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Lo schiavo ha un solo padrone;

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l’ambizioso ne ha tanti quante sono le persone utili alla sua fortuna

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Jean De La Bruyère di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 16 MARZO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

I promotori di “Generazione Italia” annunciano: «Lavoreremo per affermare la leadership del presidente della Camera»

Prove di post-berlusconismo Fini ormai si muove oltre il Pdl.Nel Pd cresce il dissenso sul legame con Di Pietro.Le regionali a destra e a sinistra acuiscono la crisi del bipolarismo.E dopo il voto si preparano scenari di svolta... CAMBIO DI STAGIONE

Il Pdl diviso in due (di qua la Generazione Italia di Fini, di là i «Promotori» di Berlusconi), nel Pd crescono le contestazioni alla scorciatoia della piazza degli estremisti: ormai la politica pensa al futuro.

L’ultima fase della Seconda Repubblica di Giancristiano Desiderio l Pdl non funziona. La prova? Ce ne sono almeno due. La prima l’ha fornita qualche settimana fa il Fondatore presentando «i promotori della libertà» di Michela Brambilla (nome infelice, suona un po’ come «i promotori finanziari»). La seconda prova la fornisce il co-fondatore che è il vero ispiratore di Generazione Italia. Ha un modello estero di riferimento, ma il suo scopo è tutto interno: dare sostegno alla leadership di Gianfranco Fini per l’evento più atteso della politica italiana ossia il dopo-Berlusconi. Una volta iniziative di questo tipo avrebbero avuto un nome facile: “correnti”.

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servizi da pagina 2 a pagina 5

Barbera avvisa Bersani

Il vertice è spaccato

«No a Tonino: è il gemello di Silvio»

La Rai ha scelto: «Ci teniamo il bavaglio»

di Francesco Capozza

ROMA. «Anacronistica». È questo il primo termine che viene in mente ad Augusto Barbera, professore ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università di Bologna, per descrivere «la piazza» della sinistra. «È vero, c’è una contraddizione nelle alleanze del Pd, ma il problema è che Di Pietro è un gemello di Berlusconi. Proprio per questo sono convinto che quando cadrà uno, anche l’altro finirà inevitabilmente ridimensionato».

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Malgrado il Tar, il Cda di viale Mazzini mantiene lo stop ai talk show: «La decisione non spetta a noi ma alla Vigilanza» Alessandro D’Amato • pagina 7

L’ex ministro della Giustizia contesta l’editorialista del “Corriere”

L’Angelo sterminatore Martelli vs Panebianco: Prima Repubblica? C’era più libertà di Gabriella Mecucci

Trentadue anni fa la strage di Via Fani

ROMA. «Vogliamo para-

Elogio della politica nel nome di Moro

gonare la Prima e la Seconda Repubblica? La politica estera è migliore con gli italiani a “tappetino” davanti a Gheddafi, Lukashenko e Putin? E la scuola? È migliorata? E i partiti distrutti e non ricostruiti?». Claudio Martelli difende il suo tempo dagli attacchi di Angelo Panebianco sul Corriere.

rentadue anni fa la strage di via Fani e il rapimento di Moro. Politicamente sono passate ere geologiche che han portato via, con i tre decenni, anche un’Italia in bianco e nero, che faceva capolino dai tiggì e dalle tribune politiche senza parolacce.

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segue a pagina 6

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di Pino Pisicchio

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I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

50 •

WWW.LIBERAL.IT

La nuova affermazione (12%) del Fronte Nazionale

Una vera Marine Cosa vuole dalla Francia la “soldatessa” Le Pen

La missione? “Eliminare il diavolo” del moderatismo dal partito del padre. Mentre Parigi si interroga su islam e identità nazionale, lei porta l’estrema destra al top di Maurizio Stefanini l’astro nascente della politica francese. Sua madre Pierrette Lalanne, cui tra l’altro assomiglia in modo impressionante, dopo essersi separata da suo padre era arrivata a odiarlo a tal punto da posare nuda per Playboy nel luglio del 1987: apposta per vendicarsi di tutte «le umiliazioni pubbliche» sofferte nei 25 anni di matrimonio e nei tre anni successivi al divorzio. Lei, la 42enne Marine Le Pen, dopo essersi laureata nel 1990 e aver iniziato a lavorare da avvocato nel 1991 si è trovata più volte a difendere stranieri in posizione irregolare, benchè a quell’epoca fosse già presidente onorario del movimento giovanile del partito di suo padre. Candidata per la prima volta alla Camera 24enne in una circoscrizione di Parigi, prese l’11,1 per cento.

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PARLA GERARD SLAMA

«Vi sbagliate, Sarkozy non ha perso» di Valerio Venturi

MILANO. Sarkozy non è più à la page? Alle elezioni regionali francesi, il Partito Socialista fa incetta di preferenze, l’Ump del Presidente è in flessione, mentre crescono gli astensionisti e i partiti radicali a destra e gli ecologisti a sinistra. Che sta succedendo? Lo chiediamo al politologo francese Alain Gèrard Slama, firma autorevole e autore di testi narrativi e di saggistica, in Italia pubblicati da “Spirali”. «Di fatto - afferma - non penso che questo sia un risultato grave per Sarkozy, perchè quelle che si sono tenute sono elezioni locali, le prime regionali. Certamente i miei connazionali non le hanno considerate importanti. Soprattutto gli elettori di destra»

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

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pagina 2 • 16 marzo 2010

Grandi manovre/1. Botta e risposta tra Mantica e Briguglio sui tempi delle due iniziative contrapposte di Fini e Berlusconi

Il partito dei due padroni

Di qua ci sono i «promotori della libertà», di là «Generazione Italia»: radiografia del Pdl sempre più diviso tra i supporters dei fondatori di Riccardo Paradisi uando i finiani garantiscono che la convention di Generazione Italia il prossimo 8 e 9 maggio a Perugia non è il segnale d’una volontà di scissione c’è da crederci. Non è vero invece che non si tratti della nascita d’una corrente politica finiana dentro il Pdl. Si tratta infatti proprio di questo. Si perché questo movimento animato dal vicecapogruppo alla Camera del Pdl Italo Bocchino e patrocinato dal presidente della Camera Gianfranco Fini vuole istituzionalizzare una componente, organizzare una vera e propria corrente organizzata con tanto di deputati e senatori in quota, con tanto di logo e di obiettivi condivisi, con tanto di organigramma e organo di stampa anche se online.

Nelle mosse di Fini e nei dubbi di Bersani il rifiuto della politica e dei partiti

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Italo Bocchino minimizza: «Generazione Italia è un aggregatore all’interno del Pdl, un contenitore che ha come obiettivo soprattutto quello di creare un perimetro di convergenza di giovani generazioni, classe dirigente diffusa sul territorio, e che vuole stimolare un dibattito». Una lunga perifrasi per dire corrente insomma. E del resto le correnti – o se si vuole le componenti interne – esistono nei partiti democratici, dove si confrontano tesi, proposte, visioni. A formare una componente simile ci aveva provato con il convegno di Arezzo dello scorso gennaio, anche se in modo più informale, l’area centrista o dorotea del Pdl. Con il coordinatore del Pdl Denis Verdini s’erano trovati gli ex An del partito Ignazio la Russa, ministro della difesa e coordinatore del partito, il presidente dei senatori azzurri Maurizio Gasparri, il suo vice Gaetano Quagliariello, il sottosegretario Alfredo Mantica. L’obiettivo era diverso, certo, rispetto a Generazione Italia, più sfumato e più unitario: costruire un ponte di congiunzione, una camera di decompressione e mediazione delle tensioni tra Fini e Berlusconi ma nel metodo c’era la volontà di istituzionalizzare un confronto in un partito plurale. Partito che invece secondo la cerchia più prossima al leader

Siamo all’atto finale della Seconda Repubblica di Giancristiano Desiderio l Pdl non funziona. La prova? Ce ne sono almeno due. La prima l’ha fornita qualche settimana fa il Fondatore presentando «i promotori della libertà» di Michela Brambilla (nome, in verità, assai infelice, suona un po’ come «i promotori finanziari»). La seconda prova la fornisce il co-fondatore che è il vero ispiratore di Generazione Italia. Ha un modello estero di riferimento in Génération France di Jean François Copé, ma il suo scopo è tutto interno: dare sostegno alla leadership di Fini per l’evento più atteso della politica italiana ossia il dopoBerlusconi. Una volta iniziative di questo tipo avrebbero avuto dei nomi politici e partitici noti: si sarebbero chiamate “correnti”. Siccome, però, per avere delle correnti bisogna anche avere un partito, e siccome - come è noto - il Pdl non è un partito ma una scatola vuota, ecco che non si parla di correnti ma di promotori, generazioni, fondazioni, siti, predellini. La seconda prova è più importante della prima. Testimonia che Fini non se ne sta con le mani in mano - come in realtà sembrerebbe - e a ogni mossa del presidente del Consiglio risponde con una sua mossa. Se i «Promotori» prefigurano l’idea di un nuovo partito berlusconiano, la «Generazione» prefigura la rinascita di An sia pure arricchita da nuovi metodi ed esperienze che, a conti fatti, hanno più di qualcosa di berlusconiano. È come se il co-fondatore avesse imparato a imitare il fondatore. Ad ogni buon conto, sotto la sigla Pdl ci sono ancora i due corpi di Forza Italia ed Alleanza nazionale, mentre all’orizzonte, dopo il voto regionale o un giorno imprevisto della storia futura dei prossimi tre anni di governo, c’è lo scontro finale. È evi-

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dente a tutti che Berlusconi e Fini hanno in testa idee diverse sul partito che non c’è. Quello che dovrebbe essere il maggior partito italiano e che dovrebbe agitare e formare la cultura moderata della politica di casa nostra è nella pratica delle cose un partito senza dibattito e democrazia interna.Viene in mente il titolo del libro di Francesco Rutelli pensato per il Pd: «Lettera a un partito mai nato». Va benissimo anche per il Pdl. In «Generazione Italia» non c’è un partito in nuce, né l’idea di un partito futuro, ma è senz’altro la mossa di un Gianfranco Fini che si prepara a superare la fase improduttiva e sterile del Pdl. C’è solo un piccolo problema (si fa per dire): il governo. Quanto tempo potrà ancora durare un esecutivo che si regge su un partito che tende alla divisione piuttosto che all’unione? Quanto tempo potrà durare un governo che si regge su un altro partito - il vero partito di governo - che si candida a essere il primo concorrente di ciò che ne sarà del Pdl? Già dopo il voto regionale queste domande avranno le prime provvisorie risposte.

Anche il Pd non funziona. Con un’aggravante: la passività. Pier Luigi Bersani è un enigma. Alla vigilia della sua ascesa alla guida dei democratici ci si attendeva una svolta riformista, ma allo stato delle cose non solo la svolta non c’è stata, sembra impossibile. Se, infatti, la mossa di Fini permette di contemplare un diverso gioco dell’attuale bloccato sistema bipolare, l’enigma Bersani non consente di ripensare il centrosinistra se non sotto la solita idea dell’eterno ritorno dell’uguale: l’Ulivo. Gli ingredienti sono sempre gli stessi: la piazza, Di Pietro, i vendoliani. Il Pd cammina sugli stessi sentieri interrotti di ieri come se questi sentieri non lo avessero già condotto più di una volta nel baratro. Il dipietrismo lasciato a se stesso porta dritto allo scontro con il Quirinale: il Pd si ritrae inorridito, ma non fa realmente nulla per evitare lo scontro e nei fatti subisce l’iniziativa dell’ex pm della Procura di Milano. Si aggiunga l’elemento più importante: l’antiberlusconismo e l’eterno girotondismo rimarranno senza acqua quando si avvierà la stagione postberlusconiana. Anche la rincorsa all’Udc, in questa chiave, sembra viziata in origine: i centristi hannod etto e ridetto di non voler essere una costola di una nuova, improbabile Unione. Insomma: un enigma, appunto.

Sandro Bondi, Paolo Bonaiuti, dovrebbe restare a indiscutibile vocazione carismatica, seguendo perinde ac cadaver le suggestioni e le intuizioni del leader supremo, confidando nella superiore visione del suo genio. Il dato è che a un anno dalla nascita del Pdl non si sono mai riuniti il Consiglio nazionale e la direzione nazionale e la sua classe dirigente morde il freno, sente che gli vengono tolti spazi d’autonomia e anche dignità politica. Anche tra gli ex forzisti del Pdl il rilancio del brambillismo con i circoli dei promotori della libertà non è stato preso benissimo. Ecco allora che Bocchino si fa interprete di questi mal di pancia e li porta in dote al mulino finiano. «Generazione Italia, nasce per riportare la democrazia nel Pdl – dice Bocchino – ma anche per aggregare nel partito tutte le forze disponibili a sostenere la leadership di Fini. Anche se nessuno punta alla sostituzione di nessuno: siamo per l’armonia tra Fini e Berlusconi». Armonia è un termine che Bocchino non usa a caso: è parola che spesso evocava il suo mentore Pinuccio Tatarella che dell’armonia aveva fatto un metodo d’azione politica. Ad Alfredo Mantica sottosegretario agli esteri ed ex An, uomo di governo e di equilibrio, le giornate perugine dell’8 e 9 maggio non sembrano però all’insegna dell’armonia: «Non so se Pinuccio avrebbe condiviso un’iniziativa del genere, lanciata a due settimane dal voto delle regionali. Che nel Pdl siano necessari spazi di discussione è evidente come è evidentemente un errore andare al voto delle regionali dando sempre di più l’immagine d’un partito spaccato. La più grande scuola di un partito di maggioranza relativa è quella della Dc. Nel momento in cui il partito era impegnato elettoralmente le polemiche si sedavano. D’altra parte se la discussione la fai con 7 regioni vinte è un conto se hai portato a casa solo tre governatori diventa la resa dei conti». Tra i finiani c’è chi ripete quell’indiscrezione secondo prima dell’intervento di Fini che chiuderà i lavori il Cavaliere saluterà telefonicamente i 1200 autoconvocati di Perugia Ma insomma chi gli è vicino garantisce che Berlusconi registra Generazione Italia come l’ennesima azione di disturbo finiana.

Stavolta peraltro politicamente più solida visto che l’associazione a parte le idee cercherà di raccogliere le tessere in vista del futuro congresso Pdl non ancora convocato. E poi la sortita di Bocchino ri-


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«La nostra risposta al movimento della Brambilla»

«Vi spiego perché non è una nuova An»

Per Fabio Granata, la neonata associazione finiana servirà a conquistare la leadership nel Pdl di Francesco Capozza

ROMA. Nascerà il primo aprile «ma non sarà uno scherzo». Generazione Italia, l’iniziativa politica benedetta da Gianfranco Fini sarà gestita dal vicepresidente dei deputati Pdl Italo Bocchino e avrà per simbolo un fiocco tricolore che incrocia una “G” verde ed una “I”rossa, con in mezzo il colore bianco. Un modo per far politica autonomamente ma nel Pdl, «in attesa che il partito si organizzi meglio sul territorio», si spiega per allontanare il dubbio che stia nascendo una corrente finiana. Tuttavia ieri lo stesso Bocchino, intervistato da Enrico Mentana in diretta steaming su Corriere.it, ha candidamente affermato che il soggetto «nasce per riportare la democrazia nel Pdl, la sua missione sarà quella di aggregare nel partito tutte le forze disponibili a sostenere la leadership di Fini». Onorevole Fabio Granata, il suo collega Italo Bocchino ha annunciato l’imminente nascita di Generazione Italia, a suo dire con l’obiettivo di aggregare e non di disgregare. Possibile che dall’area più berlusconiana del partito la pensino allo stesso modo? Sarebbe un grave errore se si pensasse il contrario, come sarebbe erroneo pensare che stiamo lavorando per disgregare un partito che noi tutti e il presidente Fini per primo, vorremmo arrivasse al 40% e oltre. È vero che ci sono posizioni diverse, è vero anche che la leadership di domani è tutt’altro che decisa, ma non bisogna credere che all’interno del partito proliferino i Giuda perché così non è. Quello che sarebbe bene trovare, e su questo lavora il presidente Fini, è una sintesi a delle posizioni che per molti aspetti, come per esempio la cittadinanza, sono ancora diverse. Vittorio Feltri, direttore de Il Giornale, in un editoriale al vetriolo ha parlato apertamente di pretattica finiana per la conquista della leadership. Anzi, più precisamente ha lasciato intendere che dalla tattica saremo passati ai fatti concreti. Che ne pensa? Ripeto quanto già detto in diverse occasioni: non c’è nessuna tattica: noi lavoriamo per aggregare, non per disgregare al contrario di altri. In questo sono d’accordo con quanto affermato ieri dal collega Bocchino. Ma non è che con Generazione Italia rinasce Alleanza nazionale? Assolutamente no. Lo escludo nella manie-

Fini si dota di uno strumento politico-parlamentare che saltando il recinto dei colonnelli, gli consente di giocare direttamente la partita con l’attuale premier sponde chiaramente alla strategia finiana di costruire quello che il presidente della Camera chiama l’arcipelago: una manciata di isole autonome che disseminano il mare Pdl. Il secolo d’Italia e la fondazione Fare futuro sono le ali ideologiche, le armi di persuasione per la costruzione d’un’iodeologia finiana, Generazione Italia raccoglie le divisioni politiche vere e proprie. Un ventaglio d’iniziative che si schiude a fronte d’una relativa paralisi dell’area più berlusconiana del partito, dove non s’è visto il sorgere delle università liberali di cui tanto Berlusconi ha parlato, nè le scuole di formazione, né il rilancio di settimanali culturali che dovevano essere il volano della rinascita. La nuova formazione può contare su un nocciolo duro di 46 finiani tra cui Giulia Bongiorno, Carmelo Briguglio, Giuseppe Consolo, Fabio Granata, Amedeo Laboccetta, Donato Lamorte, Nino Lo Presti, Gennaro Malgieri, Antonio Mazzocchi, Angela Napoli, Gianfranco Paglia, Flavia Perina, Francesco Proietti Cosimi, Enzo Raisi, Andrea Ronchi, Mario Baldassarri, Filippo Berselli, Giovanni Collino, Cesare Cursi, Maria Ida Germontani, Giuseppe Valditara, Giuseppe Valentino e Pasquale Vie-

spoli. Alle critiche che arrivano dall’interno del Pdl – non solo quelle di Mantica ma anche quelle più radicali di chi parla di un gioco allo sfascio vero e proprio – i finiani replicano che anche l’iniziativa lanciata da Berlusconi dei promotori della libertà brambilleschi potrebbe essere letta nello stesso segno. «Generazione italia fa il pendant con i Promotori della libertà– dice Carmelo Briguglio – il suo intento è contribuire alla crescita del Pdl con una dinamica nuova. A chi ci critica per la tempistica rispondiamo che è lo stesso tempo che ha ispirato il lancio in piena campagna elettorale dei promotori della libertà. Sono convinto che entrambe le iniziative possano giovare al bilancio del Pdl». Tradotto dal diplomatichese: Generazione italia è la risposta di Fini, affidata a Bocchino, al neo brambillismo berlusconiano. Non è un’iniziativa volta alla scissione. Fini si dota di uno strumento politico parlamentare che saltando il vecchio recinto dei colonnelli, gli consente di giocare direttamente con l’attuale premier la partita a scacchi per il controllo del Pdl. È un atto di guerra – almeno nel Pdl – non è una mano tesa. Ma questo forse lo si era capito.

ra più categorica, anzi, lei mi dà l’occasione di mettere fine alla ridda di voci che ci danno in uscita dal Pdl. Crede davvero che dopo aver sciolto un partito con alle spalle oltre quarant’anni di esperienza politica, decidiamo di andarcene dopo appena un anno? È ridicolo e insensato. Noi come dirigenti e Fini come co-fondatore teniamo molto al Pdl e vorremo che rimanesse la prima forza politica del paese. Lei crede che dalle parti di Palazzo Grazioli pensino che un nuovo quotidiano on-line e una nuova fondazione palesemente vicina al presidente della Camera non siano fatte apposta per dar nuove bordate al premier? Ho letto che si dà per certa la nascita di un nuovo quotidiano d’area on-line e su questo vorrei precisare che non c’è ancora nulla di deciso. Personalmente ritengo inutile un’altra voce di questo tipo: c’è già il Secolo d’Italia che corrisponde da sempre alle nostra aspettative di comunicazione politica. Inoltre, se lei si riferisce a FareFuturo, preciso altresì che quella che nasce non sarà una fondazione di cui, francamente, non se ne sente il bisogno. Definirei la Giovane Italia più un movimento d’idee, oppure, se vogliamo, si può parlare di “corrente”, un termine antico ma che rende meglio il concetto. Quindi la risposta dell’area finiana ai promotori della libertà della Brambilla? A dire il vero, ancora devo capire bene che cosa sono questi “promotori della libertà” presentati dal presidente Berlusconi e dal ministro Brambilla. L’unica cosa che ho ben chiara, invece, è che lì sono raggruppati soggetti interni ed esterni al Pdl, mentre noi siamo tutti dei dirigenti di partito. Se vogliamo dirla tutta, quindi, credo che sia più legata al partito la nostra Giovane Italia piuttosto che i promotori della Brambilla. Insomma, che il dopo-Berlusconi sia iniziato da tempo lo dicono e scrivono apertamente in molti, questi sono i fatti che seguono le parole? Credo che spesso si corra troppo con le parole. Adesso il premier è Berlusconi e tale rimarrà fino alla fine di questa legislatura, ci rimane ancora molto da fare prima che si possa chiudere quest’esperienza. Terminata questa legislatura faremo tutti insieme un consuntivo e sempre insieme si deciderà sul futuro. Abbiamo idee differenti ad altri ma come sempre credo che sia possibile una razionale sintesi.

