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Questa è la regola negli affari: «Fatela agli altri, perché loro la farebbero a voi» Charles Dickens
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 18 MARZO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Duello a distanza sulle ricette per uscire dalla recessione. E di fronte alle domande e alle critiche, il governo risponde con i soliti slogan
La paura e l’arroganza Il governatore al Parlamento europeo:«Attenti,la ripresa è fragile».Il superministro alla Camera: «Tutto va bene».E tratta con sprezzo le mozioni delle opposizioni.Casini:«Sotto gli spot,non c’è niente» di Errico Novi
Oltre il berlusconismo: a proposito di “Generazione Italia”
Il Pdl è tutto da ripensare (finché si è in tempo) di Gennaro Malgieri on è possibile che ogni qualvolta si prova a discutere nel Pdl sulla sua consistenza politico-culturale, sulla sua organizzazione, sul suo futuro si spalanchino sempre scenari apocalittici. L’orrore del vuoto s’impossessa di anime pure gentili e prudenti le quali si vedono immerse nelle fiamme della dissoluzione se soltanto un qualche “distinguo”emerge dalle file dell’ex- Alleanza È sbagliato nazionale, maconfondere gari ispirato il dissenso dalle prese di posizione di politico Gianfranco Ficon la lotta ni. E’ un limite di potere insuperabile questo di rifiutarsi alla discussione, di aprirsi alla dialettica, di accettare il contrasto e magari tentare vie per ricomporre il tutto come si faceva una volta nei partiti veri e seri i quali, per quanto litigiosi, trovavano comunque i modi ed i tempi per venire a capo di questioni che apparivano insanabili. Se il presidente della Camera introduce nella discussione temi che, per quanto dirompenti, non è possibile negare facendo finta che non esistono, è a dir poco un “traditore”.
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segue a pagina 8
ROMA. Due ricette oppo-
di Francesco Pacifico
di Alessandro D’Amato
La crisi? Non è passata. La rispresa? Se c’è, è debolissima. Mario Draghi parla al Parlamento europeo e non usa mezzi termini: «La risalita dell’economia è disomogenea, debole in Europa, ancora fragile ovunque». Insomma, l’ottimismo è la medicina peggiore, in questo momento in cui servirebbero regole certe per evitare ulteriori rischi.
«L’Italia ha superato la crisi prima e meglio degli altri»: Giulio Tremonti usa uno slogan che si è già sentito ovunque, nei discorsi del governo. Per lui le difficoltà del paese sono già alle spalle. Tutto merito del governo, ovviamente, e della sua oculatezza nell’impedire eccessivi sforamenti di bilancio. Insomma, nessuno spazio alle critiche, ma solo arroganza.
ste per due crisi: una è ancora in corso e una è finita da tempo. Stanno agli antipodi, Mario Draghi di fronte al Parlamento europeo e Giulio Tremonti di fronte a quello italiano. Non è solo una questione di ottimismo o pessimismo: nell’analisi delle ragioni (e delle ricette) della crisi c’è una diversa impostazione di fondo. Al punto che il dibattito tanto a lungo evitato dal governo, ieri alla Camera si è trasformato in un processo alla maggioranza. Era la prima volta, dall’inizio della crisi economica, che Tremonti accettava il confronto. Ma confronto non c’è stato, poiché il Superministro ha usato il suo solito tono sprezzante nei confronti degli oppositori. Dal leader dei centristi Casini è arrivato l’attacco alla solita politica degli annunci, alla politica-spettacolo: «Perché poi sotto agli spot non c’è niente».
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Una volta di più due visioni alternative della crisi
Il realismo L’ottimismo di Draghi di Tremonti
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Il Quirinale sul “caso Trani”
Alfano-Csm: Napolitano cerca pace
«Rispetto per l’indagine e per gli ispettori», il presidente cerca di mediare. Berlusconi: «Ora indaghi Roma» Francesco Capozza • pagina 6
Settemila addetti, 130 sedi, un bilancio faraonico. E forse un’accademia a Firenze
Ue, il carrozzone delle ambasciate Parte una nuova ondata di spartizioni burocratiche: senza politica estera di Enrico Singer i chiamerà Seae, Servizio europeo per l’azione estera. Sarà tenuto a battesimo lunedì prossimo dal Consiglio dei ministeri degli Esteri dei Ventisette che si riunirà a Bruxelles con un solo punto all’ordine del giorno: discutere i dettagli della nuova struttura. La madrina sarà Catherine Margaret Ashton, baronessa di Upholland che, da poco più di due mesi, è Alto rappresentante per la politica estera della Ue. E quando sarà a regime - dovrà dire la sua anche l’Europarlamento - potrà contare
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seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XV •
su settemila diplomatici divisi in più di cento ambasciate in giro per il mondo, con un bilancio che ancora non è definito, ma che sarà di diversi miliardi di euro. È la grande macchina della politica estera comune europea che si mette in moto. Finalmente, si potrebbe dire. Ma è anche un mostro a più teste perché ognuna delle capitali dei Paesi più importanti non vuole rinunciare alla sua autonomia di giudizio e di azione sulle principali questioni internazionali. a pagina 14
NUMERO
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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«La situazione migliora molto lentamente: la recessione non è finita»
Il realismo di Draghi «Una ripresa piccola piccola» «Le banche sono ancora deboli. E mancano regole e controlli» Il discorso del Governatore davanti al Parlamento europeo di Francesco Pacifico
ROMA. Prima ha confermato che «la ripresa è ancora fragile». Quindi ha spiegato che se non si passa dalla moneta unica a un «governo dell’economia», l’Europa può implodere. Mario Draghi non ha lesinato fendenti per risvegliare dal suo turpore una Ue che ormai non è più in grado di decidere su nulla, fossero i destini della Grecia o i paletti agli hedge funds. E lo ha fatto ieri mattina a Bruxelles davanti a un pubblico molto sensibile – la Commissione economica dell’Europarlamento – che ha ascoltato il numero uno di Banca d’Italia (e del Financial Stability Board) con molta apprensione. Perché il discorso del governatore contiene in sé un monito di natura politico, prima ancora che economico. Che il mondo della vigilanza da tempo ripete ai governi: senza nuove regole e camere di confronto, non basteranno la liquidità della Bce per uscire dalla crisi. Superando un dibattito durato quasi trent’anni – e ingessato in locuzioni come “Direttorio”, “Europa a due velocità” fino all’inflazionato “Pigs” – Draghi ha spiegato che nell’eurozona «occorre arrivare a un governo economico più forte, in cui la disciplina si estenda dal bilancio alle riforme strutturali». Controlli sulla finanza pubblica e gestione dell’economia. Guarda caso la stessa proposta che Jacques Delors lanciò invano in fase di stesura del Trattato di Maastricht. In questa chiave Draghi ha finito per fare sua la considerazione di Angela Merkel che la Ue è l’unico club esclusivo al mondo al quale è vietato cacciare i membri restii a rispettare le regole interne. A precisa domanda di un cronista, il banchiere ha risposto che «per i comportamenti devianti, anche sul piano strutturale, aumenterei non solo il costo economico di queste deviazioni, ma anche il costo politico». Ma per farlo, va da sé, serve un governo dell’economia. Proprio la fragile ripresa che caratterizzerà il 2010 spinge a un salto di qualità su questo versante. «Per portare a termine le riforme volte a creare una nuova architettura finanziaria» queste devono essere «coordinate a livello internazionale. E non possono essere concordate né attuate senza il sostegno di tutti i leader politici nazionali e di quelli che sono nella posizione per prendere le decisioni finali». Di conseguenza non deve sorprendere un diplomatico incoraggiamento a trovare una soluzione per
Atene. La quale prima ancora della speculazione sul suo debito paga «una crisi di bilancio. E il pilastro su cui intervenire per la gestione di questo tipo di crisi è l’impegno diretto e immediato». Solo allora i mercati potranno reagire, «riducendo lo spread immediatamente». A ben guardare, un Draghi sempre ligio a rispettare le competenze altrui, finisce anche per dettare l’agenda alla politica europea. Intanto fare ogni sforzo per «conservare un mercato finanziario integrato globalmente perché è prerequisito di crescita», senza però farsi piega-
Per l’Europa il numero uno di Bankitalia suggerisce la nascita di «un governo economico che si occupi sia di vagliare i bilanci sia di fare le riforme strutturali» re dalle «pressioni che intendono diluire il rigore degli standard e delle regole concordate». Quindi, non meno urgenti sono le «riforme per regolare e rendere più trasparente una parte sostanziale dei mercati dei derivati», riducendo le possibilità di divenire canali di contagio. E la cosa ha tutto un peso diverso dopo che l’Ecofin di 48 ore fa ha rinviato la stretta sugli strumenti speculativi. In questa logica Draghi ha chiesto l’istituzione di una centrale di controllo unica, una «clearing house», per il commercio mondiale dei famigerati Credit default swaps (Cds). «Non mi meraviglierei di vedere la creazione di una clearing house europea, ma allora dovrebbe essere basata sull’euro, nell’eurozona». Come dire che non bastano quelle istituite nella city londinese.
PIù in generale, il governatore ha spiegato che sono tre le «parole chiave» per riformare la finanza: «La prima è sapere: abbiamo bisogno di chiarezza, visibilità, trasparenza, ma ci sono interessi precostituiti che non vogliono la centralizzazione del trading dei Cds, perché per molti traders questo vuol dire perdita di profitti». Quindi si deve «decidere gli standard, le norme di sorveglianza, quali sono i contratti accettabili e quali no, quali debbano essere gli oneri sul capitale». Infine la terza parola è «concorrere», spingendo anche sotto questa leva le realtà della finanza a essere più virtuose. Sarà stato il tema dell’audizione – “La strategia post crisi e la modernizzazione dell’architettura finanziaria globale” – oppure l’essere a Bruxelles soprattutto nei panni di presidente del Financial Stability Board, fatto sta che Draghi ha citato l’Italia soltanto una volta. E lo ha fatto parlando della Grecia, per spiegare che «tutti possono farcela, anche senza creare istituzioni speciali», proprio come il Belpaese che nel 1991 visse «una crisi di bilancio ben peggiore di quella ellenica e in un momento nel quale non c’era grosso sostegno internazionale». Di conseguenza quando ha parlato di ripresa «non omogenea», «ovunque fragile e debole», non si riferiva all’Italia, ma direttamente a tutta l’Europa. Il che non può far tirare un sospiro di sollievo a Roma, ben sapendo come la nostra economia è legata alle attività di import della Germania. Per la cronaca ci ha pensato ieri la Ue a tratteggiare scenari cupi sul Belpaese quando, per superare l’atavico gap di produttività, ha suggerito di «mettere in atto una strategia di bilancio che gli permetta di correggere il deficit eccessivo e di ridurre il debito, oltre a riformare la sua procedura di bilancio e le regole sul federalismo fiscale».
Draghi invece ha ammesso che una delle cause principali di questa ripresa tanto flebile, sta nella qualità del credito. Che non è dei migliori. «Quasi tutte le banche», ha spiegato il numero uno di Bankitalia, «sono sulla strada della risoluzione dei loro problemi di finanziamento, ma i loro bilanci restano ancora esposte a elementi di fragilità, legati soprattutto allo stato della ripresa economica». Ma guai a usare questa condizione come un alibi per non «iniziare a discutere di exit strategy» dalle politiche di debito.
Una crisi per due
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18 marzo 2010 • pagina 3
Rispondendo a Montecitorio il superministro minimizza e tratta con sprezzo l’opposizione
L’ottimismo di Tremonti «Meglio di noi, nessuno»
«L’Italia si è trovata in una crisi di dimensioni gigantesche, in balia di forze più grandi di lei. Ma è falso dire che non abbiamo fatto niente» di Alessandro D’Amato
ROMA. «Signor presidente, onorevoli colleghi: vi sono grato per questa opportunità di dibattito». Sono passate le 18 da qualche minuto quando un Giulio Tremonti grintoso e ironico, come suo solito, si presenta al dibattito alla Camera sulla crisi economica: «Siamo un paese che non si può governare con il Piccolo Chimico, l’Italia si è trovata in una crisi di dimensioni gigantesche, in balia di forze più grandi di lei», dice ad un certo punto, e si fa persino scappare che «si può dire che non si è fatto abbastanza», ma soltanto perché è comunque falso che “non si è fatto niente». Ma soprattutto, e questo è il suo argomento più forte, con gli altri si sarebbe fatto molto, molto peggio. E infine, boccia senza appello, prima del voto scontato di Montecitorio, tutte le mozioni presentate dall’opposizione, fornendo parere favorevole soltanto a quelle della maggioranza.
Prima di tutto, le mozioni a cui ha dovuto rispondere il ministro: i documenti sono stati presentati dall’Idv, dal Pd, dall’Udc, dal MpaSud, dall’Api e dal Pdl. Il partito di Di Pietro chiedeva di raddoppiare la durata della cassa integrazione ordinaria da 52 a 104 settimane e le detrazioni fiscali per carichi familiari. Da aumentare anche le detrazioni per i redditi da lavoro e da pensione stabilendo al 20% la prima aliquota dell’Irpef. L’Idv chiedeva anche di sostenere finanziariamente le piccole e medie imprese, gli artigiani e i commercianti assumendo tutte le necessarie iniziative. Il Partito Democratico puntava a mettere sotto controllo e riqualificare la spesa per acquisti di beni e servizi, a chiudere la stagione dei condoni e a riavviare la lotta all’evasione. Poi la richiesta di un piano nazionale anti-crisi ad impatto di breve periodo per spingere la domanda interna, sia i consumi delle famiglie che gli investimenti delle imprese attraverso misure una tantum.Tra le proposte anche quella di adottare un’indennità universale di disoccupazione pari al 60% dell’ultima retribuzione per coloro che non dispongono di ammortizzatori o che hanno una copertura troppo bassa. L’Udc chiedeva la riforma strutturale della previdenza, della Pubblica amministrazione e delle liberalizzazioni, iniziative per un sistema di agevolazioni fiscali per i nuclei familiari con figli riconsiderando l’opportunità di procedere all’avvio progressivo del quoziente familiare. Tra le proposte anche iniziative
volte ad alleviare il peso del cuneo fiscale che grava su imprese e lavoratori.
Per l’Mpa è necessario modificare profondamente le politiche nei confronti del sud avviando una inversione di rotta sul piano degli investimenti economici e finanziari restituendo al Mezzogiorno, in modo progressivo ma in tempi certi le risorse sottratte negli ultimi anni. Per l’Api, Rutelli punta alla riforma della pubblica amministrazione e a varare riforme strutturali che puntino al rafforzamento dell’integra-
«Dopo il crollo, caduta la polvere, per molti Paesi il futuro sarà diverso dal passato. Ma noi abbiamo due grandi forze: il risparmio e la seconda manifattura in Europa» zione europea. La maggioranza invitava il governo a proseguire nelle politiche di controllo della spesa e di salvaguardia dei conti pubblici avviando al contempo una graduale riduzione della pressione fiscale, anche in vista del federalismo. Il processo di riforma fiscale si deve completare entro il 2013 ed in parte dovrà essere autofinanziato. Bisogna anche continuare nella lotta all’evasione e alla elusione fiscale che ha portato alle casse dell’Erario pubblico, negli ultimi due anni, 16 miliardi di euro. Bisogna anche riqualificare la spesa pubblica dando maggiore trasparenza agli strumenti contabili rilanciando l’economia del Mezzogiorno attraverso un diverso utilizzo dei fondi comunitari. Comincia proprio dalle mozioni critiche, Tremonti: «Sono quattro
mozioni che hanno in comune l’accusa di immobilismo, l’alternativa è cambiare. Ma non è vero che non abbiamo fatto niente, e dire che tutto è stato fatto male è statisticamente fallace, oltre che politicamente ossessivo. In 22 mesi almeno una cosa giusta l’avremo più fatto». Il ministro parla delle garanzie sui depositi bancari, dello Stato nel capitale delle banche e dell’ampliamento dei fondi di garanzia. Ricorda gli ammortizzatori sociali, la riduzione dell’Irap, l’introduzione dei bonus per l’auto, il credito d’imposta. Enumera le riforme strutturali: «Il nostro sistema previdenziale è tra i più solidi: guardando al futuro, dobbiamo pensare ai giovani ma anche agli anziani non autosufficienti». Ricordando poi che la politica del governo Berlusconi negli organismi istituzionali è considerata positiva e prudente. «Siamo stati irremovibili sulle cose che non si dovevano fare», aggiunge, rivendicando il rigore nei conti pubblici. Con l’avventurismo deficista o il costruttivismo economico altrui sarebbe andata molto peggio, dice poi il ministro riferendosi alle soluzioni in deficit spending proposte, a suo parere, dall’opposizione. Anzi, non fidandosi di quel tipo di soluzioni «Abbiamo evitato di essere la causa e l’epicentro della crisi», dice. Poi, soffermandosi sui “tanti numeri” citati dagli altri, ricorda che la situazione specifica dell’Italia (il terzo deficit del mondo senza avere la terza economia del mondo) non permetteva di fare molto altro. E che la situazione vale per tutta l’Europa, dove «ci saranno ancora sorpassi, ma fatti in retromarcia», dice riferendosi ai numeri del Pil.
«Dopo il crollo, caduta la polvere, la crisi dimostra che per molti altri Paesi il futuro sarà diverso dal passato, e non migliore perché la manifattura è meglio della finanza, perché il risparmio è meglio del debito e perché la flessibilità è meglio della rigidità», dice poi ricordando che l’Italia ha il anche «due forze: il risparmio e la seconda manifattura in Europa dopo la Germania». Chiede poi una specifica sessione parlamentare sull’evasione fiscale, per rispondere alle accuse di essere stati troppo morbidi con gli evasori che vengono dall’opposizione. «Noi abbiamo coraggio, ma non siamo incoscienti», dice tra gli applausi della maggioranza. «Non so se è possibile l’Italia che immagina lei, onorevole Bersani, so soltanto che non è preferibile».
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Sfide. Benedetto Della Vedova, Alessandro De Nicola e Giacomo Vaciago analizzano i discorsi del Governatore e del ministro
Meglio Mario che Giulio
Come giudicare le ricette di Draghi e Tremonti? I conti italiani sono in rosso, ma nei momenti difficili «non si vive di soli numeri» di Gabriella Mecucci
ROMA. Mario Draghi non consente facili ottimismi. Il suo intervento davanti al Parlamento europeo richiama tutti a fare i conti con una ripresa che in Europa è «debole e disomogenea», mentre i bilanci delle banche continuano a mostrare la loro «fragilità». Il Governatore non lascia spazio alla strategia del tutto va bene, inaugurata da tempo da Berlusconi. Una diagnosi impietosa la sua, sulla quale concorda pienamente Giacomo Vaciago: «Il peggio è finito - spiega - ma il meglio non s’intravede. La ripresa è fragile in un sistema vulnerabile». Per la verità le cose non vanno dappertutto così: «L’Asia è ripartita alla grande e la Cina ha ricominciato a correre, addirittura troppo», quanto agli Usa nel quarto semestre è stata registrata una crescita del 5,9. «Non è osserva Vaciago - moltissimo, viste le robuste iniezioni di danaro fatte dalla mano pubblica, ma si tratta comunque di una ripresa importante. E la situazione sta migliorando anche in America del Sud».
L’Europa però nel suo insieme va male: «Pessime le condizioni di di Grecia, Spagna, Portogallo e anche l’Italia ha fatto un -5, il risultato peggiore del dopoguerra». Per la verità anche «la Germania non riprende». Chi se la cava invece «abbastanza bene è la Francia». Vaciago spiega che Sarkozy ha ottenuto questi risultati perchè ha avuto il coraggio di fare «scelte impopolari». «L’Eliseo infatti ha investito sui migliori: ha preso le dieci università eccellenti e le ha finanziate, mentre alle altre non ha dato nulla. Stessa cosa l’ha fatta con i settori industriali e con le aziende: ha puntato su alcuni e non su altri». Muoversi in questo modo naturalmente provoca parecchio scontento, almeno in una prima fase, ma aiuta la ripresa. «Berlusconi - osserva Vaciago - preferisce invece ricevere applausi, non sopporta l’impopolarità, e questo significa non scegliere». Strano paese l’Italia in cui «sia che governi la destra sia che lo faccia la sinistra la spesa pubblica cresce, e le tasse stanno ai livelli
Perché ha ragione Draghi a lanciare l’allarme e ha torto Tremonti ad accentrare la gestione statale
L’ottimismo non basta più, bisogna liberare il mercato di Carlo Lottieri ifficile dare torto al governatore Mario Draghi quando afferma (l’ha fatto anche ieri, intervenendo al Parlamento europeo) che «la ripresa è disomogenea, debole in Europa, ancora fragile ovunque». E se si può certamente discutere su alcune delle soluzioni che suggerisce, a partire dall’introduzione di una «regolazione centralizzata del mercato dei derivati», è pur vero che il senso autentico della sua riflessione muove da alcuni elementi che non c’è modo di contestare.
