettono in dubbio il valore dei nostri pronunciamenti. Il Parlamento europeo ne fa tantissimi, quasi ogni sessione, su ogni argomento di interesse in materia. Ma queste belle enunciazioni si perdono strada facendo. (v.f.p.)
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L’inchiesta. Il leader laburista di fronte alla commissione serra i ranghi del partito a guerra all’Iraq di Saddam Hussein «fu una scelta giusta adottata per ragioni giuste». Chi si aspettava una presa di distanze, un distinguo dalle posizioni espresse il 29 gennaio scorso da Tony Blair di fronte a quella stessa commissione d’inchiesta presieduta da sir John Chilcot, è rimasto deluso. Anche Gordon Brown, attuale premier britannico e, all’epoca, ministro dell’Economia, ha difeso senza esitazioni l’operato del governo di Londra in tutte le fasi che portarono al conflitto ed anche nella sua conduzione. Le elezioni politiche del 6 maggio si avvicinano e Brown ha corretto la sua strategia. Finora sembrava tentato di attribuire a Tony Blair la responsabilità di una guerra che ha fatto perdere consensi al partito laburista. Ma adesso che i sondaggi rivelano segnali di ripresa nel confronto con i conservatori - comunque ancora favoriti ha preferito evitare polemiche interne che avrebbero potuto avere il sapore amaro di una faida, di un regolamento di conti ancora prima del verdetto delle urne.
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Per prima cosa Gordon Brown ha reso omaggio ai caduti, ai feriti e alle vittime civili, ma poi ha respinto tutte le critiche. Anche quelle, che più lo riguardavano da vicino, sui tagli imposti al settore della Difesa nel 2004, quando i militari del Regno Unito erano già impegnati su due fronti: l’Afghanistan e l’Iraq. Alla vigilia dell’audizione, l’ex capo delle forze armate britanniche, il generale lord Guthrie of Craigiebank, aveva detto al Times che Brown «non finanziò l’esercito quanto quest’ultimo aveva chiesto» e che questa decisione «è costata la vita di diversi soldati». Anche altri giornali - in particolare il
Iraq, Brown si allinea e risale nei sondaggi «La guerra a Saddam? Una scelta giusta» Il premier ora pensa al voto del 6 maggio di Enrico Singer
cuna intenzione di scaricare le proprie responsabilità e di alimentare polemiche. Anche sulle ragioni che portarono all’attacco. Il premier non ha tanto insistito sulla questione della veridicità dei rapporti di intelligence sulle armi di distruzione di massa in mano all’Iraq, quanto sul «rifiuto di Saddam Hussein
Per i bookmaker di Londra i conservatori sono ancora in vantaggio, ma il partito laburista è in rimonta. E Gordon ricomincia a sperare Telegraph - avevano messo in dubbio il grado di convinzione con cui l’allora cancelliere dello Scacchiere appoggiò la decisione di Blair di lanciare l’invasione. Durante le udienze precedenti, alcuni ex funzionari del governo avevano assicurato che l’attuale premier aveva numerose perplessità. Altri, al contrario, come l’ex ministro della Difesa, Geoff Hoon, lo avevano definito «una figura chiave nella decisione che portò alla guerra». E ieri Gordon Brown ha dimostrato di non avere al-
di rispettare il diritto internazionale» che fu la vera molla che fece scattare l’intervento militare.
Ma la buona notizia per Brown è quella che arriva dai bookmaker di Londra che, tradizionalmente, sono più precisi dei sondaggisti nelle loro previsioni. Gary Burton, portavoce di Coral, una delle principali case di scommesse del Regno Unito, ha spiegato che le quote sui laburisti si sono dimezzate dall’inizio dell’anno, da 8/1 a 4/1. Ancora nettamente favo-
Il libro uscirà in settembre per evitare polemiche
E Blair ritarda le memorie arà pubblicato soltanto a settembre il libro di memorie scritto da Tony Blair sui dieci anni passati come primo ministro a Downing Strett. Lo ha annunciato la casa editrice Hutchinson che pubblicherà il volume, intitolato The Journey (il viaggio) che è già pronto e che, tecnicamente, avrebbe potuto essere nelle librerie già in aprile. La scelta del rinvio sembra fatta apposta per evitare che alcune rivelazioni dell’ex premier laburista possano danneggiare il suo successore, Gordon Brown, nella campagna elettorale per le prossime consultazioni legislative che si terranno il 6 maggio. L’attuale primo ministro e il suo predecessore sono stati acerrimi rivali negli anni in cui Gordon Brown era mi-
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nistro delle Finanze e c’è chi sostiene che alcune parti delle memorie di Tony Blair potrebbero essere esplosive. «Ho cercato di scrivere un libro che descrivesse sia le dimensioni umane che quelle politiche della vita di un primo ministro», ha detto il 58enne ex premier britannico che ha lasciato la guida del governo nel 2007 dopo aver condotto il Partito laburista al record di tre consecutive elezioni vinte. Blair ha scritto il libro di suo pugno, senza l’aiuto di alcun autore. Secondo le aspettative della casa editrice, il libro potrebbe fruttare all’ex premier che nei prossimi mesi sarà impegnato in un tour di presentazione sia in Gran Bretagna che all’estero - fino a cinque milioni di sterline.
riti sono i conservaori che sono quotati 1/7 (si vincono 10 sterline per ogni 70 puntate), ma il partito di David Cameron è in calo perché all’inizio dell’anno la sua quota era assestata addirittura a 1/20. Anche Betfair, principale sito di scommesse tra utenti al mondo, ha corretto le proprie quote che sono determinate unicamente dalle puntate dei giocatori. Il dato più interessante è quello relativo alla possibilità che nessun partito ottenga da solo la maggioranza assoluta, un’ipotesi quotata a poco più di 2/1. Sono previsioni che concordano con quelle dei più recenti sondaggi che assegnano sempre la maggioranza relativa ai conservatori, ma che dipingono un Parlamento sostanzialmente diviso dove, per la scelta del prossimo inquilino di Downing Street, potrebbe essere decisivo l’appoggio delle formazioni minori.
