Il lavoro intellettuale strappa
di e h c a n cro
00323
l’uomo alla comunità umana. Quello manuale, conduce l’uomo verso gli uomini
9 771827 881004
Franz Kafka di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 23 MARZO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il governatore della Bce: «Sostegno solo a condizioni estremamente rigorose». Intanto la moneta unica precipita
Ad Atene ci giochiamo l’Europa La Merkel non vuole aiutare la Grecia e sfida gli altri Paesi dell’Euro.Trichet media. Si apre una settimana decisiva per capire se l’Ue può avere un futuro. E se anche noi saremo a rischio PARADOSSI ELETTORALI
Comincia una settimana di fuoco per l’Europa. E comincia nel peggiore dei modi. L’Euro ieri è crollato nei cambi e l’Unione, in attesa del vertice di venerdì sulla crisi greca, non trova una mediazione tra Germania e Francia.
Che assurdità, in Italia si vota ma nessuno ne parla di Gianfranco Polillo ella storia dell’Europa post-bellica, il carro è stato posto sempre di fronte ai buoi. È stata l’evoluzione socioeconomica a precorrere i tempi e la politica in ritardo nel definire le soluzioni che, di volta in volta, si rendevano necessarie. Era, in parte, inevitabile. Lo stesso fenomeno si sta ripetenedo adesso, di fronte alla crisi della Grecia e dell’Euro. Un tornate fondamentale per la storia della Ue, al quale qui in Italia - preoccupati solo da piccole beghe di partito come siamo - non stiamo dando praticamente alcuna attenzione. Sicché la soluzione, quando sarà trovata, ci scivolerà addosso.
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L’America si interroga sull’esito politico della riforma
La sanità di Obama: sarà vera gloria?
Gros Onida Bolton «Tranquilli, «Il contagio «Vi salverà l’Italia potrebbe l’alleanza non rischia» devastarci» con gli Usa» L’economista tedesco difende la politica di Berlino
«Ma il pericolo dell’effetto domino esiste davvero»
Dalla politica economica a quella militare
Pierre Chiartano • pagina 4
Errico Novi • pagina 5
John R. Bolton • pagina 3
Bagnasco: «Scegliete chi è contro l’aborto» E Fini frena il rilancio del Cavaliere: «Presidenzialismo? Non è il momento» servizi a pagina 6
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Dopo il voto francese parla il leader verde che ha preso il 12.5%
«Basta partiti, ora solo coop» Daniel Cohn-Bendit spiega la sua nuova strategia di Enrico Singer
Le contromosse del presidente sconfitto
PARIGI. E adesso che cosa fare? Come trasformare quel tesoro del 12,5 per cento dei voti dei francesi, conquistato sul campo, in una realtà politica stabile? Gli occhi di Daniel CohnBendit s’illuminano. Non sono più quelli del giovane ribelle, ma l’entusiasmo è rimasto quello dei tempi dell’«immaginazione al potere». a pagina 18 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO
E Sarkozy rilancia: «Rimpasto di governo» di Nicola Accardo
PARIGI. La sconfitta è sonora, ma è una routine che si ripete da vent’anni, un voto sanzione che ha punito alle Regionali governi di destra e sinistra, da Mitterrand a Sarkozy passando per Chirac. Perciò a Sarkozy non resta che pensare alle contromosse. segue a pagina 18 I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
55 •
WWW.LIBERAL.IT
I commentatori si dividono: c’è chi parla di una svolta storica che rilancia il presidente e chi invece assicura: «Si tratta di una vittoria di Pirro» PRO
CONTRO
Un arrocco Il 18 Brumaio da maestro: di Barack scacco matto Bonaparte di John Dickerson
di Bill Kristol
l presidente Obama ha completato la più difficile opera di community organizing. A renderlo possibile, la Speaker della Camera Nancy Pelosi, ma il presidente ha lavorato più duramente a questo problema più di qualsiasi altra questione. Secondo un calcolo della Camera, ha ricevuto personalmente almeno 92 deputati. Nell’ultima settimana ha fatto tre discorsi, culminati in un appello ai suoi compagni di partito che è stato il più personale e il più filosofico di tutti quelli fatti dall’inizio del suo mandato.
opo il colpo di stato del 1851, Luigi Napoleone Bonaparte - nipote del vero Napoleone - si auto-proclamò Napoleone III. Fu l’ascesa al potere di questo aspirantegrande-uomo che suggerì a Karl Marx il famoso incipit dell’opera Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte: «Hegel osserva che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia appaiono, per così dire, due volte. Però si dimenticò di aggiungere: la prima volta come una tragedia, la seconda come una farsa».
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
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Crisi. La Germania lancia un ultimatum alla Francia e ai Ventisette per evitare l’effetto domino. E Trichet prova a mediare
Sfida all’Ue Corral
Sul debito greco comincia una settimana cruciale per l’ Europa: l’euro precipita e l’Unione litiga. In vista del vertice di venerdì di Alessandro D’Amato
ROMA. Mittente: l’Arcivescovo di Atene e del paese, Ieronymos; Destinatario: il primo ministro Papandreou. Oggetto: «La nostra pazienza è ormai esaurita». Anche la Chiesa, in Grecia, si sta innervosendo per la politica di ferrea austerity a cui il paese è costretto dai piani di rientro da debito e deficit. In una intervista rilasciata al settimanale ateniese Real News, Ieronymos ha sostenuto che la tassa del 20% che il governo greco ha deciso di applicare sul totale delle entrate della Chiesa è incostituzionale e avverte che farà ricorso ai tribunali greci ed europei se il progetto di legge sarà approvato dal Parlamento. La Chiesa, ha spiegato il Primate, è disposta a pagare le tasse grazie ad un calcolo logico basato sulle entrate e sulle spese, pagando la tassa del 20% sul reddito netto e ha aggiunto che intende incontrare il Primo Ministro per discutere con lui del problema.
E parliamo solo dell’ultima tra le forze sociale che hanno protestato ad alta voce con Papandreou. Scioperi, blocchi, manifestazioni bloccano
un paese che non ha digerito per niente, nonostante le rassicurazioni dei politici locali all’Europa, le scelte del governo. Dodici persone arrestate e due poliziotti feriti nell’ultima manifestazione, con le forze dell’ordine che hanno dovuto usare idranti e granate stordenti per rispondere all’assalto delle molotov, con Atene e Salonicco paralizzate. Sul banco degli imputati, dun-
que, il piano del governo: l’esecutivo intende tagliare il deficit-Pil quest’anno del 4% dal 12,7% all’8,7%; le misure di austery prevedono l’aumento dell’Iva dal 19% al 21%, tagli dal 30% al 60% ai bonus percepiti dai lavoratori del settore pubblico a Natale, Pasqua e in agosto (tredicesime e quattordicesime). Aumentano anche le imposte su alcool (+20%), sigarette (+65%), benzina (8 cents in più al litro), gasolio (3 cents) e beni di lusso (fra cui yacht, auto di grossa cilindrata, gioielli). I provvedimenti colpiranno anche le pen-
sioni del settore privato, fino ad ora mai toccate dal governo, che rimarranno congelate per tutto il 2010.
Un piano mostruoso e con sicuri risultati shock sul bilancio, ma potrebbe non bastare, visto che per far tornare i conti prevede un calo del Pil solo dello 0,8% contro i pronostici del mercato che oscillano tra 3% e -4%. La situazione è tutt’altro che rassicurante per la Grecia, che tra rimborsi di titoli di stato in scadenza, interessi sul debito e deficit deve
Cresce la protesta nel Paese: Atene e Salonicco sono ormai bloccate dalle manifestazioni mentre anche la Chiesa vuole trattare con il governo una diminuzione delle tasse raccogliere circa 55 miliardi di euro pari al 20% del Pil. E i mercati non ci credono, o, per meglio dire, scommettono che Papandreou non ce la farà: lo spread di rendimento tra titoli greci e tedeschi si è allargato
bruscamente in avvio di settimana. Il differenziale di tasso tra i decennali di Grecia e Germania è arrivato a 338 punti base, ai massimi dal primo marzo, allargandosi di ben 10 punti base dai livelli di chiusura di venerdì. «A differenza della scorsa settimana, gli spread greci sembrano tornati sensibili agli sviluppi e si muovono nella direzione prevedibile dopo gli eventi del week commenta Marc end», Ostwald, di Monument Securities. In rialzo anche il costo per assicurare il debito greco contro l’ipotesi di insolvenza. Il credit default swap è arrivato a 337,5 punti base da 330,1 venerdì alla chiusura a New York. Insomma, con queste premesse in teoria ci sarebbe poco da fare: in campo europeo bisogna intervenire per salvare la Grecia, oppure prepararsi ad affrontare un probabile default del paese. Con tutte le conseguenze che potrebbero derivare. La seconda ipotesi, in particolare, meriterebbe di essere studiata a lungo: per capire se, come dicono i più apocalittici, questo è l’inizio della fine della zona euro per come oggi la conosciamo. C’è chi pronostica un effetto-domino che dal paese ellenico potreb-
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I risvolti della difficile situazione della Ue visti dagli Stati Uniti Qui accanto, la riunione dell’Ecofin, che la scorsa settimana ha affrontato - senza risolverlo il nodo dell’aiuto alla Grecia. Giovedì e venerdi prossimi, le decisioni saranno prese dal vertice dei capi di Stato e di governo. A destra, il presidente della Commissione Ue Barroso. Nella pagina a fianco, il presidente della Bce Trichet
be propagarsi fino ai confini delle colonne d’Ercole, coinvolgendo a vario titolo Spagna, Portogallo, Inghilterra e Italia. Il fallimento nella messa a punto di un piano di bail out potrebbe costituire «la Stalingrado delle istituzioni Ue», con la Germania che uccide il sogno di un superstato europeo, scrive il Daily Telegraph, che si scaglia contro i banchieri tedeschi che vorrebbero lasciare la Grecia all’insolvenza: «Un default greco avrebbe due volte le dimensioni del default combinati di Argentina e Russia. Il contagio attraverso il Club Med provocherebbe immediatamente una seconda crisi bancaria». Una catastrofe economica di vastissime dimensioni, anche se non è certo che le conseguenze sarebbero così nere, sia nel breve che nel medio periodo. In ogni caso, si capisce perché c’è chi tifa per il Cavaliere Bianco che salvi la principessa mediterranea.
Ma in questo caso il problema è la nazionalità del Cavaliere Bianco. La Germania fa presente che un aiuto europeo è vietato dal patto di stabilità, mentre i sondaggi tra i tedeschi scoraggiano qualunque impegno economico nei confronti dello “straniero”. Andrebbe riformato il patto, dicono da Bonn, per intervenire. Insomma, la Germania contro tutti. E Trichet tenta di mediare: «L’idea che un paese con difficoltà di bilancio possa uscire dall’euro è assurda. Tuttavia bisogna che si rafforzi un senso di responsabilità, anche nei confronti di quei membri che non si comportano correttamente». La risposta dei mercati però non è stata positiva: l’euro è crollato nei cambi. Da parte sua, Papandreou ha avuto ieri l’ennesimo colloquio telefonico con il cancelliere tede-
sco, Angela Merkel, parlando, secondo quanto riferisce l’agenzia di stampa Ana-Mpa, della situazione nella zona dell’ euro, nonché delle sfide specifiche che la Grecia deve affrontare per far fronte ai suoi problemi economici. Papandreou ha ribadito, sempre secondo l’ agenzia Ana-Mpa, che la Grecia non ha chiesto il sostegno finanziario dei partner europei e ha esposto le posizioni di Atene su come l’Ue può rafforzare la stabilità della moneta comune. L’aiuto potrebbe arrivare dal Fondo Monetario Internazionale, dicono i greci: un Cavaliere Americano salverebbe la Principessa Mediterranea, e questo a molti non piace. Per ragioni politiche, anche se la leadership Usa nell’Fmi è dovuta al fatto che Washington è il suo maggiore contributore, ma soltanto perché la liquidità inviata dai paesi Ue è contata per testa, invece che rapportata alla sua interezza.
Insomma, la banca centrale greca ha previsto un Pil in calo del 2% nel 2010: questo costringerà Papandreou a rivedere i suoi piani, se vuole davvero rientrare. Ma il governo greco è sicuro che più di così non può chiedere al suo popolo. I tedeschi invece sono convinti di sì, o meglio: che sia comunque necessario farlo, se vuole avere prestiti dalla Ue. Il nodo è qui: uno dei due prima o poi cederà. Entro la fine della settimana l’Unione Europea dovrà decidere: pollice su, oppure all’ingiù. Nel futuro, comunque finirà questa storia, Bruxelles dovrebbe dotarsi di meccanismi per la risoluzione delle crisi, un supervisor comune bancario e una procedura di intervento sugli squilibri interni. Sempre che abbia voglia di diventare davvero una “nazione”.
Ma importante per voi è l’unità con Washington La debolezza e l’incertezza economica del Vecchio continente si riflettono nella crisi militare della Nato di John R. Bolton leader dell’Unione Europea si incontreranno nuovamente questa settimana per discutere della crisi finanziaria della Grecia e dell’attuale agitazione economica che ne consegue. Per la maggior parte degli americani, i problemi dell’UE sembrano lontani, considerando la nostra stessa agitazione per lo zelo dimostrato dal Presidente Obama nel ricostruire radicalmente il sistema sanitario statunitense. In effetti, tuttavia, è proprio sotto il gergo economico dell’UE - spesso impenetrabile che giacciono profonde implicazioni per le relazioni transatlantiche sul lungo termine.
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La Grecia è solo uno fra tanti paesi, compresi la Spagna, il Portogallo e forse l’Italia, che non hanno regolato adeguatamente la spesa pubblica. Con l’aumento dei deficit di bilancio, i mercati finanziari hanno contestato la stabilità fiscale della Grecia: se la Grecia avesse ancora avuto una valuta nazionale, sarebbe stata soggetta a un’enorme pressione, con conseguente aumento del debito o sopravvalutazione della moneta dettati dall’interesse del mercato. Certamente, poiché la Grecia si è unita alla zona euro, non ha più una sua moneta da deprezzare, e la sua mancanza di disciplina fiscale ha causato piuttosto una pressione verso il basso sull’euro. Tutti i membri della zona euro ne sono stati immediatamente colpiti, e perciò hanno subito intensificato la pressione sulla Germania - il potere economico dominante dell’Ue - affinché faccia qualcosa per evitare che la crisi della Grecia infetti l’intera Unione. Non è una sorpresa che i tedeschi non siano entusiasti di salvare i greci dalle conseguenze delle loro azioni, e quindi sostenere parte dei costi che secondo loro dovrebbero accollarsi i greci stessi. Ma poiché aumentare le tasse, l’altra soluzione ai deficit di bilancio, rappresenta un veleno politico per il governo della Grecia, l’Unione Europea non è ancora riuscita a trovare una soluzione facile. Al momento la soluzione a breve termine più probabile sembra essere il soccorso alla Grecia da parte del Fondo Monetario Internazionale, come se si trattasse di un paese del terzo mondo che non è in grado di gestire i propri affari, probabilmente con qualche fondo supplementare da altri membri dell’Unione Europea. Ma perché l’Unione Europea non opta per una soluzione interamente europea, risolvendo la crisi della Grecia con risorse europee?
neta tedesca, evitando così quegli errori che indebolirono le precedenti monete e in ultimo facilitarono il crollo della Germania di Weimar e l’ascesa di Adolf Hitler. La Germania di oggi è determinata a non ripetere quegli errori con l’Euro. Di conseguenza, il cancelliere Angela Merkel ha prudentemente evitato di farsi garante della Grecia spendacciona, cercando piuttosto un intervento “esterno” da parte del Fmi anche se questo implica la disapprovazione di Francia e altri membri. Le opinioni della Merkel risuonano come euro-tradimento per questi paesi. Il cancelliere Merkel ha accennato anche alla possibilità, nel caso in cui le difficoltà finanziarie dell’UE peggiorino, di espellere i governi che stanno agendo male nella zona euro, anche se i vari trattati dell’UE non lo prevedono espressamente. Gli analisti che seguono da vicino la crisi economica hanno addirittura sollevato la possibilità, nella peggiore delle ipotesi, che la stessa Germania si ritiri dall’Euro. Con l’adesione probabilmente di un piccolo gruppo di seguaci, la Germania e i suoi accoliti lascerebbero l’euro a dimenarsi e annegare, mentre loro creerebbero una nuova, più fattibile, moneta stabile.
Se questa non è una prospettiva a breve termine, il fatto stesso che se ne parli dimostra quanto sia diventata difficile la situazione dell’Ue. L’incertezza a oggi, e la prospettiva che questa non accenni a diminuire, ha già ampiamente indebolito il potenziale di una “unione più stretta”che sta a cuore dei sostenitori più forti di un progetto europeo. Ed è qui che intervengono gli Stati Uniti. Per anni, la comune politica estera e di sicurezza dell’Unione Europea, e in particolar modo le prospettive di una solida capacità militare dell’Ue, hanno rappresentato un pugnale diretto al cuore della Nato. Certamente, il fatto che i paesi dell’Ue non vogliano o non possano finanziare questa capacità ha già indebolito la forza militare dell’Occidente, e l’inadeguata performance in Afghanistan dei membri europei della Nato ha dimostrato che la stretta dell’Ue va oltre la sua portata. Ciò nonostante, gli Stati Uniti non hanno alcun interesse ad assistere alla crescita militare di un’Unione Europea, debole o forte che sia, separatamente dalla Nato. Quindi, il crollo o almeno il declino della cooperazione internazionale dell’Ue, facilitata dalla caduta della fiducia riguardo alla crisi finanziaria europea, colpirà inevitabilmente la comune politica estera e di sicurezza. Potrebbe anche colpire, anche permanentemente, la continua richiesta per una “unione più stretta”. In questo caso, gli Stati Uniti e gli amici europei che credono nella sovranità popolare, nel governo limitato e nell’atlanticismo, potranno solo gioirne. L’Unione Europea potrà essere più debole, ma l’occidente unito sarà più forte.
Tra le voci accolte con allarme negli Usa c’è la possibile uscita della Germania dall’Euro per creare un nuovo Marco
Sostanzialmente la spiegazione sta in una piega della legge tedesca, secondo cui la stessa appartenenza della Germania all’Unione Europea si basa sul vincolo che la stabilità economica della Germania non sia compromessa dalla politica dell’Ue. I governi del secondo dopoguerra hanno insistito sulla stabilità della mo-
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L’Europa è a una svolta ma in Italia non se ne accorge nessuno
Nuove regole, non per spot N di Gianfranco Polillo
ella storia dell’Europa postbellica, il carro è stato posto sempre di fronte ai buoi. È stata l’evoluzione socio-economica a precorrere i tempi e la politica in ritardo nel definire le soluzioni che, di volta in volta, si rendevano necessarie. Era, in parte, inevitabile. Le fratture del secondo conflitto mondiale erano ferite troppo profonde perché potessero essere superate con un semplice sforzo di volontà. Meglio adeguarsi ai cambiamenti, piuttosto che tentare fughe in avanti che i singoli popoli non avrebbero compreso. Ed ecco allora il consolidarsi di un pragmatismo che ha subito forti accelerazioni proprio nei momenti di crisi. Come pure il lavoro “sporco” lasciato a organismi solo in apparenza tecnici. Per l’Europa ha fatto più l’Alta Corte di Giustizia, che mille confronti parlamentari. Sono state le sue sentenze a imporre quel pur parziale abbattimento delle barriere monopoliste, ad accelerare l’apertura dei mercati, che, solo a distanza di anni, i trattati hanno codificato in norme cogenti.
