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mobydick Da oggi

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da supplemento diventa inserto

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 20 MARZO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

A Roma sono attese centinaia di migliaia di sostenitori.Sul palco ci saranno i fedelissimi.Ma sarà il tripudio di un uomo isolato

L’autunno dell’Imperatore Oggi vivrà un grande bagno di folla: ma in realtà Berlusconi è sempre più solo. Bossi lo vuole battere al Nord, Fini è già oltre il Pdl e Tremonti gli rema contro.Tira aria di cambio di stagione... IL FUTURO DEL CARROCCIO

IL FUTURO DEL MINISTRO

IL FUTURO DEL PRESIDENTE

Ora per la Lega Gioca stopper il Cavaliere per essere è solo un taxi (poi) libero

Lascerà anche la casa del patrigno

di Giuseppe Baiocchi

di Carlo Lottieri

di Riccardo Paradisi

orse non sentiremo più gli infiammati insulti a colpi di “Berluscaz”e “Berluskaiser”che accesero gli anni della politica dopo la rottura traumatica del dicembre 1994. Ma certo è che il progressivo distacco della Lega dalle sorti del Cavaliere sembra aver imboccato una via abbastanza decisa. E soprattutto senza ritorni.

ell’attuale governo, Tremonti rappresenta senza dubbio la personalità più forte: per più di un motivo. Molto gli deriva dal ruolo, dato che nelle sue mani vi sono le redini di quelli che un tempo erano tre distinti ministeri: Tesoro, Finanze e Bilancio. È lui che può permettere o impedire ogni iniziativa.

o strappo definitivo tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi in realtà è già avvenuto. È avvenuto quando, il 18 novembre del 2007, Berlusconi sale sul predellino dell’auto in piazza san Babila a Milano e crea dannunzianamente il Popolo della libertà, «il partito unitario del centrodestra».

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Come storia e letteratura hanno visto il crepuscolo dei leader tra presunzione e tradimento

Un po’Riccardo III, un po’Giulio Cesare Da Shakespeare a Camus: galleria di potenti finiti soli, dopo aver visto i fedelissimi passare armi e bagagli con il nemico Pier Mario Fasanotti • pagina 4

L’ultimatum di Onu, Russia, Usa e Ue per il Medioriente

I Grandi a Israele: «Pace in due anni»

Sgarbi chiede il rinvio, ma il centrodestra è diviso

Elezioni Caos Il Lazio a rischio

di Enrico Singer

di Errico Novi

ue anni per arrivare alla pace e per far nascere uno Stato palestinese «indipendente e democratico» che possa vivere accanto a Israele rispettandone la sicurezza. È il messaggio lanciato dal “quartetto” Usa, Russia, Ue e Onu - che lavora per una soluzione negoziata del conflitto mediorientale. La paginetta del comunicato letta ieri a Mosca dal segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, può sembrare strappata dal libro dei sogni. a pagina 26

ROMA. Le Regionali di domenica

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seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

prossima saranno ricordate come le elezioni più tormentate della storia. Il voto nel Lazio, infatti, è ancora appeso a un filo: Vittorio Sgarbi, la cui lista è stata riammessa mercoledì scorso, ha deciso di chiedere formalmente il rinvio di due settimane per fare campagna elettorale. «Ha ragione», gli ha subito fatto eco Silvio Berlusconi. «Non se ne parla», ha detto invece la candidata del centrodestra Renata Polverini. a pagina 6 NUMERO

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

Un maestro del cinema

Così Akira legò Oriente e Occidente

Cent’anni fa nasceva Kurosawa, il regista di “Kagemusha” e dei “Sette samurai”, il cantastorie del Sol Levante di Claudio Trionfera kira Kurosawa, che oggi avrebbe cent’anni (nasce il 23 marzo 1910 a Omori,Tokyo, e muore il 6 settembre 1998 a Setagaya, Tokyo), è un Maestro del cinema. È, non era. Perché i suoi film sono al presente: fissati in una dimensione immutabile del tempo quale è quella del cinema. Dunque anch’egli immutabile nella memoria globale, con i suoi occhiali da sole dalle lenti impenetrabili, i suoi movimenti lenti, la grandezza e la profondità gutturali del suo immenso modo d’essere giapponese discendente di una famiglia di samurai e appartenere a una terra piena di colori, misteri, odori, nebbie, guerrieri e fantasmi. a pagina 16

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La «disciplina del rigore» del Superministro ha anche una motivazione politica

Tremonti non vuole più fare solo la cassaforte

È l’uomo più “potente” del governo e ora intende farlo pesare di Carlo Lottieri ell’attuale governo di centro-destra, Giulio Tremonti rappresenta senza dubbio la personalità più forte: per più di un motivo. Molto gli deriva dal ruolo, dato che nelle sue mani vi sono le redini di quelli che un tempo erano tre distinti ministeri: Tesoro, Finanze e Bilancio. In qualche modo è lui che gestisce l’insieme delle entrate e delle uscite pubbliche, e quindi è lui che può permettere o impedire ogni iniziativa dei suoi stessi colleghi di governo. Per giunta, sul piano politico egli si è ritagliato un ruolo peculiare, quale collegamento tra Berlusconi e Bossi. La sua funzione consiste nel garantire la Lega presso il Pdl, e il Pdl presso la Lega. Perché nel vuoto ideologico (o quasi) della politica italiana Tremonti si caratterizza quale interprete di un “socialismo di destra” alla Sarkozy, che piace tanto alla pancia nazionalista dell’elettorato moderato come agli elettori leghisti. La sua costante polemica di taglio populista contro la globalizzazione, i banchieri, gli economisti, la Cina e via dicendo, in questi ultimi anni ha giocato da collante per un’armata Brancaleone che nel 1994 voleva realizzare la rivoluzione liberale e ora si trova ad esempio ad avere un ministro, Luca Zaia, la cui politica è del tutto assimilabile a quella di un Alfonso Pecoraro Scanio.

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Sotto certi punti di vista, Tremonti potrebbe apparire in pole position quando scatterà la corsa a prendere il posto del Cavaliere, dato che è espressione del maggior partito, ha ottimi rapporti

con Bossi e, infine, dispone perfino di una piattaforma culturale. Eppure si tratta di un candidato poco credibile. In primo luogo, il suo populismo rappresenta qualcosa di estremistico per l’elettorato italiano. Anche se nel centrodestra solo una minoranza degli elettori ha autentici sentimenti liberali, quel protezionismo riesce ben poco attraente. Ma soprattutto Tremonti è, da tanti punti di vista, un uomo solo. Vittima del suo ego, l’attuale ministro dell’Econo-

usando la Cassa depositi e prestiti per un fondo di edilizia sociale, oppure promuovendo incentivi e crediti per le imprese. Agendo in tal modo, però, è difficile essere amati dai colleghi. Per questo di fronte all’ipotesi di una leadership affidata all’attuale titolare del dicastero dell’Economia è ragionevole prevedere un’alleanza di tutti i colonnelli. La sensazione è che sia la sua stessa attuale forza a rappresentare un fondamentale elemento di debolezza il giorno in cui si dovrà decidere della successione a Berlusconi.

Il suo peso è cresciuto perché è stato lo snodo tra il Cavaliere e il Carroccio: ma è un ruolo che ora non basta più mia è agli antipodi rispetto a Berlusconi anche nella capacità di suscitare simpatia. Mentre Berlusconi usa e abusa della sua indubbia abilità di seduttore e sa costruire attorno a sé un ampio sostegno personale (tanto che collaboratori, deputati e ministri spesso sono sinceramente affascinati da lui), Tremonti in troppe occasioni risulta odioso e si circonda di nemici. Nel governo, il suo essere avverso a ogni iniziativa di spesa, dato lo stato dei conti pubblici e il “rischio Grecia” che grava sul Paese, lo ha sempre più isolato. È normale che un ministro voglia farsi bello con progetti e finanziamenti, ed è normale che si trovi a contrastare chi, come Tremonti, glielo impedisce. Tanto più che il responsabile dell’Economia è corto di braccio quando si tratta delle iniziative altrui, ma cambia registro se può agire in prima persona:

L’opposizione interna dell’ex leader di An

La lunga marcia di Gianfranco Fini. Il berlusconismo non fa per lui di Riccardo Paradisi

S ul p ia n o s t r e t t a me nt e

politico, rappresentare lo snodo dell’alleanza con Bossi può perfino diventare un handicap. Da tempo, paradossalmente, la Lega è un partito senza identità, dato che la sua classe dirigente ignora cosa sia davvero il federalismo e quindi è oggettivamente incapace di agire per la sua realizzazione. Però quello di Bossi resta un formidabile apparato per la conquista e il controllo di spazi di potere, e l’assenza di un qualsivoglia progetto politico – in questo senso – può persino essere un punto di forza. Da qualche anno la Lega è un fedele alleato del centro-destra, ma sbaglierebbe chi pensasse che si tratti di una posizione definitivamente acquisita. Non è così. La Lega resta dov’è perché sa bene che questo, oggi, le permette di ottenere ministeri, presidenze regionali, sindaci e anche un costante incremento dei voti. Il giorno in cui le cose dovessero mutare, non ci si dovrà stupire se Bossi tornerà a guardare altrove. E non sarà certo l’amicizia con Tremonti a fargli cambiare idea.

atteso strappo definitivo tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi in realtà è già avvenuto. È avvenuto quando il 18 novembre del 2007 Berlusconi sale sul predellino dell’auto in piazza san Babila a Milano e crea d’annunzianamente il Popolo della libertà, «il partito unitario del centrodestra di cui parliamo da anni», dice lui.

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È li che l’attuale presidente della Camera – già logorato e innervosito dai continui scatti creativi di Berlusconi, che intanto gli ha svuotato dall’interno il partito («Siamo confluiti nel Pdl perché An era già completamente berlusconizzata», dirà il finiano Fabio Granata) realizza che il rapporto con l’alleato è compromesso. Che la sua stella da ora in poi sarà solo offuscata da quella del Cavaliere. D’altra parte sono stili diversi quelli di Fini e Berlusconi. Passi lenti e cal-

Oggi porterà in piazza a Roma centinaia di migliaia di sostenitori, ma in realtà l’autunno di Berlusconi è già cominciato. E sono in molti a pensare di poter sfruttare la sua eredità

Quando il re rimane solo colati quelli del leader di An, fughe in avanti, funambolismi e motilità continua la cifra Berlusconi. Con l’alzata d’ingegno berlusconiana del predellino Fini avverte che s’è superato il punto di non ritorno. Anche perché intanto è maturata sino al punto di precipitazione l’esasperazione finiana nei confronti del Cavaliere. Fini continua a essere l’eterno secondo a cui il capo ciclicamente ricorda lo sdoganamento del ‘93. E lui non è più la giovane promessa individuata da Giorgio Almirante è il leader d’un partito che oscilla tra il 10 e il 12 per cento, che s’è assunto la responsabilità, a Fiuggi, di sciogliere con il Msi un pezzo di storia italiana, che ha portato la destra fuori dal tunnel del neofascismo come lo ha definito Marco Tarchi. Poi certo, secondo Tarchi Fini avrebbe imboccato l’uscita sbagliata del tunnel, portando il partito nelle secche del berlusconismo e dell’occidentalismo più frustro. Ma per Fini evi-


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Con le Regionali per i leghisti comincia una nuova stagione: quella dell’autonomia

Per Bossi ormai il Cavaliere è diventato solo un taxi

Il Senatùr gioca a tutto campo: non è più la stampella del premier di Giuseppe Baiocchi orse non sentiremo più gli infiammati insulti a colpi di “Berluscaz” e “Berluskaiser” che accesero gli anni della politica dopo la rottura traumatica del dicembre 1994. Ma certo è che il progressivo, pur se morbido ed educatissimo, distacco della Lega dalle sorti del Cavaliere sembra aver imboccato una via senza ritorni. Le improvvise insofferenze dell’Umberto sulla Lombardia, qulche rude e ultimativo consiglio sull’uso bulimico dei telefoni, il timore evidente di un prevedibile risultato mediocre per la complessiva alleanza di governo alle imminenti regionali segnalano un “riposizionamento” del Carroccio nella geografia politica nazionale. E dire che il legame di sangue, il matrimonio padano-brianzolo, risbocciato al volgere del Millennio aveva e forse ha ancora dato i suoi frutti: quel rapporto preferenziale consacrato nelle cene di Arcore, l’intendersi popolano di due “homines novi”, usciti dalla creatività del popolo lombardo, e alieni vuoi dai salotti alto-borghesi vuoi dalla nomenklatura culturale e finanziaria, una qualche scossa di novità ad un sistema castale e ingessato l’aveva pur data. E tuttavia sembra che abbia prodotto - quanto a cambiamento - molto meno di quanto appariva promesso.

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Il fiuto politico di Bossi (e la sua disinvoltura tattica e strategica) aveva compreso da tempo che il Cavaliere era il “miglior taxi” per il lungo tragitto di una affermazione politica e una conquista di consenso non effimera e non saltuaria. E nella rivalità elettorale si era adeguato ad una sempiterna massima nei conf,ronti del più prossimo dentemente è quella l’uscita giusta, l’approdo buono. Svolta cui seguiranno tutti gli strappi noti, fino alla formulazione del ”male assoluto”, un’enormità che però testimonia di come Fini voglia ormai bruciarsi tutti i ponti alle spalle. Anche lo stesso ponte di An, strumento con cui ha attraversato il purgatorio della riabilitazione e che avverte ormai come una camicia di Nesso. L’alleanza con Berlusconi non va solo nel senso dell’ingresso nell’alveo d’una destra moderata, liberale, popolare è anche l’anticamera di un centrodestra che potrebbe diventare unitario. E all’interno del quale Fini si vede come il delfino naturale di Berlusconi, il successore designato. Come ognuno Fini tende a ripetere una sua personale gestalt biografica proiettando nel suo futuro la replica dello schema al-

competitore («se non puoi sconfiggerlo, abbraccialo fino a soffocarlo») , privilegiando anche quei tratti di umanissima vitalità che li accomunavano in una istintiva simpatia. La lealtà reciproca, in questo contesto, non era nemmeno una prova difficile: semmai il procedere di conserva, con i ruoli distinti e un ben oliato gioco delle parti, aveva insieme amalgamato una linea, costretto all’emarginazione gli altri soggetti protagonisti della al-

Indipendentemente dai giuramenti di fedeltà, nel nuovo scenario di una Lega che si prepara a gonfiarsi di voti, (e sempre a danno del più grosso alleato), Berlusconi e la sua leadership sembrano un’escrescenza del passato. Che non si rinnega, ma neppure più si soccorre e si puntella. Il gioco ridiventa a tutto campo, ma il problema irrisolto restano le “sponde”. Ovvero le forze sulle quali rimbalzare e fare alleanza per le scelte future. Sicuramente Bossi è troppo sveglio e scafato per limitarsi a fare sul versante di destra “l’alter ego” di Di Pietro, vociante e protestatario. L’antico e ricorrente sogno di stabilire un legame d’interesse con la sinistra si infrange contro l’irresolutezza endemica del Pd, irresolutezza pari almeno alla somma alterigia. Con il Centro, proprio perché gli elettorati sono molto sovrapponibili, la competizione è feroce, spietata e senza quartiere. Eppure, dalle ultime invettive, traspare l’incubo più fondato e ricorrente. E che cioè, dalle macerie della conglomerata berlusconiana (quanto mai litigiosa e scollata) emerga alla lunga non tanto la figura di Fini e un blocco di potere di “destra laica e rispettabile” (che considera piuttosto secondario e facilmente arginabile) quanto un nocciolo duro dalle potenzialità espansive, di natura popolare e territoriale. E sarà Formigoni, o una o più personalità in alleanza con lui, a rappresentare sul terreno della concorrenza politica la sfida del declino anche per la Lega. Tenersi stretto il Cavaliere, finchè dura, forse per il Carroccio è ancora il minore dei mali.

Dietro alla freddezza delle ultime settimane c’è il timore di rimanere travolti dalle macerie del berlusconismo leanza definita un tempo come “casa delle libertà” e prodotto comunque risultati elettorali sempre più lusinghieri. Molto meno nell’azione di governo e nel tanto auspicato e tanto atteso cammino riformatore. Anche se oggi sarà sul palco a comiziare, per Bossi è già cominciato il tempo del “secondo pedale”, da sempre una caratteristica che distingue l’istinto del poltico di razza e che il leader della Lega ha sviluppato fin dai tempi nei quali si presentava più come un agitatore di folle che come un legittimo candidato alla grisaglia ministeriale. Ovvero saper insieme seguire e in stretta contemporaneità almeno due strade, anche se apparentemente confliggenti e inconciliabili. Come è sempre avvenuto per “secessione” e “federalismo”, per le diverse ed estemporanee collocazioni in politica internazionale o per l’attacco ai “vescovoni” dediti al denaro e al potere mentre si rilanciavano i “valori non negozia-

mirantiano di successione che l’ha portato alla guida del Msi. Senonchè Berlusconi non è Almirante e la Casa della libertà non è il vecchio Msi. Non ci sono successioni naturali, non ci sono congressi, c’è una leadership frutto d’acclamazione continua che Fini esercita su An dove però resisteva un proceduralismo democratico, se non altro come forma.

L’atteso strappo definitivo con il premier è già avvenuto. Col predellino di piazza San Babila a Milano

bili”e il fiero attaccamento alle radici cristiane.

Il pronunciamento del predellino mette Fini dinnanzi alla natura più cruda e verde del berlusconismo. Dopo anni di sofferta fedeltà Fini riteneva acquisito e tacito il diritto a una consultazione, invece si trova di fronte al fatto compiuto. Per questo reagisce con stizza abbassando la diga d’un rancore trattenuto: parla di comiche finali, di conflitto di interessi, ricorda come Berlusconi sia più

anziano di lui. La rottura è già definitiva ma la separazione non è ancora un divorzio. Il carattere è il destino. Fini si muove bene se ha una sponda autorevole. Che sia il fantasma del padre politco non rielaborato, un introiettato schema del principio d’autorità o un profondo senso delle istituzioni è questione aperta, sta di fatto che deve esser stato un sentimento d’agorafobia politica quello che lo coglie al momento di prendere il largo rispetto all’intesa politica, ormai quasi quindicinale col Cavaliere. Potrebbe stabilire con Casini un’intesa politica, gettare l’embrione d’un fronte nazional conservatrice autonoma rispetto al Cavaliere. Ma Berlusconi lo recupera. Gli prefigura un ruolo da cofondatore. Lui accetta. Ma s’attrezza a una navigazione d’opposizione di lunga durata. Che ha l’obiettivo di crescere e consolidarsi. Per essere pronta nel giorno in cui il continente oggi berlusconiano assumerà una forma nuova, disegnando magari una nuova costellazione di forze. Quel giorno Fini ci sarà.


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Precedenti. La storia e la drammaturgia hanno letto il crepuscolo dei potenti come un misto di presunzione e tradimento

Tra Riccardo e Augustolo Shakespeare, Dürrenmatt, Camus: la caduta dell’imperatore abbandonato dai suoi fedelissimi è un classico della letteratura di Pier Mario Fasanotti iuio Cesare non aveva mai chiesto, o preteso, di essere chiamato “imperator”, sapeva che quell’appellativo era la suprema bestemmia repubblicana. Eppure poche settimane prima della sua morte, davanti al senato, qulcuno della folla in delirio lo chiamò così. Lui fece finta di niente, non si vantò. Ben sapeva che se ci fosse stata una condanna, questa sarebbe partita dalle presunte ambizioni di essere imperatore. Il clan senatoriale e i congiurati indussero i pugnali a infierire ben ventitrè volte sul corpo di un uomo che aveva la colpa d’essere stato e d’essere ancora troppo potente. Cesare non volle ascoltare gli oracoli e nemmeno l’affannato consiglio della moglie Calpurnia. Andò verso la morte. Morte di un quasi imperatore, e subito dopo il subdolo Antonio, al quale sfuggirà l’eredità di “caesar”, palerà di lui nell’orazione funebre: esempio di italica doppiezza ammantata da dialettica. “Anche tu, Bruto”, avrebbe detto Cesare rivolgendosi al volto giovane e tormentato del figlio adottato. Quando cade un potente della terra, nel cielo volano nevroticamente gli avvoltoi. Il “dopo” non è mai stabile, nella sua fase iniziale. Si deve attendere il rito sacrificale della contrapposizione feroce tra chi si contende le spoglie del potere. Poi, così capita di solito, la riappacificazione. All’interno dello stato e atttorno al suo perimetro. La “Pax augustea” ha dietro di sé migliaia di morti.

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Se la morte violenta di Cesare ha qualcosa di nobile, la fine di altri dittatori mostra spudoratamente la natura meschina e da belva di altri. Oppure la loro endemica solitudine, la loro incapacità di rapportarsi con il mondo scendendo, magari per poco tempo, dal piedestallo che credono ci sia sempre sotto i loro piedi. Albert Camus, nel suo Caligola teatrale, va nel profondo della disfatta di un “re”. C’è, è vero, la ribellione rabbiosa contro un destino. Ma c’è soprattutto il grande errore che fa da sfondo al declino di tutti coloro che hanno comandato: quello di negare gli uomini. Non si può distruggere gli altri, con le parole o con le trame, senza distruggere alla fine anche se stessi. Fedele a se stesso è Caligola, ma non fedele agli altri. Camus ci insegna che non si può essere liberi, o gloriosa-

Il monologo della disperazione nella celebre tragedia shakespeariana

Se nemmeno un cavallo vuole aiutare il suo re Riccardo III è il prototipo - nella storia e nella letteratura drammatica - del potente che resta solo, dell’uomo che si costruisce da solo accarezzando ogni nefandezza in nome della propria bramosia di potere. Ma, appunto, anche il monarca che finisce nel fango senza che nessuno possa tirarlo fuori: neanche un cavallo - come dice una delle più celebri battute del canone shakespeariano - accetta di soccorerlo perché possa salvare il proprio regno.

Quello che vi riproponiamo, qui, è il discorso che Riccardo III di Shakespeare rivolge ai suoi soldati prima della battaglia finale nella quale sarà sconfitto da Richmond. Un appello disperato, quinetessenza della sua solitudine finale: il re sanguinario è già stato abbandonato da tutti, dal suo Lord Cancelliere Buckingham, dai generali, da pezzi interi dell’esercito. Ma dentro queste parole ci sono anche inaspettate venature d’attualità...

he cosa posso dirvi, che ancora non v’ho già detto? Ricordatevi con chi avete a che fare: un’accozzaglia di miserbaili, avanzi di galera, ladri: la feccia di Bretagna; vili contadini che la loro terra, siccome è zeppa di simili parassiti, li vomita disperati alla ventura, mandandoli a distruzione certa. Voi dormite tranquilli, ed eccoli, loro, a interrompervi i sonni. Volete che vengano qui a rubarvi le vostre terre, a violentare le vostre donne? Ricacciamoli in mare, questi sbandati, a frustate sul muso. Via da qui! Fuori! Questi straccioni, questi pezzenti allampanati, questi uomini stanchi di vivere che ne non avessero pensato a venir qui da noi, con quella fame che si ritrovano, si sarebbero impiccati! E chi E chi li guida? Un abbietto figuro, uno che ha campato per anni in Bretagna alle spese di mio fratello: uno smidollato che nella vita non ha mai sofferto più freddo dei suoi stivali in mezzo alla neve. Se dobbiamo essere vinti, e sia: ma da uomini, non da questi bastardi che i nostri padri hanno già battuto, pestato, umiliato in casa loro! Nel libro della storia noi li abbiamo già iscritti nel capitolo della vergogna! E allora proprio questi ceffi si dovranno goder le nostre terre?, le nostre mogli?, le nostre figlie? Eccoli, sentite, questi sono i loro tamburi. O Nobili d’Inghilterra, tutti alla battaglia! Arcieri, tendete i vostri archi! Cavalieri, spronate i vostri corsieri, e cavalcate in mezzo al loro sangue! E voi, lancieri, mettete paura al cielo coprendono lo vostre lance!

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mente potenti, in opposizione agli altri. Anche Shakespeare indulge sul fato, su lugubri leggende o funeste premonizioni: che poi non sono altro che l’irragionevolezza fattasi figure, streghe e fantasmi. Macbeth, lo scozzese con ambizioni regali, ordina morte, si fa regista di eccidi, salvo poi stralunarsi dinanzi al fantasma di Banquo. Solo lui lo vede, attorniato da commensali. Sua moglie, quella che camminerà nelle notti con le mani insanguinate, si limita a mandare via tutti: sa che l’uomo deve risolvere da solo i conti col rimorso. Il ritornare dalle streghe - che oggi potrebbero essere “tradotte” in consigliori e sondaggisti - si risolve ad essere il cammino ulteriore verso la certezza di una profezia funebre. Tuttavia Macbeth fino alsi l’ultimo crede immune dalla caduta. Come tutti coloro che sono caduti nella polvere, e questo da migliaia di anni succede. Il nobile scozzese sa bene che nessun uomo “nato da donna” lo può uccidere. Peccato che Shakespeare inventi il rivale MacDuff, «strappato prima del tempo dal ventre della madre». E allora è la fine, per capriccio della natura. Allegoria sottile sull’esistenza di variabili storiche e personali non previste nel canovaccio dell’arroganza al potere.

Si può scivolare dal trono anche per insipienza. È il caso di Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore di Roma. Un fantoccio, attorniato da insegne che ormai sono pronte ad essere affidate alla storia e non più alle legioni. La sua fine come “imperator” è scritta dalla storia: i barbari, solo nominalmente fedeli all’aquila romana, si barcamenavano tra progetti di invasione totale e laute prebende in denaro. Romolo, che come fa notare lo scrittore e drammaturgo svizzero Friedrich Dürrenmatt in Romolo il grande, si preoccupava più dei polli che non di ciò che nei secoli aveva creato la “caput mundi”, era giovane, inesperto. Odoacre proprio per questo lo depone e gli rispamia la vita: un affronto, tutto sommato, che racchiude la certezza finale che tutto è ormai compiuto, che si volta pagina. E che pagina. Augustulus significa piccolo Augusto, ma anche l’insignificanza del suo ruolo. Perfidi furono alcuni scrittori greci che lo chiameranno “Momullos”. È sempre Shakespeare, così attento alle logiche e alla psicopatologia del potere, che nel Riccardo III mette a nudo i vizi e i limiti di un monarca plan-


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Questa politica ingessata è incapace di ripensare al futuro

Dalla nostalgia alla Terza Repubblica Dopo le elezioni regionali, una resa dei conti generale chiuderà la stagione berlusconiana di Enrico Cisnetto arà anche poco salubre nutrire nostalgia per la Prima Repubblica, come sostiene il mio amico Angelo Panebianco, ma è molto peggio continuare a credere che la Seconda sia quella che si è sognato che fosse, e ancor di più è immaginare che sia in qualche modo “riformabile”. A parte il fatto che, come ha scritto lo stesso Panebianco, i primi 45 anni della nostra Repubblica non sono un’unica stagione politica, ma si articolano in momenti diversi, che distribuiscono in modo diseguale luci e ombre, e dunque quando si parla di rimpianti si dovrebbe distinguere. Io, per esempio, rimpiango De Gasperi, che pure non ho conosciuto, e Ugo La Malfa, cui ho avuto la fortuna di stare vicino, mentre di altri sento meno il rimpianto. Ma al di là di tutto, trovo davvero ingeneroso crocifiggere la Prima Repubblica, specie se questa denigrazione postuma che rimane inchiodata alle parole d’ordine del 1992-94 fa perdere di vista il giudizio sulla Seconda e pretende, volente o nolente che sia, di attribuire meno demeriti alla stagione che stiamo vivendo rispetto a quella passata. No, caro Panebianco, su questo davvero ti sbagli: la Seconda Repubblica è finita e oggi stiamo vivendo le ultime battute di una stagione fallimentare, e quando ci decideremo a fare il consuntivo, non potremo che arrivare alla conclusione che la Prima sia sta nel suo complesso infinitamente migliore della Seconda.

