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Ogni società è quel che rimane a conclusione di un processo di sgretolamento della comunità

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Max Sheler

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 10 MARZO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Si chiude a Ginevra il Summit per la democrazia. Il fidanzato di Neda: «L’Onda verde vincerà a Teheran, ma senza Mousavi»

«La mia sfida a Pechino»

Per la storia è il ragazzo che fermò i tank a Tiananmen.Oggi è un leader del movimento per i diritti umani e in questa intervista lancia un appello:«Aiutateci a liberare la Cina,come l’Europa dal nazismo» PARADOSSI PROVINCIALI

Il tribunale elettorale di Roma si uniforma alla decisione del Tar

Noi litighiamo su timbri e firme. Nel mondo si combatte per la libertà

Tormentone atto secondo Nel Lazio bocciata di nuovo la lista del Pdl

di Andrea Mancia entre il sistema politico italiano offre al mondo lo spettacolo penoso della propria decadenza – a colpi di carte bollate, ricorsi e controricorsi, minacce di piazza e strilli bipolari al golpe antidemocratico – c’è un pezzo di mondo che muore. Un pezzo di mondo derubato (davvero) della democrazia e delle libertà fondamentali che dovrebbero essere garantite a ogni essere umano.

ROMA. Yang Jianli spaventa ancora la Cina. Nonostante sia ormai da cinque anni negli Usa, con la sua “Initiatives for China” continua a sostenere il movimento democratico del dragone asiatico. Per la sua partecipazione alle proteste di piazza Tiananmen, nel giugno del 1989, ha scontato diversi anni in galera. E alcuni dicono che sia lui l’uomo che teneva in mano un sacchetto di plastica, divenendo un’icona vivente. Con liberal, discute dello sviluppo democratico del Paese e del movimento democratico, di Liu Xiaobo e della dittatura comunista.

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colloquio con Yang Jianli di Vincenzo F. Pintozzi

Nemmeno la Commissione tiene conto del decreto. Ora Berlusconi punta a una grande manifestazione. Bagarre al Senato sul legittimo impedimento

Il vicepresidente Usa a Gerusalemme incontra Netanyahu e Abu Mazen

di Marco Palombi

Israele: «Cacciate l’Iran dall’Onu»

ROMA. Ogni giorno ha la sua

Piano fiscale per il prossimo triennio

Nel centenario della nascita

Tremonti (marinaio?) promette alle famiglie

Mario Pannunzio, nostro padre

di Alessandro D’Amato

di Antonio Maccanico

a valigia dei sogni di Giulio Tremonti è piena di buoni propositi per la lotta all’evasione fiscale e gli aiuti alle famiglie. Nel piano fiscale del prossimo triennio, il ministro elenca i suoi desideri, anche se non sempre corrispondono a quello che il suo governo ha effettivamente fatto in passato.

el dicembre del 1943 nella Roma occupata dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre Mario Pannunzio veniva arrestato e assegnato “al sesto braccio”dei detenuti politici. Allora Pannunzio era solo un intellettuale autorevole, non ancora un antifascista impegnato nella Resistenza.

pena elettorale: tra corsi, ricorsi,Tar, decreti e quant’altro, ieri toccava alla Commissione elettorale del Lazio dire la propria opinione. E l’opinione è stata no: la lista del Pdl non sarà presente nelle schede elettorali di Roma e provincia. Questo, almeno, se non ci saranno altri ricorsi, se nessuno vorrà impugnare l’ennesima decisione. Berlusconi ha commentato duro che a questo punto «serve una grande manifestazione: dirò io la verità agli italiani». Insomma, neanche la Commissione elettorale del Lazio ha dato retta al contestato decreto con il quale il governo voleva porre rimedio al caos della presentazione sbagliata delle liste. Non è bastata, dunque, la presentazione “corretta”, lunedì mattina, della lista Pdl nella circoscrizione di Roma e provincia: la commissione ha detto no. Nel pomeriggio, intanto, in Senato era stato caos tra maggioranza e opposizione sul legittimo impedimento.

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Durissimo attacco al regime di Ahmadinejad, mentre Biden tenta di riaprire la trattativa in Medioriente servizio di Antonio Picasso • pagina 14

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I QUADERNI)

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN UN VICOLO CIECO

Il “disturbo bipolare” ha ormai disgregato l’intero sistema di Rocco Buttiglione li avvenimenti recenti relativi alla (non) presentazione delle liste elettorali del Pdl in Lombardia e nel Lazio segnano la transizione del bipolarismo italiano dall’ambito della politica a quello della psichiatria. Chiamasi infatti disturbo bipolare quella malattia psichica nella quale il paziente è incapace di costruire una immagine coerente della realtà con la quale orientarsi per le sue azioni e le sue decisioni. Potremmo dire che nel paziente che soffre di disturbo bipolare manca il centro a partire dal quale diventa possibile integrare i diversi aspetti della personalità che invece si oppongono senza mediazioni.Trasposto in politica, questo è un Paese diviso in due campi nemici. Altro che “politica dell’amore” di cui talvolta parla il capo del governo! Già il semplice fatto di attribuire a se stessi tutto il bene e al proprio avversario tutto il male contiene un seme totalitario.

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IN REDAZIONE ALLE ORE

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19.30


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L’intervista. Un’icona del movimento democratico del dragone asiatico si confronta con la Pechino di ieri e quella moderna

Ritorno a Tiananmen

Yang Jianli, dissidente, ha partecipato attivamente ai moti del 1989 Oggi vede in Cina gli stessi problemi di allora. E chiede aiuto al mondo di Vincenzo Faccioli Pintozzi

Mentre litighiamo, nel mondo si muore

ROMA. Yang Jianli spaventa ancora la Cina. Nonostante sia ormai da cinque anni in esilio volontario negli Stati Uniti, con la sua “Initiatives for China” continua a sostenere il movimento democratico del dragone asiatico. Per la sua partecipazione alle proteste di piazza Tiananmen, nel giugno del 1989, ha scontato diversi anni in galera. E alcuni dicono che sia lui l’uomo che teneva in mano un sacchetto di plastica, mentre in piedi davanti ai carri armati comunisti diveniva un’icona vivente. Per ovvi motivi, se gli si chiede una conferma sorride ma non risponde. Con liberal, nell’ambito del Summit di Ginevra per i diritti umani e la democrazia, discute dello sviluppo democratico del Paese e del movimento democratico, di Liu Xiaobo e della dittatura comunista. Dottor Yang, cosa pensa della situazione dei diritti umani in Cina? I cinque anni che ho passato in una prigione cinese mi hanno fornito l’analogia perfetta per descrivere la situazione dei diritti umani in Cina. Durante la dittatura del Partito comunista, il Paese si è sostanzialmente diviso in due parti diverse. La separazione definitiva fra le due parti si è verificata il 4 giugno del 1989, quando i carri armati in assetto da guerra sono entrati nella grande piazza Tiananmen per uccidere migliaia di miei compatrioti. Questa società – che potremmo chiamare “delle due Cine” – non è molto differente dalla società che ho avuto modo di conoscere in galera: una società fatta di tiranni e schiavi. In prigione ci sono dei tiranni che decidono le regole, amministrano in maniera arbitraria la giustizia e controllano cosa gli schiavi possono mangiare, leggere e fare. La società cinese contemporanea riflette la stessa divisione di quella che esiste in galera. Sono state scritte moltissime cose sulla mancanza di diritti umani in Cina, ma la maggior parte di questi rapporti presentano la stessa pecca di fondo: presentano la mancanza di diritti umani come un semplice collegamento fra lo sviluppo politico e lo sviluppo economico del Paese. Ma questa è un’illusione, tra l’altro fatale. La mancanza di diritti umani in Cina è

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invece la condizione fondamentale per la struttura del potere statale. Esattamente come succede per i detenuti chiusi in una galera e le guardie che sono chiamate a dominarle. Dopo i fatti di Tiananmen, però, ai padroni comunisti è venuta a mancare ogni pretesa di ideologia. La decisione di schiacciare la folla sotto i carri armati è stata collegata in maniera imprescindibile allo sviluppo economico, da raggiungere ad ogni costo. L’elite politica, di conseguenza, è stata quasi costretta a stringere un patto d’acciaio con i plutocrati dell’economia: insieme sono divenuti l’elite dominante, composta da tiranni, del Paese. Se preferite, questo connubio potrebbe

norme accumulo di ricchezza economica e l’incredibile crescita annuale del Prodotto interno lordo. Questi osservatori iniziano a credere che la dittatura del Partito unico sia un fattore positivo per la crescita economica. E questa considerazione è ovviamente aiutata dal fatto che il governo controlli in maniera assoluta tutti i canali di comunicazione, in modo da controllare e dominare l’opinione pubblica. Oltre 300mila “cyber-poliziotti” sono impegnati ogni giorno nel controllare e tenere sotto osservazione il flusso di informazioni che passano attraverso internet. La recente polemica che ha contrapposto il governo di Pechino e Google ha dimostrato senza

Il 4 giugno rappresenta il giorno della vergogna. Il giorno in cui il governo cinese ha deciso di perdere la propria credibilità agli occhi del suo popolo, usando la violenza essere chiamato “China corporation”. Queste stesse persone hanno plasmato la Cina che conosciamo, una società che Vaclav Havel ha chiamato “la spegevole base del potere”. L’elite che domina il Paese ha usato l’enorme benessere economico e il potere di cui dispone per compromettere e di fatto neutralizzare la classe intellettuale cinese. D’altra parte, la “China co.” ha impressionato un gran numero di osservatori con l’e-

ombra di dubbio che lo spionaggio governativo sia oramai una pratica comune nel Paese, un fattore quotidiano per chiunque viva all’interno – ma spesso anche all’esterno – della Cina. In poche parole, la “China co.” aumenta il volume della propria voce e mette a tacere tutte le altre: in questo modo, gli osservatori esterni iniziano a pensare che sia questa la voce che rappresenta il Paese intero. Ma esiste un’altra Cina.

Una Cina che, sempre di più, si separa economicamente e socialmente dalla “China co.”. I dati ufficiali mostrano che lo 0,4 per cento della popolazione possiede il 70 per cento della ricchezza nazionale. Un miliardo di cittadini cinesi ha ottenuto molto poco dalla crescita economica che ha beneficiato il Paese. Il salario medio della popolazione è soltanto il 15 per cento della media mondiale: a livello globale, il valore della paga media si trova al 159esimo posto. Ovvero, dietro 32 Paesi africani. Dall’altro lato dello spettro si trova invece il Tasso medio di miseria della popolazione: in questa classifica, la Cina si posiziona al secondo o al terzo posto da molti anni a questa parte. Questi dati non si basano su qualche anonimo documento, ma sulle enormi privazioni e sulle numerosissime ruberie che avvengono in ogni angolo del Paese. La “China co.”si è rifiutata di creare una qualunque forma di sicurezza sociale di base; eppure, i suoi membri godono di ogni forma di privilegio, fino alla morte. Mentre un miliardo di compatrioti non ha protezioni politiche o metodi per esprimere le proprie lamentele. Il sistema giuridico cinese, infatti, risponde soltanto al Partito comunista, e i diritti di proprietà praticamente non esistono. A pochi mesi dalle Olimpiadi, circa 300mila abitanti di Pechino sono stati cacciati dalle loro case – senza alcuna forma di risarcimento – per “progetti di

Ma siamo troppo affascinati dalle querelle su firme, timbri e panini per accorgerci della sua esistenza. E così, mentre l’Onu dei “grandi”e dei dittatori accarezza l’idea di concedere all’Iran di Ahmadinejad un seggio al Consiglio per i diritti umani (dopo averne dato la presidenza alla Libia di Gheddafi), nell’indifferenza generale si è consumato il Summit di Ginevra che ha visto sfilare dissidenti da tutto il mondo, con le loro terribili testimonianze. Studenti, attivisti per i diritti umani e semplici cittadini sono arrivati dalla Cina, dalTibet, dal Sudan, dalla Corea del Nord, da Cuba, dal Venezuela, dalla Birmania, dall’Indonesia per raccontare le loro storie, la loro disperata ricerca di libertà. Ma la nostra grassa democrazia, con la pancia piena e le tasche unte, è troppo impegnata a piroettare su se stessa per smettere, fosse anche per un giorno, di interrogarsi sulla trigonometria dei timbri e sull’ermeneutica delle firme. Per uscire, una volta tanto, dal provincialismo auto-referenziale che l’ha ormai colpita a morte.In gioco ci sono questioni serie, come un manipolo di posti di sottogoverno locale e qualche assessorato alla sanità, mica sciocchezze come il diritto ad esistere. E mentre i cittadini iracheni sfidano le bombe dei terroristi per intingere le loro dita nell’inchiostro indelebile della democrazia, la classe politica italiana non riesce neppure a raccogliere qualche migliaio di firme senza cadere nella tentazione della scorciatoia furbetta, del lei-non-sa-chipotrei-essere-io. Intanto lunedì a Ginevra ha parlatoYang Jianli, il dissidente che molti ritengono essere “l’uomo col sacchetto” che frenò per qualche minuto – a Piazza Tiananmen – l’avanzata dei carri armati cinesi. Un’icona vivente. Quasi come Alfredo Milioni e il suo panino immaginario. Andrea Mancia


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abbellimento”. La libertà di espressione e le idee sono state represse in maniera sistematica. Quando Liu Xiaobo ha pubblicato Charta ’08, un documento ragionevole da ogni punto di vista che chiede riforme politiche nel Paese, il governo lo ha ricompensato con undici anni di galera. Le due Cine, dunque, diventano sempre più definite: da una parte i tiranni; dall’altra gli schiavi. Parlando di Liu Xiaobo, cosa pensa di lui? Prima di tutto, vorrei dire che Liu Xiaobo è uno degli intellettuali più rispettati di tutta la Cina. È un uomo dedito alla ragione, una voce che chiede un miglioramento nella condizione dei suo concittadini. Il documento di cui è co-autore, Charta ’08, riflette la sua visione e il suo desiderio per un miglior governo della Cina. Invece di ringraziare Liu per il suo tentativo di migliorare la società, il governo comunista lo ha condannato a undici anni di galera. Tristemente, questa situazione illustra perfettamente la situazione della doppia Cina che ho descritto prima, quella degli schiavi e dei tiranni. Liu Xiaobo è un uomo saggio. Un uomo coraggioso. Una figura che per la Cina rappresenta quello che Nelson Mandela è stato per il Sudafrica, o persino quello che Thomas Jefferson è stato per gli Stati Uniti. Charta ’08 ha dato al popolo cinese una voce, un linguaggio e una base su cui poggiare una transizione pacifica verso la democrazia. Questo documento è il magnete che galvanizza e attira a sé il desiderio collettivo della cittadinanza. E questo è il motivo per cui il governo ha reagito con tanta forza contro la Charta e contro Liu Xiaobo. In qualche modo, dentro di me, sento che

prima o poi a Liu sarà dato il Premio Nobel per la Pace. Cosa può fare la comunità internazionale per aiutare la Cina? Una transizione pacifica verso la democrazia è un compito che deve essere lasciato nelle mani del popolo cinese. E, giorno dopo giorno, noi cerchiamo di assumerci questa responsabilità. Per ogni gigante del calibro di Liu Xiaobo ci sono milioni di cittadini ordinari che danno il loro contributo, per quanto piccolo, verso la fine della tirannia. Secondo Human Rights Watch e altre Organizzazioni di cui ci si può fidare, ogni anno si verificano in Cina oltre 100mila manifestazioni anti-

zio a dare alla tirannia comunista una nuova linfa vitale. Quando arriverà la prossima crisi, ci aspettiamo che il mondo eserciti quella pressione morale e politica sui tiranni cinesi, per far capire loro che il loro tempo è finito. Che devono iniziare ad ascoltare il popolo e aprire le porte del governo alla democrazia. Il Summit di Ginevra è un’opportunità per migliorare il lavoro del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite? Assolutamente sì. Questa Conferenza è il forum più importante per noi, per quelli che si trovano in prima fila nella lotta per i diritti umani e la democra-

Charta ’08 ha dato al popolo cinese una voce, un linguaggio e una base solida su cui poggiare una transizione pacifica verso la democrazia. Questo documento è un magnete per tutti

governative. Ma ogni aiuto è molto utile: alcune compagini hanno aiutato gli Stati Uniti durante la loro lotta per l’indipendenza. E gli Stati Uniti hanno aiutato l’Europa a liberarsi dalla morsa del nazional-socialismo. Arriverà un momento, prima o poi, in cui la società delle due Cine e degli schiavi e dei tiranni arriverà a un punto di rottura. Una rottura si era già verificata nel 1989, con il movimento democratico di piazza Tiananmen; in quella occasione, la comunità internazionale non fece però sentire la propria voce a sostegno di quella manifestazione democratica. E questo diede ai “falchi” del Partito l’incoraggiamento ad usare una forza senza precedenti per distruggerla. È stato quel silen-

zia. Rappresenta un modo per sottolineare le questioni importanti e creare l’impeto politico per le Nazioni Unite, che devono riprendere ad essere più attive e intraprendere delle azioni a favore dei diritti degli uomini in tutto il mondo. Ad esempio, nel corso di questo Summit ci stiamo muovendo con forza per chiedere una vera libertà in internet. Fra le nostre speranze c’è quella di indurre l’Onu a fare qualcosa di fattivo a favore di questo importantissimo strumento di libertà. In pratica, vorremmo che internet sia incluso nei criteri usati per valutare la situazione dei diritti umani negli Stati che fanno parte delle Nazioni Unite. Come può la democrazia sbocciare in Cina?

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La cosa più importante per ottenere questo scopo è la realizzazione di quello che, in cinese, chiamiamo “Gong Min Li Lian”, che vuol dire “il potere del popolo”. Anche se i tiranni comunisti hanno eliminato sistematicamente ogni diritto umano e politico per la propria popolazione, i cittadini iniziano a capire quale sia il loro potere. Grazie a Charta ’08 e alle organizzazioni che iniziano a organizzarsi sulla Rete, gli abitanti della Cina hanno oggi gli strumenti per abbattere la tirannia. Un governo, qualunque esso sia, non può continuare per sempre a tenere contro la testa della propria gente una pistola carica. Grazie al “potere del popolo”, iniziamo a capire che per quanto benessere e potenza militare abbia Pechino, non può lottare contro un miliardo di persone. La mano che tiene la pistola si ritirerà e abbasserà l’arma. Il“potere del popolo”, alla fine, avrà la meglio. Quali sono i suoi ricordi di piazza Tiananmen? Per me e per molti dei miei concittadini, Tiananmen rappresenta il giorno della vergogna. Il giorno in cui il governo cinese ha deciso di perdere la propria credibilità agli occhi del suo popolo. Io sono nato tre anni prima dell’inizio della Rivoluzione culturale, che è durata un decennio. Molto giovane, le indicibili sofferenze subite dalle famiglie – compresa la mia – per mano del governo comunista mi hanno reso disincantato nei riguardi del Partito. Eppure, mi sono convinto che fosse giusto unirmi a loro: ero convinto che il sistema di potere cinese si sarebbe potuto riformare soltanto dall’interno. Questo convincimento è cambiato totalmente quando sono tornato dal mio dottorato in matematica, ottenu-

to a Berkeley. Sono tornato per testimoniare di prima mano il massacro di migliaia di miei coetanei per mano di soldati e mezzi corazzati agli ordini del Partito, la mattina del 4 giugno del 1989. Dopo i fatti di Tiananmen sono scappato negli Stati Uniti, dove ho finito i miei studi di matematica. Ma avevo già deciso che il corso della mia vita sarebbe stato un altro. Mi sono impegnato nello studio della politica e, in particolare, della democrazia. Ho abbandonato una carriera da matematico per prendere una laurea in Economia politica presso l’università di Harvard. Mi sono immerso nella progettazione di un piano per far avanzare la democrazia, giorno dopo giorno, in Cina. Non ho il tempo per spiegare il motivo, ma nel 2002 ho deciso di tornare a casa per aiutare il movimento sindacale con metodi non violenti. Sono stato arrestato e condannato a cinque anni di galera: la maggior parte del tempo, in isolamento. Mi sono salvato componendo in mente dei poemi, e continuando a ripeterli a memoria. In questo modo ho mantenuto intatta la mia sanità mentale. Grazie alla tenacia di mia moglie, Christina Fu, e all’incredibile aiuto di Jared Genser – che ha patrocinato il mio caso negli Stati Uniti – il mio trattamento in prigione è migliorato gradualmente. Dal mio ritorno in America, ho dedicato ogni minuto di veglia a cercare di aiutare i miei concittadini, insegnando loro la democrazia. Molto di questo lavoro è stato fatto grazie al nostro movimento,“Initiatives for China”. Ma io non riposerò mai più serenamente fino a che non potrò tornare a camminare in piazza Tiananmen, sotto un cielo blu che circonda una Cina libera e democratica.