Abbiamo idee differenti rispetto ad altri: quando finirà la legislatura ci confronteremo e credo che riusciremo a trovare una sintesi


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Grandi manovre/2. La manifestazione di sabato scorso è stata l’ennesimo capitolo dell’ambiguità di fondo del centrosinistra

Un democratico Amleto In piazza con gli estremisti, al governo con i moderati: il leader del Pd continua a non scegliere la sua strategia per il futuro di Errico Novi

ROMA. Bisognerebbe tornare indietro al 26 gennaio. Al giorno delle primarie. È quella l’ora x del Partito democratico. È in quella serata convulsa in cui tra l’altro anche sul fronte opposto accaddero cose imprevedibili, come l’investitura a Rocco Palese, che inizia un nuovo percorso. Non si può dire una strada, casomai una rotta approssimativa. Che però seppure lentamente, seppure tra molte continue correzioni, sembra portare i democratici verso un approdo chiaro, il ritorno alla vecchia Unione.

Non può sfuggire che il recupero di questa ipotesi politica coincida con il momento di maggiore difficoltà di Silvio Berlusconi. Quello in cui il premier e il suo partito offrono i più ampi motivi di critica e di attacco. Il decreto salva-liste e adesso il caso delle conversazioni intercettate dalla Procura di Trani favoriscono il riaggregarsi di un centrosinistra a spiccata vocazione anti-berlusconiana. Piazza del Popolo e la sua folla multicolore sono l’espressione plastica della rinascita di questo arcobaleno simil-prodiano, che però è soprattutto nella testa e nella prospettiva dei vertici del Nazareno, più che nello sventolio di drappi viola, estemporaneo al pari dei girotondi. È solo a un angolo visuale più ristretto che si notano poi ulteriori differenze tra Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, improvvisamente tornato a sua volta primattore, grazie anche alla plateale rimpatriata con Nichi Vendola di domenica scorsa. Emblematico è il rancore con cui Sandro Bondi ha replicato ieri all’ex presidente del Consiglio: «D’Alema era temporaneamente privo di incarichi e pulpiti, ed è stato Berlusconi a sostenere la sua nomina a presidente del Copasir». A fornire lo spunto al coordinatore del Pdl è stata l’intervista a D’Alema pubblicata ieri dal Secolo XIX: «Il premier è il principale avvelenatore del cima politico», vi si legge. Ma è il ruolo che più in generale D’Alema svolge in questa fase nel suo partito a suscitare il tono risentito di Bondi, e il disappunto berlusconiano. È proprio lui, il leader che nella sua Puglia a gennaio avrebbe voluto avvicendare Vendola con Francesco Bocdcia, che lavora più degli altri adesso per un ritorno al vecchio centrisinistra, e per coagularlo attorno alla rinnovata energia dell’antiberlusconismo radicale.«Basta guardare i numeri», è ila riflessione svolta nei giorni scorsi da D’Alema con diversi dirigenti del Pd, «e ci accorgiamo che messe insieme le forze dell’opposizione raggiungono il 54 per cento. Perché mai non bisognerebbe provare a unire tutti contro il governo?». D’Alema se lo chiede con l’aria di chi non vede altre possibilità. Eppure era stato lui a investire tutto il peso della sua leadership nella battaglia, persa, delle primarie pugliesi.

Il premier attacca: «Questa inchiesta è palesemente illegale e grottesca»

Berlusconi a Trani «formalmente indagato» ROMA. È ufficiale: Silvio Berlusconi è “formalmente indagato” dalla Procura di Trani nell’inchiesta RaiAgcom. Ma il premier reagisce. «Non sono preoccupato ma scandalizzato dalle intercettazioni della procura di Trani - dichiara il premier in una intervista al Gr1 che andrà in onda oggi - Si tratta di un’iniziativa grottesca e a fini mediatici che non mi preoccupa affatto poiché sono intervenuto a destra e a manca contro i processi in tv e le mie sono posizioni non soltanto lecite ma doverose».

«Noi scendiamo raramente in piazza - prosegue Berlusconi - ma stavolta è doveroso farlo per difendere la nostra libertà e democrazia. C’è un gioco sempre più scoperto e sempre più pericoloso che vede alleati la sinistra, i suoi giornali, e i magistrati politicizzati di sinistra. Si sono prima inventati una tangentopoli che non c’era e non c’è. Hanno poi provato a schizzare del fango anche sul miracolo compiuto in Abruzzo, hanno cercato di estromettere le liste del Pdl in Lombardia e nel Lazio dando la colpa ai nostri delegati che invece non hanno nessuna responsabilità». È un Berlusconi a tutto campo, quello intervistato dal Gr1: «Questa sinistra è antitaliana. E il suo programma è fatto solo di tasse. Impartiremo una lezione di democrazia a questa

ammucchiata della sinistra, tenuta insieme dall’antiberlusconismo. Si tratta di un’amalgama terrificante che vede marciare a braccetto il campione del giustizialismo Di Pietro con Bersani, ormai diventato il campione del settarismo, e con la Bonino, campione di neogiustizialismo». E su D’Alema, secondo cui il premier contribuisce ad «avvelenare il clima»: «D’Alema non tiene vergogna, come si dice a Napoli... Le immagini della sinistra nella manifestazione di sabato, con i suoi slogan violenti e i manifesti contro di me sono la fotografia di questo clima avvelenato. Un clima che va avanti da mesi, da quando la sinistra ha armato le procure contro di noi».

A Berlusconi risponde anche il leader Udc, Pierferdinando Casini, secondo il quale le intercettazioni, i conflitti di potere, l’eterna lotta tra Berlusconi e i magistrati, «sono tutte questioni che non interessano agli italiani». Piuttosto, fa notare il leader centrista, gli italiani «vogliono vedere se in queste tredici regioni dove si voterà, la sanità tutela i malati o i partiti». «Il resto - conclude Casini è una fuga dalla realtà».

Ecco perché prevale nettamente la sensazione che siano stati singoli, specifici eventi locali a determinare la strategia del Pd. Bersani e D’Alema, seppure mossi da urgenze diverse, si sono dolcemente abbandonati alla corrente che li porta lontano dall’approdo moderato. Tutto avviene per caso, per la seconda forza politica italiana: ma una volta che il caso ha deciso, il nuovo obiettivo sembra perseguito con una certa determinazione. «Io penso che c’è una sinistra al di fuori del Partito democratico che pò diventarne parte costituente», ha detto tra l’altro D’Alema domenica sera a Bari, durante l’incontro pubblico con Vendola. «Se immagino il centrosinistra del futuro me lo immagino diverso», ha aggiunto, «perché un’alleanza di tanti frammenti necessariamente finisce per esaltare particolarismi di interesse fragili: quindi mi immagino una coalizione intorno a un grande partito», è la conclusione non proprio coerente con le premesse. Da una parte l’ex premier e azionista di maggioranza dei democratici afferma di temere la frammentazione, dall’altra pensa di includere quei frammenti in una coalizione.Tutto chiaro? Deve sembrare chiaro anche a Bersani. Anche se dal Nazareno raccontano di un segretario mosso da obiettivi un po’diversi rispetto a quelli del suo principale sponsor congressuale. «Pier Luigi naviga a vista e fa tesoro delle circostante positive in cui si è venuto a trovare». Certo, perché secondo la maggior parte dei sondaggi il gioco delle bandierine volge nettamente a suo favore: 9 regioni contro le 4 del centrodestra. «La principale preoccupazione di Bersani è scampare al destino di Walter Veltroni.Vuole evitare di essere progressivamente indebolito, fino all’annichilimento, da D’Alema. E l’unico modo che ha», è la considerazione proposta dall’interno del partito, «è vincere le elezioni. Rafforzarsi con i risultati. E così mettersi in salvo. Con la possibilità magari di essere lui, nel 2013, a candidarsi premier». Più che una strategia ampia, quella di Bersani è dunque una procedura d’emergenza. Pur di sfuggire alla caccia grossa Bersani è disposto anche a farsi carico delle controindicazioni di uno schema politico complicato come quello del centrosinistra ampio. Il vero paradosso del Pd è dunque nel fatto che D’Alema e Bersani si muovono in questo momento nella stessa direzione, ma per ragioni profondamentre diverse, per non dire confliggenti tra loro. Si tratta comunque di una inversione a Uche ha sbaragliato la concorrenza interna e concesso a Bersani di doversi difendere dalle insidie del solo D’Alema. Il quale resta comunque il vero protagonista di questo cambio di rotta nettissimo. Colpisce la determinazione con cui un dalemiano doc come Nicola Latorre si preoccupa di sgombrare il campo da ogni residua tensione con Vendola: «Non c’è


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AUGUSTO BARBERA

«Di Pietro? Il gemello del Cavaliere» «Il Pd deve aspettare: quando il premier lascerà, anche il suo antagonista finirà nell’ombra» di Francesco Capozza

ROMA. «Anacronistica». È questo

Bersani non sembra in grado di scegliere tra la mediazione con i moderati guidati da Pier Ferdinando Casini e la piazza di Antonio Di Pietro che estremizza lo scontro con Berlusconi. A destra, Augusto Barbera stata nessuna pace perché non c’è stata nessuna guerra», ha detto ieri il vicepresidente del gruppo democratico al Senato, «c’è stato tra loro un confronto politico, con momenti anche tesi, basato però su un comune denominatore: quale fosse la scelta migliore per vincere in Puglia». Latorre prosegue mostrando come la vicenda pugliese e il conseguente, più complessivo cambio di rotta che ha portato alla manifestazione di piazza del Popolo sia frutto di una fatale e incontrollabile successione di eventi: «Nichi è sempre stato convinto che fosse la sua candidatura l’arma vincente, la scelta condivisa di fare le primarie ha risolto la questione, ed ora come ha detto giustamente D’Alema, per Provvidenza divina si sono create in Puglia tutte le condizioni per stravincere». È dunque una volontà esterna e imperscrutabile a determinare le scelte del vertice del Pd. Tesi singolare eppure perfettamente aderente al vero.

il primo termine che viene in mente ad Augusto Barbera, professore ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università di Bologna, per descrivere «la piazza» della sinistra, ovvero la manifestazione che si è svolta sabato scorso a Piazza del Popolo a Roma e alla quale hanno partecipato numerosi leaders delle opposizioni, compresi il segretario democratico Pier Luigi Bersani e Antonio Di Pietro Anacronistica in che senso, professor Barbera? Semplicemente perché mi sembrava di rivedere l’Unione di prodiana memoria riunita attorno ad un palco in Piazza del Popolo. Da qualche parte avevo sentito dire che quella è stata un’esperienza fallimentare, evidentemente devo aver avuto delle allucinazioni. L’Unione: un «caravanserraglio» che Pier Ferdinando Casini non vuol sentire neppure citare. Eppure Bersani tiene in particolar modo a non farsi sfuggire il leader centrista. Una situazione un po’ strana, non trova? Potrei dire che lei stesso ha risposto per me. Sì, una situazione è davvero molto strana, se non bizzarra per dirla senza troppi giri di parole. Eppure è così: da un lato il segretario democratico Bersani strizza l’occhio a Casini, dall’altro è molto attento a non farsi sfuggire di Pietro. Se non è un’Unione rinnovata, mi dica un po’ lei di che stiamo parlando. Ma nell’Unione c’era pure la sinistra radicale, altro fumo negli occhi per l’Udc. Sabato non c’era Pier Ferdinando Casini, ma ho visto salire su quel palco Emma Bonino e Nichi Vendola, Pier Luigi Bersani e Antonio Di Pietro; oltre ad aver visto di-

verse bandiere con falce e martello e arcobaleni vari sventolare. Era una manifestazione della sinistra, ma non c’è da dimenticare che in diverse regioni l’Udc appoggia il candidato di quel medesimo «caravanserraglio», basti pensare alle Marche. Stiamo parlando di un Pd che predica bene e razzola male? Di un partito opportunista? No, non ho detto questo. Io credo, più che altro spero, che il Pd sia ancora quello a vocazione maggioritaria che si è presentato alle elezioni del 2008. Un grande partito riformista che non ha paura di andare da solo. È per questo che spero che nei progetti non ci sia mettere in piedi una coalizione con Casini candidato premier. Casini premier e Di Pietro ministro? Suvvia professore... Roba da fantapolitica, ma sinceramente non credo che una situazione del genere possa avverarsi. Né nell’immediato e neppure nel mediolungo termine. Perché Pier Ferdinando Casini ha sempre detto che in un’alleanza in un coalizione che annoveri anche l’Idv di Antonio Di Pietro non ci sarà mai posto per l’Udc? No, perché al momento credo che il centrosinistra di quel genere stampo Unione, per intenderci possa tornare a vincere solo dopo la fine dell’era Berlusconi e allora la forza sia in termini politici che numerici di Di Pietro sarà probabilmente molto ridimensionata. Che intende, scusi professore? La forza dell’Idv sta nell’essere l’unico partito fieramente antiberlusconiano. Senza il Cavaliere come farà? So per certo che di Pietro è un credente, non mi stupirei se tutte le sere facesse una preghierina affinché il Signore conservi a lungo Berlusconi.

Con la fine dell’era del premier anche l’Idv perderà ruolo e importanza. E allora il centrosinistra potrà davvero ripartire


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Dibattiti. L’editorialista, sul «Corriere», se la prende con chi guarda la passato: gli risponde uno dei protagonisti

Elogio della Prima Repubblica «Altro che nostalgia, c’era più libertà»: Martelli contro Panebianco di Gabriella Mecucci

ROMA. «È un peccato che un politologo del valore di Panebianco distolga il proprio impegno intellettuale dalla critica del presente per rinverdire la contestazione più totale della Prima Repubblica»: Claudio Martelli non nasconde il proprio disaccordo con l’editoriale del Corriere della Sera di ieri. Onorevole, una cosa però è vera: lo statalismo è una creatura della Prima Repubblica... Vorrei, innanzitutto, correggere l’analisi di Panebianco là dove divide la Prima Repubblica in due parti: la prima virtuosa e la seconda calamitosa. Se lo statalismo è un grave difetto, bisogna però riconoscere che è vissuto nella seconda fase, ma è nato nella prima. Credo che l’intervento dello Stato per un lungo periodo fosse inevitabile viste le condizioni in cui versava l’Italia del dopoguerra». Non pensa però che lo statalismo sia all’origine di molti mali? Mi permetta di ricordare che io sono stato nellla Prima Repubblica un riformatore piuttosto radicale. Proposi di fare la riforma elettorale, la riforma dei partiti e anche di realizzare alcune privatizzazioni. Purtroppo sono stato sempre stoppato. Non ho difficoltà quindi a riconoscere che un eccesso di statalismo ha determinato la tendenza alla spesa facile, la moltiplicazione dei fenomeni di corruzione, il pesante aumento del debito pubblico e tanti altri difetti. Ora, vorrei chiedere a Panebianco: la Seconda Repubblica ha corretto queste distorsioni? Pensa che li abbia aggravati? Quello che è successo è sotto gli occhi di tutti. Vogliamo parlare di debito pubblico? In questi ultimi quindici anni non solo non è diminuito ma il rapporto debito-Pil è seccamente peggiorato. Nella Prima Repubblica quell’enorme disavanzo si è accompagnato ad uno sviluppo economico molto consistente: sino a far diventare l’Italia, negli anni Ottanta, la quinta potenza industriale del mondo. Negli ultimi 15 anni la crescita ha proceduto a scartamento ridotto. E che dire della corruzione? È ormai vox populi che quella del passato era fi-

Omaggio alla «politica pedagogica» a 32 anni dalla strage di via Fani

Cosa ci manca di Aldo Moro di Pino Pisicchio segue dalla prima Dal punto di vista del pensiero, però, dal punto di vista della qualità dei ragionamenti, dell’innovazione politica, la distanza delle ere geologiche è a vantaggio di quella stagione. Quante volte ci siamo domandati in questi anni che cosa avrebbe fatto Aldo Moro. Cosa avrebbe fatto una personalità come la sua, così poco incline all’esibizione e al compiacimento degli istinti più bassi del corpo elettorale, nell’era volgare che ci tocca vivere, con la politica ridotta ad un reality permanente, nutrito di gossip, di offese personali, di disarmante ignoranza, di sbirciatine dal buco della serratura?

Qualche anno fa si era affermata una tendenza nelle discipline storiografiche a disegnare il possibile esito di un percorso diverso da quello che in realtà si era realizzato, tipo la geopolitica europea se Napoleone non avesse perso a Waterloo. Qualcosa più di un gioco intellettuale che, in realtà, valeva, appunto, come un esercizio intellettuale. Ciò che ha senso oggi, invece, ciò che va raccolto e rilanciato di quella stagione è il lavoro di un’intera generazione di uomini della politica, i costruttori della democrazia parlamentare italiana, che ci consegnarono un’Italia migliore di quella umiliata dal fascismo che loro avevano trovato. I nostri Padri difesero l’Italia e la possibilità di vivere in una democrazia moderna almeno in due grandi circostanze storiche. La prima fu la Resistenza, che riuscì a da-

re nobiltà e legittimazione democratica alla nostra classe dirigente, dopo la compromissione dei molti col fascismo. La seconda volta fu la resistenza al terrorismo degli anni ’70. Moro fu l’emblema di questa seconda resistenza, interpretando quasi plasticamente, con quell’immagine sofferente dei giorni della lunga prigionia, la forza “mite”(un ossimoro che si attaglia particolarmente al suo lessico) della democrazia costituzionale. Quella Costituzione che aveva impegnato il giovane professore di Maglie, a soli ventinove anni, in un dibattito a tutto campo - oltre trecento interventi densi e spesso risolutivi in Assemblea Costituente - tra i padri della Patria.

Ricordare Moro oggi, al di là del rito della memoria, significa allora mettere in faccia alla pallida politica di oggi la sua magnifica “inattualità”, il suo protagonismo all’interno di una generazione di giganti, di uomini che fecero grande e rispettato questo paese, disegnando regole del gioco della politica in cui la cultura, la passione e il senso di un destino collettivo rappresentavano la bussola. La differenza tra quella stagione e oggi? Moro, Calamandrei, Mortati hanno parlato di valore “pedagogico” della politica, di una politica, dunque, che deve insegnare la cittadinanza e la civiltà della partecipazione, indicando la strada alla gente. Oggi va di moda il marketing politico, secondo la formula del Ponzio Pilato: volete Gesù o Barabba? E se il sondaggio dice Barabba, state certi che Barabba sarà.

nalizzata in larga misura a finanziare i partiti, quella di oggi agli arricchimenti personali: è un uso della politica per finanziare se stessi. Sarò un uomo datato, ma continuo a pensare che la seconda è peggiore della prima, senza voler con questo assolvere il finanziamento illecito. Panebianco, sostiene che la volgarità che oggi regna in politica è “il lato oscuro”della maggiore libertà. È d’accordo? No. È difficile parlare di una maggiore libertà, quando un uomo solo concentra nelle sue mani un enorme quantità di potere politico, economico, mediatico. In democrazia il voto e il principio di maggioranza sono sacri. Ma prim’ancora di questi, viene lo spazio pubblico per la discussione. Credo sia impossibile per chiunque sostenere che in questi quindici anni lo spazio pubblico non si sia andato progressivamente riducendo. Quanto alla volgarità, questa è una categoria estetica e come tale molto importante nella società dell’immagine. Non cresce perchè si è più liberi, ma perchè si è involgarita la politica. Non vede nulla che oggi funzioni meglio rispetto a 15 anni fa? La politica estera le sembra migliore? Può essere giudicata positivamente una strategia che prevede di stare a “tappetino” davanti a Gheddafi, di onorare il dittatore biellorusso Lukashenko, e di essere avvinti in amorosi sensi con Putin? Vogliamo parlare della scuola? È forse migliorata? E i partiti, una volta distrutti, sono stati ricreati? Dove sono le nuove forze politiche? Panebianco accusa tutti coloro che rimpiangono la Prima Repubblica di nostalgia, che giudica un sentimento insano... È vero che gli psicoanalisti giudicano la nostalgia un fatto negativo per l’individuo. Occorre – dicono – vivere nel presente. Altra cosa è la valutazione storica della vitalità o meno di un periodo. Reagan e la Thatcher, che piacciono a Panebianco, sono stati considerati dei conservatori. Dei politici che hanno ripristinato i valori di un passato che consideravano migliori di quelli presenti.