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Silvio Berlusconi al Quirinale. Sotto, una celebre incisione che raffigura il primo imperatore romano, Ottaviano Augusto. Nella pagina a fianco, il busto in bronzo di Giulio Cesare e un ritratto del re inglese Riccardo III tageneto e del suo “regno del terrore”. Smodata volontà di potere, viltà, invidia, villania. E delirio: «Ormai l’inverno del nostro scontento s’è fatto estate sfolgorante ai raggi di questo sole di York». Il Bardo non risparmia la ghigliottina del giudizio: «Plasmato da rozzi stampi», «deforme e immondo», «uomo che fa lo sdilinquito bellimbusto davanti all’ancheggiare d’una ninfa». Che fa lo storpio? «Ho deciso di fare il delinquente e odiare gli oziosi passatempi di questa nostra età». Riccardo è cinico, se la ride quando decide di sposare la figlia più giovane di Warwick: «Sì, le ho ucciso marito e padre, ma che importa?». Anche in questa opera, Shakespeare fa ballare i fantasmi. Persone morte che puntano il dito contro il sovrano: «Dispera e muori». Lui implora Gesù, addirittura. Ma è tardi: comprende di essere solo al mondo. La solitudine è il barlume di verità del poten-

te che si avvia verso il declino o la morte. È solo in battaglia, la sconfitta è visibile, urla «Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo». L’eroe negativo sarà infilzato da una spada, il suo sangue è anche il sangue di coloro che lui ha deciso di versare con, anche, la vanteria sproporzionata che gli aveva fatto dire «Sono un uomo di straordinario fascino».

Ci sono poi “imperatori” che credono nell’ultima e presunta nobiltà dello sconfitto. E questa si manifesta con una piccola variante rispetto al vizio descritto da Camus nel suo Caligola: rifiutare il

diritto degli altri di giudicare, di emettere sentenze. Rifiutare l’idea stessa di un tribunale, essendo loro convinti di volare sopra le leggi, di farne tante a proprio uso e consumo, come se le norme fossero orpelli bizantini al potere, a quel potere che col tempo si fa d’argilla. Così si è comportato Nicolae Ceausescu, per ventiquattro anni leader scialbo, megalomane e crudele della Romania fino al 1989, anno della sua esecuzione dopo un sommario processo. Ceausescu viaggiava all’estero preferendo stringere mani dittatoriali come le sue, da quelle di Mao a quelle del coreano Kim II Sung. Si specchiava nelle morse statali che andava visitando, affascinato dalla figura del satrapo di stampo asiatico. Il piccolo uomo romeno credeva di potere bacchettare i suoi colleghi sulla sella del totalitarismo. Non gli andava sempre bene, lo guardavano sovente come caricatura del comunismo piccolo borghese o piccolo europeo. Così si è comportato il dittatore iracheno Saddam Hussein, col volto umiliato dolente al momento dell’arresto e con soriso ghignante dinanzi a giudici che non riconosceva come tali. Insomma, gli altri, ossia il mondo, non esistono: così , con questa defomazione psicologica paragonabile alla gobba di Riccardo III, spesso si conquista il potere o una leadership. Alla stessa maniera si perde tutto. Magari senza accorgersi d’essere diventati già un capitoletto di storia antica.

dal dopoguerra in poi. Conosco le difficoltà e persino i pericoli – me li ha recentemente ricordati Gustavo Zagrebelski in un dibattito di Società Aperta a Torino – di questa opzione, ma la considero ugualmente la più utile.Tuttavia, altri dicano altro. Ma tutti insieme cerchiamo di spostare il dibattito in avanti, sul progetto di paese e di Europa che pensiamo sia opportuno adottare.

Non so, ovviamente, come andranno a finire le elezioni regionali, specie dopo una campagna elettorale demenziale come questa. Ma una cosa è certa: subito dopo ci sarà una generale resa dei conti, i cui prodromi sono ben visibili fin da ora. E questo, considerato che nei prossimi tre anni non ci sarà più alcun appuntamento elettorale c fungere da momento catartico, si potrebbe tradurre in una fine anticipata della legislatura e con essa della Seconda Repubblica. Un passaggio che non è difficile pronosticare “sanguinoso”, e che per questo sarebbe bene fosse il più possibile breve. Ma per esserlo, breve, occorre che già ci sia idea di cosa debba esserci “dopo”. In caso contrario, il risultato sarà una transizione maledettamente lunga e tale da lasciare il paese in mutande più di quanto già non sia. Finora si sono viste solo grandi e piccole manovre “distruttive”, niente di costruttivo. Bisogna invece crerare luoghi e momenti di riflessione, di analisi e di proposta su “come uscirne”. E dobbiamo farlo prima che l’incendio che metterà fine in via definitiva alla Seconda Repubblica divampi così tanto da annullare ogni margine di manovra. Perché io non so se, come sostiene il buon Geronimo, ci sia dietro l’angolo un pericolo autoritario. Forse temo di più una situazione farsesca, stile repubblica delle banane. Ma in tutti i casi è chiaro che senza un exit strategy, come si usa dire adesso, il paese rischia davvero molto. Insomma, dopo aver detto che la peggior cosa che ha fatto la Prima Repubblica è averci dato la Seconda, non vorrei trovarmi a dover sostenere che la peggior cosa che ha fatto la Seconda è darci la Terza. (www.enricocisnetto.it)

Nell’incertezza diffusa, si finisce per confondere anche i contorni dei grandi protagonisti del passato, da De Gasperi a La Malfa

Tuttavia su una cosa Panebianco ha ragione: è inutile stare con lo sguardo rivolto all’indietro, non è produttivo. Al contrario, bisogna guardare avanti e semmai pensare a come passare, presto e bene, alla Terza Repubblica. Ecco dove gli intellettuali – razza in estinzione, nota giustamente Pierluigi Battista – dovrebbero dare il loro contributo: indicare la strada per un passaggio meno opaco e fragile di quello di 18 anni fa. Io ho suggerito l’Assemblea Costituente come luogo dove riscrivere le regole e definire un sistema politico all’altezza della sfida – tremenda – che abbiamo dinnanzi, e cioè reinventarci noi e reinventare l’Europa dopo la più grande profonda crisi che mai ci sia stata


diario

pagina 6 • 20 marzo 2010

Supplementari. Decide la Regione. Oggi arriva la sentenza definitiva del Consiglio di Stato sulla riammissione della lista Pdl

Lazio: elezioni verso il rinvio

Sgarbi chiede due settimane in più. E Berlusconi: «Ha ragione lui» ROMA. «Li prendo a calci nel culo». Dulcis in fundo, sulla peggior campagna elettorale che la storia ricordi, piomba Vittorio Sgarbi. I legali della sua “Rete liberal” presentano alla Regione Lazio richiesta di rinvio delle elezioni, e lui, il professore, festeggia in conferenza stampa con il consueto aplomb. La pretesa è giustificata dalla sentenza pronunciata due giorni fa dal Tar, che ha riammesso il piccolo movimento apparentato con Renata Polverini anche nelle due province laziali, Roma e Latina, in cui inizialmente era stato escluso. L’ultima parola spetta ora proprio all’amministrazione guidata da Esterino Montino – da quando Piero Marrazzo si è dimesso – che può decidere dopo aver “sentito”il ministro dell’Interno. A rigor di normativa vigente i quindici giorni supplementari chiesti da Sgarbi con la benedizione di Silvio Berlusconi («ne ha pieno diritto e noi i diritti li rispettiamo») sono tutt’altro che dovuti: è proprio il contestatissimo decreto salva-liste ad abbassare il tempo minimo da concedere ai ripescati da quindici ad appena sei giorni. Perciò nonostante le brutali minacce del professore-polemista, un’eventuale proroga si reggerebbe solo su valutazioni politiche. L’ennesima incognita di questa campagna per le Regionali dovrebbe essere sciolta entro oggi. Non prima, comunque, che la quinta sezione del Consiglio di Stato si sia pronunciata sull’ultimo ricorso presentato dal Pdl per la riam-

campagna elettorale bellissima e penso che si debba andare a votare il 28 e 29 marzo». Anche se va riconosciuto, dice la candidata del centrodestra, «il problema che riguarda i partiti vittime di un’ingiustizia». Anche i vertici di via dell’Umiltà non sembrano particolarmente entusiasti di un eventuale rinvio, al contrario del premier. Racconta il fluviale Sgarbi in conferenza stampa: «Stamattina ho incontrato Berlusconi, ero convinto che mi dicesse “ritira la lista”, invece mi ha chiesto di mettermi

Show futurista del professore: «I giudici? Capre ignoranti. Voglio la par condicio o li prendo a calci in culo. Sono la zattera della libertà del Cavaliere» missione della propria lista a Roma. Nel caso in cui il supremo organo di giustizia amministrativa reintegrasse i berlusconiani, sarebbe più probabile uno slittamento del voto dal 28 e 29 marzo all’11 e 12 aprile, ossia alla prima domenica dopo Pasqua. Tutto è possibile, nonostante lo spettro delle attese nel centrodestra appaia piuttosto diversificato. Renata Polverini per esempio non sembra morire dalla voglia di prolungare il suo faticosissimo e piuttosto solitario tour per altre due settimane: «Sono in corsa da tre mesi, è stata una

za confusa («e il maggior promotore della confusione è Berlusconi», infierisce D’Alema) anche in quest’ultima puntata della telenovela. Se da una parte le perplessità di Verdini e altri si giustificano con il rischio che un voto dopo Pasqua accentui l’astensionismo a destra, dall’altra colpisce l’ennesima divergenza tra Via dell’Umiltà e Berlusconi, dopo altri casi clamorosi come quello della candidatura Palese in Puglia. In una situazione indecifrabile come questa Vittorio Sgarbi si gode il centro della scena: quei giudici del Tar «ignoranti come le capre», ruggisce, «ci hanno messo venti giorni a contare le 2.117 firme che abbiamo presentato: una mia valida collaboratrice archeologa ha impiegato venti minuti». E poi: «Voglio la par condicio, pretendo che quei venti giorni mi vengano restituiti, se non lo fanno è fascismo».

di Errico Novi

davanti a lui e mi ha detto “Sgarbi ha ragione”. Denis Verdini non capiva, ma io ho detto “Silvio si specchia in me”».

Brontola tra gli altri anche Francesco Storace, che vede in un’eventuale proroga il rischio di disperdere parte del tesoretto accumulato dopo l’esclusione del Pdl. È invece favorevole il suo ex gemello e sindaco di Roma Gianni Alemanno: «Quindici giorni in più sarebbero molto utili, soprattutto se si parlasse dei problemi che interessano alla gente anziché di liste e polemiche». Maggioran-

«È il momento che tutti abbassino i toni»

Appello del Quirinale ROMA. «Non ho la palla di vetro e non posso fare previsioni ma faccio uno sforzo e ritengo che sia mio dovere il richiamo al superamento delle conflittualità che allontanano da considerazioni obiettive sui problemi del paese»: così, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, al termine della sua visita a Damasco, ha parlato della situazione politica in Italia, invitando le parti ad abbassare i toni. In conferenza stampa, rispondendo ai giornalisti, il capo dello Stato ha precisato: «Non sono uno che ammonisce, sono uno che pone problemi», sottolineando che «ci vuole una dialettica positiva tra le forze politiche che competono», perché «i problemi del futuro del Paese richiedono una larga condivisione e politiche di medio e lungo termine al di là degli schieramenti». Sollecitato da una domanda sugli apprezzamenti degli esponenti della Lega Nord verso il suo operato, Napolitano ha risposto: «Io apprezzo chi apprezza le mie prese di posizione». Aggiungendo: «Mi pare che da parte della Lega Nord vi sia preoccupazione

per un eccessivo concentrarsi nella campagna elettorale su spunti polemici» e sulla sottovalutazione «del tema del governo delle Regioni», su cui secondo il Quirinale invece si dovrebbe concentrare l’attenzione. Le parole del presidente sono state apprezzate sia dalla maggioranza sia dall’opposizione. Tranne che da Di Pietro, ovviamente,

che al contrario ha commentato: «Vorremmo tanto abbassare i toni, ma per mandare a casa un governo piduista e fascista c’è bisogno di alzare la voce, non di abbassarla. Vaglielo a dire a quei cittadini rimasti fuori dalle fabbriche, senza lavoro, in cassintegrazione che bisogna abbassare i toni».

Non c’è Polverini o Verdini che tenga: «Non è che io arrivo in punta di piedi, io arrivo e faccio casino, arrivo e rompo i coglioni perché e la mia natura». E che dubbio c’era. Berlusconi? «Avendo visto in noi la zattera della libertà, l’ultima chance dopo l’esclusione della lista Pdl, mi ha detto “vai”». Interpretazione quasi autentica: di pronostici favorevoli alla Polverini non ne circolano molti, e forse l’estremo tentativo a cui Berlusconi vorrebbe affidarsi è comprensibile. Conserva un apprezzabile equilibrio Emma Bonino, assai meno interessata in fondo a introdurre l’incognita dei supplementari: «Auspico che si decida nel pieno rispetto della legalità», dice, anche se «un rinvio nelle condizioni attuali va bene per chi ha un sacco di soldi, ma per noi è un po’più complicato». A proposito di investimenti, Sgarbi si augura che l’elettorato ex Forza Italia del Pdl confluisca sulla sua “Rete liberal”, mentre più realisticamente il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa prevede che «i due colossi del Pdl e del Pd» vadano in frantumi dopo le Regionali. E a questo si prepara il partito di Pier Ferdinando Casini: «Dobbiamo costruire un partito che metta insieme liberali e riformisti, un nuovo contenitore che riunisca le persone di buon senso. Dopo le Regionali», dice il segretario centrista, «ci saranno altre novità, ci sono altre persone che vogliono venire con noi».


diario

20 marzo 2010 • pagina 7

Il presidente di Bce invoca nuove regole contro la crisi

Implicato nell’affaire Global Service. Assolti gli altri quattro ex assessori

Trichet chiede «più legami tra economia e finanza»

Appalti a Napoli, due anni all’imprenditore Alfredo Romeo

BRUXELLES. Serve al più presto una riforma del sistema finanziario: il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, durante un convegno organizzato dalla Commissione europea ha sottolineato l’importanza di valutare con attenzione le lezioni della crisi economica e ha ribadito ancora una volta la necessità che «la finanza sia nuovamente e adeguatamente collegata all’economia reale». Il presidente della Banca centrale europea ha chiesto poi maggiore trasparenza nel mercato dei derivati, in particolare dei Cds (sarebbe a dire i “credit default swap”): «Le autorità devono essere capaci di raccogliere informazioni, valutare i rischi possibili e rilevare le eventuali condotte improprie», ha detto insistendo sulla necessità che l’uscita dalla crisi mondiale coincida con la determinazione di nuove regole del mercato finanziario.

NAPOLI. L’imprenditore di Napoli Alfredo Romeo è stato condannato a due anni di carcere nell’ambito di un processo che si è celebrato con il rito abbreviato presso il gup Enrico Campoli. Romeo era imputato nell’ambito delle indagini sulla delibera (mai attuata) “Global service”, da 400 milioni di euro. Condannato a due anni di reclusione anche l’ex provveditore alle opere pubbliche Mario Mautone. Assolti gli altri dieci imputati tra cui 4 assessori comunali: Enrico Cardillo, Giuseppe Gambale, Felice Laudadio e Ferdinando Di Mezza. Uno degli avvocati di Alfredo Romeo, Bruno Von Arx, ha così commentato: «Questa sentenza restituisce

Per uscire definitivamente dalla crisi, ha aggiunto Trichet, «abbiamo bisogno di recuperare la fiducia a lungo termine, e questo richiede quadri di azione politica che dovranno essere robusti contro le sfide future». «Nel momento di massima crisi avevo affermato ripetutamente che il

Dal governo incentivi soltanto al Piano casa Bonus da 420 milioni per i consumi. Tremonti: non sono molti di Francesco Pacifico

ROMA. Un tempo, e con una scadenza elettorale alla porte, gli annunci del centrodestra erano di tutt’altro spessore. Complice la congiuntura, il governo ha varato un piano di incentivi da 420 milioni di euro. E proporzionale alla cifra è stato l’umore di Silvio Berlusconi. Presentando le misure alla stampa, ha ammesso che «la crisi c’è, continua ed è globale, ne siamo consapevoli, ma ne stiamo uscendo e non lasceremo nessuno senza lavoro». Rispetto all’anno scorso non c’è più l’auto – e neppure i due miliardi accantonati – al centro del provvedimento. Così il governo si affida agli eco-scooter, agli elettrodomestici a bassa emissioni e, soprattutto, alle ristrutturazioni domestiche per rilanciare la produzione e, di riflesso, la domanda interna. Non a caso il premier, più che porre l’accento sullo stanziamento da 420 milioni (dei quali 300 destinati ai consumi), si è soffermato su una norma che deregolamenta le ristrutturazioni. «Non sarà più necessario chiedere l’autorizzazione al Comune», fa sapere, «ma basterà indicare la ditta che effettuerà gli interventi. E la norma velocizzerà il piano casa». Cioè il provvedimento con il quale Berlusconi voleva emulare Fanfani e che invece è stato congelato dalle Regioni. Nel giorno in cui l’Istat rende noto che il fatturato delle imprese è salito a livello congiunturale del 2,7 per cento, mentre gli ordinativi sono calati del 2,8, il governo ha approvato il decreto incentivi. Ed è difficile dire quanto il pacchetto sarà incisivo vista una crisi più legata all’export che alla domanda interna. Lo stesso Tremonti ammette che «i soldi non sono molti». Fatto sta che da ieri il provvedimento è operativo, anche se con tre mesi di ritardo sulla tabella originaria per lo scontro tra lo stesso ministro dell’Economia e quello dello Sviluppo , Claudio Scajola. Confronto superato soltanto per volontà di Berlusconi. Ma alla fine si è registrato un pareggio tra i due duellanti. Il titolare di via XX Settembre ha ottenuto che il grosso dell’intervento fosse

finanziato dalla lotta al sommerso, limitando le risorse prese dal fondo per le Pmi e quello per la ricerca. Ma guai a dirgli che questo escamotage, utile per evitare aggravi sul deficit, lo usava anche Vincenzo Visco. «Sono soldi che riteniamo assolutamente realistici. Per essere chiari li abbiamo già in tasca». Dal canto suo il dicastero di via Veneto – da dove Scajola parla di «dialettica, non certo di conflittualità con Tremonti» – riesce a spalmare gli aiuti su più settori in difficoltà, gli stessi che affollano i tanti tavoli aperti al ministero. Guardando alla parte degli incentivi, e che saranno in vigore dal prossimo 6 aprile, ci sono dieci milioni di euro per i motocicli (con uno sconto massimo di 1.500 euro per quelli meno inquinanti) e 60 milioni per le cucine componibili complete di elettrodomestici efficienti, con un contributo massimo di 500 euro. Altri 60 sono destinati all’acquisto di nuovi immobili ad alta efficienza energetica. Quindi, 20 milioni per i giovani che si abbonano ai servizi Adsl. Dei 420 milioni totali 120 saranno erogati come sgravi fiscali per i settori in crisi: 70 milioni andranno al tessile, 40 (come rivendicato dal candidato sindaco di Venezia, Renato Brunetta) alla cantieristica navale e 10 alle tv locali.

Sconti per l’acquisto di ecomotorini, mobili e bioedilizia. Non sarà necessaria la Dia per le manutenzioni domestiche

recupero della fiducia era essenziale. Da allora la fiducia a breve termine è stata recuperata, non per ultimo grazie ad azioni politiche coraggiose a livello globale», ha aggiunto. Una delle sfide centrali per la gestione delle crisi, a questo punto, è «la velocità». «La rapidità di eventi imprevisti è una delle più grandi sfide per i policy makers», ha affermato Trichet. Anche se «le crisi finanziarie non sono assolutamente fenomeni nuovi, la velocità della loro trasmissione è aumentata tremendamente negli ultimi decenni – ha concluso - e l’ultimo intensificarsi della crisi attuale si è diffuso in tutto il mondo nel corso di una mezza giornata».

Ma più degli incentivi sono interessanti altre norme inserite nel pacchetto. Come le misure per contrastare le frodi all’Iva, piaga per l’Erario come dimostra l’ultimo caso che ha coinvolto Telecom e Fastweb. Obiettivo delle Finanze le truffe fatte a livello internazionali con i cosiddetti caroselli e cartiere, società fittizie create soltanto per emettere fatture false. D’ora in avanti chi farà acquisizioni e cessioni nei paradisi fiscali, avrà l’onere di comunicarle alle Entrate. Si spera poi nell’effetto ciclico di quella che Legambiente chiama «una pericolosa deregulation sulla casa». Infatti non sarà più sufficiente la Dia per la manutenzione ordinaria e per i casi meno invasivi di manutenzione straordinaria. Ora la palla passa ai governatori.

dignità a Romeo soprattutto come imprenditore». Grande soddisfazione anche tra i legali del collegio difensivo degli ex assessori della giunta Iervolino: tutti assolti. Giandomenico Lepore procuratore della Repubblica di Napoli, ha preferito invece non entrare nel merito della provvedimento, dichiarando solo: «Rispetto le decisioni del giudice ma ho piena fiducia nell’operato dei miei colleghi» ha detto ieri all’agenzia di stampa Il Velino.

Lepre ieri ha subito convocato una riunione con l’aggiunto Rosario Cantelmo e i pm D’Onofrio Falcone e Filippelli per valutare il dispositivo della sentenza e decidere se, come appare probabile, ricorrere in appello. E il procuratore Giandomenico Lepore commenta: «L’inchiesta non si è sgonfiata e la procura non esce indebolita: nella dialettica processuale non possiamo vincere sempre. Evidentemente c’è stata una diversa valutazione degli elementi di prova. Sicuramente impugneremo la decisione del Gup. Se potessi tornare indietro non cambierei nulla: non affiancherei ai tre pm della Dda un sostituto specializzato in reati di pubblica amministrazione. Nella mia procura tutti sanno fare tutto».


politica

pagina 8 • 20 marzo 2010

Privatizzazione. L’acqua è un bene essenziale. E l’Aqp copre un territorio vastissimo con quattro milioni di utenti

Puglia, il rebus dell’acquedotto Così com’è deve restare pubblico. A meno di non creare due società distinte di Emilio Lagrotta a privatizzazione o meno dell’Acquedotto pugliese è nella agenda politica di questa competizione elettorale. Si tratta di un tema di rilevanza cruciale non solo per la regione Puglia. La posta in gioco non è di poco conto, e prima di entrare nel merito della questione bisogna sgomberare il campo dagli equivoci. L’acqua è un bene pubblico essenziale, appartiene al demanio dello Stato e delle Regioni, non è alienabile e quindi non potrà mai appartenere ai privati.

L

È evidente che la privatizzazione riguarda la società che eroga tale servizio, cioè l’Acquedotto pugliese. C’è da chiedersi se l’Acquedotto pugliese, così come è costituito, possa o meno essere ceduto, in tutto o in parte, ai privati. L’attuale Aqp assomma in sé funzioni e competenze che se cedute ai privati, arrecherebbero un danno notevole alla comunità, ed altre funzioni che se cedute ai privati potrebbero determinare anche un miglioramento del servizio e tariffe meno esose. Prima di chiarire quali sono le competenze e le funzioni che non possono essere cedute ai privati bisogna fare un passo indietro per ricordare che l’attuale Aqp, altro non è che il vecchio Eaap - Ente pubblico non economico che per oltre ottanta anni ha svolto tali funzioni. Nel tempo la complessità delle funzioni affidate all’Eaap ne hanno, di fatto, costituita una vera “authority” pubblica dell’acqua; deputata, in via esclusiva, al rifornimento idrico di un vastissimo territorio con una popolazione superiore ai quattro milioni di abitanti.

alla privatizzazione dello stesso entro 6 mesi.

Compiti e funzioni non cedibili. Tale impegno legislativo e la recente legge sul riordino dei servizi locali, hanno dato forza ai sostenitori della privatizzazione che chiedono di

L’esperienza nella gestione di una grande struttura idrica complessa, consiglierebbe grande prudenza, realismo e serietà prima di affidare quella che nel “gergo” tecnico viene chiamato il “ponte di comando dei rubinetti” preposti alla distribuzione dell’acqua nei 400 Comuni delle tre regioni interessate, al fine di garantire il giusto equilibrio tra interessi contrastanti, specie in caso di siccità o prolungate interruzioni dell’acqua fornita. È una attività delicata e non delegabile ai privati che va esercitata indipendentemente dalla valutazione economico-finanziaria, perché il diritto ad avere l’acqua è preminente rispetto a qualsiasi altra valutazione. Per il privato non è così.

L’azienda è titolare di concessioni fino al 2018 e serve anche Campania e Basilicata. Un flusso di 18mila litri al secondo che interessa 400 Comuni

Nel 1999 l’Eaap venne trasformato da ente pubblico a società per azioni, assumendo la denominazione di AQP.Vennero confermate integralmente le competenze e le funzioni fino al 2018, e successivamente nel 2002 con legge nazionale, fu trasferita la proprietà delle azioni AQP dallo Stato alle Regioni Puglia e Basilicata col vincolo di provvedere

mettere Aqp sul mercato; tutto ciò indipendentemente dalla verifica se sia possibile, utile e conveniente cedere la proprietà ai privati di una azienda che svolge compiti e funzioni, difficilmente cedibili senza un danno notevole per la comunità, come cercheremo di dimostrare. In primis, Aqp è titolare di concessioni di acqua, come si è detto fino al 2018, su un vastissimo territorio che comprende tre Regioni - Campania, Puglia, Basilicata. Affidare la disponibilità di tale enorme quantità d’acqua, circa 18000 l/s, investirebbe i privati di una preminente funzione pubblica, basti considerare l’interesse primario di 4 milioni di utenti, i rapporti con le tre regioni interessate, nonché i circa 400 Comuni gestiti.

Inoltre, le concessioni idriche sono essenziali alla costruzioni di dighe, invasi, sorgenti, pozzi artesiani ed impianti di potabilizzazione, nonché la costruzioni di imponenti opere di adduzione dell’acqua, che nel caso pugliese hanno una lunghezza mediamente di 150-200 km prima di raggiungere le nostre città. Queste opere costruite e gestite nel tempo da un ente pubblico, il vecchio Eaap, oggi hanno un enorme valore, an-

che economico e sono di proprietà dello Stato, delle Regioni e dei Comuni.

I privati acquisendo Aqp, la cui valutazione economica secondo la mia opinione, sarebbe tra 150-200 milioni di Euro, avrebbero a pieno titolo la totalità degli investimenti nel settore pubblico che solo per la Puglia, nei prossimi anni, sarà superiore ai 2,5 miliardi di Euro. Un errore l’attuale struttura.Veramente qualcuno pensa che tutto ciò possa essere affidato ai privati? Di qui la mia convinzione che Aqp, così come è oggi strutturato, ossia con le competenze e funzioni

In alto, un’immagine dell’acquedotto pugliese. Qui sopra, uno scatto della sede dell’Aqp

che esercita, non possa essere ceduto ai privati; a meno che l’Aqp non venga sciolto e dallo stesso potessero crearsi due distinte società di gestione: - un ente pubblico che provveda alla gestione delle concessioni idriche, alla progettazione, realizzazione e gestione delle grandi infrastrutture idriche, fino ai serbatoio delle città; con possibilità di poter allargare tale struttura con l’adesione di altre Regioni limitrofe, in primis Campania e Basilicata, che attualmente trasferiscono in Puglia circa 13000 l/s ed in prospettiva il Molise e l’Abruzzo che avendo risorse idriche superiori ai fabbisogni regionali, potrebbero contribuire alle necessità della Puglia nei prossimi anni; si costituirebbe così un grande ente pubblico con allargamento delle funzioni anche al settore irriguo e industriale nonché al contributo delle altre Regioni del Sud che insieme potrebbero costituire quella che nel recente passato è stata chiamata la “Banca dell’acqua per il Sud”; - una o più aziende a prevalente capitale privato, per la gestione dei 260 Comuni pugliesi, deputata alla costruzione e gestione di reti idriche, fognarie e dei depuratori, dal serbatoio comunale di accumulo dell’acqua al contatore dell’utente.

Tale servizio andrebbe affidato con gara pubblica, come previsto dalla legge, riaffermando così la validità del Servizio Idrico Integrato e degli altri organismi di controllo esistenti sul territorio, in particolare l’Ato, costituito dai rappresentanti dei Comuni e quindi espressione autentica di chi ha la responsabilità del “governo dell’acqua” per i diversi usi. Tenere in piedi l’attuale Aqp potrebbe rilevarsi un errore che nel passato si è potuto superare per la penuria di acqua e perché il vecchio Eaap era un ente pubblico non economico, che applicava tariffe dell’acqua “politiche”, perché più basse dei costi sostenuti e quindi lo Stato, con contributi una tantum, ne copriva periodicamente i deficit di bilancio; oggi non è possibile questo, anche perché in una società per azioni di proprietà della Regione Puglia, sarebbero i cittadini pugliesi ad accollarsi tali deficit.