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La testimonianza. Quella di Teheran è una dittatura senza legittimità. Il mondo deve fermarla prima che sia troppo tardi

L’eredità di Neda

Il fidanzato dell’icona dell’Onda verde attacca l’Onu: «Non potete permettere ai mullah di sedere nel Consiglio per i diritti umani» di Caspian Makan i è stato chiesto di parlare di una questione molto importante. Sono nato nel 1972, e quando ho iniziato a studiare era il 1979: l’inizio della Rivoluzione islamica di Khomeini. In quell’anno, tutto si è fermato nella nazione: l’islam esisteva già, era già la religione ufficiale del Paese, e non tutti capivano cosa intendesse l’imam per Rivoluzione islamica. In ogni caso, hanno creduto alle sue promesse di miglioramento: pensavano di poter avere più libertà politica, e hanno sostenuto la Guida della Rivoluzione. La prima cosa che venne fatta fu abbattere il governo dell’epoca: molti vennero uccisi senza processo, e spesso senza motivo. I miei familiari erano dipendenti statali e sapevano di essere in pericolo, ma vennero convinti di non correre alcun pericolo: rimasero al loro posto, e vennero uccisi.

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La popolazione doveva fare lunghe file al freddo per acquistare i generi di prima necessità, ma spesso le file diventavano piccole manifestazioni subito represse dalle guardie del nuovo regime. Dopo circa due mesi, le scuole riaprirono: ma tutto era cambiato, nel frattempo. Le ragazze non erano più con noi, erano in un’altra scuola: inoltre, ora le maestre e le compagne avevano dei nuovi vestiti. Anche i libri erano cambiati, del tutto: quello di storia, ad esempio, insegnava la storia del Corano mentre quello di lingue straniere era scritto in arabo. C’era anche un libro del tutto nuovo, quello con i pensieri di Khomeini. Noi all’epoca non ne eravamo consapevoli, ma faceva tutto parte di un piano teso a controllare il più possibile i pensieri della popolazione: lentamente, ci stavano plasmando. Se qualcuno si esprimeva contro il

nuovo regime o contro l’islam, veniva arrestato se non ucciso sul posto. Ricordo che, a otto anni, avevo intavolato una discussione politica con il mio maestro di musica: dopo pochi minuti, sono stato espulso. Ma non mi sono scoraggiato, perché volevo conoscere il mio Paese e capire cosa gli fosse successo. Con il tempo ho iniziato a girare per conoscere le opinioni della gente: ho visitato i ci-

miteri e le fabbriche, ho parlato con gli oppositori ma anche con i mullah. Volevo capire perché il regime avesse così tanto sostegno popolare non per polemica, ma proprio con spirito antropologico: ho scritto articoli sull’argomento e girato documentari.Tutto questo non è passato inosservato, dato che le guardie del governo hanno molti occhi e molte mani. Anche io ho conosciuto le ga-

Al centro dei colloqui con Karzai, la presenza militare della Nato e il narcotraffico

Ahmadinejad vola a Kabul di Massimo Fazzi a sicurezza regionale in funzione anti-occidentale e il problema del narcotraffico saranno al centro della visita di oggi del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad in Afghanistan. Lo sostengono gli analisti di Asia Times, secondo i quali un altro tema dominante direttamente collegato al primo sarà la presenza delle truppe straniere in particolare in Iraq e ovviamente in Afghanistan, il cui ritiro resta per Ahmadinejad uno degli obiettivi primari della sua politica estera. Del resto, a poche ore dal viaggio, il presidente iraniano ha fatto ancora una volta i principali titoli dei giornali definendo gli attacchi dell’11 settembre una «grande bugia, che è servita come pretesto per combattere il terrorismo e gettare le basi per l’invio di truppe straniere in Afghanistan». Una teoria non nuova per il leader iraniano, che accusa Israele e gli Usa di ogni problema che colpisca la regione. Per quanto riguarda il traffico di droga, una delle “bestie nere”dell’Iran che è direttamente colpito sulla sua popolazione, è probabile che Ahmadinejad

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spingerà per una maggiore collaborazione fra Teheran e Kabul che non chiami in causa l’impegno della Nato in Afghanistan.Teheran ha migliaia di truppe schierate lungo i 1600 chilometri di frontiere con l’Afghanistan e il Pakistan, altra principale porta di ingresso della droga in Iran. Già a maggio del 2009 Ahmadinejad e Karzai si erano incontrati a Teheran per un vertice contro il narcotraffico e il contrabbando di oppiacei.

La visita a Kabul di Ahmadinejad ha anche una valenza economica alla luce dei forti investimenti iraniani in Afghanistan dell’anno scorso. Le relazioni bilaterali fra i due Paesi dovrebbero vedere un rafforzamento nei settori dei trasporti, delle comunicazioni, dell’energia, dell’industria e del commercio. In questo suo viaggio, sempre secondo Asia Times, Ahmadinejad dovrà anche rassicurare Karzai sulla natura dei rapporti fra l’Iran e il Pakistan che negli ultimi tempi sembrano essersi rafforzati con grande preoccupazione di Kabul che appoggia Nuova Delhi nel suo contenzioso con Islamabad. Quella di oggi è la seconda visita Ahmadinejad in Afghanistan. La prima risale all’agosto nel 2007. In quell’occasione il presidente della Repubblica Islamica arrivò a Kabul accompagnato da una nutrita delegazione iraniana a dimostrazione di una crescente influenza iraniana in Afghanistan. Un’influenza che non piace per niente agli Usa.


prima pagina L’intervento del primo ministro turco Erdogan

E Ankara blocca nuove sanzioni l premier turco Recep Tayyip Erdogan, nel corso di una visita a Ryiadh, ha detto che «l’ipotesi di istituire nuove sanzioni contro l’Iran a causa del suo discusso programma nucleare non produrrebbe alcun risultato». Secondo il premier turco, nei giorni scorsi nell’occhio del ciclone per il presunto golpe militare che ha sventato, «altre sanzioni non porterebbero a dei risultati». E ha poi ribadito ai giornalisti presenti che un nuovo ciclo di sanzioni «non ha mai dato risultati». Ankara chiede una soluzione della questione del nucleare iraniano attraverso il dialogo, dicendo che le sanzioni economiche o militare avrebbe gravi conseguenze per l’intera regione. La comunità internazionale sospetta che l’Iran tenti di sviluppare armi atomiche, ipotesi smentita più volte da Teheran. La Repubblica Islamica, intanto, si rifiuta di rispettare gli ordini del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e di sospendere la sua produzione di uranio arricchito. Lontano dalle pressioni che la comunità internazionale prova ad esercitare su Teheran, intanto, l’Iran continua ad intensificare le relazioni con l’America latina.

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Ecuador e Iran hanno raggiunto un accordo per la costruzione di tre centrali idroelettriche nel territorio del Paese latinoamericano. L’intesa, siglata nella città iraniana di Shiraz dal vicepresidente ecuadoriano Lenin Moreno svolge, porterà alla realizzazione di un combinato di strutture in grado di generare 100megawatt. Al pari di altri Paesi del subcontinente, l’Ecuador cerca risorse finanziarie per realizzare investimenti nel settore dell’energia. Le relazioni tra Quito e Teheran si sono intensificate a seguito di un incontro tra i presidenti Rafael Correa e Mahmoud Ahmadinejad, nel 2008. Nella visita di questi giorni Moreno ha anche ottenuto l’appoggio iraniano al progetto di conservazione della riserva naturale dello Yasuní: un pezzo di foresta amazzonica, celebrato per la sua ricchezza in termini di biodiversità, che l’Ecuador si è impegnato a non violare rinunciando a un enorme giacimento petrolifero. Non è una novità, questa del “mercato” internazionale in America Latina: la Cina, da anni, continua a stipulare vantaggiosi accordi commerciali con i Paesi della parte sud del continente americano. Questo perché molti dei governi locali non hanno infrastrutture, o risorse economiche, per sfruttare il proprio ricchissimo sottosuolo. In questa ottica giocano anche i Paesi mediorientali, che in questo modo si assicurano non soltanto buoni contratti ma anche voti favorevoli negli incontri internazionali.

lere iraniane. Ho capito che non si sarebbe potuto continuare a fare quello che facevo io qualche anno fa: la pressione politica era cresciuta troppo. Quindi mi sono concentrato su altro, ma tenendo sempre gli occhi puntati sul palcoscenico centrale di Teheran. Ho iniziato a studiare la religione islamica, e in segreto le altre religioni, fino a che non ho deciso di convertirmi. Nel 1983, in Iran è nata Neda Agha Soltan: figlia anche lei di un dipendente statale, che nel tempo libero suonava diversi strumenti, era una ragazza intelligente ed onesta. Era molto sensibile ai problemi della società, e potrei definirla un’intellettuale.

Ero molto impressionato da lei, soprattutto per un aspetto: quando vedeva o sentiva qualcuno dei nostri dirigenti portare avanti un discorso violento contro qualcuno o qualcosa, non si arrabbiava: diventava triste, molto triste. Diceva che era un peccato, che si fosse arrivati a quel punto, e scuoteva la testa. Era una fonte di gioia per chiunque le stesse vicino. Ci siamo conosciuti in viaggio, iniziando a parlare della bellezza della natura e del creato: dopo qualche tempo abbiamo deciso di frequentarci, per arrivare poi a fidanzarci. Volevamo sposarci dopo la sua laurea, una laurea che le sarebbe costata molto. Appena entrata in università, Neda voleva studiare teologia: era affascinata dalla dimensione spirituale degli esseri umani, e credeva che attraverso la religione si potesse comprendere meglio la società iraniana. Ma non abbandonava le sue idee: ha passato molto tempo a parlare con i dirigenti universitari: del codice di abbigliamento, delle regole interne e di altri precetti che in Iran rappresentano la norma. Dopo un anno di repressione, aveva scelto di abbandonare l’università proprio per i troppi divieti, di cui non capiva la natura e che non poteva tollerare. Decidemmo insieme che la cosa migliore per lei era tornare a studiare arte, in maniera autonoma. Ma Neda aveva una passione anche per la politica interna, e passavamo molto tempo a parlare della crescente repressione e del continuo controllo esercitato dal governo sui cittadini. I più colpiti erano, e sono tutt’oggi, i giovani: Teheran sa bene che sono i giovani a lanciare e sostenere le rivoluzioni, e ci teme. Per Neda tutte le proibizioni imposte dai mullah, che continuavano a crescere giorno dopo giorno, erano frutto di un abile fusione fra calcolo politico e superstizione: non aveva alcuna intenzione di sottostare a quei dettami. Aveva già sofferto troppo, mi diceva, della mancanza di libertà. Si chiedeva sempre perché la popolazione non si alzasse in piedi per protestare, e domandava a tutti: «Ma voi, così, vivete bene?». Lei cercava però anche delle soluzioni, delle risposte a queste domande. E poi sono arrivate le elezioni presidenziali della scorsa estate. Neda aveva le idee molto chiare al riguardo: come la maggior parte dei giovani iraniani, riteneva le elezioni una sorta di sciarada per tenere buono il mondo. Il regime aveva il suo candidato, e gli altri non erano migliori di lui. Lei non ha votato, perché quel voto faceva

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parte del sistema che, invece, Neda voleva rovesciare. Io ero d’accordo con lei, e come lei non ho votato. Perché votare avrebbe significato un sostegno al governo, che non volevamo dare. Questo spiega anche l’altissima affluenza alle urne, principalmente orchestrata dal governo che ha ordinato alla polizia di smettere, per un paio di settimane, di dare la caccia a chi parlava di politica. In pratica, faceva tutto parte di un trucco: la gente, cullata dalla sensazione di libertà fasulla, è andata ai seggi pensando di poter cambiare qualcosa. Ma le carte erano state già truccate. Non erano molti, specialmente fra le giovani generazioni, a conoscere il candidato “verde”, Mir Hossein Mousavi. E ancora meno erano coloro che conoscevano il suo curriculum, che sapevano quale fosse stato il suo ruolo nello sterminio di migliaia di intellettuali ai tempi di Khomeini. Ne avevano sentito parlare ma soltanto nel corso della sua “seconda vita”, quando si era ripulito dai suoi crimini e si era fatto passare per vittima di Ahmadinejad. Quello stesso che ora aveva deciso di sfidare. La gente diceva: «Dobbiamo scegliere il male minore», ed ha iniziato a scendere in strada approfittando della minor tensione ordinata dal governo. Gli osservatori internazionali, guardando la folla in strada, hanno pensato che fosse lì per sostenere Mousavi; in realtà, si godeva un poco di libertà. Dopo le elezioni, quando venne fuori con chiarezza che erano state manipolate, la popolazione è tornata in strada per chiedere il rispetto dei propri diritti. Alla fine, avevano scelto il loro male ma come al solito erano stati ignorati.

Avevamo chiesto aiuto anche alle Nazioni Unite, ma non ne abbiamo avuto. Nei mesi successivi, il regime ha iniziato una repressione violenta e senza freni. E gli iraniani hanno manifestato in ogni modo il loro odio per Ahmadinejad e il suo governo. Per strada è ritorna-

Tutto il mondo ha visto morire una innocente ragazza di 26 anni, scesa in strada per ricordare a tutti che anche noi abbiamo dei diritti. Ma questi diritti vengono calpestati nel silenzio dell’Onu ta la repressione senza limiti cui eravamo abituati: sembrava di essere tornati ai primi giorni della Rivoluzione di Khomeini. Neda aveva seguito tutta la campagna elettorale e, pur non avendo votato, aveva deciso di scendere in piazza: voleva che i suoi diritti di cittadino venissero rispettati. Prima di farla andare, le chiesi perché volesse mettere a rischio la sua vita. E lei mi rispose: «Io ti amo, ma la libertà del nostro popolo è più importante. Non ho paura di un proiettile, perché se fossi colpita il mio sangue colpirebbe tutto il Paese». E alle sei del mattino del 20 giugno, i mercenari del regime hanno sparato quel proiettile. Abbiamo visto tutti i video della sua morte: non ha lottato, si è lasciata andare perché sapeva di morire per una giusta causa. Tutto il mondo ha avuto la possibilità di guardare gli ultimi istanti della vita di una donna innocente di appena 26 anni. Abbiamo ammirato il suo coraggio nell’affrontare la morte e l’abbiamo trasformata in un simbolo di libertà.Vorrei farvi sapere con certezza che Neda è morta sperando e immaginando un futuro migliore per tutta la popolazione iraniana, anche per coloro che ora esercitano il potere. È stato il suo ultimo regalo a quel Paese e a questo mondo. Ora vorrei fare un appello, alle Nazioni Unite e ai governo del mondo: imponete all’Iran il rispetto dei diritti umani, perché in questo modo si eviteranno nuove morti e nuove sofferenze. Spero che il prossimo 20 giugno diventi un’occasione non per ricordare una morte, ma una nuova speranza. Se il regime iraniano dovesse divenire un membro del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, la sua nomina sarebbe uno schiaffo in faccia agli altri membri. Oltre a minare in maniera forse fatale la già fragile credibilità dell’organismo. Inoltre, se l’Onu accetta questa richiesta, legittima di fatto il governo di Teheran nelle sue violazioni. Quel governo è una dittatura, non ha il consenso popolare. Inoltre, ora possiede la tecnologia nucleare che la rende di fatto una minaccia per l’intero pianeta. I mullah hanno degli alleati, nel resto del mondo, e questi li proteggono con ogni mezzo. Se condotti alle strette, i governanti dell’Iran sono pronti a scatenare una guerra mondiale. Il mio messaggio alla comunità internazionale, anche da parte di Neda, è questo: fermate questo regime.


diario

pagina 6 • 10 marzo 2010

L’altro declino. Sempre più spietata la concorrenza dei lavoratori romeni, più preparati degli italiani e richiestissimi dalle aziende

Cercasi operai, meglio se stranieri

Caso esemplare in Ogliastra: i ”locali” scartati per mancanza di formazione ROMA. Accade in Sardegna. Alle imprese concessionarie degli appalti di Intermare Sarda, società del gruppo Eni di Arbatax, specializzata in piattaforme petrolifere. Le aziende decidono di assumere manodopera rumena perché in Ogliastra tra i locali non ci sono saldatori specializzati in cerca di lavoro. Una situazione riconosciuta anche dalle rappresentanze sindacali dello stabilimento. C’è dunque una vera e propria folla di saldatori arrivati con le ditte appaltatrici. Gianni Mucaria, uno dei tre rappresentanti delle Rsu, ha dichiarato qualche giorno fa al quotidiano La Nuova Sardegna che «dopo molte pressioni su Intermare abbiamo ottenuto risposte occupazionali in materia di personale specializzato, tubisti e saldatori, e possiamo affermare senza timore di smentita che oggi all’esterno operai con questa mansione non ce ne sono». Le carenze dunque ci sono, e a determinarle è la mancanza di formazione professionale, argomento discusso e in discussione ormai da anni. «Già in passato abbiamo affrontato questo tema: la formazione era e rimane insufficiente rispetto alle esigenze dell’indotto ogliastrino», dice ancora Muraria, ricordando come negli anni scorsi si parlò di formazione sia nel settore della carpenteria metallica che in quello della nautica senza che nulla sia stato fatto o cambiato.

Tutti parlano in difesa dell’unica realtà industriale di questa parte della Sardegna

cantiere trovano posto solo gli operai dell’est Europa mentre per i sardi non c’è spazio. La vicenda coinvolge la Provincia dell’Ogliastra: il presidente della commissione Lavoro Gianpietro Murru ricorda che «da più parti ci sono arrivate proteste e segnalazioni perché le ditte esterne avrebbero assunto lavoratori dell’Est europeo lasciando a casa i locali. Ora chiediamo che a parità di trattamento si dia la possibilità anche ai lavoratori ogliastrini di poter lavorare in questo territorio senza essere co-

Ad Arbatax le appaltatrici dell’Intermare sarda costrette ad assumere solo saldatori immigrati. I sindacati: «È tutto vero, non c’è alternativa» «ma bisogna mettere l’azienda in condizioni di lavorare al meglio per poi chiedere un piano in grado di soddisfare le esigenze del territorio», si spinge ad affermare il sindacalista. Manca la materia prima fondamentale, il knowhow, perché un insediamento anche importante possa esprimere le massime potenzialità rispetto all’emergenza occupazione. Nonostante la situazione sia così chiara e riconosciuta anche dai sindacati, è scoppiata comunque la protesta da parte dei lavoratori locali, i quali affermano che nel

mera di Commercio il numero di aziende intestate a stranieri ha raggiunto il 49 per cento, e di queste la metà sono intestate a romeni. Anche nell’industria il numero degli stranieri sale e sta crescendo il numero degli operai qualificati. In particolare c’è difficoltà a trovare saldatori e fresatori. Cresce il numero di stranieri nei corsi di avviamento al lavoro, in particolare in meccanica. Si tratta soprattutto rumeni, la cui presenza in Italia ha raggiunto quota 556mila stando al dossier Caritas-Migrantes, e costituisce oltre il 15 per cento dell’intera popolazione straniera. «La stima è prudenziale perché bisogna tenere conto dei rumeni nati in Italia», si precisa nel rapporto.

di Angela Rossi

stretti a emigrare». Secondo notizie fornite dalla Provincia sarebbero oltre un centinaio gli operai iscritti nelle liste degli uffici del lavoro rimasti in attesa, mentre altri sarebbero disposti a trasferirsi da altre aree dell’isola.

Ma la situazione determinatasi in Sardegna è solo la classica punta dell’iceberg che nasconde una realtà molto più complessa anche in termini numerici e che riguarda buona parte del Paese. In Piemonte ad esempio, nel settore edilizio, stando a stime della Ca-

Sì bipartisan a un emendamento di Cazzola

Arriva la Cig lunga ROMA. La commissione Lavoro della Camera ha approvato l’allungamento della cassa integrazione guadagni da un anno a un anno e mezzo con un sì bipartisan. La norma, presentata come emendamento, è a firma del relatore Giuliano Cazzola (Pdl) e modifica il testo base sugli ammortizzatori sociali, che unifica diverse proposte di legge. Lo ha reso noto lo stesso Cazzola. Adesso si aspetta il parere delle altre commissioni e poi si darà mandato al relatore e la si caratterizzerà per l’aula. «Si tratta ha commentato Cazzola - di un risultato bipartisan in un clima difficile come l’attuale che per la prima realizza volta convergenza su problemi che riguardano il lavoro. Vedremo se siamo in condizioni di realizzarlo a breve o se l’organizzazione dei lavori parlamentari lo farà slittare a dopo le elezioni». Sui tempi pesa, oltre il

parere delle altre Commissioni parlamentari tra cui la Bilancio anche i tempi di approvazione di tre decreti legge che sono all’esame dell’Aula prima di questo Ddl: sugli enti locali, sull’Agenzia sui beni della mafia, e sull’Alcoa. La misura approvata, comunque, è in via sperimentale e riguarda il biennio 2010-2011. L’opposizione di sinistra ha sottoscritto l’allungamento della cig ma di fatto non applaude alla scelta: «Non siamo completamente soddisfatti ma l’allungamento della Cig e’un passo avanti», con queste parole il capogruppo del Pd in commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano ha commentato il via libera alla misura. «Questo testo – ha aggiunto - è un primo passo frutto della battaglia del Pd sul tema della crisi, della tutela dell’occupazione e degli ammortizzatori sociali».