Spinto dai sondaggi, Gordon Brown appare ansioso di archiviare le polemiche sulla guerra in Iraq per concentrarsi sui temi di politica interna. Come la criminalità. Gli attacchi al rivale David Cameron sui tagli della spesa pubblica - anche quella per la sicurezza - hanno portato a una riduzione del consenso per i Tories. Anche perché il New Labour potrebbe avvantaggiarsi del sistema elettorale uninominale dove, più che il totale dei voti, contano quelli ottenuti in ogni singolo collegio. L’incertezza delle previsioni sulla consultazione sta mettendo in difficoltà anche i mercati. La riduzione del vantaggio dei conservatori e, soprattutto, il timore di un Parlamento privo di una maggioranza chiara, hanno provocato un crollo della sterlina, precipitata a quota 1,4780 rispetto al dollaro: meno 3 per cento e livello minimo degli ultimi nove mesi. Il rischio di un Parlamento diviso è stato confermato anche da un esperto molto quotato in Gran Bretagna come John Curtice, professore di scienze politiche all’Università di Strathclyde, che ha espresso al Guardian previsioni clamorose. Utilizzando gli ultimi sondaggi - lasciando, quindi, ai conservatori un vantaggio in termini di voto popolare Curtice ipotizza un Parlamento in cui la maggioranza relativa rimarrà ai laburisti con 294 seggi. Ai Tories ne andrebbero 277, ai liberaldemocratici 46 e ad altre piccole formazioni 33. Una situazione che potrebbe incoronare ancora Brown. Che riprende a sperare.
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La tensione alle stelle dopo la preghiera: 60 feriti
Ankara richiama l’ambasciatore americano: «Ora basta»
Gerusalemme, ancora scontri nella spianata delle moschee
Turchia-Usa continua lo scontro sul genocidio
GERUSALEMME. Sono una ses-
ANKARA. La Turchia ha richia-
santina i feriti a Gerusalemme negli scontri tra palestinesi e polizia israeliana sulla Spianata delle moschee di al-Aqsa al termine della preghiera del venerdì. Il portavoce della polizia Shmulik Ben Rubi ha spiegato alla radio militare israeliana che i musulmani stavano lanciando sassi contro gli ebrei che si erano riuniti per pregare davanti al Muro del pianto, che si trova proprio sotto la Spianata delle moschee. Unità antisommossa della polizia sono intervenute nella Spianata delle moschee sotto una sassaiola, alla quale hanno risposto con gas lacrimogeni. Le forze di sicurezza israeliane riferiscono di almeno sei poliziotti medicati per ferite leggere e un’altra dozzina di agenti contusi.
mato il suo ambasciatore negli Stati Uniti «per consultazioni» e condanna la risoluzione di una Commissione parlamentare Usa, che qualifica come “genocidio” il massacro degli armeni durante la Prima guerra mondiale. Fra Washington e Ankara è crisi diplomatica e nemmeno l’intervento dell’amministrazione Obama, che aveva chiesto di non approvare la risoluzione, è servita per abbassare i toni. In un comunicato ufficiale, il governo di Ankara condanna «questa risoluzione che accusa la nazione turca di un crimine che non ha commesso». Il documento prosegue avvertendo che «in seguito a questo incidente, il nostro am-
Incidenti simili erano già avvenuti domenica scorsa dopo la decisione del governo di Tel Aviv di includere due luoghi in Cisgiordania nella lista di siti da tutelare del patrimonio storico-culturale israeliano ha fatto aumentare la tensione tra i palestinesi. Si tratta della Tomba dei Patriarchi a Hebron e della Tomba di Rachele a Betlemme, sacri sia per gli ebrei sia per i musulmani. Altri disordini sono scoppiati successivamente in diverse città della Ci-
Teheran pretende il rilascio dei trafficanti Coinvolto anche un anchorman iraniano a Roma di Pierre Chiartano empre più alta la tensione tra l’Iran e l’Italia dopo l’arresto di due cittadini iraniani nell’ambito di un’inchiesta su un presunto traffico di armi.«L’ambasciatore d’Italia Alberto Bradanini è stato convocato giovedì sera al ministero degli Affari esteri per spiegarsi sulle ragioni di questi arresti», ha indicato il portavoce della diplomazia iraniana, Ramin Mehmanparast, citato da diverse agenzie stampa locali. «Le informazioni pubblicate a riguardo mostrano un nuovo gioco destinato a creare digressioni ed ambiguità». «Seguiamo seriamente la vicenda – ha aggiunto il portavoce – in attesa che il Bradanini dia delle giustificazioni». I due cittadini iraniani, considerati agenti segreti e arrestati due giorni fa a Milano, sono sospettati di traffico d’armi a destinazione Iran, in violazione all’embargo internazionale. Con loro sono stati arrestati anche 5 italiani. Altri due iraniani, oggetto di un mandato d’arresto nella stessa inchiesta, si trovano attualmente in Iran, secondo quanto spiegato dal procuratore antiterrorismo Armando Spataro, che non ha voluto fare ulteriori commenti sull’operazione. In totale, la giustizia italiana ha spiccato nove mandati d’arresto «per associazione a delinquere finalizzata all’esportazione di armi verso l’Iran in violazione dell’embargo internazionale». Il traffico sarebbe in corso dal 2007, basato su un «sistema triangolare» che coinvolge anche altri Paesi europei, come la Germania, la Gran Bretagna, la Svizzera e la Romania. Il materiale sequestrato dimostra come l’obiettivo fosse l’acquisizione di materiale abbastanza sofisticato, dai mirini di ultima generazione a equipaggiamento aeronautico. La varietà e la qualità delle dotazioni militari farebbe pensare a un tender illegale, una specie di mandato all’acquisto dove e come possibile viste le norme sempre più stringenti cui sono sottoposti i traffici con Teheran. La televisione di Stato iraniana ha affermato ieri che si tratta di una «una nuova messa in scena dell’Italia contro l’Iran» che «fa parte del piano
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americano-sionista di accusare ingiustamente la Repubblica islamica». L’emittente ha accusato anche le catene satellitari arabe Al Arabiya e Al Jazeera di essere «entrate in campo per dare una mano alla nuova grande ondata di bugie contro l’Iran» nei loro servizi dedicati all’inchiesta di Milano. Il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini ha subito risposto: «in italia la Magistratura è indipendente».