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mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Pier Mario Fasanotti molti lo negano ancora, ancorati a pregiudizi e a colpevoli distrazioni, o più semplicemente ce lo siamo scordato: il romanzo, come forma letteraria dell’Occidente, ha una storia lunga almeno duemila anni. Poesie, satire, opere teatrali, narrazioni di divinità, allegorie: è solo questa la letteratura di Atene e Roma antiche? Si tende a pensare che il romanzo, in stile sette-ottocentesco, abbia rimpiazzato l’Epica, secondo l’equazione sbagliata epica/antichità-romanzo/modernità. Invece non è così. Basti pensare, per esempio, al Don Chisciotte, romanzo in apparenza epico, ma sostanzialmente modernissimo inquantoché «il cavaliere dalla triste figura» vive solo lui in un mondo cavalleresco offrendoci l’immagine di un trapasso storico, la crisi di un ideale, l’ironia che è intrinseca nell’avventura di un uomo, strambo ma autentico. Altri ancora sono convinti che la narrazione mitica, o biblica, sia in netto contrasto con il realismo del romanzo dei nostri ultimi tre secoli. Anche critici autorevoli sono del parere che la quotidianità sia stata estranea alla scrittura degli antichi, e come prova dicono che solo a metà del 1600 cominciò a venire in superficie l’amore familiare. A questo proposito basterebbe osservare attentamente alcune lapidi dell’antica Atene per «scoprire» che mariti e mogli si amavano e i genitori amavano i figli. Nel museo nazionale della capitale greca c’è un sorprendente monumento (di migliaia d’anni), eretto a una bambina morta per volere della sua famiglia. Un sublime tocco di tenerezza: la bimba è ritratta con un coniglio in mano. Tutto ciò va contro «le rozze generalizzazioni» come sostiene Margaret Doody in un approfondito studio storico-letterario intitolato La vera storia del romanzo (Sellerio, 732 pagine, 14,00 euro).

O

La vera origine del romanzo

TRISTRAM E L’ASINO Parola chiave Aggressività di Gennaro Malgieri È la sfortuna la musa di Mr. E di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

L’ispirazione etica di John Keats tra Bellezza e Verità di Filippo La Porta

Avreste mai detto che tra l’eroe di Sterne e quello di Apuleio ci fossero delle strette somiglianze? Eppure, gli albori della forma letteraria tipica della modernità risalgono all’antichità più remota. È quanto dimostra in un libro Margaret Doody

Kurosawa: nel regno di un cantastorie di Claudio Trionfera Una favola per vecchie ragazze di Anselma Dell’Olio

Al Tefaf delle meraviglie di Marco Vallora


Tristram e l’

pagina 10 • 20 marzo 2010

L’autrice, che è canadese ed è docente di letteratura comparata, ricorda tra le altre una frase, tratta da un testo di Achille Tazio: «Appena la vidi, subito fui perso: ché la bellezza ferisce più profondamente di una freccia, e attraverso gli occhi penetra nell’anima: l’occhio è la strada per la ferita d’amore». Ecco: non sembrerebbero parole scritte da Proust, Mann,Tolstoj, Manzoni e da molti altri, compresi quelli che oggi usano il computer? Non ci sono dee che escono dal mare, non ci sono dèi capricciosi che tendono tranelli a fanciulle con forte carica erotica. Un uomo e una donna, per strada.Tutto qui. Quello che noi definiamo «sentimentalismo», o «amore romantico», non è necessariamente da associare al tardo Seicento e al Settecento. Tazio scrisse nel secondo secolo d.C., e mise in scena la storia d’amore tra Clitofonte e Leucippe e le loro peripezie ambientate in terra fenicia. Una struttura molto romanzesca, con un intreccio rocambolesco: innamoramento, molti naufragi, separazioni forzate, rapimenti, fughe, ritrovamenti insperati, flashback. Quello di Tazio è uno dei cinque romanzi antichi ritrovati. Ma è ovvio che ne furono scritti centinaia se non migliaia, a quei tempi. Uno dei più acerrimi nemici del romanzo fu Friederich Nietzsche. A questo genere «decadente» si oppose, scrive la Doody, «in base agli stessi principi con i quali rifiutò l’ebraismo, il cristianesimo e la democrazia». Il filosofo tedesco considerava la tragedia greca come un’espressione apollinea della visione dionisiaca della verità delle cose. Era «in alto» ed Eschilo e Sofocle non si sporcavano le mani e la mente con il privato, non rappresentavano personaggi ma idee.

Poi due ribaldi come Euripide e Socrate (e infine Platone) posero fine alla sublime distrazione nei confronti dell’Uomo Medio. Uno sparigliare le carte che per Nietzsche è cosa vile, «femminea» («la donna fugge davanti alla serietà e all’orrore», asseriva). Il filosofo caduto poi nella follia chiamava sarcasticamente «alessandrino» il calarsi nei sentimenti della vita comune, essendo Alessandria l’emblema di una città «impura», di razza mista, cosmopolita. Tollerante e degenerata quindi, come argutamente annotò Lawrence Durrell quando scrisse Il quartetto di Alessandria. Margaret Doody fa presente che fu proprio la tolleranza alessandrina ad «ammettere sia la differenza che l’individuazione: essa non dissolve e non rifiuta». Il romanzo proviene idealmente da quella terra, simboleggia l’«autocoscienza urbana» e l’apertura verso il mondo intero. Per anni e anni il termine romance, tenuto rigorosamente separato da novel fu connotato da toni spregevoli, marchiato come genere di bassa fattura riservato alle donne non colte. E una come Jane Austen s’indignò. Romanzo come realismo fortemente domestico, così fastidioso, a volte torbido (come negli scenari disegnati da Shakespeare). Ma allora che collocazione diamo, si domanda Margaret Doody, alle vicende di un barone che vive sugli alberi (il riferimento è a Italo Calvino) e di ragazze nate con i capelli verdi? I conti, e si vede, non tornano se si rimane avvinghiati a forzate classificazioni storiche e ideologiche. E ancora: il romanzo spessissimo è legato a eventi storici, anzi «hanno sempre cianno III - numero 11 - pagina II

vettato con la storia». Che cosa sapremo della Gallia prima della conquista romana senza il «romanzo storico» di Giulio Cesare? E quei «femminei» sentimenti che irritavano tanto Nietzsche? La risposta la offre un critico importante, PierreDaniel Huet, vescovo di Avranches: «…essendo che le facoltà dell’anima nostra sono dotate di una troppo grande estensione, e di una troppo ampia capacità, perché possano riempirle gli oggetti presenti, l’anima cerca nel passato e nell’avvenire, nella verità e nella menzogna, negli spazi immaginari, e fino all’impossibile, di che occuparle ed esercitarle». Huet fu sempre scettico verso chi costruisce regole per la letteratura. I primi romanzi, diceva ancora il critico francese, devono essere trovati «non in Provenza o in Spagna, come parecchi credono… no, questa gradevole ricreazione dell’ozio onesto bisogna andare a cercarla in paesi lontani, e nell’antichità più remota». Huet esalta l’origine «orientale» della prosa romanzesca: «Sono i popoli lontani - les Orientaux - a mostrare appieno le facoltà umane di vivacità del pensiero, della parola e dell’immaginazione». Altri obiettano che sì, è vero, il genere viene da Egitto, Persia, Siria eccetera, ma insistono sul precisare che è stata la cultura greca a dare una forma migliore, più armoniosa, alle espressioni orientali. Sarebbe quindi più esatto affermare che il romanzo non è una mera «importazione dall’estero», ma il prodotto di una combinazione, di un contatto tra l’Europa meridionale, l’Asia Occidentale e il Nord Africa. Difficile, anzi forse ridicolo, cercare di individuare il capostipite, quello che in un dato giorno della settimana di un certo anno cominciò a scrivere il primo romanzo. Alcuni citano Senofonte (400 a.C.). La sua Ciropedia ha in-

DA UN SECOLO ALL’ALTRO «Ma eccomi qui, pronto a intrecciare per te varie novelle con questo mio discorso in stile di Mileto, ad allietarti le orecchie ben disposte con un mormorare divertente: così potrai seguire meravigliato le mutazioni di forme e di fortune umane in figure diverse, e poi di nuovo con mutuo scambio in quelle di prima, solo che tu non sdegni di ripercorrere con gli occhi quanto ho scritto, con l'arguzia di una penna del Nilo, su questo papiro egizio». Apuleio Le metamorfosi

asino

reus, che l’esistenza sia veramente compiuta solo quando esiste in un libro. Altri puntano il dito, e lo fanno in modo sicuro, sul Caritone, autore di Il romanzo di Calliroe. L’elenco delle ipotesi, tutte sorrette da studi comparativi, potrebbe essere lungo. Si pensi a Luciano di Samosata, siriano, il quale scriveva in una lingua greca pura e raffinata, con contenuti oltraggiosi e irriverenti, indubbiamente comici. Certamente, ci fanno sapere gli storici, i lettori di romanzi erano tanti. Sia donne che uomini. A tal punto che l’imperatore Giuliano (famoso come l’Apostata) consigliò vivamente alla gente di evitare le storie finte (plasmata) come quelle d’amore e di avventura. Giuliano voleva chiudere l’orizzonte indicando come obbligo lo studio della storia «solenne» e non di quella minuta, piena di vita quotidiana. Ma i romanzi erano tanti.

Non a caso basta osservare alcune pitture murali delle case di Pompei per accorgersi che, per esempio, la storia d’amore tra Menandro e Glicera è stata ispirata a personaggi della finzione letteraria. Abbiamo accennato a Caritone. Questi era il segretario di un retore (metà politico, metà legislatore e avvocato). Il suo romanzo parla di due innamorati sposati, quindi sottolinea l’eguaglianza degli amanti, contro quello che uno studioso chiamò il «Paradigma pederasta» in base al quale l’amore omosessuale è basato appunto sull’ineguaglianza della relazione in cui la seduzione è anche violenza. I greci rivoluzionano l’assioma affermando che i maschi sono

«Ero a caccia, nell'isola di Lesbo, e in un boschetto sacro alle Ninfe si presentò al mio sguardo lo spettacolo più bello che avessi mai visto: immagini dipinte, una storia d'amore». Longo Sofista Dafni e Cloe «Porgete li vostri orecchi con mutabile intendimento a' nuovi versi: i quali non vi porgeranno i crudeli incendiamenti dell'antica Troia, né le sanguinose battaglie di Farsaglia…». Giovanni Boccaccio Filocolo

Laurence Sterne fluenzato tante pagine fino ad apparire come modello ispiratore del Tristram Shandy di Laurence Sterne. E a proposito di questo narratore inglese, c’è chi si dice convinto che il padre spirituale sia Apuleio con il suo asino Lucio. Prendiamo una frase dell’opera di Apuleio: «Ma forse tu, lettore scrupoloso (lector scrupulosus) riprenderai la mia narrazione argomentando così: “E come hai potuto tu, asino astutello, là confinato dentro il tuo mulino, sapere quello che in segreto - come affermi - hanno combinato le due donne?”». C’è un continuo rapporto dialettico con il lettore, un interrogarsi sui poteri di chi scrive (tam bellam fabellam). Chi conosce il testo di Sterne non potrà che trovare straordinarie somiglianze. Tristram Shandy è incline a pensare, appunto come l’asino au-

«Lasciamo che i critici letterari sparlino a loro piacere di queste effusioni della fantasia e all'uscita di ogni nuovo romanzo esercitino i loro vieti motteggi sul ciarpame che fa gemere i torchi. Non abbandoniamoci l'un l'altro: siamo un solo corpo ferito. Sebbene le nostre produzioni abbiano fornito piacere assai più vasto e costante di quanto non abbia fatto qualsivoglia genere letterario al mondo, nessun'altra composizione è stata mai altrettanto denigrata». Jane Austen, L'Abbazia di Northanger «La principessa sembrava Hanumân mentre brandiva il ramo di un albero come se fosse una spada…». Yukio Mishima Il tempio dell'alba

altrettanto emotivi delle femmine e piangono altrettanto facilmente. Nessun uomo «deve» salvare la sua donna. E le donne sono intraprendenti, sicure di sé, intellettuali. Caritone narra del matrimonio frantumato tra Calliroe e Cherea nella zona collinare dell’Anatolia, fino ad arrivare nella Sicilia assediata dall’imperialismo ateniese. Una serie di colpi di scena tipici della filmografia classica, fino ad arrivare a un tema scabroso e modernissimo: la riflessione della donna su che cosa fare del bimbo che porta in grembo, figlio del vero marito e non dell’uomo cui è stata costretta a legarsi. Chi decide? Lei, solo lei. Non un uomo. È lei, Calliroe, a suggerire al feto di resistere e ad augurarsi che possa vivere libero (eleutheros) e non da schiavo. Insomma non si tramuta in una Medea. Il dilemma di Calliroe porta alla memoria il romanzo Amatissima di Toni Morrison, americana e premio Nobel, che scrive appunto della riconciliazione che deve avvenire tra madre e bambino. Una modernità che attraversa i millenni.


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parola chiave

AGGRESSIVITÀ

on scomoderò Robert Ardrey, né Konrad Lorenz per definire una patologia del nostro tempo che ha caratteristiche diverse da quelle che i due scienziati scoprirono ed esaminarono finendo per concludere che apparteneva all’istintualità umana e giustificava in parte i comportamenti sociali e politici. Al fondo dell’elementare aggressività che vediamo dispiegarsi sotto i nostri occhi c’è anche tutto questo, ma manca il resto. E cioè la capacità di dominarla, di governarla, di tenerla sotto controllo. Sicché essa si riduce, almeno nella quotidianità, a mero sopruso nei confronti degli altri esercitato con violenza che non di rado assume fattezze eccessive e incontrollabili. Chiedersi perché si scatena, sia pure per un nonnulla, è inutile: ognuno potrà dare le risposte che più lo convincono proprio in ragione del fatto che l’atteggiamento aggressivo appartiene alla sfera dell’irrazionalità che soltanto a posteriori trova giustificazioni in una costruzione logica nella quale sistemarla come elemento «naturale». E in questa operazione l’aggressività torna ad assumere il ruolo e le fattezze primordiali che le sono proprie: la proiezione dell’egoismo nella sottrazione al contendente dei suoi spazi e dei suoi beni e financo delle sue ragioni, la difesa del preteso diritto di dominare, l’attacco a chi contraddice ciò che ritiene non negoziabile. L’istintualità è il fondamento inestirpabile dell’aggressività.

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Questo in generale. Nel particolare che abbiamo dinanzi constatiamo come si verifichi una degenerazione spropositata di quel naturale comportamento che riposa nei recessi del nostro animo e lotta incessantemente con la mitezza e ragione. È inevitabile per capirci qualcosa chiamare in causa le circostanze che l’alimentano. La cultura popolare e di massa ha una responsabilità innegabile nell’eccitare l’istinto aggressivo presentandolo talvolta come elemento positivo testimoniante una volontà di affermazione, nel bene e nel male, che libera i caratteri forti a discapito dei deboli. Peccato che questa motivazione, sociologicamente ineccepibile, cozza con modelli letterari, televisivi, cinematografici i quali, facendo leva sulle bassezze umane, le eccitano a tal punto da far ritenere ai più che soltanto ciò che determina l’affermazione di qualsiasi ragione, soprattutto con mezzi persuasivi immorali, è accettabile e naturale. Accade così che la costruzione dei rapporti interpersonali, che siano occasionali o consolidati, finisca prima o poi per poggiare sulla pedestre filosofia della brutalità i cui effetti si riscontrano tra le mura domestiche, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nella contesa politica, nell’eloquio pubblico e privato, nel confronto con chicchessia. La ricerca poi, ossessiva e compulsiva, dell’accaparramento di beni e di spazi a detrimento di altri, e l’imbar-

Il furioso nichilismo a cui è approdata la modernità ha messo in ombra l’altruismo e l’impersonalità attiva, la carità e la pietà, la comprensione e l’apertura agli altri. Ecco perché oggi un eccentrico individualismo ha assunto le fattezze dell’arroganza e della violenza

La società delle assenze di Gennaro Malgieri

Osserviamo ciò che accade in un ufficio pubblico, in una strada intasata, in un ospedale, perfino da un salumiere: c’è sempre qualcuno che grida più di altri, che avanza pretese, che chiede l’impossibile, che reclama diritti incedibili. Quello che succede sulla scena pubblica non è che la proiezione di tutto questo... barimento dei rapporti perfino tra i vicini e i familiari, segnalano lo squilibrio determinatosi nella sfera dell’intimità che non è più preservata da quello spirito di religiosa, si potrebbe dire, perseveranza nel conservare i sentimenti e nutrirli con la ricerca del bene, ma nel farli a pezzi considerandoli quali cascami di un mondo nel quale soltanto la prepotenza giustifica ogni cosa e si assolve nella considerazione della finalità che persegue, vale a dire l’imposizione di una volontà perversa non di rado presentata sotto il manto della libertà di fronte alla quale nessuno dovrebbe avere dubbi nell’accettarla. Quindi le regole saltano, il buon senso va a ramengo, la volgarità - nelle varie forme che conosciamo, dallo sfruttamento del proprio simile all’esibizione della ricchez-

za, alla vendita del corpo - trionfa. Dovrebbe tutto ciò far parte di un paradiso ancorché perverso. Ma non è così. Guardatevi intorno, posate lo sguardo su chi vi sta vicino, osservate la brulicante umanità che vi sfiora, esaminiamoci anche noi che crediamo di aver capito eppure ci lasciamo trasportare dalla corrente. Scopriremo ciò che forse avevamo superficialmente sottovalutato: è sparito il sorriso nella società delle assenze. Il furioso nichilismo a cui è approdata la modernità ha messo in ombra, quando non li ha costretti a nascondersi, l’altruismo e l’impersonalità attiva, la carità e la pietà, la comprensione e l’apertura alle ragioni degli altri.Tutto ciò che si è dissolto, o è in via di dissoluzione, non faceva certamente parte della società edenica che proba-

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bilmente mai si è realizzata almeno nei tempi storici che costituiscono il nostro riferimento. Ma, quantomeno, fino all’esplodere della post-modernità, si coglieva ancora una certa distanza tra chi esprimeva una sostanziale attitudine comunitaria e chi invece la negava per dare sfogo a un eccentrico individualismo che talvolta assumeva le fattezze dell’arroganza quando non della violenza. Oggi, non per banalizzare, provatevi a rapportarvi a ciò che accade in un ufficio pubblico, in una strada intasata di automobili, in uno studio medico, in un ospedale, perfino da un salumiere o in un supermercato: ascolterete sempre qualcuno che grida più di altri, che avanza maggiori pretese, che chiede l’impossibile, che si presenta come depositario di diritti incedibili. E, banalizzando di meno, ciò che accade sulla scena pubblica non è che la proiezione di tutto questo con il risultato che mai il mondo, dopo la fine della seconda guerra mondiale, è stato così diviso e non per ragioni ideologiche, ma di pura aggressività sottostante la tentazione di esplicare un dominio inconscio maturato al ritmo di ragioni insostenibili.

Non credo, tanto per essere chiaro, alla pace perpetua di kantiana memoria: ma un tempo le guerre avevano perlopiù motivazioni se non proprio nobili quantomeno comprensibili. Oggi anche le dittature striscianti, oltre quelle conclamate, sono motivate dall’aggressività. Proprio alla stessa stregua di come l’esercizio del potere nelle società pacifiche esprime arroganza e villania; il giornalismo non informa, ma attacca; l’amore non è vissuto per quello che dovrebbe essere, ma è predatorio, mercenario, ricattatorio, usato nelle forme estreme di una sessualità consumistica e frenetica come scambio; l’educazione è un’anticaglia che è bene non esibire e il linguaggio, specialmente giovanile, è un intrecciarsi di violenze verbali condite con riferimenti animaleschi al sesso e alla predazione di ciò che non dovrebbe essere nella disponibilità di nessuno. L’aggressività è un aspetto della decadenza. La mitezza è il volto delle società ordinate, delle comunità libere, degli aggregati umani che si riconoscono nella pratica del diritto naturale. Non so se Ardrey e Lorenz, tornando in vita, riconoscerebbero all’uomo, giudicandolo dai suoi comportamenti, differenze sostanziali rispetto ad altre specie animali. Forse sì. Concludendo che queste dispiegano l’aggressività in maniera autenticamente istintiva e non strumentale, facendosi guidare dagli impulsi e dalla necessità. Miserabile il tempo che non sa partorire valori, ma soltanto parodie di essi. L’aggressività sociale come perversione della personalità è il prodotto più maturo ed evidente del sovversivismo progressista.


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cd

ntendiamoci subito. Questo non è un disco da fischiettare mentre vi fate la barba. Il rasoio potrebbe sfuggirvi di mano. Né sono pezzi da ascoltare a cuor leggero, se vostra moglie vi ha appena piantato. In soldoni: lasciatelo perdere, End Times, se la vita non vi sta girando per il verso giusto. Sennò, (psichicamente) belli tonici, affidatevi pure a Mr. E, al secolo Mark Oliver Everett, e ai suoi Eels. Vincerebbe lui, se potessimo premiare il più sfigato del rock. Lui, che sulla vita grama ci ha costruito la carriera. Non per opportunismo, sia chiaro, ma per necessità: quando gli cade una tegola sulla testa (e ogni volta sono macigni) Mr. E tira un bel sospiro, scrive una canzone e ne cava fuori un capolavoro. Garantito. Il mi-

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musica

È la sfortuna la musa di Mr. E di Stefano Bianchi

glior modo di fare autoanalisi. È successo con Beautiful Freak del 1996, che oscillava dall’inno agli psicofarmaci che cicatrizzano le ferite dell’anima (Novocaine For The Soul), alla problematica maternità adolescenziale di Susan’s House. È capitato con Electro-Shock Blues (’98), buttato giù di getto dopo che la sorella aveva in-

in libreria

gurgitato troppe pillole. E via così, di sventura in catastrofe, con qualche tocco di humour nero del tipo: la parola d’ordine di Daisies Of The Galaxy (2000) era «Il funerale è finito, andiamo alla veglia!». Oppure, il protagonista di Hombre Lobo (2009) era, appunto, l’Uomo Lupo. Cioè il Signor E: di giorno in un modo, nottetempo in un altro. Allegria. End Times (evitate i gesti apotropaici, please), inizia da dove finiva Hombre Lobo: dal desiderio, «scintilla che accende ogni cosa». Ma poi la spegne, giacché la sfiga (Mr. E lo sa bene) ci vede eccome. Sua moglie l’ha lasciato e questo è l’«album del divorzio». Intonato col cuore in mano da un quarantasettenne che si ritrova solo come un cane, in un seminterrato di Los Angeles. E pensare che l’aveva cantato, definendole donne kamikaze: «Si schiantano con il loro aereo, ma si schiantano contro di te». Profetico. Tant’è che per esorcizzare l’ennesima depressione, ha chiamato a raccolta gli Eels e ha inciso il suo disco più bello

mondo

L’ARTIGIANO CHE AMA JAMES TAYLOR

preoccupandosi di metterci in copertina un vecchio barbuto, raffigurato dal fumettista Adrian Tomine, che annuncia l’Apocalisse. Ma la musica non è apocalittica. Semmai nuda, intima, sofferta. Ascoltare per credere la voce cavernosa di Mr. E che in The Beginning dialoga con la chitarra acustica; la nostalgia di In My Younger Days, filtrata dall’organo e da qualche riverbero elettronico; Mansions Of Los Feliz, che è come gustarsi Simon & Garfunkel in vacanza a Nashville; A Line In The Dirt, con quel fior di melodia pianistica che a poco a poco lievita buttandoti lì un passaggio poetico che nemmeno il Woody Allen più cinico: «Si è chiusa di nuovo in bagno, quindi devo fare pipì in giardino». E il rockabilly di Gone Man? Paradise Blues (il titolo dice tutto) con le chitarre che sgusciano e l’interpretazione alcolica? End Times, con quell’attacco tale e quale a Suspicious Mind di Elvis Presley, ma poi la tristezza incombe e la voce sembra quella di Bruce Springsteen, solo un po’ più impastata? Nowadays, con l’armonica a bocca in puro stile Bob Dylan? «Dentro mi sento uno straccio», canta Mr. E nella conclusiva On My Feet, «e non è facile ora come ora camminare sulle mie gambe. Ma sono sicuro di aver vissuto anche di peggio». Alla fine, ci sono queste canzoni per dare l’ennesimo calcio alla sfortuna. Alla prossima tegola, caro Mark Oliver Everett. Eels, End Times, Vagrant/Spin-Go!, 18,90 euro

riviste

THANK YOU MR. RICHARD

IL BLUEGRASS DI SUA MAESTÀ

«N

ora Jones non è altro che una grandissima cantante, interprete di belle canzoni, ma il mondo è il mondo di James Taylor, che molti giovani non conoscono. È colpa delle radio e dei media, che trasmettono solo quello che va di moda. Però questo pensiero, quello acustico intendo, mi piace, perché in fondo, dopo tutta questa sfornata di musica elettronica, di suoni elettrici, sta

Q

uando uscì il suo album d’esordio, i Beatles non avevano ancora debuttato. E da quel 1958, più di cinquant’anni di carriera sono filati via per Cliff Richard tra milioni di copie vendute, lunghi silenz, e ripensamenti. Questo 2010 è l’occasione buona per festeggiare i suoi settant’anni, e l’ex risposta inglese a Elvis Presley lo farà in grande stile con un album che vedrà la luce il

a musica folk, quella tradizionale, intrisa di bluegrass, fatta di cori e accordi di banjo, va di moda. Se poi viene da Londra è necessariamente very very cool. Per il loro primo i album i Mumford & Sons non potevano aspettarsi di meglio; venuti velocemente a galla dalla scena folk londinese, scritturati dalla Island Records, prodotti e lanciati sul mercato dove in me-

Ron racconta il suo percorso musicale nella bella biografia scritta da Andrea Pedrinelli

Per il suo settantesimo compleanno, il poliedrico musicista si regala un album jazz

Mumford & Sons: un disco d’esordio che lancia il guanto di sfida ai Felice Brothers

tornando un mondo abbastanza intimo, che mi appartiene abbastanza». Ron, moniker di Rosalino Cellamare, ha sempre avuto le idee molto chiare a proposito di musica. Capace di affidare a liriche intense e arrangiamenti lievi ma vibranti le proprie emozioni, il cantautore parla di sé nel bel libro di Andrea Pedrinelli: Ron si racconta Quando la musica ha un’anima (Ancora, 176 pagine, 15,00 euro). A metà tra colloquio, biografia e analisi delle più celebri composizioni, le pagine di Pedrinelli restituiscono i freschi sapori della vecchia musica artigianale: passione, competenza e molte cose da dire in strofa, senza alcuna smania di sfornare l’ennesimo tamburellante hit.

prossimo ottobre: Bold ad brass. Disco che segna un’ulteriore evoluzione nella carriera di un artista che ha saputo spaziare dal rockabilly dei primordi al gospel bianco della maturità, il lavoro di Richard sarà segnato da una forte influenza a cavallo tra jazz e swing. Presenti alcune cover, tra cui I’ve got you under my skin, la tracklist avrà una presentazione d’eccezione, grazie ai sei concerti che Cliff terrà alla Royal Albert Hall. Un nuovo album che invita a contraccambiare la riconoscenza che Cliff affidò ai suoi fan con l’antologica di due anni fa: Thank you for a lifetime.

no di un mese erano già all’undicesimo posto nella classifica degli album più venduti». Matteo Vennacci presenta così su ilpopolodelblues.com la nuova speranza della popolar music britannica, che molti ritengono la risposta agli americani (e sensazionali) Felice Brothers. Riuscita contaminazione di folk irlandese ad alta fedeltà, coralità gospel, strumentazioni classiche punteggiate da banjo e chitarre, Sigh no more consacra il combo britannico come uno dei più vivaci esiti del bluegrass in salsa british. Dodici tracce ricche di pathos e classe, che a partire dall’intensa titletrack, lasciano ben sperare per i destini dell’attempato combat folk europeo.

a cura di Francesco Lo Dico

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classica

zapping

DAVE STEWART, L’EX SIDER che si è dato al commercio di Bruno Giurato he c’è di meglio degli outsider? Ci sono gli ex sider, quelli fuori dai giochi ormai che non avendo da nutrire la maschera d’artista si riciclano in modi sorprendenti: commentatori intelligenti, marketing manager, produttori di articoli erotici. Vedi Dave Stewart, il maschio degli Eurythmics ha scritto tante canzoni belle, le ha arrangiate con gusto (in una mattina di primavera There must be an angel, con il solo di armonica di Stewie Wonder che viene fuori dall’altoparlante di un bar rimette abbastanza al mondo) e ora, finito il legame con Annie Lennox, fa il manager musicale. E ha anche lanciato una linea di oggetti erotici, tra cui un elettrointimo incastonato di diamanti del costo di duemila sterline. Stewart assicura che i suoi negozi sono frequentati da gente come Angelina Jolie. A noialtri fa sorridere l’idea della riunione per il product test, tipo quelle che fanno alla Nestlè e in cui i manager assaggiano i vari tipi di cioccolato. Ma non divaghiamo, perché il nostro Dave, che fa anche il promoter di nuovi artisti, ospite alla Canadian music week per presentare la sua creatura non a batterie, la cantautrice Cindy Gomez, ha detto che i suoi sponsor se li cerca non tra le case discografiche ma tra le aziende commerciali, come il produttore di gelati Ben e Jerry (è la strategia Starbucks inaugurata da Madonna). E poi ha aggiunto quello che tutti sanno e che nessuno dice: «Ci sono 57 milioni di band su MySpace e nessuna di loro è riuscita ad avere successo». È vero. MySpace dà soddisfazione a tanti gruppi che non avrebbero altro luogo, ma poi ai fini pratici non ha fatto nascere un fenomeno musicale. Forse gli emergenti dovrebbero pensare seriamente a partnership con aziende commerciali. E se va male ci sono sempre gli elettrointimi.