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scita del Vecchio Continente. L’Europa è infatti un universo caratterizzato da altissima tassazione e da una regolamentazione pervasiva. In questo quadro, la capacità reattiva delle imprese appare assai limitata.
In primo luogo, i dati. Quanti continuano a inneggiare all’ottimismo, quasi nella convinzione che quando si ha una grave malattia sia sufficientemente convincersi di star bene per guarire alla svelta, si rifiutano di osservare le fotografie che periodicamente vengono diffuse sull’economia globale e, più in particolare, sulla realtà europea e italiana. Non c’è dubbio che i dati statistici sono sempre parziali e imperfetti, ma quando ogni fonte ci parla di meno occupazione, meno fatturato, meno investimenti e via dicendo, non ha senso fingere di essere nel migliore dei mondi possibili. D’altra parte, lascia intendere Draghi, sarebbe strano che la crisi si fosse dissolta, dato nessuno ha messo mano alle sue cause più strutturali. Senza dimenticare che questa crisi, come avviene in ogni situazione di difficoltà, non ha fatto altro che enfatizzare i vizi più antichi di molte economie, a partire dal modello renano, che oggi è particolarmente di ostacolo alla cre-
Un discorso ancor più specifico merita l’Italia che, nonostante quanto affermato a più riprese dal ministro Giulio Tremonti, non sta affatto attraversando la crisi meglio di altri. Al responsabile del dicastero dell’Economia va riconosciuto il merito di aver resistito alle richieste di molti colleghi che avrebbero voluto aprire i cordoni della borsa. Adottando uno stile sparagnino, Tremonti ha evitato che i danni fossero maggiori, ma al tempo stesso non ha fatto nulla per aggredire le logiche che soffocano l’Italia, per tagliare l’imposizione fiscale, per favorire la mobilità dei capitali e l’internazionalizzazione delle nostre imprese. Al contrario, uno dei suoi impegni maggiori sembra proprio in direzione opposta, nell’illusione di costruire un nazionalismo neo-colbertista che porti il governo a gestire l’insieme dell’economia: attraverso l’infittirsi di regole, la lotta all’economia finanziaria, la creazione di istituti bancari pubblici, la crescente pressione sui Paesi a bassa imposizione fiscale. Seguitando lungo questa strada, l’ottimismo è destinato a rivelarsi del tutto irrazionale anche in rapporto alle prospettive. Tanto più che l’arretramento registrato nel 2009 dall’economia italiana non giunge dopo un periodo di crescita, come nel caso di altre realtà, ma segue una lunga fase di stasi sostanziale. Se altri indietreggiano dopo essere avanzati per anni (si pensi all’Irlanda), noi regrediamo dopo aver perso innumerevoli opportunità. Ancora una volta è bene che i dati siano presi per quel che sono. E se ad esempio consideriamo il cuore geografico dell’economia italiana, la Lombardia, è necessario registrare che a febbraio la cassa integrazione straordinaria è aumentata del 583 per cento rispetto al febbraio dell’anno prima, mentre la cassa in deroga riguarda oggi 150 mila lavoratori impiegati in ben 22.500 aziende. Non sono numeri da ripresa in atto: si tratta semmai di un bollettino di guerra che proviene proprio dal cuore produttivo del Paese, dall’area in cui il rapporto tra economia privata ed economia pubblica è maggiormente sbilanciato a favore della prima. Sia chiaro: il problema non sono i sorrisi a trentasei denti e l’ottimismo a tutti i costi. Il guaio è che a ciò non s’accompagna alcuna vera riforma nel segno del mercato e a favore delle imprese private. Tutto quello che si fa è varare la Banca del Sud…
più alti». Mentre Sarkozy sceglieva e investiva, da noi ci si limitava «a soccorrere con la cassa integrazione i lavoratori espulsi e ad aiutare un po’ tutti i settori industriali. Poco, ma a tutti: in modo che nessuno si lamenti». Insomma, l’esempio francese è molto diverso da quello che fanno Trremonti, Scajola e Gelmini. Draghi ieri ha insistito anche sulla necessità delle riforme, ma per il momento non se ne vede l’ombra. «In Italia – interviene Vaciago – la prima cosa da mettere in cantiere sarebbe quella di cambiare la Pubblica Amministratore: siamo l’unico paese in cui la diffusione di internet ha comportato una diminuzione di produttività». La verità è che «questo è un governo di destra che fa politiche di sinistra». C’è un paese, molto forte e potente, che però va male quanto noi: è la Germania. «È vero – osserva Vaciago - ma ha un tale potenziale di quantità e qualità che può attendere, quando riprenderà l’export, i tedeschi saranno infatti i primi a giovarsene». Anche noi italiani «ce ne avvantaggeremo: le nostre aziende sanno lavorare bene e reggono il confronto sui mercati internazionali, ma per il momento siamo fermi. Aspettiamo che l’economia riparta altrove».
Ma se Vaciago si schiera con la severità di Draghi, piuttosto che con l’esibito ottimismo di Berlusconi, Benedetto Della Vedova, economista, parlamentare del Pdl, dà un giudizio opposto. Per lui il bicchiere «è ben più che mezzo pieno». «Aggiungendo metafora a metafora, il governo ha mostrato una capacità non scontata di condurre il naviglio attraverso la tempesta verso un porto sicuro». Secondo Della Vedova, «Tremonti ha respinto l’idea, anche oggi rilanciata dalla sinistra, di rispondere alla crisi aumentando la spesa pubblica, un modo di procedere che avrebbe avuto effetti scarsi, se non nulli, sulla caduta della produzione». Un giudizio positivo, quindi, quello di Della Vedova, che però non gli impedisce di sperare, subito dopo le elezioni regionali, in un cambiamento di rotta: «Ha ragione Tremonti che l’economia la fa l’economia, ma i governi possono mettere il sistema produttivo in condizione di lavorare e competere meglio». Della Vedova vorrebbe un maggior dinamismo
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Casini: «Sotto gli spot, niente» Alla Camera l’opposizione «processa» la politica economica del governo sulla crisi di Errico Novi
ROMA. «Ma chi pensate di prendere in giro?». Il ruggito vigoroso di Sergio D’Antoni scuote l’aula non proprio torrida di Montecitorio. Da mesi non c’è un dibattito sulla crisi, ora che finalmente il ministro dell’Economia lo concede gli esponenti dell’opposizione tuonano con tutta l’energia accumulata nel frattempo. Montecitorio almeno stavolta non assomiglia a una catena di montaggio per l’approvazione di decreti. Pd, Udc e Italia dei valori presentano le proprie mozioni senza fare sconti al governo. E in qualche modo sono incoraggiate dall’atmosfera non distesissima che aleggia appena fuori dall’entrata principale della Camera, dove la Cgil è riunita in presidio con i lavoratori dell’ex Eutelia. Da lì i delegati del sindacato avvertono che «la crisi economica non è affatto alle spalle», in suggestiva sintonia con il governatore della Banca d’Italia. Poi aggiungono: «Bisogna chiudere la fase dei rinvii e passare al varo di provvedimenti concreti». E soprattutto «serve una nuova politica industriale: non è possibile assistere passivamente alla riduzione così drastica del peso dell’industria nel nostro Paese». E questo è un tema che torna nella mozione del Pd (tutti i partiti d’opposizione rappresentati alla Camera hanno presentato la propria, compresa l’Api di Francesco Rutelli e l’Mpa di Raffaele Lombardo, sempre più in rotta con la maggioranza). Non è un caso che Pier Luigi Bersani prenda la parola davanti al drappello della Cgil, per dire innanzidell’esecutivo in quattro direzioni: welfare, tasse, legalità, infrastrutture. Altrimenti succede come «quando vai in bici, se stai fermo cadi». Quindi, «è tempo di muoversi all’attacco». Le riforme devono partire «dall’innalzamento dell’età pensionistica». Quanto alle tasse «occorre agire in termini di limatura: da un lato più benefici di detrazioni a chi le paga, dall’altro incentivi alla produttività». Sulla spesa pubblica «andrebbe ripreso il libro verde di Padoa Schioppa nella parte riguardante i tagli
tutto che «finalmente dopo molti mesi siamo riusciti a ottenere una discussione sulla situazione reale del Paese». Ecco, è questo il segno della giornata: un sollievo, unao scampolo di dialettica in mezzo a lunghi mesi di gestione monocratica delle misure anti-crisi da parte di Tremonti. Un segno di parziale riapertura. Non è un caso neppure che lo stesso Pdl senta il bisogno di depositare e illustrare nel dibattito in aula una propria mozione: c’è il sostegno alle politiche di «controllo della spesa» attuate finora dall’esecutivo, ma anche l’auspicio per una «graduale riduzione della pressione fiscale, anche in vista del federalismo». È lo spiraglio lasciato aperto per non reprimere del tutto il dissenso verso Tremon-
berale come Benedetto Della Vedova arriva a dire che «si deve scommettere sul fatto che il Pdl riemerga dalla crisi con un profilo di innovazione, è la sua condanna, ma se si continuerà a giocare in difesa finisce come quando uno è in bici: se stati fermo cadi, non esistono posizioni di equilibrio. E dietro l’angolo c’è l’erosione a favore della Lega». In aula il Pd affida al pugliese Francesco Boccia l’esposizione del proprio documento, in cui si chiede al governo di impegnarsi su cinque obiettivi: «Indennità universale di disoccupazione al 60 per cento, allentamento del patto di stabilità interna per i comuni, sanzioni alle amministrazioni che non pagano entro 120 giorni i debiti con i fornitori, rafforzamento del
«Subito le riforme strutturali e sconti alle famiglie», chiede l’Udc nella sua mozione. Anche il Pd invoca interventi sul fisco «per distinguere tra rendite e redditi», oltre a «un’indennità di disoccupazione al 60 per cento» ti nel partito di maggioranza. Dissenso, o almeno insoddisfazione, a cui non è estraneo Berlusconi, dicono i suoi, e che il premier vorrebbe tanto veder risolta prima del voto regionale.
Ambizione destinata a restare sospesa, quella del presidente del Consiglio. A meno che Tremonti non ceda a quello che assomiglia sempre più a un’accerchiamento. Perché appunto se le opposizioni chiedono di smetterla con l’immobilismo, anche dalla maggioranza un li-
selettivi». Tremonti dovrebbe poi - sempre secondo Della Vedova - riprendere la politica delle privatizzazioni e lavorare a ridurre il gap produttivo».
A metà fra i due analisti precedenti si colloca Alessandro De Nicola, presidente del centro Adam Smith. «La severità di Draghi - osserva - è giusta se si tiene conto che la ripresa in atto è veramente molto fragile. Dopo una recessione, si è sempre assistito a ripartenze più brillanti di questa. Quella che
fondo di garanzia per le piccole e medie imprese». Ma anche per i democratici «la sfida delle sfide è la riforma fiscale: e noi siamo pronti a collaborare a patto che il governo non si limiti alla gestione del debito pubblico, ma intervenga sulle tasse distinguendo tra redditi da capitale, patrimoni mobiliari e immobiliari da un lato e redditi da lavoro e da impresa dall’altro».
Non sono parole vibranti come quelle di D’Antoni sul Mezzogiorno
Ieri alla Camera, per la prima volta da quando è inziata la crisi economica il ministro Tremonti ha risposto ai leader politici sulle scelte del governo. Dure critiche sono arrivate da Pier Ferdinando Casini come da Bersani, Di Pietro e Tabacci
tradito, ma evocano comunque una scossa rispetto alla placida attesa di Tremonti. Pier Ferdinando Casini prova ad adottare un altro sistema per risvegliare il ministro dell’Economia (duramente contestato da Massimo Calearo dell’Api, che ha preteso «attenzione») e gli dice di «smetterla con gli spot», che finiscono solo per mascherare l’inerzia. È questo il richiamo ricorrente sia nell’intervento conclusivo del leader centrista sia nella mozione del suo partito, di cui è primo firmatario e che viene illustrata da Mario Occhiuto: «Non ci si può limitare ad attendere che la crisi passi, gli annunci e le social card non servono, è ora di interventi strutturali». A cominciare dalla previdenza e dalle liberalizzazioni. È ora, avverte il deputato dell’Unione di centro di «iniziative coraggiose», a cominciare dall’introduzione «in tempi rapidi di un sistema di agevolazioni fiscali per i nuclei familiari con figli, riconsiderando l’opportunità di procedere all’avvio progressivo del quoziente familiare». Altrettanto urgenti sarebbero «azioni per alleviare il peso del cuneo fiscale che grava sulle imprese e sui lavoratori» e provvedimenti per il «rafforzamento patrimoniale dei confidi, in modo da consentire ai piccoli imprenditori di ottenere i finanziamenti necessari per fare investimenti e creare occupazione». E ancora «una moratoria per gli studi di settore» e un «vero piano per il Sud». Abbastanza per costringere Tremonti a rivedere la tattica del catenaccio?
abbiamo di fronte è invece proprio anemica». Per ottenere questo risultato, inoltre, «il deficit dello Stato è notevolmente aumentato, tantoché, qualora ci fosse una coda della crisi, non sapremmo dove andare a prendere i soldi per reggere». Di più: «Il rapporto deficit Pil è raddoppiato e dunque non possiamo che ridurlo, ma tagliare oggi la spesa, per quanto sia inefficiente e poco produttiva, significa deprimere ulteriormente una ripresina tanto poco vivace». Il bicchiere è insomma mezzo
vuoto. Per Berlusconi invece è mezzo pieno e De Nicola illustra le ragioni del premier: «Innanzitutto, nonostante una crisi tanto severa, il tessuto sociale ha retto meglio di altre volte». C’è poi un elemento psicologico, sul quale concorda anche Vaciago: il compito del capo del governo è anche quello di infondere ottimismo e coraggio. Insomma, dal punto di vista economico, Berlusconi ha torto e Draghi ragione. Ma non di sola economia economia vive l’uomo...
diario
pagina 6 • 18 marzo 2010
Giustizia. Continua lo scontro tra governo e Consiglio superiore della magistratura. Bersani: «Berlusconi non faccia la vittima»
Trani, Napolitano cerca pace
«Bisogna rispettare gli ispettori del ministero e l’inchiesta della procura» ROMA. Alla fine anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - dopo il suo vice a capo del Csm, Nicola Mancino - è intervenuto con una ferma messa a punto sulla polemica innescata dalla decisione di Palazzo dei Marescialli di aprire una pratica sugli ispettori mandati dal Guardasigilli a Trani. Decisione che aveva portato ad uno scontro con il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, che aveva parlato di violazione della Costituzione da parte del Consiglio superiore della magistratura. In una nota Napolitano, spiega che «la richiesta sottoscritta dalla gran parte dei membri del Consiglio per l’apertura di una “pratica”inerente l’ispezione disposta dal ministro della Giustizia presso la Procura della Repubblica di Trani non poteva discutersi, mancandone i presupposti, come apertura di una “pratica a tutela” qual è concepita nelle rigorose formulazioni di recente introdotte nel regolamento del Csm; ed è stata perciò correttamente assegnata alla VI Commissione, competente per questioni di carattere generale connesse a rapporti istituzionali».
Il capo dello Stato sottolinea che il Csm «può prendere in esame le relazioni conclusive delle inchieste amministrative eseguite dall’Ispettorato generale presso il ministero della Giustizia», ma non pronunciarsi preventivamente sullo
a tutela inseguito alla decisione di inviare gli ispettori a Trani era stata sottolineata non solo dal ministero della Giustizia ma anche da i consiglieri laici del Csm che si erano opposti alla decisione assunta a maggioranza dal Consiglio. Particolarmente combattivo Michele Saponara, che aveva tra l’altro denunciato il tentativo di «intimidire» Alfano. Poi, come Napolitano segnala nel-
Per il presidente, il Csm ha correttamente assegnato la pratica alla VI commissione, competente sui rapporti tra le istituzioni svolgimento di dette inchieste. Così come queste non possono interferire nell’attività di indagine di qualsiasi Procura, esistendo nell’ordinamento i rimedi opportuni nei confronti di eventuali violazioni compiute dai magistrati titolari dei procedimenti. «Il Csm - ha sottolineato Napolitano - può solo richiamare gli orientamenti generali circa i rapporti fra segreto di indagine e poteri dell’Ispettorato». Tali indicazioni sono d’altronde «ben chiare a chi svolge attività ispettiva per conto del Ministero della Giustizia e a chi dirige la Procura di Trani, che le ha infatti in questi giorni pubblicamente richiamate». L’anomalia della richiesta di aprire una pratica
la procura di Trani Carlo Maria Capristo a negare che vi siano stati contrasti con gli ispettori mandati da Alfano, con i quali - dice - c’è stato un clima di «leale collaborazione». Il procuratore ha poi precisato che «leale collaborazione significa il rispetto delle regole da parte di tutti». Il pm Michele Ruggiero ha invece ribadito come agli 007 inviati da Roma non sia stata dato alcun documento dell’inchiesta. «Tutto quello che gli indagati non possono conoscere, non lo possono conoscere nemmeno gli ispettori».
di Francesco Capozza
la sua nota, i vertici del Csm hanno riportato su binari “corretti”l’iniziativa dei consiglieri assegnando la pratica alla VI commissione.
La presa di posizione del capo dello Stato ha fatto seguito ad una nota di Nicola Mancino in cui si precisa che è stata scelta la VI Commissione consiliare e non la I, come pure era stato richiesto, proprio per «evitare di dare l’impressione di prendere posizione a tutela dei magistrati di Trani e contro gli ispettori ministeriali. Allo stato perciò non siamo di fronte ad una pratica a tutela aperta in seguito ad una presunta ma inesistente lite contro gli ispettori». È lo stesso capo del-
La richiesta dei legali del premier. Lite tra magistrati?
«Trasferite tutto a Roma» ROMA. Si respira un clima tesissimo all’interno dell’ufficio della procura di Trani dove nel pomeriggio di ieri si sono recati i legali di berlusconi Nicolò Ghedini e Filiberto Palumbo, per chieder di trasferire a Roma per competenza gli atti dell’inchiesta relativi al premier. Stando alle indiscrezioni rilanciate dal Corriere della Sera, il procuratore Capristo sarebbe stato sentito urlare contro il pm Michele Ruggero, il magistrato che fino a quattro giorni fa si è occupato delle indagini che hanno portato a inquisire il premier Silvio Berlusconi per concussione e minacce, il commissario dell’Authority Giancarlo Innocenzi per favoreggiamento e il direttore del Tg1 Augusto Minzolini per rivelazione del segreto d’ufficio. Il quotidiano di via Solferino riferisce di un procuratore capo infuriato: «Adesso basta - lo hanno sentito urlare segretarie, cancellieri e avvocati fino a molte stanze più in là -. Ma che credi di fare? Basta. Mi hai rotto il... chi ti credi di essere». In serata Ruggero ha poi af-
fermato ai giornalisti che assiepavano il cortile della procura di Trani che «l’indagine Rai-Agcom è coperta dal segreto investigativo che vale sia per gli indagati sia per gli ispettori». Va ricordato che Michele Ruggero è solo uno dei quattro pm che coordinano le indagini nella quale è indagato per concussione e minacce ai danni dell’Agcom anche il presidente del Consiglio Sil-
vio Berlusconi. Ruggero aveva preannunciato la decisione di opporre il segreto istruttorio agli ispettori conversando con i cronisti prima di essere ascoltato, ieri sera, dagli 007 di via Arenula, assieme al procuratore Carlo Maria Capristo.