«Respingo con fermezza qualunque insinuazione iraniana sull’ uso strumentale dei recenti arresti da parte della Magistratura italiana». Così il ministro degli Esteri ha replicato alle dichiarazioni arrivate dall’Iran. «L’Italia si fonda sulle regole e sui principi dello Stato di diritto, in base ai quali la magistratura è indipendente dal potere esecutivo – ha aggiunto il ministro – gli arresti effettuati hanno coinvolto cittadini iraniani ed italiani nel quadro dell’ inchiesta sul traffico di armi e per violazioni delle norme internazionali». «A tutti gli imputati verrà ovviamente garantito il pieno diritto di difesa e l’ assistenza legale in tutte le fasi del processo – ha poi concluso -– verranno altresì garantite condizioni di vita pienamente rispettose dei diritti della persona nella fase di detenzione». L’Iran intanto ha chiesto l’immediato rilascio dei due suoi cittadini. I due iraniani arrestati, insieme a cinque italiani, sono Hamid MasoumiNejad, 51 anni, giornalista della televisione iraniana accreditato da anni presso la sala stampa estera a Roma, e Ali Damirchilu, di 55 anni, arrestato a Torino. Gli inquirenti hanno fatto sapere che altri due iraniani risultano latitanti. «Masoumi Nejad, che da molti anni era corrispondente dell’Irib in Italia – si legge sul sito della Tv – aveva sempre cercato di raffigurare nei suoi resoconti le verità della nazione Italia e per questo negli ultimi mesi era stato più volte richiamato dalle autorità italiane». Nejad è un volto abbastanza familiare nell’ambiente della stampa estera romana e sarebbe grave fosse stato utilizzato dal Vevak, l’intelligence di Teheran.
I due arrestati ieri sono Hamid Masoumi-Nejad, giornalista accreditato della tv di Stato, e Ali Damirchilu
sgiordania. Fonti mediche segnalano un ragazzo palestinese rimasto ferito gravemente da un proiettile di gomma a Nabi Saleh, un sobborgo di Ramallah. Secondo un testimone la polizia israeliana ha un certo punto ha respinto i dimostranti nella moschea di al Aqsa e poi ha chiuso i cancelli. Rosenfeld, portavoce della polizia, ha difeso l’operato degli agenti affermando che «non sono assolutamente entrati nella moschea, non hanno usato pallottole di gomma ma solo granate di gas lacrimogeni». Il portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas, ha condannato comunque la polizia israeliana per essere entrata nell’area della moschea.
basciatore a Washington, Namik Tan, è stato richiamato ad Ankara per consultazioni». La Turchia non esclude l’ipotesi di ritorsioni verso gli Stati Uniti nel futuro immediato.
All’origine dello scontro fra Stati Uniti e Turchia l’adozione di una risoluzione, approvata ieri con una maggioranza di 23 voti favorevoli e 22 contrari, da parte della commissione Affari esteri della Camera dei rappresentanti Usa. Essa qualifica come “genocidio” il massacro degli armeni compiuto dall’Impero ottomano fra il 1915 e il 1917. L’amministrazione Obama era intervenuta alla vigilia del voto, chiedendo alla Commissione di non approvare il documento per non avvelenare i rapporti con la Turchia. Poco meno di un anno fa, il presidente Usa aveva ricordato il massacro del popolo armeno, ma aveva evitato con cura di usare la parola “genocidio”, invisa ai turchi. La risoluzione, di contro, invita il presidente Usa a «definire in modo preciso lo sterminio sistematico e deliberato di un milione e 500mila armeni», che altro non è se non “un genocidio”. Ankara non nega siano state commesse “atrocità” durante la Grande guerra. Tuttavia esse «sono state parte del conflitto».
spettacoli
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Los Angeles. I loro due film si contendono le statuette più prestigiose in quella che si annuncia una edizione storica (e anche molto pubblicizzata)...
La sfida di Lady Oscar Stanotte l’assegnazione dei Premi. Forse qualche sorpresa nell’atteso duello tra la Bigelow e l’ex marito Cameron di Alessandro Boschi on saranno Buster Keaton e Charlie Chaplin, ma come rivali anche loro due non sono niente male. Alla vigilia della notte degli Oscar Kathryn Bigelow e James Cameron rischiano infatti di monopolizzare l’attenzione dei media con una sfida che solo a causa di un dettaglio, il loro divorzio, non si può definire una sfida in famiglia. I loro due film, The Hurt Locker per la di lui ex moglie e Avatar per il di lei ex marito si contenderanno le statuette più prestigiose in quella che si annuncia una edizione storica. Avatar è il film che sta stracciando tutti i record di incasso, affondando anche quello di Titanic che lo stesso Cameron non solo diresse ma produsse e sceneggiò. The Hurt Locker è invece una introspezione negli abissi psicologici dei soldati che finiscono con il subire il fascino del rischio della morte.
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Questo per dire le prime due cose che ci vengono in mente pensando a queste due pellicole: gli incassi da una parte e la ricerca introspettiva dall’altra. È evidente che si parte da due concetti di cinema diametralmente opposti. Avatar è destinato a rivoluzionare gli standard degli effetti speciali. Il suo 3D non è il 3D che ti aspetti. È qualcosa di più. The Hurt Locker indaga la dipendenza dalla morte. Curiosamente, molto curiosamente, questo film è stato definito “fascistoide” e “guerrafondaio”. In realtà il messaggio, semplice nella sua potenza, è che morire è molto più facile che vivere. La critica è bella perché è varia. Avatar rappresenta la metafora delle metafore. È un film in cui è possibile vedere tutto: razzismo, lotta ecologica, colonialismo e tutto quello che ti viene in mente. Si ha come la sensazione che Cameron per questo film, che come dicevamo rappresenta, piaccia o no, un salto cinematografico in avanti come quello già compiuto con Terminator, abbia voluto
raccontare in fondo la più semplice delle storie sfrondandola da letture complicate poco adatte alla grandiosità del mezzo. Il cinema è metafora, sembra dire, non dimenticatelo, non serve chissà che storia, serve solo raccontarla (e farla vedere) bene.
James Francis Cameron e Kathryn Bigelow sono stati sposati in realtà solo due anni, e viene da pensare nella più
trambi finiremmo sempre con lo scegliere un piccolo prodotto realizzato dalla Bigelow, il suo secondo lungometraggio in assoluto initolato Near Dark, in italiano Il buio si avvicina.Trattasi di una storia di vampiri. Solo molto più intelligente e affascinante di tutta la saga di Twilight. Rispetto alla quale avrà incassato sì e no un milionesimo. Ma tant’è. Se siete appassionati del genere cercate di recuperarlo. Vi
Le pellicole hanno ben sette candidature in comune: miglior regia, fotografia, montaggio, colonna sonora, miglior sonoro e montaggio sonoro abietta delle letture pseudo psicologiche che due personalità così forti non potevano finire che con il separarsi. Ciononostante il loro sodalizio proseguì, con lui produttore e lei regista, regalandoci Strange Days, notevolis-
simo racconto fantascientifico ricco di sorprese e decisamente valorizzato dal sempre bravissimo Ralph Fiennes. Il che non gli impedì di essere un clamoroso flop al botteghino. Ad essere sinceri, e non è certo l’avvenenza di lei a suggerirci questa presa di posizione, dovendo mettere insieme i film di en-
sarà utile per capire il percorso di questa fantastica regista che non ha mai smesso di misurarsi con se stessa alla ricerca anche lei come il marito, ma in maniera totalmente diversa, di spostare il proprio limite in avanti. Entrambi hanno dimostrato una forte coerenza con quella che è la loro cifra narrativa sin dagli inizi. La Bigelow ha cominciato con The loveless, suo primo “lungo”, ambientato nella America degli anni Cinquanta con protagonisti dei motociclisti. Le atmosfere della provincia ma soprattutto l’azione hanno in qualche modo continuato a far parte del suo cinema. A partire da Il buio si avvicina fino a Blue Steel e Point Break. Per uno che invece ha avuto come punti di riferimento film come 2001 Odissea nello spazio e Guerre stellari l’approdo non poteva che essere una fantascienza sì, ma d’azione: Terminator, Aliens e, infine, Avatar.