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16 marzo 2010 • pagina 7

ROMA. «Alla luce delle ordinanze del Tar in relazione alla regolamentazione in materia di informazione e comunicazione politica in periodo elettorale, il Consiglio di Amministrazione della Rai, dopo un ampio dibattito, ha approvato a maggioranza la delibera con la quale ha dato mandato al Direttore Generale di acquisire al più presto dalla Commissione Parlamentare per l’Indirizzo Generale e la Vigilanza dei Servizi Radiotelevisivi le valutazioni di competenza, cui la Rai dovrà adeguarsi». Ci mette cinque righe il Cda della televisione pubblica a non decidere, in relazione allo stop ai talk show durante le elezioni, messo in discussione dalla sentenza del Tar che ha annullato l’ordinanza dell’Autorità Garante delle Comunicazioni soltanto per le tv private. E pensare che persino la stessa Agcom aveva scritto in mattinata al Consiglio invitandolo a riconsiderare la delibera.

La Rai aveva votato a maggioranza per lo stop dopo le decisioni della Commissione di Vigilanza della Rai, che aveva emanato un nuovo regolamento di par condicio nel periodo elettorale poi recepito alla talebana dalla tv pubblica, che aveva imposto lo stop a tutte le trasmissioni d’approfondimento. Lo stesso regolamento, finito sul tavolo dell’Agcom, si era tramutato in un’ordinanza poi spazzata via dal Tar. Ma le regole per la Rai rimangono. E il consiglio, a maggioranza (centrodestra unito, cinque a quattro nonostante il parere contrario del presidente), ripassa la palla alla Commissione di vigilanza, che adesso dovrà riunirsi per trovare una soluzione. Così, anche se questa arrivasse in tempi rapidi (per la politica), a quel punto sarà comunque passata buona parte del tempo che ci separa dal giorno delle

e senso pratico». Masi ha scritto alla Commissione per chiedere una decisione rapida.

Il vertice dell’azienda, a maggioranza, dice no a Santoro, Floris e Vespa

La Rai ha deciso: «teniamo il bavaglio» Malgrado la sentenza del Tar, il cda conferma lo stop elettorale dei talk show di Alessandro D’Amato elezioni regionali, e nel frattempo tutte le puntate dei talk show politici saranno saltate.

E infatti, all’uscita dal cda, il presidente della Rai, Paolo Garimberti, era amareggiato «per la divisione», evidente in seno al Consiglio, e «per la mancata ripresa dei talk show». Garimberti si era già detto favorevole a riprendere

le trasmissioni sospese e ritiene abbastanza frustrante che si sia ancora appesi su questa vicenda, con il tempo che non gioca a favore. Il presidente Rai auspicava che la lettera del presidente dell’Agcom, Corrado Calabrò, recapitata oggi, potesse sbloccare la situazione. Calabrò nella missiva informava di aver scritto anche alla Commissione Par-

lamentare di Vigilanza per le valutazioni del caso e ricordava alla Rai l’invito a riconsiderare la decisione sulla sospensione delle trasmissioni. Naturalmente, sottolineano le stesse fonti, il Presidente Rai si rimette come sempre alla decisione della maggioranza del Consiglio anche se auspicava «un segnale interno ed esterno di una maggiore reattività

Roberto Rao sul voto di viale Mazzini: «Ancora una volta, si decide di salvare il governo»

«Una scelta degna di Ponzio Pilato» di Massimo Fazzi

ROMA. La scelta del Cda della Rai «uccide l’ultima possibilità di discutere dei problemi reali del Paese. Prendiamone atto: siamo davanti a forze politiche che hanno paura di affrontare un discorso serio e gettano fumo negli occhi». È il netto giudizio di Roberto Rao, deputato dell’Unione di Centro, che a liberal commenta la scelta della televisione di Stato sulla ripresa dei talk show. Onorevole Rao, cosa pensa della decisione del Cda Rai? È chiaro che il Tar sospendeva una decisione dell’Agcom che si riferiva ad una scelta di equiparare il regolamento della Rai a quello delle televisioni private. Ma andando oltre questa considerazione, abbiamo perso una delle ultime occasioni per poter mettere mano a una modifica

di questo assurdo regolamento, che ci sta portando alle elezioni regionali senza che si sia parlato dei temi delle stesse. Non ci sono stati approfondimenti di alcun tipo su quelle vicende che ci sono state gettate, come fumo negli occhi, in queste ore: dalla presentazione delle liste alla questione delle intercettazioni. È stato un modo per non affrontare quei temi che avrebbero messo alle strette il governo. Continuare a rimpallarsi la responsabilità di questo mancato confronto fra Vigilanza e Cda Rai non fa altro che far scadere il tempo utile per modificare questa legge. Dobbiamo soltanto prendere atto, e condannare, una chiusura a riccio che a colpi di maggioranza determina il fatto che non si possa venire meno a una scelta (pilatesca o zelante, a scelta)

con un’unica causa: quella della paura di trattare altri temi, quelli importanti. Siamo e resteremo contrari a questo modo di fare. Prima del voto, che oramai è prossimo, abbiamo parlato di tutto tranne che di quelle cose che ci vengono chieste dai cittadini. Questa legge non piace a nessuno. A urne chiuse, come promesso, se ne riparlerà? Io non credo. Temo che l’argomento verrà di nuovo fuori a pochi mesi dalle prossime elezioni. Il governo, a colpi di fiducia e di maggioranza, farà passare una nuova legge che consente gli spot a pagamento e una proporzionalità a favore del governo, altro che par condicio. Ovviamente, siamo contrari e faremo di tutto per ostacolare questa ipotesi.

Nel frattempo la polemica politica è già scoppiata. Enzo Carra dell’UdC chiede la convocazione della Vigilanza in tempi rapidi, mentre Giovanna Melandri del Pd punta il dito sul danno economico che l’azienda sta subendo a causa delle decisioni del cda. Per Massimo Donadi, capogruppo IdV alla Camera, «il regime ha paura. Ha paura della verità e dell’informazione libera. L’unica risposta possibile per i gerarchi del fascismo mediatico è la censura. La decisione del Cda è scandalosa. Dovranno renderne conto non solo ai cittadini, ma anche alla Corte dei Conti per danno erariale»; mentre Daniele Capezzone del Pdl dice che «La decisione del Consiglio di amministrazione Rai è corretta sia nel metodo (nel riconoscere che, allo stato, un regolamento c’è, ed è quello, peraltro positivo, approvato dalla Commissione di vigilanza) sia nel merito. Da questo punto di vista, delle due l’una. O i conduttori si impegnavano a rispettare il regolamento della Vigilanza e quindi a garantire una effettiva parità di condizioni tra i soggetti in campo (cosa che non è avvenuta, visto che, Santoro in testa, questi signori rivendicavano il diritto a fare come gli pare), oppure l’Italia avrebbe dovuto subire delle corride televisive senza regole, fa-

E adesso la palla ripassa alla Vigilanza che dovrà dipanare il problema in modo definitivo. Ma ormai i tempi sono stretti ziose e di parte, affidate a troppi conduttori militanti». «Alla luce della lettera dell’Agcom, la Rai potrebbe essere sanzionata per non aver permesso un pubblico servizio», dice invece il segretario dell’Usigrai Carlo Verna, mentre per Pierluigi Bersani «è una cosa da pazzi in un paese moderno, occidentale, avanzato che si decida ad un certo punto di spegnere la luce. Questo mi pare assurdo. Il centrodestra della commissione di Vigilanza e del consiglio di amministrazione della Rai non vuole che si parli della situazione del paese e quindi troverà tutte le scuse per non farci vedere programmi di approfondimento. Programmi nei quali io non chiedo che ci siano i politici ma non accetto che non si possano esaminare i problemi del paese, con responsabilità, professionalità, equilibrio». Giovanni Floris, conduttore di Ballarò, annuncia invece il “Giro d’Italia”in quattro tappe con dibattiti su politica e informazione per sostituire le quattro puntate cancellate del suo programma.


mondo

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Ritratti. Ha personalizzato il partito, portandolo sul podio delle forze politiche francesi. E ora punta tutto sul secondo turno

Da Marianna a Marine Chi è (e perché vince) la donna che vuole “de-diabolizzare” il Fronte Nazionale di Maurizio Stefanini opo le regionali, è ormai l’astro nascente della politica francese. Sua madre Pierrette Lalanne, cui tra l’altro assomiglia in modo impressionante, dopo essersi separata da suo padre era arrivata a odiarlo a tal punto da posare nuda per Playboy nel luglio del 1987: apposta per vendicarsi di tutte «le umiliazioni pubbliche, le persecuzioni e le diffamazioni» sofferte nei 25 anni di matrimonio e nei tre anni di separazione immediatamente successivi. Lei, la 42enne Marine Le Pen, dopo essersi laureata nel 1990 e aver iniziato a lavorare da avvocato nel 1991 si è trovata più volte a difendere stranieri in posizione irregolare, benchè a quell’epoca fosse già presidente onorario del movimento giovanile del partito di suo padre. Candidata per la prima volta alla Camera 24enne in una circoscrizione di Parigi, prese l’11,1 per cento.

D

Consigliere regionale a trent’anni nel Nord-Passo di Calais, quasi in contemporanea alla presa della direzione del servizio giuridico del partito, nel 2000 va alla testa dell’associazione Generazione Le Pen, ponendosi un obiettivo preciso: “dediabolizzare” il Fronte Nazionale. Ma sulla scena francese non decollerà che per caso, in occasione della campagna

elettorale presidenziale che nel 2002 vede Jean-Marie Le Pen qualificarsi per il ballottaggio. Il 5 maggio, infatti, il direttore della comunicazione del Fronte Nazionale Alain Vizier si trovò impossibilitato a intervenire a una diretta tv, e lei lo dovette sostituire in tutta fretta all’ultimo momento. In compenso buca subito gli schermi, tant’è che quando nel suo romanzo ucronico Les Cent jours : 5 mai - 4 août 2002 Guy Konopnicki immagina Le Pen come vincitore di quel voto, mette lei come ministro della Giustizia. Già un mese dopo, al primo turno delle politiche, Marine Le Pen ottiene il 24,20 per cento dei voti nella circoscrizione di Lens: qualificandosi per un ballottaggio in cui prenderà il 32,2, contro il socialista Jean-Claude Bois. Ma la sua strategia della “dediabolizzazione” inizia a delinearsi in particolare con l’intervista tv in cui il 30 aprile 2003 afferma che «bisogna far emergere un islam francese». E anche sull’interruzione volontaria della gravidanza assume una linea più a sinistra di quella del Fronte Nazionale, pur restando favorevole invece alla pena di morte. Forse per questa linea troppo liberal al XII congresso del Fronte Nazionale di Nizza, nell’aprile del 2003, Marine non arriva che 34esima nel voto per il Comitato Centrale. Ma è pur sempre la

cocca di papà, che il giorno dopo la nomina vice-presidente del partito.

Nel 2004 diventa eurodeputata, segnalandosi per la sua solerzia: presente al 58 per cento delle sedute nel solitamente semi-deserto Parlamento di Strasburgo, vota peraltro il 42 per cento delle volte in piena sintonia con i deputati francesi. Non è in realtà chiaro se più a conferma della sua strategia di “dediabolizzazione”, o non piuttosto del fatto che al Parlamento Europeo la solidarietà nazionale è spesso più importante di quella ideologica. Comunque, lei si trova in prima fila anche nella campagna che porta alla vittoria del “no” al referendum

strategica della stessa campagna, è lei a presentare un manifesto in cui compare una giovane dagli inequivocabili tratti maghrebini: una dei sei francesi con un pollice verso, e che poi appaiono tutti assieme con Le Pen nel settimo manifesto con lo slogan “Con Le Pen, tutti as-

Consigliere regionale a 30 anni, quasi in contemporanea alla conquista della direzione del servizio giuridico del partito, a metà del 2000 scala i vertici dell’associazione “Generazione Le Pen” sul progetto di Trattato per una Costituzione Europea, nel 2005. Marie-France Storbois e Jacqus Bompard, che denunciano una sua eccessiva influenza sul partito, si ritrovano esclusi dall’Ufficio Politico. Ormai è inarrestabile. Il 20 settembre del 2006 è tra gli autori di quel “Discorso di Valmy” che lancia la nuova campagna di Le Pen. Direttrice

sieme, prendiamo la nostra Francia”. La vecchia guardia del partito è in tumulto, ma lei punta i piedi. «Su questo manifesto abbiamo voluto evocare la nazionalità, l’assimilazione, l’acesa sociale, la laicità, che sono campi in cui la destra e la sinistra hanno assolutamente fallito». Il fallimento evocato dai pollici versi. In effetti poi il pa-

Il presidente francese Nicolas Sarkozy, insieme alla seconda moglie Carla Bruni, si reca al seggio per votare. In alto, Jean Marie Le Pen con la figlia Marine, che ha animato la riscossa del Fronte attestandosi al quarto posto nelle elezioni francesi. Nella pagina a fianco, il professor Slama

dre si ferma al 10,44 per cento, non riuscendo a ripetere l’exploit della qualificazione per il ballottaggio. Sembrano dunque confermate le critiche nel partito, di essersi allontanata dalle idee dell’elettorato. Ma alle politiche, dove si candida alla circoscrizione di HéninBeaumont nel Nord-Passo di Calais, è poi lei l’unica del Fronte Nazionale a qualificarsi per il secondo turno, e al ballottaggio del 17 giugno del 2007 rirsce poi a spuntare anche un discreto 41 per cento, contro il socialista Albert Facon. A convergere su di lei non solo una parte del centro-destra ma anche i militanti delusi da Facon.

Ciò cancella ogni perplessità. Nel novembre del 2007 al XIII Congresso del Fronte Nazionale a Bordeaux arriva al secondo posto tra i candidati al Comitato Centrale, col 75,76 per cento di voti a favore. Il padre la nomina duinque vice-presidente esecutivo. Significa occuparsi degli “affari interni”, tra cui la formazione dei quadri e dei militanti, la comunicazione interna ed esterna e la propaganda. Ormai, dice apertamente che sarà lei l’erede del padre, quando al prossimo Congresso del Fronte Nazionale lui lascerà la presidenza. Nel frattempo, è lei ad apparre sempre più spesso al posto del padre: sia nella stampa francofona che su Internet, in particolare su DailyMotion e YouTube. Alle municipali del 2008 si ripresenta a HéninBeaumont alla testa di una lista che prende il 28,83 per cento. Nel Nord-Passo di Calais insiste a presentarsi anche alle Europee del 2009, malgrado il suo seggio uscente lo abbia ottenuto nell’Île-de-France, e malgrado la rivolta del deputato europeo uscente di quella circoscrizione, che finisce cacciato dal


mondo

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L’opinione controcorrente dell’editorialista Alain Gèrard Slama

«No, l’Ump non ha perso E Le Pen non ha vinto» «Quello all’estrema destra è un voto di protesta contro il presidente, non un apprezzamento» di Valerio Venturi

MILANO. Sarkozy non è più à la page? Alle

Fronte. È riconfermata, e col 10,18 per cento ottiene di nuovo il miglior risultato di tutto il partito. Dopo di che, col sindaco che l’aveva battuta finito in galera per corruzione il 28 giugno del 2009 Marine si ripresenta alle munucipali di HéninBeaumont è arriva con la sua lista prima, al 39,34 per cento. Al secondo turno la sopunta un candidato di sinistra sostenuto da tutti i partiti “repubblicani”, ma comunque il suo 47,62% è un risultato storico. Specie se si considera che dopo il trionfo di Sarkozy il Fronte Nazionale è considerato in questo momento pressochè moribondo. In effetti, per soli 265 voti non è diventata sindaco. Di nuovo candidata nel Nord-Passo di Calais alle regiionali, Le Monde la definisce in queste regionali «il software del principale partito di estrema destra».

Sfruttando la campagna che Sarkozy ha lanciato sull’identità nazionale, guardando al referendum svizzero contro i minareti, conducendo a febbraio una campagna contro la catena di fast food Quick che a Riubaiz nel Nord si era messa a proporre unicamente panini halal (islamicamente puri), ha riqualificato la vecchia campagna anti-immigrazione del Fronte, ripresentandola in chiave anti-islamica, e sottraendola però pure alla vecchia retorica ultra-cattolica. Piuttosto, tiene a presentarsi come “uno degli ultimi difensori della laicità in Francia”. Secondo gli analisti, ci sarebbe sotto una precisa analisi su un nuovo volto del Fronte Nazionale, in cui militanti giovani e talvolta molto giovani prendono ormai il sopravvento su quadri più anziani. In marcato contrasto, appunto, con il padre, che a 82 anni come capolista in Provenza-

Alpi-Costa Azzurra si è trovato a fare discorsi suoi “fellagha” della Guerra d’Algeri che ormai significano qualcosa solo per qualche suo coetaneo. Ma tutti dicono che questa è stata presumibilmente la sua ultima campagna elettorale.

Come erede designata, Marine Le Pen ha cercato anche di superare la vecchia ossessione monotematica del Fronte Nazionale su immigrazione e ordine pubblico, per allargarsi al terreno economico e sociale: «Le questioni precise del quotidiano dei francesi come l’inserzione dei disoccupati, la delocalizzazione e la crisi dell’agricoltura», ha spiegato il segretario generale del Fronte Nazionale Luois Aliot, che a Marine è considerato molto vicino. Insomma, per dirla con Marine, «sta per aprirsi un nuovo capitolo della storia del Fronte. Una maturità naturale per un partito politico ancora giovane», che potrebbe ora addirittura cambiare il proprio nome. Questo perché la ragazza non ha «il gusto dello sfozo inutile». Adesso, dopo questo primo turno, «il Fronte è di ritorno». Quarta forza politica con l’11,6 per cento, contro il 29,5 dei socialisti, il 26,3 dell’Ump di Sarkozy e il 12,5 di Europe Ecologie, rimarrà al secondo turno in ben 12 regioni. Malgrado il tono invecchiato dei suoi discorsi, Jean-Marie Le Pen ha comunque ottenuto per la sua lista il risultato migliore: 20,29 per cento. Ma Marine è seconda, col 18,31. «Le Pen è una buona marca», hanno spiegato i due. Secondo Bruno Larebiére, redattore capo del settimanale di estrema destra Minute: «L’etichetta Fn è morta, ma Marine Le Pen è riuscita a trasformare il marchio Le Pen in marchio Marine».

elezioni regionali francesi, il Partito Socialista fa incetta di preferenze, l’Ump del Presidente è in flessione, mentre crescono gli astensionisti e i partiti radicali a destra e gli ecologisti a sinistra. Che sta succedendo? Lo chiediamo al politologo francese Alain Gèrard Slama, firma autorevole e autore di testi narrativi e di saggistica, in Italia pubblicati da “Spirali”. Nato il 25 febbraio 1942, Slama è professore di Storia delle idee politiche e maestro di conferenze in diritto e letteratura all’IEP di Parigi, nonché editorialista di Le Figaro, Le Point e France-Culture; membro del consiglio scientifico e di valutazione della Fondation pour l’innovation politique e del consiglio d’orientamento dell’Institut Montaigne, lavora da sempre per difendere i valori costitutivi della democrazia e delle istituzioni francesi. Secondo Slama, il risultato delle consultazioni regionali transalpine è da relativizzare. «Di fatto - afferma - non penso che questo sia un risultato grave per Sarkozy, perchè quelle che si sono tenute sono elezioni locali, le prime regionali. Certamente i miei connazionali non le hanno considerate importanti. Soprattutto gli elettori di destra, che non hanno pensato di battersi per il Presidente, perchè credevano che non ne valesse la pena e anche perchè hanno sottostimato il dinamismo della sinistra, che si è ripresa aprendosi al pluralismo. Vero è che a sinistra si va a vedere un leggero miglioramento; ma è presto per dire che l’Ump sia fuori gioco. Aspettiamo». Come spiega la crescita di Le Pen e degli ecologisti? Un voto di protesta? L’estrema sinistra ha avuto risultati mediocri, quindi il voto di protesta è soprattutto a destra, con Le Pen.Va preso sul serio il dato, ma è un errore credere che questo possa essere un elemento fortemente significativo. Non penso infatti che il movimento di Le Pen crescerà: ci sarà una flessione contenuta verso l’alto, che testimonia più che l’amore per l’estremismo, un disamore per la politica. È più importante infatti parlare del sentimento diffuso tra molte persone - che pensano che le promesse politiche non siano veritiere perchè non ci sono soldi, perchè c’è la Ue e la globalizzazione - che dei risultati delle regionali in Francia. Che dice rispetto al risultato degli ecologisti, in crescita? Il partito ecologista è ora istituzionalizzato. Cade l’estrema sinistra ma sale la sinistra ecologista, non liberale nè socialdemocratica

in economia. Vogliono il cambiamento della società, delle pratiche di consumo e di produzione. Sono cose che disse a suo tempo la sinistra, ma ora non ci sono più i trotskisti e per questo il Ps, ora, se ha problemi li ha con gli ecologisti; così come la destra li ha con Le Pen. Comunque, conta quanto detto prima: si sta diffondendo indifferenza per la politica: è un fatto grave per le libertà economiche e per quelle pubbliche. Questa non è quindi una debàcle per Sarkozy, ma una debàcle per la vita politica. Non si può affermare infatti che ci sia un populismo nemico degli uomini poli-

È paradossale: siamo in un’epoca religiosa, in cui si cerca sempre di più lo spirituale, ma si è sempre più agnostici in campo politico, come dimostra l’astensione. È la società della in-differenza

tici; ma piuttosto che molte persone, ora, abbiano perso la fede nella democrazia. Come è potuto accadere? In Francia questo è successo perchè lo Stato sembra meno efficace e meno presente rispetto a prima. Crede che certe tendenze riguardino anche altri Paesi della Ue? Questa situazione non riguarda solo la Francia.Tutti sanno che, adesso, le decisioni non si prendono più a Roma, Londra, Parigi... Ma se ovunque si arriva a proteggere un certo modello di società, la cosa che colpisce è che questo modello di società, in Francia, ora è diventato più fragile. Poiché noi siamo, veramente, il solo paese d’Europa dove c’è il suicidio dei raffronti internazionali; e poi siamo colpiti dalle conseguenze del declassamento del centro di decisione. Si avverte il fatto che la gente non si sente più al centro della vita politica - e questo non è neanche vero. È paradossale: siamo in un’epoca religiosa, in cui si cerca sempre di più lo spirituale, ma si è sempre più agnostici in campo politico. È la società della in-differenza.