Sul totale dei romeni i rom sono circa 50mila e cioè meno del 10 per cento dei rumeni. Vengono soprattutto dalla dalla Moldavia, area orientale tra le più povere del Paese. Le regioni italiane a maggior concentrazione di immigrati rumeni sono il Lazio con quasi 64mila presenze che rappresentnoa il 24,8%, di cui il 20% a Roma, il Piemonte con 45mila e cioè con un quarto del totale dei permessi di soggiorno rilasciati agli immigrati, la Lombardia con poco più di 41mila equivalente al 16% e il Veneto con 35mila. Un flusso migratorio in aumento soprattutto per i salari molto alti rispetto a quelli rumeni e anche per la facilità nell’apprendimento della lingua: ai rumeni bastano in media appena tre mesi per parlare un italiano decente. A guardare ancora le statistiche si apprende che il 20,8% lavora nei cantieri edili, in alberghi e ristoranti ma ben 15mila sono imprenditori. Una manodopera che diventa di giorno in giorno più specializzata. Basta fare un giro sul web, infatti, per rendersi conto che sono moltissime le aziende che offrono lavoro, soprattutto nel Nord Italia, specificando che cercano operai saldatori o fresatori rumeni e, di contro, altrettanto numerose sono le agenzie di intermediazione con le aziende nelle cui liste, alla voce operai, chiariscono che si tratta di rumeni. A dimostrazione che, almeno per questo tipo di manodopera specializzata, i rumeni sono i primi su un mercato sul quale la presenza sia di italiani che di immigrati di altre provenienze è piuttosto scarsa.


diario

10 marzo 2010 • pagina 7

«Chiedo scusa ai ragazzi per gli abusi che ci sono stati»

La Francia fredda sul progetto lanciato da Angela Merkel

Georg Ratzinger parla delle violenze nel Coro

Parigi e Berlino litigano sul Fondo monetario Ue

MONACO. L’ex direttore del coro della cattedrale di Ratisbona, il fratello del Papa, Georg Ratzinger, ha chiesto scusa alle vittime di abusi sessuali e di violenze avvenute anche negli ambienti del coro di voci bianche di Ratisbona celebre in tutto il mondo. Don Georg ha parlato della questione al quotidiano tedesco Passauer Neue Presse riaffermando di non essere stato a conoscenza di fatti del genere nel periodo in cui ha diretto il coro, cioè dal 1964 al 1993. «Il problema degli abusi sessuali che ora è venuto alla luce non è mai stato affrontato in precedenza nel coro di Ratiasbona», ha spiegato al giornale tedesco Georg Ratzinger. Il fratello del Pontefice invece ha parlato del-

PARIGI. L’idea di creare un Fon-

Evasione e famiglia, Tremonti promette Più controlli e più aiuti nel piano fiscale 2010/2012 di Alessandro D’Amato

le punizioni corporali inflitte agli alunni dell’istituzione dal precedente direttore del coro: «Se avessi saputo con quale violenza egli agiva - ha detto il sacerdote - avrei detto qualcosa. Chiedo dunque perdono alle vittime». «Io sapevo - ha aggiunto - che il precedente direttore dell’internato dava degli schiaffi assai forti spesso per ragioni irrisorie. Si trattava di una pratica normale negli istituti scolastici dell’epoca. Naturalmente col tempo la gente è diventata più sensibile su questi problemi, e lo stesso è accaduto per me». Nel 1980 le punizioni corporali sono state vietate e «io ne sono stato felice» ha concluso.

l coro di Domspatzen, istituzione millenaria, è dalla scorsa settimana al centro dello scandalo dei casi di pedofilia ed abusi sui minori commessi all’interno degli istituti cattolici. Le accuse principali vengono da un ex allievo della scuola, il direttore d’orchestra e compositore Franz Wittenbrink, che al magazine Spiegel ha raccontato di «un ingegnoso sistema di punizioni sadiche connesse al piacere sessuale» ed ha accusato un ex direttore della scuola di aver portato «due o tre ragazzi ogni sera nella sua stanza», dove li faceva ubriacare prima di masturbarsi insieme a loro.

ROMA. Assicurare il sostegno alle famiglie, intensificare i controlli sugli italiani all’estero e puntare su piani specifici contro le frodi sull’Iva. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, nella bozza dell’Atto di indirizzo per il conseguimento degli obiettivi di politica fiscale per gli anni 2010-2012 descrive i punti programmatici che dovrebbe guidare l’azione del governo e del ministero. «Le dimensioni internazionali che progressivamente assumono i fenomeni evasivi rendono necessario intensificare l’attività di controllo nei confronti degli italiani residenti stabilmente all’estero», dice Tremonti. E aggiunge che nell’azione ci sarà «particolare riguardo» per i «soggetti societari che hanno la propria sede o quella di società controllate/collegate in Paesi a fiscalità privilegiata o che intrattengono rapporti commerciali con soggetti ivi aventi sede». E anche le frodi Iva finiscono nel mirino di questo libro delle promesse: sempre tra gli obiettivi definiti nel documento figura la «definizione di specifici piani operativi e di metodologie di prevenzione e contrasto dei fenomeni fraudolenti in materia di Iva nazionale e comunitaria». Si punta anche ad un «incremento dei controlli» con particolare riferimento ai grandi contribuenti e «all’incremento degli accertamenti con determinazione sintetica del reddito», il cosiddetto redditometro. Difficile non vedere nelle prime due proposte un netto richiamo ai fatti di attualità di questi giorni, e in particolare all’inchiesta sul riciclaggio che ha coinvolto due grandi aziende che operano in Italia come Telecom e Fastweb. Riguardo la terza, soltanto l’anno scorso con il redditometro l’Agenzia delle Entrate ha scovato circa 20mila falsi poveri e accertato maggiori imposte per circa 300 milioni di euro. Buone le performance dell’accertamento nel 2009 che ha riscosso oltre 8 miliardi. Il numero complessivo degli accertamenti effettuati nel 2009 è stato 711.932, con un aumento del 10% sull’anno precedente mentre la maggiore imposta accertata è risultata di

26,3 miliardi di euro (+30%). Di accertamenti sintetici delle persone fisiche, per i quali si utilizza il redditometro, ne sono stati eseguiti 28.316, con un aumento dell’81% rispetto al 2008. La maggiore imposta accertata con questo strumento è stata di 460 milioni (+61%).

Tra le altre proposte c’è anche la trasformazione dell’Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato in Agenzia fiscale: una mossa che contribuirà all’incremento dell’efficacia dell’azione amministrativa, al rafforzamento dell’azione di contrasto del gioco illecito ed irregolare e al consolidamento delle entrate tributarie. Da segnalare poi l’annuncio di nuovi provvedimenti sociali: «Saranno assicurate misure di sostegno alle famiglie, necessarie al proseguimento del mantenimento della capacità d’acquisto», sta scritto nella bozza, dove si evidenzia anche la necessità di sostenere la produttività del lavoro e di avere un «particolare riguardo all’imprenditoria giovanile e femminile». Saranno inoltre «valutate ulteriori misure» per semplificare gli adempimenti e per assicurare la liquidità alle imprese medie e piccole. È da segnalare, infine, un articolo del Financial Times, in cui si dice che il ministro «apre il fuoco» contro «i covi anglosassoni della speculazione». Il giornale riporta le posizioni espresse dallo stesso Tremonti in occasione del convegno Aspen di Venezia, e la presa di posizione sui problemi finanziari delle nazioni dell’Ue: «È arrivato il momento di smettere di parlare di “pigs” - acronimo un pò offensivo per definire i paesi del Club Med con deficit particolarmente alto tra cui Portogallo, Italia, Grecia e Spagna - perché questi sono invece divenuti le vittime di ciò che Tremonti ha definito i paesi “fire” - acronimo per tutti i problemi legati alla globalizzazione del libero mercato: finanza, assicurazioni e real estate». Il Financial Times ricorda poi che Tremonti è anche uno tra i ministri delle finanze europei «non pienamente convinto dell’idea di creare un nuovo Fondo Monetario Europeo».

do monetario europeo, avanzata dalla Germania, è interessante ma non rappresenta una priorità immediata al momento: lo ha detto il ministro dell’Economia Christine Lagarde. «La proposta di un Fondo monetario europeo è una strada interessante che dobbiamo esplorare, insieme ad altre, ma non può essere una priorità assoluta nel breve termine», ha spiegato ai giornalisti il ministro. La Commissione Ue, dunque, si accinge a proporre la creazione di un nuovo Fondo di salvataggio per i paesi membri della zona euro. Il progetto incontra il favore di Berlino e ha riscosso reazioni positive in Europa secondo il ministro dell’Economia tedesco, Rainer Bruederle, che ieri si è detto d’accordo con la richiesta di un fondo monetario europeo avanzata dal ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble.

Alla presa di posizione francese ha infatti fatto eco poco dopo una dichiarazione del cancelliere tedesco Angela Merkel, che ha affermato che la creazione del Fondo non indebolirebbe le regole di bilancio che disciplinano l’Unione europea. Dopo un incontro a Lussemburgo con il primo ministro Jean-Claude Juncker, Merkel

In previsione c’è anche la trasformazione dei Monopoli in un’agenzia che si occupi di combattere le scommesse illecite

ha sottolineato che un fondo di questo tipo dovrebbe essere considerato uno strumento di ultima istanza. Il premier lussemburghese ha aggiunto che non avrebbe lo scopo di trovare una soluzione al problema greco. Tanto Merkel quanto Juncker hanno affermato che la Grecia non sembra aver bisogno di interventi. «Io ritengo che la Grecia non abbia bisogno di alcun sostegno finanziario», ha detto Merkel ai giornalisti. E alle sue parole ha fatto eco il presidente dell’Eurogruppo, secondo cui le misure di austerità varate da Atene dovrebbero essere sufficienti a convincere i mercati finanziari che il paese sia in grado di lasciarsi alle spalle le difficoltà presenti.


politica

pagina 8 • 10 marzo 2010

Caos. I pasticci sulla presentazione delle liste per le regionali dimostra che un intero sistema ormai è disgregato

Il disturbo bipolare

La politica ormai è in un vicolo cieco: da un lato l’autoreferenzialità, dall’altro il ricorso alla piazza per evitare di risolvere i problemi di Rocco Buttiglione li avvenimenti recenti relativi alla (non) presentazione delle liste elettorali del Pdl in Lombardia e nel Lazio segnano la transizione del bipolarismo italiano dall’ambito della politica a quello della psichiatria. Chiamasi infatti disturbo bipolare quella malattia psichica nella quale il paziente è incapace di costruire una immagine coerente della realtà con la quale orientarsi per le sue azioni e le sue decisioni. Potremmo dire che nel paziente che soffre di disturbo bipolare manca il centro a partire dal quale diventa possibile integrare i diversi aspetti della personalità che invece si oppongono

G

gari sono stati cancellati alcuni nomi sgraditi alla corrente di appartenenza del presentatore o ne sono stati inseriti altri? Una garanzia importante è venuta meno. E, in un’altra occasione, perché ci sono tante firme irregolari? Non sarà perché si è litigato fino all’ultimo minuto sulla composizione del listino e poi non c’è stato tempo per raccogliere le firme? Dietro le questioni burocratiche ci sono questioni politiche ed esigenze di garanzia della regolarità del processo elettorale.

E c’è poi il principio di eguaglianza.Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge. Sarebbe stata

Ognuno ha gridato le proprie ragioni senza fare alcuno sforzo per comprendere la verità degli altri. È il tipico comportamento dei bambini che credono di avere ragione soltanto perché gridano di più senza mediazioni. Ogni lato della personalità malata cerca disperatamente di sopraffare ed annientare l’altro, oppure si chiude in se stesso e convive senza mai integrarsi con esso. Trasposto in politica, questo è un Paese diviso in due campi nemici. Altro che “politica dell’amore”di cui talvolta parla il capo del governo! Già il semplice fatto di attribuire a se stessi tutto il bene e al proprio avversario tutto il male contiene un seme totalitario. Che possibilità c’è di incontro e di mediazione se l’altra metà del Paese è interamente corrotta e, nel migliore dei casi, andrebbe distrutta? Non è che la piazza antiberlusconiana sia meglio. Si invoca uno Stato di polizia contro il nemico e ci si augura non di mandarlo all’opposizione con metodi politici ma di mandarlo in galera con mezzi giudiziari.

Riepiloghiamo brevemente la vicenda che si è svolta sotto i nostri occhi. Il Pdl sbaglia nel presentare le liste, non osserva le prescrizioni di legge. Non si tratta di stupide formalità burocratiche. Si tratta di norme di garanzie poste a tutela della regolarità delle elezioni contro possibili imbrogli. C’è l’episodio oscuro di un presentatore di lista che esce dai locali dove ha luogo la presentazione portandosi la lista. Quando torna, è fuori tempo massimo. Ha riportato negli uffici la stessa lista o ha portato una nuova lista, in cui ma-

ammessa una lista del “partito de Noantri” se fosse stata presentata con i difetti formali delle liste legate al Pdl? Se quella non sarebbe stata ammessa, allora non deve essere ammessa nemmeno quello dal Pdl. Certo, come ha spiegato il Capo dello Stato, qui il principio della eguaglianza e del rispetto della legge si scontra con l’esigenza so-

Un documento contro la «denigrazione»

E il Csm attacca: «Salvateci dal premier» ROMA. Non si ferma la polemica, ormai durissima da entrambe le sponde, tra due poteri fondamentali dello Stato: quello esecutivo e quello della magistratura. «Episodi di denigrazione e di condizionamento della magistratura e di singoli magistrati sono del tutto inaccettabili, perché così si mette a rischio l’equilibrio stesso tra poteri e ordini dello Stato sul quale è fondato l’ordinamento democratico di questo Paese»: lo scrive nero su bianco la prima Commissione del Csm nella pratica aperta a tutela di alcune toghe accusate dal premier Silvio Berlusconi di agire per finalità politiche. Il documento, approvato all’unanimità dalla Commissione, verrà discusso oggi pomeriggio dal plenum di Palazzo dei Marescialli. Nel documento approvato dalla Commissione c’è un «pressante appello a tutte le istituzioni perché sia ristabilito un clima di rispetto dei singoli magistrati e dell’intera magistratura, che è condizione imprescindibile di una ordinata vita democratica». Infatti la ricca pratica aperta in Commissione si è arricchita di mese in mese dei vari attacchi del premier alle varie toghe, da quelle del processo Mills a quelle di Napoli e Milano. La Commissione, sottolineando che il discredito sulle toghe può produrre «oggettivamente nell’opinione pubblica, la convinzione che la magistratura non svolga la funzione di garanzia che le è propria», determina una «grave lesione del prestigio e dell’indipendenza della giurisdizione». Ricordando le preoccupazioni espresse più volte dal capo dello Stato, i consiglieri sottolineano che per affrontare «serenamente le auspicate riforme in tema di giustizia, è necessario il rispetto tra gli organi istituzionali che devono contribuire a garantire un clima sereno e costruttivo. Non è ammissibile – dicono una delegittimazione di un’istituzione nei confronti dell’altra, pena la caduta di credibilità dell’intero assetto costituzionale». La delibera conclude che è «indispensabile che non si ripetano questi episodi di denigrazione», poiché «lo spirito di leale collaborazione istituzionale implica necessariamente che nessun organo istituzionale denigri liberamente altra funzione di rilevanza costituzionale».

stanziale di non falsare la competizione elettorale impedendo la partecipazione di uno dei protagonisti principali. È, questo, uno di quei casi tipici in cui si scontrano non un torto ed una ragione ma due ragioni. Come ricomporle? Il Pdl avrebbe dovuto riconoscere i propri errori e chiedere poi un incontro alle opposizioni per metterle davanti a una questione di democraticità: possiamo fare le elezioni senza uno dei protagonisti principali? Le opposizioni avrebbero avuto il dovere di farsi carico del problema e di concordare un provvedimento che ripristinasse la regolarità formale e sostanziale del procedimento elettorale. Cosa è successo invece? Ognuno ha gridato le proprie ragioni senza fare alcuno sforzo per comprendere la verità degli altri. È il comportamento di bambini che credono di avere ragione perché gridano di più. Il governo ha fatto un provvedimento non concordato, che l’intervento del capo dello Stato ha mantenuto almeno nei limiti formali della Costituzione. In sostanza si è assolto da solo, senza confessione di peccato e senza penitenza.

L’opposizione di sinistra ha fatto ricorso alla piazza, come fa sempre quando non sa che fare. La piazza è, per eccellenza, il luogo per gridare le proprie ragioni. Certo non è il luogo per ascoltare le ragioni degli altri e per trovare le soluzioni di cui ha bisogno il Paese. La cultura di governo, invece, è la capacità di dire le proprie ragioni e, insieme, di ascoltare le ragioni degli altri per trovare soluzioni ai problemi del Paese. C’è chi argomenta per convincere e, a questo fine, riconosce la legittimità del punto di vista dell’altro, e c’è chi argomenta per convincere se stesso e i suoi, quelli già convinti, e per dare sfogo alle proprie passioni, alle proprie illusioni e delusioni. C’è, insomma, una visione espressiva, dannunziana ed estetizzante della politica che ama ascoltare la propria indignazione e l’ostentazione della propria virtù ma non sa e non vuole governare. Il bipolarismo italiano è fallito perché ha armato una parte del Paese contro l’altra, ha stigmatizzato come inciucio la politica, cioè la capacità di trovare ragionevoli punti di incontro con i propri avversari per realizzare il bene comune del Paese. Le diverse formazioni politiche sono infatti parte


politica

10 marzo 2010 • pagina 9

Carroccio e ex An si smarcano dalla polemica sulle regionali

Dalla Lega ai finiani, storie di infidi alleati

Per Farefuturo il Pdl avrebbe dovuto chiedere scusa per gli errori. Per i lumbard vale il giudizio del Tar di Riccardo Paradisi No non c’è solo l’opposizione a impensierire il premier, la magistratura delle toghe rosse e l’imperizia dei quadri d’un partito di cui Silvio Berlusconi comincia a essere seriamente stanco.Tanto da meditare rivoluzioni interne così profonde e radicali da cambiarne organizzazione e struttura. C’è anche lo smarcarsi scientifico, in questa vicenda surreale e drammatica dei pasticci prelettorali, degli alleati di destra e di sinistra. Ossia della Lega da un lato e del solito Gianfranco Fini dall’altro. Cominciamo da Fini. Il profilo tenuto dal presidente della Camera s’è contraddistinto sin dall’inizio come intonato all’estrema moderazione: invitando dapprima il Pdl a non esasperare i toni dopo l’esclusione delle liste nella provincia di Roma e poi definendo il decreto salvaliste il male minore. Formula per cui Berlusconi s’è dichiarato «letteralmente sconcertato».

del medesimo popolo ed una parte non può perseguire il proprio bene se non nel quadro di una visione alla fine accettata e riconosciuta anche dai propri avversari. La lettura dei giornali in questi giorni ci mostra una politica dell’invettiva e dell’insulto in cui la gara è a chi la spara più grande. Alla fine i cittadini guardano alla politica nello stesso modo in cui guardano al campionato di calcio. Fanno il tifo per Berlusconi o contro di lui come si può fare il tifo per l’Inter o per il Milan. È l’espressione di una simpatia, di una identificazione immaginaria, di una voglia di sfidare i propri avversari, ma non di una ragionevole valutazione dei propri valori e dei propri interessi, di un sentimento di appartenenza ad un progetto di cambiamento (o anche di conservazione) dal quale ci si attende un bene concreto per se stessi e per le persone care.

È possibile un’altra politica? A volte viene la tentazione di dubitarne. Se un’altra politica è possibile essa deve cominciare con una chiara differenziazione fra se stessa e ciò che oggi passa per politica nel nostro Paese. Non bisogna colludere con i vizi di questa politica. La scelta di andare da so-

Berlusconi con Umberto Bossi; a destra, Roberto Maroni e, nella pagina a fianco, Pierluigi Bersani: il bipolarismo all’italiano sembra arrivato alla fine del suo caotico ciclo li è l’espressione plastica di questa diversità. Noi vogliamo un’altra politica, fatta di desiderio di realizzare un bene comune e non di voglia di annientare e distruggere un avversario. Noi vogliamo una politica che unisca e per questo che ascolti e sia capace di creare sintesi in cui tutti si sentano accolti e nessuno emarginato ed escluso. Vogliamo tessere legami fra i sessi, fra le categorie sociali, fra le aree territoriali. Il bipolarismo che è fallito ha disgregato il Paese, ha attizzato tutte le rivalità, le inimicizie ed i rancori, ha fatto perdere ai cittadini il rispetto per le istituzioni e la fiducia nella imparzialità di chi ha la responsabilità di essere arbitro e per ogni autorità al di sopra delle parti. È lecita però la speranza che dopo aver toccato il fondo con questa buffonesca vicenda il popolo italiano apra gli occhi e decida di reagire. Quando si finisce in un vicolo cieco bisogna fare un poco di marcia indietro per riprendere poi il giusto cammino.