A quanto sembra, nonostante Alfano apprezzi le parole di Napolitano e Mancino, sull’ispezione alla procura di Trani la tensione tra via Arenula e Palazzo dei Marescialli è nei fatti. Per Alfano, va ricordato, «piuttosto che aprire una pratica per controllare perché presso un ufficio giudiziario vi sia stata una gravissima violazione del segreto d’indagine, anzichè verificare come e perché il Presidente del Consiglio, ministri e parlamentari siano stati intercettati e le telefonate invece di essere distrutte siano state messe a disposizione dei giornalisti, anzichè investigare su come sia possibile che la competenza territoriale di questi fatti sia a Trani in palese violazione di legge, anzichè verificare come sia possibile un’accusa sortita contro il premier a pochi giorni dalle elezioni, il Csm apre una pratica sull’attività degli ispettori». E se da più parti si cerca di svelenire i toni c’è chi, come il segretario democratico Pierluigi Bersani, continua a non accettare quello che è venuto fuori dagli incartamenti e dalle intercettazioni. «Bisogna lasciare la tv agli spettatori - dice il leader del Pd - è desolante vedere un capo del governo che passa il suo tempo attorno a trasmissioni più o meno fastidiose che tutti i leader mondiali, naturalmente in paesi democratici, sono abituati a vedere». «È inutile - sostiene Bersani - che Berlusconi faccia la vittima, il problema è come fa il capo del governo. Lui fa il capopopolo, il caporedattore, il capo azienda...ogni giorno c’è un episodio diverso ma gira intorno al problema di come il premier svolge il suo lavoro. Ma il paese non può essere governato così da urla, dal frastuono e dalle promesse vacue che sentiremo nei prossimi giorni».
diario
18 marzo 2010 • pagina 7
Così la relazione della Commissione d’inchiesta. Soddisfatta la famiglia
Respinta l’azione legale contro la madre e gli amministratori
«Stefano Cucchi subì delle lesioni ma morì per disidratazione»
Margherita Agnelli perde la guerra per l’eredità
ROMA. «Siamo arrivati a conclusioni molto chiare: a Stefano Cucchi, probabilmente, sono state inferte lesioni traumatiche che non sono la causa diretta della morte che è avvenuta per disidratazione legata alla volontà di Cucchi di richiamare su di sé l’attenzione dei suoi legali e del mondo esterno». Così ieri pomeriggio Ignazio Marino, il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta in merito alla morte di Cucchi, ha riferito ai giornalisti al termine della riunione che ha approvato all’unanimità la relazione finale. Marino ha ricordato anche che la morte di Cucchi è dipesa, oltre che dalla disidratazione, «dall’eccessiva perdita di peso, 10 chili in 6 giorni». Quindi, «a detta dei nostri consulenti, sarebbe servito un più attento monitoraggio delle condizioni cliniche».
TORINO. È stata respinta l’azio-
«Siamo soddisfatti» per l’esito della commissione di inchiesta parlamentare. Lo ha riferito Ilaria Cucchi, sorella del detenuto morto lo scorso ottobre pochi giorni dopo il suo arresto. La donna ha spiegato: «Siamo soddisfatti perché la relazione afferma quanto noi abbiamo sostenuto sin dall’inizio: le fratture ci sono, sono recenti e compatibili con il pestaggio. Ora mi auguro che la Procura tenga
Scandalo dei derivati, le banche a processo Nel 2005, truffa da 100 milioni ai danni di Milano di Gualtiero Lami
MILANO. Vengono al pettine i nodi di uno dei più estesi e incredibili scandali finanziari degli ultimi anni: quello dei derivati con i quali le banche hanno finto di coprire i debiti degli enti locali. Ebbene, ieri quattro banche sono state rinviate a giudizio dal gup milanese Simone Lueri per truffa aggravata ai danni del Comune di Milano in relazione alla vendita di prodotti derivati. Si tratta di Gp Morgan, Deutsche Bank, Ubs e Depfa, in riferimento a uno swap emesso nel 2005 con scadenza trentennale. Le banche – con l’aiuto di alcuni funzionari comunali - avrebbero prodotto al Comune un danno di 100 milioni di euro attraverso un’operazione in derivati su un bond da 1,68 miliardi di euro. Il processo inizierà il 6 maggio, e si tratta della prima volta in Italia che una serie di istituti di credito devono rispondere in tribunale di una truffa effettuata attraverso l’emissione di prodotti derivati. Tra gli imputati ci sono Gaetano Bassolino, manager di Ubs a Londra e figlio del governatore della Campania; Giorgio Porta, ex numero due di Montedison e all’epoca dei fatti contestati direttore generale del Comune; e Mauro Mauri, in qualità di esperto della commissione tecnica comunale con il compito di valutare le condizioni della ristrutturazione del debito del Comune di Milano. In tutto, verranno processati due ex manager del Comune, undici banchieri e 4 banche.
le: una sorta di scommessa sull’andamento (il Comune paga un tasso variabile alle banche, le banche un tasso fisso al Comune). Secondo Robledo, la scelta del Comune sarebbe stata impropria sotto almeno due profili. Da un lato sarebbe stata presa senza l’ausilio di un consulente esterno, affidandosi interamente alle banche con cui stipulava gli stessi contratti e che dunque hanno svolto anche la funzione di advisor. Dall’altra la trasformazione del tasso fisso in tasso variabile è stata fatta in un momento in cui le stime dei maggiori economisti dicevano che i tassi non avrebbero potuto far altro che salire visto che erano al minimo storico. Poi è emerso che per far fronte alle perdite accumulate ogni anno, il Comune continuava ad avviare altre operazioni finanziarie complesse.
Di qui la contestazione a vario titolo alle persone fisiche coinvolte nel procedimento del reato di truffa in relazione alla falsa certificazione della «sussistenza della convenienza economica per l’ente territoriale ai fini di un’emissione obbligazionaria per la ristrutturazione del debito comunale in luogo della rinegoziazione dei mutui in essere e in precedenza contratti», si legge nella richiesta di rinvio a giudizio. Il tutto, prosegue il capo di imputazione, «spogliando dolosamente il Comune di Milano, nella stipulazione del contratto regolato dalla normativa inglese vigente, della tutela dovutagli in forza della qualificazione di “intermediate customer”a esso spettante, violando, in particolare, i doveri normativamente sussistenti in capo a loro circa le protezioni da assicurare ai clienti così classificati». Le banche, invece, rispondono dell’illecito amministrativo previsto dal decreto legislativo 231 del 2001 perché non avrebbero «adottato ed efficacemente attuato modelli di organizzazione di gestione idonei a prevenire i reati» commessi dai propri dipendenti, «i quali hanno agito per conto dell’interesse dell’ente» e traendo «un profitto di rilevante entità».
Gp Morgan, Deutsche Bank, Ubs e Depfa avrebbero proposto prodotti finanziari onerosi per pagare i debiti del Comune
conto della relazione e che sia riconosciuta la preterintenzionalità delle guardie carcerarie nell’aver causato la morte di Stefano». «La nostra inchiesta ha cercato di accertare la verità nel percorso sanitario». È il commento della senatrice del Pd Albertina Soliani a seguito dell’approvazione della relazione. «Alla fine dell’inchiesta si restituisce dignità alla sua morte: probabilmente ha subìto lesioni inferte di recente, ha opposto rifiuto all’alimentazione e alle cure chiedendo di vedere l’avvocato, un familiare, un assistente del Ceis senza alcun risultato. La storia di Stefano Cucchi - ha concluso - ci impegna ad agire perché quel che è accaduto non si ripeta mai più».
ne legale intentata da Margherita Agnelli contro la mamma Marella e i tre amministratori del patrimonio per l’eredità dell’Avvocato. Il giudice Brunella Rosso del Tribunale di Torino non solo ha rigettato l’azione legale della secondogenita di Gianni Agnelli, ma ha condannato quest’ultima a farsi carico delle spese legali, che ammonterebbero a circa 32mila euro. Si conclude così dopo quasi tre anni l’azione legale promossa da Margherita Agnelli de Palhen per chiedere l’annullamento dell’accordo siglato in Svizzera il 18 febbraio 2004 tra lei e la madre, accordo che portò alla divisione dei beni del padre, e per chiedere ai
All’origine dei contratti, c’è la ristrutturazione di un debito da 1.682 milioni composto di diversi mutui per la maggior parte in scadenza con la Cassa depositi e prestiti. Nel giugno 2005, quando sindaco era Gabriele Albertini, il Comune ha convertito i mutui in un bullet bond trentennale con i soldi prestati dalle quattro banche. In sostanza il Comune aveva ricevuto i soldi dalle banche impegnandosi a restituirli in un’unica soluzione (bullet, proiettile in inglese) nel 2035 con un alto interesse. A corollario del contratto sul debito c’era stata la stipula di uno swap, ovvero la trasformazione del tasso di interesse da fisso a variabi-
tre amministratori del patrimonio dell’Avvocato (Gianluigi Gabetti, Franzo Grande Stevens e il commercialista elvetico Siegfried Maron) un rendiconto completo di tutti i beni e di tutte le attività del genitore che avrebbe portato alla luce conti di altre società italiane e all’estero.
Il tribunale, lo scorso 23 luglio, aveva respinto i 48 capitoli di prova invocati dalla donna nonché le istanze di esibizione di documenti nei confronti dei convenuti e di 15 banche italiane e straniere. Fu un brusco stop, i nuovi avvocati di Margherita hanno dovuto mettersi all’opera per assorbirne gli effetti: nelle ”conclusioni”, alla tesi della nullità dell’accordo del 2004, che finora era rimasta sottotraccia, sembra essere data una maggiore importanza. Ma le controparti hanno chiesto di respingere tutte le istanze ribadendo che l’intesa del 2004 non può essere messa in discussione. Dopo l’inizio della causa, sulla scorta delle notizie pubblicate dai giornali, l’Agenzia per le entrate ha iniziato accertamenti sulla presunta esistenza di un ”tesoretto”in Svizzera (il cui valore potrebbe aggirarsi attorno al milione e quattrocentomila euro) riconducibile all’Avvocato.
pagina 8 • 18 marzo 2010
politica
Dibattiti. La nascita di “Generazione Italia” ha segnato un ulteriore strappo nella vita del partito di maggioranza. Per superare il “berlusconismo”
Tutto da rifare, Pdl Sembra solo una lotta di potere ma è un vero conflitto politico. Che va risolto prima che sia troppo tardi di Gennaro Malgieri segue dalla prima Se si preoccupa di immettere nel corpo di una forza politica quel tanto di eterodossia che potrebbe farla crescere ponendola al centro del dibattito, è quanto meno un agitatore che tenta di fare le scarpe a Berlusconi; se poi s’inventa un qualche strumento attraverso il quale interagire politicamente all’interno ed all’esterno del suo partito, inevitabilmente si levano alti lai a difesa della’unità minacciata e dell’attentato che verrebbe consumato ai danni di una formazione che ha la responsabilità di guidare il governo del Paese.
Francamente non se ne può più. Per il semplice fatto che derubricare problemi sostanziali e nodali che affliggono il Pdl a puro scontro di potere è quantomeno miope. Ognuno ha il diritto di nutrire le proprie idiosincrasie, ma a nessuno dovrebbe venire in mente che qualsiasi iniziativa presa al di fuori della ristretta cerchia degli oligarchi debba essere la spia di inquietudini che preludono a scissioni, abbandoni, frazionismi. Nei giorni scorsi è venuta fuori “Generazione Italia”: non è una componente, non è una corrente, non è un grimaldello per scardinare il Pdl, eppure, invece di interrogarsi sulla sua gestazione (ancora in fase embrionale), sulle prospettive che potrebbe nutrire, sulla funzione che dovrebbe svolgere sentendo i promotori ed aspettando una parola di Fini al riguardo, i solerti custodi dell’ortodossia (ma quale, poi?) si sono stracciate le vesti perché nei suoi vagiti hanno udito qualcosa che li ha messi in allarme. Mentre avrebbero dovuto, e non da oggi, chiedersi, responsabilmente, se quel parto avvenuto un anno fa era davvero una nascita, un inizio promettente, un responsabile segno di vitalità per un mondo che aveva appena vinto le elezioni oppure si trattava soltanto di un’operazione mediatica condita da preoccupanti atteggiamenti oligarchici. Chi scrive non ha mai fatto mistero che la nascita del Pdl mostrava squilibri e fragilità che sarebbero emerse in breve tempo. E lo segnalava non con lo spirito del fazioso legato ad antichi stilemi partitici, ma con la consapevolezza di chi aveva lavorato al progetto fin dal 2002, insieme con altri amici ed era (e resta) convinto che la “fusione a freddo”, già nociva al Pd, avrebbe avuto effetti nefasti su una forza composita che non aveva affinato la propria matrice culturale. Ma tant’è. Adesso siamo qui a baloccarci con una fioritura di correnti e correntine che sembra non diano fastidio a nessuno; con fondazioni dall’incerta consistenza e dal dubbio interesse; con l’invenzione financo dei “Promotori della libertà”, ultimo “grido” della signora Michela Vittoria Brambilla di
I militanti del Carroccio non “scenderanno” a Roma per la manifestazione
E la Lega è pronta a disertare la Piazza di Valentina Sisti
MILANO. «Quella di sabato sarà una partecipazione simbolica, anche se la rappresentanza della Lega sarà al completo. Ci saranno i nostri candidati governatori, i nostri parlamentari. Ma di certo non sarà per noi come una Pontida». Nel quartier generale della Lega Nord a Milano, in via Bellerio, l’adesione alla manifestazione di Piazza San Giovanni viene confermata, ma con toni un po’ burocratici. E aggiungono subito che tutti gli sforzi organizzativi in questo momento sono per la campagna elettorale, che entra nel vivo. E come si sa, non c’è Roma negli orizzonti della Lega, quando in ballo ci sono i voti da prendere. Gli unici pullman organizzati e treni speciali, dunque, sono quelli messi a disposizione dal Pdl. Quelli della Lega, semmai, sono mobilitati per l’altra manifestazione che si tiene oggi a Genova, per quello che Roberto Calderoli ha chiamato il “Quadrilatero del Nord”, con i quattro candidati governatori di Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria sul palco. Con l’occhio rivolto soprattutto alle ultime due dove sembra in vantaggio il centrosinistra uscente.
L’ordine di Bossi è stato chiaro, quindi: tutti al lavoro per conquistare Piemonte e Veneto, e ha fatto inviare un messaggio a tutti i parlamentari e dirigenti ad essere compatti, oggi, a Genova. Dove tutti i candidati governatori delle regioni del Nord andranno «per sottoscrivere un’alleanza per il Nord, davanti ai loro elettori», suonava di nuovo la carica ieri Calderoli sulla Padania. Si era addirittura ipotizzato, invece, che sabato, a Roma, la Lega disertasse del tutto. Il Senatùr aveva anche sperato in un esito positivo del Consiglio di Stato sulle liste laziali, puntando apertamente nel conseguente rinvio. Poi, però, di fronte alle pressioni, era stato lo stesso Bossi a rassicurare Silvio Berlusconi con una frase forte, ma un po’ di circostanza: «Non abbando-
niamo gli alleati, noi stiamo con Berlusconi». Aggiungendo subito dopo che «Zaia e Cota ci saranno, se glielo dice la Lega». E Bossi? Quel fine settimana a Roma se lo risparmierà fino all’ultimo, se possibile. Ed è del tutto evidente che, in fondo in fondo, al Carroccio della riuscita dell’appuntamento del 20 non importi poi così tanto. Anzi Giuseppe Leoni, l’amico di sempre di Bossi, lo dice apertamente: «Fra noi resta la convinzione che quelli del Pdl a Roma abbiano fatto dei pasticci, lì è una cosa molto diversa dalla questione della lista Formigoni, che infatti si è risolta». E allora meglio puntare su Genova, rispolverando la bandiera della Repubblica genovese con la croce di San Marco rossa in campo bianco, che ricorda tanto da vicino quella della Lega Lombarda a Pontida. Il vessillo giusto per sottoscrivere, oggi, come spiega Calderoli, «l’impegno di alleanza di intenti e di azione tra le quattro regioni e un decalogo di impegni nei confronti degli elettori».
Per sabato invece, niente mobilitazione della Lega: tanto alla sede nazionale, quanto a quelle regionali cadono dalle nuvole. Non è vietato andarci in auto, naturalmente, ma l’organizzazione non allestisce neppure un autobus, uno. «A piazza San Giovanni mi aspetto mezzo milione di persone», annuncia Berlusconi, chiamando a raccolta tutti gli organizzatori, per spingere sulla massima efficienza. Pronto a schierare i 13 candidati governatori del Pdl, ai quali farà firmare un patto governo-Regioni. Si parla di tremila i pullman da tutta Italia, tre treni speciali, un traghetto dalla Sardegna e addirittura voli charter. Ieri a Piazza San Giovanni si allestiva già il grande palco di 400 metri quadrati. Ma difficilmente vedremo sventolare bandiere del Carroccio. Sotto sotto Bossi sa che la sua è una partita, nella partita nel centrodestra, e le difficoltà del Pdl possono aiutare a vincerla.
cui Berlusconi si è fatto alfiere inviando a tutti i parlamentari una lettera garbata invitandoli ad aderire e a farsi proseliti del nuovo movimento. E “Generazione Italia”? Ma sì, questa creatura che ancora non vede luce è la disgraziata mostruosità che metterà a repentaglio la vita del Pdl. E a nulla vale far sapere che essa non è contro nessuno. Né una corrente di ex-An. Men che meno uno strumento per affossare, il più grande partito italiano del quale, piaccia o meno, Fini è stato il cofondatore insieme con Berlusconi. È pur vero che un anno dopo la nascita del soggetto unitario del centrodestra, “Generazione Italia” segnala un malessere, un’insufficienza che non intende superare con fughe in avanti, forse una proposta politica offerta come contributo alla crescita del Pdl stesso, ma in nessun caso può essere interpretata al di là delle intenzioni dei promotori, come esplicitazione di un risentimento (non giustificato, né giustificabile peraltro). Può essere
Bisognerebbe chiedersi se quel parto avvenuto un anno fa era davvero una nascita, oppure soltanto un’operazione mediatica condita da venature oligarchiche considerato semmai un soggetto che, forse con qualche ritardo, esplicita la necessità di un ritorno all’antico proposito (ben più lontano nel tempo dell’annuncio del predellino) di costruire una forza fondata sulle idee, capillarmente innervata sul territorio, organizzata attorno a regole condivise che prevedano anche luoghi dove poter discutere di strategia politica, di scelte, di orientamenti, di prospettive, che faccia crescere sui meriti la classe dirigente del futuro rifiutando la logica della cooptazione. Soprattutto che sia animata da un’armonia tra diversi – tutt’altro che paradossale – sulla quale far lievitare la “fusione” i cui risultati non potranno essere giudicati nel breve spazio di una competizione elettorale e neppure di un’intera legislatura, ma dalle risposte che verranno dati ai rapidi e convulsi mutamenti civili e socio-culturali che scandiscono la nostra epoca affollata da contrasti di ogni genere. Fini non è uno sprovveduto, né tantomeno un masochista. E per di più è un bipolarista a cui l’attuale
politica
18 marzo 2010 • pagina 9
«Il 150° dell’Unità sia un’occasione per tutto il Paese»
Ma Fini fa la pace (per un giorno) Non risponde agli attacchi di Bondi e rilancia l’idea delle “riforme condivise” di Riccardo Paradisi
ROMA. La presentazione del nuovo
bipolarismo non piace per niente. Come non gli piace l’«oligarchismo» che caratterizza il Pdl ed ancor meno piace a chi ha condiviso con lui un percorso che è stato faticoso, doloroso, pieno di incognite: ognuno dei militanti e dei dirigenti del Movimento Sociale Italiano e di Alleanza nazionale ha donato pezzi importanti della propria storia ad un progetto che non può immiserirsi nelle guerricciole di successione o nella pratica del piccolo cabotaggio.
Il centrodestra che si è affermato in questi anni è venuto fuori da esperienze diverse con l’ambizione di cambiare l’Italia, di farla crescere, di darle un ruolo da protagonista in Europa e nel bacino del Mediterraneo. Perciò se Fini e tanti che provengono dal suo partito chiedono maggiore discussione ed apertura intorno alle nuove tematiche globali non è per marcare eccentricamente la loro distanza dal Cavaliere, bensì per offrire a tutto il Pdl, ed anche oltre i confini dello stesso, occasioni di approfondimento al fine di pervenire a sintesi che non esauriscano la vicenda politica nell’occasionalismo. Quindi, se è evidente che il Pdl così come si è sviluppato non piace né a Fini né a Berlusconi, forse è il caso di ripensarlo finché si è in tempo, senza demonizzare nessuno, ma rimettendo mano ad un progetto che, com’era nelle premesse, non poteva e non doveva esaurirsi nel volgere di qualche anno. In tal modo, forse, si può dare continuità ad un soggetto, nel segno tutt’altro che “futuristico” di assemblare gli scarti ideologici di una sinistra in disarmo (come pure è stato detto), ma nell’immaginare una politica modernizzatrice connessa a valori spirituali e culturali che fondano l’essenza della nazione italiana. Su questi presupposti è difficile che le varie anime del Pdl possano dividersi, a meno di non immaginare un qualcosa d’altro che al momento non s’intravede neppure sull’orizzonte più lontano. Se “Generazione Italia” vorrà adoperarsi per superare le contraddizioni e le incomprensioni che hanno caratterizzato fino ad oggi la vita del Pdl questi ne trarrà
certamente beneficio poiché nella “casa comune”si condividono intenzioni, propositi, aspirazioni ed ambizioni purché finalizzati a rendere la comunità che la abita più coesa e maggiormente determinata nella conquista di traguardi futuri. Certo, è fatale che le diffidenze si diffondano se dovesse prevalere l’idea che il destino politico del Pdl non si possa proiettare oltre i confini del berlusconismo. Ma questo è un dato messo nel conto in qualunque partito nel quale si dispieghi una dialettica autentica. Ciò che non è accettabile è che con il pregiudizio (in verità puerile) della “lesa maestà”, si punti al galleggiamento, neppure immaginando che il centrodestra necessita di uno strumento che ne interpreti i bisogni, gli interessi e gli ideali in relazione alle mutate condizioni del Paese che sta diventando qualcosa di profondamente diverso, anche dal punto di vista della composizione sociale, rispetto all’epoca in cui Berlusconi affrontò il mare aperto con il proposito di riformare un Paese in declino. Umberto Bossi è sempre più “terzo incomodo” nella definizione dei rapporti politici tra Berlusconi e Fini
numero del bimestrale Charta minuta, sull’anniversario dell’Unità d’Italia è una nuova occasione per il presidente della Camera Gianfranco Fini di ribadire tre idee a lui care: l’esigenza di fare le riforme istituzionali essenziali al Paese, la necessità di ritrovare i motivi d’una convivenza civile che lo scontro politico prolungato sta mettendo a rischio, il riconoscimento del lavoro delle fondazioni all’interno d’una politica che si riduce spesso ad essere solo propaganda.