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speciale elezioni

I candidati del Centro/3 I progetti e le speranze di Antonio De Poli, che l’Udc ha schierato alla conquista del Veneto

Un baluardo contro la Lega «Per rispondere al falso federalismo del Carroccio l’unica strada è quella di introdurre anche in questa Regione lo Statuto speciale» di Franco Insardà

ROMA. «Sarà anche una provocazione, ma ritengo valida la proposta di far diventare il Veneto una regione a statuto speciale, come il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia. È la risposta diretta a questo falso federalismo proposto dalla Lega, che rinvia, forse fra sette anni, l’applicazione dei decreti attuativi. Si tratta di un federalismo che ha dato in un anno centinaia di milioni di euro in meno al Veneto». Antonio De Poli, candidato governatore dell’Udc alla Regione, non nasconde la sua rabbia per le politiche del Carroccio. Onorevole De Poli, il suo slogan è chiaro: “Slega il Veneto”. Un augurio o una certezza? È un slogan che guarda in avanti a un Veneto proiettato verso il futuro, che, al di là del proprio localismo, possa continuare a mantenere gli standard che ha raggiunto in questi anni, aprendosi ancora di più all’Italia, all’Europa e al mondo. Siamo una delle regioni che

esporta di più, allo stesso tempo dobbiamo anche avere la solidarietà e l’attenzione per i più deboli che, da sempre fanno parte del nostro Dna. Diciamo chiaramente: basta annunci, costruiamo certezze. Quali sono queste certezze? Quelle che appartengono alla nostra cultura e a quella dei nostri padri, basate sul confronto democratico e sulla solidarietà. Concetti che sembrano non interessare soprattutto al candidato della Lega, che non dimostra alcuna volontà a costruire un Veneto che mantenga la storia e la tradizione del territorio. Una regione che ha sempre avuto uno dei suoi punti di forza nelle politiche sociali e nel volontariato, uno dei più attivi e numerosi d’Italia. Ha parlato anche di mancanza di democrazia. I nostri padri hanno combattuto per difendere la libertà, mentre il candidato leghista rifiuta qualsiasi confronto democratico e dichiara di voler stravincere. Uno dei cavalli di battaglia leghisti è il federalismo, provvedimento su quale l’Udc ha votato contro. I veneti

Da Roma un’idea per le tariffe dei servizi

Quoziente familiare amisura di territorio ROMA. Può essere una piccola rivoluzione. Anche rispetto all’idea di decentramento fiscale: visto che il governo non riesce a introdurre alcuna effettiva riforma delle tasse, al di là della propaganda federalista, l’Udc prova a passare per i territori con un’originale ipotesi di quoziente familiare. L’ha elaborata al Comune di Roma il consigliere centrista Alessandro Onorato e Via dei Due macelli l’ha affidata «a tutti i nostri rappresentanti negli enti locali», come ha spiegato ieri Lorenzo Cesa in conferenza stampa, «secondo lo schema enunciato in un documento della nostra responsabile per le Politiche familiari Luisa Santolini». Anche in Veneto dunque l’Unione di centro metterà alla prova le altre forze, in particolare Lega e Pdl, sull’aiuto alle famiglie. Che secondo il “Quoziente Roma” – messo a punto da Onorato sulla scorta di modelli stranieri come quello francese e di un caso esemplare sperimentato al comune di Parma – si realizza attraverso la ridefinizione delle tariffe per servizi sociali come asili nido, scuolabus, refezione scolastica. Anziché tenere conto del solo indice Isee, le tariffe vengono regolate anche in base al numero di figli sotto i 24 anni e di anziani sopra i 65 presenti nel nucleo familiare. «Nel calcolo c’è anche un fattore premiale per le donne che lavorano, in modo da superare la principale obiezione al quoziente», spiega Onorato. L’idea base verrà trasferita anche nel programma della Polverini e in tut(e.n.) te le altre regioni.

comprendono questa vostra posizione? Siamo convinti, e i fatti lo dimostrano, che questo federalismo non ha portato vantaggi. ha tolto risorse ai nostri comuni, ai pensionati e ai lavoratori. Il nostro voto contrario era consapevole dei danni che questa riforma avrebbe creato. Purtroppo la propaganda leghista ha confuso l’idee, soprattutto al Nord, delle persone che sono ancora convinte della bontà del federalismo. Qualcuno comincia a rendersi conto che la realtà è diversa, speriamo prima del voto delle Regionali. Il suo non è un compito facile. In Veneto ci sono tre corazzate elettorali: la Lega che punta a essere il primo partito, il Pdl che comunque ha un suo seguito elettorale e il Pd con il suo radicamento storico. Se a questo aggiungiamo un candidato presidente che è sopra il 60 per cento di consensi il quadro è abbastanza chiaro. E l’Udc? È un motoscafo veloce che cerca di fare la sua parte tra queste tre corazzate. Lei ha denunciato il pericolo che, dopo il voto, il Veneto invece di essere governato sarà comandato. Il

Bisogna avere grande attenzione alla famiglia che finora ha svolto il ruolo di ammortizzatore sociale. Occorrono interventi mirati per sostenerla

suo obiettivo, quindi, è di scongiurare questa evenienza? La sensazione che ho è molto chiara: la Lega vuole adottare regole di comando e non di governo della Regione. Quando si dichiara di voler gestire il Consiglio regionale con le mozioni di fiducia significa che si vogliono portare avanti soltanto le proprie idee e programmi. Oggi le conseguenze di questo atteggiamento le stanno pagando gli alleati del Pdl, domani i guai saranno per tutti i veneti. A proposito del rapporto tra Pdl e Lega, ha parlato di alleanza già morta. Perché? È nei fatti. La campagna elettorale del candidato del Carroccio è soltanto puntata sul suo partito, con l’obiettivo evidente di allargare la forchetta con il Pdl. Questo, chiaramente, rappresenta la “morte politica” di questa alleanza, che non è più paritaria, ma diventa sempre più egemonica a favore della Lega, che significherà il controllo totale dell’assetto regionale.


speciale elezioni VENETO

In Veneto la sfida è tra il leghista Luca Zaia e il candidato del centrosinistra Giuseppe Bortolussi. Terzo incomodo è il centrista Antonio De Poli. Outsider David Borrelli, Paolo Caratossidis, Gianluca Panto e Silvano Polo

Sono sette i candidati in corsa per succedere al governatore Giancarlo Galan

Il ritorno di Zaia e la sfida di Bortolussi di Francesco De Felice

ROMA Per la sua candidatura il Pdl ha rischiato una scissione. Infatti il governatore uscente, Giancarlo Galan, ha dovuto cedere il posto al legista Luca Zaia, non senza qualche malumore. Alla fine è dovuto intervenire Silvio Berlusconi che, rassicurato Galan con un futuro incarico ministeriale, ha dato il via libera al candidato di Bossi. Il Carroccio, così, ha conquistato una tessera importante nello scacchiere dell’Italia settentrionale e spera di riuscire a portare a casa l’accoppiata Luca Zaia in Veneto e Roberto Cota in Piemonte. La candidatura di Zaia è sostenuta, oltre che dalla Lega Nord, dal Popolo della Libertà e da una terza lista formata da Alleanza di Centro e Democrazia Cristiana. L’attuale ministro dell’Agricoltura ritorna a occuparsi del Veneto, dove dal 2005 al 2008 è stato vicepresidente della giunta regionale. Certo le sue politiche agricole hanno sollevato non poche perplessità: una su tutte la gestione delle quote latte. Quasi un anno fa, infatti, quasi 10mila agricoltori, con tanto di trattori, manifestarono il loro dissenso contro il decreto voluto dal ministro Zaia, in quanto si trattava di un provvedimento che «puniva i produttori onesti e premiava i disonesti». L’accusa a Zaia era quella di fare gli interessi di un migliaio di allevatori vicini alla Lega, su oltre 40mila, che negli ultimi 20 anni non hanno rispettato la legge sulle «quote latte» aumentando la produzione fin oltre il 100 per cento. Giuseppe Bortolussi, direttore dal 1980 della Cgia di Mestre, guiderà la coalizione di centrosinistra. Bortolussi che è alla guida della più importante associazione sindacale di lavoratori autonomi di seconda generazione e di partite Iva del NordEst, ha un suo peso importante politico soprattutto in Veneto. Famosa la battaglia nazionale del quale è stato promotore contro la minimum tax, che si concluse con l’abolizione dell’imposta per tutti i lavoratori auto-

nomi. La sua organizzazione, che dirige dal 1980, è da sempre molto attenta, con dati e documenti statistici, alle dinamiche economiche e sociali del Paese. Nel 1996 è stato per un breve periodo assessore al Commercio, Turismo e Sport, del comune di Venezia nella seconda giunta guidata da Massimo Cacciari. Esperienza che sta ripetendo da maggio 2005, come assessore alle Attività produttive. Nel 1998 ha fondato il Club Impresa srl (società che dà servizi ai lavoratori autonomi di seconda generazione e alle nuove professioni) e Veneform srl, un ente di formazione tecnica e imprenditoriale. Ha fondato e dirige anche due riviste quadrimestrali “Quaderni di ricerca sull’artigianato”, nata nel 1989, e “Veneto Economia & Società”, nata nel 1999. Ha assunto posizioni in contrasto con l’ex ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, sull’Irap, la Dual Income Tax, e gli studi di settore. Giuseppe Bortolussi è sostenuto dal Partito democratico, dall’Italia dei Valori, Lista Idea, Federazione della Sinistra e Sinistra ecologia e libertà.

A far sì che questa sfida non si riduca a una corsa a due tra Pdl-Lega e Pd c’è innanzitutto il candidato dell’Udc, Antonio De Poli. Di conseguenza sarà più difficile per gli outsider - che non sono pochi - recuperare i voti necessari per arrivare in Consiglio. Parliamo di David Borrelli, candidato con il Movimento 5 stelle che fa riferimento a Beppe Grillo, Paolo Caratossidis di Forza Nuova, Gianluca Panto del Partito Nasional veneto e Silvano Polo di Veneti Indipendensa.

Anche in questa presa di distanza dalla Lega l’Udc è stato lungimirante. Alla luce di quello che sta succedendo sia a livello locale sia a livello nazionale ritengo che l’Udc sia la vera alternativa e il vero argine per questa avanzata populista e per molti aspetti xenofoba e razzista della Lega. E i rapporti con il centrosinistra? Purtroppo, e sottolineo purtroppo, sono in confusione. Senza idee chiare su quella che è la loro azione politica per il Veneto. Oggi la vera e unica forza in grado di confrontarsi con la Lega, proponendo soluzioni valide, siamo noi dell’Udc. Tutto questo mentre si assiste nella sua zona ai suicidi di imprenditori in crisi. Il nostro tessuto economico è basato sull’impresa-famiglia, costruita con tanti sacrifici. Per queste persone la crisi ha colpito non soltanto l’impresa, come accade per le grandi aziende, ma anche la famiglia. A queste persone è crollato improvvisamente tutto e certe reazioni sono, in qualche modo, comprensibili. Insomma il mito del Nord-Est ricco è finito? La crisi del 2010 ha assestato un colpo durissimo a questa economia e oggi la vera emergenza è proprio qui al Nord, dove la piccola impresa è in grande difficoltà. Chi, a livello centrale, non si rende conto della situazione sta commettendo un grave errore. Basta ricordare che soltanto in Veneto, nel 2009 e nei primi del 2010, si è registrato un incremento esponenziale, con 79mila cassaintegrati e 33mila licenziati. Questi sono numeri devastanti ed è questa la vera emergenza per la quale occorre fare un piano nazionale di intervento strategico sia per le

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Anche per l’agricoltura non c’è da essere allegri. Siamo ultimi in Europa e senza una politica e ora il ministro Zaia si propone di fare il governatore al grido di “Prima il Veneto”. Il pericolo è che fra qualche anno la nostra regione, come l’agricoltura italiana, invece che prima, sarà ultima in Europa. Oltre al lavoro l’Udc punta al sostegno per le famiglie. Che cosa è stato fatto e che cosa bisogna fare nella regione? Le politiche sociali sono molte attive in Veneto, anche perché negli ultimi dieci anni sono state governate proprio dall’Udc che era in maggioranza con la delega specifica. Oggi bisogna inserire il quoziente familiare regionale per dare la possibilità alle famiglie che hanno più figli di avere agevolazioni sul costo delle tariffe e dei servizi. Ma la nostra attenzione deve essere rivolta anche agli anziani. Come? Dovremo interessarci sia ai nuclei con più figli sia sia a quelli che ci hanno dato la vita, cioè i nostri padri e i nostri nonni che hanno bisogno di assistenza. Il concetto di quoziente familiare deve essere inteso in questo senso: da figli a figli. La famiglia finora ha svolto una funzione di ammortizzatore sociale, ma quanto potrà reggere senza interventi mirati? Lei si è sempre interessato di terzo settore, ritiene che nella regione le associazioni siano valorizzate? La mia legge regionale sul mondo del volontariato e della cooperazione, approvata in Veneto nel 2006, è ormai diventata un modello nazionale di riferimento. Adesso va implementata, incentivata, coordinata e aiutata. La sanità è una delle note dolenti dei bilanci regionali. Il Veneto l’anno scorso ha speso più di otto miliardi: troppi per i servizi offerti? La sanità regionale è considerata una delle migliori d’Italia, oggi però bisogna andare oltre e organizzare il sistema sanitario.

Quando si dichiara di voler gestire il Consiglio regionale con le mozioni di fiducia significa che si vogliono portare avanti soltanto le proprie idee. Oggi sta pagando il Pdl, domani i guai saranno per tutti i veneti

famiglie sia per le piccole imprese artigiane e agricole. Proponete delle misure regionali da affiancare a quelle nazionali? Al primo punto del programma c’è proprio il lavoro. Questo significa che, se saremo noi al governo della Regione, l’intervento prioritario deve proprio riguardare proprio lavoratori e imprese. E se sarete all’opposizione? Su questi temi saremo inflessibili e determinati a difendere i più deboli anche dai banchi dell’opposizione. E se chi sarà al governo porterà avanti queste istanze saremo pronti a collaborare. Sono valori che riguardano la vita delle persone, a prescindere dalle appartenenze.

In che modo? La scommessa è quella di offrire un sistema unitario dei servizi alla persona, il che significa: sanità e integrazione socio-sanitaria. Gli enti locali, comuni in testa, devono cioè entrare nella gestione delle aziende sanitarie che vanno trasformate in socio-sanitarie. Ovviamente gli amministratori dovranno rispondere in prima persona, in caso di cattiva gestione. Un altro dei temi che divide e mette in difficoltà i candidati è il nucleare: qual è la sua posizione? Zaia tace perché sa che è già tutto deciso dal governo. Parlerà quando potrà farlo senza perdere voti, io dico molto chiaramente che se sarò governatore mi opporrò con tutte le forze a una centrale nucleare in Veneto. Che cosa la preoccupa di più dei programmi degli avversari? L’assenza di politiche sociali adeguate, di aiuto alle famiglie e ai lavoratori, così come quelle di sostegno al mondo del volontariato e della solidarietà.


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L’obiettivo era quello di pensare a una macchina per tutti che, utilizzando il motore della 126, avesse una e, in un ipotetico gioco della torre, si dovessero limitare a tre le vetture più rappresentative sia della motorizzazione di massa in Italia sia delle fortune industriali della Fiat, la scelta non lascerebbe dubbio alcuno. Nell’indicare, in ordine cronologico, queste grandi utilitarie: la Topolino del 1936 e la 500 del 1957, seguite dalla Panda nel 1980. Vetture, ognuna delle tre, rimaste in produzione per circa venti anni e distinte dalla particolarità di essere state frutto, più che di una progettazione di gruppo, della genialità di singole persone. Che, per singolare coincidenza, lavorarono su indicazioni di larga massima fornite dai vertici torinesi. Non era ancora, infatti, la primavera del 1933 quando, ad un allora ventottenne ingegnere meccanico, venne chiesto di progettare una vera utilitaria popolare, capace di ampliare i volumi produttivi del Lingotto con una vettura che costasse la metà della già risparmiosa “508”; presentata nell’aprile 1932 al Salone dell’Automobile, allora tenuto a Milano, e subito soprannominata “Balilla”. Il compito, affidato a Dante Giacosa, prese corpo con la prima uscita su strada, nell’ottobre 1934, di una vettura sospinta da un piccolo motore di mezzo litro di cilindrata, capace di oltre ottanta chilometri all’ora e con modesti consumi di benzina.

S

Risultati che ne deliberarono la produzione come «la più piccola automobile del mondo costruita in grande serie», per il lancio del giugno 1936 con il nome ufficiale di “500”, presto cambiato in “Topolino”e dopo che una rivista inglese aveva usato l’appellativo “Little Mouse” per descrivere il frontale della nuova utilitaria Fiat, caratterizzato dai grandi fari a sbalzo sui parafanghi. Salutata da un immediato successo, la Topolino divenne così il modello Fiat di maggior tiratura e con successive versioni, accompagnate nel 1948 dalla “Giardiniera Belvedere” quale piccola familiare, rimaste in produzione sino al 1955. Intanto, la sua sostituzione veniva affrontata sulla scorta delle indicazioni fornite da Vittorio Valletta – all’epoca alla guida del Lingotto – per un modello che, sulla falsariga a suo tempo seguita nel passaggio dalla Balilla alla Topolino, fosse ancora più economico e capace di moltiplicare la mobilità popolare su quattro ruote. Ancora una volta il non facile incarico è affidato a Dante Giacosa, il quale parte dal considerare come «gli italiani desideravano l’automobile e si sarebbero volentieri accontentati di una vettura che, per quanto piccola, sarebbe stata più confortevole di uno scooter, specie nell’inverno e nei giorni di pioggia». Prende così consistenza un’originale forma a uovo, per esaltare l’abitabilità interna nel minimo ingombro esterno e il motore, raffreddato ad aria e collocato posteriormente, è un semplice bicilindrico. Di quasi mezzo litro di cilindrata, che porta alla denominazione di «Nuova 500, per distinguerla dalla Topolino invece nata quale 500» e come specificava il comunicato che accompagnò, nel luglio 1957, il debutto della piccola vettura. Presto avviata, dopo qualche iniziale titubanza, a fare inna-

Partito Pandist

Compie trent’anni l’automobile della Fiat che, insieme alla Topolino e alla Cinquecento, è diventata una pietra miliare del costume e della motorizzazione di massa in Italia di Paolo Malagodi morare masse di clienti e destinando il popolare “cinquino” a diventare una delle più celebri icone del boom economico italiano.

Prodotta sino al 1975 e in quasi quattro milioni di esemplari, la 500 venne sostituita dalla ben più anonima “126”; che, pur utilizzando un bicilindrico ad aria da 650 centimetri cubici montato al posteriore, non era più frutto del genio di Dante Giacosa che, dopo oltre quarant’anni di servizio in Fiat, dal gennaio 1970 aveva abbandonato ruoli operativi. Furono, perciò, i deludenti risultati commerciali della 126 a spingere Carlo De Benedetti – da poco nominato amministratore delegato del Lingotto – a far visita il 28 luglio 1976 a Giorgetto Giugiaro, chiedendogli di pensare a una nuova utilitaria che, utilizzando il motore della 126, avesse però migliore abitabilità e maggiore praticità di utilizzo per passeggeri e bagagli. Impegno che il designer torinese, in vacanza in Sardegna, tradusse rapidamente negli schizzi di una vettura dalla linea squadrata e con motore piazzato all’anteriore. Tanto da cercare, subito dopo Ferragosto, di mettersi in contatto con De Benedetti per apprendere, invece, del repentino allontanamento di questi dall’azienda automobilistica. Ma il progetto piacque ad Umberto Agnelli, nuovo amministratore delegato della Fiat, con il via ad una vettura dalla linea essenziale e dagli interni versatili. Rivoluzionati da una sedileria

semplicemente costituita da strutture tubolari, fasciate di una doppia tela con interposta la leggera imbottitura. Una concezione che, oltre al guadagno di centimetri per le gambe dei passeggeri, permetteva di modulare la seduta posteriore con il solo spostamento dei tubi trasversali di sostegno. Consentendo di realizzare anche un piano per dormire o una culla sospesa, mentre la razionale plancia era un marsupio in tela, con funzioni di capace portaoggetti.