Sconcerto che potrebbe rinnovarsi di fronte alla parabola con morale che la fondazione finiana FareFuturo dedica alla maggioranza alle prese con la vicenda delle irregolarità elettorali. Il titolo dell’apologo ambientato nel’immaginaria terra di Populandia è già un programma: ”E in un Paese lontano lontano nella politica regnava il rispetto”. Eccolo in sintesi: Un giorno, nella terra di populandia, i giudici colsero in fallo il Pdl, ”Partito del Luminoso” che aveva commesso degli errori nel presentare le liste elettorali. Dopo due giorni di silenzio costernato, il grande capo del Pdl, Silvio Cavaliere, va in tv a reti unificate, dicendo: «Cari cittadini, noi vi chiediamo umilmente scusa. Il nostro dovere è rispettare le regole, e se sono sbagliate cambiarle: ma prima di averle infrante, non dopo». Segue una richiesta al Partito Dialogante (Pd), di un accordo per un rinvio delle elezioni. Nel Partito Dialogante si apre un dibattito dopo il quale la richiesta viene accettata. Nella parabola irenista di Ffwebmagazine figura anche un postscriptum: «Il Partito del Luminoso vinse le elezioni, e il Partito Dialogante non ne fece un dramma». Amenità. Ma il messaggio dei finiani è chiaro: Berlusconi e i suoi hanno sbagliato a puntare allo scontro, ad arroccarsi sulla tesi del complotto, a urlare contro magistrati e radicali. Il Secolo d’Italia di ieri, l’altro organo finiano, metteva in prosa lo

stesso messaggio. “Scusarsi con gli elettori poteva essere una strada”è il titolo dell’articolo in cui viene data parola alla pattuglia di ex an più vicina al presidente della Camera. «Si doveva aprire un tavolo di confronto con le altre forze politiche per arrivare a una soluzione», dichiara l’esponente del Pdl Silvano Moffa. Maria Ida Germontani è ancora più esplicita: «Non possiamo parlare di legalità senza riconoscere noi per primi che un errore è stato commesso. Un grande partito – polemizza poi Germontani riferendosi al vicepresidente dei senatori azzurri Gaetano Quagliariello – deve rispettare le regole anche coi “timbri e i formalismi”, come li definisce lui, e se sbaglia riconoscerlo». Critiche rivolte al quartier generale del Pdl anche se a partecipare alla maratona oratoria di piazza Farnese della settimana scorsa, parlando di complotto e radicali violenti, c’erano anche e soprattutto molti esponenti ex An della capitale. Ma queste sono bagattelle di fronte alla spaccatura più seria che potrebbe prodursi se il premier decidesse la linea dura che porterebbe dritto alla richiesta di rinvio del voto.

Anche perché, e questo è il punto, molti parlamentari, soprattutto dentro An, sono a dir poco perplessi su uno slittamento della campagna elettorale. Fabio Granata lo dice chiaramente: «Bisogna esperire tutte le strade possibili per risolvere il caso Lazio. Speriamo non si arrivi a questo». Per quanto riguarda l’alleato leghista si registra un’olimpica indifferenza verso le questioni che stanno macinando dall’interno il Pdl. Il ministro dell’interno Roberto Maroni, poco prima della pronuncia del Tar del Lazio aveva detto «Se il Tar decide che la lista è fuori, quella lista resta fuori nonostante il nostro decreto». Così non è andata ma per la Lega in generale che il Consiglio di Stato decida contraddicendo una sentenza del tribunale regionale è ideologicamente sgradevole. E poi dal Carroccio non sono mancate frecciate sul modo in cui il Pdl ha gestito la faccenda delle liste. Il nostro – è il pensiero della lega è un partito vero, certi dilettantismi sarebbero semplicemente impensabili. Uno smarcamento più sottile ma che confida nella raccolta al nord dei voti che il Pdl potrebbe far fluire verso il Carroccio per gli incidenti di Lazio e Lombardia

Per motivi diversi gli uomini del presidente della Camera e quelli di Bossi non hanno intenzione di seguire Berlusconi nello scontro frontale per le regionali


politica

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Caos liste. Un’altra giornata di attesa e polemiche, in vista della decisione (non definitiva) sul voto nel Lazio

Continua il tormentone

Anche la Commissione del Lazio dice no al Pdl a Roma. E Berlusconi punta a una grande manifestazione «dove dirò la mia agli italiani» di Marco Palombi

ROMA. Alla fine neanche le magie legali dei cervelloni del PdL hanno fatto il miracolo di sanare l’insanabile: l’ufficio elettorale circoscrizionale ha rifiutato - di nuovo - la lista per la provincia di Roma del partitone del premier. L’ultima partita resta quella del Consiglio di Stato, che dovrebbe chiudere il tutto sabato. Adesso, comunque, è ufficiale: un paese intero è rimasto appeso per oltre due settimane intere «alle cazzate di una manica di peracottari». Il colorito commento romanesco - che ci permettiamo di fare nostro - è quello che circolava ieri mattina al Tribunale di Roma, essendo i “peracottari” gli antichi venditori di pere cotte e oggi, spregiativamente, passati a indicare gli incapaci, le persone maldestre (dizionario De Mauro).

L ’a no nimo commentatore giudiziario s’è, peraltro, ritrovato ad esprimere uno stato d’animo oramai decisamente bipartisan (anche alla luce dell’ok definitivo alla lista Formigoni in Lombardia) se è vero che lo stesso Berlusconi - anche se non lo ammetterà mai in pubblico - ha capito che sono state prima le manovre attorno alla lista dei vertici del PdL laziale e nazionale (la guerra per bande in An, quella tra i vari caporioni nella ex Forza Italia) poi le bugie sul reale svolgimento dei fatti a causare l’ingloriosa figuraccia che oggi è sotto gli occhi di chiunque voglia guardare. Infatti, a prescindere dalle solide motiva-

Il governo del fare (pasticci) e l’opposizione del gridare di Giancristiano Desiderio un po’ come quei film intitolati L’aereo più pazzo del mondo. Solo che questa volta sull’aereo ci siamo tutti noi perché il nostro sistema istituzionale è diventato «la democrazia più pazza del mondo». Il concetto di manicomio è stato tirato in ballo da più parti. Ma, in verità, il primo a parlare ufficialmente di “pasticcio” è stato il presidente della Repubblica. Il governo avrebbe dovuto metterci una pezza e, per dirla tutta, l’opposizione avrebbe dovuto offrire la sua disponibilità alla soluzione del “pasticcio” perché in fondo in una democrazia adulta e saggia un voto regolare e con partecipazione completa conviene a tutti. Invece, come volevasi dimostrare, tutto è finito ancora una volta con uno scontro tra istituzioni: il governo, dopo aver detto di non voler fare alcun decreto, vara un decreto interpretativo e il capo del governo non si risparmia uno scontro con il capo dello Stato al quale avanza la proposta, inammissibile, di risolvere il “pasticcio” creato dal Pdl con la riapertura dei tempi per la presentazione delle liste; da parte sua, il Pd, però, per non farsi mancare nulla, annuncia subito la solita manifestazione di piazza.

È

Quando tutto sembra avviato verso una soluzione solo parzialmente giusta ottenuta con un mezzo sbagliato, ecco che il Tar non riammette la lista del Pdl a Roma. Inizia così quello che è stato definito «pasticcio numero 2» che dovrebbe essere sbrogliato dall’ufficio elettorale del Tribunale, mentre il Pdl annuncia e inoltra un nuovo ricorso al Consiglio di Stato e i radicali lanciano l’idea di rimandare le elezioni nel Lazio di un mese, mentre Pierluigi Bersani dice: «Per l’amor di Dio, sarebbe un altro pasticcio». In effetti, è difficile dargli torto, non perché abbia ragione ma perché più si allontana la data del voto e più aumentano le occasioni di continuare a fare pasticci su pasticci. Anche se il pasticcio definitivo è ormai fatto: al voto e a questa folle campagna elettorale seguirà un fiume di ricorsi e carte bollate e, qualunque sarà il responso delle urne, ci sarà chi dirà che il voto non è valido perché falsato da un’anormale campagna elettorale. Così sarà raggiunto il capolavoro a cui il governo e

l’opposizione stanno lavorando alacremente da ormai più di dieci giorni: non solo l’incapacità di far svolgere campagna elettorale e voto, ma anche la contestazione e la sostanziale illegittimità del voto stesso. Tutto oscilla tra il comico e il tragico.

Come è possibile che «il governo più efficiente degli ultimi centocinquanta anni» (come lo definì Berlusconi) abbia raggiunto in men che non si dica tali vette di dilettantismo? Come è possibile che si siano incartati con carte, liste, firme, bolli e roba simile? Come è possibile che non siano stati capaci di risolvere, sia dal punto di vista della legge sia dal punto di vista politico, quello che tutto sommato era ed è pur sempre un problema minore? In fondo, il vero pasticcio non è stato tanto l’esclusione delle liste, quanto tutta l’eccessiva drammatizzazione che proprio il governo per primo ha alimentato. Se il pasticcio non ci fosse stato - si potrebbe dire - il governo lo avrebbe provocato. E difatti è proprio quello che è accaduto. Il primo dovere del governo era quello di far rispettare leggi e regole per poi, una volta posto il problema del diritto a partecipare alla gara elettorale, volere fortemente l’intesa con il maggior partito dell’opposizione. Invece, hanno fatto di testa loro lasciando una debole opposizione ancora una volta tra le braccia di Antonio Di Pietro e anche di Beppe Grillo. Tutto tragicomico, appunto. Forse, non è vero che negli ultimi centocinquanta anni l’Italia non ha avuto governi migliori di questo? Forse, accadono scene da dilettanti allo sbaraglio come queste quando il pensiero dominante e unico di chi governa è il consenso e quindi la propaganda e quindi la visibilità e quindi il continuo cambio delle carte in tavola? A volte si ha la sensazione, che in realtà è qualcosa di più una sensazione, che chi governa e chi si oppone non sappiano di cosa stiano parlando. Per dirlo con chiarezza: le manifestazioni di dilettantismo sono il frutto di una scarsa conoscenza delle cose dello Stato. Se a questo fatto si aggiunge l’ossessione del consenso che deve essere conservato e acquisito attraverso l’arte della comunicazione si capisce perché governa il caos.

zioni legali, ieri il Tar di Roma ha illustrato il “casino”in dettaglio motivando il no al ricorso del PdL deciso lunedì sera: non solo il decreto salvaliste non può essere applicato al Lazio - che ha una sua normativa elettorale come lo autorizza a fare la Costituzione - ma anche volendo «dagli atti risulta che il plico, che asseritamente conteneva la prescritta documentazione, alle ore 17 veniva prelevato da un delegato del PdL, che poi si allontanava, e solo alle 19:30 la documentazione relativa alla presentazione della lista veniva consegnata agli uffici del Reparto dei carabinieri».

Insomma, si limitano a far notare i giudici, non c’è una sola prova che «il delegato del PdL, che risulta aver fatto ingresso al tribunale alle 11:35 della mattina, fosse munito della “prescritta documentazione” (come prevede il decreto, ndr) e che il plico, rinvenuto nei pressi dell’Ufficio dopo le 12:30, contenesse la documentazione poi consegnata all’ufficio dei carabinieri alle 19:30». Tradotto: può benissimo darsi che la documentazione, in quella passeggiata di due ore e mezza, sia stata alterata, modificata, integrata e via violando le regole.


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Anche ieri al Senato è stata una giornata di scontri e liti (con l’esposizione di magliette contro la legge sul legittimo impedimento) Nella pagina a fianco, Renata Polverini e Roberto Formigoni, dalle cui liste è nato il caos di questi giorni

Sulla fiducia, nessun impedimento Il ministro Vito annuncia la blindatura del provvedimento tra le proteste dell’opposizione di Franco Insardà

ROMA. Magliette bianche con la scritta «Etiam si omnes, ego no», «Se anche tutti, io no» indossate da alcune senatrici del Pd. Citazioni di Alice nel paese delle meraviglie e di Pippi Calzelunghe fatte dal senatore Stefano Ceccanti per spiegare l’incostituzionalità del disegno di legge sul legittimo impedimento. Aforismi detti al cellulare di un cronista dall’ex portavoce di Romano Prodi, Silvio Sircana. Battute al vetriolo del tipo «siamo al pret a’ porter giuridico e alla legislazione creativa» della senatrice Incostante. Silvio Berlusconi definito «energumeno istituzionale» da Pancho Pardi. Mentre su tutto aleggiava l’ennesima fiducia, la trentesima, che il governo si apprestava a mettere per blindare anche questa legge. Ieri, comunque, la giornata di Palazzo Madama ha visto un’opposizione particolarmente ispirata e attenta a mettere in difficoltà la maggioranza sul disegno di legge in discussione che dovrebbe garantire al premier e ai ministri, impegnati nello svolgimento delle loro funzioni, di non doversi presentare nei procedimenti penali nei quali sono imputati o parti offese. Il disegno di legge, formato da due articoli e otto commi, è un provvedimento ponte che sarà valido non oltre diciotto mesi dalla sua entrata in vigore, in attesa di una legge costituzionale che disciplinerà le prerogative del presidente del Consiglio e dei ministri per la loro partecipazione ai processi penali. E, Come che sia, il premier ha capito di chi è la colpa e ieri pomeriggio, in una riunione a palazzo Grazioli presenti i tre coordinatori, Gianni Alemanno e Renata Polverini, ha espresso tutto il suo disappunto. In altre parole, il Cavaliere è fuori dalla grazia di Dio perché va bene fare un decreto che spacca il Paese e terremota le istituzioni, ma almeno che funzioni. Berlusconi, in realtà, pur di recuperare la lista

così come annunciato, Pd e Idv hanno ingaggiato una vera e propria battaglia, cominciata già all’apertura dei lavori, quando hanno fatto mancare il numero legale al momento della votazione del processo verbale, costringendo il presidente Schifani a sospendere la seduta, cosa che è successa anche nel pomeriggio alla ripresa dei lavori. I senatori dell’opposizione hanno cominciato a illustrare i 1685 emendamenti presentati, prime fra tutte le cinque pregiudiziali di incostituzionalità.

cedere parte del nostro tempo a disposizione nella discussione a seconda dell’andamento dei lavori». Una risposta che ha fatto insorgere l’opposizione. Il vicepresidente dei senatori Pd, Luigi Zanda ha, infatti, replicato: «Apprezziamo le parole del presidente Schifani, ma riteniamo la pratica della concessione profilata dal senatore Quagliariello una pratica senza decoro, che non accettiamo e che respingiamo fermamente perché qui noi chiediamo e intendiamo far valere solo quello che è’ un diritto dell’opposizione». E Anna Finocchiaro ha aggiunto: «il Paese sta marcendo e noi siamo qui a discutere di legittimo impedimento e cioè sempre dei problemi del presidente del Consiglio. Il dissenso non può essere contingentato».

A Palazzo Madama forte ostruzionismo di Pd e Idv, mentre l’Udc conferma l’astensione in assenza di modifiche

A Pd e Idv che chiedevano più tempo, rispetto al previsto contingentamento della discussione, Schifani ha riposto facendosi garante dei diritti dell’opposizione. «Il diritto di parola e di opinione ha detto il presidente del Senato - in quest’aula è e continuerà a essere sacro», assicurando una interpretazione elastica della decisione e chiedendo la disponibilità alla maggioranza di cedere parte del suo tempo all’opposizione. Una richiesta accolta dal vicecapogruppo del Pdl, Gaetano Quagliariello, che ha, però, precisato: «Ci riserviamo di con-

del suo partito in provincia di Roma era disposto anche all’ennesimo strappo, un rinvio del voto in tutta Italia, ma la Lega lo ha sconsigliato dall’intraprendere questa strada: la vicenda delle liste rischia di azzoppare definitivamente anche la corsa di Cota in Piemonte (Zaia in Veneto vincerà comunque) e Bossi s’è stufato di venire incontro ai «dilettanti allo sbaraglio» con cui governa. Quindi niente rinvio del

Per rendere ancora più evidente la protesta delle senatrici Pd con maglietta bianca, e scritta «Etiam si omnes, ego no», «Se anche tutti, io no», che, come ha spiegato la senatrice Emanuela Baio si tratta del «motto dei giovani universitari tedeschi della Rosa bianca usato come forma di protesta durante il na-

voto nel Lazio, anche perché servirebbe il placet di Esterino Montino, governatore della regione dalle dimissioni di Marrazzo.

La segretaria dell’Ugl, uscendo dalla residenza del premier, s’è detta «ottimista» e ha chiarito che andrà avanti comunque, lista del PdL a Roma o meno. «Adesso basta», avrebbe detto il Cavaliere ai suoi, fac-

zismo per dire no a un sistema dittatoriale». Anche il capogruppo dell’Idv Felice Belisario ha chiarito la posizione del suo partito: «Abbiamo il pieno diritto di dire al Paese come la pensiamo, pur nella divisione delle opinioni”.

L’Udc, invece, si è astenuto sulle pregiudiziali di incostituzionalità per il legittimo impedimento «in coerenza con la linea tenuta fino a questo punto» come ha dichiarato il presidente dei senatori Udc, Gianpiero D’Alia. «La nostra posizione di astensione ha spiegato D’Alia - parte dal presupposto che il legittimo impedimento è il male minore per congelare lo scontro tra Berlusconi e la magistratura. Indubbiamente, la norma che la maggioranza ci propone è molto distante dalla nostra proposta originaria, e per questo motivo, se non dovessero essere apportate modifiche importanti al testo, la nostra astensione verrà ribadita anche sul disegno di legge». Ma il senatore del Pd Felice Casson ha accusato governo e maggioranza di essere «rei confessi sull’incostituzionalità del provvedimento, perché si riconosce che ci sarebbe bisogno di una legge costituzionale per modificare questa normativa di diritto penale, per introdurre questa prerogativa e tuttavia si dice che sino a quando non entrerà in vigore una legge costituzionale verrà utilizzata questa cosiddetta legge ponte, che è ordinaria».Oggi il match continua, ma con la fiducia annunciata il risultato è scontato.

ciamo tutti i ricorsi possibili ma da ora «si fa solo campagna elettorale, sarò io a raccontare agli italiani come stanno le cose». Pare che il premier pensi a un evento elettorale accanto alla Polverini, probabilmente una megamanifestazione per chiamare a raccolta l’arrabbiato e confuso popolo del centrodestra. Quanto a Bersani ieri è riuscito a tenersi bene in equilibrio tra i radicali e Di Pietro:

Pannella, nell’assemblea del partito svoltasi a Roma, ha escluso il ritiro della candidatura di Emma Bonino e proposto “solo” il rinvio di un mese delle elezioni con sanatoria per le liste escluse per problemi di firme, mentre l’ex pm gli ha promesso che alla manifestazione di sabato non attaccherà il Quirinale. Per come si erano messe le cose, tutto oro per il ministro delle lenzuolate.


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Un secolo fa nasceva l’intellettuale italiano che ha avuto grande impatto sulla vita del nostro Pae

Nostalgia di Pa Il suo liberalismo fu soprattutto energia morale, tensione ideale verso una più alta etica pubblica. Ma anche sforzo permanente di conciliazione, al di là di ogni steccato imposto dai partiti di Antonio Maccanico el dicembre del ’43 nella Roma occupata dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre Mario Pannunzio veniva arrestato e assegnato “al sesto braccio”dei detenuti politici. Allora Pannunzio non era ancora un antifascista impegnato nella Resistenza. Era un autorevole intellettuale, un uomo di cultura, letterato, giornalista, con esperienza nel campo della pittura e del cinema, partecipe di iniziative editoriali prima con Longanesi (Omnibus) e poi con Arrigo Benedetti (Oggi), periodici soppressi perché sospettati di “fronda” verso il regime. Si era definito prima “afascista”; poi antifascista, ma non era militante nella Resistenza. I sessanta giorni di detenzione, insieme a molti combattenti antifascisti soprattutto di Giustizia e Libertà (in quel periodo furono arrestati anche Saragat e Pertini) determinarono in Pannunzio un cambiamento di fondo nella sua vocazione, una scelta di vita nuova, l’impegno pieno nell’attività politica. Era culturalmente attrezzato a questa svolta: aveva letto e studiato Croce, a partire dal testo Estetica fino agli ultimi scritti; aveva riflettuto profondamente sulla storia d’Italia, aveva pubblicato un saggio sul grande liberale francese Alexis de Tocqueville. Ma soprattutto era spiritualmente, eticamente pronto al grande cimento. Con il suo rigore a difesa dei principi di libertà, la sua chiarezza di idee, la sua inclinazione a slanci ideali corretti da solido realismo; la sua profonda capacità analitica.

N

Non tardò ad affermarsi per le sue qualità nel mondo dei vecchi liberali prefascisti come Casati, Nitti, Orlando e in quello dei nuovi e più giovani liberali come Nicolò Carandini, Leone Cattani, Franco Libonati, Mario Ferrara e tanti altri. Per le sue qualità di organizzatore culturale gli fu affidata la direzione del quotidiano Risorgimento liberale, che divenne presto non solo «il più bel quotidiano del post-fascismo», ma lo strumento di un nuovo liberalismo, di una linea politica rigorosamente antifascista e antitotalitaria, ma per nulla conservatrice, ispirata alle forme più avanzate del liberali-

smo europeo e di stampo anglosassone. In Italia il suo referente massimo era Benedetto Croce, che egli considerava il baluardo contro il tentativo di Togliatti e del Partito comunista di egemonizzare la cultura italiana.