Oggi siamo di nuovo di fronte ad un nuovo tornante, benché qui da noi in Italia, così ossessivamente presi nella morsa di piccole polemiche elettorali o di partito come siamo, facciamo finta di non saperlo. O di non capirlo. Il caso greco ripropone il tema di un cambiamento delle procedure che, in tutti questi anni, hanno accompagnato il destino incerto dell’Europa. La sua sola esistenza dimostra quanto sia stata miope quella politica che, nei mesi passati, ha fatto finta di non vedere. Di chiudere gli occhi di fronte a deficit di bilancio crescenti, a elusioni e illusioni finanziarie, in cui più o meno tutti erano coinvolti. A partire dalla Germania e dalla Francia, nei cui confronti non si ebbe mai il coraggio di intervenire nonostante le evidenti violazioni dello spirito di Maastricht. Norme, queste ultime, che recavano
in sé fragilità operative evidenti, ma che nessuno ha avuto mai il coraggio di riformare. Un trattato“stupido”, come ebbe modo di dire Romano Prodi, allora alla testa della Commissione europea, come se bastasse questa considerazione per archiviare il caso di un’architettura difettosa. Alla fine i nodi sono venuti al pettine e l’Europa si trova senza soluzioni di ricambio. Notti insonni a Bruxelles. Riunioni concitate dove si cerca disperatamente una soluzione per salvare capre e cavoli. Che ricomponga il mosaico
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Il velo della moneta unica finora ha impedito che i Paesi in difficoltà economica, segnati da troppe importazioni, mettessero ordine in casa propria
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delle valutazioni divergenti. Non solo quelle che dividono i principali paesi: la Francia dalla Germania, mentre l’Italia mantiene una posizione defilata. Ma che spaccano i principali artefici della politica tedesca: la Merkel da un lato, Wolfgang Schäuble, il suo Ministro dell’Economia dall’altro. Alla fine una soluzione, forse, si troverà. Sarà quella dei prestiti bilaterali o dell’intervento del Fmi, ma pensare a un’espulsione della Grecia dall’euro è una cosa insensata. Se non altro perché questa eventualità non è prevista dai Trattati. L’intervento spot è quindi quello più probabile: risponde alla logica dei piccoli passi e alla tradizione del passato. Sarà sufficiente? Basterà sfogliare semplicemente il carciofo? Non ne siamo sicuri. Il caso greco è solo la punta di un iceberg. Nel fondo limaccioso della crisi, che attanaglia tutti i paesi occidentali, s’intravedono
L’opinione di Daniel Gros
«Ma io dico che per l’ Itali a non ci sono veri ri schi» di Pierre Chiartano
le contraddizioni più ampie che contraddistinguono il modello di sviluppo europeo. Da un lato un’area forte che accomuna - ironia della sorte quelli che furono i Paesi del Terzo Reich: Germania, Austria, con l’aggiunta di Olanda, Belgio e Lussemburgo. Dall’altro il resto dell’Europa: non solo quella mediterranea (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia), ma che include anche la Francia. Due realtà distinte e distanti e una grande frattura nel mezzo rappresentata dall’opposto andamento delle partite correnti delle bilance dei pagamenti: un dato finora trascurato nel dibattito di politica economica, ma destinato, sempre più, a fare la differenza.
Il velo della moneta unica ha finora impedito che i paesi in difficoltà economica, contrassegnati da un eccesso d’importazioni, mettessero ordine in casa propria. Avrebbero dovuto consumare meno o produrre di più, comprimendo i costi e accrescere la propria competitività. Hanno invece ricevuto finanziamenti dai paesi in surplus – principalmente dalla Germania – per continuare a vivere oltre le proprie possibilità. Poi la crisi ha reso tutto più difficile. Non che manchi la liquidità internazionale, ma i prestiti sono divenuti enormemente più onerosi, mettendo in ginocchio le fragili strutture finanziarie dei paesi in crisi. La Grecia è stata solo la prima vittima, ma se le cose non cambieranno, con problemi analoghi dovranno fare i conti tutte le altre realtà economiche e sociali. Questo spiega perché non sia facile trovare per Atene, il cui debito è di entità modesta, una soluzione rapida ed efficace. Il rischio di creare un pericoloso precedente blocca le diplomazie e divide i Governi. Ma questo ci dice anche quanto sia difficile venirne a capo. Non si tratta solo di trovare una manciata di finanziamenti a basso costo, ma di ripensare il modello complessivo dello sviluppo europeo. Ritrovare un giusto equilibrio tra i paesi in surplus e quelli in deficit e creare quei nuovi organismi comunitari che sappiano accompagnare l’inevitabile fase di transizione.
opo le politiche salva-banche è venuto il momento degli interventi salva-stati? La vicenda del debito greco è ancora aperta e il pressing sul cancelliere tedesco Angela Merkel continua, perché si giunga ad un accordo sugli aiuti alla Grecia, prima del vertice Ue di giovedì e venerdì prossimo. Ma a Berlino non ci sentono da quell’orecchio. E Barroso vorrebbe una soluzione entro la prossima settimana, ma c’è chi non è così ottimista. «Non vedo una soluzione» risponde secco a liberal Daniel Gros, direttore del Centre for european policy studies (Ceps) e uno dei promotori dell’idea di costituire un Fondo monetario europeo che sulla falsariga dell’Fondo monetario internazionale, presti soldi ai Paesi in difficoltà e possa poi determinarne le politiche finanziarie. «Non vedo niente di praticabile a breve
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Per chi suona la Grecia termine, soprattutto non c’è “una” soluzione per la Grecia su cui convergere nelle prossime due settimane. Il problema greco – continua l’economista tedesco – è molto profondo. Non sarà risolto nell’arco di due o tre settimane, ci accompagnerà per anni. L’aggiustamento della situazione ad Atene è appena iniziato. È illusorio pensare che dandogli qualche miliardo di euro di credito sia tutto risolto». Così mentre i francesi s’interrogano sulla funzionalità del modello economico tedesco – quello basato sull’esportazione – la zavorra del debito greco crescerà ancora. Ma la domanda, anche dopo le polemiche sull’intervento statale salva-banche, è questa: è venuto il momento delle iniziative salva-Stati? «Per il momento la Grecia può ancora finanziarsi sul mercato. Ma al governo di Atene non piacciono i termini dei contratti che il mercato gli offre. Il governo tedesco afferma
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Fabrizio Onida: intervenire o ci saranno conseguenze per il sistema bancario di tutta la Ue
«Contagio dietro l’angolo» di Errico Novi
ROMA. «A una soluzione si arriverà perché è interesse di tutti, Germania compresa». Fabrizio Onida, ordinario di Economia internazionale alla Bocconi che ha rappresentato l’Italia presso l’Ocse, è convinto che il cosiddetto “avvitamento” della Ue attorno al caso Grecia non durerà all’infinito. «È bastata la lezione della crisi innescata dal caso Lehman Brothers: l’effetto contagio si propaga in modo troppo veloce nei mercati per immaginare di lasciar cuocere nel proprio brodo un Paese a rischio default». Eppure anche stavolta l’Europa esibisce scarsa capacità di coordinamento. Guardi, se un dubbio c’è può riguardare il peso di un intervento bilaterale dei Paesi europei, Germania in testa, rispetto a un intervento del Fondo monetario. Su quest’ultimo i pareri sono come sempre piuttosto divisi, come al solito. Alcuni pensano che rappresenterebbe una sconfitta del progetto euro, altri che non ci sarebbe nulla di male, e tra questi il sottoscritto. Dev’essere un complesso tutto della Ue, quello di temere la verifica della propria inutilità. Non credo sia fondata una visione simile. Il Fondo monetario è comunque disponibile a intervenire con i propri metodi. Il primo punto è che la Grecia deve collocare il debito e quindi ha bisogno di qualcuno che, a prescindere dalle circostanze in cui si è generato l’indebitamento, gli garantisca liquidità. La Grecia ha emesso già titoli con un premio al rischio, con 3 o 4 punti percentuali al di sopra del tasso prevalente, c’è quindi la possibilità di un avvitamento del rischio. Lei dice che indugiare è fuori luogo. In Germania c’è una discussione un po’ liturgica sul fatto che il Trattato non prevede una funzione specifica di bailout di un Paese dell’eurozona. Rispettare Maastricht vorrebbe dire che Atene può rifinanziare il debito, anche se costa un po’ di più. Sono problemi dei greci e non c’è alcuna ragione di aiutarli». Non c’è accordo su posizioni così distanti e difficilmente si potrà trovare a breve. «A meno che non si scatenino altre turbolenze finanziarie sui mercati». Insomma finché non soffierà vento di tempesta i tedeschi diranno nein. Si tratta dunque di convincere la Merkel ad ammorbidire la posizione d’intransigenza tedesca. «C’è sul tavolo la proposta di istituire un Fondo monetario europeo. C’è chi ha in mente un fondo che dia il denaro-facile e chi pensa invece a regole più rigide di finanziamento. Bisognerà vedere se si trova un terreno d’intesa». La settimana scorsa erano stati i ministri delle Finanze dell’eurozo-
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lasciare che la Grecia si cuocia nel suo brodo. Ma appunto l’esperienza del caso Lehman induce altri a Berlino, a cominciare dalla Merkel e dal suo ministro delle Finanze, a non escludere il soccorso finanziario da parte del Paese più forte. Altrimenti succede che la Grecia non rinnova il debito a scadenza e si può generare il contagio per tutti i Paesi dell’euroarea. Proviamo a immaginare lo scenario. Alcune banche aree hanno nel plafond titoli greci, quindi un default significa subire perdite, e allora si diffonderebbe una psicosi secondo cui l’area euro non è così sicura di sopravvivere… E non sarebbe conveniente ap-
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Ci sarà un protocollo di salvataggio e dovrà basarsi sulla capacità dei greci di rispettare gli impegni presi del governo, ma lasciarli nel loro brodo è impensabile
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profittare dal caso Grecia per istituire un protocollo stabile di soccorso ai Paesi in difficoltà? Se bisogna intervenire sul Trattato le procedure sono molto lunghe. Ci vuole un’approvazione all’unanimità. Rivedere Maastricht per regolare gli aiuti a un Paese in difficoltà è un passo prima o poi necessario. Avere una moneta comune senza alcuno strumento di collaborazione fiscale è un assurdo, ma i tempi non ci sono. Ma quest’ultimo allarme basterà almeno a lavorare per prevenirne altri? L’Ecofin dovrebbe arrivare almeno a una proposta di integrazione del Trattato, prima o poi. L’unione monetaria senza un governo è un passo molto audace, ma lo sapevamo. La moneta unica è stata la premessa per la creazione di un governo federale. Nessuno si illude che ci si possa arri-
na a discutere su di un piano d’intervento in favore della Grecia. E Christine Lagarde ministro delle Finanze francese, non aveva avuto peli sulla lingua nel proporre alcune domande sul peso di Berlino negli squilibri economici che vive l’area dell’euro. Ma è difficile incolpare qualcuno per «un eccesso d’efficienza» e un Paese «perché troppo competitivo». E Gros ribadisce il principio con la sua idea di Fondo monetario. «Un Fme che sostenga i Paesi sotto attacco speculativo, ma che protegga anche gli altri membri della zona euro contro la irresponsabilità fiscale di un loro membro». E i mercati più vedranno Berlino risoluta a tenere chiusa la borsa, più alzeranno i premi che Atene dovrebbe pagare per raccogliere fondi sui merca-
Il problema greco è molto profondo e ci accompagnerà per anni. Non esiste ”una” soluzione a breve. Berlino per ora non cederà alle richieste
vare nell’arco di cinque o dieci anni, ma i grandi disegni si fanno in questo modo. Tutto questo però riguarda il domani. Oggi come si risponde alla crisi di Atene? Si faranno dei protocolli, in modo da considerare man mano lo stato di avanzamento della crisi e non ultimi gli effetti di queste manovre messe in campo dal governo greco con un certo coraggio, che va riconosciuto. Certo un conto è dichiarare gli intenti, altro è realizzarli. I mercati staranno lì a vedere, non è possibile quantificare i tempi e l’entità del salvataggio della Grecia, prima va verificata la capacità di mantenere gli impegni, nella speranza che non scoppino disordini. Il prezzo è da pagare sarà alto, l’opinione pubblica greca dovrà accettarlo. Noi ne sappiamo qualcosa, nel ’92 abbiamo dovuto auto-assestarci una bella batosta, una manovra dura. La Grecia deve fare qualcosa di simile, ha peccato molto, ha concesso sussidi e soprattutto ha manipolato le cifre. Pagherà, e i grandi dell’Europa dovranno accettare l’idea che far fallire la Grecia è non solo impossibile ma sconveniente, perché i riverberi sul sistema bancario europeo sarebbero notevoli. Ma lo spettro di Atene è così lontano dall’Italia? Una crisi del genere potrebbe verificarsi anche da noi? Al 99 per cento le dico che non può, siamo lontani: abbiamo grossi problemi di crescita, di produttività, mercato del lavoro, economia sommersa, ma dal punto di vista strettamente tecnico della sostenibilità del disavanzo pubblico corrente, della redditività delle imprese e della stabilità delle banche la situazione non è malvagia. Qualciuno dice: se crolla la Grecia vengono subito chiamate in causa la Spagna e l’Irlanda e poi sarebbe il turno dell’Italia. Ma qui siamo al linguaggio figurato…
ti. La Germania poyrebbe poi lasciar intravedere che alla fine un intervento ci sarà. «È un gioco tra Germania, Grecia e mercati che prevedo andrà avanti per un po’ di tempo». E le preoccupazioni in Europa non sono confinate all’Egeo. «Solo il Portogallo ha una situazione preoccupante, simile a quella greca, anche se con un debito pubblico meno ingente. La Spagna è un altro caso. L’Italia dipende solo in piccola parte dai mercati internazionali. Non prevedo grossi problemi per il vostro Paese in questa crisi acuta rischia pochissimo». Il governo di Atene ora dovrebbe fare una serie di passi, ma non sembra intenzionato a seguire una retta via, influenzato troppo dalla debolezza politica. «Al momento Atene non ha fatto alcuna richiesta ufficiale» di aiuto finanziario «per paura che venga respinta» un prezzo politico che i governanti greci non vogliono pagare, anche se Gros pensa che bruci di più il rischio di un «no». «Per il momento non penso faranno nulla».
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pagina 6 • 23 marzo 2010
Etica. La Cei rilancia le parole di Benedetto XVI: «Nella politica e nella società bisogna difendere i valori non negoziabili»
«Un voto contro l’aborto»
Il Cardinale Bagnasco lancia un appello per le elezioni regionali di Gualtiero Lami
CITTÀ
DEL VATICANO. Il cardinal Angelo Bagnasco, nel documento di apertura del Consiglio episcopale permanente, ha affrontato senza mezzi termini la delicata scadenza elettorale delle regionali di domenica e lunedì prossimi.
Parlando direttamente del voto, il presidente della Cei ha ricordato che «l’evento del voto è un fatto qualitativamente importante che in nessun caso converrà trascurare. C’è una linea ormai consolidata che sinteticamente si articola su una piattaforma di contenuti che, insieme a Benedetto XVI, chiamiamo “valori non negoziabili”, e che emergono alla luce del Vangelo, ma anche per l’evidenza della ragione e del senso comune. Essi sono: la dignità della persona umana, incomprimibile rispetto a qualsiasi condizionamento; l’indisponibilità della vita, dal concepimento fino alla morte naturale; la libertà religiosa e la libertà educativa e scolastica; la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna. È solo su questo fondamento che si impiantano e vengono garantiti altri indispensabili valori come il diritto al lavoro e alla casa; la libertà di impresa finalizzata al bene comune; l’accoglienza verso gli immigrati, rispettosa delle leggi e volta a favorire l’integrazione; il rispetto del creato; la libertà dalla malavita, in particolare quella organizzata. Si tratta – ha concluso - di un complesso indivisibile di be-
sa a ciò che fa parte della cosa pubblica - ricorda il cardinale in merito ai recenti scandali che hanno coinvolto politici di entrambi gli schieramenti - non è rubare di meno; semmai, se fosse possibile, sarebbe un rubare di più. A qualunque livello si operi e in qualunque ambiente». E poi, affrontando direttamente le questioni della cronaca, ha aggiunto: «Dinanzi a quel che va emergendo anche dalle diverse inchieste in corso ad opera della Magistratura, e senza per questo anticipar-
Il presidente dei Vescovi italiani attacca anche la corruzione e la decadenza morale della classe politica: «Nessun alibi per certi comportamenti» ni, dislocati sulla frontiera della vita e della solidarietà, che costituisce l’orizzonte stabile del giudizio e dell’impegno nella società».
Poi, riferendosi alla moralità pubblica Bagnasco ha ricordato che «Non è vero che tutti rubano, ma se per assurdo ciò accadesse, cosa che non è, non si attenuerebbe in nulla l’imperativo dell’onestà». E, sempre a proposito del tema della corruzione, ha aggiunto: «Non cerchiamo alibi preventivi né coperture impossibili: sottrarre qualco-
ne gli esiti finali, noi vescovi ci sentiamo di dover chiedere a tutti, con umiltà, di uscire dagli incatenamenti prodotti dall’egoismo e dalla ricerca esasperata del tornaconto e innalzarsi sul piano della politica vera. Questa – ha spiegato il porporato - è liberazione dalle ristrettezze mentali, dai comportamenti iniqui, dalle contiguità affaristiche per riconoscere al prossimo tutto ciò di cui egli ha diritto, e innanzitutto la sua dignità di cittadino». E poi: «Bisogna che, al di fuori delle vischiosità già intraviste e della
morbosità per un certo accaparramento personale, si recuperi – ha chisto Bagnasco il senso di quello che è pubblico, che vuol dire di tutti e di cui nessuno deve approfittare mancando così alla giustizia e causando grave scandalo dei cittadini comuni, di chi vive del proprio stipendio o della propria pensione ed è abituato a farseli bastare, stagione dopo stagione».