Già da adesso è facile prevedere che come ai tempi di Coppi e Bartali la notte degli Oscar ci sarà chi farà il tifo per l’uno o per l’altra. Quello che è certo è che entrambi i film sono pia-
Qui a sinistra, un fotogramma del film “The Hurt Locker” e uno di “Avatar”, rispettivamente di Kathryn Bigelow (in basso a destra) e James Cameron (in basso a sinistra). I due registi, che nella vita sono divorziati, si contendono ben sette nomination agli Oscar, che verranno assegnati stanotte
ciuti agli ex coniugi, i quali non fanno altro da tempo che incensarsi a vicenda. Atteggiamento questo tipicamente hollywoodiano: tutto è fantastico e tutti sono bravissimi e meritano di vincere. In realtà Cameron ha anche aggiunto che il riconoscimento per Kathryn sarebbe il giusto premio per una carriera che lui considera straordinaria.
Certo, se a decidere dovessero essere gli incassi non ci sarebbe storia. Sulla qualità però si potrebbe anche discutere. D’altra parte il regista di Terminator non tiene molto conto di certi giudizi e l’avere vinto nel 1985 un Razzie Award per la sceneggiatura di Rambo II non ha minimamente scalfito il suo gigantesco ego. Va detto pure che Cameron è anche titolare di una sceneggiatura di Spiderman che a parere di molti fan dell’Uomo ragno è decisamente migliore di quella di Sam Raimi. Ma vediamo in quali categorie i due rischiano di scontrarsi: innanzitutto in quelle principali della migliore regia, del film. Poi nella fotografia, montaggio, colonna sonora, miglior sonoro e montaggio sonoro. Ben sette
candidature in comune. The Hurt Locker ha inoltre la candidatura come miglior attore, Jeremy Renner e sceneggiatura originale (Mark Boal). Avatar ha invece ottenuto quelle per la scenografia ed effetti speciali. Chissà se i sorrisi dei due contendenti rimarranno tali durante la tanto attesa notte di Los Angeles. O invece si tramuteranno in ghigni di dolore. Di fatto questa edizione degli Academy Awards passerà alla storia come quelle che qualcuno ha già definito “the battle of exes”, la battaglia degli ex.
Una considerazione per chiudere. È molto personale, e riguarda il disappunto con il quale stiamo costatando che da noi nessuno ha ancora comprato i diritti per distribuire un film bellissimo come Precious, di Lee Daniels. Speriamo che lo facciano dopo che Mo’Nique, candidata come migliore attrice non protagonista, si sarà aggiudicata un Oscar che considerate le altre concorrenti non dovrebbe proprio sfuggirle. Ma confidiamo che non sarà il solo, avendo Precious altre cinque importanti candidature.
spettacoli
6 marzo 2010 • pagina 21
Negli Usa, tra Iraq e Afghanistan, mai come adesso il genere è di stretta attualità
Gli Stati Uniti e l’arte di raccontare la guerra
Il rapporto tra la cinematografia americana e il tema dei conflitti, da Platoon a Il cacciatore, approdando ad Avatar e The Hurt Locker di Anna Camaiti Hostert ar is a drug» ha scritto Chris Hedges, corrispondente di guerra per il New York Times. Su questa affermazione è costruita sia la sceneggiatura di Mark Boal, giornalista embedded con le squadre di artificieri dell’esercito americano durante guerra in Iraq, sia il film The Hurt Locker di Kathryn Bigelow. Il giornalista, prima della collaborazione con la regista americana, ha scritto la sceneggiatura di un altro film di guerra, La valle di Elah, con Tommy Lee Jones nel ruolo di un militare in pensione che tenta di risolvere il mistero della morte del figlio appena tornato dall’Iraq.
«W
Che il giornalista e la regista abbiano fatto un lavoro magistrale è testato dalle parole di uno dei più grossi critici cinematografici d’America, Rogert Ebert, il quale scrive: «Davvero i due sanno ciò che stanno facendo. Il film infatti si infiltra (embeds; il termine inglese gioca sul doppio significato di “embedded” che si applica sia ai giornalisti che si muovono all’ombra dell’esercito americano in Iraq, sia al suo significato reale di penetrazione) nella mente di ognuno di noi. Quando finisce non sono state dette molte parole, ma noi abbiamo un’idea abbastanza chiara del perché James ha un bisogno irrefrenabile di disinnescare bombe... Certamente James di tanto in tanto agisce in modo spericolato, affronta il rischio in modo audace anche nell’uso della tuta che lo protegge. Ma nel suo mestiere è attento come se operasse sul suo stesso cuore. Bigelow crea un meccanismo generatore di vera suspense. Non ci sono falsi allarmi... La suspense è reale». Il film candidato al premio Oscar è concorrente di Avatar, altro film di guerra, diretto dall’ex marito di Bigelow, James Cameron, che tuttavia sposta le vicende belliche nello spazio di un nuovo pianeta dal nome singolare di Pandora. Ambedue i film toccano un tasto dolente per gli Stati Uniti, ora che hanno due fronti di guerra aperti: uno in Iraq e uno in Afghanistan. Il tema è scottante e doloroso allo stesso tempo e fin dai tempi della seconda guerra mondiale questo genere cinematografico è stato controverso e contraddittorio, diviso tra il dolore per le perdite umane e il desiderio di fare la cosa giusta. I molti film americani di guerra vincitori di premi Oscar, da Patton a Il cacciatore, da Platoon a Salvate il soldato Ryan, hanno sempre messo in atto, chi più chi meno, l’insensatezza della guerra. La caratteristica comune a tutti quanti però è sempre stata quella di avere un atteggiamento ambivalente rispetto ai conflitti, oltre a quella di fare grandi incassi. The Hurt Locker non sembra condividere con essi l’aspetto monetario, infatti è stato ignorato dal pubblico americano che ha girato le spalle a ogni tentativo di catturare sullo schermo il dramma del conflitto iracheno. Questo film, che
rappresenta il ritorno della grande narrativa di guerra, racconta la storia di un esperto artificiere che disinnesca bombe durante la guerra in Iraq e lo fa con grande maestria e con una dose di incoscienza e di compiacimento nei confronti del rischio che deve affrontare, quasi fosse talmente intossicato dal pericolo a cui va incontro da non poterne fare a meno. Nel film però c’è anche un grande senso di speranza legato al fatto non secondario che a dirigerlo è stata una donna. Un senso di speranza che è cruciale perché noi, pubblico, ci sentiamo coinvolti nelle operazioni che il protagonista compie. Il film ci fa “sentire” i personaggi che abbiamo di fronte; di loro ci importa perché rischiano la vita per disinnescare bombe che sono pronte a uccidere non solo soldati nemici, forze militari avverse, ma anche civili innocenti. Dunque non è solo la simpatia per James che noi sentiamo, ma per tutte le persone che scelgono di affrontare il pericolo per salvare la vita degli altri. E, come dice Roger Ebert, a Bigelow «importa soprattutto della gente, poi del pericolo». I protagonisti oltre a William James (Jeremy Renner), conosciuto durante tutto il film semplicemente come James, sono Sanborn (Anthony Mackie) il capo della squadra e Eldridge (Brian Geraghty), una recluta impaurita. Nei loro veicoli blindati viaggiano nelle strade più pericolose di Baghdad, sospette di essere possibili luoghi di esplosioni, dove James vestito della sua strana uniforme (che lo fa somigliare più a un astronauta che a un artificiere) cerca di fare il suo mestiere. Si avvicina alla bomba nella speranza di riuscire a disinnescarla, augurandosi che la sua tuta lo protegga da una possibile esplosione anche se sa che non ci può essere nessuna garanzia. Gioca a scacchi con la morte. Il suo predecessore infatti è stato ucciso.