Dal giugno del ’44 alla fine del ’47 Pannunzio dalla direzione del giornale del partito liberale condusse una battaglia politica ininterrotta e di grande intensità volta a contenere le tendenze conservatrici nel partito, a fare del partito liberale il perno di una forza politica di ispirazione laica progressista nettamente distinta dai partiti di tendenza marxista e dalla democrazia cristiana, saldamente ancorato all’occidente democratico, europeista, e soprattutto impegnato ad un rinnovamento istituzionale e morale, ad una nuova etica politica nel governo del paese. Una linea perciò di avversione radicale al conservatorismo e al comunismo. Questa generosa battaglia fallì in pieno. Il partito liberale scivolò a destra, si alleò con “il partito qualunquista”, il monarchico Lucifero ne divenne il segretario. Pannunzio e i suoi amici liberali progressisti lasciarono il partito. Con le dimissioni dalla direzione del Risorgimento liberale e l’uscita dal Partito liberale si chiudeva la prima fase della esperienza politica di Mario Pannunzio: usciva sconfitto, ma con l’autorità e il grande prestigio che danno la linearità, la coerenza, la fedeltà ai principi. Con le elezioni del 1948, le prime dopo l’approvazione della Costituzione si chiudeva il travaglio del dopoguerra italiano e si perveniva ad un stabilizzazione politica molto chiara e ben definita. Più dell’80 per cento del corpo elettorale si era pronunciato a sostegno della Democrazia cristiana, uscita vincitrice assoluta, e del fronte popolare comunista e socialista, la forza maggiore di opposizione alla Dc. Le forze di democrazia laica e liberale , frammentate e divise, uscivano in condizioni di assoluta minorità e di sostanziale irrilevanza. In questa situazione Pannunzio, indomito nei suoi propositi, pensò che fosse necessaria una grande iniziativa culturale e politica, di livello tale da costituire un richiamo unitario alle energie disperse del liberalismo, della democrazia laica, del repubblicanesimo, del socialismo democratico, che desse voce cioè a quell’Italia di minoranza più legata alla tradizione risorgimentale, schiacciata tra i partiti di massa fortemente ideologizzati. Pensò di dover scommettere, con un gran-


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ese. Da “Oggi” al “Mondo”, storia di un pensatore libero

annunzio Il convegno della Camera con Giorgio Napolitano e Gianni Letta

Fini: «Le sue idee appartengono al patrimonio della Repubblica» A 100 anni dalla nascita (5 marzo 1910), la Camera dei deputati ha ricordato ieri Mario Pannunzio, il giornalista e politico liberale che ha legato il suo nome al “laboratorio”del Mondo. Una «figura laica il cui magistero intellettuale e prestigio sono sopravvissuti alla sua morte», secondo il presidente della Camera Gianfranco Fini, che ha aperto il convegno nella sala della Lupa alla presenza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e del sottosegretario Gianni Letta. Per questo, proprio per il «lascito fecondo nella politica italiana», secondo la terza carica dello Stato quella di Pannunzio è una figura «da valutare al di là progetto che la ispirò e dei successi ottenuti», essendo stato portatore di «idee feconde e innovatrici che ancora oggi a pieno titolo appartengono al patrimonio della Repubblica». «L’idea che i grandi processi di modernizzazione non siano sacrificati all’ideologia e al dogma - spiega Fini - ma valutati in base al progresso umano e civile e che non siano separati dall’etica e dalla razionalità. Come disse Vittorio Gorresio: “fu un intransigente anticomunista in nome della liberta”, antifascista in nome dell’intelligenza, anticlericale in nome della ragione”». E poi per Fini ancora valida è la scelta di un ”giornalismo delle idee che non cedeva mai all’informazione-spettacolo», perché Pannunzio «non cercava popolarità a buon mercato ma con le sue inchieste denunciava le contraddizioni presenti nel Paese, nonostante il boom». Ma allora come può essere definito Pannunzio, a un secolo dalla sua nascita. Essenzialmente «antitotalitatio», a detta di Massimo Teodori che ha curato l’introduzione al carteggio con Salvemini pubblicato dalla Camera: «Fu criticato da sinistra, destra e centro per il rifiuto di fare fronte comune coi comunisti in nome dell’antifascismo, coi fascisti in nome dell’anticomunismo, e con i clericali per contrarietà alla ingerenze della Chiesa».

de sforzo coesivo, sulla preminenza culturale della tradizione liberale-democraticolaica per influire sugli equilibri politici nazionali, polarizzati allora sullo scontro social comunisti-democristiani. Nacque così, dall’incontro con il coraggioso editore Gianni Mazzocchi Il Mondo, il settimanale che fece rivivere la testata del giornale di Giovanni Amendola, soppresso dal fascismo. L’ispirazione di fondo del settimanale si richiamava ai maestri Croce ed Einaudi; ma si rivelò aperto a tutte le tradizioni democratiche laiche: Salvemini, La Malfa, Calogero, Garosci, il liberalsocialismo, il repubblicanesimo. In poco tempo le personalità più importanti della cultura italiana, letterati, storici, scienziati trovarono ospitalità nel settimanale di Pannun-

zio accanto ai più famosi giornalisti e a nuove reclute sapientemente scelte dal direttore. Il liberalismo di Pannunzio era di una modernità affascinante, aperto e al tempo stesso rigoroso nella scelte politiche. Rigidamente antifascista, anticomunista, ma intollerante delle isterie “maccartiste”, autoritarie e giustizialiste. Laico e critico della Democrazia cristiana nelle sue debolezze «clericali e simoniache», nel suo moderatismo e conservatorismo, ma deciso sostenitore di De Gasperi e della sua linea politica esterna e interna. Capì che il De Gasperi, che pur avendo la maggioranza assoluta in parlamento, chiamava nel governo perso-

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nalità di democrazia laica come Einaudi all’Economia, Sforza agli Esteri, Pacciardi alla Difesa, La Malfa al Commercio estero dimostrava una visione politica assai avanzata; che un governo, che istituiva la Cassa per il Mezzogiorno, varava una riforma agraria, attuava la liberalizzazione degli scambi, lanciava il piano siderurgico Sinigaglia, si legava strettamente agli Stati Uniti e si impegnava nella politica di unificazione europea non poteva essere definito un governo conservatore, ma riformista. Da qui il suo sostegno. Pannunzio era un laico, ma la sua laicità si estendeva e comprendeva anche il cattolicesimo liberale da Manzoni ad Arturo Carlo Iemolo, e al cattolicesimo democratico di Sturzo, De Gasperi,Vanoni, Saraceno. Per queste ragioni quando in vista delle elezioni del ’53 il governo propose una riforma elettorale con premio di maggioranza, proposta che spaccò le forze politiche di democrazia laica, egli si schierò con Ugo La Malfa in favore della legge. Pensò che la fase degasperiana meritasse continuità. Con la stessa chiarezza e determinazione, quando capì che l’equilibrio politico “centrista”era ormai logorato, e che il legame comunisti-socialisti si stava spezzando, impegnò il suo settimanale nella lunga preparazione alla svolta di centrosinistra. In quegli anni Pannunzio mostrò la sua grande qualità di “federatore” e di organizzatore politico e culturale. Il segno più rilevante di questa sua capacità, il suo successo maggiore fu quello di ottenere la simultanea collaborazione di Benedetto Croce e di Gaetano Salvemini, personalità che non si amavano e si osteggiavano da anni, ma che nella visione di Pannunzio con la loro compresenza nel suo settimanale diventavano il simbolo della necessaria convergenza tra liberalismo e democrazia. Con la collaborazione appassionata di Ernesto Rossi e di Eugenio Scalfari, Pannunzio avviò allora la stagione del “Convegni del Mondo”, grande sfida culturale e politica in preparazione della svolta di centro-sinistra. Con la mobilitazione delle competenze più autorevoli del mondo democratico-laico furono affrontati i maggiori problemi dell’ammodernamento del paese, che stava traversando un periodo di profonde trasformazioni economiche e sociali.

Lotta ai monopoli, questione dell’energia elettrica, legge urbanistica, riforma delle società e della borsa, riforma fiscale, problema della scuola, mezzogiorno e squilibri territoriali: erano i lineamenti dell’economia mista, o se si preferisce di una forma di economia sociale di mercato che emergeva da questi convegni organizzati prevalentemente da uomini di orientamento liberista come Ernesto Rossi e Ugo La Malfa, e avallati da Luigi Einaudi. È questo il periodo di massima sintonia tra Pannunzio e Ugo La Malfa, anche sul piano più strettamente politico. Nella seconda metà degli anni ’50 Pannunzio, che con il suo settimanale aveva conseguito una straordinaria autorità e prestigio nel mondo democratico e liberale, pensò che sarebbe stato utile a rafforzare l’equilibro di centro sinistra al quale lavorava una formazione politica, un partito, di ispirazione liberale-radicale che radunasse le

sparse forze di democrazia laica. L’appellativo “radicale” fu scelto anche perché non dispiaceva a Croce ed era accetto ai repubblicani di La Malfa, che strinsero una immediata alleanza elettorale. Di grande aiuto fu in questa fase Leo Valiani, legato da profonda amicizia sia a La Malfa che a Pannunzio. Nelle elezioni del ’58 l’alleanza Radicali-Pri non ebbe successo ma costituì l’embrione di“una terza forza” che puntava a rafforzare l’autonomia del Psi rispetto ai comunisti. Nel ’62 presieduto da Fanfani, si formò il primo governo sostenuto dai socialisti, e Ugo La Malfa divenne Ministro del Bilancio. Cominciò la fase ascendente del centro-sinistra, quella della nazionalizzazione dell’energia elettrica e della“Nota aggiuntiva”proposta da La Malfa, che con l’apporto di giovani velentissimi economisti, arricchiva lo schema Vanoni e fissava la strategia di lungo periodo per la eliminazione degli squilibri territoriali, del dualismo economico italiano. Paradossalmente proprio quando si avviava la partecipazione piena dei socialisti al governo e il centro-sinistra si realizzava, il partito radicale, il partito della“terza forza”entrava in crisi. Per una questione personale, si disse, la questione Piccardi; ma la ragione vera era la stessa che aveva spaccato il Partito d’azione, il dilemma irrisolto, indicato da Mario Paggi, tra l’eresia socialista e l’idea democratica. Dopo le elezioni del ’63 la vita del centrosinistra, il nuovo equilibrio di governo cominciò a mostrare tensioni interne e difficoltà di varia natura. La nazionalizzazione dell’energia elettrica aveva determinato un contraccolpo moderato nella Democrazia cristiana che aveva indebolito la spinta riformista.

Le prospettive di programmazione svanivano per l’opposizione della Confindustria e la indisponibilità delle forze sindacali alla politica dei redditi. L’aspirazione ad un modo nuovo di governare, ad una più alta etica pubblica, fondata sulla separazione netta tra responsabilità politiche e responsabilità amministrative e sul principio costituzionale di imparzialità della pubblica amministrazione si rivelava sempre più una illusione. Pannunzio capì subito che si annunciava una crisi irreversibile non riparabile, e decise di chiudere Il Mondo nel ’66. Sopravvisse meno di due anni alla sua chiusura. Pannunzio visse e operò da protagonista in una Italia istituzionalmente e politicamente assai diversa da quella di oggi. Ma lascia un grande esempio alla nostra riflessione e meditazione. «L’uomo politico, scrisse nell’ultimo numero del Mondo, se non vuole essere un puro faccendiere, è anch’esso un intellettuale che vive pubblicamente e fa con naturalezza la sua parte nella società». Il suo liberalismo fu innanzitutto energia morale, tensione ideale verso una più alta etica pubblica; ma fu anche sforzo permanente di conciliazione, al di là degli steccati partitici, dell’amore per la libertà, della religione della libertà con la democrazia, con le esigenze di eguaglianza e di giustizia. Liberalismo e democrazia furono nell’800 concezioni spesso antitetiche. Dopo di lui il liberalismo democratico è divenuto nel nostro Paese pilastro della più moderna coscienza politica. La convergenza sulle pagine del Mondo della voce di Benedetto Croce e di Gaetano Salvemini segnò in certo modo l’incontro nella prospettiva storica della scuola liberale di Cavour e di quella democratica di Mazzini e Cattaneo: quell’incontro che si può considerare la vera gloria del nostro Risorgimento e della nostra storia unitaria.


mondo

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Gerusalemme. Il vicepresidente Usa “rassicura” Netanyahu sul sostegno americano: «No all’atomica di Teheran»

«Via l’Iran dall’Onu» Biden tenta di ricucire il Medioriente. E Peres alza il tono contro Ahmadinejad di Antonio Picasso a visita di questi giorni in Medioriente di Joe Biden, vicepresidente Usa, fa seguito alla proposta della Lega Araba di riaprire i negoziati “per via indiretta” tra israeliani e palestinesi. La reazione di Abu Mazen, presidente dell’Autorità Palestinese, è stata positiva. Israele invece ha assunto posizioni ancora più intransigenti. E alzando il livello dello scontro in modo inaspettato, ha richiesto di espellere l’Iran dalle Nazioni Unite. Una posizione che ha suscitato non poche critiche da parte della comunità internazionale. Tuttavia è logico pensare che Biden voglia stimolare un ammorbidimento del governo Netanyahu. L’Amministrazione Obama appariva fino alla settimana scorsa in crisi di consenso, proprio per l’indolenza dimostrata in politica estera. Adesso sembra essersi rivita-

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lizzata grazie al successo delle elezioni in Iraq e spera di recuperare anche nelle relazioni con Netanyahu e Abu Mazen. In realtà, osservando lo scenario attuale, quella di Washington sembra una mission impossibile. Obama e il suo vice però hanno già dato prova della loro tenacia. Non a caso Biden ha detto senza mezzi termini che Israele deve «assumersi i propri rischi» per chiudere la questione. I problemi in Medioriente che gli Usa intendono risolvere sono strettamente legati al sostegno di cui la Casa Bianca dispone in patria.

È logico dunque chiedersi: quanto è popolare Obama presso la comunità ebraica americana? Per capirlo è necessario ricordare che i cittadini statunitensi di religione ebraica sono legati a filo doppio con Israele: una “terra promessa” dove fare eventualmente ritorno. Per questo non si può scindere tra l’indice di gradimento di Obama sugli ebrei americani e quello sugli israeliani. Al suo insediarsi, il Presidente Usa si era detto risoluto nel risolvere il processo di pace israelo-palestinese e il pro-

blema del nucleare iraniano, ritenuto una minaccia diretta per Israele, quindi fonte di apprensione per la comunità ebraica negli Stati Uniti. È passato poco più di un anno da allora, ma entrambi i nodi non sono stati ancora sciolti. Secondo Israele questo è dovuto all’eccessivo buonismo della Casa Bianca verso l’Autorità Palestinese e Teheran. Da una parte viene criticata la pressione che Obama continua a esercitare sul governo israeliano affinché

A un anno dallo storico ingresso di Obama alla Casa Bianca, l’ebreo medio americano teme che la sua “terra d’origine” paghi un prezzo troppo caro in cambio dell’affermazione di uno Stato palestinese concluda la politica espansionistica degli insediamenti intorno a Gerusalemme, senza rendersi conto che così favorisce il debole governo di Abu Mazen. Dall’altra si sottolinea come soltanto in questo inizio d’anno il Dipartimento di Stato guidato da Hillary Clinton abbia adottato un atteggiamento di rigore nei confronti dell’Iran e, con estremo ritardo, stia cercando di irrigidire il regime di sanzioni internazionali a discapito di quest’ultimo. A danno ulteriore dell’immagine di Obama si è aggiunto il “Rapporto Goldstone”, il dossier redatto da una commissione di inchiesta dell’Onu per far luce sugli ipotizzabili crimini di guerra, che sarebbero stati commessi da Israele e Hamas durante l’ultimo conflitto nella Striscia di Gaza. L’Amministrazione Obama, in questo frangente, sarebbe colpevole di non essersi ancora spesa per evitare il rischio che uno scandalo di

Scene di quotidiana tensione fra soldati israeliani e coloni palestinesi. In alto: il premier Nethanyau con Joe Biden. In alto a destra, la prima intifada del 1981 e sotto Barack Obama

proporzioni internazionali investa Israele. Un mio recente viaggio a Gerusalemme e a Tel Aviv, al seguito della delegazione parlamentare dell’Associazione di Amicizia Italia-Israele, è stata l’occasione per incontrare alcuni cittadini statunitensi, di religione ebraica, attivi nel promuovere la “causa israeliana” in Occidente, sulla base di una chiara strategia politica che mira ad attirare l’attenzione su Israele in qualità di unica democrazia del mediorientale minacciata quotidianamente in termini politici e militari.

È apparso interessante l’incontro con un ex dirigente del dipartimento della Difesa Usa, ebreo e studioso del mondo islamico, il quale non si è fatto scrupoli nell’accusare Washington di aver assunto un atteggiamento di «sottomissione alle inaccettabili richieste dei governi arabi, in particolare del-

l’Autorità Palestinese». L’ex analista del Pentagono ha preso come punto di partenza esemplificativo il famoso discorso pronunciato da Obama all’Università islamica alAzhar del Cairo, all’inizio di giugno dello scorso anno. «Assalamu alaykum, con queste parole il nostro Presidente ha iniziato il suo intervento in quell’ateneo», ha detto il mio interlocutore. «Nulla avrebbe potuto essere più frainteso dagli arabi». «Questo saluto, che nella cultura occidentale è considerato alla pari del nostro “buongiorno”, più tecnicamente “la pace sia con te”, è stato interpretato come un gesto di sottomissione del primo Presidente Usa di colore di fronte all’Islam». Al di là di questo “incidente” sussistono però alcuni problemi politici congiunturali alla situazione mediorientale di questi mesi e strettamente connessi con le tappe che l’Amministrazione Obama si è imposta di raggiungere entro i quattro anni del suo mandato. Barry Rubin, professore di Relazioni internazionali all’Interdisciplinary Center (Idc) di Herzliya in Israele, sarebbe favorevole a una linea di atteggiamento molto più rigorosa da parte delle democrazie occidentali, Israele compresa, nei confronti delle dittature arabe, colpevoli di «finanziare il terrorismo islamico e di ostacolare lo sviluppo del processo di pace». Per Rubin gli errori di Obama sono molto chiari. «Perché fa pressione solo su Israele e sul congelamento degli insediamenti? Tutte queste concessioni che noi dovremmo fare all’Anp altro non favorirebbero che il ritorno degli attentati da parte


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di Hamas, oltre che l’appoggio a un regime corrotto e dittatoriale com’è quello di Abu Mazen e di al-Fatah».

Obama starebbe mettendo in discussione una strategia difensiva che nasce con lo stesso Stato di Israele e che si è rafforzata progressivamente dalla Guerra dei sei giorni (1967) a oggi. È il cosiddetto Gush Etzion (il Blocco di Sion), una cintura di villaggi israeliani posti a protezione di Gerusalemme.Visitando Kfar Etzion, uno degli insediamenti appena fuori Gerusalemme, ed entrando in contatto con i suoi abitanti – molti di dispongono loro della doppia cittadinanza israeliana e statunitense – si percepisce la paura che le decisioni delle “alte sfere”a Washington possano far ripetere l’incubo della distruzione delle proprie case, come è successo a Gaza nel 2005. Gli israeliani del “Gush Etzion”temono di dover pagare lo scotto dei negoziati di un processo di pace che, ai loro occhi, significherebbe abbandonare la terra di Israele. Per loro Obama non intuisce questo valore, simbolico quanto strategico, che viene attribuito agli insediamenti. «Noi vogliamo vivere qui per proteggere Gerusalemme, ma anche per difendere i nostri concittadini arabi dal terrorismo e dal regime oppressivo di al-Fatah». Questo è il messaggio che i coloni lanciano oltre oceano, con la speranza che negli Stati Uniti vengano ascoltati attraverso la voce dei loro correligionari americani. «L’unicità della demo-

crazia israeliana qui in Medioriente dovrebbe farci riflettere», osserva un senior analyst dell’ex vice presidente Usa, Dick Cheney. «Le minacce dell’Iran non sono localistiche. Non prendono di mira solo Israele, ma puntano contro tutto l’Occidente. E lo fanno grazie a gruppi terroristici che sono capaci di colpire città come Roma, Londra o Washington alla stessa stregua di come è successo a Gerusalemme e a Tel Aviv». La percezione che emerge è di una psicosi dell’accerchiamento. Agli occhi di questi osservatori, Israele ri-

che dispone dell’opportunità di mettere in discussione le proprie idee con quelle di altri osservatori occidentali: in Israele e soprattutto negli Usa. La deduzione è che di fronte alle critiche verso Obama per il suo apparente filo-arabismo, alcuni rappresentanti dell’intellighenzia israelo-statunitense starebbero creando un nuovo nucleo anti-islamico, in cui scompaiono le innumerevoli differenze che invece costituiscono il mondo musulmano: dalla teocrazia sciita iraniana al fondamentalismo sunnita di al-Qaeda, da Hezbollah allo stesso al-Fatah.