Lo sviluppo ingegneristico, curato dalla stessa Italdesign di Giugiaro, si basava su parabrezza e vetri piani, come su cerniere esterne delle portiere e del portellone posteriore, con soluzioni destinate a un pubblico chiamato «a sacrificare il superfluo a favore dell’utile e del razionale». Come annotava lo stesso progettista nell’agosto 1976, all’inizio di uno sviluppo progettuale culminato con la presentazione ufficiale, nel marzo 1980, al pubblico del Salone di Ginevra di un’automobile denomi-


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maggiore praticità d’utilizzo per passeggeri e bagagli

ta Italiano Parla il designer Giorgio Giugiaro, ideatore del progetto originale

«Volevano un’utilitaria alla francese. E Umberto Agnelli apprezzò lo stile» ato il 7 agosto 1938 a Garessio, in provincia di Cuneo, dopo il liceo artistico Giorgio Giugiaro venne assunto, ancora diciassettenne, in Fiat e assegnato all’Ufficio Studi Stilistici Vetture Speciali, sotto la guida di Dante Giacosa che ne apprezzava il talento. Passato a fine 1959 alla carrozzeria Bertone, sono sue le linee di alcune importanti vetture; sino al successivo trasferimento nel 1965 alla carrozzeria Ghia, quale responsabile dello stile e con la realizzazione di prestigiosi modelli, tra cui la Maserati Ghibli e la De Tomaso Mangusta. È del febbraio 1968 la fondazione, in società con Aldo Mantovani, della Italdesign per un supporto alle case su nuovi progetti e dallo stile all’ingegnerizzazione del veicolo, come ai programmi di avvio della produzione in serie. Dal febbraio 2007, la famiglia Giugiaro ha assunto la piena proprietà di Italdesign continuando un lavoro che, in più di quarant’anni, ha portato a progettare oltre 200 vetture di serie, tra cui la Golf del 1974 e la Panda del 1980. A distanza di trent’anni, come giudica quell’esperienza per Fiat? Premesso che il modello, a scala 1:1 e in gesso bianco, fa bella mostra di sé nella hall dell’Italdesign a Moncalieri, quella fu una progettazione veloce e in piena libertà. Per una “utilitaria alla francese”, come me la chiese De Benedetti che tuttavia non ritrovai più in Fiat, ma con l’approvazione data da Umberto Agnelli ad un mio sviluppo non solo dello stile, ma di tutti i particolari tecnici e sino alla costruzione dei prototipi. L’impegno progettuale fu straordinario e non poco faticoso, ma è stato anche un divertimento per le soluzioni che ho potuto inventare. Perché non fu, invece, rilevante il suo ruolo nella nuova Panda del 2003? Ogni casa ha dei suoi cicli e, in quel periodo, valeva in Fiat la logica di una progettazione interna. Anche se, a onor del vero, sia io che Bertone un nostro contributo l’abbiamo fornito, con varie proposte sviluppate poi dal Centro Stile Fiat. Come dovrà essere la Panda del futuro? Secondo me la proposta migliore è quella che come Italdesign abbiamo appena presentato, insieme alla malese Proton, nell’ultimo Salone di Ginevra: con una citycar, denominata Emas, che in appena tre metri e mezzo (quanto una Fiat Panda) ha più abitabilità di una vettura della classe media. Anche grazie a un inedito pianale pensato per combinare variamente la propulsione di un motore endotermico, all’avantreno, con uno elettrico al posteriore. Per una prima soluzione basata sul motore a scoppio, una seconda con i due motori in parallelo, per arrivare a una terza del solo elettrico al posteriore e con batterie agli ioni di litio nel pavimento.

N

nata Panda, la cui originalità dapprima provocò tiepide accoglienze da parte di una clientela ormai avvezza a maggiore ricchezza di dotazioni.

Incertezza durata poco, con il nuovo modello lesto a scalare le classifiche di vendita, per una scelta che privilegiava il risparmioso bicilindrico ad aria derivato dalla 126, anche se affiancato da un tradizionale quattro cilindri da 900 cc già montato sulla 127; con versioni contrassegnate dalle sigle 30 e 45, corrispondenti ai rispettivi cavalli di potenza. Un successo trasversale che farà sorridere Giugiaro su un suo diverso parere iniziale: «Mi aspettavo che fosse la clientela meno abbiente ad acquistarla subito ed ho invece constatato che, tra i primi acquirenti, c’erano architetti e professionisti oltre alla buona borghesia della collina torinese. con il sorgere di una tendenza simile a quella dei jeans, che tutti hanno voluto indossare sulla scia di personaggi come Giovanni Agnelli o delle star hollywoodiane. Così è esploso il fenomeno Panda, esaltato dalle doti di robustezza e di grande praticità del-

ne 4x4 protagonista di avventurosi raid, negli anni seguenti la gamma Panda si evolve, oltre che verso interni più tradizionali, con nuovi motori e versioni; sino alla commercializzazione, nel settembre 2003, di una diversa vettura già presentata al Salone di Ginevra nel medesimo anno.

Con un modello sviluppato, stavolta, direttamente dal Centro Stile della Fiat anche se grazie a consulenze di Bertone e dello stesso Giugiaro, ma con il rischio di un incredibile errore di percorso. Per il nome “Gingo”, voluto da Fiat allo scopo di creare un netto distacco rispetto alla Panda considerata troppo spartana.Scelta che provoca una sorta di rivolta popolare, con messaggi che si incrociano su internet in frequentati blog e con accalorati appelli in difesa della precedente denominazione. Tra cui quello, su KaMotori taWeb del 12 marzo 2003, a firma di

L’ultimo modello si sarebbe dovuto chiamare “Gingo”. Ma Fiat è tornata sui propri passi dopo una mezza rivolta popolare la vettura». Confermate dai non pochi esemplari che, specie con il bicilindrico da 30 cavalli, a tutt’oggi circolano nelle zone rurali del Meridione e corredati da gancio di traino, con relativo carrello appendice per il trasporto di prodotti e attrezzi della campagna. Parimenti tra le più efficaci campagne pubblicitarie, val la pena di ricordare quella di una Panda che, su una stretta via, appoggiava senza problemi i robusti paraurti in materiale termoplastico ai muri, per compiere un’inversione salutata dallo slogan: «Panda, se non ci fosse bisognerebbe inventarla!» Affiancata dal 1983 anche da una versio-

Michele Serra e che argomenta: «Uccidono la Panda! Misteri del marketing, la Panda è come la moka o i blue-jeans, una solida icona del vivere quotidiano che bisognerebbe in qualche maniera tutelare». Reazioni che, ai piani alti del a suscitare Lingotto, cominciano qualche dubbio e con la conclusione – rispettosa della massima popolare sul “meglio tardi che mai” – di un comunicato stampa Fiat nel quale, il 30 luglio 2003, si prendono a pretesto «le preoccupazioni espresse da un concorrente (Renault in relazione alla propria Twingo, ndr) per l’assonanza tra il no-

me Gingo, con il quale era stata presentata la nuova vetture e un suo modello già in commercio». Tanto basta per recuperare il nome Panda, che dalla originaria versione di Giugiaro compie in questi giorni trent’anni e con quasi sei milioni di unità nel frattempo immatricolate.

Un traguardo festeggiato, all’ultimo Salone di Ginevra, con ricca torta e trenta candeline per ricordare la lunga storia di successi. Per uno stile Panda che non è solo patrimonio di casa Fiat, ma che fa ormai parte del costume ita-

liano nell’indicare un rapporto con l’auto più disinvolto e pratico. Al punto che la mitica utilitaria torinese è divenuta una sorta di brand nel brand, sostenuto anche dalle valenze emotive che accompagnano la scelta in una gamma Panda arricchita di versioni a due e quattro ruote motrici, come da motori sia benzina sia diesel affiancati da quelli a Gpl o a metano. Tipologia di combustibile che, per inciso, vede Panda quale incontrastato leader nell’utilizzo diffuso di vetture a basso impatto ambientale e in giusta attinenza, nella fattispecie, del nome della vettura con la simbologia ecologica legata al simpatico mammifero hymalaiano, emblema del Wwf.


mondo

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Medioriente. Mentre si allarga la distanza fra Usa e Israele a Foggy Bottom si immagina la nuova linea politica di Obama

La vera frattura La paura di Netanyahu è che gli Stati Uniti vogliano aprire all’atomica dell’Iran di Luisa Arezzo a tensione fra Washington e Gerusalemme non solo non accenna a calare, ma potrebbe essere appena “all’antipasto”. Se trovassero conferme certe le voci che da ormai qualche settimana circolano insistentemente a Foggy Bottom: ovvero che gli Usa sarebbero pronti a modificare la propria strategia in Medioriente e dare il via libera al nucleare iraniano. Soltanto pochi mesi fa un semplice esercizio di stile in questa direzione sarebbe apparso impossibile. Ma a pensarci bene è da almeno un mese (ovvero da quando Hillary Clinton si è detta favorevole a prendere in considerazione delle sanzioni verso Teheran in sede Onu) che il segretario di Stato non ha più aperto bocca al riguardo. Riavvolgiamo dunque il nastro: apparentemente gli Usa sembrano oscillare fra due scelte: accettare che l’Iran si doti dell’arma nucleare o intraprendere un’azione militare che prevenga questa possibilità. In verità, c’è anche una terza via: che Washington ridefinisca in toto il suo approccio alla questione iraniana. Netanyahu ne è consapevole, e questo spiegherebbe il braccio di ferro in atto in queste ore mascherato dalla polemica sugli insediamenti di Gerusalemme Est. Teso a esasperare i rapporti, ma non utile ad Obama nel medio periodo visto che a novembre dovrà “sottoporsi” alle elezioni di Mid term. L’approccio statunitense nell’area, infatti, fino all’altro ieri sembrava finalizzato alla creazione di un’ampia coalizione pronta ad imporre all’Iran nemico numero Uno di Isarele le cosiddette sanzioni restrittive. Quelle, per capirci, che per risultare efficaci devono essere tanto gravose da costringere il destinatario a cambiare atteggiamento.

L

Nel caso di Teheran, l’unica in grado di raggiungere l’obiettivo è il blocco delle sue esportazioni di greggio e importazioni di benzina. Peccato che Pechino abbia già fatto sapere di essere contraria e che Mosca nicchi parecchio: d’altronde i russi sono più che contenti di vedere come (e quanto!) gli Stati Uniti si siano impantanati in Medioriente, e certo non fremo-

no dalla voglia di levargli le castagne dal fuoco. Epperò è chiaro che senza Mosca e Pechino qualsiasi embargo non rappresenterebbe una perdita significativa per Teheran. Stando così le cose, l’approccio diplomatico sembra destinato a fallire. Rimane allora l’opzione militare, ma ha i suoi (ovvi) rischi. Primo, il suo successo dipende dalla qualità delle informazioni fornite dal sistema di intelligence: errori di questa natura non sarebbero più accettati; e secondo un attacco (necessariamente aereo) dovrebbe riportare indietro il paese (in termini di impianti atomici) di anni interi,

più: anche se gli attacchi avessero successo, l’interrogativo, rispetto a cosa potrebbe accadere il giorno dopo, rimarrebbe. L’Iran conta sull’appoggio di Hezbollah. Che in Iraq possiede un’influenza sufficiente a destabilizzare il paese e costringere gli Usa a mantenere forze necessarie altrove. Possiede inoltre la facoltà di utilizzare mine e missili per cercare di chiudere temporaneamente lo Stretto di Hormuz e le rotte navali del Golfo Persico – innalzando il costo mondiale del petrolio proprio mentre la global economy sta lottando per stabilizzarsi. Non è dunque peregrino affer-

La Casa Bianca sa che Teheran è la più potente forza militare del Golfo Persico. Attaccarla è un’ipotesi, ma comporta troppi rischi. Ma se il regime non può essere fermato, bisogna arginarlo non certo di mesi. Come dire: se il rischio di un Iran atomico è grande abbastanza da giustificare i rischi della guerra, ciò che ne consegue deve essere decisivo. Il fallimento dell’operazione però è possibile. E c’è di

mare cha la posizione dell’Iran in merito al suo programma nucleare è orientata dalla consapevolezza che, in caso di attacco militare, le controindicazioni comporterebbero rischi complessi e inaccettabili. Ecco per-

ché il regime islamico è convinto che gli Usa non solo non faranno la guerra, ma impediranno ad Israele di reagire. A questo punto è evidente che gli Usa devono mettere a punto una terza via e ridefinire il problema iraniano. Dopo le elezioni di Ahamdinejad e gli scontri con l’Onda Verde, qualcuno ha sperato che un sostegno all’opposizione rivoluzionaria potesse essere la strada. Ma Washington di Moussavi non si fida e le for-

ze d’opposizione Teheran è pronta sia a reprimerle che a schiacciarle, se necessario. Dunque per Foggy Bottom l’idea di attendere una rivoluzione è più utile come giustificazione all’inazione - accettando un Iran nuclearizzato - che come alternativa strategica.

In questo momento, l’Iran è la più potente forza militare nella regione del Golfo persico. A meno che gli Stati Uniti non

La Casa Bianca rincara la dose di critiche e Michael Oren dice: «La crisi questa volta è grave»

“Bibi” il falco gela l’America erminata la sua visita in Medio Oriente, il vice presidente Usa, Joe Biden, torna a Washington con un risultato inaspettato. Gli incontri fra il “numero 2” dell’Amministrazione Obama e il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, hanno provocato una frattura politica di ampie proporzioni. L’ambasciatore israeliano presso la Casa Bianca, Michael Oren, ha parlato della crisi più grave tra Israele e Stati Uniti dal 1975 a oggi. Dieci giorni fa, la Lega Araba aveva proposto di riavviare i negoziati indiretti (proximity talks) fra l’Autorità Palestinese e Israele. L’offerta era stata accolta dal presidente Abu Mazen. Sulla base di questa apertura, all’inizio della scorsa settimana, Biden era arrivato in Israele palesando un personale ottimismo nel poter convincere anche il governo Netanyahu a sedersi nuovamente al tavolo dei negoziati. Un ottimismo però che ha subìto i colpi di un’escalation di eventi ne-

T

di Antonio Picasso gativi che si sono susseguiti nell’arco di soli sette giorni. Il Premier israeliano ha accolto il vice presidente Usa ponendolo di fronte al veto su un’eventuale messa in discussione degli insediamenti intorno a Gerusalemme. Il cosiddetto “Gush Etzion” (la barriera di Sion) rappresenta per Israele un cuscinetto territoriale strategico difensivo contro i palestinesi di alcune aree della Cisgiordania. Sulla base degli Accordi di Oslo (1993), Israele si sente in diritto di procedere nella realizzazione di moduli abitativi nelle zone classificate come tipo “C”, soggette alla sua giurisdizione al 59% e adiacenti a Gerusalemme Est. Per il Governo Netanyahu, queste aree non possono essere oggetto di negoziazione. L’atteggiamento irremovibile di Netanyahu ha provocato l’immediato ritiro della mano tesa da parte di Abu Mazen. Poi la situazione è degenerata. Nel mentre

che un imbarazzato Biden si sforzava di dare un senso positivo alla sua visita nella regione, il ministro dell’Interno israeliano, Eli Yishai – esponente del partito religioso “Shas”, promotore della politica espansionistica dei coloni – firmava il decreto per la realizzazione di 1.600 case a Ramat Shlomo, un’area “C” appena fuori Gerusalemme.

Dando il suo ok alla nascita di un nuovo insediamento, il governo Netanyahu si è mostrato sprezzante nei confronti dell’alleato americano e delle offerte che il suo ospite, Biden, gli ha presentato. Da qui lo strappo. Il Dipartimento di Stato Usa ha fatto sapere che simili provocazioni in futuro non saranno più tollerate. Parole dure, queste, che tuttavia hanno un peso ridotto rispetto all’apparenza. L’attuale forza di Netanyahu poggia su una serie di pilastri della alleanza israelo-statunitense. L’approssimatezza della carta di Oslo per-


mondo

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Foto grande: l’incontro alla Casa Bianca fra “Bibi” Netanyahu e Barack Obama (maggio 2009); in alto: soldati israeliani pronti a difendere gli insediamenti e a lato, una bimba palestinese guarda una ruspa in azione. Sotto, Michael Oren, ambasciatore israeliano negli Usa dispongano considerevoli forze militari nella regione, non c’è capacità militare in grado di fermare il regime. La Turchia è più forte dell’Iran, ma è lontana e tiene buone relazioni con Ahmadinejad. Storicamente, la stabilità della regione è dipesa dall’equilibrio del potere iracheno-iraniano. Quando nel 1990 questo ebbe a vacillare il risultato fu l’invasione di Saddam in Kuwait. Allora gli Usa non intervennero per evitare di

far saltare completamente tale equilibrio e creare un vuoto di potere nella regione. La decisione di invadere l’Iraq nel 2003 presupponeva che una volta distrutto il regime baathista, gli Usa avrebbero rapidamente creato un forte governo iracheno in grado di bilanciare l’Iran. Il grave errore di questo ragionamento fu non capire che il nuovo governo iracheno si sarebbe riempito di sciiti, molti dei quali guardavano all’Iran

mette a Israele un’agevole capacità di manovra nelle aree “C”. L’accordo, se viene interpretato secondo i bisogni quotidiani di sicurezza della popolazione israeliana, permette al governo Netanyahu di agire liberamente, controllando strade, risorse idriche, spazio aereo e frontiera per l’intero territorio. Di conseguenza, viene agevolato l’espandersi degli insediamenti. Proprio sulla base di questo caos cartografico e diplomatico mai risolto, venerdì – sempre con la visita di Biden in corso – il ministero della Difesa israeliano ha deciso di chiudere temporaneamente i varchi interni alla Cisgiordania, che permettono il transito della popolazione palestinese tra le zone “A”e “B”, sotto giurisdizione del governo di Ramallah. È evidente quindi che Israele si senta il soggetto forte nella regione. Di fronte a questo, perdono di significato gli ammonimenti di Washington. Anzi, il problema si complica nel momento in cui alla crisi degli insediamenti si aggiungono i problemi irrisolti del “Rapporto Goldstone” e del nucleare iraniano. Netanyahu pretende che in merito al dossier redatto dell’Onu, che accusa Israele di crimini di guerra durante l’ultima conflitto contro Hamas a Gaza, Washington spenda tutte le sue risorse affin-

come ad un potere amico. Piuttosto che controbilanciare l’Iran, l’Iraq era pronto a diventare un satellite iraniano. Conscio di questo, Washington non ebbe altra scelta che l’occupazione dell’Iraq. Risulta difficile definire l’influenza dell’Iran in Iraq in questo momento. Ma una cosa è certa: non è ancora in grado di imporre un regime filo Teheran in Iraq, ma è perfettamente in grado di bloccare la creazione di qualsiasi governo irache-

L’Iraq, non il nucleare, è il contenzioso cruciale tra l’Iran e gli Usa. E se Baghdad non è ancora in grado di controbilanciare il potere iraniano, c’è bisogno di trovare qualcuno che lo faccia no forte e destabilizzare il paese per impedirgli di diventare un contrappeso al suo potere.

Eccoci allora arrivati al punto: l’Iraq, non le armi nucleari, è il contenzioso cruciale tra l’I-

ché venga insabbiato nella burocrazia delle Nazioni Unite. Per la seconda questione, Israele deve aver intuito l’eventuale accondiscendenza dell’Amministrazione Obama in merito alla produzione di energia nucleare da parte di Teheran. Secondo Israele, questa sarebbe l’anticamera della atomica iraniana, per la quale la Casa Bianca starebbe dando improvvidamente un suo tacito nulla osta.

Il cosiddetto “Gush Etzion” (la barriera di Sion) è un cuscinetto territoriale strategico contro i palestinesi di alcune aree della Cisgiordania

Visto così, ha senso parlare di un disastro diplomatico nei rapporti bilaterali fra i due Paesi. Il realismo suggerisce però di ricordarsi che il Paese mediorientale è un alleato indispensabile per gli Usa nella regione. Viceversa Washington è vitale per l’esistenza di Israele. La crisi diplomatica è sicuramente grave e avrà i suoi strascichi. D’altra parte non si può immaginare che il livello di tensione resti alto tanto a lungo. Con le elezioni di mid-term a novembre per il rinnovo parziale del Congresso Usa infatti, l’Amministrazione Obama deve iniziare a fare i conti in casa con l’elettorato ebraico e sul proscenio internazionale con un problema israelo-palestinese che pretendeva ingenuamente di risolvere in tempi brevi ma che, al contrario, si sta deteriorando.

ran e gli Stati Uniti. E se Baghdad non è ancora in grado (e non lo sarà per molti anni) di controbilanciare il potere iraniano, c’è bisogno di trovare qualcuno che lo faccia. Gli Stati Uniti hanno un’interessante tattica, nel ridefinire i problemi, che include la creazione straordinaria di alleanze con nemici mortali, sia ideologicamente che geopoliticamente, al fine di raggiungere obiettivi strategici. Basti pensare all’alleanza di Franklin Delano Roosevelt con la Russia stalinista per bloccare la Germania nazista. Ecco allora che Obama potrebbe decidere di avallare l’atomica iraniana. Così facendo, provocherebbe la rabbia dei turchi, a maggioranza sunnita. Come già detto, la Turchia è molto più potente dell’Iran, ma le sue relazioni con gli Usa sono delicate e un eventuale accordo (anche se non formalmente sottoscritto) fra Washington e Teheran la forzerebbe ad emergere come il contrappeso dell’Iran. Insomma, Foggy Bottom pensa che la rabbia della Turchia nei confronti degli Stati Uniti farebbe gli interessi di questi ultimi. E che la creazione di un nuovo “contrappeso” regionale stimolerebbe il processo di pace in Medioriente. Fantasie geopolitiche? Forse. Ma per la Casa Bianca non così peregrine.