La caratteristica comune, oltre a quella di evidenziare spesso l’insensatezza della guerra, è sempre stata anche quella di avere un approccio ambivalente
Ogni volta che riesce a smontare una bomba James tiene un piccolo souvenir, qualcosa che gli ricorda l’intelligenza del nemico. James vive per capire le bombe e proprio come un giocatore di scacchi vuole battere il suo sfidante pur avendo rispetto per esso. E quando Sanborn vede James duellare con la morte in modo così disinvolto, si arrabbia perché quando il suo predecessore è saltato in aria ne è rimasto profondamente turbato. Non tollera quindi eccessi di alcun tipo, anche se l’artificiere è un asso in quello che fa. Per Sanborn seguire le regole diviene un imperativo categorico, per James invece il suo lavoro è un vis à vis con il nemico. Quello che fa è la sua ragione di vita; da ciò dipendono la sua capacità di sopravvivenza e il suo equilibrio mentale. Proprio questo dà un significato pregnante alla frase war is a drug su cui questo film apolitico è basato: pur non dichiarando nessuna opinione sul conflitto in Iraq, costituisce infatti una testimonianza forte contro la follia di ogni guerra.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Difendiamo lo Stato dagli eccessi di immigrazione e globalizzazione La globalizzazione - villaggio globale, unica Terra, unico sistema mondiale - può illudere, per poi disilludere. Non giova agli Stati democratici la presenza nell’Onu di molte nazioni comandate da dittature o teocrazie (sottomesse alla religione). Preoccupa l’eccessiva perdita di sovranità dello Stato-nazione, che deve essere difeso. In particolare, numerose imprese italiane languono e vivono stentatamente: patiscono una insostenibile concorrenza sleale da produzioni ottenute in Paesi illiberali (come la Cina), con fabbriche oltremodo inquinanti, manodopera schiavizzata e inadeguata protezione sanitaria, previdenziale e antinfortunistica. L’Italia è ulteriormente sfruttata da Stati negatori dei diritti umani, perché questi “scaricano”- anche sul Belpaese - moltitudini di rifugiati politici, da accogliere e mantenere. Autorevoli studiosi prevedono la prevalente islamizzazione dell’Europa entro questo secolo: la teocrazia musulmana non pare pienamente compatibile con la democrazia. L’opinione pubblica delle nazioni libere occidentali ritiene eccessivo il numero degli immigrati. Questi competono con lavoratori indigeni, che rischiano la disoccupazione e la diminuzione di forza contrattuale.
Gianfranco Nìbale
LEGGE BIPARTISAN PRIMA DELLE ELEZIONI Maggioranza e opposizione lavorino assieme per scrivere e approvare una legge contro la corruzione. Prima delle elezioni regionali. Nelle regioni che vanno al voto i candidati alla presidenza del centrosinistra assumano almeno tre impegni pubblici: presentare proposte di legge per rendere trasparenti le lobby, contenere le indennità degli eletti riportandole alla misura iniziale del 1970, al 65% della indennità dei parlamentari, vietare i doppi incarichi negli enti di derivazione regionale.
Lettera firmata
Dopo settimane di acquisizione di atti, documenti, audizioni e autopsia del cadavere, la relazione finale è già scritta, occorre trascriverli in un documento finale e renderli pubblici. Perché la maggioranza continua a rimandare la convocazione? Quali pressioni sono in gioco? Per avere una autopsia invece che giorni ci sono voluti mesi, ma ora che è impossibile non mettere in fila tutti gli eventi, gli atti e le omissioni, i protagonisti e le cause della morte di Stefano Cucchi, rimandare la chiusura dell’indagine d’inchiesta è un tentativo maldestro per depistare e ingarbugliare una vicenda, in realtà fin troppo chiara.
Donatella
CASO CUCCHI: TENTATIVI MALDESTRI Rimandare la chiusura dell’indagine è un tentativo della maggioranza per depistare. Anche stavolta la commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Cucchi non è riuscita a riunirsi e a chiudere i propri lavori!