Sicché il 2011, anno della celebrazione del 150° anniversario dell’unità d’Italia potrà essere, secondo Fini, l’occasione «per far girare, far ripartire di nuovo il motore delle riforme condivise». Riforme istituzionali ma anche economiche, sociali. «Alla politica spetta il compito di dare il buon esempio e spingere il bottone della ripartenza, facendo girare il motore delle riforme». Riforme, spiega il presidente della Camera, come il superamento del bicameralismo perfetto e il compimento del federalismo istituzionale. Il federalismo però «può essere fattore di responsabilizzazione ma anche una sfida che può portare ad una secessione morbida, ma non si può rimanere nella situazione attuale». Occorre poi «un maggiore equilibrio tra potere esecutivo e legislativo, la democrazia è tale quando è rappresentativa ma anche governata». Riforme dunque, ma non solo istituzionali, riforme anche nel campo economico e sociale. «Bisogna rifondare il patto con gli italiani, in una nazione unita da un patto solidale da ristabilire soprattutto con le giovani generazioni che sono le più penalizzate, perché condannate ad essere più povere, meno rappresentate, meno socialmente rilevanti rispetto alla generazione dei loro genitori». Fini, torna a sottolineare l’importanza delle fondazioni nel dibattito politico: «Se la politica non si occupa più di queste questioni, qualcuno lo deve pur fare. La politica deve essere inebriata da qualche respiro culturale, altrimenti si riduce ad essere solo propaganda». Nessuna polemica diretta dunque contro gli avversari interni. E sì che materiale ce ne sarebbe stato, visto che il coordinatore del Pdl Sandro Bondi aveva appena attaccato Fare futuro e Gene-
razione Italia: associazioni che «cadono nell’errore tipico di una politica astratta che vive più di parole che di fatti concreti. Così facendo si finisce inconsapevolmente per animare un dibattito sul futuro mentre è il presente che ci dovrebbe indurre a concentrarci sull’impegno di governo. Non va messo in discussione ad ogni pie’ sospinto l’impegno, l’operato, i risultati del leader e fondatore del Pdl e del Presidente del Consiglio. Così non si costruisce una nuova leadership, si distrugge quello che c’è senza creare nulla di nuovo». Fini non replica – per ora – e si tiene sulle generali. Ammonisce a non spingere la critica alla politica fino agli eccessi del qualunquismo e dell’antipolitica, non ci guadagnerebbe né la politica né la società: «Non credo ad una società virtuosa e adamantina contrapposta ad una politica corrotta. Alla politica spetta il compito di dare il buon esempio e
Il ministro della Cultura aveva attaccato i finiani colpevoli di mettere in dubbio la leadership di Berlusconi proprio alla vigilia dell’appuntamento elettorale non sempre lo fa ma spetta soprattutto il compito dare impulsi al Paese per le riforme e il rinnovamento». Fini invita perciò il mondo della politica a non limitarsi alle scadenze elettorali ma ad avere un respiro più lungo «per evitare che le istituzioni siano percepite come cittadelle isolate ed assediate», sensazione che viene rafforzata quando «si riduce ad essere amministrazione della “Cosa pubblica” senza alimentare un sogno».
Era stato il segretario generale del Censis Giuseppe de Rita, che con il suo intervento ha anticipato quello di Fini, a sostenere che l’Italia rischia oggi di disseccare quell’energia emotiva che invece era stato il vero carburante del nostro Risorgimento, animando le menti e soprattutto i cuori di quei patrioti che hanno sacrificato se stessi per il sentimento nazionale. «Senza quella spinta – dice de Rita – si genera una patologia culturale e sociale per cui l’etica civica collassa mentre risorge la tentazione del moralismo, del giudizio confessionale.Vanificando la distinzione laica tra reato e peccato».
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speciale elezioni
I candidati del Centro/6. Parla Gian Mario Spacca, di nuovo in corsa per la presidenza della Regione Marche
Il laboratorio dei moderati «L’accordo siglato tra Pd e Udc è avvenuto sul programma, per dare risposte al territorio. È stato l’incontro naturale tra la cultura cattolica e quella riformista» di Riccardo Paradisi egione quieta e discreta le Marche. I riflettori della cronaca nazionale non la illuminano di troppe attenzioni, eppure in questa lingua di terra medioadriatica vive e resiste una delle economie più floride d’Italia, si registra una qualità della vita considerevole, una coesione sociale eccellente, un senso della comunità che non muore. Roccaforte da anni della sinistra le Marche sono però una regione di tradizione bianca e moderata, di piccola proprietà e di artigianato diffuso. Qui il centrodestra voleva candidare, prima del ciclone che gli si è abbattuto addosso, Guido Bertolaso, quando il capo della protezione civile era all’apice della popolarità. Bertolaso avrebbe rinunciato dopo aver visto i sondaggi, col centrosinistra avanti di oltre sette-otto puntu. Qui ora le proiezioni danno il centrosinistra avanti di oltre dieci punti percentuali. Un centrosinistra che taglia le ali estreme della sinistra radicale e
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stabilisce un’alleanza con l’Udc. «Nelle Marche si è cambiata pagina – ha detto Pier Ferdinando Casini – la sinistra radicale è stata lasciata a se stessa. E c’e’ un esperimento importante, l’incontro fra riformatori e moderati». Secondo Casini, questa può essere una strada significativa anche per costruire un’alternativa anche nazionale. Presidente Spacca una scelta coraggiosa quella di costruire un’alleanza con il Centro e chiudere alla sinistra radicale. Nel stesso Pd locale ci sono state fibrillazioni, contestazioni. A me non risultano tutte queste contestazioni in area Pd. Si è trattato di una scelta condivisa dalle assemblee regionali del Pd in maniera unanime. Anche perché noi non abbiamo costruito un’alleanza, ci siamo piuttosto trovati naturalmente d’accordo, moderati e riformisti, su un programma specifico e su un principio di responsabilità nei confronti della comunità marchigiana. L’obiettivo è quello di un governo ispirato a serietà, pragmatismo e rigore. Qui sta il laboratorio. Non abbiamo guardato ai riti consueti della politica nazionale, ai suoi schemi paralizzanti, ci siamo mossi avendo in vista le esigenze del territorio e la pratica moderata e riformista del buon governo. Lei dice che è stato un processo indolore ma a Senigallia, che è la seconda città della provincia d’Ancona, i vertici del Pd cittadino hanno invitato a uno sciopero del
Sono Marinelli (Pdl) e Rossi (Sl, Rc e Pdci)
Due ex sindaci contro Spacca elle Marche, domenica e lunedì 28 e 29 marzo, voteranno poco meno di 1 milione e 300mila cittadini. Sono 3 i candidati a governatore regionale: Gian Mario Spacca, presidente uscente della Regione, che si ripresenta con l’appoggio del centro-sinistra Pd, Udc, Idv e Verdi; Erminio Marinelli per il centro-destra che corre con Pdl, Lega e la Destra; e Massimo Rossi per Sinistra Ecologia e Libertà, Partito della Rifondazione comunista e Comunisti italiani. Erminio Marinelli candidato del centrodestra è un medico di famiglia prestato alla politica, così almeno gli piace presentarsi. Alle recenti elezioni amministrative viene nominato vice-sindaco di Civitanova Marche città dove è stato sindaco per due legislature consecutive dal 1995 al 2007. Massimo Rossi, 52 anni, fermano, docente di scuola è il candidato della sinistra radicale. È stato Sindaco di Grottammare alla guida di una lista “di movimento” denominata “Solidarietà e Partecipazione”. Alle elezioni successive nel ’98 è stato confermato per un nuovo mandato (sino al Maggio del 2003) ed è stato candidato alla Presidenza della Provincia di Ascoli alla guida di una coalizione di centrosinistra alle elezioni del Giugno 2004, unico candidato presidente d’Italia di Rifondazione Comunista.
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tesseramento per l’esclusione della sinistra radicale dall’alleanza regionale. Certo, ma si tratta di episodi isolati, che si spiegano con riflessi locali. Peraltro queste sensibilità a livello regionale come dicevo sono rimaste assoluta minoranza. A Senigallia poi si vota per il rinnovo del consiglio comunale e lì il Pd è alleato con un soggetto che riunisce comunisti italiani e Sinistra e libertà. Questa soluzione sarebbe stata possibile anche in regione ma la sinistra radicale non l’ha voluta fare. A livello regionale il Pd non ha minimamente contestato questa alleanza anzi l’ha accolta come un modello che può aiutare a vincere il centrosinistra anche in altre regioni Italiane. Se Vendola vincerà largamente in Puglia sarà anche grazie all’atteggiamento dell’Udc di presentare un proprio candidato. Questa collaborazione tra riformisti e moderati consentirà un progetto di alternativa all’attuale governo nazionale. Lei parla di culture riformiste e moderate ma nella coalizione di centrosinistra delle Marche c’è anche l’Idv che a livello nazionale,
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Siamo la regione cresciuta di più in termini di Pil: siamo arrivati al 18,2% contro il 12,8 della media italiana, cresciamo un terzo in più della media di crescita italiana. Un trend molto solido
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come dire, non usa proprio toni moderati. L’idv nelle Marche ha una cultura e una condotta politica molto equilibrata. Le figure che lo rappresentano hanno sempre evitato i toni più accesi, in linea con la tradizione riformista. Consideri che i candidati che presenta l’Idv vengono addirittura dal Pd, che hanno buone possibilità di elezione. Dalle elezioni europee il centrodestra aveva parlato della possibilità di un sorpasso, ora invece i sondaggi danno molto avanti il centrosinistra, 51 a 40. Un differenziale che le ha permesso anche scelte difficili come quelle di cui parlavamo adesso. Come mai secondo lei la forbice tra i due poli s’è divaricata così tanto? Nelle elezioni europee l’astensionismo ha penalizzato soprattutto il Pd. Tra le elezioni politiche del 2008 quelle europee del 2009 il Pd ha perso 110 mila voti che
speciale elezioni Nelle Marche, domenica e lunedì 28 e 29 marzo, voteranno poco meno di 1 milione e 300mila cittadini. Sono 3 i candidati a governatore regionale: Gian Mario Spacca, (nella pagina accanto) Erminio Marinelli (centrodestra, foto sotto) e Massimo Rossi (sinistra radicale)
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Nucleare? No, grazie. Meglio puntare sul turismo di Federico Romano a realizzazione di una centrale nelle Marche non sarebbe ragionevole, dato che il bilancio energetico primario della Regione è più che positivo». Arrivato a San Benedetto per la campagna elettorale il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione ha espresso la propria opinione sull’eventualità di una futura costruzione di una centrale nucleare nel territorio.
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Una presa di posizione decisa, che tuttavia non entra in contraddizione con l’apertura verso l’atomo dell’Udc nazionale: «Ribadiamo il nostro sì al nucleare come fonte energetica, ma non in questa zona, che non ne sente il bisogno». È del resto la linea sottoscritta dall’alleanza tra centro e Pd nella Regione. Il governatore uscente, Gian Mario Spacca ricandidato con il centrosinistra, è stato molto chiaro sul tema nucleare, ribadendo un no fermo: «finché governerà il centrosinistra questa regione non ospiterà alcuna centrale nucleare». Spacca sottolinea infatti che «la legge 99 esclude le Regioni e gli Enti locali dalla decisione sulle localizzazioni degli impianti nucleari, equiparandoli ad aree militarizzate, per la produzione dell’energia elettrica, sugli impianti per la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi o per lo smantellamento degli impianti nucleari, non tenendo conto di quanto stabilito dal Titolo V della Costituzione sui poteri delle Regioni in materia di governo del territorio e sul rispetto del principio di leale collaborazione istituzionale». Poi il governatore uscente aggiunge: «Al contrario del candidato di centrodestra Marinelli, che deve rispondere a Berlusconi, il nostro no al nucleare è stato confermato nel programma elettorale del centrosinistra. È nostra intenzione consolidare l’integrazione ambientale delle politiche settoriali regionali e svilupparne la centralità, potenziare gli incentivi per la crescita delle
energie rinnovabili sviluppando le previsioni del Piano energetico ambientale regionale, anche attraverso una maggior dotazione finanziaria ed un piano di allocazione degli impianti, con consultazione delle comunità locali». L’obiettivo del centrosinistra è il tendenziale equilibrio di autosufficienza energetica su scala provinciale: «È nostra ferma intenzione continuare con grande determinazione ad attuare il Pear seguendo l’approccio rigoroso di rispetto delle norme di compatibilità ambientale e di rifiuto di ogni forma di ulteriore inquinamento». Più possibilista il candidato del centrodestra Erminio Marinelli, anche se a suo avviso «nelle Marche non ci sono né un’industrializzazione né una densità demografica che giustifichino una centrale, mentre nelle aree più industrializzate sì perché lì le energie rinnovabili non bastano». Insomma nemmeno il centrodestra sembra avere intenzione di spingere l’opzione nucleare nelle Marche, scelta che sarebbe peraltro largamente impopolare.
Del resto anche il profilo idrogeologico delle regione non è il più adatto a ospitare centrali nucleari. Il territorio marchigiano è vulnerabile e in testa tra le regioni per fragilità del territorio. San Benedetto del Tronto in particolare poi, dove s’era ipotizzato l’insediamento di una centrale, è sede di un parco regionale (la Sentina) e dovrebbe diventare area marina protetta. Nulla di più sbagliato - insistono gli ecologisti marchigiani dunque – che non puntare sulla diffusione delle tecnologie rinnovabili, che possono creare anche nuovi posti di lavoro.
non sono andati a nessun altro. È chiaro che il primo lavoro che s’è dovuto fare è il recupero dell’astensione. E siccome noi riteniamo di aver fatto un buon lavoro di governo il rapporto di fiducia s’è ricreato rapidamente. Noi siamo la regione cresciuta di più in termini di Pil: siamo arrivati al 18,2% contro il 12,8 della media italiana, cresciamo un terzo in più della media di crescita italiana. Un trend solido. Consideri anche che tutte cinque le provincie marchigiane sono nella top ten della classifica sulla qualità della vita delle provincie italiane. Oltre al buon governo aiuta anche l’aria buona, il modello di sviluppo e la qualità della società civile immagino. Certo, però vede le qualità innate del territorio vanno ottimizzate, mantenute e curate. Questa è la Regione d’Italia con la più alta attesa di vita e questa è una variabile indipendente, ma è anche la regione con il maggior numero di bandiere blu verdi e arancione che misurano qualità delle acque e dell’entroterra e questo, mi consenta, è merito del buon governo. Come il fatto di aver diminuito la pressione fiscale del 47 per cento. Era 163 milioni di euro nel 2004 e 90 milioni di euro nel 2009. Ora le Marche hanno più risorse da investire per crescere ancora. La pressione fiscale era tra le più alte d’Italia fino a qualche anno fa. Il bollo auto era alle stelle. Erano molto alte perché noi dovevamo ristabilire il pareggio di bilancio nella sanità. Nel 2002 la sanità marchigiana era la più indebitata d’Italia, rischiavamo seriamente di essere commissariati. Invece nel 2007 l’abbiamo riportata in pareggio chiedendo aiuto ai nostri cittadini e non allo Stato per ripianare il deficit sanitario. E quando la sanità è tornata in pareggio abbiamo abbassato la pressione fiscale. Oggi l’Ir-
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lioni di euro del 2004 a 716 milioni del 2009 e questo consente di trovare maggiori risorse per liberare altri 50 milioni di investimenti subito. Ecco, però l’opposizione vi contesta l’aver messo in bilancio anche gli immobili pubblici che avete venduto o state vendendo. Guardi noi perdevamo 149 milioni di euro ogni anno sulla gestione della sanità, che non ha niente a che vedere con la vendita di alcuni beni regionali. Il pareggio di bilancio è stato ottenuto nella gestione, con il rispetto dei budget e l’incremento della produttività. Una parte dei proventi della vendita dei beni ragionali sono andati a investimenti per realizzare strutture sanitarie come l’ospedale di Torrette. Ma noi non abbiamo solo risanato i conti abbiamo anche migliorato i servizi. Sono gli stessi ministri del centrodestra come Sacconi e Brunetta del resto a riconoscere che le Marche non solo hanno i conti in ordine ma come prestazione dei servizi sanitari sono al terzo posto a livello nazionale. Questo a me sembra un grande risultato. E questo è dovuto alla strategia di intervento sulla sanità che abbiamo seguito in questi anni. Spacca lei ha dichiarato che la regione Marche è tra le peggiori regioni per i fondi di autosufficienza. Un’autocritica. Si in questo ambito abbiamo delle graduatorie da scalare, è vero. Abbiamo migliorato i servizi notevolmente e abbiamo portato a cinquanta minuti il servizio per le persone autosufficienti. Ma non siamo tra le posizioni di testa delle regioni italiane. È un problema perchè siamo una regione che avendo una lunga aspettativa di vita ha anche un’alta incidenza di popolazione anziana. Motivo in più per prendere un impegno serio anche in questo ambito. Avete scelto una politica antinucleare nella regione. Scelta su cui è venuto anche l’Udc. Perchè questo orientamento anche senza sinistra radicale nell’alleanza? Una scelta coerente con la nostra strategia di sviluppo. Non ci basta più essere forti sul mobile, sull’industria, l’artigianato. Siccome abbiamo un grandis-
Nel 2007 abbiamo riportato in pareggio i conti della sanità. Chiedendo aiuto ai nostri cittadini e non allo Stato per ripianare il deficit. E quando la sanità è tornata in pareggio abbiamo abbassato la pressione fiscale
pef delle Marche è molto inferiore a quello della media italiana e addirittura il 69 per cento dei marchigiani, quelli con meno di 15mila euro di reddito, non hanno mai pagato una lira di addizionale Irpef. Nessuno ha fatto l’addizionale regionale modulata sugli scaglioni. Contrariamente a quanto avviene in altre regioni italiane, la Regione Marche dal 2006 non integrano con risorse regionali aggiuntive il finanziamento della spesa sanitaria riconosce l’agenzia Moody’s. Però per il periodo 2010 - 2011 ci si attende dalle Marche un aumento degli investimenti dovuto soprattutto all’attuazione dei programmi comunitari. Moodys ha rilevato anche un’altra cosa importante, che l’indebitamento è sceso moltissimo da un miliardo e 70 mi-
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simo patrimonio che sono i beni culturali, pari nella regione a quelli della Toscana, siccome abbiamo un paesaggio straordinario, riteniamo che sia prioritario puntare su questo. Anche considerato che abbiamo indicatori ancora bassi soprattutto sul turismo internazionale. Per fare una politica di attrattività turistica bisogna migliorare l’agricoltura in termini di qualità, tutelare il paesaggio, valorizzare i beni culturali e quindi fare una politica energetica che sia coerente. Niente di ideologico insomma Abbiamo perciò detto no a tutto quello che è contraddittorio con questo piano. No a centrali nucleari e no a turbogas. Abbiamo creato 40 megawatt col fotovoltaico. Lo sapeva che siamo la terza regione d’Italia per il fotovoltaico dopo il Trentino e l’Umbria?
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ono appena usciti nelle sale italiane due film di produzione statunitense molto diversi tra loro, ma che ci comunicano in eguale misura l’inquietante sensazione di una bizzarra rilettura biblica e mitologica. I film in questione sono Legion diretto da Scott Stewart, e Percy Jackson & gli Dei dell’Olimpo. Il ladro di fulmini, appendice, questa del secondo titolo, che lascia presagire seguiti e seguiti. Peraltro la storia è tratta dal primo dei cinque libri della serie scritta da Rick Riordan il cui ultimo capitolo, The Last Olympian, è da poco stato tradotto in Italia. Inoltre non si scomoderebbe un regista come Chris Columbus (Harry Potter (i primi due), Mamma ho perso l’aereo ma soprattutto, permetteteci, I Goonies, Gremlins e Piramide di paura come sceneggiatore) per una operazione che sembra destinata a ripetere i fasti, e gli incassi, dell’appena citato occhialuto maghetto.