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pagina 16 • 16 marzo 2010

Cina. Chiudendo l’Anp, il premier cinese ribadisce i temi del prossimo anno PECHINO. Lo yuan renmibi «resterà stabile dov’è, nonostante le pressioni americane ed europee che vorrebbero una sua rivalutazione. Io non credo che la moneta cinese sia sottostimata, e per questo ci opponiamo a quelle nazioni che puntano il dito contro altri governi e cercano di costringerli a fare cose che non vogliono». Lo ha detto il primo ministro cinese, Wen Jiabao, nel corso della conferenza stampa annuale che chiude i lavori dell’Assemblea Nazionale del Popolo, il Parlamento cinese. ,Con le dichiarazioni del proprio premier, la Cina ha ribadito che sulla spinosa questione della rivalutazione dello yuan resterà ferma sulla sua posizione: Pechino manterrà il cambio stabile, uno schiaffo a quanti negli Stati Uniti chiedono con forza la rivalutazione dello yuan sul dollaro. E questo nonostante Washington abbia velatamente accusato la nazione asiatica, la scorsa settimana, di mantenere viva la crisi finanziaria globale con la propria posizione. Alcuni analisti, sui media nazionali e internazionali, spiegano che sulla “questione yuan” si incrociano due ordini di problemi, uno di interesse nazionale cinese e uno di carattere generale sulla gestione della crisi da parte dell’America. La Cina, infatti, ha già ventilato la possibilità di rivalutare lo yuan di circa il 10 per cento. Secondo alcune stime, Pechino possiede riserve per un valore complessivo di circa 3mila miliardi di dollari: quindi una rivalutazione dello yuan significa una perdita teorica di 300 miliardi di dollari. E una rivalutazione del 40 per cento, richiesta da alcuni economisti americani, avrebbe un valore di 1.200 miliardi. Inoltre,

Lo schiaffo di Wen: «Lo yuan non si tocca» Gli Usa premono per una vera riforma valutaria, ma Pechino si tira indietro di Vincenzo Faccioli Pintozzi

Ting, economista della Bank of America-Merrill Lynch di Hong Kong, conferma: «Non si vedono segnali verso una rivalutazione della moneta. È possibile che Pechino abbia dei piani di riforma valutaria, ma la pressione di altre nazioni non farà altro che allontanarla dal proposito». Oltre alla perdita di valuta americana, la Cina teme

Rivalutare la moneta significa una perdita teorica di 300 miliardi di dollari. E Hu Jintao non ha intenzione di fare questo favore una rivalutazione dello yuan colpirebbe le esportazioni, e quindi avrebbe un effetto diretto sulla occupazione delle aziende esportatrici. Calcoli del governo cinese sostengono che 1 per cento di rivalutazione può corrispondere a un 1 per cento di riduzione delle esportazioni e quindi a un diminuzione esponenziale dei posti di lavoro. Davanti a queste cifre, l’esecutivo di Zhongnanhai [il quartiere blindato nel cuore di Pechino, dove vive e lavora il governo] ha chiarito di non poter fare di più. Secondo Lu

anche di infittire l’inflazione che ha colpito il Paese negli ultimi due anni. Nel discorso che ha aperto l’Anp, infatti, Wen ha chiesto che il Prodotto interno lordo cinese cresca dell’8 per cento, ma ha aggiunto che l’inflazione deve essere tenuta intorno al 3 per cento. La soglia dell’8 per cento è fissata tradizionalmente per garantire occupazione e ordine sociale. Essa sembra abbastanza facile da raggiungere, dato che già nell’ultimo trimestre del 2009 la crescita è stata del 10,7. Ma proprio tale cresci-

Una tratta di 1.318 chilometri in quattro ore

Nuovi treni per Shanghai SHANGHAI. La linea ferroviaria ad alta velocità che unirà le metropoli cinesi di Pechino e Shanghai - considerate una la capitale politica e l’altra la capitale finanziaria della Cina - entrerà in funzione nel 2011, con un anno di anticipo sul previsto. Lo ha sostenuto ieri la stampa cinese, con la consueta magniloquenza che caratterizza i toni della propaganda. La linea ad alta velocità ridurrà da dieci a quattro ore il viaggio tra le due città, che distano 1.318 chilometri. Secondo le previsioni la nuova linea dovrebbe servire ogni anno 80 milioni di passeggeri, circa il doppio di quelli che oggi intraprendono il viaggio in treno. Il quotidiano China Daily afferma che per raggiungere lo scopo sarà utilizzata una nuova generazione di treni superveloci, i quali so-

no in grado di raggiungere la velocità di 380 chilometri orari. Il collegamento ad alta velocità tra Pechino e Shanghai fa parte di un ambizioso progetto di ammodernamento dei trasporti ferroviari in corso in Cina, che prevede 120mila chilometri di strada ferrata entro il 2020, 50mila dei quali ad alta velocità. I lavori per il collegamento superveloce tra le due metropoli sono iniziati nel 2008 e comportano un investimento di 220,9 miliardi di yuan (piu’ di 23 miliardi di euro), la metà dei quali sono già stati investiti. La Cina ha anche intenzione di esportare all’estero i suoi “treni-proiettile” e ha lanciato progetti di collaborazione con altri Paesi in Asia ed in Europa. Shanghai è una pioniera nel campo: il suo treno a levitazione magnetica è in funzione da cinque anni.

ta – ottenuta grazie a un pacchetto di aiuti governativi per 4 mila miliardi di yuan, divenuti poi 9 – ha portato a enormi speculazioni edilizie, a un rischio inflazione e all’innalzamento del 9,5 per cento dei prezzi al consumo nelle maggiori 90 città del Paese. Questi dati, se mantenuti sul lungo periodo, porteranno a un aumento delle proteste sociali che il governo teme moltissimo. In conclusione di conferenza, il premier è apparso sulla difensiva quando un giornalista straniero lo ha interrogato sul fatto che l’americana Google ha minacciato di lasciare la Cina per la censura e sul caso dell’australiana Rio Tinto, che ha cinque dirigenti in prigione. «Le imprese straniere sono sempre le benvenute - ha affermato il premier - purché rispettino la legge. Nei prossimi anni mi impegnerò per conoscere più direttamente i problemi degli imprenditori stranieri in Cina». Subito dopo, per fare un poco di colore, Wen ha fornito la sua visione sul fallimento dei colloqui di Copenhagen sul clima.

Al vertice, infatti, la Cina non è stata invitata alla riunione dei principali leader mondiali, convocata d’urgenza nella notte del 17 dicembre, subito dopo l’arrivo di Barack Obama, per cercare di salvare l’accordo. Il premier cinese ha rivelato che a quella famosa riunione non sarebbe stato Pechino, come tutti hanno creduto finora, a snobbare tutti i leader, ed in particolare il presidente americano, mandando ai negoziati cruciali un funzionario di più basso livello. Ma esattamente il contrario. Sono stati i leader internazionali a snobbare la Cina: «E fino ad ora non ci è mai stato spiegato perché. È ancora un mistero per me». Il premier cinese ha fornito altri dettagli per la ricostruzione della vicenda, parlando di un leader europeo, senza rivelare chi, che gli ha comunicato, parlando durante una cena ufficiale, dell’incontro notturno che era stato organizzato. «Per me fu uno shock perché non ero stato informato di nessun invito per la Cina» ha continuato Wen, spiegando che è stato per questo che alla fine ha deciso di mandare il vice ministro degli Esteri He Yafei alla riunione a cui partecipavano capi di Stato e di governo in segno di protesta. Un gesto che invece è stato interpretato dalle altre nazioni come un modo con cui Pechino segnalava il suo scarso interesse per i negoziati.


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16 marzo 2010 • pagina 17

I sostenitori dell’ex premier Thaksin vogliono nuove elezioni

Per la festa nazionale, esposta la foto dell’erede di Kim Jong-il

Le camicie rosse thai assediano Bangkok

Pyongyang, il 15 aprile verrà svelato il “terzo Kim”

BANGKOK. Il Primo Ministro

SEOUL. Fra meno di un mese, la Corea del Nord e il mondo intero vedranno finalmente il volto di Kim Jong-un, terzogenito ed erede del dittatore Kim Jong-il. Il ritratto ufficiale del delfino verrà infatti affisso insieme a quelli del padre e del nonno, Kim Il-sung, il 15 aprile: il giorno, festa nazionale, della nascita del fondatore della nazione. Lo sostiene Lee Yeonghwa, professore di Economia all’università nipponica di Osaka ed esperto delle vicende di Pyongyang, che ha rilasciato una lunga intervista ieri mattina allo Yomiuri Shimbun, il più diffuso quotidiano giapponese. Giappone e Corea del Sud, vista la vicinanza geografica con l’ultima dittatura totalitarista

thai Abhisit Vejjajiva ha respinto la richiesta di elezioni anticipate, avanzata dai dimostranti anti-governativi riuniti ieri in un’imponente manifestazione nel centro di Bangkok. Più di 150mila “camicie rosse” – sostenitori dall’ex premier in esilio Thaksin Shinawatra – hanno marciato per la capitale esigendo le dimissioni del governo e lo scioglimento del Parlamento. Nonostante i timori della vigilia, non si sono registrati scontri con le forze di polizia. Nel primo intervento televisivo dall’inizio delle manifestazioni, promosse dal partito di opposizione United Front for Democracy against Dictatorship (UDD), Abhisit ha sottolineato che «i partiti della coalizione respingono la richiesta di dimissioni». Egli ha confermato che non vi saranno nuove elezioni, perchè «dobbiamo ascoltare le opinioni anche degli altri, non solo dei dimostranti».

Il premier thai ha seguito le manifestazioni delle “camicie rosse” all’interno di una base militare a Bangkok. Ieri almeno 150mila simpatizzanti dell’opposizione hanno sfilato per le vie della capitale, in modo pacifico e ordinato. Circa 50mila poliziotti e forze della sicurezza hanno seguito l’evolvere

Roma: asse con Parigi e Berlino contro i Pigs Tremonti vede Barnier: «C’è sintonia sull’agenda europea» di Francesco Pacifico

ROMA. Oggi i nemici comuni sono la speculazione finanziaria e la scarsa trasparenza bancaria. Domani gli sforzi di Roma e Parigi potrebbero unirsi per un patto di stabilità più intelligente – e meno rigido verso gli investimenti – oppure in direzione di una diversa rimodulazione degli aiuti comunitari che premi la produzione. Perché, parola di Giulio Tremonti, «è emersa una vera volontà di lavorare insieme e una grande sintonia».

Il nostro ministro dell’Economia e il commissario Ue al Mercato interno, Michel Barnier, ieri hanno pranzato amabilmente a Bruxelles e, soprattutto, stretto un’alleanza tra Italia e Francia che potrebbe avere non poche ripercussioni per Roma nella scrittura dei nuovi equilibri di Eurolandia. Non a caso i due non avrebbero toccato – almeno questo ripetono le fonti ufficiali – i dossier che il commissario transalpino ha aperto sul Belpaese: la golden share che il governo mantiene sugli ex monopolisti dei servizi e l’estensione dello scudo meno fiscale, oneroso rispetto alle altre sanatorie decise in Europa. Difficile credere che i temi non siano toccati. Ma ieri c’era ben altro in agenda. Anche perché questa intesa è stata lanciata – e ostentata – all’avvio di una tre giorni in cui i ministri economici dell’area delineeranno il paracadute per non far spronfondare la Grecia e muoveranno la loro offensiva agli hedge funds e agli altri attori speculativi, che tanto spaventa l’asse atlantico tra Usa e Gran Bretagna. Il ministro italiano dell’Economia, infatti, ha sottolineato che il Belpaese appoggia la linea di Berlino e Parigi per regolare i credit default swaps in relazione al debito sovrano: «Come avevo già detto a Cernobbio e poi a Venezia i soldi che i governi del mondo hanno dato alle banche durante la crisi, la finanza li ha usati in parte contro i governi stessi». Perché Francia e Germania srotolino tappeti rossi all’Italia, un tempo considerato la Regina dell’inaffidabilità con il suo altissimo debito,

lo si è capito ieri pomeriggio alla riunione dell’Eurogruppo: se in mattinata il commissario Ue all’Economia, Olli Rehn, aveva annunciato che si sarebbe discusso su «un meccanismo europeo di assistenza coordinata e condizionata alla Grecia», le due maggiori economie di Eurolandia hanno imposto agli altri Stati membri di rimandare ogni decisione. Uno stop in piena regola nonostante la presidente di turno dell’Ecofin, la spagnola Elena Salgado, aveva fatto pressioni perché «si potesse trovare un accordo sulle misure a sostegno delle emissioni di titoli del debito pubblico greco». Al riguardo è stato ancora più chiaro il collega olandese Jan Kees de Jager, che ha svelato che ci sarebbe «già una intesa di base fra i 16 paesi dell’Eurogruppo sulle misure da adottare per sostenere la Grecia», ma non la forza di decidere una volta per tutte. Così ieri si è discusso soltanto sulle ipotesi per permettere ad Atene di finanziare il proprio debito a tassi inferiori a quelli di mercato: intanto un prestito concesso direttamente dagli Stati membri con il coordinamento della Ue in base ai risultati della stretta sui conti da 4,8 miliardi decisa dal governo Papandreou. Ma si sono valutate anche l’emissione di eurobond da parte della Commissione – progetto di difficile realizzazione visto che il Trattato Ue non consente alla Ue di andare in deficit – e una serie di garanzie dirette agli ellenici per poter chiedere prestiti.

Il ministro dell’Economia incontra il commissario Ue al Mercato interno. Intanto l’Eurogruppo si divide sulla Grecia

delle manifestazioni, evitando il contatto diretto con la folla. La manifestazione si è chiusa con un video-messaggio di Thaksin, nel quale egli plaude l’iniziativa del “suo”popolo perchè «state portando la democrazia in Thailandia». Oggi decine di migliaia di dimostranti si sono diretti verso la caserma che ospitava Abhisit. I militari hanno sigillato gli ingressi della base, alzando reti di filo spinato e schierando centinaia di soldatini in assetto anti-sommossa. Dopo l’intervento televisivo, il Primo Ministro thai ha abbandonato la caserma a bordo di un elicottero militare Black Hawk. Al momento l’esecutivo esclude l’ipotesi di dichiarare la legge marziale .

In ogni caso non si è entrati nel merito delle cifre. Neppure quelle circolate in tutte le cancellerie e che fanno oscillare il valore dell’intervento tra i 20 e i 25 miliardi di euro: circa la metà dei 54 miliardi dei quali Atene avrà bisogno per rifinanziare il proprio bilancio. Oggi la parola passa all’Ecofin, che difficilmente potrà fare chiarezza sull’argomento. Anche perché in agenda c’è la regolamentazione sugli hedge fund, che potrebbe portare a obblighi più stringenti anche per quei veicoli che non operano nella Ue ma hanno sede legale in Paesi terzi.

dell’Asia, seguono molto da vicino le vicende del Paese. Lee sostiene di aver appreso dei preparativi in corso da un collaboratore nordcoreano, per il quale il Partito dei lavoratori del Nord «sta predisponendo tutte le misure del caso per rendere pubblico il ritratto di Kim Jong-un, terzogenito di 26-27 anni del ‘Caro leader’ nonché il prescelto - in base ai servizi di intelligence occidentali - come successore alla guida dello stato comunista».

C’è molta attesa per il prossimo presidente nordcoreano: secondo i suoi concittadini, questi “è più crudele del padre”, nonostante sia stato educato in Occidente. Di Kim Jong-un si hanno soltanto foto scattate ai tempi degli studi in Svizzera, poco più che adolescente. In occasione dei festeggiamenti per il “Presidente eterno”, i ritratti di tre diverse generazioni, secondo Lee, «dovrebbero essere esposti l’uno accanto all’altro». Ma il popolo nordcoreano, 22 milioni di persone in stato di schiavitù sotterranea, potrebbe non gradire l’ennesima trasmissione del trono in scala dinastica. La riforma valutaria disastrosa ha messo in ginocchio l’economia, e il popolo vorrebbe un intervento dell’esercito per cambiare governo.


cultura

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Libri. Esce per Einaudi “Umiliazione”, impietoso ritratto di un vecchio attore che insegue l’ombra della gioventù

Memorie di un declino Gli smacchi e i colpi di coda disperati: l’età matura secondo Phlilip Roth di Pier Mario Fasanotti l rischio che il tono patetico domini la scena è elevatissimo, soprattutto se il tema riguarda la crisi di un uomo di sessantacinque anni al culmine della carriera. Rischio evitato da un Philip Roth che scava ancora una volta nel declino di una persona, senza mai dimenticare la complessità dei fili che muovono le marionette mentali. Il personaggio del suo romanzo appena edito in Italia ( Umiliazione, Einaudi, 113 pagine, 17,50 euro), che gli accademici di Stoccolma continuano a snobbare (ma poi, chi se ne frega!), si chiama Simon Axler ed è un attore di teatro che è riuscito a sfondare a New York mentre molti suoi amici e colleghi sono rimasti nella rancorosa, o rassegnata, cupola di una provincia sbiadita seppur culturalmente volonterosa.

I

prima superbamente padroneggiato, diventa un macigno. Il pubblico si accorge che il personaggio è ridicolo: nulla di peggio che dare del ridicolo a un anziano, chioseremmo noi. E qui comincia il suo calvario, consapevole d’essere tutto sommato «un ometto insignificante», privato del diamante professionale, «un uomo disgustoso che altro non è che l’inventario dei propri difetti». La permanenza in una clinica psi-

Rinasce femminile. Ma deve sconvolgere ancora una volta i genitori che, inevitabilmente, la mettono in guardia: ma come le dicono, Axler ha la nostra età, in più è stato “matto”e vede scemare la sua fama di attore! La giovane donna dirà una frase che è un pugno sullo stomaco: «Avete tutti la stessa età». La figura del padre e quella dell’amante duellano a distanza nella mente che il nuovo orientamento sessuale scuote nelle sue fondamenta. L’ex sovrano della scena teatrale (e della sua vita) confonde la propria sorte con quella della sua amante, covando in un angolo della coscienza la convinzione che si tratti di «una stupenda e disperata illusione» assieme al dubbio che sia lei, lei e non lui, a essere regista della sua pericolante vita. Axler l’asseconda in spericolati giochi amorosi. Roth, che è sempre stato letterariamente sfacciato nel descrivere corpi, amplessi e desideri estremi, usa la crudezza del linguaggio come strumento conoscitivo di performances che non sono soltanto fisiche, ma segnaletiche di uno smarrimento camuffato in disinvoltura comportamentale. Ecco il grande rischio: a questo punto Pegeen si ritrova ad avere due identità. Una treccia fatta di capelli dai colori diversissimi. Alla fine correrà verso scelte radicali. Axler è l’uomo nudo, per dirla con Albert Camus, impaurito e piangente, simile a quel piccolo opossum che tra la neve del giardino s’è scavato una grotta. L’aveva osservato in un giorno di passività emotiva, ora l’immagine dell’animaletto diventa uno specchio: di solitudine, di

È come se l’autore usasse il racconto per affrontare il “redde rationem” che la vita oppone a ciascuno

Ancora una volta Roth intreccia consapevolezza del declino e “climbing” sulla parete sessuale come recupero giovanile, vitalistico, disperatamente vero e a volte desolatamente comico. È come se l’autore afferrasse l’occasione autobiografica per mettere a fuoco il “redde rationem” che ci sbatte in faccia la vita facendoci arrancare o sui sentieri della fantasia, che può essere un’ancora, o su quelli che le circostanze ci offrono, fiori freschissimi da porre davanti al ritratto di un uomo malato di anni e gravido di malinconie e di adolescenziali turbamenti. L’attore Axler si accorge di aver perso «la sua magia», di non saper più recitare. Roth descrive e non accenna minimamente alla metafora. Non ne ha bisogno, lui dribbla sempre il tono didascalico. Lo facciamo noi lettori, però: c’è davvero un periodo dell’età matura in cui sentiamo che la nostra “recita”non regge più, che non è più credibile, un tempo in cui non si sa bene dove andare, avendo il passo non tanto incerto ma dolorosamente critico. È un’artrite mentale prima ancora che ossea. La star teatrale ammette con se stesso il «crollo monumentale». Il suo Macbeth, fino a poco

chiatrica gli offre l’occasione di ascoltare la tragica storia di una donna che, un anno dopo, sarà in grado di trasformare il lamento in azione (non come Amleto), sia pur drammaticamente estrema. La vita privata di Axler viene poi scombussolata quando incontra di nuovo Pegeen, la quarantenne che lui vide neonata, attaccata al seno di una sua collega e amica. Un quasi incesto, pare dirsi con la memoria che guarda all’indietro.