CARCERE DI AREZZO. URGE INDAGINE SU TRATTAMENTI SANITARI Nel corso di una visita di sindacato ispettivo effettuata presso il carcere di Arezzo, sì
Dita appiccicose Niente paura sulla faccia di questo bambino angolano non sono all’improvviso spuntati degli spunzoni verdi. Quelli che vedete nella foto sono la parte superiore dei baccelli dell’okra, pianta di origine africana che si sta diffondento anche in altre zone, come per esempio la Sicilia
è avuto un colloquio con il dottor Giovanni Pietro Calella, lo psichiatra che da 15 anni presta servizio nella struttura. Calella è molto preoccupato perché il coordinatore sanitario della struttura, il dottor Carlesimo, pur essendo specializzato in otorinolaringoiatria, interverrebbe sulle prescrizioni psichiatriche, rifiutando gli psicofarmaci a diversi detenuti e specificatamente ad alcuni di origine marocchina. La cosa sarebbe di estrema gravità, ancor di più se si considera l’alto tasso di suicidi che si re-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
gistra in carcere e che affligge prevalentemente la popolazione straniera. Il dottor Carlesimo, da un paio di mesi, esaminerebbe tutte le diagnosi e terapie fatte dallo psichiatra e successivamente, pur non essendo specializzato nel settore, con suo assoluto arbitrio deciderebbe personalmente le terapie che devono essere adottate e quelle che devono essere respinte, le quali non verrebbero nemmeno trascritte nella cartella clinica come obbligo d’ufficio.
D.P.
dal ”Washington Post” del 05/03/10
Urne di fuoco in Kurdistan di Leila Fadel n alterco tra rivali politici non fa notizia, specialmente in Iraq. Ma quando si spara è diverso. Il mese scorso ha avuto luogo un breve scontro a fuoco nella regione autonoma del Kurdistan. Un segnale inquietante che ha attraversato le tre provincia del nord iracheno, che vengono considerate da Washington come un faro di stabilità, in un Paese dove violenza e politica sono quasi la stessa cosa. Lo scontro è avvenuto tra forze vicine al Patriotic union of Kurdistan (Puk) che è al potere e alcuni ferventi supporter di una fazione scissionista, che si chiama Cambiamento e che accusa il governo locale di una lunga campagna d’intimidazione, di cui lo scontro a fuoco non sarebbe che l’ultimo episodio.
U
scontri nascono dall’ardente desiderio di riforme che pervade la popolazione. Lo scontro dovrebbe servire come terribile monito di ciò che è successo in quelle regioni fino al cessate-il-fuoco del 1998.
L’esplosione della violenza sottolinea come si sia scatenata una rivalità politica in un contesto che si è sempre vantato di poter parlare a Baghdad con una sola voce. Negli ultimi anni i kurdi si erano ritagliati il ruolo di king maker al’interno di un panorama politico assai frammentato. Molti si domandano come potranno mantenere questo ruolo, dopo le elezioni parlamentari di domenica 7 marzo (il voto è cominciato già il 4 per alcune categorie, ndr). I kurdi scelgono 58 dei 257 deputati della Camera irachena, facendo di loro una componente fondamentale per chi voglia controllare il governo. Dopo la sparatoria le autorità hanno arrestato 11 membri di Cambiamento e proibito ogni manifestazione elettorale dopo le nove di sera. Dei fermati, dieci sono già stati rilasciati. I critici verso i due partiti, che dal 1991 hanno governato il Kurdistan, affermano che gli
Ma per molti è anche un segnale di stanchezza nei confronti di un atteggiamento troppo autoritario da parte di chi ha gestito il potere fino ad oggi. «Abbiamo chiesto la democrazia e l’abbiamo ottenuta» ha dichiarato Barham Salih, primo ministro del governo regionale kurdo e leader di spicco del Puk. «Ma qualcuno ha voluto oltrepassare il limite» ha aggiunto. Il partito del Cambiamento, nato da una divisione del Puk, ha assorbito molte delle altre formazioni politiche, grazie all’accento messo sulle riforme. Ma c’è qualcuno che afferma che anche loro non siano molto diversi dai partiti che vorrebbero rimpiazzare. A Sulaymaniyah una città del nordest della regione, le strade sono elettrizzate dalla campagna elettorale. I supporter di Cambiamento sventolano le loro bandiere blu. Nawshirwan Mustafa, che un tempo era il vicepresidente del Puk, è il loro leader. I membri del Puk non sono da meno nelle loro manifestazioni, mettono in mostra le loro bandiere e l’effige del loro capo, l’attuale presidente dell’Iraq, Jalal Talabani. Mustafa ha chiesto che le milizie dei kurdi pesh merga vengano integrate nelle forze regolari dell’esercito regionale. E chiede anche una maggiore trasparenza in quello che definisce governo della corruzione che fa ben poco per la gen-
te. Ogni tanto il clima elettorale si guasta. I giovani di entrambe le fazioni si insultano per le strade. Il Puk ha già mandato via da varie posizioni amministrative circa 1.700 membri di Cambiamento. Un modo per lanciare un avvertimento. «Sono pronti a cominciare una battaglia per difendere i soldi e il potere» afferma Peshraw Ahmed Hassan Rasul, un combattente fedele al partito del Cambiamento e che è stato fermato – e poi rilasciato – a seguito della sparatoria del mese scorso.