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La solita “Salome” ma a briglie strette di Jacopo Pellegrini er un mistero tuttora insoluto, al Comunale di Bologna quando si tratta di dare un titolo di Richard Strauss si finisce sempre per scegliere Salome (1905): tre volte dal 1986 a oggi, l’ultima per l’apertura della stagione in corso. Ci sono state anche incursioni in titoli rari, tipo Intermezzo o Capriccio, e un ragguardevole Cavaliere della rosa diretto da un ancor giovane Christian Thielemann, ma per rinvenirne traccia occorre risalire agli inizi del periodo preso in esame. E niente Elektra, niente Arianna a Nasso, niente Donna senz’ombra; solo Salome. Un capolavoro, senza meno, tale da figurare al quarto posto in un sondaggio promosso nel 1956 dal settimanale Tempo di Milano, che aveva chiesto a svariati critici musicali di elencare le «venti opere liriche più importanti» del periodo 1901-’55, e al settimo nel referendum gemello indetto pochi mesi fa tra critici, musicologi e musicisti militanti da Giorgio Venturi, prode discaio fiorentino, e ora da lui incluso, insieme al vecchio, in un attraente volumetto, 20 opere liriche da salvare dal diluvio… ed altro (Dischi Fenice, 9,00 euro; per ordini: negozio@dischifenice.it): dove l’altro sono alcune felici pagine memorialistiche di due direttori d’orchestra, Gianandrea Gavazzeni e Frieder Weissmann, e un irresistibile racconto musicalumoristico di Gianni Gori. Ma un capolavoro meno puro di altri straussiani, bisognoso di cure specialissime al fine di evitare quelle cadute nel kitsch, che di quando in quando sgualciscono la fitta trama musicale e scenica. Una drammaturgia della sensualità in ogni sua declinazione (dall’innocenza alla degenerazione alla santità), calata in un mondo dove il confine tra nevrosi e psicosi si è fatto così labile da non sussistere quasi più, dove sesso è divenuto sinonimo di carattere, per citare il titolo di un fortunato pamphlet di Otto Weininger (1903): l’uomo svirilizzato e isterico (Narraboth, Erode), la vergine perversa (Salomè), la donna masco-

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linizzata (Erodiade). Esaltare l’orgia di colori esoticheggianti stesa sulla partitura da Strauss, quando si disponga di un’orchestra in grado di renderle giustizia, ovvero serrare i ranghi, stringere denti e tempi in una narrazione il più possibile lucida e incisiva: sono due le opzioni principali che si aprono per il podio, e a Bologna Nicola Luisotti, con spiccata saggezza e sano realismo, ha imboccato la seconda. Da pochi mesi a capo dell’Opera di S. Francisco, da non molti anni impegnato in una carriera internazionale, il direttore toscano non perde mai il contatto tra fossa e palcoscenico, e fin dove può tiene le briglie strette all’orchestra in modo da non coprire i cantanti (ma quando si dispone d’una protagonista, la musicale Erika Sunnegårdh, che purtroppo per lei canta da soprano drammatico con una voce adatta a Musetta o a Norina, c’è poco da fare). A questo solido professionismo non corrisponde però ancora una stretta confidenza con Strauss, una visione ben definita di Salome: non affetto da febbre erotica decadente, non da asprezze paraespressionistiche, Luisotti si piega con gusto sugli infiniti dettagli strumentali correndo allo volte il rischio di diluire la tensione interna. Non gli è di grande ausilio la compagnia di canto: esperti delle rispettive parti, Doss (Giovanni Battista) e Brubaker (Erode) sembrano poco coinvolti e non in forma perfetta; di modesto involo Milhofer (Narraboth) e la Schaechter (Erodiade); restano gli efficienti, precisi comprimari, specie Giudei e Nazareni. Per Gabriele Lavia fare regìa consiste evidentemente nel riempire la scena di Alessandro Camera (una pedana rossa irregolare, che nel finale si squarcia per lasciar fuoruscire un testone mozzato del Battista) di soldati in divisa prussiana, nel far stendere a terra oppure correre in qua e in là la Sunnegårdh, nel metterla a seno nudo durante la Danza dei sette veli (neanche fosse un virgulto…): pura convenzione. Contento lui; noi meno assai.

jazz

Sonny Rollins (con Don Cherry): una miniera d’idee di Adriano Mazzoletti a recente pubblicazione, da parte della casa discografica Jazz Lips, del concerto che Sonny Rollins diede il 15 gennaio 1963 a Copenhagen fa riemergere lontani ricordi della prima tournée italiana di colui che era considerato con John Coltrane il sassofonista più significativo e importante del jazz. Il 1962 era terminato con il ritorno, il 2 dicembre al Teatro dell’Arte di Milano, proprio di John Coltrane con il suo quartetto, McCoy Tyner, Jimmy Garrison ed Elvin Jones, che suscitò consensi ma anche feroci critiche. Partito Coltrane, il 1963 si aprì con l’arrivo di Sonny Rollins. Aver potuto ascoltare, a così breve distanza, due fra i maggiori sassofonisti del periodo fu uno degli eventi che maggiormente caratterizzarono quegli anni. Rollins era giunto in compagnia di Don

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Cherry, Henry Grimes e Billy Higgins. Suonò a Roma per la tv, ancora una volta per i buoni auspici di Leone Piccioni, in un programma condotto da Lilian Terry dove era presente il nuovissimo Quintetto di Lucca vincitore della Coppa del Jazz radiofonica e partecipò a diverse jam session private; una a casa di Lele Crespi, cugino di Roberto Nicolosi, dove si incontrò e suonò con Nunzio Rotondo, da cui nacque una amicizia che durò fino alla scomparsa del grande solista italiano. Con Lilian Terry lo guidammo nelle strade di Roma, fra antichi palazzi e monumenti che suscitarono in lui sor-

presa e ammirazione e volle anche farsi fotografare a Fontana di Trevi come un turista qualsiasi. Il 13 gennaio fu in cartellone al Teatro dell’Arte di Milano, ma i due concerti, anche se vennero probabilmente registrati, non sono stati ancora pubblicati. Lo ha fatto invece come si è visto, la Radio danese che ha ceduto i nastri alla Jazz Lips, una etichetta che sta salvando, tramandandoli, momenti importanti della storia del jazz. L’ascolto conferma quanto detto e scritto, a seguito dei concerti milanesi, di un gruppo che poteva apparire ed era anomalo, dove la presenza di Don Cherry,

protagonista con Ornette Coleman delle forme più avanzate del jazz dell’epoca, avrebbe potuto creare momenti di imbarazzo allo stesso Rollins. Furono invece tutti concordi, critici, musicisti, pubblico a considerare quella formazione come una delle più interessanti del periodo. I due cd del concerto danese lo confermano. Gli otto brani, fra cui un esaltante 52nd Street Theme, ma anche versioni inusuali di motivi del suo classico repertorio, Oleo e The Bridge, riconducono a un’epoca di grande fervore e di ricerca dove atmosfere sospese e fluttuanti, si fondono con una inesauribile miniera di idee caratteristica questa dello stile di Rollins, forse il più originale musicista della storia del jazz degli ultimi quarant’anni. Sonny Rollins - Don Cherry Quartet, The Complete 1963 Copenhagen Concert, Jazz Lips, 2 cd, Distribuzione Egea


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narrativa

n legal thriller? No. Trattandosi di John Grisham la domanda viene spontanea, anzi automatica. In otto racconti il bestsellerista americano ambienta in una piccola provincia del Mississippi storie di gente che hanno a che vedere con la legge o sono contro la legge. Tuttavia nessun suggestivo complotto, come nel Socio o nel Rapporto Pelican e in altri suoi romanzi di scorrevole lettura. Qui l’autore s’intrufola nei meandri giudiziari per ritrarre l’uomo sconfitto, l’uomo insoddisfatto, l’uomo oltraggiato. Vicende che accadono quotidianamente in qualsiasi cittadina degli Stati Uniti, o di altri paesi, ma che non sono sbandierate dai giornali, tantomeno sono collocate nella vetrina delle prime pagine. C’è per esempio l’avvocato Stanley Wade che viene rapito in un supermercato da un uomo e da suo figlio. Durante il percorso in auto la sua memoria spaventata riassembla un vecchio caso che lo vide difensore di un medico la cui negligenza causò la nascita di un bambino cerebroleso, cieco e con un’aspettativa di vita di pochissimi anni. Medico assolto e compagnia di assicurazioni che nulla deve risarcire. Una tragedia, umana ed economica, per una famiglia che vuole sbattere in faccia al brillante e cinico avvocato l’esistenza d’inferno di quel bambino, che ora ha undici anni. Il padre, accanto alla moglie, al primogenito e alla sfortunata creatura, lancia un’accusa. A un legale ma anche a un’intera categoria: «Be’, il tuo lavoro è uno schifo, Wade, perché significa mentire, maltrattare, manipolare i fatti e non dimostrare alcuna compassione per chi soffre. Io odio il tuo lavoro, quasi quanto odio te». È un contro-processo, pisto-

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Grisham

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libri

otto storie di povera gente di Pier Mario Fasanotti la alla tempia. L’accusatore si rivela non solo un padre afflitto, ma anche un esperto di legge. Fino all’ultimo non si sa se la rivoltella sputerà il proiettile della vendetta oppure no. C’è poi un altro avvocato, Mack Stafford, dalla vita professionale sull’orlo del fallimento. Riceve una telefonata da un collega di New York. Questi, con la disinvoltura feroce tipica dei grandi studi legali della Grande Mela, gli propone in pratica di seppellire alcune cause di risarcimento, in cambio di una buona ricompensa. Stafford coglie non solo l’occasione economica, ma anche quella umana: una improvvisa libertà dinanzi a una famiglia (moglie e due figlie) che lo considera un fallito e lo mette in mostra come se fosse un avvocaticchio di poco spessore e scarsa iniziativa, e per giunta tendente all’alcolismo. Come uscire dal pantano del lavoro e da un matrimonio «che scivola sempre più in basso»? Mack avrà la sua rivincita, a costo di imbrogliare le carte. Solo, lontano, ma finalmente libero. Ha fregato i suoi clienti, che avrebbero potuto ottenere molto di più da una company milionaria, ma la via di fuga diventa per lui un moto dell’anima, una tentazione irresistibile. Per ricomincia-

re a vivere. È storia dolentissima quella del carcerato Joey Logan, nel braccio della morte in attesa dell’iniezione letale. Avrebbe ucciso un uomo durante una rapina. Come ultimo desiderio chiede alla guardia di poter vedere la luna, dopo diciassette anni di poco sole e notti tutte sempre uguali sotto la luce artificiale. Nel braccio della morte le guardie tradizionalmente non sono violente: i prigionieri, tenuti sotto chiave per ventitre ore al giorno, e molti di loro in assoluto isolamento, sono ormai rottami, esseri docili, sottomessi.Taluno aspetta con speranza l’ora della morte: è una liberazione. Nel cortile del carcere Joey, gli occhi fissi alla luna splendente, racconta alla pietosa guardia di quando assieme a suo fratello osservava il cielo notturno e di quando assieme progettarono un furto, risoltosi poi in una tragedia. Riferisce della propria innocenza, descrive una vita senza famiglia (il fratello non c’è più), accenna alla madre prostituta e alla condizione di bambino non desiderato, «un errore… il prodotto di scarto di una notte di scarto». Joey, che si definisce ormai «un piccolo, triste errore patetico», è ormai un uomo tranquillo. Non crede nel paradiso o nell’inferno, ma sa che c’è un aldilà. L’endovenosa finale è attesa con malinconica gioia. Un ago lo porterà finalmente nel grande mare della tranquillità. Grisham non si preoccupa di avere «il bello stile», racconta correttamente episodi. E sono gli accadimenti che svelano la natura degli uomini. Anzi: della povera gente. John Grisham, Ritorno a Ford County, Mondadori, 327 pagine, 20,00 euro

il bibliofilo

La «vita da capra» della vecchia Zelinda

di Pasquale Di Palmo efinito da Eugenio Montale «un racconto perfetto», Casa d’altri ebbe una travagliata vicenda editoriale. Il suo autore, Ezio Comparoni, nato a Reggio Emilia nel 1920 da padre ignoto, adoperò vari pseudonimi per firmare i suoi scritti, il più celebre dei quali è Silvio D’Arzo. Lo scrittore lavorò assiduamente intorno a questo testo, allestendone diverse stesure, tese a descrivere, in maniera asciutta ed essenziale, le vicissitudini di Zelinda e del prete che dovrebbe dissuaderla dai suoi propositi di suicidio, manifestando in cuor suo una sorta di inspiegabile rapporto di attrazione e repulsione nei confronti di quella vecchia e della sua «vita da capra». Il racconto, la cui redazione originale risale all’estate 1947, fu rielaborato a più riprese negli anni successivi e apparve,

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in forma ridotta, con il titolo Io prete e la vecchia Zelinda nel n. 29-30 del luglio 1948 dell’Illustrazione Italiana; venne successivamente accolto, in versione integrale, nel n. X della rivista Botteghe Oscure, uscita nell’ottobre 1952, qualche mese dopo la morte dell’autore, avvenuta il 30 gennaio dello stesso anno a causa di una leucemia. Considerato uno dei capolavori del nostro Novecento, fu rifiutato da alcuni degli editori più importanti dell’epoca (Einaudi, Bompiani,Vallecchi), con motivazioni a dir poco sconcertanti, come quella inviata dalla redazione einaudiana al narratore: «[…] è un’esile novella, di gracile respiro, di vitalità molto tenue». Lo stesso Enrico Vallecchi, che aveva pubblicato nel 1942 il romanzo All’insegna del Buon Corsiero, non se la sentì di ricavarne un libro che sarebbe andato «incontro alla indifferenza del pubblico, ed all’insuccesso». Giudizi miopi e paradossali, tesi a svilire

un’opera adamantina, senza sbavature, dove i personaggi si muovono in un ambiente arido, ostile, in una sorta di paesaggio rarefatto e sospeso, dominato da un cielo che pesa come una metafisica cappa d’inquietudine. Nonostante la sollecitudine dimostrata da Emilio Cecchi nel considerare il racconto con «un tono, una serietà, una delicata asperità, che vanno benissimo» e la pervicacia con la quale il medesimo autore lo propose per la pubblicazione, Casa d’altri uscì postumo in volume soltanto nel 1953, per i tipi di Sansoni, sesto titolo della collana «Biblioteca di Paragone», inaugurata dalla raccolta di versi La capanna indiana di Attilio Bertolucci. Lo stesso Bertolucci, amico e corrispondente dello scrittore reggiano, nonché redattore di Paragone, ne aveva caldeggiato la pubblicazione nella collana che faceva capo alla rivista fiorentina, che annoverò D’Arzo tra i suoi col-

laboratori. In sovraccoperta, su uno sfondo color blu notte, campeggia una splendida linoleografia di Mino Maccari, ispirata alla vecchia Zelinda e alla sua capra. Il libro, recante il sottotitolo Racconto lungo, si può considerare, per la sua elegante e sobria impostazione grafica, uno dei risultati editoriali più affascinanti e singolari del dopoguerra italiano. Nel recente catalogo della Libreria Antiquaria Pontremoli di Milano, dedicato alla biblioteca dello scrittore Sergio Pautasso, scomparso nel 2006, figura di spicco dell’editoria italiana, è stato messo in vendita, al prezzo di 400 euro, un esemplare dell’edizione originale che conserva una prova di copertina, non firmata, di Maccari: si tratta, molto probabilmente, di un tentativo scartato che tuttavia non raggiunge, a parte qualche indubbia affinità, l’intensità e la pregnanza di una delle copertine più belle di tutto il Novecento.


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storia

Dalla parte dei vinti, senza pentimenti di Riccardo Paradisi erto lo spirito della storia e i suoi tribunali (Norimberga o piazzale Loreto), il Male assoluto… Ma vallo a raccontare a uno che magari quando arriva il ’43, quando cade il fascismo, aveva tredici anni, un padre colto, amato e fascista, e vede lo sfacelo dell’8 settembre, l’esercito che sbanda gli italiani che festeggiano perché la guerra è finita ma i bombardamenti continuano. Vallo a raccontare a uno come Piero Buscaroli, uno che a ottant’anni sprizza ancora vita e violenza e figuriamoci quando ne aveva tredici, con quel fracasso che c’era intorno. Dalla parte dei vinti di Piero Buscaroli è un libro

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luoghi

pericoloso e bellissimo. È pericoloso per i vinti perché li rafforza nei loro revanscismi, ed è pericoloso per i vincitori: apprendono che non c’è nessuna immacolata concezione della vittoria. Bellissimo perché Piero Buscaroli è un grande scrittore. Un grande scrittore fascista. Aveva tredici anni, Piero quando decise da che parte stare. Dalla parte del padre, il professor Corso Buscaroli, latinista, reggente del fascio repubblicano di Imola pagando quella scelta con anni di galera finita la guerra. Dalla parte dei vinti, restando «un superstite della Rsi in territorio nemico». Non cerca conciliazioni, accusa la resistenza comunista di aver voluto la guerra civile, di essere la causa

diretta delle rappresaglie. Non riconosce Buscaroli agli alleati il titolo di liberatori. Non perdona loro la strategia del terrore dal cielo, pianificata dal 1940 da Churchill e messa in atto dal macellaio dell’aria Harris, e proseguita fino alla fine della guerra. Una teoria del bombardamento terroristico che ha distrutto decine di città italiane. Buscaroli cita una cifra per tutte: le vittime italiane delle rappresaglie tedesche sono state 10 mila, quasi sessantamila quelle per i bombardamenti aerei. Per non dire di Dresda, di Amburgo bombardate con il fosforo, per non dire della rieducazione atomica del Giappone. Norimberga dice Buscaroli - è stata una farsa grottesca. Nessuna riconciliazio-

ne, nessuna comprensione dà e chiede Buscaroli: a ottant’anni come a tredici. Spietato verso Grandi e Ciano, i traditori, che senza tradire avrebbero potuto evitare la sciagura dell’8 settembre, all’Italia guerra civile e ottenere un più onorevole armistizio dopo una strenua difesa. Nessuna riconciliazione nazionale senza la verità. Anche perché il sasso del revisionismo è partito e, dice Buscaroli, non si ferma più. Un grande scrittore fascista «senza pentimenti, senza sospiri, senza lagrime». Piero Buscaroli, Dalla parte dei vinti. Memorie e verità del mio Novecento, Mondadori, 522 pagine, 24,00 euro

Il passo di uno straniero in Giappone di Vincenzo Faccioli Pintozzi a non si stancano mai questi giapponesi, mi viene a volte da pensare, di controllare sempre ogni gesto e fare tante cerimonie? Di non dire mai una parola di troppo, non mangiare per la strada, mettere la mascherina quando sono raffreddati, sorridere di continuo, inchinarsi in ogni momento?». Evidentemente, si conclude quando si finisce Leggero il passo sui tatami, no. Il bel libro di Antonietta Pastore, ambientato nel Paese del Sol Levante negli anni Ottanta del secolo scorso, va però ben oltre l’incipit qui riproposto. Il cerimoniale che impera su ogni aspetto della vita nipponica viene preso, smontato e analizzato: ma la Pastore, com-

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filosofia

plice anche un matrimonio con un giapponese, non si ostina nella critica accennata all’inizio e tira dritto fino a capire cosa si celi dietro i gesti e i sospiri. Il libro, che parte dall’arrivo della protagonista in Giappone, si presenta come un incontro vissuto col Sol Levante in prima persona, giorno dopo giorno, anno dopo anno, con la curiosità e, allo stesso tempo, gli indugi di uno sguardo straniero. Articolato come un diario di viaggio, fa ricordare a chi le ha vissute le esperienze di spaesamento e sconcerto che affrontano gli occidentali d’Oriente: l’estrema cortesia, l’impenetrabilità degli sguardi e dei gesti, la sensazione di essere - come dice una canzone celebre - An englishman in New York. Il Giappone assurge dunque non più a paese esotico ma a stato dell’animo: quella che viene scambiata

per freddezza calcolata si traduce in pudore, l’educazione (quasi scomparsa dal suolo europeo) diventa un modo per esprimere gratitudine e orgoglio, e allo stesso tempo la vita in comune - i tatami del titolo, dove dormono maestri e allievi insieme - una filosofia che accompagna il saggio. La godibilità del libro della Pastore si sostanzia, di fatto, nella leggerezza della scrittura; nella suddivisione del testo in capitoli-episodi, rilevanti ma non imponenti e nella scelta dell’autrice di presentare la sua permanenza in Oriente per quello che è. Fondamentalmente, un viaggio alla scoperta di una delle civiltà più antiche del mondo con la certezza di non poter arrivare a comprenderla, completamente, mai. Ma questa consapevolezza non rallenta né interrompe in alcun modo la voglia di provare, l’istinto di andare a toccare con mano l’ignoto. Quello della Pastore è un viaggio che vale la pena conoscere. Antonietta Pastore, Leggero il passo sui tatami, Einaudi, 192 pagine, 13,50 euro

Alla ricerca della verità nel secolo breve di Giancristiano Desiderio e cose che scrive Vittorio Possenti meritano sempre attenzione giacché stimolano la riflessione e la comprensione delle umane cose. Il lettore che presta ascolto alla lettura della pagina del filosofo Possenti non resterà deluso. In particolare non lo sarà il lettore di quest’ultimo libro. Nato dalla raccolta di vari saggi pubblicati su riviste e altri testi negli ultimi dieci anni, Dentro il secolo breve si confronta con alcune grandi anime del XX secolo: Paolo VI, Maritain, La Pira, Giovanni Paolo II, Mounier. L’orizzonte della riflessione di Vittorio Possenti, come si può facilmente capire, è il

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cattolicesimo. Ma se dovessimo indicare con una sola parola e un solo «concetto» il filo comune delle riflessioni di Possenti e degli «autori» presi in esame indicheremmo «Persona» e «figlio dell’uomo» (o di Dio). Per capire perché Possenti si sofferma su questi suoi cinque autori bisogna ricordare che cosa è stato il Novecento. Lo voglio dire con le parole di Isaiah Berlin: «Il secolo più orrendo della storia». Come è possibile? Non è forse il secolo XX il tempo del grande progresso e del benessere diffuso? Non è forse il tempo del dispiegamento della Modernità? Non è forse il tempo dell’emancipazione e delle conquiste? Ma è il secolo dei lager e dei gulag in cui si è pensato e pra-

ticato l’annichilimento dell’umanità. È questo che è avvenuto nel secolo dei totalitarismi. Il pensiero cattolico e cristiano, con la Croce, si è opposto alla fine del «figlio dell’uomo». Ecco, è da qui che parte la riflessione di Vittorio Possenti. Ci sono cose in questo libro che si possono condividere e altre che non si possono condividere, ce ne sono alcune con le quali si è in accordo e altre in disaccordo. Ma questo - mi sento di dire - conta davvero poco e, tutto sommato, rimanda a una dimensione accademica del pensiero. C’è un altro aspetto di questo libro che esprime alcune verità filosofiche e civili che ci accomunano in quanto uomini, non in quanto docenti o polemisti. È

questo il cuore più vero di questo libro. Come quelle poche ma giuste pagine intitolate «La verità è Qualcuno». La nostra civiltà si fonda su un dialogo: quello tra Gesù e Pilato. «Io sono la via, la verità, la vita» dice Gesù. E Pilato, scettico, lavandosi le mani, dice: «Che cos’è la verità?». Gesù tace, non risponde. Perché, in verità, aveva già risposto e aveva detto che la verità non è una cosa, ma è l’uomo. Attenzione: non l’essenza-uomo, ma proprio l’uomo. Perché, per dirla con Hannah Arendt, «non l’Uomo, ma gli uomini abitano la terra». Vittorio Possenti, Dentro il secolo breve, Rubbettino, 152 pagine, 12,00 euro

altre letture Pubblicato nel 1947 con il titolo ebraico Netivot be-utopia il saggio Sentieri in utopia di Martin Buber (Marietti 1820, 204 pagine,18,00 euro) è un classico delle utopie del Novecento. Attraverso una rilettura della tradizione socialista, anarchica e marxista Buber propone un’alternativa radicale tra lo Stato - accentrato, burocratico, totalitario per vocazione - e la comunità dialogica decentrata e in sé sovversiva. Buber sostiene che l’utopia del domani è la tensione e la nostalgia verso ciò che è giusto. Dinanzi a un illimitato potere planetario, una sorta di Stato mondiale, viene indicato nel kibbutz, il sentiero impervio del socialismo anarchico e federalista che esplori e inventi gli infiniti modi in cui comunità autonome e autogestite possano dar luogo a una comunità di comunità. Al cospetto di certe vecchine che magari hanno perso il figlio in guerra o in incidenti stradali, il cui marito è morto di cancro mentre loro stentano con la pensione e sono afflitte da dolori atroci è lecito domandarsi: ma come possono amare così sinceramente, così serenamente, così fedelmente la volontà di Dio? A essere sicure che tutto ciò che Lui ha fatto sia buono e giusto? Perché, dice Rino Camilleri in Dio è cattolico (Lindau, 270 pagine, 18,50 euro) hanno il dono dell’umiltà e dell’osservazione, hanno lo sguardo più pulito di molte persone mediamente colte che ritengono irrazionale ogni fede e in particolar modo quella cristiana. Il libro di Camilleri è un viaggio apologetico all’interno della fede cristiana per trovare la risposta alle domande sulla fede che ognuno di noi si pone e alle quali non sai mai bene come rispondere. Al di là degli effetti pesanti della crisi in corso, è da molti anni che il reddito degli italiani non cresce più. In presenza di ostacoli antichi - vincoli e ritardi nei servizi pubblici e sociali, basso capitale sociale - e recenti (stasi della produttività), grandi fenomeni evolutivi quali la globalizzazione, la rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, l’aumento progressivo della vita media e i nuovi flussi migratori dai paesi in via di sviluppo ci hanno trovato relativamente impreparati. Per porre le basi di una crescita stabile, dunque, secondo Ignazio Visco occorre Investire in conoscenza, come dice il titolo del suo saggio (Il Mulino, 140 pagine, 11,50 euro), perseguire più alti livelli d’istruzione, formazione e conoscenza, con maggiori investimenti, pubblici e privati, da incentivare puntando sulla qualità, sulla valutazione e sul riconoscimento del merito. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

AKIRA KUROSAWA “RASHOMON”, “I SETTE SAMURAI”, “VIVERE”, “DERSU UZALA”, “KAGEMUSHA”, “RAN”, “SOGNI”. SONO SONO ALCUNI DEI CAPOLAVORI DI UN MAESTRO RIMASTO, CON LA SUA OPERA, IMMUTABILE NELLA MEMORIA GLOBALE. CAPACE DI ABBATTERE I VECCHI STECCATI, CON LA SUA FILOSOFIA DEL CINEMA E DELLA VITA CONCEPITA SEMPRE IN TERMINI UNIVERSALI, HA INFLUENZATO REGISTI A TUTTE LE LATITUDINI. NEL CENTENARIO DELLA NASCITA, BREVE VIAGGIO IN UNA CARRIERA NEL SEGNO DELL’UOMO…

L’Imperatore cantastorie di Claudio Trionfera kira Kurosawa, che oggi avrebbe cent’anni (nasce il 23 marzo 1910 a Omori,Tokyo, e muore il 6 settembre 1998 a Setagaya,Tokyo), è un Maestro del cinema. È, non era. Perché i suoi film sono al presente in quanto fissati in una dimensione immutabile del tempo quale è quella del cinema. Dunque anch’egli immutabile nella memoria globale, con i suoi occhiali da sole dalle lenti impenetrabili, i suoi movimenti lenti e meditativi, la grandezza e la profondità gutturali del suo immenso modo d’essere giapponese discendente di una famiglia di samurai e appartenere a una terra piena di colori, misteri, odori, nebbie, guerrieri e fantasmi.Tanto giapponese, Kurosawa detto l’Imperatore, da passare alla storia per essere rimasto, unico tra i cineasti celebri e di caratura planetaria, a parlare soltanto la sua lingua. Neanche una virgola d’inglese o di altri idiomi. Rigorosamente, ostinatamente e fieramente aggrappato alla propria origine in dinamiche di autodifesa primordiale. Proprio come un vecchio granitico samurai. O come il nobile Washizu protagonista del Trono di sangue con l’ipnotica folle maschera di Toshiro Mifune, solo davanti a un esercito, tanto resistente da sembrare immortale sotto una pioggia di frecce, prima di cadere trafitto dall’ultimo dardo, con espressione di stupore consapevole prima che di dolore senza rimedio.