Attraverso i sentieri che disegnano l’oscuro e complicato mondo segreto, sentimentale e sessuale, il mattatore rimasto solo, senza salute, senza lavoro e senza moglie, cerca di ribaltare gusti e vita di una donna che ha venticinque anni meno di lui. E Pegeen pare felice nell’abbandonare la propria omosessualità e l’aspetto trasandato e maschile, e si tuffa in una parte assolutamente diversa.

molteplici rappresentazioni di se stesso. Si ricorda il coraggio della donna ascoltata a lungo nella clinica psichiatrica e sceglie quella vita reale come ultimo copione da recitare. In tremenda solitudine.

Roth, nel romanzo intitolato Il fantasma esce di scena affronta un tema simile quando descrive il suo amato Zuckerman – personaggio che ha attraversato una gran parte della sua opera – mentre pensa di essere fuori dalla splendida schiavitù del desiderio sessuale. Ma anche in questo romanzo una circostanza con le sembianze di donna lo riporta indietro, lo spintona crudamente verso quella contabilità intima che ogni uomo non riesce ad evitare, quale che sia l’età. E allora Zuckerman, come ebbe a dire Roth in una delle rare interviste, si trova ad affrontare l’eccitazione, riflettendo sul «desiderio inappagato, che è qualcosa di bruciante e molto triste». E ancora, a conferma di un sotterraneo autobiografismo: «Mi soddisfa l’idea di poter ancora scandalizzare, pensavo di aver perso la magia, in questo campo». È la stessa perduta magia

dell’attore-personaggio. «È vero, agli scrittori succede sempre. A me, di solito, capita all’inizio di un libro o tra un libro e l’altro. E anche se non senti di perderla, ne hai comunque paura». Ci sono alcuni malevoli critici (anche del New York Times) che sottolineano i temi «sporcaccioni» dell’ultimo Roth romanziere. Per il gusto della battuta, qualcuno l’ha definito «il Proust della prostata». È fin troppo facile ribattere che il discorso attorno al sesso è indubbiamente verità – come lo è nell’età matura: chi può negarlo in tutta coscienza? – ma è anche la brutale (ma mai rozza) sintesi di un discorso sull’uomo che lancia continue occhiate alle tombe di parenti e amici ed è costretto ad accettare il triste assioma secondo cui «la vecchiaia non è una battaglia, ma un massacro». L’età avanzata non è un sereno picnic, è un tormento che spesso si cela dietro maschere sociali. Roth lo scrive chiaramente in un altro suo bellissimo romanzo, Everyman. A un agguerrito critico che gli rimprovera sempre di indulgere sul sesso, Roth risponde: «È un grande tema. Lo era in Madame Bovary e in


cultura

16 marzo 2010 • pagina 19

Nei suoi ultimi lavori sono assenti gli echi dell’11 settembre

Fuori dal mondo, alla ricerca del suo tempo «Il crollo delle Torri mi ha interessato solo come cittadino, ma come città in crisi, New York è tornata a ispirarmi» di Antonio Funiciello er un’intera generazione di americani, chiedersi «dov’eri quando hanno ammazzato Kennedy?» è stato uno degli approcci più usati. È finito anche in un film come Harry ti presento Sally, nella scena in cui Billy Crystal racconta di una fidanzata più giovane che, alla domanda, risponde: «Perché? Ted Kennedy è morto?». Si sa, lo scarto generazionale... Dopo l’11 settembre 2001, i fatti del 22 novembre 1963 sono passati in secondo piano, e il nuovo approccio è diventato «dov’eri quando sono cadute le Torri Gemelle?». Philip Roth era a New York, come raccontò nel 2002 in una lunga chiacchierata con Le Figaro. «Mi ero fermato dopo l’ultimo libro, L’animale morente, che mi aveva lasciato esausto... Ero incapace di cominciare un libro nuovo, non avevo più linfa. Così decisi di andare a New York... il 10 settembre! Dovevo restare qualche giorno, giusto per ricaricarmi le batterie».

P

Nell’intervista, il racconto di Roth prosegue piano e ci dice, di lui, molto più di quanto non facciano spesso i suoi libri, nei quali lo scrittore di Newark si diverte a sviare il lettore alla ricerca di tratti caratteriali o ispirazioni autobiografiche nelle pieghe delle storie. «L’indomani (l’11 settembre, n.d.r.) sono andato alla piscina di un circolo e lì ho saputo cos’era successo al World Trade Center. Sono andato a fare il bagno lo stesso. Evidentemente avevo incassato lo choc, come tutti, ma senza rendermi davvero conto. Era un po’ come quando la navetta spaziale Challenger cadde dal cielo. Poi sono sceso per strada e ho visto fiumi di persone che risalivano i viali verso nord, gravi, silenziose. Lì, ho capito. In seguito, ho vagato per le strade, come avevo fatto nel 1963 dopo l’assassinio di Kennedy. Alla fine, sono rimasto per mesi a New York, dove ho ancora un appartamentino. Per me New York era tornata interessante perché era di nuovo una città in crisi». Eppure Roth non è tornato nei romanzi degli ultimi anni su quei fatti. Più volte ha dichiarato che l’11 settembre è qualcosa che gli interessa come cittadino, non come scrittore. A differenza di lui, altri maestri della narrativa contemporanea nordamericana hanno scelto di riflettere letterariamente su quanto accaduto. Ad esempio Don DeLillo, che ne L’uomo che cade (2007) ha fermato l’annichilente quotidianità di un sopravvissuto al crollo delle Torri e la routine di un terrorista pronto al martirio. O John Updike con Terrorista (2006), nel quale il brillante romanziere wasp ha provato a mettere a confronto il nichilismo occidentale del co-protagonista del suo romanzo con la lucida follia omicida di un giovane terrorista che pianifica un attentato. Dall’11 settembre, viceversa, Philip Roth si è tenuto alla larga - lui che pure ha fatto della riflessione sulla storia americana della seconda metà del secolo passato l’ambiente di riferimento di tutte le sue storie, con tanto di abili incursioni nella seconda guerra mondiale. Non solo nel Complotto contro l’America (2004), dove ha immaginato la nazistizzazione degli States seguita alla vittoria alle presidenziali del ’40 dell’antisemita Charles Lindeberg contro

Franklin D. Roosevelt. Ma anche in romanzi come Il teatro di Sabbath (1995), uno dei suoi capolavori, in cui il marionettista Mickey Sabbath odia quei giapponesi che vanno occupando settori chiave del sistema-paese americano, perché gli hanno ammazzato il fratello in guerra. E non riesce a razionalizzare questo odio in nessun modo, affidandosi piuttosto completamente a esso e ad altri che cova in sé, al punto da esserne divorato.

Nulla di paragonabile accade oggi, con un Roth a cui l’attualità politica non dice niente. Così, nei sei romanzi pubblicati negli ultimi otto anni (compreso The Nemesis, il suo trentunesimo, che uscirà tra poco in America e ritorna agli anni del secondo conflitto mondiale) al massimo si è concesso un’escursione temporale negli Stati Uniti dei primi anni Cinquanta, in Indignazione (2008). Anche ne L’umiliazione, da pochi giorni nelle librerie italiane, l’attualità non entra minimamente. E c’è da chiedersi davvero se sia la realtà quotidiana a essere diventata poco attraente per lo scrittore avviato verso gli ottant’anni o non sia lui che, occupato da altri pensieri, se ne disinteressa, spacciando per indifferenza un’aperta ostilità verso un’America che non gli piace più. Di recente i giornali italiani sono stati oggetto di una querelle rothiana unica al mondo. A fine novembre 2009, in un’intervista a Libero, Roth sentenziava aspramente contro Obama, come aveva d’altronde fatto con lo stesso giornalista (Tommaso Debenedetti) due mesi prima sul Quotidiano nazionale. Eppure quindici giorni fa, rispondendo alle domande di una giornalista di Repubblica, Roth ha smentito ogni cosa, esibendosi in un elogio sperticato del Presidente e in una furente telefonata al suo agente, per riferire a Repubblica che «nell’agenda delle interviste passate e future non risulta né Libero né il nome dell’intervistatore». Peccato che di interviste di Tommaso Debenedetti a Philip Roth se ne recuperino facilmente sul web almeno una all’anno negli ultimi tempi (per altro, tra le più belle rilasciate dal grande scrittore).

Dietro l’apparente indifferenza si cela forse una semplice verità: l’America non gli piace più

Anna Karenina. Molti libri alla fine dell’800 parlavano di adulterio. Nel ‘900 Joyce comincia a descriverlo, vedasi la Molly dell’Ulisse, mentre Lawrence lo celebra».

A volte i romanzi di Roth diventano film. Lui spesso è stato sarcastico. Ha giudicato un disastro Lezioni d’amore, tratto dal suo L’animale morente, con una Penelope Cruz che «mostra il seno come un’odalisca, non come una che ha paura di vederlo mutilato dal cancro». I diritti di Umiliazione sono stati comprati da Al Pacino. Pare che Roth, conoscendo il talento dell’italo-americano, sia fiducioso. Ma senza accantonare il suo scetticismo. Ci piace, a questo punto, ricordare una frase di Pastorale americana: «Come penetrare nell’intimo della gente? Era una dote o una capacità che non possedeva. Non aveva semplicemente la combinazione di quella serratura». Ma Al Pacino, dice, è un bravissimo attore.

Esce anche in Italia “Umiliazione”, nuovo romanzo di Philip Roth (in alto a sinistra nella foto) Anche questa volta, come nei precedenti “L’animale morente” ed “Everyman”, lo scrittore americano medita su affanni e inganni dell’età matura

Ma Roth è così, e guai a chiedergli di cambiare. Il suo genio letterario si nutre da sempre della sua rabbia iniziale verso il mondo e i repentini cambi d’umore e di opinione ne sono soltanto una delle tante manifestazioni. È probabile che la sua disaffezione nei confronti della contemporaneità sia dovuta unicamente ai nuovi interessi estetici abbracciati, come il tema della morte, centrale nei due romanzi più belli tra i recenti - Everyman (2006) e Indignazione (2008) - come anche in questo ultimo, che pure appare più deludente. Non si può dire, insomma, che questo gigante della letteratura contemporanea stia invecchiando male. Semplicemente la sua prosa, per tenere viva quella tensione dialettica priva di sintesi che anima tutta l’opera rothiana, ha scelto di sostare su temi più essenziali e con l’uomo Roth, settantasettenne il prossimo 19 marzo, alle prese col tempo che passa. Perché il tempo che passa, del suo scorrere inesorabile, interroga tutti. Figuriamoci quello che oggi resta, probabilmente, il più grande scrittore in circolazione.


cultura

pagina 20 • 16 marzo 2010

proposito della Storia di Elsa Morante, Giovanni Raboni ebbe a dire che si trattava del «romanzo di chi ha sognato un romanzo». La frase ci è tornata in mente leggendo Acciaio, opera narrativa d’esordio della venticinquenne Silvia Avallone. Non perché si possano stabilire paragoni tra i due mondi; ma perché sfogliando le pagine di questo libro appena edito da Rizzoli si capisce che l’autrice ha accarezzato a lungo, che ha fortissimamente voluto e appunto immaginato a occhi aperti il suo Romanzo. E lo ha immaginato anche come forma di sublimazione di certe realtà sociali e psicologiche che deve conoscere o ricordare fin troppo bene: quella della Piombino delle acciaierie Lucchini e dei quartieri popolari, quella di un’adolescenza che si rivela lotta darwiniana senza scampo.

sta per noi il suo maggior fascino) riesce a restituire paragrafo dopo paragrafo il “sentimento del tempo” che scivola via in apparenza vuoto e insensato, ma anche presago e fatale. È questo un tempo irriducibile ai “fatti”- è il tempo subliminare nella cui rappresentazione fu maestro un narratore delle stesse zone in cui è cresciuta Silvia Avallone: e parliamo ovviamente di Cassola.

A

Nel quartiere di casermoni desolati e abbacinanti in cui vivono le due protagoniste tredicenni, Anna e Francesca, sembrano infatti raccogliersi tutti i liquami fisici e spirituali di un’Italia incancrenita e privata ormai d’ogni speranza di liberazione collettiva. È l’Italia in cui i giovani operai non possono che vedere negli ultimi militanti di sinistra degli «sfigati»; l’Italia in cui gli uomini disoccupati o dequalificati si ritrasformano in bestie da tribù, aggrappandosi da un lato a motori e cocaina e dall’altro alle scommesse più improbabili, a quei progetti irreali e kitsch che infettano i ceti lasciati alla mercé di un contagio televisivo senza argini culturali di diverso genere. In un simile microcosmo al tempo stesso crudele e dozzinale, gli organismi ancora malleabili delle due ragazzine vengono sottoposti al trauma di una doppia e opposta attrazione, lacerati a ogni passo dagli impulsi di ribellione e conformismo. Se Anna, con entusiasmo sano e perfino pedagogico, si convince di poter redimere questa realtà, la passiva ed efebica Francesca (molestata da un padre di cui è acutamente descritto lo psichico buco nero) ha come sola àncora di salvezza l’energia dell’amica. E il momento decisivo sarà quello in cui quest’àncora coinciderà col desiderio di un impossibile amore omosessuale: di lì le sorti si divideranno, e contro le speranze di gloria pubblica della ragazza solare si staglierà il furore autodistruttivo della sua gemella ombrosa e respinta, pronta a lasciarsi catturare nel giro dei più sordidi locali della costa. Ma accanto alla loro storia, e si direbbe pelle contro pelle, si dipanano poi le vicende degli operai che fanno l’acciaio: quella di Alessio (il fratello di Anna) e quella di Mattia, quella di Cristiano e de-

Libri. Da Rizzoli arriva “Acciaio”, il romanzo d’esordio di Silvia Avallone

Anna e Francesca, due “gemelle diverse” di Matteo Marchesini gli altri giovani adulti avviluppati in un mondo di fatiche stordenti oltre cui non resta tempo che per l’oblio, per la miserabile ricchezza dei gadget tecnologici o sessuali. Proprio nelle descrizioni di quella città a parte che è la fabbrica, Silvia Avallone ci dà alcune delle sue pagine migliori: dove la tentazione di estetizzare il mondo del lavoro, riassorbendolo nel vitalismo sensuale che pure permea quasi ogni scenario (l’altoforno come le discoteche, gli accumuli di alghe come i furti di rame) è di continuo riequilibrata dallo scrupolo nomenclatorio con cui l’autrice si muove tra siviere e billette, tra carroponti e rulli autotrasportatori.Tuttavia sarebbe un erro-

Qui sopra, la copertina del primo romanzo di Silvia Avallone “Acciaio” (Rizzoli). In alto, un disegno di Michelangelo Pace

re pensare di poter ridurre questa narrazione a un romanzo di duri «corpi, fabbriche e sentimenti», come recita la fascetta che accompagna il volume. Perché l’Avallone ha progettato con ferrea volontà una dialettica interna ben più complessa: dove alla pennellata insistentemente “fisica” della lingua fa da contraltare la secca, razionalistica geometria costruttiva di ruoli e situazioni virate quasi all’apologo.

Se alla solarità talvolta edificante di Anna s’oppone il nero mutismo di Francesca - così come nelle rispettive famiglie un dramma agrodolce s’oppone a una patologia tragica - non va dimenticata nemmeno la funzione di chi può solo guardare dall’esterno o in limine il ring della suprema lotta darwiniana: è la distanza che suggerisce lo sguardo della bruttina e intelligente Lisa, è il balbettio della paralitica Donata a consentire alla narratrice di allargare anche tecnicamente lo sguardo sul fenomeno dell’«età potenziale», e quindi di giudicarne con maggior sobrietà certi miti ancora vicinissimi ai suoi. Ma c’è di più. Acciaio si nutre anche della specularità, dei cortocircuiti e dei misteriosi intrecci che si creano tra una realtà materialissima e ormai quasi rimossa dai media (la periferia italiana del lavoro manuale, dei non-luoghi di stordimento in cui stagnano masse di giovani senza prospettive) e l’ambientazione storica collo-

L’opera racconta la tormentata amicizia di due amiche. E può esser letta come una storia di “voyeurismi” tra spiaggia e finestra... cata a cavallo tra 2001 e 2002, cioè proprio nel momento in cui i postumi dell’attentato alle Torri Gemelle e la trasformazione dei fatti di cronaca in mostruosi grandi fratelli televisivi ci ha precipitati più che mai in quello stato definito dal filosofo Mario Perniola come un perenne «presentismo»: ossia lo stato in cui una comunicazione al di là del vero e del falso genera poi effetti tangibilmente perversi sulla vita quotidiana. Ma Perniola osserva anche che la derealizzazione comunicativa può inglobare tutto fuorché la morte vicina, propria, privata. E appunto alla più prevedibile e assurda, alla più attuale e inattuale delle morti ci mette di fronte il romanzo: cioè a quella che visita ogni giorno le fabbriche italiane sotto forma di incidenti molto simili a omicidi. C’è infine un’ultima dialettica su cui vorrei insistere, perché ci aiuta a circoscrivere la vocazione dell’autrice. Da una parte Acciaio si regge su una esibita teatralizzazione degli eventi (ed è il romanzo sognato o montato “americanamente”), ma dall’altra (e qui

Non a caso Acciaio potrebbe esser letto in gran parte come una storia di sguardi, di voyeurismi quotidiani tra spiaggia e finestra, tra asfalto e balconi: ecco subito all’incipit un padre morboso col binocolo in mano, ecco due ragazzine che si divertono a provocare gli inquilini di fronte con un languido spogliarello, ecco due operai palestrati e strafatti che osservano dalla Tolla la fabbrica intera e il porto... Prendete un passo come questo, riferito ad Anna (nome cassoliano quant’altri mai): «A lei piaceva guardare le cose. Le piaceva soffermarsi sui particolari. I davanzali erano zeppi di roba: piante rinsecchite, scarpe, pentole appena lavate e messe ad asciugare. Non si vedeva il mare, da qui. Si vedevano i pezzi d’intonaco scrostati, gli spunzoni di ferro arrugginiti che venivano fuori come unghie dai piloni di cemento armato». O soffermatevi sui sinistri pensieri che sorprendono Alessio proprio in quello che dovrebbe essere un momento di guascona sventatezza di gruppo: «Nessuno fuori lo sa, ma sotto, in certi capannoni, specialmente alle mense, ci sono comunità di gatti enormi, centinaia di gatti. Non hanno mai visto la luce del sole, non hanno idea di cosa sia un filo d’erba. Sono delle specie di mutanti (...) Gli sembrava incredibile che nel ferro, nella ghisa potessero vivere». Ecco: vorremmo invitare l’autrice a non abbandonare in futuro la sua evidente capacità di cogliere una durée psicologica e oggettuale non trasformabile in fiction. In questo libro d’esordio ricchissimo, onesto e pieno di tensioni, il suo sogno ha comprensibilmente dovuto pagare anche un piccolo prezzo a certe idee strutturali che confermano l’intuizione berardinelliana secondo cui il romanzo d’oggi, da genere letterario, si è trasformato soprattutto in «genere editoriale». Ma l’Avallone ha esplorato questa prima officina disponibile con tale acribia e rigore che già nei prossimi anni sarà pronta a sognare un sogno tutto suo. Intanto, con Acciaio, può vantare una narrazione di rara densità; che è anche un singolarissimo reportage scritto sul confine un piede dentro e uno fuori - di un’Italia da ristudiare con urgenza a ogni livello.


sport

16 marzo 2010 • pagina 21

Fantasisti. Il suo vero nome è Emmanuel Dapidran Pacquiao, fa il pugile e ha appena stravinto un match contro il ghanese Clottey

“Pacman”, l’idolo delle Filippine di Francesco Napoli

aranno almeno un paio di anni che il generale Gaudencio Pangilinan sta cercando di venire a capo della guerriglia nell’isola filippina di Mindanao, agendo militarmente e in maniera spietata contro un gruppo di estremisti islamici, probabilmente gli stessi che un paio d’anni fa rapirono padre Giancarlo Bossi o quelli che l’anno scorso misero in atto lo stesso tipo di azione andando a rapire tre operatori della Croce Rossa Internazionale. Eppure qualche giorno fa non ne ha voluto sapere niente. Si è seduto comodamente in poltrona nel suo ufficio e ha chiamato amici e colleghi per fargli compagnia.