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Il film in effetti diverte assai e il fatto che sembrerebbe destinato ad un pubblico molto giovane non pregiudica affatto il suo gradimento presso tutte le fasce d’età anche perché è notorio che sono i bambini a portare gli adulti al cinema e non viceversa. Considerazioni decisamente diverse per il film di Scott Steward. Nonostante sia interpretato dal bello (e bravo) Paul Bettany, Dannis Quaid e da star molto note agli appassionati di serie televisive come Jon Tenney (Closer) e Kate Walsh (Grey’s Anatomy prima, Private Practice di conseguenza), ci stupiremmo abbastanza se ce lo ritrovassimo ai primi posti del nostro box office. Legion parrebbe concepito come un film a basso costo, se non fosse per quel cast. La storia è semplice ed assoluta. In pratica Dio si è stufato di noi e quindi decide di inviare il suo esercito, leggi i suoi angeli, sulla terra per darci una bella lezioncina. In particolare andrebbe eliminato un nascituro che dovrebbe essere l’unica speranza per un mondo migliore. Guarda caso la madre non è sposata e il suo unico sostegno affettivo è tale Jeep (non nel senso di fuori strada ma per il fatto, supponiamo, che il nome richiama quello di tale Giuseppe). Grazie al cielo lei non si chiama Maria. Il tutto avviene in una sperduta stazione di servizio dove si ritrovano, isolati e inconsapevolmente destinati al martirio, una variegata teoria di personaggi. Codesta stazione si chiama pure Paradise Falls che può avere in inglese un doppio significato: falls, che si trova spesso nei nomi di località vuol dire cascate. Il secondo significato è invece “Paradiso che cade”. Ma guarda. Tra gli occasionali avventori di questo tremebondo Paradiso anche Michael, l’Arcangelo, che deve difendere il bambino così andando contro la volontà di Dio. Il quale Dio sembra quindi avere preso una solenne cantonata. Ma così non la pensa il collega e rivale Gabriel (Kevin Durand), anch’egli noto Arcangelo che pensa solo ad obbedire e se ne frega del libero arbitrio. I due entrano in conflitto e le cose per il povero Michael sembrano davvero mettersi male. Innanzitutto perché dalle parti della autostazione convergono a frotte centinaia di persone possedute e intenzionate ad eliminare il pupo con tutto quello che c’è intorno. Si badi bene, le persone non sono possedute da demoni bensì da angeli.
il paginone A questo punto, tanto si sa come finisce, vi sveliamo anche che Gabriele ha la meglio su Michael ma, nel momento in cui sta per fare fuori l’appena nato prematuro bimbo, viene in un primo momento bloccato dal povero Jeep, poi fatto fuori dal redivivo Michael. Cosa questa alla quale non può credere: «Ma come, sei andato contro la volontà di Dio e ti ha pure resuscitato? Non solo, ma ti ha permesso di uccidere me, l’unico che gli ha dato retta?»; «Certo, perché tu hai fatto quello che ti ha chiesto ma io ho fatto quello di cui Lui aveva bisogno». Beh, signori, questa è davvero grossa. Dio diventa il Re Travicello di giustiana memoria, nel senso di Giuseppe Giusti. Prima si arrabbia con l’umanità, manda gli angeli a distruggerla poi, perché questa sembra essere la scappatoia, viene conquistato dal coraggio e dall’amore del povero Jeep e ci ripensa. Ora, a parte che Jeep da noi non vincerebbe nemmeno al Grande Fratello, tu, anzi Tu, non solo ti arrabbi con chi non devi arrabbiarti, ma tradisci anche l’unico che sta ad ascoltare i tuoi vaneggiamenti, l’unico che crede veramente in te. Povero Arcangelo Gabriele, ti hanno fatto diventare il Primo Greganti dei Cieli. Di certo per Dio questa sarebbe una di quelle giornate da dimenticare, da nascondere sotto il tappeto come si fa a volte con la spazzatura. Mentre in realtà è solo l’esempio di una sceneggiatura bislacca e davvero poco riuscita. Per l’esattezza non ricordiamo una interpretazione delle Sacre Scritture così audace, il che in sé sarebbe cosa buona.
“Legion” non convince, mentre “Percy Jackson” diverte adulti e bambini. E in arrivo c’è uno “Scontro tra Titani” in 3D
Però la sensazione che attraversa gli spettatori è di una fastidiosa destabilizzazione (certe cose non si toccano) che non può certo essere rattoppata con il finale alla deus ex machina dal momento che gli sceneggiatori non ci sem-
Demonoma Diavoli e dei invadono sale cinematografiche e librerie: si moltiplicano le storie basate su riletture “curiose” di Bibbia e di mitologia di Alessandro Boschi
brano abili come lo era Euripide. Intendiamoci,“certe cose non si toccano” non significa che siamo blasfeme, bensì che certi azzardi narrativi sono discutibili, come quando Agatha Christie ne L’assassinio di Roger Ackroyd decise di far raccontare la storia (tipo voce fuori campo) proprio all’assassino. Certe cose, dissero i critici, non si fanno. Appunto. Abbiamo così aggiunto un altro piolo alla nostra scala dei valori: gli sceneggiatori di Legion non sono Euripide e nemmeno Agatha Christie. Di spessore e mezzi differenti la storia di Percy Jackson e gli Dei dell’O-
limpo. Intanto quel Percy che volutamente ricorda Perseo, nella mitologia greca semidio figlio di Zeus e Danae, nella mitologia newyorchese è figlio di Poseidone e Sally, interpretata da Catherine Keener.
Z eus, ch e nel la mi tologia romana si chiama Giove, ha invece l’aspetto di Sean Bean, attore oramai specializzato in questo genere di film: Il signore degli Anelli e Troy. Percy, semidio ma imbranato e dislessico, è interpretato da Logan Lerman. Si scoprirà cha la sua difficoltà nel leggere deriva dall’a-
vere una mente settata sulla lingua greca, che invece comprende alla perfezione. Egli scoprirà di assorbire la forza dal contatto con l’acqua, potere questo ereditato appunto da Poseidone, o Nettuno, o Kevin McKidd l’attore. Tra le tante cose divertenti della pellicola va segnalata la scelta di piazzare l’Olimpo degli Dei sulla sommità dell’Empire State Building (e dove altrimenti?), infischiandosene gli dei stessi dell’affitto grazie ad una porta segreta. Un’altra cosa notevole è la scelta di camuffare il centauro Chirone (Pierce Brosnan) mettendolo su
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trario di quello che hanno fatto ad esempio i Monty Python, grotteschi ma storicamente corretti. Intendiamoci, per noi il film di Mario Monicelli, che anche Furio Scarpelli ha scritto inventando un mai esistito dialetto, è un capolavoro assoluto. Ma pur smitizzando in maniera encomiabile il Medio Evo finto che avevamo finora conosciuto attraverso molti film, ce ne ha restituito un altro egualmente distante dalla realtà. Tanto è vero che sfruttando in seguito quella distanza anche altri ricevettero di nuovo l’abbrivio vitale di raccontare quell’epoca come un luogo della fantasia, a volte divertente altre volte drammatica.
ania una sedia a rotelle e di dare a Grover, il satiro custode di Percy (Brandon T. Jackson), delle stampelle. Questi due personaggi devono vigilare su Percy e non potrebbero farlo rivelando il loro vero aspetto.
L’idea di fare sedere il centauro sulla sedia a rotelle coprendogli gli arti inferiori con un plaid e di dare al satiro il sostegno delle stampelle può fare anche ridere: come può stare mezzo cavallo su una sedia? E che se ne fa delle stampelle uno che ha le gambe forti di una grossa capra? Evidente invece l’intenzione di fare passare i due, diversi dal resto dell’umanità per loro natura, per dei diversi, affidando loro strumenti che nella nostra realtà proprio ai diversamente abili sono associati. Se questi due prodotti sono già nelle nostre sale molto presto altri se ne aggiungeranno. Ad esempio ad aprile arriverà in 3D Scontro tra Titani (Clash of the Titans), con Sam Worthington (quello di Avatar) protagonista nella
parte di Perseo. Sarà interessante verificare l’uso di eventuali riletture del regista Louis Letterrier. Ancora di più divertente il confronto tra i due personaggi di Ade, qui con le sembianze di Ralph Fiennes, là con quelle rockeggianti di Steve Coogan, anch’egli britannico ma molto più turbolento.
La storia della pellicola diretta da Steward è semplice: Dio si è stufato di noi e decide di inviare l’esercito degli angeli sulla Terra per darci una lezione
Di una intervista di qualche tempo fa al decano dei nostri sceneggiatori, Furio Scarpelli, ricordiamo con piacere quello che ci disse a proposito dei tanto misteriosi segreti per raccontare una bella storia: «Dai tempi di Omero fino ad oggi il segreto è sempre lo stesso, fare venire al lettore che legge la voglia di leggere quello che viene dopo». Semplice e terribile al tempo stesso. Perché se è semplice il dispositivo non lo è di certo l’applicazione. Però in questo caso la frase di Scarpelli ci serve per l’esempio che ha utilizzato: Omero. Dunque, per lo meno per quello che riguarda la scrittura, oltre che da inventare c’è anche molto da adattare e riadattare. Esattamente come fanno questi film, spesso esercitando dei diritti di interpretazione che vanno bel oltre quelle che dovrebbero essere le buone regole del narratore. Per fare un esempio appena appena distante dal cinema di cui stiamo parlando: il Medio Evo che si vede ne L’Armata Brancaleone è un Medio Evo riletto senza volutamente tenere in nessuna o quasi considerazione il Medio Evo stesso. Esattamente il con-
Tornando agli dei dell’Olimpo e a i Titani etc. etc., dobbiamo ammettere che ci divertono molto di più le riletture che ne fa lo scrittore inglese Neil Gaiman, intravisto qualche sera fa al Kodak Theatre nella vana attesa di un Oscar per il film di animazione tratto dal suo Coraline, ovvero Coraline e la porta magica. Purtroppo ma non troppo ha vinto un altro capolavoro, il bellissimo Up. Gaiman possiede davvero un talento straordinario e riesce a trasferire le mitologie di moltissime culture nei suoi romanzi e racconti. In American Gods i protagonisti sono antiche divinità arrivate negli Stati Uniti con gli emigranti: «Abbiamo viaggiato con i coloni, attraversato gli oceani, verso nuove terre. (...) Ben presto la nostra gente ci ha abbandonato, ricordandosi di noi soltanto come creature del paese d’origine, creature che credevano di non aver portato nel nuovo mondo. I nostri fedeli sono morti, o hanno smesso di credere in noi, e siamo stati lasciati soli, smarriti, spaventati e spodestati, a cavarcela con quel poco di fede o venerazione che riuscivamo trovare. (...) Vecchi dèi, in questa nuova terra senza dèi». Insieme al sodale Terry Pratchett Gaiman ha scritto (nel 1990) Good Omens, in Italia Buona apocalisse a tutti! Qui, insieme a numerose citazioni tratte dalle più disparate serie di telefilm, compaiono riferimenti che dimostrano una profonda conoscenza della Bibbia e, perché no, anche della letteratura russa (Il maestro e Margherita). Terry Gilliam, che era l’americano dei britannici Monty Python, aveva pensato di farci un film. Che in considerazione di quanto dicevamo prima sarebbe stata una declinazione cinematografica molto fedele. Ma ci ha detto che non è facile perché costerebbe troppo produrlo. Peccato, ma con lui non si sa mai. Quello che invece si sa è che siamo invasi da film, e la cosa non sembra essere arginabile, che ci regaleranno interpretazioni disparate curiose e talvolta inopportune di quei miti ai quali tanto siamo affezionati. Si potrebbe obiettare che il cinema rappresenta comunque una potente fonte di divulgazione, cosa questa indiscutibile, ma a noi piace pensare che le nuove generazioni potrebbero leggere ad esempio uno dei libri di Robert Graves, che forse sono un po’ più approfonditi di una sceneggiatura magari di successo. Addirittura trovandoli interessanti. Cesare Zavattini sosteneva che per scrivere una storia interessante sarebbe stato sufficiente seguire il vicino di casa. Oggi tenetevi in forma, perché se proprio vi va bene dovrete cercare di stare dietro ad un semidio.
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Il caso. Lunedì a Bruxelles sarà presentata una nuova struttura diplomatica: in realtà è una sorta di mostro a mille teste
L’affaire ambasciate La Ue lancia il suo nuovo carrozzone burocratico. Ma senza politica estera di Enrico Singer i chiamerà Seae, Servizio europeo per l’azione estera. Sarà tenuto a battesimo lunedì prossimo dal Consiglio dei ministeri degli Esteri dei Ventisette che si riunirà a Bruxelles con un solo punto all’ordine del giorno: discutere i dettagli della nuova struttura. La madrina sarà Catherine Margaret Ashton, baronessa di Upholland che, da poco più di due mesi, è Alto rappresentante per la politica estera della Ue. E quando sarà a regime - dovrà dire la sua anche l’Europarlamento - potrà contare su settemila diplomatici divisi in più di cento ambasciate in giro per il mondo, con un bilancio che ancora non è definito, ma che sarà di diversi miliardi di euro. È la grande macchina della politica estera comune europea che si mette in moto. Finalmente, si potrebbe dire. Perché la Ue è la prima potenza commerciale del mondo e il primo donatore ai Paesi in via di sviluppo, vuole essere il punto di riferimento globale in materia di diritti umani, democrazia e libertà, ma nonostante tutti questi primati, veri o soltanto dichiarati, è ancora un gigante economico e un nano politico. O meglio, è un mostro a più teste perché ognuna delle capitali dei Paesi più importanti non vuole rinunciare alla sua autonomia di giudizio e di azione sulle principali questioni internazionali.
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Quella domanda retorica e un po’ beffarda che Henry Kissinger, allora Segretario di Stato americano, pronunciò 35 anni fa - «Che numero di telefono devo fare per parlare con l’Europa?» - dovrebbe adesso trovare risposta. Ma il condizionale è d’obbligo perché, per il momento, il mega-progetto della Ashton si preoccupa di come regolare numeri, equilibri interni, gelosie nazionali, piuttosto che affrontare il vero nodo: quello di costruire una linea di politica estera condivisa. Dai documenti preparatori, che liberal ha potuto vedere, il rischio è che la Ue partorisca l’ennesimo carrozzone senza poteri reali, ma zeppo di eurocrati che, per di più, finiranno in rotta di collisione con i rap-
presentanti diplomatici dei singoli Paesi membri che, certo, non rinunceranno alle loro ambasciate. Il risulato sarà una sovrapposizione, più che un’unificazione e uno snellimento. Con l’inevitabile corollario della corsa ai posti che più contano da parte delle singole Cancellerie dei Ventisette e delle prevedibili lotte intestine tra le istituzioni comunitarie - Consiglio e Commissione - che puntano a controllare il nuovo Servizio europeo per l’azione estera.
La baronessa Ashton vuole far nascere la diplomazia europea sulla base - ma non sulle ceneri - della fitta rete di Dele-
zione dai ministeri degli Esteri dei Ventisette. I funzionari europei, all’inizio, erano ripartiti tra le varie Direzioni generali della Commissione e soltanto dopo una riforma del 2002 sono stati riuniti nella Direzione generale per le Relazioni esterne, quella che a Bruxelles chiamano con l’acronimo “Relex”. Ma c’è anche un’altra Direzione generale - quella per lo Sviluppo - che controlla le rappresentanze in Africa, Caraibi e Pacifico e che è una delle poche guidate da un direttore generale italiano: Stafano Manservisi che fu capo di gabinetto della presidenza della Commissione ai tempi di Romano Prodi. Il
La baronessa Ashton presenta ai Ventisette il piano del nuovo servizio diplomatico: settemila addetti, 130 sedi, sei miliardi e mezzo di euro l’anno di bilancio. E, forse, anche un’Accademia a Firenze gazioni della Commissione europea che già esistono. La prima Delegazione in ordine di tempo fu creata a Londra da parte della Ceca (la Comunità europea del carbone e dell’acciaio) nel 1954, poi seguì quella negli Stati Uniti e, via via, tutte le altre. Oggi ce ne sono 123 (comprese quelle nei Paesi della UE) e altre sei presso organismi internazionali (Onu, Osce, Wto, Ocse, Unione Africana e Fao), senza contare gli undici uffici dei Rappresentanti speciali della Ue in particolari aree (Afghanistan, Grandi Laghi africani, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Moldova, Autorità palestinese, Caucaso meridionale, Asia Centrale, Sudan e Birmania), per un totale di oltre cinquemila funzionari. Ogni delegazione ha lo status di missione diplomatica secondo la Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche e ciascun capo delegazione ha il rango di ambasciatore. Non ci sarebbe nulla di male se il nuovo corpo diplomatico europeo nascesse inglobando questa rete, ma le cose non andranno esattamente così. Prima di tutto perché ci sarà un giro di valzer senza precendenti tra i funzionari già distaccati dalla Ue all’estero e poi perché ne arriveranno di nuovi messi a disposi-
piano della baronessa Ashton prevede un altro grande rimpasto con la creazione di incarichi aggiuntivi. E di spese. Un calcolo preciso del costo del nuovo Seae non è ancora stato fatto - entrerà nel prossimo bilancio della Ue - ma la previsione è di ben sei miliardi e mezzo di euro l’anno.
Ma i soldi non sono il problema più grosso. Se la “voce unica” dell’Europa fosse davvero rappresentata dal nuovo servizio diplomatico di lady Ashton, un costo di sei miliardi e mezzo di euro - in parte già spesi per le strutture esistenti - sarebbe più che sopportabile. Il fatto allarmente è che tutte le capitali europee - a partire dalle più influenti - sono ben decise a non cedere nemmeno un grammo del peso che si sono conquistate nel mondo. In parole ancora più chiare: Parigi, Berlino, Londra e, naturalmente, anche Roma, si sentiranno rappresentate a Washington come a Mosca o a Pechino dalle nuove ambasciate della Ue o dalle loro missioni diplomatiche nazionali? Domanda oziosa. Anche se la baronessa Ashton prevede nel suo progetto che la piena operatività del servizio diplomatico europeo sarà raggiunta soltanto nel 2014. Come dire che
c’è il tempo per costruire, accanto alla struttura burocratica, anche una nuova volontà politica. O, almeno, che c’è la speranza di farlo. Ma la storia della costruzione europea insegna che la strada di questi grandi progetti è tutta in salita, come dimostra la sorte della difesa comune, di quell’esercito europeo che avrebbe dovuto unificare le 27 forze armate che continuano a difendere i 27 confini nazionali che non esistono più. Quali sono, dunque, le aspettative di accoglienza alla proposta che Catherine Ashton sottoporrà lunedì prossimo al Consiglio dei ministri degli Esteri? Di sicuro non sarà una passeggiata perché la politica internazionale è rimasta, fino a questo momento, di competenza esclusiva degli Stati e il Trattato di Lisbona ha aperto una breccia che deve essere ancora trasformata in una reale apertura.
Così, per non urtare le suscettibilità, la baronessa Ashton vuole muoversi con cautela. Rispettando le aspettative dei Paesi più grandi ed anche quelle della Commissione europea di cui lei - che è espressione del Consiglio - è vicepresidente. La vicenda della nomina del nuovo rappresentante della Ue a Washington è esemplare. Anche se non si tratta di una pedina del nuovo servizio diplomatico prossimo venturo, la scelta del portoghese Joao Vale de Almeida - connazionale ed ex capo di gabinetto del pre-
sidente della Commissione, José Manuel Barroso - è stata una mossa sin troppo scoperta per ottenere l’appoggio del capo dell’esecutivo europeo all’intero pacchetto delle future nomine. La Ashton per questa decisione, presa la settimana scorsa, si è attirata le critiche di alcuni Paesi membri che hanno messo le mani avanti e hanno chiesto alla neo-responsabile della politica estera europea di essere «rappresentati adeguatamente» nel nuovo apparato diplomatico. Hanno ottenuto soltanto la promessa di una procedura «rigorosa e trasparente» che dovrebbe garantire la selezione dei candidati più qualificati evitanto contestazioni come quelle provocate dalla scelta del fedelissimo di Barroso per la prestigiosa poltrona di rappresentante a Washington. Un posto che Joao Vale de Almeida manterrà anche quando sarà operativo il Seae. La baronessa Ashton ha promesso che il nuovo corpo diplomatico sarà selezionato in base alle qualità dei singoli candidati, senza tenere conto di quote nazionali che, nelle istituzioni europee, non esistono sulla carta, ma sono la pratica quotidiana nella realtà. Soprattutto Francia, Germania e Svezia avevano protestato chiedendo «equilibrio» nell’assegnazione dei posti di ambasciatore della Ue. Nel progetto che sarà presentato lunedì è prevista anche la creazione di un’Accademia diplomatica europea per armonizzare la formazione dei nuo-
mondo
L’ultimo Consiglio informale dei ministri degli Esteri europei a Cordoba. Sopra, la sede della Delegazione della Ue a Washington. Nelle foto a fianco, lady Ashton, Joao Vale de Almeida, Franco Frattini ed Ettore Sequi vi diplomatici che arriveranno nei ranghi del Seae da esperienze diverse: ex funzionari del Consiglio e della Commissione o dei ministeri degli Esteri nazionali. Per ospitare questa Accademia è già in corsa anche l’Italia. Il ministro Franco Frattini ha proposto l’Istituto universitario europeo di Firenze per la formazione di alto livello degli eurodiplomatici, mentre al Collegio d’Europa di Bruges potrebbe essere affidata la preparazione di base.