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Eppure Kurosawa, quasi a dispetto del suo integralismo linguistico e fonetico, è l’autore capace di determinare il più saldo raccordo cinematografico fra Oriente e Occidente. A partire proprio dalla sponda italiana quando, nel 1950, La Mostra di Venezia premia Rashomon con il Leone d’Oro, riconoscendogli non solo l’arte già assoluta, ma anche la distribuzione armonica di elementi diversi tra figurativismo e intenso neo-romanticismo. Quest’ultimo espressione di una tendenza che si proporrà come la più importante e durevole fra quelle apparse nel dopoguerra, una via di mezzo fra quella fortemente progressiva di autori come Yamamoto, Kamei, Shimizu, Sekigawa; e quella dichiaratamente nostalgica di altri cineasti famosi quali Ozu,Yoshimura, Gosho, Kinugasa. La linea neo-romantica riconosce in Kurosawa il suo maggiore esponente, affiancato comunque da nomi importanti come quello del rivale

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Kinoshita, dell’amico Taniguchi, perfino di un veterano del realismo «convertito» come Mizoguchi e molti altri. Che cosa sia il neo-romanticismo lo racconta Yasuzu Masumura nel suo memorabile saggio sul cinema giapponese (edito in Italia da Bianco e Nero con la traduzione di Guido Cincotti), che da sempre rappresenta un imprescindibile punto di partenza negli studi di questa cinematografia. «Il loro proposito dichiarato - scrive Masumura di quei cineasti - fu quello di rompere una volta per tutte gli schemi tradizionali entro i quali era impastoiato il cinema nazionale, quelli cioè della minuta e realistica descrizione dei piccoli avvenimenti familiari, in un’atmosfera di sentimentalismo nostalgico e spesso piagnucoloso, che pur se aveva dato talvolta risultati di altissimo livello, rischiava di segnare il passo vietandosi a nuove aperture tematiche e a nuovi conseguimenti di stile. Secondo l’opinione di que-

Necessario, se non indispensabile, darne sommariamente conto per descrivere il clima che accompagna la nascita e la crescita del suo talento cinematografico. E comprendere, soprattutto, come e quanto l’opera di questo autore si sia fatta strada abbattendo - non senza sforzo - i vecchi steccati e abbia poi influenzato tanti registi non solo nel suo paese ma anche nel resto del mondo: attraverso una filosofia del cinema e della vita concepita sempre in termini «universali», inquadratura dopo inquadratura, in una esuberanza di stile capace di coprire un largo spettro di generi senza alterare la prodigiosa e «sinfonica» sostanza filmica, sempre presente in Kurosawa, costituita dall’equilibrio tra forma e contenuto, qualità e spettacolo. Non è un caso, ad esempio, che uno dei film più celebrati della sua produzione (e dell’intera storia del cinema) sia I sette samurai: capolavoro tout-court, da molti definito «apoteosi del film d’azione».

Due espressioni apparentemente dicotomiche nella diffusa/ottusa concezione del cinema e delle arti in generale, specie nell’Italia del provincialismo culturale, secondo la quale la cosiddetta autoralità si identifica solo con l’impegno sociale, preferibilmente anche politico, con lo sguardo severo e rigoroso, pochi cedimenti alle passioni, ripudio del box office. Espressioni che, invece, nel profeta giapponese dell’arte completa, del ricorso alla letteratura uni-

Impenetrabili occhiali da sole, movimenti lenti e meditativi, tanto giapponese da parlare soltanto la sua lingua. Ma nonostante il suo integralismo linguistico, è l’autore che ha determinato il più saldo raccordo cinematografico fra Oriente e Occidente sti giovani registi, al cinema giapponese occorreva abbondanza di fantasia e d’invenzione in luogo dei consueti e tradizionali modi narrativi, virilità di accenti e robustezza d’impianti romanzeschi in luogo del pallido e melodrammatico realismo intimista, fertilità e magari sovrabbondanza di elementi spettacolari in luogo delle estenuate contemplazioni della pura forma estetica, vivida rappresentazione del brutto in luogo della sentimentale pittura della bellezza». Questo il quadro entro il quale Akira Kurosawa agisce in termini di creatività e di applicazione delle proprie idee sulla maniera di costruire l’impianto del film.

versale, dell’esplorazione dell’anima danno luogo a uno sbalorditivo, corale concerto di emozioni, quadri, tecniche di ripresa saldati in una sceneggiatura perfetta fino all’apogeo della battaglia conclusiva, pazzesca pagina di cinema del 1954. Sei anni dopo il cinema americano riproduce il film creando il mito western dei Magnifici sette con la regia di John Sturges e un manipolo d’attori del calibro diYul Brinner, Eli Wallach, Steve McQueel, Charles Bronson, James Coburn, RobertVaughn, Horst Buchholz, Brad Dexter. Dal ’43 con Sugata Sanshiro a Madadayo - il compleanno uscito postumo nel ’99, Kurosawa dirige trenta


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A sinistra, Akira Kurosawa. Sopra, il regista sul set. Sotto e in basso, alcune locandine dei suoi film e immagini delle sue opere più celebri film. Con alterne vicende produttive e conoscendo tutte le fasi di trasformazione profonda della società giapponese. Tre premi Oscar, due Leoni d’Oro e uno d’Argento aVenezia, una Palma d’Oro a Cannes, tre David di Donatello e una serie infinita di altri riconoscimenti a marcare, anno dopo anno, una carriera nel (di)segno dell’Uomo, fuori da ogni stereotipo o retorica, legata, insieme, a quei due mondi orientale e occidentale che ne costituiscono le fasi di una perenne transizione creativa tra ambienti moderni e classici, urlanti contrasti sociali, epica ed eroi del quotidiano. Motivi sempre presenti, anche prima del trionfo di Rashomon nel ’50 e della fama mondiale che ne consegue: la violenza delle immagini nella rappresentazione decadente dellaTokyo del dopoguerra assimila i tre film più importanti della prima fase, girati fra il ’48 e il ’49, L’angelo ubriaco, Il duello silenzioso e Cane randagio, ritratti contemporanei che anticipano senza contraddizioni di fondo il dodicesimo secolo di Rashomon e della sua «ricerca della verità» nelle quattro versioni di uno stesso incidente moltiplicate in un gioco di specchi che coinvolge anche lo spettatore nella diversità di giudizi, nell’approdo al «nessun giudizio» e all’amara considerazione sulla giustizia morale degli uomini.

Alla base del film ci sono due racconti dello scrittore Ryunosuke Akutagawa (ma come non pensare anche a Pirandello?), referente importante ed eccentrico che già indica quanto la letteratura costituisca per Kurosawa un imprescindibile momento di confronto. Specie, poi, con i classici. È Dostoevskij, difatti, l’autore d’appoggio successivo per la trasposizione dell’Idiota, che però non ha grande fortuna con la critica d’Occidente che ne rileva l’eccessiva frigidità pure riconoscendone notevoli pregi formali. E si arriva a Vivere, del 1952, primi passi di un decennio che resta comunque il più prolifico, sotto tutti i punti di vista, nel cinema di Kurosawa. Vivere è uno dei suoi meglio riusciti nella vicenda di un uomo che, in punto di morte, cerca di dare un senso alla propria esistenza compiendo una buona azione a beneficio delle classi meno abbienti della società. Operazione non facile, ostacolata da una burocrazia kafkiana che non esiterà, comunque, a prendersene il merito quando il protagonista sarà defunto e la gente lo vorrebbe acclamare come benefattore. Morale alta e concetto ormai rodato di verità relativa fanno di questo film uno dei capolavori non solo nella sfera individuale del regista ma anche nella storia del cinema mondiale. Due anni dopo ecco I sette samurai, cui s’è già accennato, e nel ’57 Il trono di sangue ispirato al Macbeth di Shakespeare in cifra jidaigeki, con una significativa traccia stilistica nel ricorso alle tecniche del teatro No e al campo lungo, due

accorgimenti che facilitano, per così dire, l’accesso di una estetica giapponese nel corpo della tragedia. Con risultati addirittura esaltanti. Tanti titoli in un lavoro, nel periodo, intenso e copioso, da I bassifondi adattato da L’albergo dei poveri di Gorkij a La fortezza nascosta girato con grandi mezzi e in Cinemascope per il colosso Toho prima di fondare nel 1960 la propria casa di produzione indipendente, Kurosawa Productions, realizzando col nuovo marchio I cattivi dormono in pace, un gendaigeki di sapore tutto contemporaneo sullo sfondo del travolgente sviluppo economico nel suo paese. È il primo di un quartetto di film molto importanti: La sfida del samurai, Tsubaki Sanjiuro, Anatomia di un rapimento e Barbarossa, quest’ultimo tratto da un romanzo di ShugoroYamamoto. In particolare La sfida del samurai, un jidaigeki che mette quasi alla berlina certe epiche lotte del passato e interpretato da un Toshiro Mifune grondante solennità sacrali (la recitazione gli vale il premio a Venezia), ispirerà di lì a poco Sergio Leone in Per un pugno di dollari, primo film della trilogia che consacrerà il genere universalmente noto come «western all’italiana».Barbarossa, invece, pure nella sua riconosciuta perfezione tecnica, narrativa e stilistica, oltre a segnare la fine del sodalizio conToshiro Mifune, rappresenta per Kurosawa anche l’inizio di una stagione difficile, ferita da problemi finanziari che travolgono molte case di produzione giapponesi, compresa la sua,

genza di Kurosawa riprendono il cammino interrotto con Dersu Uzala (Oscar per il miglior film straniero), Kagemusha – L’ombra del guerriero (Palma d’Oro a Cannes) e Ran (Oscar per i costumi). Capolavori di natura diversa che giocano sulle tematiche più vicine alle ispirazioni dell’autore, come quella del «doppio» e delle verità simultanee di Kagemusha attraverso il cinquecentesco condottiero Shingen Takeda; o quella di ambito tragico e riferimento shakespeariano di Ran che molti accostano a Re Lear ma che lo stesso Kurosawa, pure riconoscendovi intime complicità, vuole ricondurre a episodi reali di storia giapponese. Ma l’Assoluto, forse, l’Imperatore lo tocca con Dersu Uzala, per il quale deve ringraziare, almeno in parte, l’aiuto produttivo sovietico e due libri di memorie di Vladimir Arseniev. Il risultato è grandioso, commovente, sublime. Il Vecchio Cacciatore che vive da sempre nella taiga e ne conosce ogni segreto incontra il Capitano che si avventura col suo drappello nelle foreste.

Gerarchie rovesciate. Il piccolo uomo delle grandi pianure diventa Maestro, il Capitano è il suo discepolo. Al centro c’è la Natura grande madre del mondo nel suo confronto intollerabile con la città simbolo di una civiltà falsa e contaminante. Immagini e simboli, inquadrature leggendarie come quella, con la macchina in movimento a 180 gradi da Est a Ovest, che riprende il sole calante e la luna nascente

Così si descrisse in un’intervista nel ’93: “Sono felice di avere la possibilità di esprimermi. Provo un senso di responsabilità, verità e onestà nei confronti della mia professione... Cerco di essere franco nel trattare i nostri problemi. Non ho segreti” aprendo un lungo periodo di inattività (cinque anni): di quest’epoca la grande delusione del mancato avvio di progetti hollywoodiani, specie quello del versante giapponese della regia di Tora! Tora! Tora! di Richard Fleischer per il quale, a operazioni già avviate, viene rimpiazzato da Kinij Fukasau con la collaborazione di Toshio Masuda. Uno schiaffo, difficile da assorbire. Anche per un «Imperatore». Una crisi drammatica acuita dalla generale depressione produttiva di quegli anni che culmina, a livello personale e all’inizio dei Settanta, nel parziale fallimento di Dodes’ka-den, ancora da un romanzo di ShugoroYamamoto, ambientato tra le miserie di una bidonville della capitale, che malgrado alcuni riconoscimenti più a livello di stima che di sostanza, lo porta a tentare addirittura il suicidio. Dalla tragedia sfiorata alla resurrezione in tre mosse nell’arco di un decennio aureo (1975-1985). Il talento sterminato e l’intelli-

in uno stesso cielo con i colori che sfumano dal rosso all’azzurro, fanno di questo film un esercizio cinematografico di emozioni forse non ripetibili. Gli ultimi anni parlano di Sogni, Rapsodia d’agosto, Madadayo, altre perle di una carriera lunga mezzo secolo che si completa con toni più sommessi, dialoghi ampi, riflessioni sulla poesia e sulla musica a chiudere il cerchio dell’arte. Con la semplicità che appartiene solo ai grandi, la sua arte, il suo cinema, il suo modo di comunicare con il mondo Kurosawa li definisce così in una intervista data a Fred Marshall nel ’93: «Sono felice di avere la possibilità di esprimermi. Provo un senso di responsabilità, verità e onestà nei confronti della mia professione e ne sono cosciente. Parlo della società giapponese e cerco di essere franco nel trattare i nostri problemi. Spero che si capisca, vedendo i miei film. Sono un cantastorie. Non ho segreti».


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Un giorno in pretura

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tv

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fuori dal limbo del reality

Sopra, Angelo Izzo. Sotto, il luogo del delitto di Maria Carmela e Valentina Maiorano a Mirabello. A destra, Roberta Petrellizzo, conduttrice della trasmissione

web

atte bene e affascinanti le storie criminali in televisione. Lì ci sono bravi poliziotti, scienziati che analizzano tutto e colpevoli che se ne vanno con le manette ai polsi e l’aria esterrefatta o contrita. La realtà è un’altra cosa. E allora, ogni tanto, guardiamoli in faccia questi mostri, studiamo il loro comportamento al processo, la loro gestualità. Capiremo di più, molto di più, della vita criminale. E delle persone in genere. Rai 3 con Un giorno in pretura (conduttrice la sobria Roberta Petrellizzo) sposta la nostra attenzione dalla fiction alla realtà. Drammatici sono alcuni momenti del processo, l’inquadratura della telecamera ci consente di capire com’è fatto l’uomo che delinque. O è un agitato o è un simulatore tranquillo. Generalmente è uno che si nutre di menzogne. A volte dà l’impressione di star lì più per celebrare le sue imprese ancora da protagonista, ben sapendo che è l’ultima occasione, che non per svuotarsi la coscienza in una catarsi che raramente viene dopo. Il programma di Rai 3 ci ha mostrato Angelo Izzo, obeso, sofferente di disfunzione tiroidea, con gli occhi che paiono schizzare dalle orbite, mani irrequiete, arrogante, sorridente con sarcasmo. Sì, proprio quell’Izzo che il 29 settembre 1975 ammazzò, per odio verso le donne e il loro censo, e per gioco brutale, la diciannovenne Rosaria Lopez. Delle due vittime, nella villetta del Circeo, sopravvisse quasi per miracolo Donatella Colasanti, che a quei tempi aveva diciassette anni. La trovarono in gravi condizioni nel bagagliaio di una macchina. Tre i massacratori, tra cui Angelo Izzo. E a questo punto veniamo alla stortura barbarica della procedura: nel novembre del 2004, nonostante la condanna pendente, i giudici del tribunale di sorveglianza di Palermo decidono di concedere a Izzo la semilibertà. ll criminale comincia a beneficiarne a partire dal 27 dicembre e ne approfitta presto per fare nuove vittime, Maria Carmela Linciano

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(49 anni) e Valentina Maiorano (14 anni), rispettivamente moglie e figlia di un pentito della Sacra Corona Unita (mafia pugliese) che Izzo conobbe nel carcere di Campobasso. Il 28 aprile del 2005 le due donne sono state legate e soffocate e poi sepolte nel cortile di una villetta di campagna, nella zona sannitica. Izzo è stato processato e condannato all’ergastolo (speriamo non correggibile) il 12 gennaio 2007. Spaventosa è la disinvoltura con cui Izzo racconta come chiamava madre e figlia: «puttana e puttanina». Izzo è bugiardo cronico. Dice di aver avuto rapporti a tre, mentre l’esame autoptico dimostrerà che Valentina, la ragazzina di 14 anni, era vergine. Il mostro del Circeo, ben introdotto nelle bande di spacciatori, ricattatori e manovalanza criminale, viene processato assieme a Luca Palaia che nell’anno del duplice crimine aveva solo 21 anni. Storia triste la sua: figlio di un criminale poi diventato collaboratore di giustizia, racconta di aver visto il padre una sola volta in 23 anni. Sarà lui a trasportare Carmela e Valentina in giardino e a «posizionarle» in una buca, poi ricoperta da calce e terra, a strati. Dopo, in auto, Palaia e Izzo sghignazzano. Perché quell’esecuzione? Izzo dice che gli «stavano sulle scatole» che lo «ricattavano» sapendo i suoi traffici, anche con droga e diamanti. Izzo in tribunale lancia infamie, sottintende ad avidità e sporcizie familiari. Si erige giudice. Sì, proprio lui che è orgoglioso delle sue frequentazioni delinquenziali. Sorride, ripete sempre che la verità la sa solo lui e la deve riferire solo lui. Ecco: c’è la fiction poliziesca in tv, «pulita» ed efficiente. Ma c’è anche il faccione di Izzo nella nostra vita quotidiana. C’è la sua strafottenza e, crediamo, anche la sua malattia mentale. Questa è realtà, non reality show. I giovani dovrebbero disintossicarsi dai reality e guardare le fasi di un processo vero. È un consiglio a tutte le scuole. (p.m.f.)

games

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PARIGI IN VENTISEI GIGAPIXELS

A VANCOUVER PER LA RIVINCITA

IL PRIMO RESPIRO

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impervio da ricordare, ma vale la pena tenerlo a mente: l’indirizzo www.paris-26-gigapixels.com apre le porte della capitale francese a tutti i visitatori del mondo, grazie a una monumentale opera fotografica che permette di percorrerla in lungo e in largo. Un comodo sistema di navigazione consente infatti di fruire dell’ineguagliabile panorama della città tramite un’ope-

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uanti non possono fare a meno di associare a Vancouver un insopprimibile senso di amarezza, misto a improvviso gelo, avranno modo di confortarsi (e tutto il tempo di fare meglio dei nostri azzurri), grazie alla versione ludica delle Olimpiadi invernali appena chiuse in Canada. Disponibile per playstation 3, Vancouver 2010 consente di scegliere da un ricco carnet: discesa li-

ercavo un avvenimento che fosse lo stesso in tutto il pianeta e che ci ricordasse il nostro posto nell’universo. L’eclisse solare è un simbolo. Alcune la vivono in diretta, altre guardano la luna ricoprire il sole alla tv. Ma la luna è anche il simbolo del femminile, è legata al suo universo, ai suoi cicli». Gilles De Maistre presenta così Il primo respiro, pregevole docu-fiction

Più di duemila scatti e grande nitidezza dei dettagli: un tour virtuale nella Ville Lumière

Le Olimpiadi invernali canadesi rivivono nelle appassionanti sfide proposte da playstation 3

Gilles De Maistre racconta la maternità di nove donne in un toccante docu-fiction

razione senza precedenti: 2.346 scatti ad altissima qualità, uniti insieme per un totale di ventisei gigapixels. Numeri assai rilevanti, che tradotti in esperienza visiva significano zoom straordinari e altissima nitidezza dei dettagli.Visualizzabile anche nella modalità a schermo intero, Parigi svetta in tutta la sua bellezza, grazie a comodi indici che conducono ai luoghi di maggiore interesse, e prospetti informativi che ne raccontano origni e sviluppi: dalla Torre Eiffel al Sacro Cuore, passando per il Grand Palais e il Musée du Louvre. Da un’idea del fotografo Arnaud Frich, un progetto che merita epigoni. E soprattutto, una visita.

bera, super G, slalom gigante, slalom speciale, salto dal trampolino, snowboard, pattinaggio, bob, slittino e skeleton. Al giocatore la scelta di sottoporsi a un duro training preparatorio, di gareggiare per i colori della Nazionale, o di misurarsi con amici e rivali occasionali in appassionanti disfide multiplayer e online. (Il tutto a ritmo di rock’n’roll). Di impianto realistico, e di non facile esecuzione, le diverse discipline richiedono fondamentali specifici e tanta pazienza: pena ritrovarsi in pista e sfoggiare esibizioni dagli esiti imbarazzanti.

che intreccia il racconto di nove donne provenienti dai cinque continenti, alle prese con la maternità. Affidata nell’edizione italiana a Isabella Ferrari, la narrazione segue vicende come quella di Pilar, messicana che partorisce tra i canti dei delfini, e di una giovane siberiana, costretta a portare a termine la gravidanza in un clima che sfiora i cinquanta gradi sotto zero. E una donna africana, che dà vita al suo pargolo sulla nuda sabbia, e una giapponese, che secondo tradizione concepisce di fronte alla figlia più piccola. Un interessante squarcio antropologico, che al di là delle differenze culturali, restituisce un’amorevolezza identica a ogni latitudine del globo.

a cura di Francesco Lo Dico

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cinema un anno che si aspetta di vedere Un profeta, il noir carcerario francese che ha vinto il premio per la regia a Cannes, e un vagone di César (gli Oscar francesi). Un film che arriva con troppa fanfara rischia di deludere; non questo. Jacques Audiard si dedica da sempre al noir cerebrale, degno erede di maestri come Jean Pierre Melville e Henri Georges-Clouzot. (Il penultimo, stupendo, Tutti i battiti del mio cuore è un remake di un film di James Toback). Un profeta si svolge per intero dentro un carcere, salvo qualche esterno durante le uscite-premio del protagonista. Malik el Jebena (Tahar Rahim, una rivelazione) è un diciannovenne francese d’origine araba, condannato a sei anni per l’aggressione a un poliziotto. Di lui sappiamo solo che ha fatto anni in riformatorio ed entra per la prima volta in un penitenziario vero. È uno dei tanti ragazzi di strada sbandati e soli, senza famiglia, appoggi o istruzione: un quasi adulto analfabeta. Il titolo prefigura un percorso eroicomistico. Malik, un anonimo delinquente predestinato, vede cose che gli altri non vedono. Trasforma gli anni di reclusione in un’università della vita criminale, la sola che gli è concessa dalla sorte. Per lui la prigione diventa un luogo «di recupero», ma non proprio quello auspicato dagli esperti. Impara a leggere, a scrivere e a parlare il dialetto corso, per meglio destreggiarsi nella banda dominante del carcere, e non soccombere. César Luciani è lo stupefacente, autorevole Niels Arestrup, e si capisce che il ragazzo scelga (si fa per dire) di arruolarsi con lui, che domina il sistema, piuttosto che con il più debole giro arabo. La gavetta di Malik con i corsi inizia con l’ordine di avvicinarsi a un arabo generoso e gentile, che regala consigli e cose utili al detenuto più giovane, e lo incoraggia a istruirsi. L’ordine di César è di entrare in confidenza con lui per poi ucciderlo, oppure essere ucciso per disubbidienza. I valori tecnici e produttivi del film sono superbi, inclusa la fotografia che sfiora il manierismo senza centrarlo. Il film aggiunge spessore e uno sguardo fresco, originale e profondo al film carcerario. Due ore e mezzo passano veloci, una durata che pochi film, specie se di genere, possono sostenere - vedi Shutter Island, un noir psicologico che alla fine stanca, perché esagera e non ha posta in gioco. Scorsese fa una confezione tutta virtuosismi e citazioni ma il francese ha qualcosa d’urgente da raccontare: una trasformazione. Audiard autore non si scervella a inventare chissà quale novità: prende un genere e lo reinventa. Ha preso gli stilemi del thriller noir carcerario e ne ha fatto un’opera di cinema puro in cui una vita dannata invece di precipitare, prende il volo. Da non perdere.

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Nancy Meyers è un’abile autrice di film-confezione per un target assai trascurato: donne adulte. Non ha una firma visiva ma porta una sensibilità politica light (nata nel 1949, ha vissuto il risorgimento femminista degli anni Sessanta-Settanta) a un genere forse inventato da lei: la commedia fantaromantica per ex ragazze. In È complicato, Jane (Meryl Streep) è divorziata da dieci anni, sessantenne, tre figli grandi, una fiorente impresa pasticciera. È corteggiata con passione sia dall’ex

Il riscatto di Malik

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e una favola per vecchie ragazze di Anselma Dell’Olio

“Un profeta” di Jacques Audiard ha gli stilemi del thriller noir carcerario, ma sa trasformarsi in un’opera di cinema puro, in cui una vita dannata prende il volo. “È complicato” di Nancy Meyers è una spassosa rom-com dedicata alle over-quaranta marito Jake (Alec Baldwin), sia da un affascinante architetto brizzolato (Steve Martin) che ristruttura la sua cucina. Durante una trasferta a New York per festeggiare il diploma del figlio, finisce a letto con l’ex marito e si riattizza l’antica fiamma. La giovane, tonica seconda moglie Agness (Lake Bell) af-

fligge Jake con Pedro, un moccioso nato da una scappatella, e l’ossessione di farne un altro con lui, il legittimo marito, costi quel che costi: cliniche della fertilità, conta degli spermatozoi, termometro sempre in bocca, uscite annullate in favore dell’alcova al grido «Sono fertile!». La prima moglie, cura-

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ta e attraente, rassicurante e autonoma, è il porto sicuro e pure sexy che ha fatto male a lasciare.Tiè. Altro che Sex and the City. Meyers costruisce da sempre mondi paralleli, dove le donne «si realizzano» con avventure iperboliche e trovano Uno talmente Giusto che le amiche crepano d’invidia. In Soldato Giulia agli ordini Goldie Hawn è una ragazza ricca e viziata che rimane vedova la prima notte di nozze. D’impulso si arruola nell’esercito, impara a stare al mondo, e trova un latin lover da sballo. In Baby Boom (1987) Diane Keaton, una turbo carrierista che eredita la bimba orfana di un lontano parente, impara a essere una mammaimprenditrice e sposa un veterinario di campagna. Meyers sfonda anche come regista con Quello che le donne vogliono. Mel Gibson è un maschilista che dopo un incidente scopre di sentire i pensieri delle donne, tra cui quelli di un’odiata collega (Helen Hunt) che gli ha scippato una promozione. Il reprobo impara a essere «equo e solidale» e fa la pace e l’amore con l’ex rivale. Il trionfo di Tutto può succedere (2003) ha fatto di Meyers una potenza a Hollywood, grazie anche a Jack Nicholson, anziano discografico infartuato a casa di Diane Keaton, la mamma scrittrice della sua giovane fidanzata, che fugge inorridita; solo, è costretto alla convalescenza con l’ormai ex suocera putativa. Keanu Reeves, il fighissimo cardiologo trentenne che ha in cura il satiro, non s’incapriccia della Keaton ultra cinquantenne (Cougar ante-litteram) scatenando la gelosia del suo paziente e ora rivale in amore? È complicato è spiritoso ma meno riuscito (l’ispirazione non ha retto nel finale); non è sfuggito che Meyers ha fatto della sua eroina una Mamma Ideale che seduce con i dolci ed è «salvata» dalla sindrome del «nido vuoto» dalla corte di due maschi. I film di Meyers sono una libidine per le over-quaranta e fanno soldi a palate.Tutti hanno voglia di vedersi rappresentati sullo schermo, adoratori d’esplosioni, bambini, studenti, adolescenti arrapati, tutti. La voglia di identificarsi con quello che si sta guardando è diffusa (la parola della domenica è scopofilia) e la donna non-schianto è una categoria sottorappresentata al cinema; quei pochi film che le celebrano (Il diario di Bridget Jones, Julie & Julia, eccetera) sono definiti con spregio chick flicks.