S

Il suo idolo di sempre stava andando in onda e non poteva certo perdere quel match. Era già convinto in cuor suo che il suo pugile preferito aveva la vittoria in tasca, così come è convinto di averla lui nella battaglia all’estremismo indipendentista di Mindanao. Intanto a Dallas, terra di epici scontri nella boxe, Emmanuel Dapidran Pacquiao, detto più familiarmente Manny Pacquiao, classe 1978, si preparava a difendere il titolo dei pesi walter contro Clottey Joshua, del Ghana. Mentre Gaudencio si apprestava a vedere lo spettacolo, quei pochi che cercavano di richiamare l’attenzione sulla difficile situazione del momento, sull’impegno di fronte all’avanzata islamica nell’isola Mindanao, venivano da lui adeguata-

mente tacitati. «Riprenderemo l’offensiva quando il match sarà finito - ha detto ai suoi più stretti collaboratori - e siamo sicuri che anche i nostri nemici faranno lo stesso». Così Pacquiao, detto “Pacman” o anche una cosa tipo “Orgoglio Combattente delle Filippine”, non solo aveva davanti un avversario da vincere ma anche l’onore di avere per un momento dato tregua ai tormenti della sua nazione, facendo sospendere a parti unificate la lotta in corso. Ora: le cronache riportano del suo facile successo davanti a un Clottey particolar-

Per seguire l’incontro, il generale Gaudencio sembra abbia addirittura interrotto un’offensiva contro alcuni estremisti islamici, ma soltanto per la durata della sfida

mente remissivo che prima di tutto cercava di non buscarle, al punto che Pacquiao l’ha dovuto sollecitare a combattere, ma non ci dicono se ci sono stati o meno episodi di guerriglia in barba alla tregua pugilistica. Fatto sta che si sa come Bartali impedì una rivoluzione sociale in Italia all’indomani dell’attentato a Togliatti (ma sarà vero?), si sa come i governi italiani in cattive acque in termini di consenso sperino nello stellone della nostra Nazionale di calcio, ma di quanto è accaduto nelle Filippine durante l’incontro di Dallas mica sapremo granché. Pacquiao il suo però l’ha fatto, e

A fianco, un’immagine del pugile filippino Emmanuel Dapidran Pacquiao detto “Pacman”, diventato uno degli idoli più amati nella sua patria. In alto, uno scatto del recente match disputato lo scorso 13 marzo in Texas, contro il boxeur ghanese Joshua Clottey

bene. Ha stravinto e meritatamente, lui che è nato in quell’isola così martoriata, che ha iniziato la sua carriera pugilistica all’età di 16 anni, come peso minimosca, ma di pugni ne sapeva già qualcosa, poiché ha disputato il suo primo vero incontro per strada, per difendere il fratello più piccolo aggredito da due bulli. Aveva appena 10 anni e tra primi allenamenti in palestra e le corse per potenziare il fisico, quando era libero vendeva sigarette in strada per aiutare la madre a racimolare qualche soldo. Ha continuato con caparbietà, arrivando a un record forse difficilmente eguagliabile: è stato il primo pugile a vincere sette titoli mondiali in sette differenti categorie di peso. Nel giro ha molte amicizie e la tradizione pugilistica del suo paese l’aiuta. Così mentre altrove la stella di questo sport non a caso denominata all’origine noble art sta tramontando e le federazioni non hanno grandi risorse, Pacquiao ha trovato appoggi e solidarietà, ripagate dalla brillante carriera che sta portando avanti. Ogni mattina, allora, si sveglia con la voglia di sempre. Chiama il suo

cane, Pacman il nome, naturalmente, e scende molto presto in strada per iniziare a faticare. E il povero quattro zampe che lì, dietro di lui sbuffa di continuo, stenta a tenergli il passo, vorrebbe forse anche fermarsi ogni tanto per i suoi bisognini, ma con il padrone che si ritrova non ci sono molte speranze, almeno fin quando Manny non arriva alla palestra per l’allenamento tecnico sul quadrato e con i guantoni. Solo allora il fido Pacman tira un sospiro di sollievo. Nel poco tempo libero Pacquiao pare sia in grado di regalare un discreta audience ai talk show e agli spettacoli della televisione filippina.

Questo naturalmente avviene quando è sul ring, ma avendo conservato un viso ancora abbastanza intatto viene più volte chiamato a presentarsi davanti alle telecamere e con microfono alla mano canta. Andate a leggere i corrispettivi filippini del settore periodici di intrattenimento televisivo e di gossip per credere. Dicono anche che sia una discreto attore, ma questo non lo si riscontra neppure nei succitati periodici. Ha un’altra dote Emmanuel: conosce diversi politici, si dà molto da fare per migliorare le condizioni della sua gente e ha già dichiarato che una volta giunto al termine della sua carriera scenderà in campo per darsi alla politica. Nell’universo-mondo di ex qualcosa in politica ce ne sono un po’ dappertutto, speriamo che almeno lui non vi giunga troppo suonato.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Ennesimo oltraggio: foibe invase da rifiuti e spazzatura di ogni genere Un comportamento da sanzionare. Sono scandalizzato e dispiaciutodallo spettacolo delle foibe invase, nel Carso triestino ma non solo, da rifiuti e spazzatura di ogni genere. È obbligo dello Stato, oltre che della Regione che si sta già muovendo per ripristinare la legalità, tutelare questi posti di sofferenza e testimonianza di tragici fatti, dove la storia si è consumata a scapito dei diritti. Le foibe devono restare un monito per le future generazioni, come per i luoghi degli eccidi di altre ideologie. Esistono non soltanto misure di sicurezza per impedire deturpamenti o atti vandalici ma anche una corale condivisione alla loro tutela, allo stesso modo si deve prevedere un servizio di vigilanza che salvaguardi questi reperti storici da comportamenti illeciti e da azioni che possono inficiare il significato. Il rischio è quello di vedere sparite le foibe che, in futuro, potrebbero essere annoverate come semplici spazi di raccolta-rifiuti, o simili, cancellando la memoria storica e gli eccidi che sono stati perpetrati. I discendenti degli infoibati e degli esuli hanno già difficoltà nel far sentire la loro voce, incontrano già ostacoli nelle richieste di intitolazione di vie e piazze dedicate ai loro martiri, e adesso devono subire l’ennesimo oltraggio di vedere deturpati quei luoghi di massacro.

Ferruccio Saro

L’ITALIA DEI NO No alle centrali nucleari, no ai rigassificatori, no alle centrali a combustibili fossili, no alle discariche, no ai termovalorizzatori e così via negando. Questo è il triste panorama che si ha dell’Italia sentendo e leggendo i vari proclami bipartisan dei candidati alle prossime regionali di marzo, dove sembra che il vero vincitore sarà chi dimostrerà di negare meglio. A questo punto la domanda sorge spontanea: «Cari amministratori e negazionisti, ma come pensate di procurarvi l’energia per vivere?». Sarebbe facile fare appelli alle nuove bellissime e molto trendy energie rinnovabili, senonché le stesse hanno due problemi pratici e innegabili, ossia possono soddisfare solo una piccola quantità dell’enorme fabbisogno energetico nazionale e sono costosissime. E proprio su quest’ultimo aspetto

che vorrei far riflettere chi, in questo periodo di crisi, cerca di tranquillizzare l’opinione pubblica promettendo misure e pacchetti anticrisi. Il costo del conto energetico che stiamo pagando ha i suoi tragici effetti proprio su quelle categorie che si vorrebbero tutelare con le sopra menzionate misure anticrisi, ovvero la piccola e media industria, il ceto medio sempre meno medio e sempre più povero e infine le classi più disagiate. Ci vorrebbe maggiore onestà intellettuale e ammettere che un tale surplus di costi non ce lo possiamo permettere e rimettere le mani su un nuovo e più efficace piano energetico che comprenda un più equilibrato mix energetico, fatto di nucleare, gas, idroelettrico, eolico e solare. Negare il nucleare magari potrebbe far conquistare qualche voto in più in questo mare magnum di disinformazio-

Le rughe del tempo “Stropicciate” dal tempo, sono vecchie come i continenti. I faraglioni e le scogliere delle Ebridi Esterne, al largo della costa occidentale della Scozia, sono un frastagliato promemoria delle forze immani che hanno separato l’Europa, il Nord America e la Groenlandia quando - 60 milioni di anni fa - si è formato l’Oceano Atlantico.

ne, ma nel lungo periodo si ripercuoterebbe con maggior gravità nel nostro già dissestato tessuto economico-sociale.

Gianni Pettinari

DECISIONE DEL CDA Grazie al cielo per un poco di tempo il martedì e giovedì sera e a volte anche il mercoledì e venerdì, non dovremo spegnere la tv per non vedere programmi infami come Anno zero e Ballarò. Perché, ed è bene che si sappia, Rai-Italia trasmetteva questi pro-

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

grammi tre volte! Spiace per Porta a porta, un programma serio che tra l’altro veniva trasmesso raramente e ad orari impossibili. Speriamo che Santoro, il suo pseudo giornalista, il conduttore di Ballarò ed il suo pseudo comico, se ne vadano in vacanza e non ritornino mai più. Adesso pagheremo con piacere il costoso canone di oltre cento euro mensili, e non annui, con la speranza di vedere programmi degni della cultura e del buon gusto italiano.

Giuseppe Morgana Paterno

da ”Newsweek” del 11/03/10

Spioni nel taschino di Michael Isikoff i si lamentava dell’era Bush e delle intercettazioni che, per motivi legati alla caccia ai terroristi, potevano essere fatte anche senza l’autorizzazione preventiva di un magistrato. Oggi, sembra che stia accadendo di peggio, tanto da aver scatenato una piccola rivolta nell’opinione pubblica americana. I procuratori che si mettono a cercare dati sensibili per la privacy all’interno dei tabulati delle compagnie telefoniche, non piaciono più tanto. Si tratta dei collegamenti alla rete internet, fatta dai cellulari, che darebbero la posizione esatta dell’utente nel momento dell’ingresso nel web. In alcuni casi è possibile farlo in tempo reale. Le autorità federali affermano che sono utili per tracciare i percorsi effettuati da trafficanti di droga, di esseri umani e amministratori corrotti, ma molti magistrati federali che hanno il compito di rilasciare le autorizzazioni per queste attività hanno cominciato a sollevare dei dubbi. Alcuni giudici degli Stati di New York, Pennsylvania e Texas hanno avuto da ridire. Insomma, ci si è domandato quale sarebbe l’autorità, da quale legge deriverebbe la possibilità di tracciare gli spostamenti delle persone. Il problema ora è diventato il nocciolo di un duro scontro tra il dipartimento di Giustizia dell’amministrazione Obama e le organizzazioni per le libertà civili più libertarie. E non è l’unico fronte aperto nella guerra alla difesa della privacy. Si va dall’accesso ai contenuti delle e-mail, ai dati bancari e a quelli delle carte di credito. I federali oggi possono acquisire tutte queste informazioni. Ma il tracciamento dei cellulari è il più recente e, secondo molti, più invasivo metodo con cui il governo metterebbe

C

il naso nella vita dei cittadini americani. Una vicenda che evoca il Grande Fratello di orwelliana memoria, nella testa di molti cittadini statunitensi. Quanti dei 277 proprietari di cellulari sono a conoscenza che le compagnie telefoniche come la At&t, Verizon e Sprint sono in grado di tracciare i loro movimenti in tempo reale? L’operazione è resa possibile sia dalla presenza di una specie di gps interno all’hardware, sia dal fatto che un cellulare in movimento transita da una cella all’altra, lasciando traccia del passaggio. Nelle more del dopo 11 settembre 2001, la Commissione federale sulle comunicazioni aveva reso disponibili questi dati agli investigatori dell’Fbi. Poi come spesso succede nella routine investigativa dell’Fbi e di altre agenzie, si è cominciato ad operare in autonomia, senza la richiesta preventiva inoltrata al magistrato. Anche se il dipartimento della Giustizia si è difeso affermando che esiste una netta differenza tra il tracciamento cellulare e i dati gps e non produce statistiche su questo tipo di intercettazioni. Ma da fonti legali vicine a molte compagnie telefoniche si conferma che le richieste sono «diverse migliaia ogni mese».

E il numero sarebbe cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni. Tanto che Sprint-Nextel ha dovuto creare un sito dedicato agli agenti federali, in maniera da farli accedere direttamente ai dati che gli interessano. Un fatto emerso a Washington, durante una conferenza sulla sorveglianza elettronica nell’otto-

bre scorso. Un portavoce della Sprint ha confermato la notizia, spiegando che solo dopo una procedura di verifica dell’identità, a un agente federale viene consegnata la password per poter accedere al portale. Ci sono pochi dubbi che queste informazioni siano un’arma micidiale per il lavoro delle agenzie investigative. E non si contano i casi risolti grazie a questa particolare tecnica. Dal grosso traffico di droga agli omicidi, sono veramente tanti i casi in cui il tracciamento cellulare è stato l’elemento determinante nella risoluzione di un caso investigativo. Ma ci sono motivi anche per temere. Secondo gli uffici legali di alcune compagnie telefoniche ci sarebbero stati già degli abusi a livello locale. Secondo alcuni esperti non saremmo che all’inizio, si sarebbe solo messa in luce la parte più superficiale degli abusi, che grazie anche a una legge del 1986 – la Stored communications act – è possibile acquisire questi dati senza eccessive difficoltà da parte degli organi inquirenti (che negli Usa sono separati dalla magistratura).


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Carissima Birichina, senza te è un inferno Carissima Birichina: ti mando queste poche righe, così avrai qualcosa da leggere stasera. Contavo che stamattina arrivasse la posta, ma niente. Forse sarà per stasera. Credo che sia troppo presto per le lettere spedite via nave e devo essere paziente. Birichina, dovrai soltanto aver fiducia per quanto riguarda la scrittura. So che l’avrai. Sai, penso di aver messo da parte il novanta per cento di questa città e tutto il divertimento che offre per godermelo in tutta la mia vita con te. Se soltanto potessimo vivere insieme questi giorni invece di ammazzarli nell’attesa del tuo arrivo. Sono stato in casa invece di uscire a cena perché pensavo potesse arrivare la posta. Invece niente. E poi ero sicuro, sicurissimo che ce ne fosse stamattina. Doveva essercene. Oggi è il diciassettesimo giorno e tu hai imbucato il dodicesimo. Ma indovina? Non è arrivata nessuna lettera. Ti prego, scrivimi Birichina. Se dovessi farlo per lavoro, lo faresti. È un inferno senza di te e resisterò ma mi manchi da morire. Se ti capitasse qualcosa morirei un animale dello zoo se succede qualcosa al suo compagno. Ti amo tanto mia adorata Mary, e sappi che non sono impaziente ma solo disperato. Ernest Hemingway alla futura moglie Mary Welsh

LE VERITÀ NASCOSTE

Arbitri in campo (di concentramento) PECHINO. Alzi la mano chi, fra i nostrani tifosi di pallone, non ha mai sognato di vedere un arbitro con la zappa in mano dopo una decisione dubbia.Visto che, onestamente, siamo rimasti tutti con le mani abbassate ecco arrivare dall’Oriente una notizia che non può che fare piacere: dopo uno scandalo legato alla corruzione, oltre duecento ufficiali del calcio cinese, tra arbitri e impiegati, sono stati condannati a lavorare in un “Campo di rieducazione anti-corruzione”. In pratica, un lager; o, per meglio dire nell’idioma locale, un laogai. Secondo quanto riportato dal Beijing Youth Daily, i partecipanti al campo - che avrà la durata di cinque giorni - dovranno seguire corsi e lezioni anti-corruzione e dovranno alla fine anche sostenere un esame.«La rieducazione degli arbitri - ha detto Wei Di, capo dell’Associazione Football cinese (CFA) - è una parte importante della campagna anti corruzione in corso». «Se qualcuno di loro ha fatto qualcosa di sbagliato - ha proseguito Wei - dovrà immediatamente restituire il denaro percepito illegalmente. Spero che possano confessare di propria iniziativa per non perdere la possibilità di salvarsi». Gong Jianping, l’unico arbitro ad aver ammesso di aver pilotato una gara, fu condannato nel 2003 a dieci anni di carcere per poi morire mentre era detenuto, 18 mesi più tardi. Anche il predecessore di Wei, NanYong, e l’ex capo della commissione arbitri, Zhang Jianquiang sono tra i venti (tra arbitri, allenatori e giocatori) arrestati per corruzione negli ultimi mesi. La campagna contro la corruzione è uno dei leitmotiv dell’attuale governo, guidato dal probo Hu Jintao. Sconvolta da un annuale numero imprecisato di manifestazioni sociali - alcuni parlano di circa 100mila proteste ogni 365 giorni - il governo cinese sa bene che le requisizioni forzate e l’appropriazione indebita di denaro sono fra gli argomenti più sensibili per la cittadinanza. Il calcio, che nonostante la poca fama ha molta risonanza in Cina, non è esente dalla questione: gli scandali arbitrali hanno esacerbato l’animo dei tifosi. Ed ecco che, dopo aver fischiato una volta di più, agli arbitri toccano le vanghe.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

ELEZIONI E INFORMAZIONE Così come messa dai maggiori media, sembrerebbe che la Commissione parlamentare di vigilanza, che ha approvato un regolamento per regolare le trasmissioni radiotelevisive in campagna elettorale, abbia vietato “talk show politici”. Non è così. Basterebbe leggere il regolamento per rendersene conto e in particolare l’articolo 3, comma 2: «Nelle tribune politiche, nei dibattiti, nelle tavole rotonde, nelle presentazioni in contraddittorio di programmi politici, nei confronti, nelle interviste e in ogni altra trasmissione nella quale assuma carattere rilevante l’esposizione di opinioni e valutazioni politiche è assicurata parità di condizioni nell’esposizione di opinioni e posizioni politiche». Inoltre, all’art. 9 si dice:«Le Tribune politiche sono collocate negli spazi radiotelevisivi che ospitano le trasmissioni di approfondimento informativo più seguite, anche in sostituzione delle stesse, o in spazi di analogo ascolto». Il che significa che il regolamento non impone la sospensione dei programmi informativi, ma prevede la possibilità di variare il palinsesto per inserire delle tribune elettorali. Quindi il regolamento prescrive, in campagna elettorale, la parità, la par condicio, cioè quei criteri adottati nel garantire un’appropriata visibilità a tutti i principali partiti e/o movimenti politici, poiché le emittenti radiotelevisive devono assicurare a tutti i soggetti politici l’accesso all’informazione. Altro discorso è l’applicazione del regolamento da parte dell’Agcom e della Rai: se lo hanno applicato in modo scorretto, sono loro che devono fare marcia indietro non la Commissione parlamentare.

Primo Mastrantoni

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Direttore da Washington Michael Novak

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Collaboratori

Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,

Roberto Mussapi, Francesco Napoli,

Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

Mario Arpino, Bruno Babando,

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

John R. Bolton, Mauro Canali,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

Franco Cardini, Carlo G. Cereti,

Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,

Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,

Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,

UNIVERSITÀ DELLA BASILICATA, MOTORE PROPULSORE DI RICERCA E SVILUPPO Bene l’idea di finanziamenti aggiuntivi da parte del governo regionale lucano. Sono molto soddisfatto per la promessa di finanziamenti aggiuntivi all’indirizzo dell’Università degli Studi della Basilicata da parte del governo De Filippo. Il giovane ateneo lucano ha saputo mostrare, nel corso di pochi anni, efficienza sotto l’aspetto della ricerca scientifica, dello sviluppo culturale e delle iniziative promozionali a sostegno del territorio. Accogliamo con larga soddisfazione la promessa del presidente De Filippo in merito ai finanziamenti aggiuntivi all’Università lucana, motore propulsore di ricerca e crescita. Intendo esprimere la gratitudine di tutto il movimento giovanile dell’Udc del Mezzogiorno al coordinatore regionale dottor Agatino Mancusi, il quale ha supportato tale lodevole decisione del governo regionale uscente e, in particolar modo, del presidente uscente De Filippo, motivo in più per sostenerlo con convinzione in questa tornata elettorale. Il mondo giovanile, dunque, esulta per la scelta della massima istituzione regionale di finanziare ricerca e sviluppo attuati dall’Università della Basilicata: «Finalmente assistiamo alla messa in atto di politiche giovanili e in favore del diritto allo studio serie e concrete dopo tanti proclami fasulli esternati solo per meri fini propagandistici». UN RINGRAZIAMENTO AI GIOVANI DI TRANI Vorrei ringraziare tutti i giovani di Trani per la grossa mobilitazione all’interno del partito. Stimo molto il vostro operato al servizio della comunità tranese. Vi ringrazio per la vostra squisita disponibilità per il bene, per la crescita e lo sviluppo del

progetto politico-culturale dell’Udc. L’entusiasmo coinvolgente, la tanta voglia di fare e la sana bontà emerge chiaramente dal vostro dinamismo culturale, organizzativo e politico: siate sempre l’esempio concreto e costante di un attivismo incisivo, basato sulla solarità giovanile che ci caratterizza, avendo come obiettivo il raggiungimento di risultati proficui. Proseguite lungo la strada dell’impegno puro, della dedizione appassionata, dello stare insieme amichevolmente per tagliare traguardi importanti. Sergio Adamo U D C- MO V I M E N T O GI O V A N I L E ME Z Z O G I O R N O

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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