Gianfranco Fini contraddice di nuovo il premier
Presidenzialismo? Non ora ROMA. Il presidente del Consiglio rilancia l’ipotesi del presidenzialismo e Fini puntuale gli replica da Padova dove è andato a presentare il suo libro Il futuro della libertà: «Mi fa piacere, ma in questa legislatura sarà complesso affrontare la questione. Se la maggioranza deciderà di seguire la via del presidenzialismo, non è detto che l’opposizione le vada dietro. Mi auguro che non ci si fermi ai titoli dei giornali». È vero, Fini è sempre stato presidenzialista, e si dice che lo sia ancora, solo che il presidente della Camera nutre dubbi e perplessità sul modo di applicare il metodo presidenzialista in Italia: «Dobbiamo istituire la figura del capo dello Stato che è anche capo dell’esecutivo? Di questo dobbiamo discutere». Per Fini un modello esportabile sarebbe quello del presidenzialismo alla francese, ma spiega: «Non è vero che il presidente eletto dal popolo sia il dominus assoluto, ci deve essere il contraltare del Parlamento. Siamo pronti a discutere non solo con gli slogan e approfondendo inoltre cosa significano pesi e contrappe-
si». Chi leggesse tra le righe di queste parole un riferimento alla tentazione berlusconiana d’un presidenzialismo autocratico non sbaglierebbe probabilmente di molto. Quindi l’importanza delle riforme: «Le dobbiamo fare, non possiamo continuare a parlarne come in un mantra consolatorio perché la pubblica opinione non crede più
a una classe dirigente che ne parla e poi non le fa». Fini ha anche parlato del rapporto tra Pdl e Lega: «Tra l’originale e la fotocopia si sceglie l’originale. Il rapporto con la Lega è strategico non solo per il Nord ma per l’Italia, ma se il Pdl sembra la fotocopia della Lega perché mai si deve scegliere la fotocopia e non l’originale?».
Secondo Bagnasc o, «c’è un impegno che, a questo punto, non può non riguardare proporzionatamente tutti, politici e cittadini, e che ciascuno nel proprio ambito e’ chiamato ad onorare: mettere fine cioè a quella falsa indulgenza secondo la quale, poiché tutti sembrano rubare, ciascuno si ritiene autorizzato a sua volta a farlo senza più scrupoli». In proposito, il presidente della Cei ha citato «un laico cattolico, Vittorio Bachelet, che giusto trent’anni or sono veniva proditoriamente ma anche illusoriamente ucciso sulla gradinata della sua Università» ed ha esortato i cattolici e tutti i politici ad avere «dinanzi agli occhi simili modelli». Infine, il presidente della Cei ha affrontato il delicatissimo tema delle polemiche sulla pedofilia nella Chiesa. « In sintonia con il Papa, la Chiesa Italiana non intende minimizzare il problema degli abusi sessuali commessi da sacerdoti e dunque, per i vescovi - ha spiegato Angelo Bagnasco - il fatto che non da ora il fenomeno della pedofilia appaia tragicamente diffuso in diversi ambienti e in varie categorie di persone, lungi dall’essere qui evocato per sminuire o relativizzare la specifica gravità dei fatti segnalati in ambito ecclesiastico, è piuttosto un monito a voler cogliere l’obiettivo spessore della tragedia». Quindi, in merito al rischio concreto di un oscuramento della figura dei sacerdoti a causa di questi scandali, il presidente della Cei si è rivolto direttamente ai membri del clero. «Nessun caso tragico può oscurare la bellezza del vostro ministero e del sacerdozio che sacramentalmente ci unisce, né mettere in discussione il sacro celibato che ci scalda il cuore e ispira la vita».
diario
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Chiesta la scarcerazione per l’ex vice presidente della Regione Puglia
Il primo frutto operativo dell’accordo tra le due aziende
Interrogato ieri Sandro Frisullo: «Mai preso soldi»
Fiat-Chrysler: nel 2012 arriva una 500 elettrica
BARI. «Frisullo ha risposto a
DETROIT. La Chrysler versione
tutte le domande chiarendo le cose che, evidentemente, per l’accusa non erano chiare. Ha ribadito di non aver avuto mai soldi da Tarantini. Lo aveva già dichiarato e lo ha ulteriormente precisato. Noi crediamo che abbia chiarito tutto sia dal punto di vista degli indizi che delle esigenze cautelari». Lo ha detto ieri l’avvocato Laforgia, legale dell’ex vicepresidente della Regione Puglia, al termine dell’interrogatorio dell’esponente politico svoltosi nel carcere di Bari e durato quasi 4 ore.
Fiat ha deciso di dare corso a una vera e proprio rivoluzione automobilistica, negli Stati Uniti. Non solo cercherà di imporre negli States le mini-utilitarie lì dove trionfano Suv e auto extralunghe, ma le produrrà anche in versione elettrica. Insomma, sta per arrivare una Fiat 500 elettrica per il mercato statunitense: sarà in vendita dal 2012. Lo ha annunciato con un certo trionfalismo la Chrysler in una nota, sottolineando come la «Fiat 500EV a zero emissioni dimostra gli immediati benefici dell’alleanza fra Chrysler e Fiat e la velocità con cui le due società possono lavorare insieme su programmi avanzati». Perché la Fiat 500EV – sempre secondo
Il legale ha quindi aggiunto di aver chiesto la scarcerazione del loro assistito «nei tempi più rapidi possibili perché c’è stato un errore al quale si deve porre rimedio». Secondo Laforgia «l’accusa e gli inquirenti hanno scambiato un imprenditore con un consigliere regionale e un altro imprenditore con un candidato sindaco e un sindaco. Frisullo - ha proseguito Laforgia ha ammesso di essere stato amico di Tarantini. Lo ha ammesso non ora ma a suo tempo, quando si è dimesso da tutte le attività politiche perché questa amicizia si è rivelata del tutto inopportuna». Il legale si è poi detto convinto che proprio «le conversazioni intercettate, che noi diffonderemo e che vi chiedere-
mo di pubblicare integralmente, sono la prova del suo allontanamento dalla politica attiva e dalle sue cariche istituzionali e sono la prova dell’inesistenza di qualsiasi esigenza cautelare». Il gip Di Paola nell’ordinanza ha giustificato la detenzione in carcere di Frisullo con il pericolo di reiterazione del reato; fondato, secondo il giudice, su alcune conversazioni telefoniche recenti che dimostrerebbero l’influenza di Frisullo nell’attività politica e amministrativa. Circa una frase, pronunciata da Frisullo in una conversazione recente, Laforgia ha spiegato che «il negozio di Frisullo è il suo partito» e che «Frisullo è molto più verosimile e molto più logicamente coerente di Tarantini».
Manette alla mafia degli insospettabili Arrestato un architetto: era il nuovo boss di Palermo di Marco Palombi
ROMA. La merce della mafia è la violenza, la sua ambizione il governo politico del territorio. La violenza, peraltro, non va quasi mai esercitata, meglio è se rimane nell’aria come un umor nero, una sorta di «certezza della pena» per chi s’opponga all’anti-Stato. Forse l’opinione pubblica, specialmente la più giovane, non è più abituata a figurarsi una Cosa nostra silenziosa, impalpabile a livello di cronaca nera, capace d’uso di mondo, con ottime entrature in società e, essa stessa, potere tra i poteri. Nessuno ricorda più i fasti di Michele Greco, il “papa”che nella sua tenuta di Ciaculli ospitava la meglio Palermo, o le pretese da viveur del “principe di Villagrazia”, Stefano Bontate. Il ventennio di sangue e clamore dei viddani corleonesi - inaugurato dalle stragi della seconda guerra di mafia e finito con le bombe in continente - ha per così dire distorto l’immagine dell’organizzazione. Ora però si torna alle origini, all’incestuoso abbraccio tra imprenditoria, capitalismo di rapina, potere politico e amministrazione della forza criminale che ne determinò il successo un paio di secoli addietro.
In città cambiano gli equilibri, tornano al vertice le Famiglie degli anni Ottanta
Per questo non deve stupire che ieri sia finito in galera l’architetto Giuseppe Liga, “insospettabile” scrivono le cronache, accusato di essere addirittura l’erede dei Lo Piccolo nel mandamento Tommaso Natale-San Lorenzo. Quasi sessant’anni, cattolico impegnato in politica nel Movimento cristiano lavoratori, Liga è uomo dai rapporti eccellentissimi: «Sono cresciuto insieme col presidente della Regione, Raffaele Lombardo. Mi chiama, ci parlo. Sono stato in contatto con Mattarella, il fratello di Piersanti. Leoluca Orlando è diventato sindaco per me e per altri due amici». Lo dichiara lui stesso nel numero - in edicola da tre giorni - del mensile “S”: da tempo si parlava infatti di un“architetto” al centro delle nuove inchieste di mafia e il nostro s’era difeso sostenendo di essere sì lui quello citato nei “pizzini”, ma come vittima di estorsione («è un equivoco»). Che l’architetto sia o no un alto “dirigente”mafioso, quello che telefo-
nate, pizzini e pentiti raccontano oggi è una Cosa Nostra che torna alle origini. Dopo la mutazione antropologica corloneose sono due le novità emerse finora dall’inchiesta: il ritorno al vertice degli “scappati” – la mafia palermitana sconfitta negli anni Ottanta che se n’era andata a “lavorare” nelle Americhe - e un’innovazione terminologica che è pure una mutata prospettiva culturale.Tra di loro, infatti, questi mafiosi di nuovo conio non chiamano più gli adepti «picciotti» o «uomini d’onore», ma «angeli»: recente abitudine che pare sottolineare l’importanza che i nuovi capi attribuiscono ad un restyling dell’immagine dell’organizzazione. Basta con gli «scannacristiani» arrivati dalla campagna, sotto con le gentili creature alate care all’inocografia cristiana. Anche un altro degli arrestati di ieri, Giovanni Angelo Mannino, è un nome sintomatico di questa nuova architettura mafiosa: braccio destro di Liga, secondo l’accusa, il nostro non solo è uno “scappato”- è cognato di Totuccio Inzerillo, un boss fatto uccidere da Riina nell’81 – ma anche gestore di un ristorante rinomato del centro storico di Palermo, “Lo Sparviero” («la grande esperienza, professionalità e passione per l’arte culinaria dei fratelli Mannino hanno reso singolare ogni singolo piatto», si legge nel sito).
Cosa Nostra, insomma, tenta di adattarsi alle nuove condizioni, di non morire per troppa luce dopo l’emersione scatenata dalla violenza corleonese, ma è in difficoltà: il presunto nuovo capo, Matteo Messina Denaro, ora si ritrova senza una vera rete di protezione e a Palermo dicono che abbia i giorni contati. Con lui forse finirà la mafia del secondo Novecento e gli “angeli”si ritroveranno ad essere una riedizione degli antichi gabellotti, mentre al vertice - su su nell’empireo mafioso – volteggeranno gli insospettabili, una macedonia di politica, massoneria e soldi in cui il potere legale e quello illegale si confonderanno sino all’indistinzione. E saremo, finalmente, dov’eravamo già: nell’Ottocento.
l’azienda italo-americana - è «amica dell’ambiente e offre ai consumatori la possibilità di liberarsi dagli aumenti dei prezzi dei carburanti». La Fiat 500EV era stata esposta a Detroit durante il Salone dell’Auto ma ancora non era certo se si trattasse solo di un prototipo. «L’alleanza con Fiat presenta nuove opportunità per unire la conoscenza ingegneristica di Chrysler con nuove piattaforme e la Fiat 500 EV è un notevole esempio dei nostri sforzi in questo senso» afferma in una nota Scott Kunselman, senior vice presidente engineering di Chrylser. «La Fiat 500 è piccola, e la piattaforma leggera è perfetta per integrare la tecnologia elettrica».
Nell’annunciare il nuovo progetto, Chrysler ha anche reso noto di essere stata scelta dal Dipartimento dell’Energia statunitense per ricevere 48 milioni di dollari per il test di 140 Ram elettriche-ibride. I fondi rientrano nell’ambito dei 2,4 miliardi di dollari stanziati dal governo nel piano di stimolo per lo sviluppo di auto pulite. «Questa iniziativa mostra come il governo, l’industria automobilistica, i fornitori e gli altri partner strategici del settore stanno raggiungendo obiettivi comuni» ha spiegato Paolo Ferrero, senior vice president Powertrain.
economia
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Cantieri. Dopo le Regionali il ministro Sacconi presenterà lo Statuto dei lavori, ideato dieci anni fa da Marco Biagi
Il Welfare che verrà Con le nuove norme salteranno tutte le distinzioni tra lavoratori fissi e autonomi di Francesco Pacifico
ROMA. Nel 1998 il professor Marco Biagi scriveva all’allora ministro del Lavoro, Tiziano Treu, che «l’obiettivo dichiarato dello Statuto dei Lavori dovrebbe apparire meno ambizioso e, allo stesso tempo, più pragmatico, se si vogliono attenuare le polemiche». Ma è difficile attenersi a questo principio se l’obiettivo dichiarato è superare la distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, rendere sempre più universali le tutele e applicare la stessa flessibilità della cassa integrazione straordinaria (accordo tra le parti, fondi diretti e in tempi brevi) all’erogazione di tutti gli ammortizzatori sociali, magari sfruttando la bilateralità.
Al centro del testo che sta ultimando Michele Tiraboschi – allievo prediletto di Biagi e principale consigliere del ministro del Lavoro Maurizio Sacco – c’è una nuova forma di riconoscimento per il lavoro subordinato. Che sarà considerato tale se potrà essere ricollegato
a quattro categorie di diritti: sicurezza, privacy, formazione ed equo consenso. Una rivoluzione straordinaria per un’Italia dove nel biennio della crisi le partite Iva con monocomittenza sono cresciute di 300mila unità. «È il tentativo», ha spiegato proprio Tiraboschi sabato scorso al Corriere della Sera, «di superare la divisione tra lavoro autonomo e subordinato, perché in futuro il mercato del lavoro sarà così, e avere un quadro unitario con diritti di base per tutti: alla sicurezza, alla retribuzione equa, alla formazione». A dodici anni da quando lanciò l’idea all’amico
conflitti creati dalla rigidità di normative pensate per un sistema fordista ormai superato.
Non caso giovedì scorso il ministro Maurizio Sacconi, annunciando la presentazione di un disegno di legge e un apposito tavolo dopo le Regionali, ne ha parlato come il naturale completamento della riforma del giurista bolognese ucciso dalla brigate rosse nel 2002: il passaggio dal riconoscimento dei diritti alla somministrazione delle tutele. A quando si sa, da settimane il responsabile del Lavoro starebbe incontrando le parti sociali.
Pronta la riforma degli ammortizzatori sociali. L’obiettivo del ministro del Lavoro è estendere le coperture anche alle categorie che ne sono escluse. Verso una rivoluzione nei sistemi di rappresentanza Tiziano Treu, potrebbe vedere la luce lo Statuto dei lavori ideato da Marco Biagi. Strumento con il quale il giuslavorista intendeva soprattutto limitare i
Ma accanto ai vertici di Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, non mancano colloqui con i rappresentanti delle professioni. Vista la delicatezza della partita non c’è soltanto la necessità di avere il più ampio consenso, quanto quella di coinvolgere le rappresentanze dei tanti lavoratori distanti anni luce dai confederali. Dopo le Regionali, e a tutti loro, Sacconi dovrebbe presentare una bozza di disegno di legge, al quale sa-
ranno collegate due deleghe su altrettante materie (partecipazione all’impresa e ammortizzatori sociali) da tempo al centro del lavoro del Parlamento.
Con Michele Tiraboschi sta collaborando quel ristretto e consolidato gruppo di giuristi e sindacalisti, che già ai tempi del Libro Bianco era accanto a Marco Biagi nel tentativo di riformare il mercato del lavoro. E tra i quali ci sono il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, l’amministratore delegato di Italia Lavoro, Natale Forlani, il capo della segreteria del ministro del Lavoro, Paolo Reboani, e il politologo Paolo Feltrin. Tre i filoni del documento: diritto all’ambiente sicuro, diritto al giusto compenso e all’apprendimento professionale continuo. Che dovrebbero riguardare sia i lavoratori dipendenti sia quelli autonomi senza alcuna distinzione. Non mancheranno poi incentivi normativi per valorizzare il ruolo delle parti e gli strumenti di welfare mutualistico come gli enti bilaterali.
Essendo un codice generale, l’obiettivo è quello di coordinare e ordinare tutte le materie (arbitrato, lotta al precariato, ammortizzatori sociali, rappresentanza, formazione continua) sulle quali finora si è intervenuto soltanto in chiave di emergenza. Un mare magnum che va ben oltre l’ambito del riconoscimento professionale – come pure si addice a uno Statuto dei lavori sul modello – che spinge il parlamentare del Pd ed ex segretario confederale della Cisl, Pierpaolo Baretta, a dire: «Se l’esecutivo ha l’obiettivo di rimodulare le tutele, allora deve dire chiaro e tondo che vuole modificare lo Statuto dei lavoratori, discuterne in Parlamento e con le parti sociali. Magari la strada può essere quella di una delega alle Camere e di un avviso comune a sindacati e imprese». ,Inutile dire che la parte più delicata dello Statuto riguarda le nuove regole per il riconoscimento dei lavoratori. Soprattutto la norma che supera la distinzione tra fissi e autonomi attraverso la presenza di quattro diritti che così diventano universali: sicurezza, privacy, formazione ed equo compenso. Se si guarda al recente passato
economia
Dall’alto, il giuslavorista Marco Biagi, il suo allievo ed erede Michele Tiraboschi, il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. Nella foto in basso, Gino Giugni
– alla famosa circolare sui call center emanata dall’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano – allora venivano considerati subordinati quei lavoratori che chiamando i clienti, e non semplicemente rispondendo alle loro richieste, erano parte attiva dell’attività di Crm delle aziende. Oggi, invece, si fa un passo avanti perché viene di fatto delineata come subordinazione la stessa monocommittenza, che è stata regolamentata dai Co.co.co prima e dai Co.co.pro dopo.