«Il livello di corruzione, despotismo e la propensione alla violenza dell’Autorità Palestinese di Mazen non sono tanto diversi dal regime degli Ayatollah che da Teheran minaccia la distruzione di Israele», torna a ripetere l’ex consigliere del Pentagono. Siamo di fronte alla nascita di un gruppo di inte-

È un luogo comune piuttosto inflazionato pensare che gli ebrei riescano a pilotare la politica estera di Washington secondo i propri interessi. I loro voti sono l’1,3% su 300 milioni di americani schierebbe di essere distrutta da un momento all’altro. Ed è paradossale come queste idee nascano in seno a chi divide la propria vita fra Gerusalemme e Washington. A dispetto di quanto si potrebbe pensare, la visione monodirezionale di costoro non trae origine dal fatto di vivere ogni giorno “una minaccia” in Israele. Ammesso che questa esista, la stessa basterebbe per giustificare una simile visione dello scenario regionale. La mancanza di un confronto con le realtà occidentali infatti porterebbe a concentrare l’osservazione esclusivamente sui pericoli. Al contrario questi analisti fanno parte di una classe dirigente

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resse, una lobby politica concentrata a innalzare Israele come vittima del disinteresse occidentale per quanto sta accadendo in Medio Oriente. È un luogo comune piuttosto inflazionato pensare che gli ebrei riescano a pilotare la politica estera di Washington esclusivamente secono i loro interessi. Effettivamente la comunità ebraica in Usa occupa una posizione particolare. Da un punto di vista elettorale, i suoi voti sono irrisori, costituendo appena l’1,7% sui 300 milioni circa della popolazione totale del Paese. Da un punto di vista qualitativo però, questa fetta di elettorato assume tutt’altro peso. Si calcola infatti che il 75% della comunità ebraica statunitense costituisca un nocciolo duro di orientamento democratico. È infatti grazie al sostegno di questo elettorato che Bill Clinton si guadagnò la Casa Bianca nel 1992. Alla fine del 2008 l’endorsement della comunità ebraica per Hillary Clinton fu traghettato da quest’ultima in favore di Obama. A un anno dallo storico ingresso del primo inquilino di colore alla Casa Bianca però, l’ebreo medio americano teme che la sua “terra d’origine” (Heretz Israel) paghi un prezzo troppo caro in cambio della piena affermazione di uno Stato palestinese. Inoltre vede nell’Iran una minaccia concreta. Sono paure, queste, che vengono stimolate proprio da quel gruppo di pressione israelo-statunitense di cui si è appena parlato. In questo caso, ma con le dovute differenze, si potrebbe parlare di una lobby ebraica, costituita da analisti, giornalisti e intellettuali, che sta cercando di trasmettere il messaggio della minaccia alla quale sarebbe

soggetta Israele. La comunità ebraica in Usa gode di un’influenza socio-culturale qualitativamente buona. Ha saputo investire nei giusti settori della produttività nazionale. Molti dirigenti degli istituti bancari statunitensi sono di religione ebraica, primo fra tutti Ben Bernanke, Governatore della Fed. L’industria cinematografica e discografica è un settore in cui il numero di ebrei è altrettanto elevato. Entrambi gli esempi però non portano al dominio politico del Paese. Piuttosto a una migliore integrazione rispetto ad altre comunità. Dall’alto di questo successo, l’ebreo americano medio appare sensibilmente coinvolto nel cercare di capire quale sarà la quadratura del cerchio di Obama. Che se da un lato dovrà ricucire i rapporti che si sono incrinati con il governo israeliano, dall’altro dovrà soddisfare le richieste palestinesi. Questa mitizzata “lobby ebraica”, grazie al suo spregiudicato realismo, sa che si tratta appunto di una mission impossible ed è su questo che fa pressione per sganciare l’elettorato ebraico dal Presidente.

Diversa è la questione iraniana. L’intransigenza sfoderata recentemente da Hillary Clinton e dal Comandante del Centocom, il generale David Petraeus, che non ha escluso l’eventualità di attacco preventivo contro i siti nucleari iraniani. Questo ha riscattato l’immagine di Obama tra i suoi elettori di religione ebraica. La prova del fuoco però resta il Rapporto Goldstone. Il vento mediatico su questo dossier dell’Onu non ha ancora soffiato con tutta la sua forza. Nel caso dovesse succedere, Israele si aspetta che Washington intervenga per spegnere i focolai di aggressione contro il suo governo. Se il Goldstone buttasse nuova benzina sul fuoco, il primo a restarne bruciato sarebbe Obama, il quale ne pagherebbe in termini di consenso interno, ma soprattutto i suoi obiettivi di pace in Medio Oriente si scontrerebbero con una ritrovata rigidità da parte di tutti i soggetti regionali. Israele rinuncerebbe a trattare con l’Anp perché si sentirebbe tradita dal suo primo alleato occidentale. Il mondo arabo a sua volta chiuderebbe le porte con la giustificazione, un po’ ipocrita, che non si confronta con un Paese irrispettoso dei diritti umani. Se questo scenario invece non si verificasse, l’alleanza fra Israele e Stati Uniti tornerebbe nei binari della normalità. Nel frattempo Obama si sarebbe assicurato il voto degli ebrei americani per il prossimo mandato.


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Iraq. In attesa dei risultati elettorali si delineano le prime (gravi) fratture e elezioni di domenica in Iraq sono state un successo. Questo è fuori discussione. Ma la prova del nove arriverà solo adesso, con lo spoglio delle schede e le insidie nella formazione del nuovo governo. Se gli iracheni infatti hanno imparato a votare e a gestirsi per proprio conto, devono ora dimostrare di essere in grado di fare politica. L’affluenza elettorale ha dato un eccellente risultato: il 62% di votanti è inferiore al 74% di 5 anni fa, ma le condizioni sono del tutto diverse. Nel 2005 era il primo voto in assoluto, il primo in cui gli sciiti e anche i curdi potessero far valere il loro numero in rivalsa alla tirannia baathista di Saddam, e intanto le forze internazionali avevano il controllo del Paese e persino la guerra civile era appena agli inizi. Oggi invece le elezioni si sono svolte sotto l’ombrello della organizzazione e della sicurezza tutta irachena, la paura di attentati è diventata quotidiana (ma è più lontano lo spettro di una guerra civile), e la situazione politica dà segni di normalità. Le milizie sono rimaste abbastanza lontane dai seggi, e soprattutto i sunniti hanno partecipato pienamente al voto che avevano boicottato 5 anni fa. Molti i motivi di soddisfazione, quindi, per l’Iraq, per la comunità internazionale e anche per l’ex presidente Bush, i cui meriti sono stati riconosciuti persino da parte della stampa liberal americana.

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Ma la fase difficile inizia adesso. Per ottenere i risultati elettorali definitivi ci vorrà del tempo, e questo lascia margine a rivendicazioni e recriminazioni che da quelle parti possono facilmente deteriorarsi. I rischi maggiori risiedono nella successiva fase della discussione delle alleanze e della formazione del

Quel duello pericoloso fra curdi e sunniti A rischio la stabilità delle aree di confine a nord del Paese: da Mosul a Kirkuk di Osvaldo Baldacci

e condizionano la politica più che farsene condizionare. Se la sfida tra i leader sciiti che ambiscono al ruolo di premier è al centro dell’attenzione, non va però trascurata la sortita del leader sunnita alHashemi che ha rivendicato per gli arabi la presidenza della Repubblica. Cioè a discapito del curdo Talebani, che a sua volta ha già detto di

L’incarico di premier andrà a uno sciita, e sulla poltrona più alta si giocherà la sfida per comporre il governo con nuove alleanze governo. Le prime schermaglie sono già iniziate ma questo rientra ancora nei normali processi democratici. Il “bubbone” da tenere sotto controllo è che nella delicata situazione irachena la rissosità politica non scada in nuova violenza. Bisogna tener conto che l’Iraq è ancora un complicatissimo mosaico dove è facile gettare acqua sul fuoco. La divisione in fazioni politiche è solo una e non la principale della realtà del Paese: divisioni etniche, religiose, tribali, economiche e militari sono ben più accese

considerare scontata la sua riconferma. Un duello non da poco: l’incarico di premier andrà infatti a uno sciita, e sulla poltrona più alta si potrebbe giocare la sfida per comporre il governo con nuove alleanze. Sembra che i sunniti siano andati molto bene alle elezioni, e d’altro canto i curdi sono forti e compatti e il loro ruolo è stato determinante in questi anni e nella maggioranza uscente. Se tutto andrà liscio si tratta solo del solito gioco al rialzo per ottenere qualcosa di più, ma siccome siamo

Sfida fra l’uscente Al Maliki e l’ex premier Allawi

La corsa al premierato Sapremo solo tra qualche giorno chi ha veramente vinto le elezioni irachene, ma già qualche elemento consente di selezionare alcune indicazioni. Come è ovvio a causa della composizione etnica del Paese vinceranno gli sciiti. Ma proprio questa loro così netta prevalenza ha creato divisioni politiche che alimentano incertezza su quale ala vincerà e di conseguenza chi farà il premier. Erano sei i principali candidati in lizza, a fronte di circa 150 partiti e 12 coalizioni, e una prima scrematura c’è già stata. Importante infatti prima di tutto l’ennesima sconfitta dell’Alleanza irachena di Chalabi, molto vicina all’Iran e forse sponsorizzata da Moqtada alSadr. La sfida sembra concentrarsi tra il premier uscente alMaliki e l’ex premier Allawi. Ma altri contendenti come

Mahdi e Bolani puntano a un pareggio che possa renderli aghi della bilancia o addirittura soluzioni di compromesso. Allawi a sua volta presentandosi come laico e non etnico incassa qualche voto sunnita e la benevolenza dell’opinione pubblica internazionale, ma in Iraq il distacco dalle questioni religiose, etniche e tribali non è un vantaggio. In realtà al di là dei posizionamenti tattici del dopovoto, la coalizione di governo appare in vantaggio: non solo i primi risultati la danno davanti in nove province su 18, ma è proprio la sua composizione a favorirla, riunendo tutti i principali movimenti storici dello sciismo iracheno, dal Consiglio Supremo al Dawa. Inoltre in quei Paesi chi gestisce il governo continua inevitabilmente a partire in vantaggio.Verosimile quindi un Maliki-bis. (O.Ba.)

in Iraq il porre l’alternativa secca - o i curdi o i sunniti potrebbe destabilizzare le aree in questo momento più a rischio, quelle settentrionali da Mosul a Kirkuk. Aree di confine multietniche e ricche di petrolio, contese anche con le armi e dove – specie a Kirkuk – non è stato possibile finora trovare una soluzione condivisa. Si può anzi dire che oggi Kirkuk è il principale nodo irrisolto – e pericoloso – di tutto l’Iraq. L’eventuale insidia alla presidenza di Talebani potrebbe avere conseguenze destabilizzanti perfino all’interno del Kurdistan, la regione più avanzata, stabile e sviluppata del Paese. La stabilità curda si basa su un forte e duraturo accordo tra i due leader capo-clan,Talebani delegato a livello nazionale con la presidenza dell’Iraq, e Barzani capo del governo locale. Questo equilibrio ha anche garantito che le istanze indipendentiste curde venissero sopite. Se la casella della presidenza dovesse saltare senza adeguate contropartite potrebbe causare effetti a catena sui rapporti tra i curdi e il resto del Paese ma anche tra i curdi stessi, nonché su Kirkuk.

Un altro tema rovente sul terreno è quello dei rapporti internazionali del nuovo Iraq. Che la maggioranza sarà sciita è certo, come anche che si cercherà di barcamenare con buoni rapporti verso tutti, Stati Uniti, Occidente e Arabia Saudita da un lato, Iran e Siria dall’altro. Ma al di là delle dichiarazioni di facciata sarà importante capire quali saranno i veri rapporti tra Iraq e Iran. Specie dopo il previsto ritiro degli Usa, che lascia il mosaico iracheno più esposto e debole di fronte all’ingombrante nemico. E in vista di un probabile peggioramento della crisi iraniana, le varie forze sciite saranno tentate di consolidare i loro rapporti con Teheran appoggiandovisi per ottenere vantaggi politici in patria. Allo stesso tempo non bisogna dare nulla per scontato: le liste più vicine all’Iran, quelle di Chalabi, sono state sconfitte; gli sciiti iracheni si distinguono in molte cose da quelli iraniani, prima di tutto sono arabi, e poi fanno riferimento alla scuola di Najaf con l’ayatollah al-Sistani, che si è sempre mostrato alternativo alle linee iraniane e specie dell’attuale regime; infine c’è una rivalità economica, con l’Iraq che punta a diventare leader dell’esportazione di petrolio e potrebbe avvantaggiarsi proprio dell’isolamento dell’Iran. Ma Teheran a sua volta è molto attiva nel paese vicino, con ogni mezzo a sua disposizione.


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L’Irlanda sventa un complotto contro il disegnatore svedese

Francia: a fine marzo il test delle elezioni regionali

Vignette satiriche contro Maometto, arrestati sette aspiranti killer

L’ascesa di Marine Le Pen e il “nuovo” Front National

DUBLINO . Sette persone di reli-

PARIGI . Con le elezioni regionali ormai alle porte, il Front National di Jean-Marie Le Pen sembra scommettere sempre di più sulla figlia del suo leader storico, Marine. Sarà solo in occasione del congresso previsto nella prossima primavera o al più tardi nell’autunno 2011 che si deciderà formalmente il nuovo leader della formazione ultraconservatrice - in pole anche il vicepresidente Bruno Gollnisch -, ma la 41enne primogenita sembra avere già assunto un ruolo chiave all’interno del partito. È lei a parlare con i media, è lei ad aver impostato e diretto la campagna elettorale per le regionali del 14 e 21 marzo, facendo le-

gione islamica, quattro uomini e tre donne, sono state arrestate in Irlanda per un presunto complotto atto ad assassinare Lars Viks, il disegnatore satirico svedese che nel 2007 ricevette minacce di morte e una taglia sulla sua testa per aver disegnato una vignetta in cui ritraeva il profeta Maometto in maniera considerata offensiva dai musulmani. All’epoca della controversia, al Qaeda offrì una ricompensa da 100mila dollari per chi lo avesse eliminato. Il caso seguì di un anno e mezzo quello della serie di vignette su Maometto pubblicate dal giornale danese Jyllands-Posten, che scatenarono rivolte di piazza in diversi paesi musulmani del mondo, con decine di morti. Ancora a gennaio di quest’anno, uno dei disegnatori del quotidiano, Kurt Westergaard, è stato attaccato a casa sua da un estremista islamico somalo che brandiva un’ascia, restando fortunatamente illeso. Gli arresti in Irlanda sono avvenuti grazie a un’operazione congiunta di servizi di intelligence e di polizia europei e le americane Cia e Fbi.

Vilks, che vive in un’area remota della Svezia, è da anni sotto protezione della polizia per la pubblicazione dell’immagine giudicata blasfema, in

Accordo sul clima: arriva il «sì» di Cina e India Ora manca solo Mosca nell’elenco dei Paesi produttori di Co2 di Pierre Chiartano ndia e Cina firmano l’accordo di Copenhagen sul clima. Dopo il buco nell’acqua dell’ultimo summit Onu sull’ambiente, si sentiva ormai la stanchezza di attori internazionali e sostenitori dell’allarme riscaldamento su un tema che sembrava aver perso il treno delle opportunità politiche. Ieri, mentre era in discussione all’Europarlamento la strategia del dopo Copenhagen sul clima, sono invece arrivate delle buone notizie. In una lettera ufficiale, firmata dal negoziatore cinese sul clima Su Wei, Pechino ha reso noto al segretariato dell’Onu sul cambio climatico che può «procedere a includere la Cina nella lista» dei Paesi che sostengono l’accordo raggiunto al summit di dicembre. L’accordo sul clima prevede il limite di due gradi all’aumento della temperatura media della Terra e la creazione di un fondo di 30 miliardi di dollari l’anno nel triennio 2010-2013 e di 100 miliardi di dollari l’anno dal 2012 al 2020. Il documento però non fissa nessun passo vincolante per raggiungere l’obiettivo della limitazione del riscaldamento globale. Il documento, fortemente sostenuto dal presidente Usa Obama, era stato giudicato dagli ambientalisti come estremamente limitato rispetto ai propositi iniziali del summit. Tuttavia, un certo numero di Paesi all’ultimo minuto avevano avanzato nuove obiezioni e si era convenuto che gli Stati avrebbero potuto aderire all’accordo anche successivamente.

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sociarsi alla lista di Copenhagen. Fra i grandi produttori di anidride carbonica (Co2), manca solo l’adesione della Russia. Il Protocollo di Kyoto secondo l’accordo non verrebbe abbandonato e nel 2015 è prevista una revisione del documento, con la possibilità di ridurre il limite dell’aumento di temperatura a 1,5 gradi. A Copenaghen la Cina si era impegnata a diminuire del 40 per cento le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera sempre entro il 2020.

Intanto il ministro del turismo sudafricano, Marthinus Van Schalkwyk, è stato proposto per la carica di responsabile della Convenzione Onu per il cambiamento climatico, al posto del dimissionarioYvo de Boer. Lo ha riferito la presidenza sudafricana. De Boer, che ha annunciato le sue dimissioni a metà febbraio, lascerà l’incarico il Primo luglio prossimo. Continuano anche le polemiche sul «fardello» dei Paesi sviluppati. L’Occidente sarebbe responsabile anche di parte della Co2 emessa in Cina e in altri Paesi emergenti, infatti oltre un terzo delle emissioni di anidride legate al consumo di beni e servizi nei Paesi occidentali verrebbe in realtà emessa fuori dai loro confini, per la fabbricazione di quei beni consumati in Occidente, ma prodotti in altri Paesi. Sarebbe quanto dimostra uno studio coordinato da Ken Caldeira della Carnegie Institution presso Palo Alto pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences: circa 2,5 tonnellate di Co2 a persona, legate alla fabbricazione di beni consumati in Usa verrebbero in realtà prodotte all’estero, mentre sono ben 4 tonnellate a testa tra gli europei. La Cina è il principale esportatore: di fatto un quarto delle emissioni prodotte in Cina sarebbe esportato. Gli autori hanno calcolato che piccoli Paesi come la Svizzera finiscono per produrre più emissioni di Co2 all’estero, nei luoghi da cui importano beni, che a casa propria. Il prossimo vertice mondiale sul clima si svolgerà a Cancun, in Messico, dal 29 novembre al 10 dicembre 2010, mentre nel 2011 verrà organizzato in Sudafrica.

Pechino ha reso noto all’Onu che può «procedere a includere la Cina nella lista» dei Paesi che sostengono l’accordo

cui il Profeta veniva ritratto con il corpo di un cane. Al Qaeda mise la taglia su di lui nel 2007 per bocca del leader di una frazione irachena dell’organizzazione, Abu Omar al-Baghdadi, che in un messaggio audio postato su un sito internet, disse che ci sarebbe stato anche un macabro “bonus” del 50% sulla somma promessa se il disegnatore «fosse stato sgozzato come un agnello», mentre un’altra taglia da 50mila dollari venne offerta per la testa di Ulf Johansson, direttore di Nerikes Allehanda, il giornale svedese che pubblicò la vignetta. Gli arrestati sarebbero tutti in possesso di regolare permesso di soggiorno in Irlanda, grazie allo status di rifugiati.

E anche Nuova Dehli ha deciso, ieri, di associarsi formalmente all’accordo raggiunto in Danimarca lo scorso dicembre. Un accordo, di fatto, solo politico. Il testo prevede oltre un tetto sull’incremento di tempreatura globale anche aiuti per 70 miliardi di euro ai Paesi in via di sviluppo per il 2020. Altro impegno preso da alcuni Paesi è la riduzione della crescita delle emissioni di gas serra entro il 2020. L’accordo raggiunto nella capitale danese non prevede ancora degli obblighi. L’India si unisce così a un centinaio di Paesi che hanno deciso di as-

va su temi cari alla destra xenofoba e ultraconservatrice, anche se con qualche differenza rispetto al passato.

P ur av endo c ontinuat o a parlare del rischio “islamizzazione” per la società francese, inserendosi a pieno titolo nel dibattito sull’identità nazionale o sul referendum svizzero anti-minareti, Marine Le Pen ha deciso di puntare soprattutto sulla linea dura in tema di immigrazione, nell’intento dichiarato di rilanciare l’estrema destra, strappando consensi a formazioni concorrenti come il Bloc Identitaire. «Credo sia arrivato il momento di aprire un nuovo capitolo nella storia del Fronte», ha detto la stessa Marine, chiarendo, senza troppi giri di parole, di voler «fare politica per arrivare al potere e cambiare realmente le cose». Un obiettivo che a suo dire si raggiunge facendo vera opposizione. Insomma, l’avvicendamento alla guida del Front National si caratterizza sempre di più per un cambio generazionale che «farà dimenticare l’immagine che abbiamo avuto in passato e ci renderà piu’ simpatici in futuro». Le regionali di marzo rappresenteranno un primo, importante test.


cultura

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Polemiche. Le arti non hanno e non devono più avere colori o bandiere. Ecco perché non si può più accettare una tale e dannosa ideologizzazione

Il teatrino della politica Da sessant’anni ormai la sinistra “monopolizza” la cultura. È tempo di ritornare a quella democratica d’ispirazione greca di Franco Ricordi i diceva una volta che il Teatro fosse lo specchio della Società, il luogo dove si riflettono le sue condizioni etiche ed estetiche. Siamo convinti che ancora oggi sia così, a scorno dell’invadenza delle televisioni, del cinema e dei media tecnologici in genere: in realtà il Teatro rappresenta sempre il tramite interpretativo di un Paese, qualcosa di molto più profondo anche se meno appariscente dello spettacolo mediatico, proprio perché politico nella sua situazione esistenziale: per fare Teatro, scriveva il filosofo Ortega Y Gasset, è necessario che alcuni spettatori escano da casa propria e vadano in un tale teatro ad una certa ora; e che al contempo alcuni attori si ritrovino in quello stesso teatro alla stessa ora: questo convergere spazio-temporale questo impegno da entrambe le parti - è il primo effettivo dato politico di oggi, in una società dove il “qui e ora” è sempre più alienato dalle nostre categorie mediatiche.