Ma un caso Italia c’è già sui nomi. Non quelli del nuovo servizio diplomatico, che ancora non esiste, ma quelli delle attuali strutture internazionali della Ue. E il segnale non è davvero positivo. Perso un mese fa il posto di rappresentante civile della Nato in Afghanistan, che era del diplomatico Fernando Gentilini, alla Farnesina è sfuggito anche a quello dell’inviato speciale della Ue a Kabul, perché l’ambasciatore Ettore Sequi, che ricopriva l’incarico dal maggio del 2008, è stato sostituito dall’ex ministro degli Esteri lituano, Vygaudas Usackas, che è stato scelto proprio da Catherine Ashton in una rosa di quattro nomi proposti da Italia, Lituania, Polonia e Ungheria. Anche questa designazione ha sollevato polemiche. Non tutti gli Stati membri della Ue si sono mostrati soddisfatti per la scelta che ha premiato un candidato chiacchierato per il ruolo che avrebbe svolto in Lituania nella vi-
cenda delle prigioni segrete della Cia e che lo ha portato, un mese fa, a dimettersi da ministro degli Esteri. La sostituzione di Sequi ha avuto strascichi polemici anche in Italia.
Franco Frattini nega che a Bruxelles tiri un vento anti-italiano. Già il 22 febbraio scorso, in margine all’ultimo Consiglio dei ministri degli Esteri euro-
tato i piedi abbiamo ottenuto il posto molto probabile di responsabile dei Balcani per Gentilini e di Sequi nel gabinetto della Ashton». Il capo della Farnesina ha negato che esista un caso Italia sulle nomine Ue. «La sommatoria tra direttori, vicedirettori generali e posti nei gabinetti pone l’Italia allo stesso livello di Gran Bretagna, Francia e Germania». E con la
Nelle ultime nomine la Farnesina ha perso due posizioni di prestigio in Afghanistan, ma Frattini nega che esista un “caso Italia”. Non è d’accordo Ronchi: «A Bruxelles dobbiamo puntare i piedi» pei, Frattini ha assicurato che «da parte italiana non c’è delusione» e che il passaggio da Sequi a Usackas è «una normale rotazione». Per la verità, quello stesso giorno, il ministro delle Politiche europee, Andrea Ronchi, che si trovava anche lui a Bruxelles, ha usato parole ben diverse. «Gli altri Paesi europei devono capire che non siamo più disposti ad accettare la marginalizzazione del sistema Italia», ha detto Ronchi invitando a «puntare i piedi» perché «il nostro Paese ha in Europa una rappresentanza quantitativa e qualitativa decisamente sottoproporzionata». Una polemica tra ministri dello stesso governo che Frattini ha poi cercato di minimizzare dichiarando di essere d’accordo con Ronchi per il passato, ma rivendicando anche dei successi: «Proprio perchè abbiamo pun-
Ashton non ci sarebbe alcuna incomprensione: «Non credo proprio che non consideri l’Italia», ha detto Frattini.
Se sarà così lo vedremo quando arriverà il momento delle nuove nomine, quelle che contano. Per adesso l’Italia sembra disposta ad appoggiare le proposte della baronessa Ashton in cambio, soprattutto, della scelta di Firenze per la sede della futura Accademia diplomatica. Lo stesso Javier Solana, ex Alto rappresentante Ue per la politica estera, ha definito la diplomazia europea «troppo divisa, troppo lenta e troppo molle. Verbosa nelle dichiarazioni e limitata nell’azione». Per questo la formazione dello staff rappresenta una vera sfida e vincere la partita dell’Accademia sarebbe un buon risultato. Ma è ancora tutto da giocare.
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Africa. Le rappresaglie nella zona di Jos hanno origini economiche una crisi internazionale, anche se non tutti in Occidente sembrano rendersene conto. L’uccisione di una decina tra donne e bambini cristiani in Nigeria da parte di una banda tribale di pastori musulmani fa poca notizia, ma è la spia di una situazione grave e pericolosa, intorno alla quale si intrecciano molte tensioni, tra le quali quelle di matrice religiosa non sono certamente le principali, ma comunque non vanno trascurate. Ieri all’alba almeno 13 persone, tra cui donne e bambini, sono rimaste uccise in un’incursione contro un villaggio di cristiani nell’area di Riyom in Nigeria centrale, nello Stato del Pleateau (la regione al confine tra le comunità a maggioranza islamica degli Stati settentrionali e quelle cristiane del sud del Paese). Secondo una fonte tre diversi gruppi hanno attaccato altrettanti villaggi, dando fuoco alle abitazioni. Secondo una radio gli aggressori, che sarebbero membri dell’etnia di pastori islamici Fulani, erano vestiti con divise militari mimetiche.
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Pochi giorni fa le forze di sicurezza avevano scoperto un camion con a bordo 44 probabili militanti che venivano trasportati a Jos, teatro di ripetuti scontri nelle ultime settimane. Secondo la polizia, negli scontri dello scorso 7 marzo presso Jos sono state uccise 109 persone, 500 secondo le prime testimonianze, in gran parte donne e bambini, finiti a colpi di machete. A gennaio nella stessa città in quattro giorni di violenze morirono più di 400 persone. Gli attacchi partono prevalentemente sempre dalle milizie dei Fulani, allevatori islamici. E tutti questi elementi contano e si intrecciano: l’etnia, l’atti-
Nigeria, una crisi che il mondo ignora Ancora sangue nel Plateau, mentre le autorità e i grandi media tacciono di Osvaldo Baldacci
sce per scatenarla. I pastori Fulani, ritenendo gli abitanti del villaggio responsabili della perdita di una parte del loro bestiame, hanno compiuto una rappresaglia. Il fatto che i Fulani siano musulmani, e gli abitanti del villaggio in gran parte cristiani, è un fatto incidentale». «Sono preoccupato - aggiunge - per il fatto che la grande stampa
A furia di parlare di scontro di religione, avvertono fonti dalla capitale nigeriana, «si finisce per provocare una reazione» vità economica, la religione. Non siamo infatti di fronte a scontri a motivo religioso, ma la religione viene comunque assunta come fattore di identità che qualifica i gruppi che si contrappongono. «Si tratta di una rappresaglia di pastori Fulani contro gli abitanti di un villaggio per un presunto furto di bestiame. Non si tratta di uno scontro tra cristiani e musulmani», ripete insistente l’arcivescovo di Jos, monsignor Ignatius Ayau Kaigama, che avverte: «A furia di parlare di lotta interreligiosa si fini-
internazionale continua a presentare gli scontri come religiosi. Non è così». Secondo l’arcivescovo, «si tratta di violenze di origine sociale, economica e politica. Affermando che vi sia uno scontro religioso si rischia di attizzare veramente l’odio interreligioso. Perché invece la stampa internazionale non parla delle iniziative avviate da tutti, compresi cristiani e musulmani, per ridurre la tensione nell’area?». Ovviamente l’arcivescovo ha ragione, e le motivazioni dello scontro sono tutt’altro che
Al Bashir firma un’altra tregua per il Darfur
La pace di Doha Quello che verrà firmato oggi a Doha dal vicepresidente sudanese Ali Osman Taha, in Qatar non è il primo accordo di tregua per il Darfur, ma si inserisce in una strategia che porterà ad elezioni ad aprile. Elezioni contestate e controverse, per la verità. Ieri Khartoum ha raggiunto un accordo-quadro di pace in Darfur con il movimento ribelle minoritario del Mlj (Movimento di liberazione per la giustizia). Tre settimane fa il governo di Bashir aveva già raggiunto un accordo di tregua con un altro gruppo ribelle assai più rappresentativo, quello del Jem (Movimento per la giustizia e la legalità). L’accordo doveva però essere ratificato il 15 marzo mentre non se ne è più fatto niente. Anzi, nel Darfur non è stato rispettato il cessate-il-fuoco e ci sono stati
numerosi scontri armati, con la morte di centinaia di civili. Scontri per i quali il governo di Bashir viene esplicitamente accusato dai ribelli dell’altra formazione principale, lo SlaAbndelwahid. Lo stesso gruppo che denuncia come truffa le prossime elezioni, per le quali quasi tre milioni di sfollati del Darfur non sono stati registrati nelle liste elettorali. Stesse accuse lanciate da quel Jem che non ratifica l’accordo-quadro raggiunto. Intanto sul presidente Bashir continua a pesare l’inchiesta della Corte Penale Internazionale. E la situazione in Darfur è sempre critica: ai 300mila morti nei sette anni di guerra civile, si aggiungono ogni giorno 75 bambini morti per malnutrizione, nonché 11 milioni di persone non autosufficienti in tutto il Paese. (O.Ba.)
religiose, e certamente i veri credenti si stanno adoperando per la pace e la giustizia. Ma resta il fatto che un problema religioso c’è inevitabilmente, in quanto gli agitatori lo usano con successo ed è comunque l’elemento che può unificare e rendere concreti i sentimenti di insofferenza da parte della popolazione spingendola ad armarsi. Se nel caso dei pastori la violenza - per quanto in modo sospetto e pericoloso si ripeta con sempre maggiore frequenza e organizzazione può essere ancora scatenata da questioni locali e da atavici contrasti tra allevatori e contadini, accentuati da odi e rivalità tribali ed etniche (fattori ancora molto reali in gran parte dell’Africa), resta il fatto che fondamentalisti islamici si innestano in questa spirale e soffiano sul fuoco, e nei mesi passati ci sono stati diversi episodi di violenze scatenate proprio da milizie islamiste, come i talebani nigeriani e altre milizie-sette. Si dovrà poi ricordare che gli Stati musulmani del nord applicano la sharia. Sono migliaia i morti dal 2001 a partire da queste scintille. Non a caso in situazioni del genere c’è chi propone soluzioni semplicistiche ma che possono far comodo a qualcuno: nei giorni scorsi Gheddafi ha proposto di dividere in due la Nigeria, tra uno Stato islamico a nord e uno cristiano a sud.
D’altro canto queste tensioni minano dal profondo un Paese importante come la Nigeria. Un Paese popoloso e democratico, secondo produttore africano di petrolio, alle prese anche con altre ribellioni indipendentiste. Uno Stato dove il 70% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno, e il cui prezioso e precario equilibrio istituzionale è messo in crisi dalla malattia del presidente (musulmano) Umaru yar’Adua, che non appare in pubblico da novembre e che ha spinto il Parlamento a puntare su elezioni presidenziali anticipate nel 2011. Ma fino ad allora c’è molta instabilità e incertezza istituzionale. Secondo il drammaturgo e Premio Nobel per la Letteratura, Wole Soyinka, il Paese è vicino alla rivoluzione sociale: «Siamo uno Stato fallito, dove la rabbia popolare ha raggiunto un picco: non escludo che il Paese possa implodere, come accade agli Stati falliti, e le elezioni dell’anno prossimo rappresentano la nostra ultima possibilità». Il destino del colosso nigeriano non può lasciare indifferente l’occidente.
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Il governo americano chiede ancora la rivalutazione monetaria
Oltre 50 persone portate via a forza durante l’antico rito
Una legge del Congresso minaccia lo yuan cinese
Iran, scontri e arresti per la Festa del fuoco
WASHINGTON. Non accenna a
TEHERAN. In diverse città la polizia iraniana è stata schierata per fermare possibili moti dell’opposizione in occasione della festa del fuoco, un’antica festa zoroastriana, iniziata ieri sera. Secondo alcuni siti web, vi sono stati scontri nella capitale e le forze dell’ordine hanno arrestato 50 persone. La festa del fuoco, Chaharshanbeh-Suri, è un’antica tradizione zoroastriana, che si celebra il mercoledì prima della festa di Nouruz, il capodanno iraniano, il 21 marzo. La tradizione vuole che alla sera della vigilia, i fedeli facciano scoppiare mortaretti, accendano sette fuochi e saltino attraverso le fiamme, per indicare il passaggio dall’inverno alla primavera. Le autorità isla-
fermarsi la “guerra dello yuan” in corso fra Pechino e Washington. Dopo le dichiarazioni con cui il premier cinese ha chiuso l’Assemblea nazionale del popolo, che di fatto blindano la valuta cinese, il Congresso americano ha deciso questa notte di minacciare il gigante asiatico: se non rivaluta la propria moneta, saranno applicati nuovi e più pesanti dazi sulle esportazioni. Inoltre, i deputati americani hanno chiesto all’Amministrazione Obama, qualora non cambino le cose, di definire ufficialmente Pechino “un manipolatore di valuta”.
Nel frattempo, però, non sembra volersi fermare la corsa economica del dragone: le stime di oggi della Banca mondiale, infatti, indicano una previsione al rialzo del prossimo Pil cinese. Secondo gli analisti della struttura sopranazionale, la crescita interna si attesterà sul 9,5%, un aumento di mezzo punto rispetto a quanto dichiarato dai vertici della Banca cinese. Per quanto possa sembrare una buona notizia, l’esecutivo di Pechino non è sereno sull’argomento: un aumento del Pil potrebbe comportare un’impennata dell’inflazione, con un conseguente aumento delle proteste sociali che ogni anno
Tra Usa e Israele una crisi a singhiozzo Si alternano dichiarazioni d’odio e pacificazioni di Antonio Picasso a crisi fra Israele e Stati Uniti sembra essere rientrata. Ieri mattina il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha negato che la questione degli insediamenti israeliani intorno a Gerusalemme Est sia stata la causa di una frattura diplomatica fra i due governi. Poche ore dopo, il Presidente israeliano, Shimon Peres, dichiarava: «Gli Stati Uniti sono un amico per Israele che nutre un profondo rispetto per le istituzioni di Washington guidate dal Presidente Obama». Viste così le due dichiarazione fanno pensare che il tornado diplomatico di questi ultimi dieci giorni altro non sia stato che una bolla speculativa, volta a rilanciare l’attenzione mediatica sul processo di pace. Una sorta di carotaggio politico inscenato per capire quali siano i punti critici per ciascuna delle parti in causa. Agli atti però restano la rovinosa visita del vice Presidente Usa, Joe Biden, la scorsa settimana nella regione, durante la quale il Ministro dell’Interno israeliano, Eli Yishai - esponente del partito religioso Shas - ha firmato il decreto per la realizzazione di un altro insediamento fuori Gerusalemme, in una zona rivendicata dai palestinesi. Una scelta, questa, che ha esacerbato gli animi della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. È probabile però che lo stesso Primo ministro israeliano Netanyahu si sia sentito in imbarazzo per l’avventatezza del suo collega. A tutto questo è seguito un confronto-scontro che, secondo il Washington Post, ci sarebbe stato fra Netanyahu e la Clinton sulle condizioni di pace alle quali gli israeliani dovrebbero sottostare. Tre quarti d’ora di telefonata in cui Hillary Clinton avrebbe sfoderato la sua proverbiale grinta per convincere Israele a mettere uno stop alla sua politica espansionistica. Nel contesto sempre ieri anche il Ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, ha chiesto a Israele di non ostacolare il processo di pace. Come immediata conseguenza all’inflessibilità degli Usa, si è avuta la dichiarazione del Ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, che ha definito “irragionevoli” le motivazioni avanzate da Washington. Que-
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st’ultima però ha reagito in modo ancora più concreto, cancellando la visita dell’inviato speciale della Casa Bianca, George Mitchell, prevista in questi giorni. Gli Usa in questo modo hanno fatto capire che, se vogliono, possono abbandonare Israele a se stessa, affinché si occupi dei rapporti con il mondo arabo che la circonda senza la protezione dall’esterno della Casa Bianca. Ma queste minacce valgono il tempo che trovano. Dopo lo scambio di provocazioni, dalle dichiarazioni della Clinton e di Peres ieri traspariva la sensazione che tutto fosse rientrato nella normalità. Anzi, sembrava che non fosse accaduto nulla.
Il fatto che Washington abbia minimizzato la crisi fa pensare che entrambi i governi vogliano evitare di mostrare una così profonda e reciproca incomprensione di fronte alla Lega Araba e all’Iran, i quali potrebbero approfittare della crisi per rinforzarsi e avanzare condizioni molto più onerose. D’altra parte, è possibile che ci sia stato anche un reale punto di incontro fra i due governi. Da come sembra, la Casa Bianca è orientata sulla strada del confronto diplomatico con l’Iran, in merito al nucleare. Questa opzione è stata più volte contestata da Israele. Plausibile quindi pensare che Washington preferisca assumere un atteggiamento soft riguardo agli insediamenti dei coloni, al fine di avere la strada libera nei negoziati con Teheran. C’è poi la spaccatura interna all’Autorità Palestinese tra Fatah e Hamas, che gioca tutta in vantaggio di Israele. Per questo gli Usa hanno le mani legate e solo la Lega Araba potrebbe risolvere il problema. Infine non vanno sottovalutati gli scontri di questi ultimi giorni fra la Polizia di Gerusalemme e i manifestanti palestinesi. Washington può aver avuto paura di una terza Intifadah, o di una guerra. Simili calamità porterebbero le lancette dell’orologio del processo di pace indietro di una decina di anni. In tal caso l’Amministrazione Obama perderebbe anche la possibilità di mantenere aperto il dialogo con i palestinesi e con il resto del mondo arabo.
Peres e la Clinton fanno i “pompieri”, mentre il cognato di Bibi Netanyahu accusa Obama: «Sei un antisemita»
scuotono il Paese. Una proposta di legge bipartisan, presentata a Washington, chiede al governo americano “degli sforzi legislativi per spingere la Cina a cambiare le proprie politiche monetarie. Tenendo volutamente lo yuan a bassi livelli, Pechino si comporta in maniera sleale nell’ambito della bilancia dell’import-export”. La questione dello yuan va avanti da almeno cinque anni, ovvero da quando Pechino ha iniziato a comprare in maniera massiccia parti del debito estero Usa. La Cina ha già ventilato la possibilità di rivalutare lo yuan di circa il 10%. Secondo alcune stime, essa possiede riserve per un valore complessivo di circa 3mila miliardi di dollari.
miche iraniane bocciano queste feste come eretiche e senza basi nella Sharia. Alcuni giorni fa, la guida suprema Alì Kahmenei ha detto che lo Chaharshanbeh-Suri «causa molti danni e corruzione e per questo è meglio evitarla». Il timore più grande è però che questa festa e i raduni siano usati dall’opposizione a manifestare il proprio dissenso, come è avvenuto in tutti questi mesi, dopo la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad e le manifestazioni dell’Onda verde. Alcuni gruppi dell’opposizione hanno invitato a manifestare contro il regime, ma uno dei leader, Mir Hossein Moussavi ha chiesto ai suoi sostenitori di evitare disordini.
Il sito dell’opposizione, Jaras, afferma che vi sono stati scontri a Teheran. Ma altre testimonianze dicono che la festa si sta svolgendo senza problemi, solo in una maniera “più discreta” degli altri anni. La polizia ha dichiarato che vi sono stati 50 arresti per “disturbo della quiete pubblica”. Mentre ancora non si hanno notizie dei numerosi dimostranti arrestati durante le proteste antigovernative dei mesi scorsi, di cui la comunità internazionale ha chiesto notizie. Secondo l’esecutivo di Teheran, «non sono in galera».
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Libri. Angelo Del Boca fa luce sui controversi bombardamenti attuati dal regime fascista nel suo nuovo saggio: “La guerra d’Etiopia”
Orrori d’Abissinia Centinaia di civili sterminati, le accuse di genocidio e il ruolo del Duce: ecco la verità degli archivi di Massimo Tosti l 2 ottobre 1935, Benito Mussolini annunciò da Palazzo Venezia l’inizio della guerra contro l’Etiopia. «Un’ora solenne sta per scoccare nella storia della Patria»: la voce del duce, diffusa dall’Eiar, fu ascoltata in ogni angolo della Penisola. «Quando nel 1915 l’Italia si gettò allo sbaraglio e confuse le sue sorti con quelle degli alleati, quante esaltazioni del nostro coraggio e quante promesse! Ma, dopo la Vittoria comune, alla quale l’Italia aveva dato il contributo supremo di 670mila morti, 400mila mutilati, e un milione di feriti, attorno al tavolo della pace esosa non toccarono all’Italia che scarse briciole del ricco bottino coloniale». Riferendosi all’inizio dell’era fascista, Mussolini aggiunse: «Abbiamo pazientato quindici anni durante i quali si è ancora più stretto il cerchio degli egoismi che soffocano la nostra vitalità. Con l’Etiopia abbiamo pazientato quaranta anni. Ora basta!».