Hassan ha combattuto sulle montagne del nord ai tempi di Saddam Hussein, quando il dittatore iracheno uccise migliaia di kurdi che chiedevano l’indipendenza. Hassan ha servito per anni il Puk ed era stato anche, negli ultimi tempi, responsabile della sicurezza del primo ministro Salih. Ora molti temono che lo scontro tra i due partiti possa costare l’interesse del Kurdistan a Baghdad.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Un carcerato deve cavar sangue anche da una rapa Tra gli studi più profondi è certo quello delle lingue moderne: basta una grammatica, che si può trovare anche nelle bancarelle dei libri usati, e qualche libro della lingua scelta per lo studio. Non si può imparare la pronunzia parlata è vero, ma si saprà leggere e questo è già un risultato ragguardevole. Inoltre molti carcerati sottovalutano la biblioteca del carcere. Certo tali biblioteche sono sconnesse: i libri sono stati raccolti a caso, per donazione di padronati che ricevono fondi di magazzino dagli editori, o per libri lasciati da liberati. Abbondano di libri di devozione e di romanzi di terz’ordine. Tuttavia credo che un carcerato politico deve cavar sangue anche da una rapa, tutto consiste nel dare un fine alle proprie letture e nel saper prendere appunti. Faccio un esempio: a Milano ho letto una certa quantità di libri, specialmente romanzi popolari, finché il direttore non mi ha concesso di andare in bibliotecaa scegliere tra i libri non ancora passati in lettura o fra quelli che, per un particolare sapore politico o morale, non erano dati in lettura a tutti. Ebbene ho trovato che anche Sue, Montépin, Ponson du Terrail erano abbastanza se letti da questo punto di vista: «perché questa letteratura è sempre la più letta? Antonio Gramsci a Tania
ACCADDE OGGI
LA CORRUZIONE È AUMENTATA La corruzione non è mai diminuita. Ieri, tutti i partiti, in realazione al loro peso elettorale e alla loro penetrazione nelle amministrazioni locali, “estorcevano”tangenti sia alla magistratura, sia agli imprenditori dell’epoca. Fu un sistema costruito all’indomani della ricostruzione postbellica, nel 1946, e possibile solo in un Paese ad economia dirigista ed anti-liberale come il nostro. Un Paese che mise in piedi le partecipazioni statali, una tv di Stato, un apparato sindacatocratico e burocratico pesante. La corruzione nacque così, per volontà in particolare dei due partiti più forti: Dc e Pci. L’uno finanziato dagli Usa, dal sistema delle partecipazioni statali e dal sottogoverno; l’altro dalla dittatura sovietica, dal sottogoverno locale e dalle cooperative rosse. Il sistema radiotelevisivo, poi, fu lottizzato: un pezzo alla Dc, uno al Psi e l’altro al Pci. L’egemonia culturale, editorale e cinematografica fu occupata poi dal Pci, con il beneplacito della Dc. E gran parte dei magistrati che si formarono negli anni ’70, provenivano dalle file dello stesso Pci. I partiti laici più piccoli, Psi in testa, si industriarono a loro volta e si insinuarono in quel sistema “corrotto”, che riuscì però a garantire la democrazia nel nostro Paese, una certa stabilità economica e, via via, l’abbattimento dell’inflazione e il riconoscimento del Made in Italy nel mondo. Un sistema abbattuto da inchieste a senso unico: molte delle quali finite in assoluzione. Abbattuti così i partiti democratici: Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli; modificata la legge elettorale in
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
6 marzo 1953 Georgij Malenkov succede a Josif Stalin come premier e primo segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica 1957 Israele ritira le sue truppe dalla penisola del Sinai 1964 Costantino II diventa re di Grecia 1970 Il sospetto omicida Charles Manson pubblica un album intitolato Lies per finanziare la sua difesa 1975 In Italia la maggiore età viene abbassata da 21 a 18 anni 1978 Joseph Paul Franklin spara a Larry Flynt, editore della rivista pornografica Hustler, che rimane paralizzato dalla vita in giù 1983 La United States Football League inizia il suo primo anno di competizioni 1984 Inizia lo sciopero dell’industria britannica del carbone che durerà per dodici mesi 1992 Il virus Michelangelo inizia ad infettare i computer 1997 La Testa di donna di Pablo Picasso, viene rubata da una galleria di Londra
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
senso maggioritario; abolita l’immunità parlamentare, ecco morta la democrazia in Italia. L’Armata Brancaleone messa a punto da Achille Occhetto, sicura di vincere le elezioni del 1994, si trovò invece sbaragliata da Silvio Berlusconi, che legittimerà l’avvento dei postfascisti e dei leghisti di Bossi. Da 16 anni viviamo l’alternarsi governativo di berluscones, leghisti, giustizialisti e cattocomunisti riuniti in calderoni, che sono dei veri comitati d’affari, senza peraltro alcuna “magistratura interna”. Ecco dunque la penatrazione di personalità dalla dubbia moralità, a destra come a sinistra. Con l’unico interesse di arraffare e lucrare. Il tutto reso possibile dal fatto che non esiste più alcuna mediazione dei partiti o dei leader, che nei fatti sono investiti del loro ruolo unicamente “a furor di popolo”, e non più dalla democrazia interna dei partiti. Lo stesso sistema delle Primarie non è che una bufala che non fa che slegare i leader eletti dalla democrazia interna del partito. Un sistema che rende dunque questi leader ricattabili da qualsiasi lobby economica del territorio capace di garantir loro l’elezione. Nel 1993, Bettino Craxi smascherò quel sistema di corruzione. E fu egli stesso che propose una riforma radicale che mettesse a nudo “chi finanziava chi”, sul modello della democrazia americana. Ci si ritrova oggi in una situazione peggiore, che solo un ritorno all’etica pubblica ed alla democrazia dei partiti potrebbe sanare. Dubito ciò sarà possibile in tempi brevi e con gli attuali leader politici.
Luca Bagatin
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
Direttore da Washington Michael Novak
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Collaboratori
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Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,
Roberto Mussapi, Francesco Napoli,
Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
Mario Arpino, Bruno Babando,
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
John R. Bolton, Mauro Canali,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
Franco Cardini, Carlo G. Cereti,
Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,
Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,
Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,