Se questo è lo schema del governo, i sindacati (e non soltanto la Cgil) sono già pronti a inserire nel nuovo perimetro del lavoratore subordinato ulteriori diritti. Innanzitutto la piena equiparazione contributiva tra dipendenti fissi e autonomi, che oggi vede una differenza di circa 13 punti percentuali. Soldi per la maggior parte pagati direttamente dal collaboratore. Senza contare che, sempre in questa nuova frontiera del lavoro autonomo che si sta delineando, il governo e le parti discuterano anche di estensione degli ammortizzatori sociali, allargamento della platea della contrattazione collettiva e stabilizzazioni delle relazioni sindacali. Su tutti questi punti l’esecutivo – forse con il pieno appoggio di Cisl e Confindustria – si muoverà secondo i concetti di soft law e di mutualità tra le parti tanto cari allo stesso Biagi.Va da sé che se l’obiettivo è quello di portare tutele dove non ci sono, il processo non può iniziare che da un’opera di reiquilibrio. E siccome le disponibilità del nostro stato sociale sono molto risicate visto i costi delle pensioni, con il tempo la partita giocoforza si
Lo Statuto dei lavoratori
L’eredità di Brodolini e Giugni Sotto la definizione di Statuto dei lavoratori si intende il codice delle norme fondamentali del diritto del lavoro italiano. Più precisamente «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento». Il suo nome è legato a due importantissimi esponenti del socialismo italiano: l’ex sindacalista Cgil e poi ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, il giuslavorista e suo successore, Gino Gugni. Fu proprio lui nel 1970 a farlo approvare dalle Camere. Tra le norme principali l’introduzione dell’articolo 18, un paletto contro i licenziamenti discriminatori. Lo Statuto dei lavoratori modificò sia le condizioni di lavoro sia le relazioni tra le parti. In varie occasioni si è provato a modificarlo: lo stesso Giugni provo a fare opera di manutenzione negli a metà degli anni Ottanta. Ma i ritocchi sono sempre stati un tabù come dimostrano le proposte del centrodestra nel 2002 di affievolire l’articolo 18.
trasferirà nel limitare le garanzie agli insider per estenderle agli outsider. Segnala Pierpaolo Baretta: «C’è il rischio che il governo lanci un modello dove il datore è sempre rigoroso nel rispettere le regole e il lavoratore iperproduttivo. Ma se non si interviene a monte – nelle condizioni per l’ingresso nel mondo del lavoro – allora si rischia di fare dell’astrazione, non unificando le posizioni di tutelati e non tutelati». Lo Statuto finirà per innescare ampie discussioni sui diritti dei lavoratori così come imporrà alle aziende di rimodulare l’organizzazione e i livelli e produttivi in tutti quegli ambiti ancora legati ai settori ad alta intensità di attività. Ma ancora più invasivi saranno gli effetti nel campo della rappresentanza. Non a caso Pierpaolo Baretta nota che «c’è il rischio di confondere lo Statuto dei lavori con la riforma delle professioni». Attraverso le categorie
di sicurezza, privacy, formazione ed equo compenso di fatto si punta a un riconoscimento che è molto simile a quello che gli Ordini danno ai loro iscritti. Di conseguenza entrano a pieno diritto nel sistema del welfare il milione e mezzo di partite Iva senza dipendenti, il quasi milione di collaboratori, ma soprattutto i circa 3 milioni di professionisti di dipendenti degli studi professionali che non sono iscritti agli Ordini. La cosa finisce per essere dirompente per il fragile equilibrio sul quale si regge il sindacalismo italiano. Se quasi sei milioni di lavoratori ottengono tutele finora a loro precluse, chi difenderà i loro diritti? Sicuramente è diffici-
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le che lo facciano gli stessi sindacati confederali che nel loro Dna considerano il lavoro autonomo soltanto un piaga da estirpare, privilegiano nelle loro piattaforme i lavoratori dell’industria pesante (metalmeccanica o chimica che sia), hanno tra i loro iscritti soprattutto statali e pensionati. Ma se cambiano le norme per il riconoscimento della subordinazione, devono mutare anche le regole della rappresentanza e l’approccio del sindacato verso i lavoratori. Pena un’emarginazione costante dai settori vitali e produttivi della società. Si va quindi verso un sindacato che a monte si batte sempre più l’introduzione di diritti generali e a valle segue il modello della sigla di mestiere che ribalta il concetto di confederazione. E qualcosa già si sta muovendo.
La Cisl – la prima confederazione a permettere l’iscrizione alle associazioni professionali – nei mesi scorsi ha lanciato il Felsa, categoria dedicata interamente agli autonomi. La Cgil, che nel lontano 2002 permise l’iscrizione alle partite Iva senza dipendenti – ha risposto con la Consulta per le professioni, guidate da un campione di riformismo come il segretario confederale Agostino Megale. E se in passato queste tematiche venivano studiate sotto l’aspetto della stabilizzazione, oggi si punta a portare questi autonomi verso le categorie più consolidate (meccanici, chimici o tessili) dove ci sono lavoratori a loro assimilabili e aprendo le porte a strumenti di welfare come i fondi pensioni, altrimenti sconosciuti. Che sia in atto la caccia all’autonomo lo dimostra anche la decisione di Confprofessionisti – la sigla guidata da Gaetano Stella e che racchiude i titolari degli studi legali – di proporre un equo compenso per i praticanti. Cioè di anticipare uno dei diritti che diventerà universale una volta approvato lo Statuto dei lavori. In questo schema saranno centrali soprattutto i servizi di welfare. Che in un’Italia sempre più vecchia e bisognosa di risorse per pensioni e sanità, sa-
ranno necessariamente a carico delle parti. Le quali possono contare anche sull’esperienza degli enti bilaterali. Non a caso, nell’intervista al Corriere della Sera Michele Tiraboschi, ha voluto sottolineare che «il nostro sistema non privilegia i licenziamenti, ma la sospensione del lavoro, attraverso cassa integrazione e contratti di solidarietà. E ha fatto sì che si siano persi meno posti di lavoro dei sistemi dove c’ è la flexicurity. La lezione è che il nostro sistema ha bisogno di manutenzione. Intanto collegando la tutela del reddito alla formazione: fare in modo che chi riceve un sussidio sia impegnato in attività formative e di ricollocamento». Se il timore è quello di incenti-
vare con il welfare scandinavo sacche di lassismo, il governo ha intenzione di inserire nel collegato sugli ammortizzatori sociali un’indennità di lavoro più corposa e una cassa integrazione da estendere anche ad altri settori produttivi. Sul primo versante – anche sfruttando l’arbitrato dove previsto dai contratti di categoria – si punta ad alleggerire il livello di conflitto aumentando i risarcimenti. Per quanto riguarda gli ammortizzatori in costanza di rapporto di lavoro come la Cig si guarda a rafforzare lo strumento assicurativo. Ma siccome oggi soltanto la grande industria è in grado di pagarselo, in futuro si stanno valutando meccanismi per permettere anche alle realtà piccole e medie di usufruirne in tempi di scarse commesse.
A condire il tutto anche un pacchetto di incentivi al lavoro. Due gli obiettivi di Maurizio Sacconi: aggredire da un lato la disoccupazione lanciando modelli ad hoc per ogni target (donne, giovani, ultracinquantenni), e dall’altro trasformare i bonus concessi dalle Regioni in veri voucher per la formazione. Ma se sarà difficile convincere i sindacati, il ministro troverà un osso non meno duro dei governatori, gli stessi che tra Fas e fondi sociali europei hanno cacciato di tasca loro il grosso dei 9 miliardi e mezzo utilizzati per pagare il boom di cassa integrazione.
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speciale elezioni
I candidati del Centro/8. «Occorre chiudere subito una stagione fallimentare»
«Bassolino, le macerie e una regione da rifare»
CAMPANIA
«Nuova qualità della vita, senza criminalità né sprechi», le priorità di Stefano Caldoro di Franco Insardà
ROMA. Stefano Caldoro, candidato del centrodestra alla presidenza della regione Campania, ha idee chiare su come affrontare l’eredità difficile lasciata da Antonio Bassolino: «Sono sei gli obiettivi del mio programma: il miglioramento della qualità della vita dei cittadini; una sanità che funziona bene e senza sprechi; la sicurezza e la lotta al degrado; lo sviluppo delle relazioni economiche e culturali con i Paesi del Mediterraneo allargato; la difesa dell’ambiente e la promozione del turismo e il riordino dei poteri della Regione». Ma qual è la prima cosa da fare? Migliorare il Servizio sanitario regionale e riordinare i poteri della Regione: due obiettivi prioritari e irrinunciabili. La sanità campana costa quasi dieci miliardi l’anno e offre servizi inadeguati, che pensa di fare per affrontare questa emergenza. Servono scelte forti. Le risorse umane sono professionalmente adeguate e non mancano le eccellenze. La situazione è critica prevalentemente per la gestione e l’organizzazione e riguarda sia il pubblico sia il privato. Il centrosinistra ha fallito lasciando in eredità la sanità più costosa e meno efficiente. A causa di queste diseconomie, i cittadini
in Campania pagano le tasse più alte d’Italia. E allora? Lotta agli sprechi, rifondazione dell’assistenza territoriale, riprogrammazione della rete ospedaliera, riorganizzazione e ottimizzazione della rete pubblico-privata e la rigorosa programmazione per evitare di creare fasce di assoluta carenza assistenziale. Il piano di rientro va attuato alla lettera per riuscire a ridurre le addizionali Irpef ed Irap, che penalizzano cittadini e imprese. L’Udc appoggia la sua candidatura, Casini ha dichiarato che il suo partito è con i migliori. Si sente lusingato? Quello dell’Udc è un sostegno che fa piacere perché è importante sia sul piano politico-programmatico, sia sul piano dei consensi elettorali. Abbiamo disegnato insieme il programma, governiamo già bene insieme in tre province, il percorso comune ci consentirà di ottenere buoni risultati anche alla Regione. L’Udc è molto sensibile ai temi della famiglia ed è critico sulle politiche nazionali. Come pensa di poter intervenire a livello regionale? Intendiamo promuovere nuove politiche a sostegno delle famiglie e delle giovani coppie con l’introduzione del quoziente familiare, con incentivi per la natalità e un programma di edilizia sociale, sostenendo le giovani coppie nell’acquisto di una casa. Per lei welfare vuol dire… Tutelare i soggetti deboli con politiche di sostegno e di promozione della qualità di vita, con una particolare attenzione alle moderne fragilità socio assistenziali come i minori, gli adolescenti, le madri e gli immigrati, predisponendo per questi ultimi percorsi di integrazione sanitaria e sociale a tutela della dignità della persona del migrante. Un ruolo centrale nel welfare attivo, anche nell’ambito socio-sanitario, possono e debbono avere i diversi attori sociali e in particolare le società intermedie. Quella rete fatta di famiglie, di piccole comunità, di associazioni, di imprese, di volontariato, di cooperative sociali. Credo molto nella sussidiarietà orizzontale e il terzo settore-no profit deve diven-
tare un punto di forza del modello socio sanitario integrato, in un ruolo, a volte di supplenza, a volte di vero e proprio promotore di solidarietà sociale. Nell’immaginario la Campania, però, è uguale a rifiuti e criminalità: due piaghe sanabili? L’amministrazione Bassolino ha distrutto l’immagine della Campania a livello internazionale. I colpi che lo Stato ha assestato alla criminalità organizzata e le iniziative che il governo ha messo in campo per i rifiuti, già hanno dato segnali concreti, ora bisogna proseguire. Si riusciranno a realizzare gli im-
L’esponente del centrosinistra
La corsa a ostacoli di De Luca ROMA. La candidatura di Vincenzo De Luca alla guida della colazione di centrosinistra per la Regionali in Campania contro Stefano Caldoro è stata in dubbio fino alle ultime ore. Alla fine il sindaco di Salerno, che ha una rivalità di antica data con Antonio Bassolino, l’ha spuntata. Superando anche gli ostacoli, soprattutto dei dipietristi, che invocavano una questione morale per un rinvio a giudizio per concussione e truffa ai danni del Stato, vicenda per la quale De Luca si difende sostenendo che ha agito per «difendere duecento lavoratori» e che lo rifarebbe. Nella sua corsa verso Santa Lucia è appoggiato dal Pd, da Idv, Sinistra ecologia e libertà. Lista Bonino-Pannella, Verdi, Alleanza per l’Italia e Campania libera. Vincenzo De Luca è stato sindaco di Salerno per due mandati, poi ha lasciato ed è stato deputato per due legislature, mentre dal 2006 è ritornato alla guida della sua città.
pianti di smaltimento, recupero e incenerimento dei rifiuti? Grazie all’impegno del presidente Berlusconi la fase più critica dell’emergenza è stata superata e oggi possiamo affrontare il ciclo dei rifiuti in modo organico con un mix di smaltimento, raccolta differenziata e termovalorizzatori. E per le zone inquinate dai rifiuti tossici? È una questione importante, perché riguarda la salute dei cittadini, occorrono, quindi, urgenti e importanti operazioni di bonifica. In aggiunta agli interventi con fondi pubblici si dovranno incentivare quelli promossi da investitori privati. A questi potranno essere rilasciate, a particolari condizioni e contesti, autorizzazioni e concessioni per l’utilizzo delle aree di bonifica. In base ai dati Arpac, nell’anno 2008 sono stati censiti 3.733 siti contaminati o potenzialmente tali sul territorio regionale e soltanto 13 sono stati bonificati. Contro la criminalità invece? Occorre, innanzitutto, un riordino territoriale e ambientale. La Regione ha, sino a oggi, evidenziato negligenza e incapacità nell’affrontare tutte le problematiche del territorio lasciandolo spesso nel controllo della malavita. Bisogna, invece, esercitare un’attività di coordinamento, promozione e impulso delle politiche di sicurezza del territorio. Un altro dei problemi che stanno dividendo i candidati in tutte le regioni è quello del nucleare: qual è la sua posizione? La “sfida”del nucleare è una scelta strategica del governo, di autonomia energetica e di risparmio economico che ci vede in buona compagnia a livello mondiale ed europeo. Questione diversa è quella di stabilire se la Campania si presta ad accogliere o meno un sito nucleare. Forse per ragioni di morfologia e di rischio sismico, la Campania non sarà scelta come sito per una centrale. Ma queste sono valutazioni per le quali mi rimetto agli esperti. In ogni caso non si può bocciare il nucleare solo per motivi ideologici e politici. Il settore agroalimentare era uno dei fiori all’occhiello della regione, ma ha subito gravi contraccolpi. Come pensa di intervenire? Intendiamo adottare una Legge Regionale sui distretti rurali ed agroalimentari di qualità, per sviluppare le vocazioni territoriali, organizzando un modello di sviluppo delle zone interne collinari intorno all’idea di aree di turismo rurale attrezzate ed alla realizzazione dei parchi agricoli, a tutela e valorizzazione delle risorse ambientali agro-zootecniche ed e umane locali.
speciale elezioni I candidati del Centro/9. Il sindaco più amato d’Italia: «Alla Calabria serve una visione»
Missione possibile: archiviare Loiero
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CALABRIA
«Qui il centrosinistra ha lasciato un disastro: dalla disoccupazione giovanile all’ambiente» di Riccardo Paradisi
ROMA. In Calabria il Centro sostiene il sindaco di Reggio Giuseppe Scopelliti. L’accordo parte dalla considerazione che «in Regione – come si legge nel documento ufficiale dell’intesa – è urgente ricostruire il tessuto politico e sociale coinvolgendo in un progetto di cambiamento le energie migliori della società calabrese in un processo di netta discontinuità con il passato e praticando il metodo della collegialità e delle scelte condivise. Tra le priorità indicate nell’accordo la massima attenzione ai problemi della legalità e della lotta alla criminalità organizzata, la necessità di azionare politiche di sostegno all’occupazione e la piena attuazione ed integrale finanziamento della legge regionale sulla famiglia». Altri punti riguardano «la riforma del sistema sanitario nei primi mesi della legislatura, orientata alla deospedalizzazione ed all’adozione di modelli di sanità territoriale, e l’approvazione, nei primi mesi della nuova legislatura, del Piano Casa».
Insomma una scelta di discontinuità e di rottura con cinque anni di amministrazione Loiero che certo non passeranno agli annali della Calabria come i migliori della vita regionale. Sarà anche per questo che nei sondaggi Giuseppe Scopelliti vola al 55 per cento dei consensi, che i maggiori istituti demoscopici danno già per sicura la sua vittoria. Del resto ha buon gioco Scopelliti a evidenziare gli indicatori del governo di centrosinistra della regione, sintomi del fallimento dell’era Loiero: disoccupazione giovanile al 65% (primo posto in Europa, 48 punti in più della media comunitaria), disoccupazione femminile al 41% (sei punti in più della media nazionale e 13 sopra quella europea); emigrazione giovanile: primo posto in Italia, con 70 mila giovani nel triennio 2005-2008; mortalità imprese: 2,7% (lo 0,7%in più della media nazionale, dati Confcommercio) a differenza del saldo positivo dello 0,6% in più registrato nel periodo 2000-2005. Ancora, diminuzione dei consumi: -1,5% solo nel biennio 2009-2010, lo 0,2% in meno del Sud, il doppio rispetto al resto del Paese; prodotto interno lordo: -1,7 nel 2008, -5,6% nel 2009, media stimata intorno all’1% per l’anno in corso, chiaramente ultimo posto d’Europa. La Calabria ha anche il primato della povertà della famiglie: primo posto in Italia, 29,8% (dati Istat 2009) e primo posto nell’Europa continentale, contro una media nazionale dell’11%; ultimo posto in Europa per spesa dei fondi Fesr (66,9%) e penultimo assoluto (peggio
ha fatto solo la Campania) in termini di spesa complessiva dei fondi comunitari per il 2009, dati Ue).
«Dinanzi a questo quadro – sostiene Scopelliti – di fatti incontrovertibili e assoluti, il governatore uscente tenta di anestetizzare il dibattito e di ignorare che cinque, lunghissimi anni di gestione hanno consegnato alla Calabria una solitudine disarmante, riducendola in uno stato di bancarotta». Il rilancio della regione secondo Scopelliti passa per scelte strategiche di lunga durata. Come l’istituzione dell’asse Mediterraneo che
I tre sfidanti nella regione dei localismi
Un derby tra Reggio e Catanzaro ROMA. L’attuale presidente della Regione, Agazio Loiero, 70 anni, ex Dc, oggi nel Pd, è il candidato del centrosinistra, sostenuto da 6 liste. A sfidarlo il 43enne sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Scopelliti, ex An scelto dal centrodestra (sette le liste a sostegno) e da tre anni incoronato sindaco più amato d’Italia, con oltre il 70 per cento dei consensi. Pippo Callipo, 63 anni, imprenditore del vibonese, è appoggiato da tre liste: l’Italia dei valori di Di Pietro e De Magistris, i Radicali di Bonino e Pannella e il movimento da lui fondato, ”Io Resto in Calabria”. Da molti l’imprenditore è considerato il possibile ago della bilancia a favore del centrosinistra, supposizioni smentite categoricamente dallo stesso Loiero, nel corso di una conferenza stampa a Lamezia Terme, «Anche in caso di vittoria Callipo non entrerà in Consiglio regionale e le sue battaglie potrà farle solo dall’Assemblea legislativa».
consentirà alla regione di avere un’agricoltura da esportare in tutto il mondo. Scelte di lunga durata, strategie occupazionali, non promesse di miracoli o peggio prebende di scambio: «I giovani di questa terra non sono in vendita – dice Scopelliti – non ci sono promesse elettorali da consumare, il tempo è scaduto, il passato gerontocratico è già alle spalle». Scopelliti attacca anche sulla gestione ambientale del quinquennio Loiero che si chiude con una serie di criticità evidenti in tutti i segmenti di un settore centrale della politica italiana: «Il mancato raddoppio del termovalorizzatore ha comportato non solo l’impossibilità di giungere all’autosufficienza nello smaltimento e di considerare l’opportunità di creare energia alternativa sulla stregua degli esempi di altre regioni ma lascia in eredità un pericoloso contenzioso con la società appaltante che rischia di costare 40 milioni di euro alla collettività. La questione della depurazione con il blocco delle postazioni sui litorali ha causato per tutto l’arco della legislatura danni ingenti al turismo specie nell’area tirrenica cosentino-catanzarese».