I
Fu quello – senza dubbio – il momento di maggiore popolarità del regime. L’idea di conquistare “un posto al sole” affascinava gran parte degli italiani. Nella convinzione, oltretutto, che la spedizione militare si sarebbe risolta in una passeggiata. Le prime operazioni confermarono questa sensazione: in pochi giorni le truppe conquistarono Adigrat, Adua e la città santa di Axum. Il 7 ottobre la Società delle Nazioni dichiarò l’Italia paese aggressore. Il 18 novembre entrarono in vigore le sanzioni contro il nostro Paese. Dieci giorni prima le truppe avevano conquistato Macallè. Il 20 gennaio 1936 il generale Graziani sconfisse le truppe etiopiche a Negelli. Il 15 febbraio segnò un’altra vittoria ad Amba Aradam. Il 5 maggio la guerra si concluse con l’ingresso ad Addis Abeba delle truppe comandate dal generale Pietro Badoglio. Quattro giorni più tardi, Mussolini annunciò la creazione dell’Impero, «sui colli fatali di Roma».
Ma non furono tutte rose e fiori. E – soprattutto – dopo la caduta del fascismo, il vento girò improvvisamente: l’impegno comune a molti storici fu quello di riscrivere le pagine “eroiche”dell’impresa, scavando ne-
Fu usata la bomba C.500.T, che aveva caratteristiche simili ai nebulizzatori: l’iprite spazzò via anche donne e bambini
gli archivi, cercando testimonianze, ed esibendo prove della ferocia di alcuni atti di guerra. In sessant’anni il dossier delle malefatte si è arricchito a dismisura, e quella che uno storico del tempo definì «la più grande impresa coloniale della storia» si è progressivamente trasformata nell’accusa di genocidio ai danni degli etiopi, senza risparmio per le vite dei civili, donne e bambini compresi. Al cambiamento di giudizio contribuirono anche quelli che, nell’immediato, avevano elogiato l’impresa. Indro Montanelli scrisse: «Quest’avventura è bella – la più bella, non ne avrò altre
eguali – e quindi la desidero, la voglio lunga. Poi torneremo a portare al Duce l’Impero e riverremo quaggiù, malati di mal d’Affrica. Hic manebimus optime: io resterò in Affrica». Dopo la Seconda guerra mondiale lo stesso Montanelli espresse un giudizio sprezzante, definendo quel conflitto coloniale «una campagna per la conquista di qualche casco di banane».
Lo storico Amedeo Tosti (soltanto un omonimo, nessun rapporto di parentela con l’autore di questo articolo) intitolò un suo libro scritto a caldo con l’espressione già citata: La più grande impresa coloniale della storia. Negli anni Cinquanta Tosti modificò in modo sostanziale i giudizi “politici” sulle responsabilità della guerra, senza peraltro fornire nuove versioni riguardo alle strategie e alle tattiche adottate nelle singole battaglie. Su internet ci sono circa due milioni di siti nei quali si parla della guerra d’Etiopia. E, come accade per tutte le vicende storiche che riguardano gli anni del fascismo e
del nazismo, le interpretazioni e le ricostruzioni dei fatti sono le più disparate. C’è chi esclude in modo perentorio che l’Italia abbia fatto uso di gas in quel conflitto, proponendo testimonianze più o meno casuali e negando persino che l’allora im-
Nella foto grande, un’immagine della guerra in Etiopia. Qui sotto, il Negus Hailé Selassié. A sinistra, due saggi di Angelo Del Boca e Amedeo Tosti. Nella pagina a fianco, dall’alto al basso, Emilio De Bono, Rodolfo Graziani e Pietro Badoglio,
peratore d’Etiopia, Hailé Selassié, abbia mai fatto cenno ai gas. Il 30 giugno 1936, un mese e mezzo dopo la fine della guerra, il Negus – davanti all’Assemblea generale della Società delle Nazioni – dichiarò: «All’inizio, nel dicembre del 1935, l’aviazione italiana lanciò sulle mie armate bombe di gas lacrimogeno. I loro effetti furono di scarsa efficacia. I soldati impararono presto a disperdersi in attesa che il vento dissolvesse rapidamente i gas tossici. L’aviazione italiana ricorse allora all’iprite: barili di liquido venivano lanciati sui gruppi armati. Ma anche questo sistema si rivelò inefficace. Il liquido non colpiva che qualche soldato. E i barili, a terra, mettevano in guardia dal pericolo. Fu all’epoca dell’operazione di accerchiamento di Macallé che il comando italiano, temendo una disfatta, applicò il procedimento che ho ora il dovere di denunciare al mondo. Dei diffusori furono installati a bordo di aerei in modo da vaporizzare, su vaste distese di territorio, una sottile pioggia micidiale. A gruppi di nove, di quindici, di diciotto, gli aerei si succedevano in modo che la nebbia emessa da ciascuno formasse una coltre continua. Fu così che, a partire dalla fine di gennaio del 1936, i soldati, le donne, i bambini, il bestiame, i fiumi, i laghi, i pascoli, furono di continuo spruzzati con questa pioggia morta-
le. Per uccidere sistematicamente gli esseri viventi, per avvelenare con certezza le acque e i pascoli, il comando italiano fece passare e ripassare gli aerei. Questo fu il suo principale metodo di guerra».
Le dichiarazioni di Hailé Selassié sono riportate nell’ultimo libro che Angelo Del Boca ha dedicato all’argomento. Si intitola La guerra d’Etiopia – L’ultima impresa del colonialismo (Longanesi editore, 300 pagine, 18 euro). Del Boca può essere considerato un esperto delle vicende legate al colonialismo italiano. In particolare, sull’uso delle armi chimiche ha pubblicato tre anni fa un saggio intitolato I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia (pubblicato dagli Editori Riuniti). Ma si è occupato anche della conquista della Libia, de Gli italiani in Africa Orientale (in quattro volumi), e ha scritto una biografia del Negus. Quest’ultimo libro rielabora e completa gli studi precedenti, arricchendoli di nuovi particolari e nuovi La documenti. parte più interessante – proprio perché a lungo negata – è quella riguardante l’uso dei gas, correggendo persino la ricostruzione del Ne-
cultura
gus. In Etiopia – sostiene Del Boca – non furono impiegati i nebulizzatori a bordo dei bombardieri. Fu usata la bomba C.500.T, messa a punto dal Servizio Chimico alla vigilia della guerra, che aveva caratteristiche che potevano far pensare ai nebulizzatori. Questa bomba «ha un peso di 280 chilogrammi e contiene circa 212 chili di iprite. Grazie a un meccanismo a tempo, esplode a 250 metri dal suolo e provoca una pioggia di goccioline capaci di coprire un’area ellittica di 500800 metri per 100-200, a seconda del vento. Gli effetti dell’iprite, in questa area, sono generalmente mortali. E poiché gli aerei italiani, specialmente quando compiono ‘azioni di sbarramento C’, lanciano insieme parecchi ordigni, l’effetto descritto da Hailé Selassié di ‘coltre continua’ di pioggia mortale, è del tutto riconducibile alla realtà».
Dagli
archivi
storici è venuta alla luce la verità. Fra il 22 dicembre 1935 e il 29 gennaio 1936, il maresciallo Badoglio autorizzò 31 bombardamenti con i
gas, con il lancio di 420 bombe C.500.T. Gli obiettivi prescelti furono sulle direttrici di marcia delle armate etiopiche, come i guadi del Tacazzé, il passo di Dembenguinà, le località di Addi Rassi e di Mai Timchet, le carovaniere nella zona di Antalò, a nord dell’Amba Aradam, il passo di Af Gagà, i dintorni di Abbi Addi, i guadi del Ghevà, la zona di Socotà, le carovaniere nella regione di Fenaroa. Mussolini e lo stato maggiore in Africa (inizialmente al comando del vecchio quadrumviro Del Bono, e poi passato nelle mani di Badoglio) erano convinti di poter vincere la guerra in poche settimane. Il Pnf, la stampa e l’opinione pubblica nutrivano la medesima certezza, al punto che le prime settimane di guerra furono seguite sul terreno da una quantità enorme di osservatori: più di 300 giornalisti, altrettanti cappellani militari, 7 principi di Casa Savoia, un numero incalcolabile di gerarchi, gerarchetti, podestà, federali, ufficiali della milizia, ispettori di partito, aristocratici, diplomatici, uomini di cultura. C’era persino un tredicenne, il balilla Mario Catino, arruolato come mscotte di un battaglione di camicie nere.
Quando la guerra prese una piega diversa (mentre la Società delle Nazioni discuteva le sanzioni all’Italia), Mussolini fece pressioni perché si avanzasse rapidamente verso Addis
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Abeba, impiegando «tutti i mezzi di guerra – dico tutti – sia dall’alto che da terra», con «la massima decisione» (telegramma a Badoglio del 19 gennaio 1936). Appena due settimane prima aveva scritto allo stesso Badoglio (dimostrando di essere al corrente dell’uso della pirite): «Sospenda l’impiego dei gas sino alle riunioni ginevrine, a meno che non sia reso necessario da supreme necessità dell’offesa o difesa», assumendosi le relative responsabilità: «Le darò io ulteriori istruzioni al riguardo». Badoglio – sostiene Del Boca – non si fece pregare. E qualche volta decise per proprio conto di impiegare i gas. Altre testimonianze vennero all’epoca da alcuni medici presenti sul campo (Valentin Schuppler, John Melly, John William Macfie, Gunnar Ulland, Gunnar Agge) e dal delegato della Croce Rossa Internazionale, Marcel Junod, che subì un bombardamento all’iprite nell’aeroporto di Quoram: «A seicento metri di distanza sono preso alla gola da un odore acre. Avverto anche un pizzicore negli occhi. Non ci sono dubbi, le bombe che cadono intorno a noi sono bombe all’iprite». Junod descrisse gli effetti di quell’incursione: «Dappertutto, sotto gli alberi, uomini sono distesi per terra. Sono migliaia. Mi avvicino, sconvolto.Vedo sui loro piedi, sulle loro membra scarnificate orribili piaghe che sanguinano. La via ormai se ne va dai loro corpi rosi dall’iprite».
Soltanto negli ultimi venti anni è stato possibile raccogliere le testimonianze di soldati italiani che nei precedenti cinquant’anni avevano rispettato la consegna del silenzio. E si sono moltiplicati i memoriali di denuncia. Il primo storico a rivelare l’uso delle armi chimiche in Etiopia fu, a metà degli anni Settanta, Denis Mack Smith ( Le guerre del Duce, Laterza editore). Mack Smith raccontò anche le violenze patite dalla popolazione civile etiope, e la crudeltà contro i prigionieri militari, oltre alle rappresaglie ordinate (quando fu nominato viceré) dal generale Graziani: «Centinaia di villaggi furono dati alle fiamme dai suoi soldati, e i superstiti giustiziati sulla base di semplici sospetti». In seguito Graziani avrebbe cercato di scaricare la responsabilità dei suoi metodi sbrigativi a “precisi ordini”ricevuti da Roma. E su questo particolare è lecito, ancora oggi, dubitare della parola del generale.
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PALERMO. Il sogno realizzabile di un’architettura in armonia con l’ambiente, un architetto-filosofo che, dal 1970, ha creato quel concetto di Arcologia che potrà essere prezioso per gli sviluppi del mondo dell’avvenire. È, in sintesi, Paolo Soleri, celebrato in un volume edito da Flaccovio Editore. Sono 808 i disegni inediti dell’architetto piemontese, già studente all’Accademia e al Politecnico di Torino, raccolti in Soleri, la formazione giovanile,1933-1946. Citato non a caso da grandi autori di fantascienza come Ballard e Gibson, attualmente impegnato nella realizzazione del visionario Megalopolis a fianco di Francis Ford Coppola, Soleri è nato a Torino nel 1919 dove si è laureato al Politecnico per poi diventare allievo di Frank Lloyd Wright a Taliesin West in Arizona, stato dove si è definitivamente stabilito nel 1955 dopo aver lasciato in Italia un’unica grande opera come la Fabbrica di Ceramica Artistica Solimene a Vietri sul Mare. Nel deserto dell’Arizona, Soleri ha avviato i laboratori urbani di Cosanti (Phoenix) e Arcosanti (a metà strada tra Phoenix e il Grand Canyon) con l’intento di sperimentare i principi di un’architettura in armonia con l’uomo e l’ambiente. Grazie alla raccolta Omaggio a Paolo Soleri che compie novant’anni, si può oggi apprezzare il processo disegnativo dell’elaborazione e del pensiero dell’architetto ammirando schizzi, studi e visioni preliminari che racchiudono il suo grande impegno di riflessione e di formulazione: una particolare evidenza viene tra l’altro riservata alla casa sul lago n.4 con cinquantotto disegni, il giardino nel territorio di Rivoli, l’asilo sviluppato in due varianti e documentato – è l’unico caso – con foto di plastici, la residenza per un musicista, e infine la tesi con sessantadue disegni. «È nell’esperienza che li ha determinati che affonda la ricchezza immaginativa di Soleri. Vi troviamo – dice la curatrice, Antonietta Iolanda Lima – l’attenta e commossa osservazione delle cose, la meditata assunzione dell’intenzionalità razionale del progetto, il proprio e quello registrato nelle opere assunte a paradigmi storici, la capacità espressiva, grafica e coloristica, in rapidissima crescita, l’emotività controllata, non soffocata, di chi conosce gli scopi di un disegno d’architettura. Il carattere singolare di questi disegni, provocati da compiti didattici dagli anni del liceo artistico fino alla tesi di laurea, sta nel dinamismo e nell’autocoscienza che si configura come vocazione all’architettura intesa come strada per
damente iniziato fin dalla sua prima giovinezza». Partendo dagli ottocentoquindici disegni, 808 inediti, recentemente rinvenuti dalla Cosanti Foundation, il volume ha ricevuto il prezioso contributo di un compagno di Soleri in facoltà di architettura, anche lui novantenne: Mario Roggero, professore emerito dal 1989.
Arte. Flaccovio pubblica i disegni giovanili dell’architetto piemontese
Il mondo abitabile di Paolo Soleri di Antonella Folgheretti
Nella foto grande, dettaglio di una costruzione di Arcosanti, Arizona, progettata da Paolo Soleri. (A sinistra, nella foto)
Citato da Ballard e Gibson, prepara il nuovo film di Francis Ford Coppola: la sua “Arcologia”, visionaria ma solida, ha fatto scuola in America penetrare nella materiale realtà del mondo per scoprirvi una abitabilità».
Disegni che il giovane Soleri avrebbe presto rinchiuso in casse per partire per l’Ameri-
ca, quasi pensasse a essi come a una piattaforma sulla quale appoggiare aperture e sperimentazioni ulteriori. «Questo volume ha inteso mettere a nudo – prosegue Lima – le radici e la prima piattaforma
che hanno consentito l’innestarsi, e il compiersi maturo, del percorso del tutto originale di Paolo Soleri. Chiara è la consapevolezza che si è agli inizi, che ci si è mossi nel contesto di una esplorazione critica che non in quello di una non meglio stabilizzata costruzione storica, anche in ragione del fatto che Soleri è ancora attivo. Altrettanto netta, tuttavia, è la certezza di aver conosciuto e riconosciuto un uomo dotato non solo di eccezionale talento d’architetto, ma anche di un amore per la condizione umana e per il cosmo intero, un uomo che ci ha dato molto e che ancora molto potrà dare, se si prenderà atto del suo lavoro luci-
Ma la pubblicazione tenta anche di individuare un possibile percorso fatto di nodi, ramificazioni, intrecci, la cui importanza va ben oltre Paolo Soleri: c’è infatti l’esplorazione delle dinamiche tra insegnamento dei docenti e risposte degli studenti in una stagione segnata dal regime fascista e dalla guerra. Nato a Torino, città laboriosa e concreta, Paolo Soleri cresce in tutt’uno con la città e il suo paesaggio, assorbe la sua architettura tramandata dalla storia. «Certo – conclude Antonietta Iolanda Lima – nell’esplorazione della giovanile oceanografia dell’anima e dell’immaginazione visuale di Soleri, alcuni enigmi restano tali, sorprendenti incognite che invitano a puntuali rivisitazioni cronologiche e formali nella storiografia dell’architettura. Al contempo, la vastità del respiro del pensiero progettante, la insistita e varia eco della lezione dei maggiori maestri del Novecento, il riverbero di un io che va sempre più acquistando coscienza di sé, coinvolgono e permettono di capire quanto sia eccezionale il talento di Soleri in un mondo già allora così distratto». Quando, dopo qualche mese dalla laurea, parte per l’America, Soleri ha già acquisito quegli strumenti di pensiero che gli consentiranno di percepire i fenomeni nuovi. Di lì a poco prenderà ancor più consapevolezza del fatto che l’architettura ha nuovi compiti e che questi si esplicano affrontando i problemi che riguardano il rapporto armonico fra uomo e ambiente con la città, pensata in un progresso storico dell’umanità intera, nella problematicità spesso drammatica del suo evolversi. È il 9 dicembre 1946, quando Soleri intravede dalla nave in lontananza Ellis Island: nel 1955 inizierà la sperimentazione a Cosanti. In questo arco di tempo moltissime cose sono cambiate nel mondo, ma le linee-guida del pensiero di Soleri, sostanzialmente inalterate, si rivelano oggi attualissime per la straordinaria capacità di anticipare la deriva della società dei consumi.
cultura
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L’intervista. L’intellettuale egiziano Tarek Heggy ci spiega la sua ricetta per cambiare la situazione nel mondo arabo-islamico
«Vi racconto le mie prigioni» di Rossella Fabiani
ROMA. Come sia possibile rischiare la vita per voler cambiare la situazione nel mondo arabo islamico, lo spiega l’intellettuale egiziano Tarek Heggy, in Italia in questi giorni per presentare a Roma la traduzione italiana del suo Le prigioni della mente araba (a cura di Valentina Colombo, Marietti 1820), una raccolta dei suoi articoli che hanno fatto il giro del mondo. Heggy, «la più coraggiosa e lucida voce d’Egitto» secondo Bernard Lewis, è senza dubbio l’intellettuale arabo liberale più importante. Figlio dell’Egitto degli anni 50, quando il paese era laico e moderno «dove soffiava un vento proveniente dal Mediterraneo, mentre oggi soffia un vento da sudest», non solo ha una formazione unica nel suo genere, ma la sua immensa passione per la tradizione culturale occidentale e per la tradizione araboislamica classica ha fatto sì che pregiudizi e ideologie non attecchissero in lui.