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arti e le attività culturali: ma nel Teatro la sua azione è stata, non a caso, particolarmente aggressiva; è nato infatti, solo nel secolo XX, il concetto di “Teatro Politico”; una realtà che, a ben guardare, ha superato 24 secoli

Il Teatro in realtà racchiude tutte le parti politiche. E deve tornare a rappresentare il tramite interpretativo di un Paese nella sua totalità

Tale aspetto profondamente democratico della teatralità è sfuggito e sfugge ancora in clamorosa maniera non soltanto ai politici, ma anche alla maggioranza degli intellettuali e agli stessi teatranti, soprattutto laddove il Grande Teatro Europeo viene ridotto ad una sorta di succursale dello show business e comunque dello spettacolo tecnologico. Soltanto un uomo di grandi intuizioni aveva intravisto la sua importanza, 40 anni fa, il nostro Pier Paolo Pasolini. Ma proprio questo aspetto del Teatro di Pasolini è rimasto disatteso, a scorno del tanto decantato interesse della Sinistra nei confronti del Teatro e della Cultura in generale. E qui comincia il nostro interrogativo perché, come sanno anche i bambini, è evidente che la Sinistra Storica abbia più che mai congestionato nel secolo XX un po’ tutte le

di storia del dramper ma, tentare di ideologizzare quest’arte verso un solo riferimento politico: appunto la Sinistra. E ormai risulta abbastanza chiaro come questo stesso termine “teatro politico”, oggi sempre più tendente al “teatro civile” - sia stato per la maggior parte dei casi un “teatro ideologico”, a favore esclusivo della Sinistra, di cui spesso ha elevato dei veri e propri comizi. Tuttavia a quella illusione di matrice brechtiana, tanto più raffor-

zata a ridosso del ’68, non ha certo fatto seguito negli ultimi 20 anni una ulteriore spinta propulsiva; al contrario nella Sinistra italiana è rimasto il guscio vuoto del Potere sul Teatro che, sempre in opposizione nei confronti del Governo (che quasi sempre è stato di CentroDestra), ha in realtà mantenuto la sua ferma occupazione sulla struttura teatrale, sia a livello politico che ideologico.

Basti pensare agli Stabili Pubblici, i Teatri che sono sovvenzionati non solo dal ministero ma anche dagli Enti locali che, come è stato notato recentemente, risultano ancora vicini almeno per l’80% alla Sinistra; forse anche perché il Centrodestra non se ne è mai abbastanza interessato, e in questo avrà pure commesso un suo errore. Ma il fatto inquietante è che proprio oggi, nel momento in cui sembrerebbe ci fosse spazio per una nuova e opportuna dialettica, la Sinistra rivendichi gelosamente e violentemente questo suo storico quanto ingiusto imprimatur sulle questioni culturali e teatrali in particolare: qualcuno

Il «Sogno di una notte di mezz’estate» diretto da Luca Ronconi (a sinistra). Sotto, a destra, Luca De Fusco che ha diretto (in basso) Eros Pagni ne «L’impresario delle Smirne» di Goldoni. Nella pagina a fianco, Alessandro Gassman e (sotto) Massimo Popolizio nel «Cirano» diretto da Daniele Sepe

ha addirittura paventato la possibilità di nomine di Direttori e/o Presidenti di Teatri Stabili nell’area del Centrodestra, come se fosse una scandalosa “invasione di campo”. E come se non si sapesse, anche al di fuori del settore, che la stragrande maggioranza - vogliamo dire l’80% degli artisti e addetti ai lavori nel settore teatrale - sia sempre stata vicina in una maniera o nell’altra alla Sinistra dal dopoguerra a oggi.

E allora vorremmo anzitutto sostenere a gran voce quello che ci sembra debba essere oggi l’atteggiamento adeguato, e non soltanto nei confronti del Teatro ma di tutte le Arti e le

attività culturali: il Teatro, per sua quintessenza, non è né di Destra né di Sinistra, e nemmeno di altre parti politiche; al contrario “le racchiude tutte”, proprio nella sua apertura ad emiciclo che, dal Teatro di Dioniso ad oggi, ricorda

la stessa conformazione dei Parlamenti di ogni tempo. A proposito il grande politologo Ekkehart Krippendorff ha notato come la politica democratica occidentale abbia un suo luogo di nascita ben preciso: appunto il Teatro, dove in Grecia fu rappresentata per la prima volta l’Orestea, il capolavoro di Eschilo; la grande trilogia che Emanuele Severino ha ele-


cultura

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convinti che si tratti dell’unica via per poter sbloccare una vera e propria libertà a senso unico che in Italia sicuramente abbiamo vissuto.

Se è stato possibile agire ed esprimersi in libertà, è anche vero che tale libertà sia stata inequivocabilmente influenzata, uniformandosi alla tendenza naturale del Teatro e delle Arti nel secondo Novecento, dalla politica culturale di Sinistra; e nessuno si è mai sostanzialmente ribellato a tale acquisita prerogativa. Ed è ciò che

vato nel suo bellissimo libro Il Giogo come momento essenziale per la stessa nascita della filosofia. Ebbene, proprio a tali origini dovremo rifarci se vogliamo cercare di analizzare un nuovo concetto di Teatro Politico, che non sia soltanto un Teatro Politico di Sinistra, ma un Teatro Politico vicino alle più autentiche esigenze nel XXI secolo: per dirla con Shakespeare, «né per i Capuleti né per i Montecchi». Il dramma può essere tendenzioso, come è stato per la tragedia cristiana o marxista: ma il suo valore è anzitutto estetico, e non rappresenta mai una prescrizione per «votare da una parte o dall’altra»; nel qual caso si abbasserebbe naturalmente ad una sorta di comizio, o dramma-comizio, ripudiando la propria quintessenza interpretativa, come di fatto è avvenuto e avviene ancora oggi sempre a favore - diciamolo perché tale tendenza si è poi trasferita chiaramente anche nel cinema - della Sinistra o in generale dei suoi interessi.

Proprio in questo momento in cui sembrerebbe che si metta giustamente in dubbio tale egemonia, ecco che la Sinistra sembra non voler capire: come se certe questioni fossero soltanto a suo beneficio, cercando di tenere ben salda questa assolutamente indebita appropriazione nei confronti delle arti e della cultura.Vorremmo pertanto suggerire una diversa possibilità: posto che il dialogo fra

artisti e politici possa e debba incrementarsi a favore di entrambi - e in Italia come noto abbiamo anche la responsabilità di una altissima percentuale di Beni Culturali rispetto ad altri Paesi, pertanto il discorso è rivolto ad un vero e proprio nuovo investimento che dovremmo prendere in considerazione - inviteremmo il Centrodestra a colmare questa disattenzione storica interessandosi in maniera più forte del problema, ma inviteremmo anche la Sinistra a voler “mollare la preda”, e magari ispirarsi democraticamente proprio a quello che ipotizzava Pasolini: che non a caso teorizzava un nuovo Teatro Politico ispirato al modello democratico greco, e assolutamente alternativo e contrario a quello di Brecht, che più di ogni altro si può dire responsabile dello stampo marxista dell’arte moderna. In questa maniera Destra e Sinistra potrebbero concorrere ad un passo democratico, avanti creando davvero una “larga intesa” non solo nei confronti del Teatro, ma di tutte le istituzioni artistiche e culturali. Tuttavia ci rendiamo conto di quanto difficile e tutta in salita si presenti questa strada. Dopo 60 anni di evidente

egemonia culturale, prima da parte del Pci poi del colpo di coda del ’68, sarà molto difficile andare avanti verso una giusta inversione di tendenza a beneficio di tutti. Ma siamo altresì

ha creato una situazione di senso unico della libertà alla quale è assolutamente necessario ribellarsi. Una ribellione che è pure un compito storico: ritrovare il giusto equilibrio estetico

che possa garantire le pari opportunità nei confronti sia degli artisti che dei semplici fruitori. E se un film come Le vite degli altri ci ha illustrato assai bene quale potesse essere la coercizione politica nei confronti della cultura nella Ddr, dove Brecht andò a vivere e dove si formò il pur glorioso Berliner Ensemble, a maggior ragione dovremo pensare come il Teatro e il Cinema del XXI secolo possano e debbano aspirare ad una possibilità di distacco critico nei confronti di tutti e non solo, facendo l’esempio del nostro Paese, verso l’unica e univoca persona che ormai viene presa di mira nella maniera più totale, il nostro “Caimano” Presidente del Consiglio, dal quale secondo alcuni, dipenderebbe addirittura una involuzione del nostro linguaggio! Soltanto attraverso una profonda revisione democratica - in un senso che non coinvolge meramente i partiti politici, ma anche ovviamente le possibilità egemoniche della comunicazione globale - solo attraverso questa inedita riflessione, e quindi con un cambiamento radicale di certe antiche prospettive, il Teatro e tutte le arti potranno intravedere una nuova e più autentica libertà culturale, dove ci sia spazio di critica ma, se si vuole, anche di “non critica” verso il Potere; e dove se l’artista vorrà necessariamente fare un discorso a sfavore del Potere, allora non sia tenuto a farlo unicamente da una sola parte, come di fatto è avvenuto negli ultimi 60 anni.

È stato così contro Fanfani, contro Moro, contro tanti altri del Centrodestra fino ad Andreotti (Il Divo), ma mai nemmeno per idea verso l’altra sponda. E per chi non vorrà riconoscere come tutto ciò sia un dato di fatto ormai acquisito, questa evidenza della cosiddetta “cultura di sinistra”che ormai è chiaramente sotto gli occhi anche dei nostri figli, i casi saranno due: si tratterà o di un ingenuo o di un ipocrita.


spettacoli

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Opera. I nuovo giochi di luce e coreografie nella rappresentazione firmata Lucio Dalla, fino a poche settimane fa ospitata a Roma

Tosca, il successo continua... di Diana Izzo

ROMA. Dal suo debutto, nel 2003, la Tosca di Lucio Dalla si è arricchita ad ogni rappresentazione di nuovi giochi di luce e coreografie sempre più spettacolari, rese possibili anche dal gran lavoro di Daniel Ezralow. Un’opera apprezzata dal pubblico e dalla critica riprodotta nei più grandi palasport italiani e fino al 14 febbraio scorso di nuovo ospitata nella città eterna, proprio dove tutto ebbe inizio. La storia, infatti, è ambientata nella Roma ottocentesca che si prepara alla caduta della prima Repubblica Romana gemellata con quella di Napoleone Bonaparte, precedentemente entrato a Roma sottraendo la città al Papa. Sullo sfondo del palco del Gran Teatro di Roma, il Castel Sant’Angelo da dove evade Cesare Angelotti bonapartista ed ex console della Repubblica Romana,

che si rifugia nella Chiesa di Sant’Andrea della Valle dove dipinge l’amico Mario Cavaradossi. Il pittore che sposa le convinzioni bonapartiste e libertarie del fuggitivo si scontrerà con il barone Vitellio Scarpia che nutre una segreta ed insana passione per la sua amante: Tosca Floria, una donna profondamente religiosa e allo stesso tempo passionale che giura di proteggere e seguire il suo amore a qualunque costo. Il dramma si concluderà ovviamente con la condanna a morte di Mario ed il sacrificio d’amore di Tosca.

balletto di preti e suore il doppio passaggio di luci che alternano il blu nei momenti in cui risalta il personaggio di Mario, pittore di Dio, al rosso del balletto al limite del buongusto.

Luci e suoni hanno un ruolo fondamentale nel successo di questa opera. Le scenografie, ben combinate a giochi di luce, trasformano il palco in un monitor che proietta immagini tridimensionali. Con stupore generale del pubblico sullo schermo, grande quanto l’intero sfondo del palco, scorrono le immagini che rappresentano Angelotti in fuga. E qualche secondo dopo, ecco comparire sul palco l’ex console in carne ed ossa intento a lottare contro le guardie carcerarie. Di grande effetto ottico anche la scena di Sidonia, la regina della notte -

Simpatico il look stile commessi di Foot Locker con la maglia a righe verticali e pantaloni neri. I costumi femminili passano invece da nero a rosso fuoco du-

interpretata da Iskra Menarini amica e da anni collaboratrice di Lucio Dalla che irrompe sul palco non attraverso la proiezione ma fisicamente oltre lo sfondo. Sidonia con fare sapiente guida il pubblico in un mondo astrale. Intorno a lei scorrono delle immagini in bianco e nero: l’area del palco inizia a ricoprirsi di immagini di nuvole e stelle che avvolgono la veggente e danno l’impresbianco e rosso. È bianco lucido con riga rante l’unica scena che descrive ironica- sione che il cielo non si trovi sopra alla nera il pantalone utilizzato dal corpo di mente la trasgressione delle ballerine in protagonista ma intorno a lei. Ultime, ballo maschile mentre tutta nera è la veste ecclesiale che finiscono poi in lin- ma non per questo meno importanti, anlunga giacca con colletto alla coreana. gerie. Particolare in questa scena del zi, le musiche incredibilmente belle e varie di Dalla. Suoni che passano con maestria dal rap al gospel, dal lirico al pop e che si mescolano con il caratteristico ritmo dell’artista che ricorda la famosa canzone Attenti a Lupo. Quello di Lucio Dalla è un lavoro musicale che mescola musica pop con elementi classici all’interno di un musical che riprende tecniche espressive già viste con Momix di Pendleton. “Tosca Amore Disperato” è un’opera con richiami alla modernità, al dramma d’amore, alla memoria e alla malinconia. Perché, come dice lo stesso Dalla: «Tutta la musiIn questa pagina, alcune immagini della “Tosca” ca del Novecento deriva da di Lucio Dalla (nella foto al centro), fino allo scorso 14 febbraio Puccini, e c’è nell’aria un biospitata al Gran Teatro della Capitale sogno di tornare alle radici autentiche della musica». abiti moderni senza però tralasciare importanti accessori della Roma papalina quali cappelli, medaglie e stemmi. Solo tre colori per lo stilista piacentino: nero,

La messinscena è il risultato di un lavoro musicale che mescola melodie pop con elementi classici. E contamina sempre perfettamente i richiami alla modernità con i richiami al dramma d’amore, alla memoria e alla malinconia

Attorno ai personaggi principali un eccellente corpo di ballo composto da ballerini e acrobati che si muovono leggeri e potenti sulla scena, in un varietà di balletti fra cui un saggio ginnico con capriole e salti ed una performance di tip tap. Un palco, quello del Gran Teatro, sempre in movimento: durante lo spettacolo compaiono pedane che si spostano da una parte all’altra del teatro; i saltimbanchi scendono in scena con delle corte e le ballerine si spingono su altalene volanti. L’intero cast porta gli abiti firmati dall’inconfondibile stile di Giorgio Armani che utilizza velluti e tessuti preziosi per


spettacoli

na nuova British invasion è sbarcata silenziosamente sulle coste degli Stati Uniti. Niente a che vedere con le urla isteriche che salutarono i Beatles e i Rolling Stones, con il rock da guerriglia urbana dei Clash, con i capelli cotonati e i videoclip dei Duran Duran. E non c’entrano neanche Sade o Susan Boyle in testa alle classifiche. Si tratta piuttosto di un movimento di sottobosco, perché è nell’underground che succedono le cose più interessanti e inaspettate, alimentate da un passaparola sussurrato e appena percepibile, frutto di moti spontanei e apparentemente casuali.

U

Succede, dunque, che molti giovani artisti e band americane riscoprano all’improvviso il folk-rock britannico di trentacinque-quarant’anni fa, una musica elettrificata ma gentile, intimista e malinconica, fiabesca e immaginifica, che il vento furioso del punk e della new wave aveva spazzato via dagli scaffali dei negozi di dischi e dalla memoria collettiva. Decemberists, Fleet Foxes, Vetiver, Joanna Newsom: tutti innamorati di quell’antico modo di fare musica. E ora anche i Midlake da Denton, Texas, la più improbabile delle collocazioni geografiche per chi voglia immergersi in un mondo di leggende popolari e di canti marinari, di streghe e di fate, di nebbie e di brughiere. Non è nuovo a mosse spiazzanti, il quintetto capitanato da Tim Smith. Nel 2004 il disco di debutto Bamnan And Silvercork lo aveva accomunato a tante indie bands innamorate della psichedelia e del lo fi, un suono grezzo e a “bassa fedeltà” ricercato con insistenza. Ma già nel 2007 il “concept album” The Trials Of

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Musica. Il successo di “The Corauge Of Others”, il nuovo album dei Midlake

Il folk-rock britannico conquista il Texas di Alfredo Marziano Van Occupanther, infarcito di storie bizzarre raccontate in terza persona, fece drizzare le orecchie a molti, conquistandosi posizioni di riguardo nelle charts riservate alle etichette indipendenti e nelle liste di fine

La band, come diversi altri gruppi americani, si è invaghito del genere che spopolò a fine anni ’60 primi ’70, finendo in classifica (per poco) in Inghilterra

Sopra, la band texana Midlake innamorata del folk-rock britannico di fine anni 60 primi anni 70. Sono finiti in classifica in Inghilterra con il nuovo “The Corauge Of Others”

anno sugli album da mandare ai posteri: la copertina profumava già di Old Britannia e di anni Settanta, ma poi il disco sprigionava sapori corposi e decisamente americani, evocando esplicitamente il rock radiofonico dei Fleetwood Mac (seconda versione, quella americana) e i sublimi impasti vocali di Crosby, Stills, Nash & Young. I ragazzi amano prendersi il loro tempo, tra un disco e l’altro e oggi, a quasi tre anni di distanza, disegnano un panorama completamente diverso: The Corauge Of Others sfoggia sai e cappucci in copertina (ispirata a un film in bianco e nero del 1969 che Tarkovskij dedicò a Rubliov, monaco e pittore di icone nella Russia del XV secolo), il sole di California ha lasciato il posto a una fitta bruma inglese, le sonorità squillanti del predecessore a introspettive sequenze di accordi in minore, mentre un intreccio fitto di flauti e di chitarre arpeggiate riempie lo spazio lasciato libero dalle tastiere e dai sintetizzatori. Le nuove stelle polari si chiamano Fairport Convention, Pentangle e Steeleye Span, la trimurti del folk elettrico inglese fine ’60 inizio ’70 che all’epoca si conquistò un piccolo seguito di culto anche in Italia. E poi Strawbs, Amazing Blondel e l’imprescindibile Nick Drake, simbolo

di un cantautorato tormentato e poetico, delicato e introverso che oggi finisce in bocca persino a Giusy Ferreri (per via del suo mentore Tiziano Ferro). Con il fervore tipico dei neoconvertiti, Tim Smith e i suoi si sono buttati alla caccia dei classici del periodo e dei “fuori catalogo” più dimenticati, raccattando vecchi Lp a poco prezzo in polverosi negozietti di vinile e smanettando tra i blog di Internet per scaricare musica a più non posso. Hanno diviso il grano dal loglio, scartato la fuffa e ascoltato con attenta devozione le cose migliori, «tutti d’accordo che Who Knows Where The Time Goes e Fotheringay fossero grandi canzoni». A cosa si deve l’im-

provviso cambio di rotta? «Non lo so», ha dichiarato candidamente il capobanda al sito americano Pitchfork, bibbia dell’underground americano. «Ho sempre sentito un’affinità particolare per i vecchi suoni e le anticaglie - si tratti di film o di mobili, è lo stesso. E nel folk britannico c’è qualcosa... forse è quel tipo di suono medievale che mi intriga. Mi piace trovare nella musica quella che io chiamo una qualità virginale, al senso terreno del blues preferisco atmosfere incantate. Sono più orientato verso l’Europa che verso il Texas, insomma».

Dice bene: i Midlake, un gruppo di polistrumentisti con insospettabili radici jazz e anni di gavetta passati a improvvisare sul tema guardando indifferentemente ad Herbie Hancock e a Stevie Wonder, non hanno paura di svelare le carte e di mettere a nudo le loro nuove passioni musicali in canzoni come Acts Of Man e Winter Dies, Rulers, Ruling All Things e The Horn, dove si coglie anche qualche essenza di Jethro Tull periodo Aqualung. È il disco più personale della sua (finora breve) carriera, assicura Smith, consapevole che i continui cambi di direzione possano irritare una parte del suo pubblico ma determinato a seguire la sua strada («Per quanto mi piaccia, non voglio suonare Roscoe per tutta la vita»). In America, infatti, c’è chi ha storto il naso e ha bacchettato i Midlake (a cominciare proprio da Pitchfork). Ma in Inghilterra, dove curiosamente il folk rock d’antan piace solo se è d’esportazione e ammantato di un qualche sapore esotico, la stampa specializzata se li coccola tributandogli onori, lodi sperticate e stellette in abbondanza nelle recensioni. E il pubblico risponde, spedendo The Corauge Of Others, al debutto, nella Top 20 degli album più venduti.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Al fianco delle persone disabili, senza nessuna distinzione Anffas Onlus è al fianco delle persone disabili, senza alcuna distinzione di categoria, credendo fermamente, nella necessità di far riconoscere il diritto della stessa a vedere preordinato e realizzato il proprio progetto individuale. L’ art. 14 della l. 328/00 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” è uno strumento normativo prezioso e fondamentale per le persone con disabilità, oltre che essere un diritto previsto per legge, che deve essere rivendicato da tutti. Questo strumento, infatti, consente di avere un definito ed univoco progetto di vita riguardo alle esigenze personali negli ambiti familiari, sociali e di lavoro, ma anche e soprattutto, riguardo ai servizi a cui deve provvedere il comune (aiuto domestico, assistenza domiciliare, servizio di trasporto e i servizi di socializzazione), nonché riguardo ai servizi sanitari terapeutici-riabilitativi (logopedia, fisioterapia, attività in centri di riabilitazione). In tal modo, la persona con disabilità e la sua famiglia, possono essere a conoscenza del programma di servizi a loro disposizione, nonché dell’organizzazione e dell’interazione tra essi, anziché trovarsi costretti ad organizzare quotidianamente, e spesso con grande fatica, le proprie necessità di vita.