Di fronte a questo disastro amministrativo ”la casta politica calabrese” come la chiama Scopelliti non solo non chiede scusa ma moltiplica i suoi atti di arroganza: «Nell’ultimo bilancio – dice il sindaco di Reggio, proprio intervenendo alla conferenza stampa con l’Udc – i consiglieri regionali di maggioranza si sono approvati una norma che riduce le percentuali di sottrazione delle indennità per i consiglieri regionali stessi che vadano in pensione prima dei sessant’anni. Una norma che elimineremo subito. Basta vedere il bilancio regionale e si scoprirà che le detrazioni previste per legge sono state ridotte o cancellate. In pratica chi avrà 10 o 15 anni di legislatura potrà andare in pensione a 55 anni percependo il massimo dell’indenniità. Norme di irrobustimento della casta che fanno rabbrividire, mentre gli organismi nazionali ed europei chiedono di procrastinare l’età pensionabile per i lavoratori, i consiglieri regionali di centrosinistra difendono i privilegi». Durissimo dunque il sindaco di Reggio Calabria col suo principale avversario Loiero e lo schieramento di centrosinistra, più generoso con Pippo Callipo: «È un personaggio nuovo che si avvicina alla politica solo adesso, ha molte buone intenzioni ed è un candidato che sta cercando di fare la sua parte. Ha già una aggregazione che ha messo in campo e con la
quale si sta muovendo. Ma la politica è una cosa seria e bisogna avere un’idea precisa per fare valutazioni pertinenti».
Scopelliti, da parte sua, sa quali sono i punti cardini sui quali muoversi: «Partiamo certamente dal tema scottante della sanità. Di uguale importanza è la tematica relativa all’ambiente. Soprattutto, dovremo affrontare le questioni riguardanti lo sviluppo. Infrastrutture, trasporti, progetti, una sanità con manager che non abbiano mai amministrato, il rapporto simbiotico nella formazione con le università, la coesione di tutte e cinque le province intorno al capoluogo regionale, Catanzaro, e nel contesto di un forte rilancio delle singoli identità». Soprattutto Scopelliti lancia il guanto di sfida alla criminalità mafiosa. Non solo presentando liste pulite e certificate – anche se Angela Napoli, esponente calabrese del Pdl dice che si poteva fare ancora di meglio – ma presentando come fiore all’occhiello la nascita dell’Agenzia nazionale per beni sequestrati alle mafie a Reggio Calabria, promettendo di fare in Regione quello che ha fatto a Reggio Calabria: concorsi pubblici tarsparenti e non più infiltrabili.
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l presidente Obama ha appena completato la più difficile opera di community organizing di tutta la sua carriera. A renderlo possibile è stata la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, ma il presidente ha lavorato più duramente e più intensamente a questo problema più di qualsiasi altra questione che ha coinvolto la sua presidenza. Secondo un calcolo della Camera, ha ricevuto personalmente almeno 92 deputati. Nell’ultima settimana ha fatto tre discorsi, culminati in un appello ai suoi compagni di partito che è stato il più personale e il più filosofico di tutti quelli fatti dall’inizio del suo mandato. In questa settimana la legge passerà al Senato, dove sarà difficile per i repubblicani farla deragliare (anche se potrebbero ritardarne l’approvazione). A prescindere da quello che potrebbe accadere dopo, il passaggio della legge è un punto di svolta per la presidenza Obama. Questo è il suo progetto. A differenza che con il bailout per le aziende automobilistiche o lo stimulus economico, la riforma della sanità non è stata la risposta a un’emergenza. Che la presidenza Obama sia un dittico, un trittico o qualcosa di ancora più complesso, la prima “cerniera” dividerà i giorni prima della riforma da quelli successivi ad essa.
I
Obama non ha lavorato duramente soiltanto per saltare l’ostacolo. Ha lavorato in profondità per garantire un assicurazione sanitaria a 32 milioni di persone, per un motivo “morale”. Venerdì scorso ha citato Teddy Roosevelt: «Combattere aggressivamente per la giustizia è lo sport più nobile che il mondo possa permettersi». Sabato ha costruito il suo discorso ai deputati democratici intorno a una frase di Lincoln che esprimeva un sentimento analogo: «Non sono obbligato a vincere, ma sono obbligato a dire la verità. Non sono obbligato ad avere successo, ma sono obbligato a seguire le mie convinzioni». Ai presidenti piace paragonarsi ai propri predecessori. Aggiunge nobiltà alla loro cause e gli permette di crogiolarsi nella loro luce riflessa. Ma è chiaro che, nel suo discorso ai deputati democratici, Obama non stava soltanto ricorrendo a trucchi retorici, ma stava parlando in termini personali e profondi di obblighi morali collettivi. Nella spinta per far passare la legge, non ha soltanto utilizzato tutti gli strumenti della presidenza (discorsi al pubblico, town hall con membri del Congresso, conferenza stampa e domande&risposte su Internet, viaggi sull’Air Force One per i deputati indecisi, ore di faccia a faccia), ma ha esaurito anche tutti gli strumenti possibili della retorica. Una cosa è dire che i repubblicani hanno fatto ostruzionismo al Congresso sulla riforma. Ma Obama è andato oltre, affermando che soltanto ai democratici stanno a cuore le sorti dei meno fortunati. Il presidente, in pratica, ha descritto un unico atto (il votare “sì” alla riforma) come potenzialmente in grado di redimere tutte le promesse mancate fatte dai deputati al proprio elettorato: «Ognuno di voi ha fatto questa promessa non soltanto ai propri elettori, ma a se stesso. E questo è il momento
focus/Usa
Obamacare: sarà verà gloria?
La legge approvata dal Congresso divide l’opinione pubblica e i commentatori americani Per i democratici si tratta di uno spartiacque storico, per i conservatori potrebbe essere l’inizio della fine per il presidente
Un arrocco da maestro: e arrivò lo scacco matto La Casa Bianca ha scommesso tutto sulla riforma. A novembre vedremo se sarà premiata dagli elettori di John Dickerson di mantenere questa promessa». Questo è il tipo di linguaggio che ci si aspetta alla fine di un lungo sforzo per convincere i membri del Congresso, soprattutto dopo tutto il dibattito che c’era stato sull’argomento. Ma era anche un linguaggio estremamente rischioso. Chiedendo ai suoi colleghi democratici di fare qualcosa di così difficile, Obama in realtà a chiesto ad alcuni di loro di rinunciare al proprio posto di lavoro. Anche se ha affermato che passare la legge avrebbe comportato benefici politici per il partito, sapeva di esagerare molto.
mandato, in territorio negativo. E sarà difficile cambiare questa dinamica da qui a novembre, soprattutto dopo che il presidente si è rivelato inefficace nel far cambiare idea all’opinione pubblica su molti argomenti. Visto questo scenario sfavorevole, Obama e i democratici del Congresso
La legge sulla riforma della sanità non è popolare. E gli elettori non giudicano favorevolmente il modo con cui Obama ha gestito la situazione. Il suo indice di approvazione generale è, per la prima volta dall’inizio del
testeranno la volontà degli elettori di premiare i politici che seguono le loro convinzioni, malgrado ogni possibile conseguenza. Questa era una delle promesse fondamentali della campagna elettorale di Obama (anche se
Ha rischiato molto, chiedendo ai democratici di appoggiare un “bill” che non piace ai cittadini
la seconda, quella di una nuova era bipartisan, non si intravede da nessuna parte).
Obama dovrà avere l’intelligenza di farne uno dei suoi cavalli di battaglia, quando spingerà le campagne elettorali dei deputati “indecisi” con cui ha lungamente parlato la scorsa settimana. Un punto forte, in suo favore, è che - ora che la riforma sanitaria è passata - sarà in grado di far sentire ad alta voce la purezza della propria scelta morale. La stessa che ha funzionato così bene nel 2008. Quando i democratici hanno raggiunto il 216° voto alla Camera, hanno cantato “Yes, We Can!”. Oggi i democratici e la Casa Bianca hanno la speranza che, avendo dimostrato effettivamente di poter fare qualcosa, l’America cambi idea e li confermi alla guida del Congresso.
focus/Usa
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gamenti neppure-tanto-nascosti e tentativi di evadere dalle normali pratiche di un governo democratico. In una delle piste laterali, abbiamo assistito all’imbarazzante testimonianza dell’attorney general Eric Holder davanti a un sottocomitato della Camera, in cui si è capito perfettamente quando superficiale sia il suo impegno per garantire all’America protezione dai propri nemici. Nell’altra pista laterale, abbiamo visto la condanna quasi isterica da parte di autorità americane - come il vicepresidente Joe Biden e il segretario di stato Hillary Clinton - dopo il semplice annuncio, da parte del governo israeliano, di un permesso per la costruzione di case nel quartiere ebreo di Gerusalemme. Che scenata! Che farsa”
?
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Il diciotto Brumaio di Barack Bonaparte
Dalla tragedia di Johnson alla farsa di oggi, il tramonto del liberalismo moderno americano di William Kristol
opo il colpo di stato del 1851, Luigi Napoleone Bonaparte nipote del vero Napoleone - si auto-proclamò Napoleone III. Fu l’ascesa al potere di questo aspirante-grande-uomo che suggerì a Karl Marx il famoso incipit de Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte: «Hegel osserva che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia appaiono, per così dire, due volte. Si dimenticò di aggiungere: la prima volta come una tragedia, la seconda come una farsa».
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Il decennio degli anni Sessanta - la prima apparizione a tutto tondo del moderno liberalismo americano - fu sotto molti aspetti una tragedia. Fu certamente una tragedia per il liberalismo americano, che si staccò del tutto dal proprio precedente ancoraggio (almeno parziale) con il “common sense” e la tradizione americana. Fu, per un certo verso,
anche una tragedia per l’America. Ci sono voluti molti decenni di politiche conservatrici per liberarsi definitivamente dai danni prodotti dalla Great Society di Johnson, dalla debolezza post-Vietnam e dalle follie culturali degli anni Sessanta. E molti relitti di questa tragedia ancora non sono scomparsi.
La sinistra di oggi è una versione-fantasma di quella che hanno provato a cambiare gli Usa negli anni ’60 Ora assistiamo alla seconda apparizione del liberalismo anni Sessanta. Incarnato nelle politiche e nei personaggi dell’amministrazione Obama. Marx notava che nella Francia dei suoi tempi, circolava «soltanto il fantasma
della vecchia rivoluzione», producendo un «avventuriero» che rivendicava la propria discendenza dal grande Napoleone, ma che era soltanto una «caricatura del vecchio condottiero». Allo stesso modo, nell’America dei nostri tempi, ci troviamo di fonte a una versione-fantasma del liberalismo degli anni Sessanta, guidato da un uomo che è soltanto la caricatura dei vigorosi (anche raramente avevano ragione) uomini politici liberal che sognavano di rimodellare la nostra nazione.
La natura farsesca del liberalismo contemporaneo era del tutto evidente nel circo a tre piste che Washington ha ospitato la scorsa settimana. Nella pista centrale, abbiamo assistito alla drammatica inaugurazione della nuova legislazione sulla sanità da parte di Nancy Pelosi ed Harry Reid, riempita di “accordi speciali”, contabilità psichedelica, pa-
I candidati repubblicani alle elezioni di mid-term del 2010 dovrebbero tenersi da parte le registrazioni dei telegiornali della scorsa settimana per costruire su di esse la propria piattaforma elettorale. L’unica cosa che devono fare è promettere di opporsi alla “presunzione fatale” del liberalismo statalista, al “compiacimento fatale”del legalismo libertario e alla “perversità fatale” di chi vuole coccolare i nostri nemici e prendere a botte i nostri amici. A presiedere questo circo a tre piste dell’incompetenza liberal. c’era il presidente Barack Obama, che in confronto alla tragica e intensa figura di Lyndon Johnson è come Napoleone III in confronto al vero Napoleone. Abbiamo mai avuto, nella storia moderna americana, un paese con una mancanza di spessore così palese? Il che ci porta a un problema sero. L’America del 2010 non è la Francia del 1852. Il mondo è potuto sopravvivere alla farsa del governo parigino a metà del diciannovesimo secolo; anche se, in realtà, la debolezza e la follia di Napoleone III hanno di fatto causato la guerra franco-prussiana del 1870, che può essere considerata come uno degli eventi da cui sarebbero scaturite le premesse della prima guerra mondiale. Ma nell’America del 2010 un governo farsesco può provocare seri danni al proprio paese e al mondo intero. Potrebbe, il circo, terminare in tragedia? Potrebbe. Ma, fortunatamente, qui in America abbiamo un partito d’opposizione e un’opinione pubblica coinvolta nelle dinamiche della democrazia. In pochi mesi, queste due forze - insieme - possono spingere l’amministrazione verso politiche più responsabili, o almeno meno dannose. Il partito repubblicano guadagnerà certamente seggi alle elezioni di novembre. E sarà in grado di prevenire ulteriori danni, poggiando le fondamenta, non solo di un ritorno allo status quo pre-Obama nel 2013, ma di un vigoroso programma di riforme conservatrici. Se la nazione riuscirà a sopravvivere, senza troppi danni, ai prossimi tre anni, avremo una grande opportunità. Come scriveva Marx alla fine della sua polemica: «Quando il manto imperiale finalmente cadrà sulle spalle di Napoleone III, la statua di bronzo di Napoleone cadrà dalla colonna Vendôme». Il fallito esperimento dell’obamismo potrebbe, allo stesso modo, permetterci di rovesciare la statua del liberalismo contemporaneo dalla nostra piazza pubblica, per ricostruire la politica americana su basi più solide. O potremmo perdere questa occasione. In fin dei conti, una statua di Napoleone ancora è poggiata sulla cima della colonna Vendôme.
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n Italia può stupire, ma l’opposizione all’aborto negli Stati Uniti è oggi il tema cruciale della politica. Più dell’Afghanistan, più della crisi economica. E chi si oppone all’aborto è l’astro nascente del complesso firmamento politico americano, e proprio tra i democratici. Sono stati infatti i voti dei democratici anti-abortisti a permettere al presidente Obama di portare a segno la sua riforma della sanità. E ovviamente lo hanno fatto alle loro condizioni. Motivo per cui il vero e forse unico vincitore di questi giorni è il loro leader Bartholomew Thomas “Bart” Stupak. Per Obama infatti l’approvazione alla Camera della riforma sanitaria è un fatto storico e una grande soddisfazione, ma contempla anche alcuni aspetti negativi e molti rischi: alcuni democratici hanno votato contro, nessun repubblicano a favore, e nelle prossime elezioni di novembre le spese sanitarie potrebbero spingere a destra molti elettori, dato che i sondaggi dicono che solo il 38% degli americani è a favore della riforma. Per cui Obama canta vittoria, ma può pagare un prezzo alto. Mentre quasi nessuna controindicazione ha la vittoria di Stupak e della sua pattuglia di deputati risultata decisiva. Una dozzina i loro voti passati in extremis dal no al sì, dopo le assicurazioni contro l’aborto. E la riforma della sanità è stata approvata con una maggioranza di 219 voti contro 212, tre più dei 216 necessari. Facile fare i conti per vedere quanto abbia pesato il ruolo di Stupak.
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Il cattolico Bart Stupak è dal 1993 il deputato democratico del Michigan. Ha sempre appoggiato l’idea della riforma sanitaria di Obama, ma si è caratterizzato come fermo oppositore all’automatismo per il quale i fondi pubblici alla sanità sarebbero finiti a finanziare le interruzioni di gravidanza. Una posizione peraltro del tutto in linea cin quella della Chiesa cattolica, non ostile al principio della riforma sanitaria ma preoccupata per ogni eccesso liberal dell’Amministrazione Obama. Abbastanza in linea con il tema ratzingeriano dei “principi non negoziabili”, Stupak è riuscito a coagulare intorno a sé una decina di deputati democratici antiabortisti, e a far pesare in modo decisivo questa pattuglia, il cui voto contrario è stato superato in extremis con un accordo raggiunto solo domenica sera. Stupak e colleghi hanno ottenuto che nessuna assicurazione possa ottenere fondi federali per fornire coperture assicurative in tema di aborto. Un accordo che prevede un potenziamento dei controlli sui fondi federali, per evitare che questi possano essere impiegati in casi di aborto, e stabilisce dei limiti ai finanziamenti che erano compresi ma non esplicitati nel progetto di legge, e che invece ora saranno fissati in un ordine esecutivo del presidente Obama. Il testo della legge non cambia, ma con il suo ordine esecutivo il presidente Obama è come se sottolineasse che, in tema di aborto, non ci potranno essere ulteriori modifiche. «La riforma, per come è scritta, mantiene il bando al finanziamento pubblico dell’aborto, ma l’ordine esecutivo fornisce ulteriori salvaguardie per assicurare che lo status quo sia rispettato e che le restrizioni contro l’uso di fondi pubblici per l’aborto non siano aggirate», ha precisato il portavoce della Casa Bianca Dan Pfeiffer.
focus/Usa Decisivo, con i suoi deputati, per l’approvazione del testo più controverso dell’amministrazione
L’imprevedibile Bart Stupak, vero vincitore della riforma
La sua opposizione all’aborto lo ha fatto diventare un mito per tutti coloro che vedono nei valori etici la strada per la grandezza degli Usa di Osvaldo Baldacci i piedi è riuscito a tener fuori l’aborto dalla riforma ha scoperto che i suoi alleati antiabortisti, sul fronte repubblicano, non erano disposti a seguirlo. Nonostante l’emendamento che a suo tempo aveva aperto questo dibattito era stato firmato insieme da lui e dal repubblicano Pitts. Per i repubblicani le garanzie di Obama, «non valgono la carta sulla quale sono state scritte» e Stupak ha svenduto i suoi principi in nome dell’interesse del suo partito. Il suo futuro politico ora si giocherà su questo: se riuscirà a presentarsi come il vincitore che difeso la vita risultando decisivo ed essendo pronto a dare ulteriore respiro a questa politica, oppure se i suoi elettori di un distretto comunque conservatore lo accuseranno di aver ceduto sull’aborto, proprio lui che è stato l’ultimo degli irriducibili. Per lui, come per Obama, molto dipenderà dagli effetti concreti e visibili della riforma sanitaria, che si ripromette di allargare la copertura: dare l’assicurazione a 32 milioni di americani che attualmente non l’hanno, aiutare le famiglie povere e middle class a comprare una mutua dai costi accessibili, permettere ai giovani fino a 26 anni di restare sotto la copertura assicurativa dei genitori e agli anziani a pagare le medicine senza interruzioni, garantire una polizza ai malati cronici e a chi ha condizioni di salute pre-esistenti, impedire alle assicurazioni di scaricare chi si ammala. Il costo della riforma è comunque molto alto, 940 miliardi di dollari.
Per essere tornato dalla parte del suo presidente, Stupak deve ovviamente far fronte agli attacchi dei Repubblicani delusi. Molti di loro lo avevano eletto a nuova icona per la sua opposizione alla riforma in nome dei principi che portava avanti.