E Tarek Heggy è stato il primo a rispondere all’appello lanciato dalla scrittrice e islamista Valentina Colombo “Arabi liberali svegliatevi”, sul sito al-Hiwar al-Mutamaddin mettendosi a disposizione per creare un network che desse voce ai musulmani liberali. E la Colombo usa volutamente il termine liberale per contrapporlo ai termini di moderato e di riformista che in Occidente hanno ormai acquisito caratteri di ambiguità tali da depotenziarne il significato originario. Nel suo libro Heggy si propone di liberare la mente araba dalle sue prigioni, un lavoro enorme. Le sue parole sono sempre molto nette, mai “ma” né “se”. I problemi ci sono e vanno affrontati. La sua analisi del mondo culturale arabo-islamico è obiettiva, onesta, critica e pungente della situazione attuale, senza paura. Continua a vivere in Egitto anche se oggi il suo paese gli sta stretto perché sta arretrando e non è più il paese di quando è nato.Viaggia moltissimo invitato da Università di tutto il mondo. È un intellettuale che crede nella sua missione: cambiare la situazione nel mondo arabo-islamico. Le prigioni del mondo arabo è il suo ventottesimo libro. «Sono un vulcano che rifiuta i sintomi di arretratezza di tutte le società arabo-islamiche, un vulcano che promuove l’umanità, la civiltà e il progresso, un vulcano di rabbia perchè gli arabi, non perdono mai l’occasione per perdere un’occasione». Le
“
Una cultura religiosa basata sulla stretta ortodossia ha portato alla mancata accettazione del concetto di compromesso nella nostra società
”
sue parole valgono come un monito temerario e inequivocabile sia per il mondo arabo che per il mondo occidentale. In un Egitto dove la deriva islamista è sempre più evidente, Heggy non si nasconde, non teme di esprimere le proprie idee. Uno dei suoi obiettivi principali è quello di liberare il mondo arabo dal tarlo dell’ideologia del complotto sionista, americano o, più in generale, occidentale. La rabbia di Heggy risiede nella convinzione che il pensiero illuminato e razionale appartiene da sempre all’islam. Tuttavia, dice, «una cultura religiosa basata sulla stretta ortodossia o la lettura testuale delle sacre scritture ha portato alla mancata accettazione del concetto di compromesso nella nostra cultura». Dando vita a una società composta da quelli che lui chiama «gli adoratori della parola e i prigionieri della tradizione». Secondo Heggy sono tre i motivi principali della deriva intollerante e dell’involuzione del mondo in cui vive che rappresentano altrettante prigioni:
«La prima prigione che paralizza la mente araba e che le impedisce di unirsi al cammino del progresso umano è l’interpretazione conservatrice, medievale e beduina della religione che è decisamente in contrasto con le esigenze della nostra epoca, con la scienza e la civiltà». Al rifiuto di confrontarsi con la realtà, si aggiunge «un clima culturale che ha incoraggiato la diffusione dei valori tribali, compresi i valori negativi, quali l’individulismo (invece della tolleranza) e il provincialismo (invece dell’apertura mentale). Infine, le istituzioni religiose, educative, culturali e mediatiche nelle società araboislamiche hanno creato una forma mentis che considera il richiamo al progresso e alla modernità un richiamo all’invasione culurale e alla perdita della speficità culurale». All’apparenza, suonano come considerazioni innocue. Nel contesto egiziano equivalgono a porsi pericolosamente in contrasto con l’influenza dei Fratelli musulmani. E, a livello della ummah islamica, significa opporsi al modello beduino-wahhabita che si pone come l’unica vera versione del messaggio del Corano. È un’illusione, spiega ai suoi connazionali. E allo stesso tempo avverte anche noi: non cadete nella trappola perché, se l’Occidente si facesse convincere dai petrodollari, ai musulmani non rimarrebbe più alcuna speranza. Heggy infatti distingue tra quello che descrive come il modello turco-egiziano e
il modello wahhabita dell’Islam «se il primo non può pretendere di avere raggiunto il livello di illuminazione del pensiero progressivo di Averroè, era tuttavia un islam gentile e tollerante che riusciva a coesistere con gli altri e che aveva adottato un approccio illuminato alla religione, considerandola un sistema di credenze spirituali e non un sistema che regola tutti gli aspetti della vita e gli affari della società». L’equazione islam-violenza-terrorismo si è diffusa solo per colpa di un modello puritano, zelota, fondamentalista, marginale e debole prima che la ricchezza dei petrodollari non lo rimettesse in gioco e non lo riportasse alla ribalta. «Milioni di musulmani sono rimasti impermeabili all’appello del messaggio fanatico, violento e sanguinario di
Sopra, l’egiziano Tarek Heggy, in Italia per presentare il suo libro “Le prigioni della mente araba”
quella che era una piccola e oscura setta, cresciuta nel paesaggio intellettualmento deserto della penisola araba orientale.Tutto è cambiato con il flusso massiccio di petrodollari nelle casse dell’Arabia Saudita che ha usato la sua nuova ricchezza per diffondere il messaggio della sua setta wahhabita con zelo missionario. Di qui l’emergere dell’Islam militante».
Oltre alla diffusione del wahhabismo, Heggy sottolinea il problema di un sistema educativo antiquato, i diritti delle donne, l’oppressione politica, la discriminazione religiosa. E denuncia l’assenza di una classe media moderna e proiettata verso il futuro con una formazione all’avanguardia che possa difendere i valori del progresso e della modernità. Ed è questa assenza, secondo lo scrittore egiziano, la vera spiegazione del fenomeno che vede le masse attratte dal messaggio estremista. Anche le politiche occidentali devono fare la loro parte «l’Europa deve rivedere quella triste fase della sua storia nella quale ha gestito in modo drammaticamente sbagliato la questione della presenza sul suo territorio di leader islamisti che non hanno mai esisato ad accoltellare alle spalle i paesi che hanno offerto loro un esilio dorato. Spero che l’Unione Europea lanci una revisione globale delle legislazioni che hanno permesso a questo cancro di esistere e di espandersi sul suo territorio».
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Iuris negligentibus non succurrunt. Le liste bocciate rimangano tali Perché sono state bocciate le liste regionali nel Lazio e nella Lombardia? Sicuramente per negligenza. Firme, timbri, autenticazioni non sono adempimenti formali, ma sostanziali. Si tratta di norme scritte dalla classe politica che ci governa, che hanno già prodotto in passato delle esclusioni clamorose. Un partito ben organizzato non si riduce al’ultimo giorno, tranne che non abbia eccessivi problemi di dosaggio dela lista. Ai tempi della Prima Repubblica, il Partito comunista riusciva a conquistare in tutti i collegi elettorali il primo posto nella scheda perché presentava la documentazione il primo giorno e mai subì nelle elezioni politiche e fors’anche in quelle amministrative, alcuna bocciatura di candidature. Il governo nazionale ha approvato un decreto interpretativo per far riammettere le liste escluse con il rischio di avvelenare ancor di più la campagna elettorale. La soluzione trovata non rischia di innescare una serie di contestazioni e di conseguenti giudizi all’atto della proclamazione dei risultati elettorali e della convalida degli eletti? Prorogare termini perentori, sanare eventuali irregolarità, mentre appare come una forzatura politica che stravolge dei principi giuridici, e come una dimostrazione di forza, concretamente costituisce un grave sintomo di debolezza e fragilità, pericoloso per il mantenimento dei consensi.
Luigi Celebre
ELEZIONI: UN BUON PASSO AVANTI Ho potuto leggere il testo del decreto-legge 5 marzo 2010, n. 29. È di gran lunga migliore rispetto a tutte le formulazioni che erano state anticipate dalle agenzie di stampa. È asciutto, essenziale, rispondente allo scopo che si prefiggeva. A questo punto non si sa come valutare l’avventurismo e la spregiudicatezza di quei politici che hanno proposto di mettere in stato di accusa il presidente della Repubblica, ai sensi dell’articolo 90 della Costituzione per aver firmato il decreto. Invece è proprio da una vicenda come questa che emergono l’equilibrio e la saggezza del presidente Napolitano. È comprensibile che i partiti che sostengono la candidatura di Emma Bonino a presidente della regione Lazio si rammarichino. La provincia di Roma ha una popolazione di 4.110.035 abitanti, cioè una popolazione
superiore al 73 per cento di quella dell’intera Regione Lazio, che conta 5.626.710 abitanti. L’assenza della lista del Pdl della provincia di Roma sarebbe stata un vantaggio formidabile per i sostenitori della Bonino. Però in politica, come nello sport, le persone oneste non vogliono “vincere facile”, grazie a regali insperati ed immeritati. Se una volta ritornati ad una competizione elettorale regolare e non falsata, Emma Bonino vincerà comunque, vorrà dire che la sua sarà una vittoria tanto più significativa e nella qualità di presidente della Regione sarà tanto più autorevole. Se perderà, vorrà dire semplicemente che in questo momento Renata Polverini riesce ad aggregare intorno a sé un più ampio consenso. Nessun dramma, né in un caso, né nell’altro. Come si conviene ad un Paese veramente civile. Il livore di chi non sa ras-
I colori del Colorado Una spettacolare vista dello stadio universitario di football Folson Field, a Boulder (Colorado). Il sole tramonta dietro ai Flatirons, i cinque “ferri da stiro” che compongono questa particolare sezione delle Montagne Rocciose. Il Folson Field, costruito nel lontano 1924, è la “casa” dei Colorado Buffaloes
segnarsi perché già si sentiva la vittoria in tasca deve lasciare spazio alla voglia di impegnarsi per conquistare questa vittoria sul campo. Penso che Bersani sia una persona seria. Oggi deve protestare perché ciò rientra nel suo ruolo di segretario nazionale del Pd; ma i toni e i contenuti della protesta saranno un banco di prova anche per lui. Quando le elezioni regionali saranno alle nostre spalle, mi auguro che le forze politiche facciano tesoro di questa tormentata esperienza e si decidano a rivedere le norme sul procedimento elettorale. È vero
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
che la forma è sostanza, ma il formalismo burocratico è demenza. È fuori dal senso comune che il candidato alla carica di presidente della regione Lombardia, il quale già per tre volte è stato presidente della regione, debba dimostrare con 3500 firme di avere i requisiti per essere nuovamente candidato; e rischi di essere escluso perché in qualche modulo in cui sono raccolte le firme i bolli degli autenticatori non risultavano della forma prescritta, o non chiaramente leggibili.
Livio Ghersi
da ”Asahi Shimbun” del 17/03/10
I ponti di Tokyo county di Daisuke Tsujioka custodi della tradizione dei canali ricchi di fascino di Venezia e del dedalo di corsi d’acqua punteggiato di mercati che percorre Bangkok possono stare tranquilli. Il loro status di meraviglia del mondo è al sicuro, almeno per un po’. Perché a Tokyo un gruppo di cittadini preoccupati e assai motivati, si è convinto di poter trasformare le antiche vie d’acqua della capitale, ormai inglobate da cemento armato e asfalto, in una vera attrazione turistica. Quella che un tempo era una vera rete di canali e fiumi che attraversavano la capitale era un richiamo panoramico ben conosciuto. Durante il periodo della dinastia Edo (1603-1867) i battelli trasportavano persone e merci attraverso un intricato sistema di canali, come si poteva trovare in altre parti del mondo. Nel tardo periodo Edo, si leggeva nelle cronache che i canali traboccavano di barche per il commercio e per il diporto, tanto che non era possibile riuscire a vedere la superficie dell’acqua. Ma decine d’anni di modernizzazione hanno lasciato che gran parte del sistema fluviale fosse dimenticato e occultato dalla nuova urbanizzazione. Molti canali non servono più per lo scopo originale e molti altri sono stati riempiti e trasformati in strade. I fiumi che un tempo erano come la linfa vitale che faceva vivere la città sono ormai coperti dall’ombra di gigantesche sopraelevate, dove passano auto, treni e metropolitane. Un mare di cemento che fu steso sulla capitale in occasione delle Olimpiadi del 1964. Il traffico dei battelli è scomparso, ridotto a un rigagnolo e le barche sono quasi inguardabili. In nessun altro posto questo declino è più clamoroso che nella zona del ponte Nihonbashi nel quartiere di Chuo Ward nel cuore del centro cittadino. Quel ponte in origine era stato un manufatto di legno
I
ad archi stretti, reso famoso da numerose xilografie. Era stato costruito al tempo del signore della guerra Tokugawa che stabilì lo shogunato durante la dinastia Edo nel 1603. E venne presto associato come simbolo di quella longeva dinastia. Il ponte non divenne solo il simbolo del sistema di trasporto della città ma dell’intero Paese.
Tutte le distanze sulle quattro principali arterie di terra che percorrevano il Giappone venivano calcolate partendo da quella costruzione. Compresa l’importantissima strada che collegava la capitale a Kyoto e Osaka, la «Tokaido road». La zona intorno al ponte, compreso il famoso mercato del pesce di Kisarazu-gashi, era una importante area commerciale. Oggi la gente attraversa quella zona senza neanche rendersi conto della sua storia: camminate distratte sulle origini di una grande capitale. Ora il ponte è completamente sovrastato da un tratto di superstrada, costruita nel 1963, che segue il corso del fiume Nihonbashigawa. «Abbiamo degli studenti delle elementari che si sorprendono scoprendo che qui sotto passa un fiume» afferma TaitoYamamoto, 61 anni, vicepresidente della Yammato Noriten company. La società che vende alghe essiccate ha una lunga storia che risale al 1849.Yamamoto spera di potere far rivivere il trasporto fluviale e vorrebbe incoraggiare gli abitanti della capitale a riscoprire la cultura legata alle vie d’acqua. Le
sue speranze arrivano al punto che confida di riuscire a creare un movimento d’opinione tanto grande e forte da poter proporre lo smantellamento della superstrada che copre il fiume, sostituendola con un percorso sotterraneo. Ma l’obiettivo a breve termine è quello di conquistare il cuore e la mente degli abitanti di Tokyo. Già dallo scorso settembre ha avuto un certo successo una piccola crociera di cinque chilometri che, seguendo il corso del Nihonbashigawa, passava sotto 17 ponti. A gennaio erano state già 90 i percorsi effettuati dal Consorzio per la riscoperta del turismo nella Tokyo degli Edo. E con il centenario dell’attuale costruzione che cadrà l’anno prossimo, anche l’amministrazione locale è interessata a questo genere di iniziative. È stato presentato un progetto trentennale dall’autorità metropolitana per ricostruire un sistema di collegamenti fluviali. Insomma, di acqua sotto quei ponti ne passerà ancora molta.
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LETTERA DALLA STORIA
Oggi sono così diabolicamente stupida... Mia cara Violet, rieccomi in una lussuosa casa di campagna con maggiordomo e servitù in livrea. Felicità domestica, gentilezza e dolcezza dappertutto, ma non mi sento partecipe. Però è un bello spettacolo: nessuno di loro è eccezionale, eppure a vederli tutti così in movimento si ha un’impressione di armonia, come davanti a un placido ritratto di famiglia fiammingo (se posso dir così). Mi sento diabolicamente stupida, e non del tutto in me. Non sono in grado di fare discorsi ragionevoli molto a lungo, e mi è toccato star seduta davanti a un enorme fuoco a parlare della situazione del clero in Francia. Mio dio, tutto è così strano e insieme semplice, non credo che in fondo sia un modo di passare l’esistenza peggiore di un altro. È molto melodioso, come dico a Clive e Nessa quando voglio farmi ridere dietro. Sono un’enorme famiglia, si sposano, fanno bambini vengono ad abitare l’uno vicino all’altro, e si ha la sensazione che la prolificità della razza sia illimitata. Per di più si amalgamano fra loro con grande spontaneità e dolcezza, e ronzano intorno ai signori Booth come altrettante trottole. Mi pare che la nostra visita sia davvero riuscita bene. Virginia Woolf a Violet Dickinson
LE VERITÀ NASCOSTE
Israele manda un rabbino su Marte TEL AVIV. Chi dice che Israele non ha mai fatto guerre di conquista dovrà ricredersi. Perché questa volta, la cosiddetta “unica democrazia del Medioriente” ha mostrato la sua volontà colonizzatrice con un obiettivo che lascia stupiti. Invece di cercare di convertire il mondo islamico che la circonda all’ebraismo, o di portare un poco di religiosità nel secolarizzato mondo occidentale, Tel Aviv punta in alto. Molto, molto più in alto: oltre la gravità terrestre. Con una certa incredulità, infatti, un religioso israeliano ha appreso di essere stato scelto come primo rabbino capo sul pianeta Marte. All’origine della vicenda c’è la registrazione di tutti i rabbini israeliani (che si attestano nel novero di diverse migliaia) nel computer del Ministero dei culti. Accanto al nome del rabbino Yossef Shemesh compariva un indirizzo - Via Halutz, n. 4 - e poi la precisazione: pianeta Marte. Il neo-designato “rabbino dei marziani” ha voluto vederci chiaro e ha scoperto così che qualcuno, per ragioni per ora ignote, era riuscito ad entrare nel computer del ministero e ad alterare la sua zona di azione. Forse un consiglio implicito a cercarsi una nuova zona per le sue prediche. A tutto questo vada aggiunto il cognome profetico dell’uomo di fede: Shemesh, in ebraico moderno, significa infatti “Sole”. Forse, il prossimo campo di conquista. Purtroppo, però, un intervento del personale del ministero ha corretto l’errore e ha così riportato il religioso sulla Terra. In Israele, però, la notizia ha riacceso il dibattito su cosa fare delle migliaia di uomini di culto che operano sul comunque limitato territorio nazionale: considerata anche la diversità dei riti presenti nel Paese, rischiano di accavallarsi l’uno sull’altro. Ed ecco che Marte potrebbe non essere più un’ipotesi.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
IL DECRETO SALVAINCOMPETENTI È entrato in vigore il decreto “salva incompetenti”, in modo da “sanare” le irregolarità degli incompetenti - appunto che in Lombardia e Lazio non hanno presentato le liste del Pdl nei termini di legge. Diciamo subito che il presidente della Repubblica non poteva fare diversamente, e quindi è assurdo e vergognoso tirarlo in causa: lui, i decreti, è comunque costretto a firmarli per il ruolo istituzionale praticamente ininfluente che occupa. Vergognoso è invece il comportamento del governo e del presidente del Consiglio Berlusconi, che, anziché prendere per le orecchie gli incompetenti (ribadiamo il concetto) del suo partito, materiali responsabili della mancata presentazione delle liste del Pdl in Lombardia e Lazio, se la prende con chi la legge l’ha voluta far rispettare. E per la prima volta nell’ambito della raccolta delle firme, visto che le violazioni sono sempre state all’ordine del giorno da parte della stragrande maggioranza dei partiti. Un decreto che - dunque - dà il via libera all’irresponsabilità di chi decide di cambiare i candidati nelle sue liste all’ultimo momento o preferisce andare a mangiarsi un panino, piuttosto che presentare la sua lista nei termini previsti della legge. Bell’esempio di meritocrazia davvero! A questo punto, possiamo solamente augurare ai candidati del Pdl di Lazio e di Lombardia di perdere sonoramente. Eviterebbero ulteriori brutte figure di fronte al loro stesso elettorato, che confidava in una ventata d’aria nuova e in una vera rivoluzione meritocratica e liberale.
APPUNTAMENTI ELETTORALI MARZO 2010 DOMANI, ORE 12, NAPOLI-HOTEL MEDITERRANEO “Impegno e rigore per la Regione Campania”: intervengono Pasquale Sommese, Stefano Caldoro, l’onorevole Ferdinando Adornato, coordinatore nazionale Costituente Udc. DOMANI, ORE 18, TELESE-PARCO DELLE TERME Incontro pubblico con Ferdinando Adornato. SABATO 20 MARZO, ORE 10, BARI-KURSAAL SANTA LUCIA Ferdinando Adornato incontra Adriana Poli Bortone. DOMENICA 21 MARZO, ORE 11, POTENZA-TEATRO P. DI PIEMONTE Ferdinando Adornato incontra Gaetano Fierro. DOMENICA 21 MARZO, ORE 15,30, BATTIPAGLIA-PIAZZA CONFORTI Inaugurazione Sede Udc e incontro con gli amici di Eboli e Battipaglia. VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Luca Bagatin
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
Direttore da Washington Michael Novak
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Collaboratori
Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,
Roberto Mussapi, Francesco Napoli,
Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
IL POPOLO BAMBINO La Grecia ha deciso di mettere in atto misure forti per un valore di 4,8 miliardi di euro: tagli a tredicesima e quattordicesima dei dipendenti pubblici, stretta sulle indennità salariali, congelamento pensioni, aumento dell’Iva e nuove imposte su benzina, alcol e sigarette. La disoccupazione è passata dal 7,8% di fine 2008 al 10,6% di fine 2009 e tenderà a crescere. Le misure toccano il settore pubblico. Invece di avere un atteggiamento responsabile, Il sindacato dei dipendenti pubblici Adedy ha scioperato. Sono in sciopero pure tassisti, portuali e insegnanti. L’attività portuale è il settore economico più importante in Grecia. Da tale situazione, l’Europa ha tratto un importante beneficio e cioè una debolezza dell’euro, che può aiutare molto il sistema manifatturiero. Sembra inoltre che questa debolezza perdurerà con una strategia tesa ad affrontare con misure straordinarie e strutturali i problemi dei Paesi del sud Europa ma a foglia di carciofo. Forse la vicenda della Grecia, una realtà piccola, e quindi un piccolo problema, comunque dominabile, è stata e sarà usata per tastare i risvolti economici e di bilancio da una parte, e le conseguenti reazioni sociali dall’altra. In una democrazia matura si agirebbe in anticipo e a prescindere dalle conseguenze elettorali e dei consensi nell’interesse del Paese. E l’opposizione assumerebbe un ruolo responsabile di assorbimento del malcontento ma senza eccedere in strumentalizzazioni. Fin da fine dicembre 2008 nel sito del governo svizzero erano pubblicate le proiezioni della disoccupazione prevista fino al 2011. Democrazia matura significa considerare i propri cittadini persone mature e responsabili, a cui si può e si deve dire la verità. Da noi invece si arriva al punto di censurare i talk show, se trasmessi troppo vicino alle elezioni. Malafede contro malafede. Tuttavia mi pare che gli italiani non se la siano presa a male. Un popolo di bambini da tener piccini, che rimpiangerà la fine delle elezioni e il ritorno alla normalità, non tanto perché mancherà la passione e il coinvolgimento emotivo nelle discussioni politiche tra amici e non, ma perché riavrà un palinsesto con meno spazio per L’Isola dei Famosi. Forse il tema non è «l’esigenza di creare una nuova classe dirigente seria», come si espressa la Cei: qui è un intero popolo da rifare. Leri Pegolo C I R C O L I LI B E R A L PO R D E N O N E
Mario Arpino, Bruno Babando,
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
John R. Bolton, Mauro Canali,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
Franco Cardini, Carlo G. Cereti,
Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,
Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,
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