Anfass Onlus

CONTRO IL CAROVITA PER SEMPRE. LA COOP CI PRENDE IN GIRO? Ha fatto effetto la notizia della Coop di Firenze che, come recita un suo comunicato: «Contro il carovita per sempre. Una diminuzione dei prezzi di vendita fino al 20% per sempre». La Coop ci prende in giro? Crediamo di sì. Cosa vuol dire uno sconto del 20% per sempre? Rispetto a cosa, quanto e quando? Sembra proprio che questo «per sempre» non sia e non possa essere vero, e infatti è già stato oggetto di condanna dell’Antitrust come pubblicità ingannevole e pratica commerciale scorretta: «...termini enfatici e categorici possono essere utilizzati nella comunicazione pubblicitaria solo quando corrispondono alle reali condizioni dell’offerta che si intende promuovere e (l’Autorità: ndr) ha ritenuto la dicitura “per sempre”, così peren-

toria ed accattivante, idonea ad indurre in errore i consumatori sul carattere permanente delle condizioni delle offerte. In conclusione, l’espressione «per sempre», così come riportata negli spot in contestazione, non essendo corredata da elementi idonei a circoscriverne la portata, lascia di per sé intendere che le condizioni economiche pubblicizzate rimarranno invariate nel tempo, rischiando di ingenerare la convinzione in una condizione impossibile... L’espressione si traduce, piuttosto, in una rassicurazione generica ed incontrollabile circa l’invariabilità delle condizioni...».

Lettera firmata

ASSISTENZA LEGALE PER TUTTI Anche a Seregno apre il primo studio legale su strada. A prima vista sembra di entrare in un normale negozio. Ma è uno studio

Campanile fantasma Se vi sembra che a questo campanile manchi un pezzo non vi sbagliate. Il resto dell’edificio si trova sotto a questo strato di ghiaccio: quella che vedete infatti, è la superficie del Lago di Resia (Sud Tirolo, Italia), che d’inverno congela e diviene percorribile a piedi

legale. Sono gli avvocati di A.l.t. (Assistenza legale per tutti) un network nazionale di professionisti della legge, presenti anche a Seregno dove gli avvocati Luigi e Marco Vismara offrono assistenza legale. Basta varcare la porta del loro studio, che affaccia direttamente sulla strada in via Magenta 4, per rivolgersi direttamente ad un avvocato senza necessità di fissare un appuntamento. Il principio su cui si fonda A.l.t. è di avvicinare il più possibile l’avvocato al cittadino, così basta suonare il campanello e un

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

avvocato è pronto ad accogliere chiunque necessiti di assistenza legale, dall’imprenditore alla casalinga, dall’operaio al professionista. In Italia il fenomeno dei “negozi legali” è relativamente recente (il primo studio legale A.l.t. è nato a Milano nel 2008 con gli avvocati Cristiano Cominotto e Francesca Passerini) ed oggi il Network A.l.t., Assistenza legale per tutti, conta 13 studi in 11 città su tutto il territorio nazionale, in Inghilterra i legal - shop sono già 10.000.

Luca A. Minichiello

da ”The Washington Indipendent” del 09/03/10

Il ritorno di Blackwater di Spencer Ackerman i torna a parla di una società che un tempo si chiamava Blackwater. Una compagnia di sicurezza privata – una vera multinazionale – molto attiva in Iraq fino al 2003 e poi coinvolta in numerosi scandali, tra cui l’accusa di avere «rubato le armi dirette alle forze di polizia afgane». Obama l’aveva estromessa da nuovi contratti per la Difesa. La notizia è che il 24 marzo potrebbe vincere un nuovo contratto col Pentagono per addestrare le forze di polizia afgane. Ora nessuno al governo vuol confessare come sia potuto accadere. Un’attenta ricognizione fatta tra funzionari del Pentagono e ufficiali dell’esercito dipinge un ritratto delle procedure sugli appalti che rende effettivamente difficile l’esclusione di un’azienda coinvolta in numerosi incidenti costati la vita a civili e possibili frodi. Non è ancora sicuro che la Blackwater, ora meglio nota come Xe Service, firmerà un contratto che potrebbe valere diversi miliardi di dollari, ma è certo che è ancora candidabile per le gare d’appalto della Difesa.

S

Anche se nessun funzionario coinvolto nella procedura per la commessa pubblica – e sentito dal giornale – si sente responsabile dell’eventuale assegnazione dell’appalto alla Xe Service. Un fatto che solleva non poche perplessità su come il governo riesca a garantire trasparenza e correttezza nell’assegnazione dei contratti per il Pentagono. Già lo scorso anno, il nuovo comandante delle forze in Afghanistan, il generale Stanley McChrystal aveva sollecitato il Pentagono a prendere il controllo diretto dell’addestramento della polizia afgana, allora in carico al Bureau of narcotics and law enforcement affaire, un ufficio che già l’Ispettore

generale per la ricostruzione in Iraq aveva segnalato per la sua scarsa capacità di controllo e coordinamento. Insomma non si capisce dove sia la falla del sistema, visti i precedenti. L’ufficio in questione che gestisce il processo d’assegnazione dei contratti, sarebbe il Cntpo, che starebbe per Counter-Narcoterrorism technology program office, un sotto dipartimento dello Space and missile defence command. Nessuno degli ufficiali intervistati ha saputo spiegare perché il comando sia responsabile della supervisione di un progetto legato alla lotta al narcoterrorismo. Si sa solamente che l’ufficio si occupa di definire i requisiti richiesti dal contratto per «un corso per addestratori» delle forze di polizia afgane e un incremento della formazione per il counterinsurgency. Il Ctnpo ha dunque relazione con le cinque compagnie di sicurezza autorizzate a partecipare alle gare per l’Afghanistan: la Raytheon, la Lockeed Martin, la Ng, l’Arinc e la Blackwater. E non sembra neanche che il Cntpo sia un’organizzazione molto conosciuta all’interno dello stesso Pentagono.Tanto che il quotidiano non è riuscito a contattare nessun responsabile dell’ufficio, che avrebbe sede ad Huntsville in Alabama. La Dyncorp, un’altra società della sicurezza, aveva sollevato delle obiezioni per lo spostamento delle competenze sugli appalti alla Ctnpo e il senatore democratico Carl Levin aveva espresso tutta la sua frustrazione per la riammissione della Blackwater nel gi-

ro degli appalti del Pentagono.Aveva preso carta e penna, scrivendo prima al segretario alla Difesa, Robert Gates, a fine febbraio, e poi a quello alla Giustizia Eric Holder, affinché aprisse un’inchiesta. Fonti bene informate vicine all’Attorney general hanno assicurato a Twi che l’istanza di Levin verrà presa in considerazione. E dal dipartimento di Giustizia infatti che potrebbe venire l’unica azione in grado di fermare il percorso della Blackwater verso nuovi contratti della pubblica amministrazione.

Insomma, qualcuno sembra essersi dimenticato di depennare la famigerata compagnia dalla lista dei «buoni», come previsto da una burocratica regola del Federal acquisition regulation. Da non sottovalutare anche la pessima ricaduta politica neri rapporti con Kabul nel caso dovesse riveder comparire una società accusata di uccisioni illegali di cittadini afgani e di furto d’armi destinate alla polizia locale.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Mi ripugna chiedere nuove cortesie

«UDC TERRA DI NESSUNO?». CRESCITA DI CONSENSI, ALTRO CHE VOTO INUTILE Rispondo in qualità di presidente del gruppo regionale dell’Unione di centro, a quanti, nei giorni scorsi, hanno parlato di Udc pugliese come «terra di nessuno» e di «inutilità» nell’attribuzione della propria preferenza al partito di Casini. Francamente mi risulta, ormai da tempo, una crescita costante di adesioni e di iscrizioni al progetto politico-culturale dell’Unione di centro. Evidentemente chi afferma tali inesattezze teme il peggio, fiuta un verosimilissimo insuccesso del proprio partito. Tali affermazioni mendaci e grottesche risultano patetiche proprio perché giungono da “forze” pseudo-centriste originatesi per “comodità” elettorale, per una facile (ma non sempre) via d’uscita verso la destra della quale sono ormai divenuti succubi. Respingo, pertanto, tali critiche al mittente. Saranno i fatti, i responsi elettorali a dare una risposta maggiormente esaustiva a queste persone, a evidenziare una volta per tutte quanto utile, produttivo, largo sarà il consenso dei pugliesi verso l’Unione di centro, unica forza politica moderata, di centro, coraggiosa e coerente nella sua linea politico.

La cambiale di 1500, spedita da me dopo averla registrata nei mie conti in scadenza, rientrerà nei nostri affari? In tal caso, chiederei a Duranty solamente una cambiale da 300 e qualche franco. Non ho paura di assumere su di me solo tutta questa responsabilità, certo di essere aiutato da voi in caso di bisogno e deciso, d’altronde, a fare di tutto per pagare io stesso il più possibile. D’altro canto mi ripugna chiedere nuove cortesie a Boyer e a quell’imbecille di Christophe. Non condivido per niente la vostra illusione sulla facilità di fare 350 pagine con tre fogli di stampa della «Revue contemporaine». Vi ricordo che vi è già capitato di fare dei libricini con più materiale. Tra parentesi, vi dirò che mi avrebbe fatto piacere avere il vostro parere sulla fisionomia generale del libro e, in particolare sull’Oppio. De Quincey è un autore spaventosamente conversazionista e disgressionista e non era roba da poco dare a quel riassunto una forma drammatica e introdurvi un ordine. In più, si trattava di fondere le mie sensazioni personali con le opinioni dell’autore originale e di farne un’amalgama, le cui parti fossero indiscernibili. Ci sono riuscito? La mia domanda nasce dalla solitudine nella quale vivo. Charles Baudelaire ad Auguste Poulet-Malassis

ACCADDE OGGI

PRO EMERGENZA CILE Per donare 1 euro alla Croce Rossa Italiana “Pro Emergenza Cile” invia un sms da numero “Wind” e “3” al 45555. La Croce Rossa Italiana ha attivato altri strumenti per raccogliere fondi in favore delle popolazioni colpite dal terremoto in Cile:donazione online causale “Pro emergenza Cile” www.cri.it; bonifico bancario causale “Pro emergenza Cile” IBAN IT66 - C010 0503 3820 0000 0218020. I contributi finanziari, raccolti dalla Cri saranno impiegati a sostegno delle attività di assistenza alle popolazioni terremotate, in stretta collaborazione con la Croce Rossa Cilena e la Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa.

Croce Rossa Italiana

CHIUDERE IL GRUPPO SPAVENTAEBREI Ci rammarica constatare che ad oggi facebook non abbia ancora chiuso il gruppo “spaventaebrei”. All’interno di questo gruppo, a cui si sono iscritte quasi 3000 persone, si annidano antisemiti ed antisionisti che con la scusa di esaltare una puntata della serie televisiva I Griffin incitano all’odio verso Israele e verso gli ebrei. Non essendo in America l’ironia del cartone animato viene strumentalizzata a fini ideologici. Condividiamo l’opinione del segretario di Stato americano per cui internet libero sia un diritto fondamentale da riconoscere universalmente, tuttavia riteniamo che i gestori di siti inter-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

10 marzo 1975 A Milano nasce Radio Milano International, la prima radio libera italiana 1977 L’astronomo James Elliot comunica la scoperta degli anelli di Urano 1982 Gli Stati Uniti pongono un embargo sull’importazione di petrolio della Libia a causa del supporto di quest’ultima ai gruppi terroristici 1987 La Santa Sede condanna la pratica della surrogazione di maternità e l’inseminazione artificiale 1990 Ad Haiti, Prosper Avril viene estromesso, 18 mesi dopo aver preso il potere con un colpo di stato 1991 Operazione Phase Echo: 540.000 truppe statunitensi iniziano a lasciare il Golfo Persico 2000 L’indice Nasdaq raggiunge i 5048,62 punti, segnalando l’inizio della fine del boom delle dot-com 2006 A seguito dell’indagine della magistratura sulla presunta attività di spionaggio politico ai danni di Alessandra Mussolini e Piero Marrazzo, si dimette il ministro della Sanità italiana, Francesco Storace

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

net e social network debbano impiegare tutte le risorse possibili per analizzare tempestivamente le segnalazioni in caso di abuso. Per questo motivo ho deciso di intraprendere uno sciopero della fame finché il social network non prenderà provvedimenti contro il gruppo in oggetto. Per dare il proprio sostegno a questa protesta,invito tutti gli amici di facebook ad aderire alla pagina “Vito Kappa”.

Vito Kahlun

OGM, UNA SCELTA SCELLERATA Una scelta pericolosa per l’intero pianeta, fatta nell’interesse esclusivo delle multinazionali. La decisione della Commissione europea apre inquietanti interrogativi per il futuro della popolazione mondiale, a causa dei problemi provocati da un gene che resiste a diversi antibiotici, alcuni dei quali fondamentali per la nostra salute, con il rischio di danni irreversibili agli organismi viventi, e all’uomo in particolare. Del tutto inutile appare, inoltre, la facoltà riconosciuta agli Stati membri di autorizzare, o meno, le coltivazioni ogm sui propri territori, perché ciò non impedirà l’ingresso dei prodotti nei Paesi contrari, in virtù del principio della libera circolazione delle merci.Bisogna battersi in ogni sede contro tale provvedimento e speriamo che il Parlamento europeo, e l’Italia per la sua parte, si oppongano strenuamente a questa scelta scellerata.

Domenico

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Direttore da Washington Michael Novak

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Collaboratori

Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,

Roberto Mussapi, Francesco Napoli,

Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

Mario Arpino, Bruno Babando,

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

John R. Bolton, Mauro Canali,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

Franco Cardini, Carlo G. Cereti,

Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,

Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,

Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,

TAGLI ALLE TV LOCALI: ATTO IGNOBILE E ANTIDEMOCRATICO Il governo centrale ha effettuato un taglio deciso, tramite l’approvazione del decreto “milleproroghe”, ai finanziamenti concessi alle emittenti locali. Sono le tv locali a garantire, da decenni, l’informazione in merito a ciò che accade nelle disparate realtà territoriali, e considero inconcepibile, ignobile oltre ché antidemocratico tagliare i fondi a loro destinati, conducendo alla graduale chiusura di scrigni preziosi dell’informazione locale. Anche Sergio Adamo, responsabile nazionale giovani Udc Mezzogiorno, è d’accordo su quanto espresso da Scalera: «Invece di gratificare gli staff, le redazioni, gli operatori delle emittenti locali, che svolgono un’instancabile e importante funzione mediatica, assistiamo all’ennesimo atteggiamento antidemocratico di un governo imbavagliatore». Speriamo che il governo faccia un passo indietro. Solo mettendo insieme le nostre forze potremo tornare a ristabilire nelle redazione delle emittenti dei nostri territori la giusta serenità per continuare a svolgere un lavoro altamente professionale e dedito alla diffusione mediatica di fatti salienti delle varie comunità. Antonio Scalera P R E S I D E N T E D E L GR U P P O RE G I O N A L E D E L L’ UD C

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PAGINAVENTIQUATTRO Misteri. Morto suicida Pietro Vanacore, il portiere dello stabile in cui venne uccisa Simonetta Cesaroni

Delitto di via Poma, il giallo di Pier Mario Fasanotti no dei casi criminali più oscuri, e rimasti tali, degli ultimi decenni è il delitto di via Poma. In quello stabile giallo poco distante dalla sede della Rai, nell’agosto del 1990, venne pugnalata, e per ben 29 volte, la ventunenne Simonetta Cesaroni. Dopo vent’anni siamo da capo. Con una notizia che rimette in gioco tutto: il suicidio del portiere dello stabile del delitto, Pietrino Vanacore. Si è tolto la vita a Marina di Torricella, nel Tarantino, nella notte tra lunedì e martedì. In maniera orribile: si è legato al collo e alla caviglia una lunga fune ed è scivolato, volontariamente, nel fiume. Ha lasciato due biglietti di addio nella sua Citroen, uno sul tergicristallo e uno nell’abitacolo. Stando alle prime fonti si legge: «20 anni di martirio senza colpa e di sofferenza portano al suicidio».Vanacore non ha mai sopportato di essere additato come probabile indiziato. Il 12 marzo, venerdì, il portiere dello stabile del silenzio, della maledizione e delle indagini sciatte avrebbe dovuto testimoniare davanti ai magistrati visto che il caso Cesaroni è stato riaperto mettendo alla sbarra Raniero Busco, l’allora fidanzato della ragazza trovata nuda in un mare di sangue. Pietrino, con un nome in dissonanza con la sua robustezza e il suo viso arcigno, avrebbe potuto anche rifiutarsi di rispondere: la legge lo aveva già messo sotto torchio.

U

Ovviamente l’avvocato di Busco affianca il suicidio di Vanacore all’ipotesi che sapesse e non avesse parlato:«La sua morte è troppo vicina alla scadenza processuale per non essere collegata». E, non si sa con quale scienza investigativa: «Lui ha vissuto con il rimorso sulla coscienza questa storia, e non perché fosse l’autore dell’omicidio, ma perché sapeva». Ma che cosa sapeva? E chi copriva, ammesso che il suo silenzio nervosissimo avesse come scopo quello di non mettere nei guai una persona a lui vicina? Quindi non poteva spiegare alla polizia certe cose.Venerdì prossimo il suo secondo caparbio silenzio, data la sua “asbentia”, condizionerà di nuovo la ricerca della verità per via legale. Fu Pietro, cordialmente chiamato Pietrino, a scoprire il cadavere. La polizia operò un fermo tre giorni dopo, ma il 30 agosto il portiere con gli occhi severi e vendicativi tornò libero. L’anno successivo il gip archiviò il dubbio che potesse in qualche modo essere coinvolto nell’omicidio. Vanacore aveva tutti i motivi per stare tranquillo visto che la Cassazione, a fine gennaio 1995, lo espulse definitivamente dalla scena del crimine. Nessun favoreggiamento, sentenziò. Fu allora che decise di lasciare Roma e tornare nella sua nativa terra pugliese, dalla quale non si vede il mare. In via Poma, dietro quelle mura anni Trenta, Simonetta non è l’unico fantasma che s’aggira e chiede giustizia. Nel 1984 venne ritrovata senza vita Renata Moscardelli, una donna anziana a ricca. Fu soffocata con un cuscino. Nessun segno di scasso. Mai fu trovato il responsabile. Simonetta, della quale i giornali hanno sempre pubblicato la sua foto al mare, dà l’ultimo segnale di vita alle 17,35 perché risponde a una telefonata. Poi il buio. Nessuno dice di aver visto nessuno. Nel pomeriggio di quel giorno, fin verso le venti, si radunano nel cortile i portieri degli stabili del numero due di via Poma. Diranno, tutti, che nessuno entrò dall’ingresso principale. Dando credito a queste testimo-

INFINITO Nella sua auto sono stati trovati biglietti con scritto: «20 anni di martirio senza colpa e di sofferenza portano al suicidio». Il 12 marzo avrebbe dovuto testimoniare di nuovo

nianze, si deduce che un uomo si aggirava dentro gli uffici dove Simonetta lavorava. Il mostro senza contorni afferra la ragazza, la trascina in un’altra stanza, la immobilizza a terra con le ginocchia. Sul corpo della vittima saranno visibili alcuni ematomi. C’è furia assassina. Con un oggetto pesante le sfonda il cranio, con un tagliacarte penetra nella sua carne.

Simonetta viene privata anche dei suoi abiti: fuseaux sportivi blu e una maglietta. Mancano anche un anello, un bracciale e un girocollo, tutti d’oro. I dettagli stanno a indicare che l’impeto criminale potrebbe essere collegato con un qualche impulso sessuale: ha il reggiseno ancora allacciato dietro ma calato verso il basso, è priva di mutandine, ma indossa ancora i calzini bianchi corti. Gli esperti diranno che su uno dei capezzoli c’è una ferita che fa immaginare un morso. Sulla maniglia della porta c’è sangue. Esame del Dna: è maschile. Indagini. Poco accurate è dir poco. Per

esempio sulla scrivania di Simonetta viene trovato un biglietto dove compare la parola “CE” accanto al disegno di un pupazzetto a forma di margherita. Più in basso altre due parole: “DEAD OK”. Ci vorrà la trasmissione Chi l’ha visto?, nell’ottobre del 2008 per scoprire che a imprimere su carta parole e disegno fu uno degli agenti investigativi. Perché Vanacore andò in carcere? Perché fu visto assentarsi nelle ore critiche di quel sette agosto. Perché i suoi calzoni risultarono macchiati di sangue. Le analisi dissero però che le tracce ematiche provenivano dalle emorroidi di un signore anziano, l’architetto Valle, abitualmente assistito dal portiere di via Poma. Federico, il nipote dell’anziano, sarà poi sospettato di aver avuto una love story con Simonetta. Altra ipotesi, che si accanisce ancora contro Vanacore: lui sarebbe stato chiamato per pulire tutto. Altra pista che condusse al niente: Simonetta forse usava il pc per entrare in chat con il nickname “Veronica”. Suggestiva cornice per un delitto dopo un appuntamento “al buio”. Però la ragazza non poteva entrare nei servizi Internet di quel tempo. Un caso complicato. La morte di Pietrino non farà che alimentare illazioni e sospetti. Ce la ricorderemo quella faccia da portiere arrabbiato. Ma non ci potrà più dire niente.


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