Gli Oscar a Kathryn Bigelow per Hurt Locker hanno reso felici le donne con il cervello non tarlato dall’ideologia. Hanno indispettito solo paleo femministe pacifiste imbalsamate nella «politica della differenza»; respingono un’artista che osa occuparsi di violenza maschile (senza giudicarla) e non di «questioni femminili». Sam Peckinpah è il suo modello di riferimento, non George Cukor; forse ci voleva proprio una regista affascinata dagli eroi di guerra (i disinnescatori di bombe) perché fosse premiata da un establishment di vecchi ragazzi. Il film d’azione è rassicurante: la virilità non è in discussione. Verrà un giorno una regista rom-com all’altezza della Bigelow, una Jane Campion comica, per esempio. Ma senza rinunciare alle Meyers e alle Nora Ephron e alle loro spassose, fantastiche favole per vecchie ragazze. Cosa vogliono le donne? Tutto, ecco cosa vogliono.


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poesia

John Keats cronista dell’estasi di Filippo La Porta iamo in grado di capire, di sentire i versi di chi è il più puro tra i poeti romantici (accanto a Hoelderlin)? La sognante contemplazione dell’urna greca, trovata al British Museum, ci appare qualcosa di remoto, di estetizzante, di alieno. Il grande critico americano Lionel Trilling ha osservato che ai moderni è precluso l’accesso a quella visione eroico-tragica. Ma vorrei almeno in parte contestare questa patente di inattualità e inaccessibilità. E per farlo mi servirò sia dello stesso Trilling e sia di una biografia saggistico-narrativa del poeta scritta da Elido Fazi, Bright star. La vita autentica di John Keats.

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ODE SOPRA UN’URNA GRECA Tu della quiete ancora inviolata sposa, alunna del silenzio e del tempo tardivo, narratrice silvestre che un racconto fiorito puoi così più che la nostra rima dolcemente dire, quale leggenda adorna d’aeree fronde si posa intorno alla tua forma? Di deità, di mortali o pur d’entrambi, in Tempe o nelle valli d’Arcadia? Quali uomini son questi o quali dei, quali ritrose vergini, qual folle inseguimento, qual paura, quali zampogne e timpani, quale selvaggia estasi? Dolci le udite melodie: più dolci le non udite. Dunque voi seguite, tenere cornamuse, il vostro canto, non al facile senso, ma, più cari, silenziosi concenti date all'intimo cuore. Giovine bello, alla fresca ombra mai può il tuo canto languire, né a quei rami venir meno la fronda. Audace amante e vittorioso, mai mai tu potrai baciare, pur prossimo alla meta, e tuttavia non darti affanno: ella non può sfiorire e, pur mai pago, quella per sempre tu amerai, bella per sempre. (…) O pura attica forma! Leggiadro atteggiamento, cui d’uomini e fanciulle e rami ed erbe calpestate intorno fregio di marmo chiude, invano invano il pensier nostro ardendo fino a te si consuma, pari all’eternità, fredda, silente, imperturbabile effige. Quando, dal tempo devastata e vinta, questa or viva progenie anche cadrà, fra diverso dolore, amica all'uomo, rimarrai tu sola, «Bellezza è Verità» dicendo ancora: «Verità è Bellezza». Questo a voi, sopra la terra, di sapere è dato: questo, non altro, a voi, sopra la terra, è bastante sapere. John Keats

Anzitutto vorrei dire che siamo tutt’oggi imbevuti di cultura romantica, nonostante, o forse proprio a causa dello sviluppo della tecnologia e della razionalità scientifica. La nostra intera cultura non solo parla continuamente ed enfaticamente di «emozioni» ma si basa su alcuni paradigmi, non esplicitati, su alcune gerarchie di valore introiettate, che appartengono al movimento romantico. In estrema sintesi: primato della notte sul giorno, dell’inconscio sul conscio, della trasgressione sulla norma, della follia sulla sanità, dell’esperienza estrema sulla prosaica quotidianità, infine dell’immaginazione sulla realtà. Dunque la nostra cultura sembrerebbe ben attrezzata ad accogliere e assaporare Keats, specie quei versi famosi: «dolci le udite melodie, più dolci le non udite…». Ciò che si presenta come vago, tremulo, irrealizzato sembra prevalere su quanto invece si è concretamente realizzato (e proprio perciò è esposto al divenire e al disfacimento). Eppure Keats, figura archetipica del poeta romantico, contiene anche i necessari anticorpi nei confronti della deriva «irrazionalistica» e ipersoggettiva di quel movimento, e delle sue insidiose retoriche. Devoto a Shakespeare dichiara di non amare le effusioni e di essere, in quanto poeta, «senza identità», pronto a entrare metamorficamente in ogni corpo e in ogni oggetto terrestre. Il libro prima citato di Fazi ci introduce, direi pudicamente e affettivamente, nella vita di Keats, nelle sue vicende pubbliche e private, in quelle sentimentali e in quelle materiali. Così vediamo il poeta in moltepici momenti e situazioni: legge a letto Milton e Dante, va in birreria con l’amico (anche se predilige il vino!) ed è attratto dalle prostitute, ha in odio gli «intellettuali saccenti», assiste distrattamente a una funzione religiosa, gioca a cricket, non sopporta i preti poiché mentono continuamente, gli piace l’allegria delle cameriere irlandesi, si strugge d’amore per la bella Fanny (algida e fatale), si deprime per le stroncature e si esalta per le recensioni positive, e soprattutto ama la natura, i prati verdi, il paesaggio della campagna inglese davanti al mare… Bene fa Elido Fazi a sottolineare l’importanza nella biografia interiore di Keats di quella «visione» che ebbe il 13 agosto del 1916 su una collina nel Kent. La percezione estatica della «luce d’argento» della luna è l’incontro con la bellezza e un ana-

logo dell’esperienza mistica. Da qui si origina l’intera sua opera, che diventa quasi la cronaca in versi di un’estasi. Decide infatti che «sarebbe vissuto per narrare quegli istanti, uno dopo l’altro». Ma il merito di Bright star (dal titolo di un sonetto d’amore a Fanny) consiste nel sottolineare il valore della eticità nell’ispirazione di Keats. All’inizio accennavo a degli anticorpi. Il poeta, considerato il padre di decadenti e preraffaelliti (che adorarono la sua Belle dame sans mercì), è tutt’altro che un esteta! In questo senso mi pare illuminante l’episodio rievocato da Fazi, quando Shelley in una cena, a proposito del suicidio di Harriet, sua prima moglie (di origini umili) e sua sventurata discepola poi abbandonata, si mette a recitare come in un palcoscenico e trova parole di indignazione solo per i genitori di lei che vogliono sottrargli i figli. Bene, «a Keats non era piaciuto quell’atteggiamento autogiustificatorio: non lo aveva sentito pronunciare nemmeno una parola di pietà nei riguardi della povera Harriet». Keats, che proviene da una famiglia di stallieri, aveva studiato medicina e varie volte pensa di imbarcarsi sulle navi per l’India come medico. In un’altra occasione poi medita di lasciare la poesia e di dedicarsi al giornalismo, a scrivere articoli in difesa degli umiliati e offesi, un po’ come certi suoi maestri, liberi pensatori scettici e radicali (tra tutti Hazlitt). Non intendo sminuire la purezza lirica dell’opera di Keats, la musica rapinosa dei suoi sonetti (su queste pagine Roberto Mussapi ha commentato lo stupendo sonetto dedicato al «sonno», capace di lenire il dolore fisico del poeta e di portarlo ogni notte in paradiso…). Ma proprio il suo ideale di bellezza, inseparabile dalla verità, lo mette al riparo sia da nostalgie decorative classicheggianti e sia da certi esiti del più estenuato decadentismo.

Vorrei concludere con un accostamento spero non del tutto illegittimo. All’inizio ho citato Trilling, che ha osservato come Keats sia «l’ultima immagine di salute nel momento culminante in cui la malattia dell’Europa comincia ad apparire». E poi ha voluto insistere sulla assoluta centralità antiascetica e antiborghese del piacere nella sua opera (mentre dopo di lui la poesia moderna apparirà più volentieri luttuosa, disperata, lacerata…). Piacere come resistenza ai ruoli e doveri sociali, alla logica del potere, perfino alla cultura e alle sue ambigue sublimazioni. Il critico americano, di idee radicali, scrive negli anni Sessanta, e dunque guarda intorno a sé i primi segnali della rivolta di Berkeley e di una nuova sensibilità, utopico-sovversiva. Non so se il ’68 è stato davvero, come qualcuno ha osservato, l’ultimo sussulto del romanticismo, però in quella festa di Pan scolpita per sempre nel bassorilievo dell’urna funeraria al British, in quella «selvaggia estasi», in quelle zampogne e timpani, potremmo anche scorgere un corteo gioioso di studenti e giovani deraciné come Keats, anche loro innamorati della bellezza e della verità.


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il club di calliope torno ad immergermi nel corpo azzurro e buono di una domenica mattina, con i miei muchi e umori affraternati a quelli di altri senza capelli e occhi, muti come me in un qualsiasi giorno di lavoro spinta per corridoi con altre ombre incontro, accanto. Ma in questo chiaro di saliva, cloro e seme, abbandonata ognuno la sua scorza, entriamo estranei per respirare insieme e compiere quel gesto che ci porta bambini con un segno d'acqua in chiesa. Franca Mancinelli

VOCI LIBERE, FUORI DAL CORO TOTALITARIO

UN POPOLO DI POETI Rovisto ancora tra le tessere della nostra profezia e questa storia è già plurale. Annunciazione o verdetto declina alto il nome nuovo senza il mio. Sfoglia sempre con un dito le pagine dei libri, lascia stare l'inchiostro, odora l'anemone. Trattieni nelle narici lo stelo.

in libreria

Vangelo Pasquale Vitagliano

di Nicola Vacca vent’anni dalla caduta del Muro, l’eredità culturale della Repubblica democratica tedesca trova nella poesia un interessante strumento d’indagine. 100 poeti dalla Ddr (a cura di Christoph Buchwald e Klaus Wagenbach, Isbn edizioni, 196 pagine, 19,00 euro) è un’antologia che ci porta a spasso attraverso quarant’anni di storia tedesca. Oltre il Muro c’era la repressione, mancava la libertà, ma si scrivevano poesie. Erano molti i poeti che raccontavano in versi i sogni spezzati dall’arrivo del comunismo e il desiderio di libertà. Accanto ai poeti di partito, asserviti alla propaganda, c’erano numerosi intellettuali che usano la poesia con un’arma dialettica per lottare contro gli oppressori. La loro poesia ha rappre-

A

Andrea Tarquini nell’introduzione scrive che nella Ddr poesia e letteratura erano e restarono a lungo una nicchia di libertà che il regime lasciò agli intellettuali per narcotizzarli nella scelta strategica di tentare di impedire a ogni costo una saldatura tra i loro pensieri e il malcontento della classe operaia e di altri vasti strati della popolazione. Questo in parte corrisponde al vero. Ma dalla lettura dei poeti presenti nell’antologia emerge una cosa più importante. Nella Ddr c’erano intellettuali che decisero di schierarsi dal primo momento con i comunisti e altri che scelsero l’opposizione. Reiner Kunze è uno di questi. La sua avversione al regime gli costò l’espulsione dall’Associazione degli scrittori della Ddr. Il muro è una poesia bellissima che

Raccolti in antologia cento poeti della Ddr che raccontano in versi il desiderio di libertà. Ma c’è anche chi si schierava col regime. Una testimonianza su quarant’anni di storia sentato lo stato d’animo di un paese che viveva nella separazione una tragedia, che finì inevitabilmente per coinvolgere l’Europa. Sono queste le voci più interessanti presenti in quest’antologia. Non è vero, come si legge nell’introduzione, che in questo libro non ci è dato sapere quali fossero le poesie vietate né quali fossero i poeti dichiaratamente di partito. Da un’attenta lettura si riconoscono immediatamente le voci della dissidenza che si opposero alla repressione brutale e che con i loro versi chiedevano libertà, democrazia e apertura all’Occidente. Tra questi spicca Peter Huchel, nato vicino a Berlino. Dopo essere stato direttore artistico e caporedattore della rivista Sinn end Form, nel 1971 espatriò dalla Ddr. I suoi versi hanno una forza espressiva dirompente e si schierano dalla parte della dignità dell’uomo. «…Il vuoto si fa storia/ La scrivono le termiti/ Con le mascelle/ Nella sabbia/ E non la studierà nessuno/ Una razza,/ Zelantemente dedita/ Ad annientarsi».

più di qualsiasi altra esprime lo sgomento e il terrore di quegli anni vissuti da chi risiedeva nella Germania orientale. Vale la pena leggerla: «Quando l’abbiamo abbattuto, non sapevamo/ quanto era alto dentro di noi/ C’eravamo abituati a quell’orizzonte/ E all’assenza di vento/ Alla sua ombra nessuno faceva ombra/ Ora siamo qui/ senza più scuse». Alla caduta del Muro hanno contribuito, e non poco, i poeti liberi e non asserviti che si possono leggere in questo libro. Sulle sue rovine la loro poesia si leva verso il cielo per diventare patrimonio culturale della Germania unita. «Quante scosse può tollerare l’uomo» scrive Heinz Kahlau mentre assiste alla delimitazione dei confini della sua città. Leggere oggi questi versi ci può aiutare a capire come i berlinesi hanno vissuto la tragedia di quella mattina del 1961 quando il Muro dell’oppressione si prese la loro libertà. Da lì a poco sarebbero piombati nel bel mezzo di un incubo totalitario.

Dice che non c'è addio nelle asole e asola allora sia: poca materia intorno e vuoto. Sia passaggio e allaccio sia lo spazio dell'abbraccio e del ritorno sia pertugio e rifugio sia il chiuso esposto alla parola. Lucianna Argentino

Ho fatto a coltellate con i sògni e adèsso nelle òre finèstre cièche e galle. Cirròtiche le idee civettano sul cosa, ma dalla tòrre di babèle della ménte le soluzioni camminano a ritròso. Pièno d'identità è il libro della vita. Ne sbatterei i tappeti che odorano di chiuso per il mantèllo a ruòta di un brìvido di giòia. Vorrei colpirlo alla radice questo black-out di sènsi, avere più di un débito da regolare, abbandonare il ring delle false apparènze. Un brìvido di giòia Monia Gaita «Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

Di tutto di più al Tefaf delle meraviglie

urioso destino. Avrei voluto emarciparmi dalla consueta narrazione delle recensioni abituali, in cui bisogna strutturare e pilotare un racconto critico imbrigliato, avrei preferito abbandonarmi piuttosto a un flusso di memoria cinematografica, école du regard, tipo l’Arca di Solokov, senza uno scheletro logico. Solo un continuum visivo di «cose viste», una sorta di elenco della navi dell’Iliade (pur senza essere Omero) in omaggio ironico all’ultimo saggio di Eco, sul fascino-ossessione dell’elenco. Ovviamente in quel posto magnifico, incomparabile, che è la fiera Tefaf di Maastrich, la mostra più bella che si possa immaginare, il museo momentaneo più ricco al mondo, dal momento che passi come in trance dall’Alfa Romeo guidata da Enzo Ferrari (che teneva già scuderia, ma con cavallino ancora giallo) a pittori manieristi quali Pontormo e Rosso Fiorentino, da poppute veneri cicladiche a monete di Carlo V, da supremi cammelli di tradizione cinese e sipari giapponesi a un pianofortejazz, tutto vetro e acciaio, di designer danese anni Trenta. Da un codice miniato a forma di fiore mistico, a un volume berlinese 1905 di disegni e progetti, molto Secessione, di Wright, ma ci sono in mostra anche le poltrone del figlio designer e un curiosissimo doppio trompe l’oeil d’un pittore «boloniense», figlio come dichiara di Antonio Crespi Benen, dunque con ascendenze spagnole, che si chiama Giuseppe, ma non è probabilmente il Giuseppe Maria, pur detto lo Spagnolo, ben più conosciuto, gran maestro d’una vanitas in cui, sotto il falso rilievo d’un arco da viola da gamba, s’inseguono delle stampine di Bertoldo e Cacasenno (dunque Bologna torna) e delle piccole thorà ebraiche. Sì, volevo proprio partire così e non finire più, magari insufflando a un folle-saggio di piantare tutto, prendersi un aereo lowcoast all’ultimo istante e non perdersi un paradiso simile, ma ho appena scoperto che il fido taccuino, su cui avevo annotato tutto, non si fa trovare più e dunque non ho più il bastone della memoria, per partirmene in quarta. Dunque torna il rischio di dover fare della sociologia, di farci prendere in trappola con le so-

C

di Marco Vallora lite domande: «è tornato il bel tempo nel mercato serio dell’arte (e qui è davvero serissimo)?»; «i ricconi che comprano, ci sono sempre?»; «che cosa tira di più?». Per carità, non cadiamo in queste trappole: intanto dal viso dei venditori, non trapela mai qualcosa d’inequivocabile, semmai qualcosa di molto più vero lo capiscicarpisci di più da certi lacerti di confidenza, quando infilzi anche involontariamente certi dialoghi da cellulare, non intercettati davvero, ma corali, soprattutto se si tratta di ugole italiane. Sì, certo, certe linee di tendenza, vagamente, potremmo anche individuarle: per esempio quel tentativo, molto francese, di rivalutare mercantilmente una generazione

arti

di pittura anni Cinquanta, post-école de Paris e informale, tramata di Estève, di Bissier, di Mathieu e di magnifici teleri di Pierre Soulàges, ancora attivissimo a oltre novant’anni, mentre di/da noi non si vede mai né un Morlotti, a pagarlo, né un Chighine, un Ruggeri o che so, un Santomaso. Nulla, solo la prevedibile liturgia consolidata: Morandi, Fontana, Marino, Manzoni, quest’anno a quanto pare nessun Burri, poco Melotti. Così, mentre pare un po’ in calo la pur prolifica Bourgeois (però c’è uno stand tutto per lei) molto sale la febbre per Cornell, e persino delle sue preziose techine, usate, disinvoltamente, come vassoi. Continua la curiosa campagna promozionale per l’uruguaiano Torres Garcia, vicino al gruppo della Section d’or, in cui c’è anche il fratello di Duchamp, Jacques Villon, ma quest’anno buona vendemmia anche per Vieira da Silva. Ma non potremmo certo citare tutti, i nomi, per esempio della pittura, o della scultura o anche dell’architettura (magnifiche quelle leggendarie poltroncine a zig zag di Rietveld, umile legno usurato, da isba) dal momento che ci sono tutti ma proprio tutti (diciamo non Caravaggio, ma una marea di magnifici caravaggeschi, non Vermer e non Velazques, è ovvio, ma Rembrandt, Goya, Rubens, Cézanne sì, e poi molteplici edizioni, per esempio, del raro trattato sulla prospettiva di Duerer, un magnifico Altdorfer, no, Mabuse no, ma molti autorevoli fiamminghi, e poi nazareni, preraffaelliti, simbolisti, impressionisti (Degas con magnifici pastelli o le sue sculture, che riprendono Rodin, pluriomaggiato pure lui. E invece un Monet molto giovane, pre-impressionista, celebre già da ragazzino, per le sue caricature testa-grossa alla Nadar). Ma lo spazio non basta… Un’ultima curiosità: è presente persino una finta-bicchierna del falsario Joni, con un linguaggio, tradotto a pastiglia, un po’ alla Totò. Ove si dice che l’opera è stata «rifatta» da un certo Giovanni di Paolo, senese, «hoperaio della cattedrale». Tutto, tutto: dalle tavolozze sporche di Picasso, alle celebri paperolles di Proust. Con cui lui costellava le prove di stampa sempre rimandate, piovra diventata oggi un’opera d’arte, alla Schwitters.

autostorie

Identikit del manager che ha rilanciato la Fiat di Paolo Malagodi ndicato da un panel di giornalisti quale uomo dell’anno per il mercato mondiale dell’auto, Sergio Marchionne ha coronato nel 2009 un ambizioso progetto. Quello di dare al gruppo Fiat, del quale è amministratore delegato da metà del 2004, una dimensione da player globale, grazie al controllo della statunitense Chrysler. Al termine di un’operazione di spregiudicata fantasia finanziaria che, senza l’esborso di un quattrino, punta al salvataggio di un’azienda ormai destinata al fallimento e grazie al travaso, da Torino a Detroit, di tecnologie capaci di rinverdire i fasti della consociata americana. Con motori e pianali di più contenute dimensioni, rispettosi di un nuovo corso commerciale universalmente orientato al downsizing, oltreché dei ridotti consumi di carburante

I

richiesti dai programmi federali per i prossimi anni. Del tutto ovvio che, in tale contesto, i riflettori dei media siano sempre più puntati su un manager che preferisce il maglione scuro all’abbigliamento formale e che, nato a Chieti nel 1952, ha assunto anche la cittadinanza canadese. Dopo essersi trasferito, all’età di quattordici anni, insieme al padre, nel paese nordamericano e con una prima laurea in filosofia, seguita dalla seconda in legge e da un master in economia. Per occuparsi di consulenza e revisione contabile, in un percorso che lo porterà nel 1994 in Svizzera, per assumere dal 2002 la guida della Sgs di Ginevra, leader mondiale nei servizi di certificazione. Società alla quale partecipa anche Ifil, la finanziaria presieduta da Umberto Agnelli che nel 2003 include Marchionne nel consiglio di am-

ministrazione della Fiat. Succede così che alla morte di Umberto Agnelli, da poco subentrato al fratello Gianni come presidente del Lingotto, a fine maggio del 2004 il manager italo-canadese-svizzero divenga amministratore delegato del gruppo torinese. Spiegando, in una prima intervista al quotidiano La Stampa: «Ho avuto una formazione anglosassone, ma mi sento italiano sino in fondo». Inizia così il difficile risanamento di un’azienda, sulle cui condizioni Marchionne non ha esitato a dichiarare: «Quando entrai la prima volta al Lingotto sentivo puzza di morte. Morte industriale, intendo dire. Quando ho mostrato gli obiettivi triennali la gente pensava che fossi matto». Come riporta, tra molti altri episodi e aneddoti, un agile volume (Marchionne, la Fiat e gli altri, edizioni Il Sole-24 Ore, 250 pagine, 19,00 euro) scritto da Riccardo e

Maria Ludovica Varvelli, esperti di problemi aziendali che hanno anche insegnato cultura di impresa all’Isvor, l’istituto per lo sviluppo organizzativo della Fiat. Un libro di scorrevole esposizione che parte dall’analizzare la rapidità decisionale con la quale è stata completata l’operazione Chrysler, con l’appoggio del presidente Obama convinto che «Chrysler non può restare in piedi da sola - come dichiarava il 30 marzo 2009 - e ha trovato il partner nell’azienda internazionale Fiat, il cui attuale team manager ha realizzato un impressionante rilancio». A ritroso vengono poi ripresi altri episodi, come la vicenda del put con General Motors, mettendo Marchionne anche a confronto con i grandi numeri uno del Lingotto, da Vittorio Valletta a Gianni Agnelli, o dell’auto mondiale come Alfred Sloan di General Motors e Lee Jacocca di Chrysler.


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moda

20 marzo 2010 • pagina 23

Tulle, pizzi, balze e volant... Tutti pazzi per Alice di Roselina Salemi

lice è tornata, 145 anni e non li dimostra, forse perché non è più la stessa, rivista e corretta da Tim Burton e Colleen Atwood, la costumista più corteggiata del momento. Forse perché la bambina stupita, passata da un’avventura all’altra nel mitico Paese delle Meraviglie, oggi è una ragazza ribelle, vagamente gotica, avventurosa e non troppo spaventata. Come sono le donne oggi. E siamo sicuri di non avere incontrato anche noi qualche volta, acide Regine di Cuori e pazzerelloni genere Cappellaio Matto? Per un curioso cortocircuito modaiolo, Colleen Atwood ha saccheggiato i creativi più di tendenza, da Riccardo Tisci (Givenchy), ai coccolatissimi Christopher Kane e Louise Goldin, e si è ritrovata sulle passerelle un’Alice, da lei ispirata, che sarà tra i temi dominanti anche nel prossimo autunno-inverno. Poi, se smette di nevicare, tra poco arriverà la primavera, stagione perfetta per Alice. Certo, non si può andare in giro con gonne e sottogonne di tulle, nastri e cinture ricavate dai cordoni delle tende, ma con le dovute correzioni, c’è un’Alice per tutti, dalla versione teenager (collani-

A

teatro

ne, ciondoli, fiocchi, cuori ), a quella chic con abitini a balze, volant e ricami, o follemente british. Alla London Fashion Week,Vivienne Westwood ha fatto sfilare abiti a strati e una modella con tanto di corona sulla testa… A parte il merchandising legato al film di Tim Burton, che prevede due linee di gioielli firmate Tom Binns per Disney (una a prezzi decisamente alti, l’altra, low cost, da 70 a 350 euro), la collana e il braccialetto di Stella McCartney con perle antracite o bianche, charms a forma di cuori, picche, coniglietti, cappelli, e i quattro smalti per unghie limited edition della Opi (celeste, rosso fuoco, rosso bordeaux e glitterato), negli accessori del filone adolescenziale c’è davvero di tutto. La serie Acid Alice di Tarina Tarantino (orecchini, brac-

ciali, folli accessori per capelli), i cerchietti con il fiocco di Accessorize, la borsa bianca Fixdesign dedicata alla Regina di Cuori, le scarpe in tessuto rosa con le rondini stampate di Miu-Miu, la pochette di Furla con il Bianconiglio come chiusura, il portafoglio di plastica con i cuoricini di Marc by Marc Jacobs.Volendo, c’è anche uno stile più adulto: la collezione di Donatella Versace, con stampe di orologi e carte da gioco, i tulle e i pizzi di Colette Dinningan, gli abitini in pelle nera con ricami di giardini fioriti, croci, costellazioni di Cristopher Kane (visti addosso a Carey Mullingan, elegante star di An education), le gonnette dall’orlo arrotondato di Louise Goldin, il romanticismo ironico e fiabesco di Marras, i sandali e le clutch tintinnanti di cristalli di Miuccia Prada, i bijoux Svarowski con pendenti a forma di coniglio, cuore, tazza da tè, chiave magica o fiore animato, gli strabilianti, surreali gioielli di Delfina Delettrez o gli occhiali rossi a farfalla di Moschino. Non da portare tutti insieme, ovvio. Quanto basta per attraversare lo specchio e cercare l’Altrove. In tempi di crisi non c’è niente di meglio che immaginare un mondo parallelo, stupefacente, per quanto complicato, dove festeggiare, ogni giorno, il nostro «non compleanno».

Cuore a cuore con Vesna, senza effetti speciali successo così mentre dormiva: l’hanno infilata in un sacco come un gatto». Da qui prende avvio la narrazione di Mascia Musy estrapolata da Love, uno dei racconti della raccolta Per voce sola di Susanna Tamaro, edito da Rizzoli nel 1991. Sia ben chiaro, una narrazione che evolve dalla superficie piana della pagina bianca a quella tridimensionale del palcoscenico a seguito di un importante lavoro da parte di Emanuela Giordano che ne ha curato la drammaturgia prima e la messa in scena dopo. Una storia scabrosa, di quelle che fan venire la pelle d’oca e poi montare la rabbia, che non necessita di troppi orpelli per prendere corpo. Un corpo oggetto di scambio, quello indifeso e fragile di una bimba, una merce preziosa nelle mani sbagliate. Parliamo di Vesna una piccola rom più sfortunata di altre che deve fare i conti con l’incomprensibile mondo degli adulti. La bambina parte svantaggiata, di suo non è una bellezza e in più ha il labbro leporino; va quindi considerata come merce di serie C (non come la tredicenne Kalì ceduta a Trieste, pochi giorni fa dai genitori naturali a una coppia di connazionali per la cifra di 200 mila euro perché particolarmente dotata per il furto).

«È

di Enrica Rosso La piccola però è motivata da un addestramento feroce e, in breve tempo, riuscirà ad acquisire un suo valore di mercato. Ma a dieci anni ancora si crede nei miracoli, tutte le strade sembrano percorribili, e ogni sogno, con l’aggiunta di un pizzico di fortuna, pare realizzabile. E allora perché Vesna dovrebbe arrendersi all’evidenza di una sopravvivenza men che dignitosa? Ovviamente si invaghirà del primo che la farà sentire un po’

più di niente e non importa se poi il suo benefattore si lascerà andare e la userà esattamente come il suo sfruttatore abbandonandola al suo destino di bestiolina indifesa. Nel ventennale della Carta Costituzionale dei Diritti dell’Infanzia rileggendo gli articoli 34, 35 e 36, quelli inerenti allo sfruttamento e all’abuso sessuale, al rapimento e alla vendita dei minori, troviamo un ulteriore motivo di interesse in questa messa in scena sen-

za effetti speciali se non la sensibilità dell’interprete. Un tema sgradevole trattato con i guanti per aprirci gli occhi e non voltarsi dall’altra parte, ma al contrario cercare di capire come si sta nella pelle di chi si trova in una situazione disagiata che ha ereditato e di cui non ha colpa. Un raccontare che parte piano e cresce di intensità grazie alla prova esemplare di Mascia Musy (già premio Ubu nel 2008 e Premio Olimpici del Teatro come miglior attrice protagonista) che riesce a mantenere una misura perfetta per tutto l’arco della storia; un angelo bianco di assoluta semplicità: sempre in contatto, sia che narri, sia che si faccia lei stessa storia.Toccante e pudica, instaura da subito un legame profondo con il pubblico. Alla loro terza prova insieme Emanuela Giordano e Mascia Musy affinano una complicità che ancora non avevano esplorato, costruendo una partita che si gioca cuore a cuore con il pubblico, grazie a una scelta registica che espone l’interprete in primo piano, senza filtri, fatta eccezione per la musica di Fiore Benigni che, a tratti, colora la scena.