Ora lo accusano di aver svenduto quei principi. Ma stavolta in questo la loro posizione è debole. Stupak ha ricordato di essere “sempre stato a favore della riforma sanitaria” salvo il tema dell’aborto e di aver avuto assicurazioni dalla Casa Bianca che «le restrizioni contro il finanziamento pubblico degli aborti non saranno aggirate» e che sarà protetta «la santità della vita». «Oggi ha continuato - il vero vincitore è il popolo americano, che potrà contare su
Grazie al suo sforzo, il presidente si è impegnato a non spendere fondi federali per coperture all’interruzione di gravidanza un’assistenza sanitaria per tutti senza mettere a repentaglio la vita di bambini innocenti». Se ha un limite, la politica di Stupak è quella di non essere riuscita ad essere quel ponte bipartisan che l’America a parole insegue ma è sempre più lontana dal trovare. Per settimane Stupak è stato il baluardo del movimento pro-life, odiato dai democratici di mezz’America, ma quando puntando
Motivo che ha spinto un altro gruppo di democratici a opporsi, i “Blue Dogs” conservatori come Joe Tanner. Dal canto suo una vincitrice che si gode questo momento è la speaker Nancy Pelosi, che incassa anche i ringraziamenti di Obama. E Obama, che è nato nel 1961, si ricollega all’ultima grande riforma sanitaria americana, quella con cui Lyndon Johnson istituì Medicare nel 1965. I primi sondaggi dopo il voto indicano una sua crescita di popolarità, ma non è tanto facile che questo gli givi nelle prossime elezioni di mid-term. Intanto però Obama realizza una delle sue grandi promesse: se da un lato è solo il primo e controverso fatto concreto che è riuscito a realizzare in un anno e mezzo, d’altro canto uno dei suoi punti caratterizzanti l’ha comunque portato a termine. O quasi. Superato di misura lo scoglio della Camera, il testo del Senato andrà alla firma di Obama, mentre la legge di accompagnamento passerà al Senato per essere votata a maggioranza semplice. Ci potrebbero volere giorni o settimane e il risultato non è scontato: se dovessero esserci emendamenti, quel testo tornerebbe alla Camera per un nuovo voto.
focus/Usa
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sua irrilevanza e quel poco che riesce a esprimere per gli americani è ormai privo di interesse, della Cina, che si trastulla tenendo ben stretto in mano il bandolo dell’intricata matassa della crisi economica, va tenuto conto. Eccome devono tenerne conto! Allora, niente azione militare e niente ulteriori sanzioni. Cosa resta? Primo, sperare che Israele provveda in proprio a fare il “lavoro sporco”, e il raffreddamento di questi giorni delle relazioni bilaterali potrebbe anche avere una componente tattica. Secondo, cominciare a far buon viso a cattivo giuoco, rassegnarsi e cercare un modo di convivere anche con questa bomba. I segnali che arrivano dagli Stati Uniti, e non ultimo l’ambiguo messaggio di Barak Obama, sottotitolato in farsì, potrebbero far propendere l’osservatore esterno verso quest’ evenienza.
Oggi l’incontro fra Obama e il premier israeliano Benjamin Netanyahu
Vittoria in casa, ma sull’Iran si profila una sconfitta atomica E Hillary Clinton cerca di mediare con l’Aipac, la lobby filo israeliana e rilancia le sanzioni. Ma è solo uno specchietto per le allodole... di Mario Arpino toni più duri rispetto all’anno scorso usati dal presidente Barack Obama per gli auguri del Capodanno persiano non sono serviti a mascherare una sorta di rassegnazione. Continua a parlare di autoisolamento, di futuro migliore, di libertà e ad offrire dialogo e contatti diplomatici a tutto campo, ma in cuor suo è già convinto che prima o poi anche gli iraniani avranno la loro bomba. Solo allora, forse, le sue offerte di dialogo saranno accettate. Ma sarà una “trattativa”, cosa assai diversa da un “dialogo”. Finora, ogni offerta è stata recepita esclusivamente come un buon motivo per guadagnare tempo e avvicinarsi al risultato, che non deve essere lontano se ultimamente Ahmadinejad – più sdegnoso e arrogante del solito, quasi
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irridente – ha osato lasciare che le relazioni con gli Stati Uniti peggiorino ulteriormente, senza alcun timore.
Dopo aver tentato di far recedere Teheran, la Casa Bianca si prepara a gestire un Iran con tanto di bomba nucleare D’altro canto, le opzioni occidentali, e segnatamente quelle americane, si vanno riducendo ogni giorno. Di azione militare preventiva, con al Qaeda e associati sempre mobilitati, collegati da un muto ed invisibile telefono sen-
za fili e con tutti i guai ancora in giro per il mondo, non se ne parla più. Forse i piani ancora esistono, ma sono destinati a restare chiusi nei cassetti del Pentagono, mentre il tempo che passa li rende polverosamente inattuali. Di inasprimento delle sanzioni – da intendere come blocco delle forniture di petrolio raffinato e degli acquisti del greggio – per ora se ne può ancora parlare, ma resta una minaccia non credibile agli occhi iraniani. Se la Russia nei giorni scorsi ha finto di assecondare delle speranze in questo senso, per tentare di legare in qualche modo scudo antimissile e riduzione armi strategiche, la Cina non mollerà, e senza la Cina al Consiglio di Sicurezza non si delibera un bel niente. Mentre l’Europa ha già mostrato la
Basta qualche scorribanda tra la stampa e i siti americani per avere la netta impressione che ci sia già in atto – o sia appena iniziata – una sorta di preparazione dell’opinione pubblica all’avvento della “bomba iraniana”. La settimana scorsa liberal aveva già adombrata questa possibilità, commentando voci che circolano insistentemente in ambienti “esperti” di Washington circa uno strisciante cambio di strategia nei confronti dell’Iran. Adam B. Lowther, un analista dell’Air Force Research Institute, docente presso l’Air University di Maxwell, Alabama, all’inizio del mese scorso aveva preceduto tutti, sostenendo che forse non sarebbe poi un gran disastro per gli Stati Uniti se Teheran dovesse davvero riuscire a dotarsi della bomba. Se finora l’attuale politica presidenziale non ha portato da nessuna parte, allora – afferma – «se non ci sono piani credibili occorre cambiare ottica, e vedere i benefici che gli Stati Uniti potrebbero trarre da un Iran nucleare». Continua elencandone un certo numero, tra cui la cessazione dello stato di latente ostilità, una certa distensione dopo alcune decine di anni di braccio di ferro, un abbassamento del prezzo del greggio, la fine del ricatto all’Onu di Cina e Russia, un migliore rapporto con il mondo arabo sunnita, che certo avvertirebbe maggiori esigenze di protezione. Rincara la dose l’ultimo numero della rivista Foreign Affairs, che in copertina titola in rosso After Iran gets the Bomb, analisi su come Washington può limitare i danni della sfida nucleare iraniana. Gli autori, James M. Linsday e Ray Takeyeh - membri autorevoli del Council on Foreign Relations di Washington – concludono che, dopo aver tentato ancora di far recedere Teheran, è necessario prevedere il comportamento da tenere in caso di insuccesso. Secondo loro, «continuare con le pressioni senza una reale determinazione a punire le infrazioni è la ricetta giusta per un fallimento sicuro e per un medio-oriente più pericoloso e violento». Parrebbe davvero che la rassegnazione sia il sentimento prevalente, e che Barack Obama, pur senza dichiararlo, abbia già deciso di passare oltre e cominciare a studiare il caso peggiore. Ora incontrerà Netanyahu, ma di cosa effettivamente parleranno non lo sapremo mai.
mondo
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L’intervista. Con il 12,5 per cento delle preferenze ottenute, l’ex sessantottino punta entro il 2012 a sfidare Nicolas Sarkozy
«E io faccio una coop» Daniel Cohn-Bendit spiega il nuovo progetto politico: «I partiti sono morti» di Enrico Singer
PARIGI. E adesso che cosa fare? Come trasformare quel tesoro del 12,5 per cento dei voti dei francesi, conquistato sul campo, in una realtà politica stabile? Gli occhi di Daniel Cohn-Bendit s’illuminano. Non sono più quelli del giovane ribelle che, esattamente 42 anni fa - sì, anche allora era un 22 marzo - tenne a battesimo il movimento studentesco del ’68 in un’aula dell’università di Nanterre. Anche i capelli ormai hanno perso il rosso vivo che gli valse il soprannome di Dany le rouge. Ma l’entusiasmo è rimasto quello dei tempi dell’«immaginazione al potere». Ed anche il gusto di sorprendere e di coniare nuove formule. «Quello che dobbiamo fare oggi? Una cooperativa. Una cooperativa politica dove ogni elettore partecipa e conta con la forza del suo voto. La stagione dei partiti, dei loro stati maggiori lontani dalla gente, è finita. L’errore più grande sarebbe quello di non accorgersene e di affidare a un partito, un altro, l’ennesimo, la dinamica di rinnovamento che si è messa in moto. Ci porterebbe dritti al cimitero della politica che è già pieno di speranze deluse». Europe Ecologie, la nebulosa che raccoglie accanto
ai verdi, i delusi della sinistra e della destra, dall’antiglobalista contadino José Bové alla centrista Corinne Lepage, si deve strutturare. È la vera novità del panorama politica, e ora deve consolidarsi, deve crescere. Ma deve rimanere qualcosa di diverso. Con un obiettivo preciso, però: costruire già entro la fine dell’anno «una grande forza che si distingua dal Partito socialista, dal Fronte della sinistra e dal Modem di François Bayrou, per battere l’Ump di Sarkozy alle presidenziali del 2012». C’è anche una punta di autocritica nelle parole di
della gauche. È sempre la terza forza politica francese dopo Ps e Ump – «e questo è un risultato storico» - ma non bisogna perdere altro tempo. «Riconosco che, sotto la pressione delle scadenze elettorali, abbiamo rinviato la questione della forma da dare al nostro movimento.Tra semplice marchio elettorale e rete puramente virtuale, Europe Ecologie è rimasta un progetto che ciascuno interpreta a suo modo. Adesso dobbiamo dare vita a un corpo nuovo, a una forma politica inedita. Altrimenti la nostra critica all’irresponsabilità dell’immobi-
La democrazia «esige una organizzazione che rispetti la pluralità e, insieme, la singolarità delle sue componenti. Una biodiversità sociale e culturale che sia animata dalla vitalità delle sue idee» Cohn-Bendit. Europe Ecologie, nelle elezioni europee del giugno 2009, meno di un anno fa, aveva ottenuto il 16,28 per cento dei voti. Al primo turno delle regionali si è attestata quasi quattro punti più in basso. Al secondo turno ha contribuito in modo decisivo (anche se non calcolabile in percentuale perché i voti sono confluiti sul candidato unitario) alla vittoria
lismo di quelli che non fanno niente, si potrebbe ritorcere contro di noi». I mali di cui soffre la politica francese – e non solo quella – sono sotto gli occhi di tutti: astensionismo, populismo, clientelismo. «Anche queste elezioni hanno dimostrato che il fossato tra politica e società non smette di approfondirsi», dice Daniel Cohn-Bendit che lancia un ve-
ro e proprio appello già ripreso da televisioni e giornali. Parla di «divorzio democratico», di «logiche partitiche completamente sradicate che si autoalimentano» e di una società civile che è attiva, che ha grandi aspettative, ma che è «profondamente delusa dalla natura e dalla forma del potere che vine esecitato su di essa».
Il fatto è che i partiti, quando sono nati, erano dei reali luoghi di socializzazione, ma oggi non è più così. «Partiti di massa o avanguardie illuminate, rossi o verdi: questo è il mondo di ieri. Come delle belle macchine di
Formula 1, i partiti sono ancora capaci di correre, di sfidarsi tra di loro, ma girano sempre in tondo sullo stesso circuito». Questa è la sentenza senza appello di Dany le rouge. E il domani? «La democrazia esige una organizzazione che rispetti la pluralità e, insieme, la singolarità delle sue componenti. Una biodiversità sociale e culturale che sia direttamente animata dalla vitalità delle sue esperienze e delle sue idee. Ci vuole una specie di organizzazione capace di impollinare le idee, di trasportarle in altre parti del corpo sociale e di fecondarle». Saranno anche pas-
Le contromosse di Sarkò In arrivo un rimpasto di governo che faccia dimenticare la sbandata a sinistra di Nicola Accardo
PARIGI. La sconfitta è sonora, ma è una routine che si ripete da vent’anni, un voto sanzione che ha punito alle Regionali governi di destra e sinistra, da Mitterrand a Sarkozy passando per Chirac. Le similitudini con l’Italia non sono poche: Berlusconi dice che alle Regionali di fine marzo basta un successo oltre a quello scontato in Veneto e Lombardia per cantare vittoria, il segretario
dell’Ump Xavier Bertrand osa di più: «Rispetto al 2004 miglioriamo, avevamo due regioni e ora ne abbiamo tre». Oltre che all’Alsazia, unico fortino della destra nell’esagono, si riferisce all’Isola della Riunione e alla Guyana. In Francia metropolitana 21 regioni su 22 sono in mano al centrosinistra e non è una sorpresa. Nel 2004 la sinistra vinse 20 a 2 con il 50% dei voti contro il 36% della destra.
Ciò che sorprende, e preoccupa la maggioranza, è il nuovo risultato nazionale della coalizione rosa-verde: 54%, grazie al calo del centro e alla nuova forza degli ecologisti di Cohn-Bendit.
Secondo i sondaggi Sarkozy paga uno stile «poco presidenziale», più della metà dei francesi lo vorrebbe più concentrato, serio, elegante. E qui entra in gioco l’eleganza del suo nemico interno, Dominique de Villepin, che a noi può far pensare a Gianfranco Fini. L’ex primo ministro di Chirac, vincitore morale per la piena assoluzione nel processo Clearstream, ha colto l’attimo per l’annuncio: giovedì fonda un nuovo partito, «un movimento al servizio dei francesi», che recuperi i valori del gollismo e dia alla destra una più forte componente sociale. È il ritorno a una futura logica di coalizione che sostituisca il grande contenitore di maggioranza (coincidenza, ricorda il
mondo Ecologie potrebbe fallire. Il primo passo per costruire il partito-cooperativa è compiuto. Dalle colonne di Libération, ieri, l’eurodeputato verde ha proposto di dare vita ai «collettivi 22 marzo» che dovrebbero riunirsi su base regionale per studiare la forma definitiva del nuovo soggetto politico, la sua struttura e la sua strategia. C’è già anche un sito internet – www.europeecologie22mars.org – attraverso il quale tutti quelli che sono interessati all’avventura della cooperativa politica potranno collegarsi «per evitare ogni centralismo antidemocratico» e dire la loro. La missione dei collettivi – che fanno torna-
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re alla mente quelli del Movimento del ’68 – è temporanea: «Saranno una tappa transitoria verso la cooperativa alla quale dovranno cedere il posto», dice Cohn-Bendit che ha anche previsto la regola della «doppia appartenenza» ai collettivi e ai partiti, ai sindacati, o a qualsiasi altra organizzazione.
Ma proprio quello delle diverse origini potrebbe essere un problema, anzi, il vero problema da superare per arrivare alla nascita del nuovo partitocooperativa. Daniel Cohn-Bendit lo sa: anche nella sua famiglia politica – quella dei Verdi – non tutti sono d’accordo, come
Le diverse provenienze politiche dei suoi compagni non lo spaventano: «Non conta da dove veniamo, ma dove vogliamo andare. Tutti insieme verso un futuro migliore per la Francia»
sati quarantadue anni dal ’68, ma Daniel Cohn-Bendit non ha davvero perso la sua forza oratoria. In pratica, però, che cosa dovrebbe diventare Europe Ecologie? «Né un partito-macchina, né un partito-impresa. Preferirei che inventassimo insieme una cooperativa politica: una struttura capace di tradurre una tendenza in strategia. È necessario ripoliticizzare la società civile e, allo stesso tempo, civilizzare la società politica». In altre parole, il sogno di Cohn-Bendit è quello di «cambiare la politica per cambiare politica». Se non si realizzerà, anche l’esperimento di Europe
Pdl) voluto da Sarkozy. E visto il crollo del MoDem di François Bayrou (ai francesi non è piaciuto il centro che non si schiera), il ministro della difesa Hervé Morin ha seguito a ruota de Villepin: il suo Nouveau Centre vuole più autonomia e nel 2012 potrebbe presentarsi alle presidenziali con un proprio candidato.
A Sarkozy resta solo il rimpasto, lo scossone alla squadra di governo che segue solitamente le sconfitte elettorali. Nella tradizione della Quinta Repubblica il primo a saltare è il primo ministro, che almeno fa la mossa di presentare le dimissioni. Invece François Fillon è l’unico che non si discute, apprezzato da sei francesi su dieci, e dalla mattina di ieri ha guidato le consultazioni per un «rimaneggiamento tecnico», come lo ha definito l’Eliseo prima della sconfitta annunciata. La strategia è quella di accontentare gli scontenti, assoldando un leader della corrente chirachiana (il sin-
il numero due di Europe Ecologie, Jean-Vincent Placé, o come Cécile Duflot che già si considera la futura candidata alle presidenziali del 2012 e che non ha firmato l’appello. Ma Dany le rouge rimane ottimista. «Si può essere verde, socialista, comunista, o che ne so io ancora, ed essere comunque parte di questo nuovo soggetto. Come sempre non conta tanto da dove veniamo, ma dove vogliamo andare insieme. È lo spirito stesso del movimento che fa la nostra forza, la volontà di costruire un bene comune alternativo. Finora Europe Ecologie si è accontentato di essere un oggetto politico piuttosto non qualificabile. La sfida della maturità è la sua trasformazione in un soggetto politico autonomo che superi le vecchie culture politiche». Un’avventura che fa brillare ancora gli occhi a Daniel Cohn-Bendit. Ma che è tutta da costruire.
Martine Aubry, Cecile Duflot e Marie-George Buffet. Al fianco della Segretaria socialista si sono strette l’energica verde di Europe Ecologie e l’implacabile ex-comunista, che hanno di fatto vinto le regionali. In alto, Daniel Cohn Bendit daco di Troyes François Baroin, ex ministro dell’Interno e ora destinato al bilancio), un fido collaboratore di de Villepin (Georges Tron, nuovo viceministro alla funzione pubblica) e di tagliare alcuni sottosegretari simbolo della politica di “apertura”che ha snaturato la destra secondo i contestatori interni: dovrebbero partire Fadela Amara, viceministra per le banlieues; Martin Hirsch, Alto commissario alla Solidarietà e ai giovani; Valérie Letard che dirige le politiche verdi. I primi due sono socialisti, la ter-
ma, bisogna concludere le riforme, con il rischio di non calmare «l’esasperazione di numerosi elettori di destra» descritta da Le Figaro: «Alcuni non capiscono l’apertura a sinistra e l’escalation ecologista rappresentata dalla tassa sul carbonio, altri il cumulo di riforme non sufficientemente spiegate».