BANCA LADRONA! Nel 1989 crolla il Muro di Berlino e per l’economia dell’Europa occidentale si apre l’immenso mercato dell’Est. C’è da ricostruire, costruire ed investire nei Paesi dell’Europa orientale che, a causa del regime comunista, sono rimasti molto indietro. Le banche italiane, alla ricerca di denaro per gli investitori, si accorgono di avere un tesoro a disposizione. Nelle piccole banche popolari delle regioni del sud Italia, infatti, è conservato un patrimonio di risparmi notevole, frutto del lavoro e della cultura del sud che ha messo sempre “un po’” da parte. Nell’ultimo ventennio, nel Mezzogiorno, si è assisitito alla conquista delle banche popolari legate al territorio da parte dei grandi istituti di credito del continente. Fatta incetta di capitali da investire nell’Europa dell’Est, il costo del denaro nel Mezzogiorno è salito mediamente di un punto percentuale, gli imprenditori che, nel Sud, si rivolgono alle banche, anche prima della crisi finanziaria, hanno avuto difficoltà ad avere prestiti che potessero favorire lo sviluppo econmico del territorio. Unica eccezione le poche banche popolari rimaste “indipendenti”e legate, per loro vocazione al territorio, che hanno dato ossigeno alle imprese, favorendo l’occupazione. Senza sviluppo e senza prospettive positive molti hanno deciso di emigrare, ed è sotto gli occhi di tutti il declino demografico dei piccoli centri che potrebbero essere completamente deserti nei prossimi 20 anni. Liquidare il problema, additando tutte le responsabilità alle banche, sarebbe ingenuo, ma certamente tra le concause del mancato sviluppo del Mezzogiorno giocano un ruolo le banche, che non lasciano i risparmi nel territorio per favorire lo sviluppo. Come rimediare per evitare che i piccoli centri scompaiano, che le famiglie ed i giovani continuino ad emigrare al Nord? Una proposta pragmatica potrebbe essere la detassazione, per le banche, degli utili provenienti dagli investimenti nel territoio. La minore raccolta fiscale dello Stato sarebbe compensata dalle imposte sul nuovo circolo di denaro che lo sviluppo produce e l’economia del Mezzogiorno potrebbe avere un rilancio senza interventi assistenzialistici che servono solo a creare clientele. Invece della Banca del Sud, lanciata dal ministro Tremonti ma non ancora nata, questa proposta potrebbe favorire nuovi investimenti al sud che favoriscano l’occupazione. Giovanni Nocera P R E S I D E N T E RE G I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L SI C I L I A
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PAGINAVENTIQUATTRO
Paradossi. Il blocco di cinquanta navi per il ghiaccio nel Mar Blatico riapre un’annosa polemica
E se invece ci fosse di Maurizio Stefanini oland Emmerich è un regista il cui successo al botteghino e i cui lodevoli impegni ecologisti-pacifisti sono stati spesso inversamente proporzionali all’apprezzamento con cui storici, scienziati e semplici cultori della fantascienza ortodossa hanno visto i suoi pasticci: Piramidi nello spazio in Stargate; Piramidi costruite nella Preistoria portando i materiali a dorso di mammuth in 10.000 a.C.; Schindler’s List nella Rivoluzione Americana nel Patriota; Berlusconi travolto dalle profezie maya nel 2012; un sosia di Clinton contro gli Aliwni della Base 51 in Independence Day; e chi più ne ha più ne metta. Su tutti, forse, quello che spicca di più per il barocchismo ossimorico della tesi è The Day After Tomorrow - L’alba del
R
il
Canada alla Polonia e dagli Stati Uniti all’Austria foriero di record di freddo come non se ne registravano da almeno cinquanta-sessant’anni. E neanche c’è solo la imbarazzante messa di cappello sulla lotta al cambiamento climatico da parte di Osama bin Laden. L’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change costituito nel 1988 dalle Nazioni Unite, dopo aver vinto nel 2007 il Nobel per la Pace è finito addirittura commissariato in seguito al “Climategate”: lo scandalo delle e-mail che rivelavano accordi tra climatologi per truccare i dati delle temperature globali e delle previsioni sballate sullo scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya. Di Rajendra Pachauri, l’indiano presidente dello stesso Ipcc, è saltato fuori non tanto che non si tratta di uno scienziato ma di un
tere di influenza. Al contrario, dal 2000 in poi il vapore acqueo nella stratosfera ha invece iniziato a diminuire: il che spiegherebbe il perché dopo il 2000 la crescita delle temperature globali è invece rallentata. Anche nell’Artico i ghiacci dal 2008 avrebbero ripreso a aumentare, malgrado le previsioni dell’Università di Cambridge secondo cui la calotta polare settentrionale avrebbe dovuto sparire proprio entro la fine di questo 2010.
I maligni suggeriscono che proprio il gran freddo che si sentiva a Copanaghen avrebbe contribuito al fallimento del grande vertice climatico che era stato convocato nella capitale danese a dicembre. Ma in effetti già da ottobre alcune delle più influenti testate mondiali avevano aperto il di-
GLOBAL COOLING?
giorno dopo: il riscaldamento globale, che fa sciogliere i ghiacci dell’Artico, che però fanno raffreddare l’Atlantico, che così fa da volano termico a una nuova era glaciale che si abbatte sul Nord America con effetto fulminante. Insomma, congelati dal troppo caldo!
Ultimamente è stato il riscaldamento globale l’argomento principe di catastrofisti, ambientalisti, scettici e media mondiali. Eppure, “climategate” a parte, il gran freddo dell’inverno in corso può rovesciare le tesi sul global warming
Bene: forse è quella l’ultima spiegazione rimasta a chi continua a insistere sul global warming, nel momento in cui il freddo sull’Europa è arrivato a livelli tali che 50 navi sono rimaste per un po’ bloccate dai ghiacci nel Mar Baltico. Da ricordare che il ghiaccio nella zona non è un fenomeno raro, i traghetti di linea sono già attrezzati per infrangerlo, e per questo erano partiti lo stesso. Ma il freddo era talmente intenso che non sono bastati i sistemi rompighiaccio normali per passare. Certo: ammettendo una ipotesi alla Emmirich, resterebbe pur sempre da capire come ha fatto l’acqua fredda a passare direttamente atttraverso lo Skagerrak e il Kattegat, senza prima trasformare in pista di pattinaggio anche il Mare del Nord. Ma il fatto è che non c’è solo un inverno talmente rigido da far tornare addirittura la neve a Roma dopo un quarto di secolo: d’altronde venuto dopo un altro inverno, quello del 2008-09, a sua volta dal
semplice ingegnere ferroviario, che quello già si sapeva; ma soprattutto che ha fatto un bel po’ di soldi attraverso società che investono in organismi dipendenti da decisioni dell’Ipcc, in flagrante conflitto di interessi. Mark Siddal, l’esperto dell’Università di Bristol autore del famoso studio apparso nel 2007 su Nature Geoscience in cui si prevedeva un aumento di livello degli oceani del mondo di ben 82 cm., ha ritrattato questa sua umida profezia dicendo di compiuto almeno un paio di errori, per cui «non possiamo trarre alcuna conclusione certa sul livello del mare alla fine del secolo». E Science ha dimostrato come almeno un terzo dell’aumento delle temperature globali verificatosi tra il 1990 e il 2000 non sia affatto legato alle emissioni di anidride carbonica prodotte dalle attività umane ma all’aumento del vapore acqueo presente nella stratosfera, vale a dire là dove le attività umane non hanno alcun po-
battito. “Clima: il riscaldamento segna una pausa?”, aveva ad esempio titolato a tre colonne Le Monde, con accanto una grande foto di un iceberg in Groenlandia. Pur con un testo in qualche modo di compromesso: sì, il riscaldamento globale è colpa dell’uomo; però «le temperature potrebbero leggermente abbassarsi da qui a diecivent’anni». «Che cosa è successo al Global Warming? Così le basse temperature stanno iniziando a scuotere la teoria del riscaldamento globale», si è chiesto il Daily Mail. Stesso titolo, d‘altronde, della Bbc: «Che è successo al global warming?». Mentre Times e Corriere della Sera ripescavano i diari dell’esploratore James Cook, per dimostrare che negli ultimi 200 anni il clina non sembrava cambiato in modo significativo. Comunque, come il Don Ferrante di Manzoni non credeva al contagio malgrado la realtà dei morti per peste che si ammucchiavano attorno a lui e sostenendo che invece la colpa era di malefici influssi astrologi finì per morire «come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle»; così anche ghiaccio, neve e titoli di giornale potrebbero non bastare a chi si è sentito ripetere che stiamo andando verso la desertificazione negli ultimi vent’anni. Dopo il terremoti in Cile, anche questa si è sentita tra le telefonate del pubblico ad esempio di Radio anch’io: «Ma che, anche questi terremoti sono colpa del riscaldamento globale?».