Love, Teatro Franco Parenti di Milano, fino al 28 marzo, info 02 599944700 www.teatrofrancoparenti.com


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fantascienza

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ai confini della realtà

di Gianfranco de Turris icordate? Alabarda spaziale!, Pugni atomici!, Doppio maglio perforante!, Missile centrale! (nel Grande Mazinga fuoriusciva dal… basso ventre), Missili pettorali! (che, per le robote o robotesse, insomma i robot femminili Afrodite, Diana e Venus uscivano invece, ma sì, dai seni d’acciaio), Miwa i componenti!, Agganciamento! Erano, negli anni Settanta e Ottanta, gli Atlas Ufo Robot, che furoreggiavano in Italia, oltre che sulle reti pubbliche e private, anche con fumetti, giochi e pupazzi, ma soprattutto con i loro motivi conduttori vendutissimi nei 45 giri e che ancora si ricordano con nostalgia, insieme a frasi passate alla storia del costume e sopra riportate: una incredibile saga internazionale iniziata nel 1972 con Mazinga, poi con Goldrake (1974) e Jeeg (1975), tutti creati da Go Nagai, e quindi con Gundam (1979), ideato da Yoshiyuki Tomino dopo Zambot 3 (1977) e Daitarn III (1978). Ora, la Jacobelli, una piccola ma agguerrita casa editrice sita nei Castelli Romani, in quel di Pavona di Albano Laziale, ha creato un’illustratissima e documentatissima (ancorché impaginata in modo un po’caotico) collana dedicata a questi personaggi, di cui sono usciti i volumetti su Mazinga e Jeeg Robot di Alessandro Montosi, e Gundam di Davide Castellazzi (ma si potrebbe anche aggiungere Goldrake ancora di Montosi, Coniglio, 2007).

R

Samurai del futuro

Il ritorno di Mazinga e Co. va ai samurai e al suo folklore mitologico-religioso. Insomma, un’evoluzione della fiaba. Tutto bene? Per niente. Infatti, poco dopo il loro arrivo in Italia (1980) esplose la polemica: da un lato le «associazioni dei genitori» che accusavano di violenza i «robottoni», e dall’altro la denuncia dei politici e dei giornalisti di sinistra di propagandare una visione quasi «fascista», dato che il

Erano i robot giganti, i «robottoni»: alti tra i 12 e i 25 metri, pesanti fra le 25 e le 32 tonnellate, guidati da giovani che s’innestano nella loro testa, combattono contro le invenzioni di scienziati pazzi come il Dottor Hell, o malvagi imperi sotterranei come quello di Jamatai che vogliono conquistare il mondo, in una mescolanza di superscienza e supermagia. Ogni episodio è autoconclusivo e segue in sostanza sempre l’identico schema. Storie per bambini e ragazzi che, all’epoca, rinverdivano in chiave fantastica e tecnicizzata il mito dell’eroe senza macchia e senza paura medievale che combatteva contro mostri, maghi, dèmoni, re crudeli, rivestiti di una armatura diventata ipertecnologica e con armi avveniristiche. Il tutto rivisitato secondo l’imperitura tradizione culturale giapponese, che si riface-

soprattutto alla space opera di uno scrittore americano famosissimo e oggi quasi dimenticato, Robert A. Heinlein, e ai suoi due romanzi Fanteria dello spazio (1959) e La Luna è una severa maestra (1966) che, benché fossero stati accusati di essere «militaristi» e «di destra», vinsero il Premio Hugo come migliori romanzi dell’anno. Quindi, la trama: non episodi autoconclusivi e in fondo ripetitivi nella scaletta delle sequenze, ma una lunga vicenda «a seguire» che narra la Guerra di Un Anno, cioè quella delle co-

Con i loro “pugni atomici” e “doppi magli perforanti” furoreggiarono nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta, non senza strascichi polemici. Robottoni senza macchia e senza paura, erano guidati da giovani insediati nella loro testa per difendere il mondo dai malvagi. Ora una nuova collana ci riporta a quelle avventure… samurai, eroe solitario guidato dall’etica dell’onore, si propone paternalisticamente come un difensore del popolo sottraendogli la sovranità. Sciocchezze ideologizzate, si dirà, ma che indicano il clima pieno di astio e faziosità di quell’epoca. In particolare, l’apparizione di Gundam segnò una svolta epocale per questi personaggi. Per almeno tre motivi: i riferimenti alla fantascienza letteraria; la trama; il messaggio ideale. Tomino e i suoi sceneggiatori e disegnatori attinsero

sono - e vengono riconosciuti come tali sia nella Federazione Terrestre sia nel Principato di Zion, così come i traditori e i paurosi. E gli assi delle due fazioni, Amuro Rei e Char Aznable, hanno entrambi i loro pregi e difetti. Insomma, c’è umanità e c’è pure (incredibile a dirsi) una spiegazione delle ragioni di una parte e dell’altra, e anche i personaggi più antipatici come Dozul Zabi si dimostrano mariti e padri amorevoli.

Così, lo scontro fra i robot giganti come il terrestre Gundam guidato da Amuro, e nelle diverse versioni dai suoi amici, da un lato, e gli Zack, i Guf, i Gock di Zion dall’altro, non è tanto fra mostri d’acciaio al comando di superpiloti, quanto solo uno scontro fra questi guerrieri delle stelle che guidano possenti armature futuribili quasi fossero loro estensioni corporee. E proprio come gli antichi samurai hanno un codice d’onore che, indipendentemente dalla parte in cui militano, cercano di rispettare. Non sempre, a causa d’imprevedibili contingenze o di scatti umorali, ma almeno hanno un punto di riferimento, mentre combattono una guerra spaziale con milioni di morti. La guerra spaziale dei samurai del futuro che, magari, ha ancora qualcosa da dirci non solo a livello di divertimento.

lonie, e il pianeta di origine, con innumerevoli personaggi psicologicamente complessi e un intrecciarsi di vicende. Ma il lato più interessante, impegnativo e nuovo della saga di Gundam è che nell’anno 0079 dell’Universal Century (cioè, il 2124) non ci sono gli odierni Male Assoluto e Bene Assoluto, ma un mondo pieno di sfumature dove tutti e due i contendenti hanno, come dice Davide Castellazzi, «i loro scheletri nell’armaSopra, Goldrake dio». Gli eroi e i In alto, Mazinga coraggiosi ci A sinistra, Gundam e Jeeg


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

La globalizzazione è sicuramente un’opportunità da non perdere Come si può affacciare il panorama politico regionale verso l’orizzonte della competizione industriale offerta dalla globalizzazione? È un dilemma che ci dovrebbe far riflettere. Per qualcuno, la limitatezza delle risorse e la necessità di creare opportunità per tutti, mette in serio pericolo la gestione democratica del sistema; per la destra,invece, la crescita economica può essere realizzata solo sulla base dello sviluppo della media e piccola impresa, resa possibile anche accanto allo sviluppo delle cosiddette eccellenze, che sono state messe in un angolo dall’appiattimento della società, complice i disavanzi accorsi per mancanza di competenza e professionalità. La competizione industriale vuol dire accettare le gare interne, favorendone la dinamicità; significa non pensare alle fasce più deboli come qualcosa che si deve sempre e solo difendere, ma guardare ad esse come un anello della catena produttiva del Paese, perché occorre comunque riporle al centro del lavoro come entità procacciatrice di dignità umana e, attraverso ciò, di quella libertà che serve tanto al singolo, specialmente se in difficoltà, affinché si ponga nel giusto ruolo continuativo che appartiene alla società che produce.

Bruno Russo

IL TAR DIMOSTRA L’ ATTO DI PREPOTENZA La decisione del Tar è stata presa indipendentemente dal decreto salva liste. È stato così smascherato l’atto di prepotenza del governo. Quanto avvenuto dimostra che, per risolvere la questione, era sufficiente seguire le regole e aspettare che si compissero tutti i gradi di giudizio. Berlusconi invece ha cucito un vestito su misura unicamente per difendere il Pdl e i suoi alleati; una ragione in più per mandarli a casa.

Pia

L’UNIVERSALISMO DEL POTERE SACRIFICA LA LIBERTÀ INDIVIDUALE La politicizzazione restringe la privatezza. Il crescente potere pubblico trasforma le persone in sudditi compiacenti e arrendevoli. L’egemonia politica è favorita dal conformismo della gente. L’oligarchia mortifica la libertà individuale. Lo stato espande il suo dominio, col pretesto dell’elevazione morale e sotto le bandiere dell’assistenza e della prevenzione. L’ideologismo considera “tradimenti della democrazia” l’impolitica, l’astensione dal voto e l’indifferenza per il teatrino partitocratico. Lo stato di diritto totale è strumento del potere; comanda e ordina, con un’inflazione di norme; riduce l’autonomia personale; vuole educare, costringere e prevaricare. La partitica politicante, l’autorità elitaria e l’universalismo del potere sottomettono l’individuo e rischiano di trasformare la società in una prigione. La sfera privata risulta schiacciata dalla pressione dei collettivi e dello statalismo, elefantiaco e burocratico. Occorre riaffermare il fondamentale diritto del singolo d’essere lasciato in pace. La privatezza è la roccaforte della libertà personale. Protegge contro aggressione, crimine, interdizione, invadenza e potentati.

Gianfranco Nìbale

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

L’occhio del geco

LE VERITÀ NASCOSTE

Tokyo, il sindaco va in maternità

L’occhio - verdissimo - di una femmina di geco asiatico (Gekkonidae). Questo rettile, imparentato con le lucertole e innocuo per l’uomo, vive negli ambienti caldi di tutto il mondo. E molti scienziati hanno studiato la fisica correlata alla loro incredibile capacità di aderire ad ogni tipo di superficie

TOKYO. Il sindaco di una delle 23 cir-

UN RICORSO CONTRO LA SOSPENSIONE DEI PROGRAMMI INFORMATIVI RAI

I SOCIALISTI DI LOTTA SONO DIVERSI DA QUELLI DI GOVERNO?

coscrizioni di Tokyo ha annunciato l’intenzione di usufruire per due settimane del congedo parentale allo scopo di accudire il primogenito appena nato, in una mossa simbolica per spronare i papà nipponici a fare lo stesso e ad anteporre la famiglia, almeno per un periodo limitato, al “sacro” posto di lavoro. Hironobu Narisawa, 44 anni, primo cittadino della circoscrizione di Bunkyo, ha comunicato al pubblico la sua scelta mediante un breve messaggio online su Twitter: «Sono felice di annunciare la nascita del mio primo figlio. Desidero godermi la paternità”. Il sindaco neo papà ha rivolto un appello agli uomini giapponesi, che solo in una quota pari all’1,23% usufruiscono del “permesso di paternita” riconosciuto dalla legge: «Con la mia iniziativa voglio dare la dimostrazione che la pausa per la famiglia non ha ripercussione sulle carriere dei padri». Il Giappone ha da anni un tasso di natalità tra i piu’ bassi al mondo: nel 2008 è risultato fermo a 1,37 figli per donna, un indice che di questo passo rischia di decimare la popolazione sotto i 100 milioni di persone - dagli attuali 127 - entro il 2050.

Altroconsumo ha depositato al Tar Lazio il ricorso contro la delibera del Consiglio di amministrazione Rai dello scorso 1 marzo 2010, che ha sospeso la messa in onda di programmi informativi come Porta a Porta, Annozero, L’ultima parola, Ballarò e contro l’assoggettamento di tutte le trasmissioni di informazione alle regole della comunicazione politica. Il ricorso è stato presentato con un’altra associazione di consumatori: Cittadinanzattiva. L’atto chiede con urgenza l’intervento del Tar Lazio per correggere e sospendere gli effetti della decisione del Cda Rai: la lesione del diritto dei cittadini ad essere informati, dell’interesse collettivo degli utenti del servizio pubblico radiotelevisivo a un’informazione completa, obiettiva, imparziale e approfondita e la lesione del diritto all’accesso a una varietà ampia di contenuti, offerti da una pluralità di operatori in condizione di libertà di concorrenza. Diritti tutti riconducibili all’articolo 21 della Costituzione italiana. Se il servizio pubblico abdica ai propri doveri di fornire pluralità di contenuti informativi in vista delle elezioni amministrative dei prossimi 28 e 29 marzo, gli utenti non riconosceranno più la funzione di servizio pubblico alla Rai. Funzione per la quale gli utenti pagano il canone.

Riccardo Nencini lamenta «l’uso distorto e disinvolto» dei poteri del governo per trarre vantaggio alle elezioni regionali, dopo che proprio lui votò a favore della legge elettorale toscana che altro non è che l’applicazione di quel modo di fare nella nostra regione: cancellare con le liste bloccate la possibilità di scegliere i consiglieri; garantire un premio di minoranza agli avversari; istituire una soglia alta per espellere i nuovi arrivati, e richiedere uno sproporzionato numero di firme per evitare che partiti senza struttura possano partecipare. In cosa sarebbero diversi i socialisti di lotta da quelli di governo? Il decreto interpretativo è sicuramente contro ogni legge.

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Direttore da Washington Michael Novak

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

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Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

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Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

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Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,

Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,

Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,

Altroconsumo

Donatella

LA PIAZZA E LA REALTÀ Non confondiamo la piazza con il polso reale del popolo italiano: Bersani resta ancorato alle prospettive future offerte dalle vecchie ammucchiate, che hanno benedetto piazza del Popolo con un successo di 200mila persone, mentre il numero indicato dalla questura di Roma riporta il contatore a sole 25mila. Difendiamo chi nella politica parla sui fatti rispetto a chi profetizza ancora inutili speranze, e le distribuisce a buon mercato tra le folle.

Lettera firmata

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pagina 26 • 20 marzo 2010

Medioriente. Usa, Russia, Ue e Onu fissano una scadenza per la nascita dello Stato palestinese. Ma da Gaza partono razzi

«Pace in due anni» Ultimatum a Israele sui nuovi insediamenti Ma il “quartetto” ignora le minacce dell’Iran di Enrico Singer ue anni per arrivare alla pace e per far nascere uno Stato palestinese «indipendente e democratico» che possa vivere accanto a Israele rispettandone la sicurezza. È il messaggio lanciato dal “quartetto” dei grandi del mondo - Usa, Russia, Ue e Onu - che lavora da anni, ormai, per una soluzione negoziata del conflitto mediorientale. La paginetta del comunicato letta ieri a Mosca dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, può sembrare strappata dal libro dei sogni. Per le reazioni contrapposte che ha immediatamente scatenato tra israeliani e palestinesi. E perché a parlare, per ora, sono ancora le armi, tanto che un razzo sparato dalla Striscia di Gaza ha ucciso un colono nel kibbutz di Netiv Hassera, dopo che gli altri Kassam tirati giovedì avevano ucciso un immigrato thailandese. Eppure a lanciare l’ennesimo appello alla ripresa dei negoziati, al fianco di Ban Ki-moon, c’erano il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, l’Alto rappresentante per la politica estera della Ue, Catherine Ashton, e l’inviato speciale del “quartetto” ed ex premier britannico, Tony Blair, che si sono detti «profondamente preoccupati» per la situazione a Gaza e hanno anche chiesto a Israele di «sospendere immediatamente» il progetto di costruire nuove case a Gerusalemme Est.

D

Per il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, proprio quest’ultima condizione costituisce «un allontanamento delle prospettive di pace» per-

ché dà ai palestinesi «l’impressione sbagliata di poter raggiungere i loro obiettivi utilizzando ogni sorta di pretesto» mentre, secondo Lieberman, «tocca ai palestinesi dimostrare che sono interessati a negoziare». La pace, ha detto il ministro degli Esteri israeliano, «non si può imporre in modo artificiale fissando scadenze irreali».

Di segno opposto, naturalmente, sono le prime reazioni palestinesi. A Ramallah la posizione del “quartetto” è stata accolta positivamente dal capo negoziatore, Saeb Erekat, ma anche l’Anp, più che alle prospettive di lungo periodo, sembra interessata all’aspetto contingente della crisi e ha reclamato un «meccanismo di monitoraggio per controllare che

di Mahmoud Ahmadinejad che si è imposto come protagonista del conflitto israelo-palestinese, anche se il “quartetto” ha preferito ignorarlo. Da quando la Repubblica islamica iraniana è riuscita ad egemonizzare i due movimenti più agguerriti del fronte anti-israeliano - Hezbollah, in Libano, e Hamas nei Territori palestinesi - rifornendoli di armi e dando ospitalità a Teheran ai loro leader, il livello della crisi è cambiato radicalmente. Il fondamentalismo islamista ha trasformato quella che era, e che è stata a lungo, la lotta nazionale del popolo palestinese per ottenere uno Stato, nella lotta senza quartiere all’esistenza stessa di Israele. Che non ammette negoziati, che non prevede la pace come approdo finale. La Road Map im-

Il ministro degli Esteri, Lieberman: «Non si possono imporre date irreali». Per Gerusalemme il vero pericolo viene da Teheran. Ma c’è anche qualche segnale distensivo dietro le polemiche Israele fermi gli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme». In realtà, dal “quartetto”ci si attendeva un invito forte alla ripresa dei negoziati, anche indiretti, per scongelare gli accordi di Oslo che tante speranze avevano acceso. Era anche prevedibile, dopo le dichiarazioni polemiche della stessa Hillary Clinton dei giorni scorsi, che Israele sarebbe stata “invitata” a bloccare il progetto della costruzione delle nuove case a Gerusalemme Est. Ma più che quello che c’è nel comunicato letto da Ban Kimoon, a sorprendere è quello che manca. Perché a Mosca c’era un convitato di pietra: l’Iran

maginata per arrivare alla soluzione del due popoli, due Stati quella che anche ieri il “quartetto” ha rilanciato - non ha senso agli occhi di chi, come Hamas, ha dichiarato la guerra santa per distruggere Israele.

Quando Lieberman dice che «tocca ai palestinesi dimostrare se vogliono la pace», si riferisce ad Hamas. Di sicuro interpreta la posizione dei “falchi” del governo di Bibi Netanyahu. Ma oggi la preoccupazione maggiore - e condivisa - a Gerusalemme è per le minacce che arrivano dal regime iraniano: quelle dirette di Ahmadinejad e della guida suprema

della Repubblica islamica, ayatollah Ali Kamenei, che inseguono la bomba atomica e ripetono in ogni occasione la loro volontà di «cancellare Israele dalle carte geografiche», e quelle che rilancia Hamas che spera di innescare una terza Intifada e che sta marginalizzando i moderati di Fatah e il loro leader, l’attuale presidente dell’Anp, Abu Mazen. La partita, insomma, è molto complessa. E, al di là del testo del comunicato letto dal segretario generale dell’Onu a Mosca, il compito di ricucire gli strappi che si sono prodotti durante la visita in Israele del vicepresidente americano, Joe Biden, spetterà adesso all’inviato speciale Usa per il Medio Oriente, George Mitchell, che sta per intraprendere una nuova missione sul campo. E che è pronto a sfruttare i segnali distensivi tra Washington e Gerusalemme che

pure ci sono e che sarebbe sbagliato sottovalutare. Il primo segnale è arrivato proprio da Hillary Clinton che, da Mosca, ha definito «profonde, solide e durature» le relazioni tra gli Stati Uniti e Israele.

Hillary e Netanyahu si sono parlati al telefono e hanno concordato un incontro per la prossima settimana quando il capo del governo israeliano arriverà negli Usa per partecipare a una riunione della lobby ebraica americana Aipac. Non solo. Lo stesso Joe Biden, in un’intervista trasmessa ieri sera dalla rete televisiva Abc, ha detto che l’annuncio della costruzione di 1.600 nuove case a Gerusalemme Est durante la sua visita della scorsa settimana, è stata «una provocazione preparata da qualcuno in Israele per ostacolare il processo di pace» e ha fatto eco a Hillary Clinton riba-


mondo

20 marzo 2010 • pagina 27

High-tech, macchinari pesanti e infrastrutture: sono i legami di Tel Aviv con l’Asia

L’impegno di Pechino per l’intesa. E il business

Il governo cinese ha firmato accordi economici importanti con Israele. Ecco perché vuole la Palestina di Vincenzo Faccioli Pintozzi

Hillary Clinton e Catherine Ashton a Mosca.Alle loro spalle, da sinistra, Ban Ki-moon, Sergei Lavrov e Tony Blair. Sotto, tank israeliani in manovra ai confini con la Striscia di Gaza e Mahmoud Ahmadinejad dendo che «la sicurezza di Israele è innegabilmente nell’interesse degli Stati Uniti». Dietro le quinte delle dichiarazioni ufficiali, anche da parte del governo Netanyahu sono arrivati segnali di disgelo.

Secondo Haaretz Netanyahu avrebbe promesso una serie di «passi costruttivi» per facilitare la ripresa dei negoziati con l’Autorità nazionale palestinese. Il giornale ha scritto che «probabilmente queste misure includono il rilascio di detenuti palestinesi, la rimozione di posti di blocco in Cisgiordania e forse anche la disponibilità a trasferire altri territori della Cisgiordania sotto il controllo dell’Anp». Lo stesso Haaretz ha pubblicato un sondaggio, realizzato nei giorni più caldi della polemica con Washigton, dal quale risulta che Barack Obama gode di un buon gradimento tra gli israeliani. Sette su dieci lo considerano «un presidente amico e giusto con Israele» e soltanto il 27 per cento condivide l’opinione-choc espressa dal cognato di Benjamin Netanyahu, che aveva definito «antisemita» l’inquilino della Casa Bianca.

PECHINO. Ufficialmente, il governo cinese non partecipa in alcun modo al processo di pace in corso da un decennio nella tormentata regione del Medioriente. A voler fare proprio le pulci al dragone d’Asia, si potrebbe sostenere che durante la presidenza di Jiang Zemin fosse più diffuso un leggero sentimento filo-palestinese, rispetto a uno israeliano. Ma i nipotini di Mao non si sono mai interessati più di tanto della sorte di Gerusalemme e dintorni. Questo atteggiamento è cambiato in maniera radicale da circa cinque anni, ovvero da quando l’allora premier israeliano Olmert è atterrato a Pechino per una visita di Stato. Quel primo contatto si è concluso con la firma di accordi commerciali che hanno aperto la strada a una cooperazione a tutto campo. Il viaggio di Olmert in Cina non ha riguardato infatti esclusivamente gli assetti geopolitici mondiali. Si è arrivati anche alla firma di un accordo culturale e di importanti protocolli sull’importazione di agrumi da Israele. Il governo di Tel Aviv spera di triplicare l’interscambio commerciale tra i due Paesi, portandolo dai 3 miliardi di dollari di oggi ai 10 miliardi nel2020.In base agli ultimi dati del Central Bureau Statistics israeliano, nel 2005 le importazioni dalla Cina sono state superiori a due miliardi di dollari. Nel 2005 Pechino è stato il sesto esportatore in Israele per milioni di dollari. Rispetto al 2000 c’è stata una crescita da 0,9 miliardi di dollari a 2,5 miliardi nel 2005. Secondo fonti israeliane, gli scambi commerciali tra i due Paesi potrebbero registrare un ulteriore passo in avanti se Tel Aviv decidesse di riprendere la vendita delle armi alla Cina.Nel 2002 è stato firmato un accordo che prevede l’addestramento e l’equipaggiamento dell’esercito cinese da parte Israele. Per Pechino, Israele rappresenterebbe una possibilità per mettere mano sui brevetti americani (che sarebbero vietati alla Cina), nonostante il memorandum di intesa stipulato tra Washington e Tel Aviv nel 2005, sul controllo della vendita delle tecnologie degli armamenti alla Cina, in particolare aerei e portaerei. Il ministro dell’economia Bo Xilai ha ribadito che la crescita degli scambi commerciali si fonda proprio su questo punto essenziale, lasciando intendere che se le relazioni vogliono accentuarsi non si può prescindere dalla vendita degli armamenti.

cooperazione Cina-Israele per la Tecnologia moderna sono emersi accordi importantissimi in diversi settori tecnologici non militari.

L’accordo più importante è quello sulla tecnologia idrica. Per la Cina l’acqua è tanto importante come il petrolio e Israele è il leader al mondo di queste tecnologie, soprattutto per l’applicazione in campo agricolo attraverso la desalinizzazione. Il presidente Olmert ha dichiarato che questa intesa sull’acqua sarà la base per lo sviluppo di tutta la cooperazione futura.Tra gli altri accordi, va ricordato l’istituzione di un fondo bi-nazionale per gli investimenti nella ricerca e nello sviluppo nel campo del High Tech. Se da una lato Israele mette a disposizioni il suo know-how tecnologico, i cinesi mettono in gioco la loro capacità di vendita, un mix che sta dando i suoi primi frutti nel campo dei prodotti di video sorveglianza intelligente, nelle trasmissioni, nella gestione della sicurezza in generale. La collaborazione tra i due Paesi è anche nell’ambito della ricerche astrofisiche: in particolare su progetti legati alla minaccia di impatti di asteroidi sulla Terra. Ma la collaborazione è in diversi poli tecnologici di eccellenza, dove i due Paesi hanno investito molti fondi. La Neusoft, gigante cinese che produce software e medicinali, ha stabilito un accordo per fornire un servizio di consulenza alle aziende israeliane che stanno investendo in Cina. La Neusoft ha stabilito uno stretto legame con il fondo Cina - Israele di Shanghai, creato da una cittadina cinese di origine israeliana. La multinazionale, con 10mila dipendenti, produce tecnologie hi-tech a basso costo. La compagnia sta cercando di allargare i suoi investimenti anche in altri settori, come quello medico e delle comunicazioni, dove Israele ormai ha raggiunto una leadership globale. Con il costo dello sviluppo tecnologico in Cina bassissimo (ad esempio il costo per lo sviluppo di tecnologie software è del 60% inferiore rispetto ad Israele) e l’enorme conoscenza israeliana in questi settori tecnologici avanzati, può portare ad una accentuazione degli accordi commerciali tra compagnie israeliane e cinesi, soprattutto con l’apporto dell’esperienza ormai matura della mentalità imprenditoriale israeliana e delle conoscenze ad essa connesse. Alla luce di questo rapporto in crescita costante, l’esecutivo cinese ha benedetto la creazione di due popoli, due Stati come soluzione all’eterno conflitto mediorientale. Come i cinesi sanno bene, infatti, “la prima vittima della guerra è il commercio”. A cui non vuole rinunciare.

Quarto partner commerciale nella regione, Hu Jintao ha benedetto gli sforzi di pace del Quartetto

Tuttavia non va enfatizzata la necessità cinese di tecnologie militari occidentali, visto che il Paese in questi anni ha fatto passi da gigante per sviluppare una propria tecnologia. Al margine della visita di Olmert al Centro di


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pagina 28 • 20 marzo 2010

Afghanistan. Per l’inviato Onu, il Pakistan avrebbe boicottato la trattativa con i talebani vete sbagliato uomini», l’appello viene dall’ex inviato speciale Onu in Afghanistan, Kai Eide. I personaggi sarebbero dei leader talebani arrestati recentemente dalle forze di sicurezza pachistane. Ribelli con cui da tempo l’Onu stava cercando di tessere una trattativa. In pratica l’arresto avrebbe mandato in fumo un lungo lavoro diplomatico. Chi ha lanciato l’accusa dalle antenne della blasonata Bbc, giovedì, è una feluca norvegese di lungo corso, gia ambasciatore alla Nato e protagonista di una controversa vicenda ai tempi della sua permanenza in Afghanistan, il cui mandato è scaduto pochi giorni fa. All’epoca fu accusato dal suo vice, Peter Galbraith – figlio del noto economista americano John Kenneth – di aver coperto una frode elettorale, nel 2009, a favore dell’attuale presidente afghano Hamid Karzai.