Sulle riforme è intervenuto l’ex primo ministro Jean-Pierre Raffarin, che ha esplicitamente chiesto «un voto di fiducia», mentre il capogruppo all’Assemblea Nazionale Jean-François Copé guida la rivolta dei deputati proprio contro la tassa sul carbonio: «Ha senso solo su scala europea». Sarkozy, che aveva paragonato l’istituzione della tassa all’abolizione della pena di morte, dovrà probabilmente arrendersi alla volontà del Parlamento, allentando per la prima volta una centralizzazione del potere spesso sotto accusa. Con le sue iniziative ha dato un forte impulso eco-
Tra i primi a saltare:Amara, viceministro per le Banlieues, Hirsch,Alto commissario alla Solidarietà, e Letard che dirige le Politiche verdi. Poi toccherà a Xavier Darcos, ministro del Lavoro za ecologista. L’unica vittima illustre del rimpasto è invece Xavier Darcos, ministro del lavoro, severamente battuto in Aquitania con un misero 28% di preferenze. Poco adatto a portare avanti la riforma delle pensioni, è stato sostituito da Eric Woerth, attuale ministro del bilancio. Prima del vero scossone, insom-
logista al governo, ma gli elettori verdi si sono raccolti attorno a Cohn-Bendit. Ha rafforzato le politiche assistenziali (l’Rsa, reddito di solidarietà attiva, ideato dal socialista Martine Hirsch), ma il segretario socialista Martine Aubry ha convinto i francesi che bisogna difendersi da un governo neoliberista. Ha infine promosso il dibattito sull’identità nazionale, rafforzando paradossalmente la destra politicamente scorretta: il Front National di Jean-Marie Le Pen chiude con l’8% e supera il 18% in ben nove regioni.
È la dura legge della politica: ciò che ha funzionato nel 2007, che ha fatto di Sarkozy un catalizzatore di voti e di proposte politiche tricefale (ecologia, statalismo, sicurezza), ora non dà più i frutti e potrebbe non funzionare nel 2012. I favoriti dei francesi per l’Eliseo, sondaggi alla mano, sono il presidente dell’Fmi Dominique Strauss-Kahn (28%), socialista, e, manco a dirlo, Dominque de Villepin, con il 16%. Sarkozy è solo terzo, al 14%.
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Onu. Il grido d’allarme di Ban Ki-moon per la Giornata mondiale dell’H2O el mondo, nonostante sembri molto strano, «muoiono più persone di acqua a rischio che di tutte le forme di violenza, inclusa la guerra». A ricordarlo, nella Giornata mondiale dell’Acqua proclamata dall’Onu, è il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon. «L’acqua è fonte di vita e rappresenta il nesso che lega tutti gli esseri viventi su questo pianeta», ha osservato Ban nel messaggio inviato in occasione della Giornata. Le nostre indispensabili risorse di acqua, ha aggiunto, «hanno dimostrato di avere un alto grado di elasticità, ma sono sempre più minacciate e vulnerabili. Il crescente bisogno da parte della popolazione mondiale di acqua per alimentazione, materie prime ed energia, è sempre più in competizione con il fabbisogno di acqua che la natura ha per sostenere ecosistemi in pericolo e processi naturali dai quali dipendiamo».
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Giorno dopo giorno, sottolinea il segretario generale Onu, «noi versiamo milioni di tonnellate di acque reflue non trattate e di rifiuti industriali e agricoli nel sistema idrico mondiale. L’acqua pulita scarseggia e diventerà ancora più carente con l’inizio del cambiamento climatico. E i poveri continuano a patire soprattutto a causa di inquinamento, carenza idrica e mancanza di igiene adeguata». Il tema della Giornata Mondiale dell’Acqua di quest’anno - “Acqua Pulita per un Mondo Sano” - evidenzia come «le risorse d’acqua siano a rischio in quantità e in qualità». Secondo l’ex ministro degli Esteri sudcoreano, «muoiono più persone di acqua a rischio che di tutte le forme di violenza, inclusa la guerra.
L’acqua (mancante) uccide più della guerra E intanto l’India fa causa alla Coca Cola, che le distrugge tutte le falde acquifere di Vincenzo Faccioli Pintozzi
Obiettivi di sviluppo del millennio, cerchiamo di proteggere e amministrare in maniera sostenibile le nostre acque, per i poveri, i più vulnerabili e per tutte le forme di vita sulla Terra». Il messaggio sembra essere stato recepito e messo in pratica dallo Stato meridionale indiano del Kerala, che ha
Gli obiettivi del millennio prevedevano di ridurre del 50% entro il 2015 il numero di persone che non hanno accesso all’acqua Queste morti sono un affronto alla nostra umanità e minano gli sforzi di molti Paesi nel realizzare il loro potenziale sviluppo». Per il segretario generale Onu, «il mondo ha la conoscenza per risolvere queste sfide e diventare un migliore amministratore delle risorse idriche». Non a caso, insiste, «l’acqua è al centro di tutti gli obiettivi di sviluppo». Il diplomatico conclude il suo messaggio con un appello: «Nel mezzo del Decennio internazionale per l’Azione e in vista del vertice sugli
chiesto alla Coca Cola di pagare un indennizzo di 2,6 miliardi di rupie (oltre 352 milioni di euro) per aver prosciugato e inquinato i pozzi acquiferi dove funzionava un suo impianto di imbottigliamento con danni all’agricoltura e alla salute pubblica. Lo riferisce l’agenzia indiana Pti. La compagnia statunitense dal carattere multinazionale ha però respinto categoricamente le responsabilità imputategli. La richiesta, spiega l’agenzia, è contenuta nelle conclusioni di un rapporto di un
Ecco le mosse per la prevenzione delle falde
Prima di tutto, la qualità NEW YORK. La qualità dell’acqua, da cui dipende la vita di miliardi di persone nel mondo, e l’equilibrio degli ambienti naturali sono i temi della Giornata mondiale dell’acqua, che si celebra ogni 22 marzo dal 1993. Perché una Giornata dell’acqua? È stata adottata dall’Assemblea generale Onu nell’anno del Summit della terra. Tutti gli Stati sono invitati a condurre azioni di sensibilizzazione. «La nostra esistenza dipende dal modo in cui proteggiamo la qualità delle nostre risorse di acqua», afferma l’Onu. Secondo l’Onu, la qualità dell’acqua si deteriora ovunque nel mondo, in ragione soprattutto dell’urbanizzazione dovuta alla crescita demografica, dei rifiuti di organismi patogeni e di prodotti chimici che provengono dalle industrie, dell’u-
so di concime e di antiparassitari in agricoltura. Anche i cambiamenti climatici, in particolare l’aumento delle temperature e le modifiche del flusso dei fiumi, hanno e avranno un impatto sulla qualità dell’acqua. L’87% della popolazione mondiale ha accesso all’acqua potabile, secondo una relazione congiunta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dell’Unicef. Più di un terzo di quelli che non vi hanno accesso vivono nell’Africa subsahariana. Inoltre, il 39% della popolazione mondiale non dispone di impianti sanitari di base. Ogni giorno 2 milioni di tonnellate di acque di scarico ed altri rifiuti si infiltrano nelle falde freatiche, e le malattie legate alla cattiva qualità dell’acqua sono 4 miliardi di casi ogni anno.
comitato di esperti incaricato di valutare i danni causati dall’impianto di imbottigliamento di Plachimada nel distretto di Palakkada, chiuso nel 2005 dopo una dura campagna di protesta dei contadini e degli ambientalisti.
Le nuove accuse contro la multinazionale sono state rese note ieri, proprio in coincidenza con il giorno in cui si celebra la Giornata Mondiale dell’Acqua. Il governo del Kerala, una roccaforte dei comunisti indiani, dovrà ora decidere se intraprendere un’azione legale contro la Hindustan Coca Cola Beverages Limited, filiale del colosso americano che insieme alla rivale Pepsi si spartisce il ricco mercato delle bollicine. Secondo il rapporto, la fabbrica della Coca Cola avrebbe creato una grave crisi idrica nell’area e contaminato le falde a causa dei reflui contenenti sostanze tossiche come cadmio, piombo e cromo. La multinazionale ha smentito le accuse e respinto il contenuto del rapporto citando altri studi del governo locale in cui si esclude ogni responsabilità per l’inquinamento prodotto dallo stabilimento nei sei anni in cui è stato in funzione. In ogni caso, comunque si concluda questa vicenda giudiziaria, è un modo efficace per sottolineare l’importanza delle risorse idriche per lo sviluppo delle popolazioni locali. Nella completa inutilità delle Giornate mondiali decise dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, quella sull’acqua potrebbe aiutare alcune nazioni a mettere in pratica delle strutture politiche e sociali in grado di garantire che il liquido arrivi a tutti. È di questi giorni, ad esempio, la notizia della disastrosa carestia che ha colpito il territorio cinese. Gli obiettivi del millennio sulla questione prevedevano di ridurre del 50 per cento entro il 2015 il numero di persone che non hanno accesso all’acqua potabile o non dispongono di impianti sanitari di base. Questo obiettivo dovrebbe essere raggiunto per l’accesso all’acqua potabile ma non lo sarà, e di molto, per gli impianti sanitari. L’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ritiene che questo doppio obiettivo rappresenterebbe un guadagno annuale di 84,4 miliardi di dollari in termini di tempo, produttività, economie di bilancio dei servizi nazionali sanitari. Ma ci sono posti nel vasto mondo dove è meglio mantenere lo status quo.
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Lo storico leader nepalese ha sconfitto la monarchia
Nella ricca regione petrolifera vince l’ex premier laico
Centomila persone in fila per l’ultimo addio a Koirala
Kirkuk, la vittoria di Allawi sui curdi
KATHMANDU. Decine di mi-
BAGHDAD. Prima delle elezioni parlamentari del 7 marzo non vi erano dubbi su quale fazione politica dominasse il mix etnico di una delle circoscrizioni più importanti in Iraq, Kirkuk e la sua provincia di Tamin. Erano i due partiti storici della vicina regione semi-autonoma del Kurdistan: il Partito Democratico del Kurdistan (Pdk) di Massud Barzani, presidente della regione, e l’Unione Patriottica del Kurdistan (Adk) del presidente iracheno Jalal Talabani. Ora che il conteggio dei voti ha superato il 92%, lo scenario appare molto differente. Data alla vigilia per favorita, la Kurdistan Alliance (che raggruppa Pdk e Adk) è stata scalzata nella provincia di Ta-
gliaia di persone hanno partecipato ai funerali dell’ex premier Girijia Prasad Koirala, storico fautore della democrazia e leader del Partito del Congresso, morto il 20 marzo scorso all’età di 86 anni per attacco cardiaco. Il suo corpo è stato cremato nel tempio di Pashupatinath (Kathmandu) secondo il tradizionale rito indù alla presenza di tutte le autorità politiche Paese. Prima dei funerali la salma è stata esposta per un giorno presso il Dasarath Stadium di Kathamandu, per consentire a tutta la popolazione l’ultimo saluto. Presidente del partito del Congresso nepalese, Koirala ha guidato il governo dal 1991 al 2008, ricoprendo per sette volte l’incarico di Primo ministro.
La sua figura diviene nota in tutto il mondo nel 2006 quando all’età di 83 anni si mette alla testa delle grandi manifestazioni di protesta che costringono l’autoritario re Gyanendra a ridare un ruolo politico al parlamento. Dopo la deposizione del re Koirala diventa presidente ad interim e fino al 2008 guida il Paese nel passaggio verso la democrazia. Nel maggio 2008 si dimette per consentire la formazione di un nuovo governo e il reintegro
Costituzione ad hoc firmata Erdogan Riforma della magistratura e misure anti-chiusura dei partiti di Marta Ottaviani
ISTANBUL . L’esecutivo islamico-moderato presenta la bozza della nuova Costituzione e in Turchia scoppia il putiferio. Ieri mattina il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha cominciato a incontrare i capi dei gruppi parlamentari per presentare il testo provvisorio della nuova legge madre dello Stato turco, che dovrebbe (il condizionale è quanto mai d’obbligo) andare a sostituire quella del 1982, figlia del colpo di stato del 1980 e quindi di ispirazione militare. La nuova bozza è stata presentata ai giornalisti nella mattinata da Cemil Cicek, vicepremier e portavoce del governo, già ministro della Giustizia nella precedente legislatura. Proprio Cicek ha sottolineato nella sua introduzione la necessità di cambiare una Costituzione che ormai ha fatto il suo corso, per adeguare il Paese all’Unione Europea e munirlo di «alti standard democratici». Molte novità rispetto alle anticipazioni della vigilia. Per prima cosa l’intervento sul testo è molto più corposo di quello annunciato. Non saranno 13 gli articoli fra emendati e nuovi, ma ben 26, per la precisione 23 definitivi e 3 transitori. Gli aspetti su cui si concentra principalmente la nuova carta costituzionale sono la riforma della magistratura, misure più severe contro la chiusura dei partiti e sottoporre al giudizio del tribunale civile anche i militari, soprattutto gli esecutori del golpe del 1980. Tutte cose che daranno seriamente fastidio alla parte più laica dello Stato, abituata a vedere nella magistratura e nei militari due sorte di garanti dello Stato moderno fondato da Mustafa Kemal Ataturk, contro il rischio di deriva islamica impersonato, secondo questa parte, dal governo di Recep Tayyip Erdogan.
modo forte, dicendo di essere «il primo obiettivo» delle riforme di Erdogan e che questa bozza costituzionale rappresenta «un passo per occupare la magistratura». Fra il coro di dissensi, da registrare anche la voce del Chp, il Partito repubblicano del Popolo di orientamento laico e maggiore forza dell’opposizione. Il suo segretario, Deniz Baykal, ha detto che non è una Costituzione per il Paese, ma una costituzione per l’Akp (il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo guidato da Erdogan). Il portavoce del partito, Hakk\u00FD Suha Okay, ha chiosato secco alla Cnnturk: «Il Chp non si siederà al tavolo costituzionale come aveva già annunciato».
Al momento non si sa ancora che cosa abbiano detto gli altri due esponenti dell’opposizione: il Partito curdo per la pace e il Mhp, il Partito nazionalista. Difficile che Erdogan possa mettere d’accordo entrambi, viste le posizioni diverse da cui partono nei confronti della questione curda. Intanto la conta dei voti è già partita. Al premier perché il pacchetto sia approvato servono 367 “sì” e al momento ha solo i 340 del suo partito. Alcuni quotidiani hanno scritto che Erdogan ce la potrebbe fare, seppure per il rotto della cuffia. Secondo altri il verdetto verrà dato dalle urne. Se infatti la riforma non passerà la prova del parlamento, a decidere sarà il popolo turco tramite referendum, verosimilmente entro luglio. Un’eventualità che preoccupa gli analisti, non solo per il livello a cui arriverà lo scontro politico durante la campagna referendaria, ma anche per le ripercussioni che avrà sulla tenuta interna del Paese, anche se un sondaggio ha dimostrato che il 70% dei turchi è favorevole a una costituzione più moderna. Del resto la riforma costituzionale era il fiore all’occhiello del programma elettorale di Erdogan nel 2007, quando strappò un consenso quasi plebiscitario del 46,6%. L’anno prossimo ci saranno la nuove consultazioni e il primo ministro vuole arrivarci con la nuova Carta costituzionale in vigore, costi quello che costi.
Affinché il pacchetto sia approvato al premier servono 367 “sì” e al momento ha solo i 340 del suo gruppo, l’Akp
nella politica degli ex ribelli maoisti, principali autori della rivolta contro re Gyanendra. Fino alla morte resta una figura di riferimento per il processo di pace tra maoisti ed esercito, tutt’oggi in corso. Ram Baran Yadav, attuale presidente del Nepal, afferma: «Questa è una grave perdita per il Paese. Grazie alla sua guida il Paese si avviato verso il processo di pace. Dobbiamo fare tesoro della sua lezione per portare il Nepal verso nuovi sbocchi». Tra i messaggi di cordoglio anche quelli della comunità internazionale e del premier indiano Manmohan Singh. Questi ha ricordato Koirala come un «leader per le masse e un vero uomo di Stato».
La battaglia si presenta lunga e su argomenti di importanza capitale. Uno degli articoli che verranno emendati riguarda infatti la composizione dell’Hsyk, il Consiglio Superiore della Magistratura, le cui regole per l’elezione dei 19 magistrati che lo compongono verranno cambiate. L’istituzione ha già reagito in
min dalla formazione laica Blocco iracheno, dell’ex premier Iyad Allawi. Se il sorpasso (di appena 3mila voti) verrà confermato, per la prima volta la popolazione turcomanna e araba avranno una voce politica più forte. Di contro, uno scenario del genere complicherebbe le speranze curde di annettere la città ricca di petrolio al loro territorio. I politici turcomanni e arabi - che per la prima volta hanno corso per lo più sotto un unico ombrello, quello del Blocco iracheno - non hanno mai nascosto che fosse questo il principale obiettivo della loro agenda elettorale nella zona. Non solo l’alleanza turcomanna-araba, ma anche una dispersione di voti a favore del nuovo partito curdo d’opposizione Goran avrebbe contribuito all’indebolimento di “Kurdistania”, come viene chiamata la coalizione di Adk e Pdk.
Kirkuk viene considerata una bomba a orologeria data l’importanza petrolifera che riveste, “arabizzata” per questo da Saddam e ora oggetto di un ritorno massiccio della popolazione curda, che la rivendica come parte propria. Secondo gli analisti, qualunque sia l’esito del voto, le comunità sconfitte non accetteranno senza proteste il verdetto delle urne.
cultura
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Riletture. L’immortale vicenda del Moro di Venezia ha ispirato numerosi film, pièce e adattamenti musicali in virtù di una straordinaria ricchezza
“O” come Otello L’identità violata e lo spirito tragico: ecco perché l’opera del Bardo è molto di più che un ”dramma della gelosia” di Franco Ricordi a tragedia del “Moro di Venezia” (1604) è senza dubbio uno dei maggiori successi teatrali di ogni tempo. Anche per le sue riscritture, nella lirica e poi nel cinema. In musica ricordiamo la versione di Rossini (1816), bella, nobile e ariosa, ma soprattutto – e certo ad altri livelli drammatici – quella di Verdi (1887), che per alcuni è la più grande fra le sue opere. Almeno una decina di film, tra cui quello di Welles, ma è anche assai significativo come Otello rimanga un testo base per tutti i più grandi teorici teatrali del Novecento, in particolare per Stanislavskij. Quasi che la disperazione del Moro rappresenti un’essenziale crisi di identità, un fulcro per la stessa quintessenza dell’attore.