«A

Il giovane Galbraith venne licenziato in tronco dal segretario generale Onu Ban Ki-Moon. Col suo curriculum che passa dalla Bosnia all’Osce, Eide non è un personaggio da prendere sottogamba e neanche la sua uscita allo scoperto su questa vicenda. Ha dunque confermato per la prima volta che aveva avuto dei contatti segreti con rappresentanti dei talebani, finiti nella lista dei cattivi di Islamabad. «Ci siamo incontrati diverse volta a Dubai e in altri posti» ha confessato davanti alle telecamere inglesi. Le autorità pachistane si sono affrettate a dichiarare che gli arresti non volevano essere uno stop al dialogo segreto. Ma il diplomatico norvegese è convinto del contrario e che il governo pachistano abbia

Kai Eide: j’accuse contro Islamabad I recenti arresti dei membri della shura di Quetta avrebbero frenato la diplomazia Onu di Pierre Chiartano

per le presidenziali. Si sarebbero messi in piedi numerosi canali di comunicazione con la leadership talebana, compresi quelli che coinvolgono alcuni rappresentanti di spicco del governo Karzai. Ma l’intervento di Islamabad avrebbe interrotto gran parte di questi canali. Eide, il cui mandato è scaduto in questi

Per il diplomatico norvegese i capi talebani non potevano trattare «senza che il mullah Omar ne fosse a conoscenza e lo approvasse» voluto interrompere i contatti per poter gestire in prima persona la regia di questi rapporti. A gennaio, la notizia di colloqui segreti con gli studenti coranici, era già trapelata a Londra alla fine della Conferenza internazionale sull’Afghanistan. Un incontro tra alcuni membri della shura di Quetta e inviati delle Nazioni unite, sarebbe avvenuto l’8 gennaio scorso. Secondo la versione di Eide il primo contatto risalirebbe «alla scorsa primavera» con una pausa causata dal processo elettorale

giorni, ha precisato che i colloqui sarebbero finiti diverse settimane fa, dopo che oltre una decina di importanti membri del movimento talebano sono stati arrestati nel corso di operazioni congiunte tra Pakistan e Usa.

«L’effetto di questi (arresti)... è stato certamente negativo per la nostra possibilità di dare corso al processo politico». Il diplomatico ha spiegato che il suo team aveva incontrato dei leader talebani che avevano autorità in seno al consiglio che

Senza la coalizione, a rischio la libertà

Karzai agli Usa: «Restate» KABUL. Ovviamente la decisione spetta alla Forza internazionale sul posto, ma per quanto riguarda l’esecutivo locale, l’Afghanistan chiede alla comunità internazionale di non fissare prematuramente una data per il ritiro. A parlarne è stato il consigliere del Presidente afgano Hamid Karzai, l’ex ministro degli Esteri, Rangin Dadfar Spanta, precisando che la definizione di una “exit strategy” darebbe il «segnale sbagliato agli insorti, che capirebbero invece potete fare quello che volete in un anno o due, qualsiasi cosa accada». Se le forze internazionali si ritirassero troppo presto, gli afghani perderebbero «tutti i benefici, la libertà nell’istruzione, la libertà di stampa, la libertà di curarsi e i diritti umani e delle donne». La forza più efficace contro i

talebani, ha aggiunto, «non solo da soli i contadini afgani, ma la democrazia, i diritti umani, i diritti delle donne, e il modo di vivere nei vostri Paesi». Insomma, la coalizione internazionale deve rimanere in Afghanistan: e i giusti appelli al disarmo parziale dei soldati di oltremare lì impiegati, che devono essere accostati a un reintegro del potere nelle mani del governo locale, non possono cancellare questa verità. Ovvero che, senza le armi occidentali, nel territorio afgano parleranno ancora i fucili. Soltanto che, questa volta, saranno quelli branditi dai talebani, mossi dalla loro folle ideologia di violenza e sopraffazione. Ritiro, dunque, sì; ma con un vero giudizio di merito. Il rischio è quello di distruggere tutto ciò che è stato creato fino ad oggi, con molta fatica.

guida il movimento, la cosiddetta Quetta shura. A gennaio un dirigente Onu aveva rivelato a una agenzia stampa che un incontro era avvenuto quello stesso mese a Dubai. «Tutti credono che il Pakistan giochi il ruolo nella promozione di un dialogo politico per mettere fine al conflitto in Afghanistan. Non è così, i pachistani non giocano il ruolo che dovrebbero giocare» sottolinea caustico il diplomatico Onu. Un’accusa che suona un po’ datata, visto che a Washington sottolineano come il Pakistan abbia cambiato approccio sui talebani. Cioè stia abbandonando l’interesse a gestirne le relazioni per avere un ruolo sull’Afghanistan di domani: un futuro dove evidentemente non veniva contemplato un ruolo determinante dell’Occidente.

Da non sottovalutare poi anche il ruolo dell’India e della continua competizione fra i due Paesi, come, poco tempo fa, aveva suggerito a liberal il diplomatico Giandomenico Picco durante un’intervista. Una guerra di ombre tra New Delhi e Islamabad, senza esclusione di colpi di cui gli equilibri afghani e il terrorismo islamico farebbero parte. Un processo di cambiamento nella mentalità dei pachistani e dell’Isi – l’intelligence di islamabad – che evidentemente ha bisogno di tempi lunghi. I colloqui coi talebani sono «attesi da tempo» e gli arresti delle ultime settimane potrebbero aver indurito le posizioni degli insorti, rendendo più difficile il negoziato coi leader, ha aggiunto Eide. L’idea di aprire delle trattative con un gruppo che ha ucciso centinaia di soldati della coalizione internazionale e ha un record negativo di abusi dei diritti umani è un tema sensibile, soprattutto in Gran Bretagna e America. Finora gli Usa hanno sostenuto i tentativi di convincere i militanti e i quadri talebani a deporre le armi, ma hanno resistito all’idea di negoziare coi capi del movimento. Le Nazioni Unite sono pronte a continuare i colloqui informali coi talebani, ma con maggiore circospezione. Eide ha affermato che le stesse preoccupazioni sono condivise da alcuni membri del governo di Kabul, anche loro coinvolti nei colloqui segreti. Naturalmente appare chiaro come i capi talebani non potessero sedersi al tavolo delle trattative «senza che il mullah Omar ne fosse a conoscenza e lo approvasse» è l’ultima cartuccia sparata dall’ex inviato Onu.


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20 marzo 2010 • pagina 29

Il partito di Sarkozy cerca di mobilitare il suo elettorato

Clinton e Levrov: «Siamo allo sprint finale, presto l’accordo»

Per combattere l’astensione l’Ump usa il telefono

Washington e Mosca: «Vicina la firma dello Start 2»

PARIGI. Una telefonata per battere l’astensionismo. È questa l’ultima trovata dell’Ump del presidente francese Nicolas Sarkozy, che nel rush finale delle elezioni regionali - in una disperata caccia ai voti dopo la batosta del primo turno - non esita a mobilitare gli astensionisti telefonando direttamente a casa, a pochi giorni dai ballottaggi di domenica prossima. Una tecnica, spiega il quotidiano Le Figaro sul suo sito web, reputata efficace e poco costosa, ma che non piace al Cnil, la commissione nazionale per l’Informatica e le libertà. «Buongiorno, sono Thierry Mariani (il capolista dell’Ump, ndr) se volete ascoltare il mio messaggio premete il tasto uno»: questo, in sostanza, il messaggio pre-registrato che ha sorpreso milioni di persone nella regione Provence-AlpesCote d’Azur. Un sistema completamente automatico, per il quale molti candidati hanno prestato la loro voce. In tutti i messaggi i candidati ricordano i loro programmi e lanciano un appello agli elettori affinché si rechino alle urne. «Vogliamo invogliare i cittadini ad aderire alle idee del nostri candidati», spiega Jean-Claude Wetzler, che gestisce la campagna dell’attuale ministro dell’Agricoltura, Bruno Le Maire.

MOSCA. Stati Uniti e Russia sono vicini alla firma dell’accordo sul disarmo, oltre tre mesi dopo la scadenza dello Start I (Strategic Arms Reduction Treaty). È quanto hanno assicurato il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, e il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, al termine di un incontro a Mosca. «Sono rimaste da risolvere ancora alcune questioni tecniche ha detto il capo della diplomazia americana - Ma siamo sul punto di firmare un nuovo accordo tra Russia e Stati Uniti».

Sheik Sharif ammette: «Al Qaeda è in Somalia» Il presidente apre a un intervento Usa in Africa di Etienne Pramotton omalia, shariaa e sicurezza: si potrebbero sintetizzare così i contenuti di una lunga intervista rilasciata, giovedì, al quotidiano Asharq Alawsat dall’attuale presidente somalo Sheik Sharif. È a capo di uno Stato che generalmente viene inteso come «failed». Una fotografia in chiaroscuro su cosa stia succedendo nel Corno d’Africa. La Somalia è un Paese fallito nelle istituzioni e diventato covo di terroristi e pirati: «Non penso ci sia un piano americano per un intervento militare diretto in Somalia, ma non avrei niente da obiettare se le forze statunitensi aiutassero il mio governo nel lavoro di rafforzamento delle istituzioni» ha dichiarato il presidente somalo nell’intervista, avvenuta durante una sua visita a Dubai. Sheik Sharif Sheik Ahmad, questo il lungo nome del politico somalo, ammette che il suo Paese sia diventato «un rifugio ideale per al Qaeda» e per la diffusione della sua folle ideologia. È convinto che ogni tentativo di estrometterlo dal suo incarico di governo fallirà, come è già successo in passato. La mano resterà sempre tesa verso tutti i partiti d’opposizione, quelli che lo hanno aspramente contrastato e anche verso il Movimento dei giovani mujahidin. «È noto che i movimenti armati siano aiutati da al Qaeda a da alcuni Paesi che non vogliono che la guerra termini in Somalia» manda a dire Sharif a chi vuol intendere. Si continuano a commettere crimini e ad «uccidere musulmani innocenti nel nome dell’islam». E il richiamo del presidente somalo è diretto agli altri Paesi arabi, affinché intervengano per stabilizzare la situazione nel Paese e aiutare a porre termine al conflitto intestino «nato dal vuoto di potere» che ha poi innescato la guerra civile e religiosa. Una situazione «che dura ormai da troppo tempo». Ormai il Paese è flagellato da carestie, da una situazione sanitaria al limite del sopportabile, la popolazione più indigente fa una vita di sopravvivenza e tira avanti grazie anche ai periodici interventi internazionali in campo umanitario. L’opzione militare esterna non viene vista né con sospet-

S

to, né con diffidenza. Anzi Sharif sembra che voglia dare un segnale a Washington: luce verde. «Non sono contro una richiesta di aiuto militare agli americani». Anche se è convinto che Washington non abbia alcuna intenzione di sbarcare con i soldati da quelle parti e farsi coinvolgere in un’altra missione assai complicata. Ricordiamo che esiste una unità speciale di intervento rapido a Gibuti, con capacità di intelligence, che utilizza una vecchia base della storica Legione straniera.

E il presidente sarebbe pronto anche a discutere l’eventualità che Washington possa bombardare le basi di al Qaeda e di altri gruppi terroristici che hanno messo radici nel Paese. Non nasconde però il fatto che l’attuale governo stia cercando un accordo con gli altri movimenti armati somali. Il presidente era in Dubai per partecipare a una conferenza dal titolo «Somalia, la voce della saggezza e la shariaa» al cui termine è stato presentato un documento che chiedeva la fine delle violenze nel Paese. Tutti i partiti in conflitto hanno firmato il documento, eccetto che il Movimento dei giovani mujahidin, nato probabilmente sulle spoglie dello Shabab, un’altra milizia che aveva creato non pochi problemi in Somalia. Sharif ha però ribadito la sua intenzione di applicare la sharia’a (la legge islamica) che è stata votata dal Parlamento e inserita nella Costituzione. «Sa bene» quali siano i Paesi che appoggiano al Qaeda e il terrorismo ma non ha voluto fare accuse esplicite. Ha però voluto lanciare un appello: «Sollecitiamo questi Stati a cessare il sostegno ai movimenti armati, perché il popolo somalo desidera vivere in pace e sicurezza». Molti di questi gruppi non mirano neanche alla presa di potere, ma solo a mantenere la situazione somala perennemente instabile. Si tratta di milizie con «legami in Iraq, Afghanistan e Pakistan» che non permettono che «l’etica islamica possa essere amministrata». «La shari’a ha bisogno di pace e sicurezza per essere applicata» è la conclusione un po’ inquietante di Sharif.

La shari’a «ha bisogno di pace e sicurezza per essere applicata». La ricetta islamista del leader fa paura a molti governi

Un metodo «accolto piuttosto bene», anche se «alcune persone si mostrano meno entusiaste», spiega Wetzler.

Ma dal Cnil arrivano parole perplesse rispetto a questa tecnica «particolarmente intrusiva». Ed è stata preparato una “lista rossa”- assolutamente off limits per i partiti - composta da tutti coloro che hanno già protestato in passato per essere stati contattati a fini pubblicitari o commerciali. Divieto assoluto infine di far scattare le chiamate sabato prossimo, alla vigilia dello scrutinio. Intanto l’Ump ha già realizzato quasi 5 milioni di chiamate, contattando circa il 10% della popolazione francese.

I negoziati per la firma di un nuovo trattato per la riduzione delle armi strategiche di teatro che sostituisca il vecchio Start del 1991 scaduto lo scorso 5 di-

cembre, insomma, sarebbero «allo sprint finale». «Siamo contenti del lavoro fatto dai negoziatori per mettere in pratica le istruzioni ricevute dai presidenti e c’è ogni ragione per credere che ci siamo avvicinati alla fase finale, allo sprint finale, e speriamo che i negoziatori forniranno rapporti in un vicinissimo futuro», ha dichiarato all’agenzia di stampa Interfax il ministro degli Esteri russo. «Allora - ha continuato - discuteremo la data e il luogo che offriremo ai presidenti per firmare il documento». Gli ha fatto eco la Clinton, per la quale nei negoziati di Ginevra ci sono stati «sostanziali progressi» e «un accordo finale verrà raggiunto presto». Anche se non è la prima volta - dalla fine dello scorso anno - che Russia e Usa si dicono molto vicine all’accordo. La Clinton, che oggi incontrerà il presidente russo Dmirty Medvedev, è volata a Mosca anche per discutere con la Russia su possibili sanzioni all’Iran per il suo programma nucleare, considerato un ostacolo sulla via di possibili negoziati per la pace in Medio Oriente. Il vecchio trattato Start, firmato tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, proibiva la produzione di più di 6000 testate nucleari e di 1600 missili balistici lanciati da sottomarini e bombardieri.


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il personaggio della settimana La pedofilia è solo l’ultimo dei problemi del Papa: da Boffo ai lefebvriani Benedetto XVI si ritrova sempre in prima linea

Chi ha incastrato Joseph Ratzinger? Dall’elezione al soglio pontificio, il cammino del Pontefice è stato pieno di ostacoli enormi. Nati anche da un rinnovato controllo sulla Curia on è facile fare il Papa. Non lo è quando tutta l’artiglieria dei mass media ha deciso di sparare sempre ad alzo zero prescindendo dalla verità, ma tantomeno lo è quando all’interno stesso della Chiesa c’è “sporcizia” e “ci si morde e ci si divora”. Non lo è certo nel mondo di oggi, e non lo è quando la cattedra di Pietro è continuamente minata dall’esterno e dall’interno da violenti pregiudizi da un lato e scarsa prudenza dall’altra. L’elenco degli attacchi ricevuti dal Papa è lungo, ed è abbastanza evidente che ogni volta ciò che ha fatto più male è stata la scarsa prontezza con cui religiosi e laici si sono schierati a fianco del Papa e della verità dei fatti, cedendo più facilmente alle versioni capziose divulgate dai mezzi di comunicazione: dall’attuale caso della pedofilia in Europa al caso del negazionista lefebvriano Williamson, dall’affaire Boffo al discorso di Ratisbona, dalla querelle sui preservativi in Africa alla beatificazione di Pio XII, dal pronunciamento sugli anglicani alla visita negata all’Università di Roma, e via così. A volte sembra davvero che – fatta salva la forza di Cristo – dal punto di vista umano il Papa sia mandato allo sbaraglio nella fossa dei leoni. Tutti i Papi sono stati sempre sotto costanti feroci attacchi, e ovviamente non stiamo qui a rinvangare i secoli più lontani, tra scandali veri e diffamazioni assurte a livello di verità. Basti ricordare quelli del secolo appena trascorso, e fare lo sforzo di richiamare alla mente la durezza con cui in molti si sono rivoltati contro l’adesso esaltato Giovanni Paolo II. Per non parlare di Pio XII, del Concilio Vaticano II, dello stesso Paolo VI o persino di personaggi come Giovanni XXIII, che forse ha subito

N

di Osvaldo Baldacci da alcuni un trattamento opposto ma identico nel fine: si è cioè cercato di occultarne il messaggio forte e coerente dietro una nebbia di buonismo ovattante.

E Papa Benedetto XVI si trova continuamente al centro di fuoco incrociato. Lui, così mite, timido, umile. E allo stesso tempo così fermo e autorevole. Probabilmente il Papa più adatto per il nostro mondo attuale, e allo stesso tempo quello che più sembra essere destinato a soffrire per la continua denigrazione cui la Chiesa presta il fianco. Quello dei preti pedofili sul quale oggi verrà pubblicato un importante documento pontificio è solo l’ultimo degli episodi che squassano la Chiesa e che mostrano all’opera esattamente questi due meccanismi convergenti: la fragilità interna di una Chiesa che ha qualcosa da mettere a posto, e l’aggressività senza pari dall’esterno, con nemici pronti a stravolgere ogni evidenza per rivoltarla contro il Papa e la Chiesa. È proprio il Papa che chiede tolleranza zero, e pochi o nessuno sottolineano che gran parte dei casi europei di molestie sta venendo alla luce proprio perché già da tempo Ratzinger ha spinto perché si facesse la massima trasparenza e pulizia. E già prima di lui Giovanni Paolo II era andato in Canada durante lo scandalo pedofilia in Usa e con parole fortissime aveva urlato davanti ai milioni di giovani della Gmg di Toronto che i preti pedofili sono figli e servitori del diavolo. Per non dire poi di un’evidenza tanto banale eppure trascurata dai media, cioè che

i casi di pedofilia nella Chiesa sono comunque pochi e una minoranza rispetto alle analoghe tragedie che si sono verificate in questi lunghi decenni nel resto della società. Ma l’immagine che se ne vuole dare è sempre e solo quella di una Chiesa corrotta. Come sta avvenendo anche in Germania, dove persino il governo è diviso a causa di una sua componente che ha sposato la linea dura delle lobbies anticlericali. Fin dall’inizio dei recenti scandali si è cercata ogni allusione per far credere che in qualche modo in essi fosse invischiato il Papa o almeno suo fratello, tutte cose che subito l’evidenza documentale ha dimostrato totalmente infondate.

Ma il problema per Benedetto XVI è che tutte queste non vengono solo da fuori, dalle lobbies ostili al cattolicesimo e alle radici cristiane dell’Europa. Il fatto è che a vario titolo bisogna interrogarsi sui punti deboli all’interno della Chiesa. Non solo sui buchi neri e sugli scheletri nell’armadio di cui occorre fare pulizia, come insiste a chiedere lo stesso Papa e come nel caso della pedofilia troppo a lungo gestita in modo sbagliato seppur in linea con certe tendenze dei tempi passati. Ma anche sulla scarsa capacità della Chiesa di reagire di fronte agli stimoli mediatici globali dei giorni nostri. La Chiesa sembra troppo variegata e frammentata, con troppe teste che si sentono totalmente autonome e mostrano insofferenza verso Roma. Centri di potere in buona o cattiva fede che non si preoccupano di colpire il cuore della Chiesa se questo li rende più graditi e più forti nel loro orticello.

Proprio quello che Benedetto XVI non può accettare, lui che nella Chiesa vuole riportare unità, unione, compattezza, fedeltà ai valori fondanti senza cedimenti alle mode o alle tendenze. Lui che anche per questo vuole rimettere ordine nelle gerarchie e sta cercando di mettere mano alla gestione della curia, che si dice essere stato uno dei punti deboli di Giovanni Paolo II, grande comunicatore e un po’ meno attento alla gestione.

Almeno alcuni momenti di questa lotta vanno ricordati, perché usando le parole stesse di Ratzinger – da intendersi in senso spirituale e non solo politico – si può forse dare un senso a tutti gli attacchi cui viene quantomeno lasciato esposto. Era ancora cardinale, Ratzinger, braccio destro di Giovanni Paolo II, quando nel 2005 ricevette l’incarico di comporre le meditazioni per l’ultima Via Crucis del Venerdì Santo del suo predecessore. Parole durissime: «Quanto Cristo deve soffrire nella sua stessa Chiesa! Quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di Lui! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! … Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa!». Così come – per inciso – non furono certo


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Da Monaco a Roma, il lungo viaggio del teologo ROMA. È prossima la celebrazione dei cinque anni di elezione di Benedetto XVI al soglio pontificio. Quando si parla di Ratzinger spesso si dimentica che ben pochi laici possono vantare il suo curriculum da intellettuale, cui si affianca la straordinaria ricchezza spirituale e la ricca esperienza pastorale. Joseph Ratzinger è nato il 16 aprile del 1927 a Marktl am Inn, in Baviera (Germania), da padre commissario di polizia e madre che aveva lavorato come cuoca. Subì i drammi della dittatura nazista e della seconda guerra mondiale, ed è del tutto accertato che la sua iscrizione dal 1940 alla Hitler Jugend fu formale e fatta d’autorità, senza alcuna adesione sua o dei suoi. Lui stesso anzi ricorda come assegnato a lavori di scavo nell’aprile del 1944 durante una marcia disertò, riuscendo ad evitare la fucilazione. Dal 1946 al 1951 studiò filosofia e teologia a Frisinga e Monaco di Baviera. Fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1951. Un anno dopo intraprese l’insegnamento nella Scuola superiore di Frisinga. Nel

concilianti discorsi da candidato quelli che tenne Ratzinger nelle celebrazioni seguenti la morte di Giovanni Paolo II: ne ricordiamo anzi l’insolita durezza, l’attacco frontale al relativismo e agli altri “ismi” del mondo ma anche interni alla Chiesa. Poi si arriva al marzo 2009, si era in piena bufera del caso lefebvriani-negazionismo, e anche qui Benedetto XVI non usa mezzi termini, pur citando San Paolo: «Alcuni gruppi, invece, accusavano apertamente il Papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio: si scatenava così una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento. Sono rimasto

1953 divenne dottore in teologia. Insegnò teologia dogmatica e fondamentale anche a Bonn, Münster, Tubinga, Ratisbona. Come esperto dette un notevole contributo al Concilio Vaticano II. Nel 1972, insieme ad Hans Urs von Balthasar, Henri de Lubac ed altri grandi teologi, dette inizio alla rivista di teologia Communio. Il 25 marzo del 1977 il Papa Paolo VI lo nominò Arcivescovo di Monaco e Frisinga. Come motto episcopale scelse“collaboratore della verità”. Paolo VI lo creò Cardinale nel Concistoro del 27 giugno del medesimo anno. Può essere curioso ricordare come veniva considerato un “modernista”, cosa che stride con la successiva immagine di quasi reazionario: la verità è che ha sempre inteso rimanere un “collaboratore della verità” e “un umile lavoratore nella vigna del Signore”, come disse dopo la sua elezione a Papa. Ben lo sapeva

frasi (Gal 5, 13 – 15) ci parlano del momento attuale: ‘Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!’ …Ma purtroppo questo ‘mordere e divorare’ esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata». E infine, appena a febbraio scorso, nel mezzo del caso Boffo, l’accusa contro il carrierismo ecclesiastico: “Sappia-

Giovanni Paolo II, che il 25 novembre del 1981 lo nominò Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e Presidente della Pontificia Commissione Biblica e della Commissione Teologica Internazionale. È stato Presidente della Commissione per la preparazione del Catechismo della Chiesa Cattolica. Il 19 aprile 2005 il cardinal Ratzinger viene eletto Papa, con il nome di Benedetto XVI.Tra le caratteristiche del suo pontificato il dialogo nella verità, vale a dire un’apertura alle altre confessioni ecumeniche, alle altre religioni e al mondo laico, ma senza rinunciare ai principi non negoziabili. Di grande spessore le sue encicliche, Deus caritas est, Spe Salvi e Caritas in veritate. Si ricorda anche la liberalizzazione della messa tridentina in latino. Da Papa ha continuato a scrivere libri pubblicando Gesù di Nazaret, di cui avrebbe completato il seguito. (O.Ba.)

di capire che nel villaggio globale si è sempre nel centro del mirino, e qualunque disattenzione, atto discutibile o dichiarazione verrà ingigantito per fare scalpore ed essere usato contro la Chiesa stessa e il Papa. Che peraltro è già pregiudizialmente oggetto di attacchi senza pari per i motivi più disparati, dalla sua fermezza contro il relativismo al suo semplice essere tedesco, dal suo carattere alle sue chiare prese di posizione dottrinali.

Ed ecco quindi che come dicevamo nei cinque anni del suo pontificato si inanellano una serie di attacchi e di presunti scandali che fanno riflettere,

Oggi verrà pubblicata l’attesa Lettera pastorale ai fedeli d’Irlanda: tolleranza zero per i colpevoli di abusi sui minori e intervento della magistratura civile per le indagini rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco.

A v ol te si h a l’im pressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo… Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste

mo come le cose nella società civile, e non di rado nella Chiesa, soffrono per il fatto che molti di coloro ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità”. È evidente l’amarezza del Papa e la consapevolezza di doversi anche guardare le spalle. A volte da veri nemici interni, resistenti alle sue istanze di trasparenza o comunque più devoti a una loro visione della Chiesa e del cristianesimo che disposti ad accettare magistero e autorità papale. Altre volte forse solo da persone che non riescono ad abituarsi al nuovo stile. In certi casi probabilmente solo sprovvedutezza e incapacità

quanto meno su quanto si esponga imprudentemente il fianco. Nel caso ad esempio della revoca della scomunica a quattro vescovi lefebvriani arrivò come un macigno il caso Williamson, le cui dichiarazioni negazioniste dell’Olocausto misero subito nella luce sbagliata tutta l’operazione ecumenica. È praticamente certo che in quel caso qualche maggior attenzione da parte dei responsabili nella Chiesa avrebbe permesso di evitare di porre su un piatto d’argento ai media una così succulenta controversia. E così nel recente caso degli attacchi di Feltri a Dino Boffo. È improbabile che davvero dietro ci sia una lotta interna

alla Chiesa, e tantomeno tra la Segreteria di Stato e la Cei, ma certo qualche sponda interna deve esserci stata se il caso non è stato subito chiuso per quel nulla che era. Forse di nuovo ci troviamo di fronte a circostanze dove un certo smarrimento organizzativo, i calcoli e i protagonismi di qualcuno e un eccesso di pluralità di voci (nel senso che comunque i media cercano sempre la voce dissonante per darle una rilevanza proporzionalmente ingiustificata) hanno permesso di tirare ancora una volta in ballo il Papa che ben poco dovrebbe aver a che fare con le sparate del direttore del Giornale. E ancora, nell’episodio delle affermazioni di Benedetto XVI contro l’uso dei preservativi in Africa come nel famoso discorso di Ratisbona e in altri episodi simili, ancora una volta il Papa non si è dovuto dolere tanto del pur immondo fraintendimento montato dai media mondiali, quanto piuttosto dai distinguo e dalle critiche subito piovute dall’interno di un mondo cattolico che sembra spesso essere solamente intento a scrutare eventuali passi falsi del suo Pontefice. E chi deve aiutare il Papa invece non sempre riesce a prevenire equivoci e fraintendimenti e a parare i colpi. E tra le altre cose possiamo ricordare infine anche il percorso di beatificazione di Pio XII, sul quale viene ancora gettato fango storicamente ingiustificato e che diventa l’occasione per imbrattare anche il Pontefice regnante.

Ci troviamo così di fronte al paradosso di un Papa che sta dando salda sostanza intellettuale e rinnovato slancio spirituale al cattolicesimo e alla Chiesa, e che pure viene spesso percepito non solo dagli esterni ma anche da parte dell’opinione pubblica cattolica in un modo totalmente diverso da quello che è. E questo accade anche per problemi interni alla Chiesa. Con attacchi dalla “sinistra progressista” ma anche da una certa “destra ultraconservatrice”. Ma soprattutto da parte di chi vuole conservare uno status quo che gli giova, e da parte di molti che semplicemente non sono in grado di capire la posta in gioco e seguono le tendenze. Ma forse è proprio passando attraverso questi fuochi che Benedetto XVI porta la Chiesa alla purificazione.



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