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E certo, al proposito non si può non riferirsi subito al suo alter-ego rivale, il grande “regista” di tutta la situazione, Iago. Questi, che ordisce tutta la trama, si presenta subito con una celebre battuta che può considerarsi l’essenza della recitazione e degli attori di ogni tempo: «I am not what I am», dice Iago, «io non sono quel che sono». Un’affermazione che risulta fondamentale per comprendere l’evoluzione della vicenda: Iago non ha raggiunto il grado di luogotenente, come aveva fatto richiedere a Otello; a lui è stato preferito un rampante fiorentino, tale Michele Cassio, che a suo dire non ha mai guidato una squadra militare. Così l’unico motivo per il quale Iago segue Otello nelle guerre contro i Turchi è quello della vendetta, come esplicitato nella prima scena al povero Roderigo, anch’egli innamorato di Desdemona, certamente uno dei caratteri più penosi di Shakespeare. Si avverte, alle spalle di tutta la vicenda che il Bardo trasse da una novella dell’italiano Giraldi Cinthio, l’eco portentosa della grande battaglia di Lepanto (1571), dove la Santa Lega Cristiana sconfisse la
flotta del turco Mehmet Alì Pascià; una battaglia epocale, guidata dal 25enne Don Giovanni d’Austria, alla quale prese anche parte l’autore del Don Quijote, Miguel de Cervantes Saavedra. Iago consiglia Rode-
Anche qui suona il leitmotiv di tutta la problematica shakespeariana: l’indigenza di essere posta da Amleto
rigo di seguirlo, sicuro che l’affascinante Desdemona, in qualche maniera, cederà alle sue lusinghe. La bellissima e giovane veneziana, figlia del senatore Brabanzio, alla quale aspiravano tanti bei partiti, si è coniugata con il non più giovane e negro Otello. Tutto ciò ha creato uno scandalo per Venezia, e in particolare l’ira di Roderigo e ancor più la disperazione del padre della ragazza. Tuttavia la ragion di Stato ha prevalso, nel senso che Otello è stato convocato dal Senato in piena notte, essendo lui l’unico uomo in grado di poter contrastare l’offensiva turca su Cipro.
E così, nonostante le proteste dell’anziano senatore, il Doge affida senz’altro al valoroso Moro le sorti della Repubblica; questi, pur fresco di nozze, accetta col dovere del soldato fedele alla Serenissima per la quale è in guerra da quando aveva l’età di 8 anni. «Sorvegliala Moro, ha tradito suo padre, potrebbe tradire te». Queste le ultime parole di Brabanzio prima che tutti salpino sull’Adriatico.
E così da una concitata notte veneziana la vicenda si sposta nella selvaggia isola di Cipro, in cui vediamo già approdati
Iago, sua moglie Emilia, Cassio e Desdemona. Tutti sono in attesa di Otello, che arrivato trionfalmente annuncia che la
Nella foto grande, un celebre scatto tratto da “The tragedy of Othello” di Orson Welles (1952). Nella pagina a fianco, in basso, un’illustrazione di “Life”. Tra le più note opere di Shakespeare, la vicenda del Moro di Venezia prende le mosse da una novella italiana
battaglia è vinta e la guerra finita (il celebre Esultate nella versione verdiana). Ma qui inizia la ragnatela di Iago, furente per il grado di alfiere, tanto più machiavellico e consapevole delle debolezze del suo padrone. È difficile immaginare a quei tempi che un uomo di colore potesse raggiungere tali successi politici e militari.Tanto più è evidente che lo straordinario physique du role di Otello sia determinante nei suoi rapporti con gli altri: tutti temono Otello, sotto l’aspetto sessuale il Moro rappresenta – e non solo per Iago – un concorrente inimitabile. E l’aver conquista-
to una così giovane e bella fanciulla è anche motivo di eccitazione per tutti gli altri, come si evince dalla scena in cui Iago, insieme a Cassio e gli altri, brinda “al loro letto”. Ma tale brindisi servirà anche a ubriacare Cassio e a farlo destituire dal grado. Un primo passo avanti. E proprio mentre Cassio “ben consigliato” da Iago va a perorare la sua causa presso Desdemona, ecco che il diabolico alfiere comincia ad istillare il seme del sospetto nell’orecchio del Moro. Sarà pur vero che Iago è bravissimo nell’insinuazione che, come un piccolo virus, diviene vera e propria malattia mentale per il prode Otello. Ma ciò non ha impedito di poter criticare l’eccessiva credulità dell’esperto generale, il fatto che alla fine immanca-
cultura Venezia, Ludovico, e si meraviglia dello stato in cui trova il generale (che davanti a lui ha picchiato Desdemona), Iago gli risponde con forte ma non casuale ironia: «è quello che è», quasi a voler proclamare la propria superiorità intellettuale, lui che si è autodefinito all’opposto del Dio del Nuovo Testamento, che afferma appunto «Io sono colui che è».
In questo senso Iago è davvero diabolico, e non a caso si compiace di agire evocando la “divinità infernale”: «I demoni, prima di condurre a perdizione, tentano prima con visioni di paradiso». Otello, nel suo sprofondare prima nella gelosia, poi nell’epilessia e nella follia omicida, ha letteralmente “perduto sé stesso”, in una fortissima “crisi del suo essere” investita da una corrente gelida come quella del «Mar Pontico che si rovescia irreversibilmente verso la Propontide e l’Ellesponto». Il supposto tradimento, l’idea che Desdemona l’abbia ingannato proprio con Cassio che a suo tempo era il tramite delle loro corrispondenze d’amore, sprofonda il valoroso generale africano adottato dalla Serenissima in una crisi esistenziale da cui non potrà mai più riprendersi, se non col suicidio finale. E qui subentra pure l’elemento più magico, di questa pièce che certo ci appare come la più eso-
bilmente rischi di sembrare davvero troppo stupido, troppo manovrabile anche per essere una persona che assurge a tali onori di carriera.
Qual è dunque la realtà? Proponiamo di ritornare a monte, a quella “crisi dell’essere” di cui Iago si è fatto “alfiere” in ogni senso. E proviamo ad applicarla anche al protagonista che, all’apice della sua carriera e vicenda esistenziale, viene completamente distrutto. Perché Otello cade così semplicemente in trappola? L’unico motivo che ci può convincere è proprio il leitmotiv di tutta la problematica shakespeariana: quella che viene espressa con rigore filosofico da Amleto, ma vissuta in maniera altrettanto forte e decisiva da quasi tutti i più impor-
tanti personaggi del Bardo: l’indigenza di essere. Otello viene colpito nel proprio “essere”, in quella maschera di dramatis persona che tutti noi recitiamo nel gran teatro del mondo, e che come scrive Sartre proprio nel suo saggio L’essere e il nulla siamo sempre “lì lì per perdere”. Qui è la straordinaria modernità del testo shakespeariano, che in tal senso anticipa nettamente le rivoluzioni teatrali di Pirandello (che ha tematizzato la gelosia come sentimento più che mai fondamentale per tutto il suo “gioco delle parti”) e pure dell’esistenzialismo teatrale. Non a caso, quando arriva a Cipro il delegato di
terica fra le opere del Bardo. Non è casuale che la sua geografia si sposti verso l’Africa, e in maniera particolare verso l’Egitto, dove il mondo magico conosce i suoi primordi. È forse dalla filosofia dell’egiziano Plotino che Shakespeare raccoglie le suggestioni più vicine alla magia, tanto che l’emblematica vicenda del “fazzoletto” viene fatta risalire proprio da lì: Otello racconta infatti a Desdemona che quel fazzoletto che lei non trova più (glielo ha rubato
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Iago, in verità) gli fosse stato donato da sua madre; alla quale lo aveva dato una grande maga egizia; che a sua volta le aveva predetto di non perdere mai quel velo, qualora si fosse sposata, poiché in tal caso avrebbe perduto la fedeltà del proprio consorte. Così, questo innocuo ed evanescente fazzoletto ricamato, diviene il simbolo di un amore che si è incrinato, ovvero della stessa impossibilità dell’amore nel matrimonio. Perché, non dimentichiamolo, di matrimonio si sta parlando: Otello e Desdemona sono forse la coppia simbolo della “impossibilità matrimoniale”, di un amore che trova proprio nella vita coniugale la sua più assoluta e tragica contrarietà. E di impossibilità comunicativa si tratta, allorché Desdemona alla fine viene interrogata da Otello, non è nemmeno in grado di rispondere: lei, che ha sfidato la società veneziana e l’ira di suo padre, lei che si è dimostrata donna generosa e ardimentosa. Eppure, di fronte alla confessione che potrebbe scagionarla, lei non parla più; e anche in punto di morte afferma di non essere stata uccisa da Otello, ma da sé stessa. Che cosa provoca questa impossibilità di dialogo – tanto che è stata scritta anche una pièce dal titolo Se tu avessi parlato, Desdemona – se non una profonda quanto indefinibile crisi comunicativa fra marito e moglie? Il linguaggio di Desdemona non è più lo stesso, e lei nel IV e V atto diviene una sorta di intransigente eroina del bene e della verità, anche se non saprà far valere la propria. L’esatto contrario di Emilia, la moglie di Iago, che vessata e umiliata dal marito diviene colei che “rovina il copione” al subdolo alfiere. Era stata infatti lei a trovare il fazzoletto che per caso Desdemona aveva lasciato cadere, e istigata da Iago l’aveva tenuto nascosto.
Ma alla fine comprende perfettamente tutto l’intrigo, e proprio per questo viene uccisa da Iago che, ormai scoperto, verrà fermato e arrestato: e dopo che Otello evocando, un emblematico episodio anticristiano occorso in Aleppo crudelmente si uccide, tutti si rivolgono al diabolico alfiere interrogandolo sul perché avesse ordito l’orribile trama. E non casualmente lui risponde con la stessa battuta finale di Amleto, vale a dire con il silenzio: «Non chiedetemi nulla, sapete quel che sapete, d’ora in avanti non aprirò bocca».
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Emergenza Cile: esserci per valutare e avviare gli interventi di domani Solidarietà italiana nel mondo lancia una campagna di raccolta fondi per realizzare interventi a favore delle popolazioni della costa del Pacifico. Decine di piccoli villaggi, centinaia di famiglie, migliaia di persone: pescatori, piccoli imprenditori, artigiani, venditori di pesce e ristoratori che hanno perso tutto a seguito dell’onda di tzunami che si è abbattuta sulla costa subito dopo il terremoto. Di fronte ai grandi numeri della ricostruzione e agli interventi sulle principali infrastrutture colpite dal sisma che - certamente - il governo cileno e in grado di affrontare con l’aiuto della comunità internazionale, le vicende umane di una parte della popolazione colpita da drammi personali di elevata intensità rischiano di sfuggire non solo alla cronaca ma anche alle strategie di aiuto. Essere al fianco dei pueplitos locali, per condividere le strategie di intervento e ricostruzione, evitando di imporre priorità fuori dagli interessi delle comunità, sostenendo lo sforzo di quanti vogliono continuare a vivere e lavorare nei luoghi dove hanno sempre vissuto, questo significa mettere a disposizione delle autorità locali la rete di competenze e di opportunita che il Cosv può offrire. Questa è la nostra priorità oggi: esserci per valutare e avviare gli interventi di domani.
Ufficio Stampa Cosv
DONNE TIGRI E MASCHI PIGRI Un sondaggio pone in rilievo che gli approcci tra i due sessi sono sempre più difficili, perché l’uomo si trova oggi di fronte a donne aggressive e poco femminili. Questa la fotografia scattata dal sondaggio dell’Accademia internazionale delle discipline analogiche. Secondo il sondaggio gli uomini si lamentano delle donne, che non sanno essere seducenti (30%) e sono troppo aggressive (28%). Le ragazze di oggi, insomma, fanno scappare gli uomini. Ormai hanno conquistato quasi tutto ciò che volevano e la loro vita è cambiata sotto molti profili, ma l’aumentare dell’aggressività femminile ha penalizzato gli aspetti fondamentali del maschio, come la forza e il desiderio di proteggere. Se è vero che le donne sono diventate più aggressive, anche gli uomini sono cambiati. Secondo il
sondaggio, le donne si lamentano che gli uomini sono incapaci di corteggiare appropriatamente (32%). Ma qualificare le donne come aggressive e gli uomini come poco virili non è che un segnale della nostra paura. In realtà manca la voglia di assumersi le responsabilità e si è incapaci di approfondire le emozioni: ecco perché torna l’aggressività.
Stefano Benemeglio
CHE FINE HA FATTO VIA MEJO DE GNENTE Vi segnaliamo la situazione di estrema irritazione della popolazione che confluisce nella zona di Colle degli Abeti, in quanto la promessa via Mejo de Gnente è ancora bloccata da incomprensibili ragioni (prima perché ci passavano le persone, poi perché c’era un problema di sicurezza, poi da un progetto non approvato dai vigili, poi ora
La porta per l’aldilà I Maya credevano che i pozzi naturali, come quello del Cenote di Xkeken, nello Yucatàn (in Messico), fossero le porte naturali per l’aldilà. In spagnolomessicano, “Cenote” è il nome dato alle grotte con presenza di acqua dolce.
dalla presenza di animali pericolosi). La nostra zona è in una situazione di estremo degrado: le persone vivono senza i servizi essenziali di un vivere civile, e quando questa amministrazione ci ha promesso e ci ha fatto sperare in una strada, per noi è stato un simbolo di qualcosa che si stava muovendo. È il simbolo del fatto che si possa ancora sperare...che il nostro “quartiere”un giorno diventerà un quartiere vero. È una strada, una semplice strada, ma è la nostra strada! In questi giorni, nel piano di zona Castelverde B4 (più indietro con le opere di
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
urbanizzazione), i cittadini esasperati dalle continue immondizie, calcinacci e altri resti che le ditte costruttrici stanno scaricando intorno a case già abitate, stavano pensando di provocare degli enormi incendi per eliminare le immondizie e nello stesso tempo attirare l’attenzione. Insomma potete immaginare che se la gente pensa questo è davvero disperata. Le persone hanno investito tanto in questa strada e qualsiasi passo indietro avrà conseguenze disastrose sulla già provata pazienza dei cittadini.
Carmine D’Anzica
da ”The Indipendent” del 22/03/10
Un terzo dei londinesi a spasso di Alan Jones a disoccupazione costa cara e non solo per chi ha perso un posto di lavoro o non trova il primo impiego. Costa tanto alle casse dello Stato in termini di sostegno sociale, medico e reddito integrativo. Così almeno devono pensarla nella capitale britannica, perché a Londra secondo un recente studio, i disoccupati sarebbero un terzo dei londinesi in età da lavoro. Un dato inquietante visto anche alla luce degli effetti della recente crisi finanziaria mondiale che sembrano ancora mordere la vita reale: quella delle persone. Secondo i dati emersi nella ricerca finanziata dalla municipalità britannica i senza lavoro della capitale costerebbero ben 5 miliardi di sterline ogni anno.
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Si tratta di 33 circoscrizioni londinesi, che secondo ufficio del lavoro inglese, starebbero dando dei risultati pessimi nel settore occupazionale. Un dato legato anche alla cattiva performance dell’amministrazione pubblica che avrebbe potuto facilitare la creazione di almeno 2mila nuovi posti di lavoro in più nell’anno passato, sfruttando meglio i programmi del governo nazionale per combattere la disoccupazione. «È un problema veramente grosso, se si considera l’alta percentuale di disoccupati e quanto questa situazione costi all’erario pubblico. Qui i programmi nazionali funzionano peggio che altrove» afferma Stuart Fraser, membro della giunta comunale di Londra. «L’amministrazione locale è sempre in contatto con la popolazione dei senza lavoro e riesce a sopperire a certe esigenze meglio del governo centrale. Il comune fornisce ai disoccupati un pacchetto completo di
sostegni che è cucito addosso alle loro esigenze di formazione, di cure parentali, dei problemi legati alla casa e all’assistenza sanitaria. Mentre dal fronte dell’amministrazione pubblica che si occupa di lavoro e pensioni arrivano buone notizie anche per le ansie di deve far conto della mano pubblica: il livello di disoccupazione è rimasto più basso del previsto lo scorso anno, mezzo milione in meno delle proiezioni, comunque non sono previsti dei tagli ai programmi d’assistenza. Infatti sono stati investiti circa 5 miliardi di sterline per aiutare il reintegro nel mondo del lavoro a chi ne era uscito. A Londra sono stati creati circa 7.500 nuovi impieghi per i più giovani con questo programma. Del circa un milione e duecentomila londinesi «inattivi al lavoro» circa 400mila appartengono alla categoria degli studenti. Nel gruppo sarebbero inclusi i giovani ancora a carico delle rispettive famiglie, badanti e persone che hanno subito un prepensionamento.
Il ministro ombra per Londra, Justine Greening ha affermato: «Questo rapporto indica in maniera dannatamente precisa come le politiche per il lavoro abbiamo fallito nella capitale e vediamo ancora Alistair Darling (ministro delle Finanze, ndr) che pianifica per l’incremento della pressione fiscale per finanziare la previdenza sociale, che è una tassa sul lavoro». Emerge così un altro dato che fa dimenticare le notizie che davano la Gran
Bretagna fuori dalla crisi: emersa finalmente dalla grande recessione nell’ultima parte del 2009. I dati che il governo ha reso pubblici poche settimane fa vedevano un dato allarmante: investimenti calati del 6 per cento nell’ultimo trimestre dell’anno 2009. A significare che il Paese potrebbe perdere così mezzo punto di pil. Tenendo conto che le previsioni per il 2009 erano di un prodotto interno allo 0,1 per cento in campo positivo, non è una bella notizia. Cui si aggiungono le cifre della disoccupazione nella capitale britannica.
Forse sono numeri ancora peggiori del tragico calo degli investimenti del passato, attestati su di un già granitico meno 24 per cento dello scorso anno e che incideranno, prima o poi, anche sui livelli occupazionali. Un fattore che aveva lasciato l’economia inglese come una foglia al vento della crisi, una delle peggiori da quella degli anni Trenta.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Vivo in una specie di pantofolona di bambagia
PIÙ TASSE PER CHI INQUINA MENO PER CHI GARANTISCE LAVORO Dopo la recente condanna inflitta all’Italia dalla Corte di Giustizia di Lussemburgo, per la mancata attuazione di misure finalizzate ad evitare l’emergenza rifiuti in Campania, è tempo di affrontare il problema dello smaltimento dei rifiuti e dell’inquinamento anche attraverso nuovi approcci per liberare risorse e incentivare comportamenti ambientali virtuosi. A riguardo sono interessanti le proposte avanzate su lavoce.info.«La necessità di verificare nuove strade per detassare il lavoro potrebbe passare da uno spostamento del gettito d’imposte dal lavoro a quelle delle risorse ambientali. Si avrebbe un duplice vantaggio: migliorare il sistema tributario e innescare meccanismi più virtuosi dal punto di vista ambientale». Sarebbe auspicabile attuare anche in Italia una sorta di “green tax”, allineandosi a quanto avviene in altri Paesi come l’Olanda o la Danimarca, facendo proprie anche le indicazioni recentemente espresse dall’Ocse. Non si tratta di creare una nuova tassa e mettere mano nelle tasche dei contribuenti, ma solo di spostare la pressione fiscale, ovvero riformare il sistema
Cara Mrs. Ford, la vostra cara lettera mi ha raggiunto, ma mi ha trovato a letto, per qualche giorno, con un’esplosione di gotta nel mio povero vecchio piede destro, e da allora sono stato depresso e claudicante (in una specie di pantofolona di bambagia, di proporzioni enormi, da vecchio nonno). Non scrivo col piede - ma scrivo con buona mano, come vedete, quando uso una stilografica da tre scellini e nove penny di Harrods; ciononostante perfino gli sforzi manuali e cerebrali mi hanno atterrito non poco e si sono accumulati enormemente. Tuttavia sto meglio e resto perfino abbarbicato un poco alla città-che-dà-la-gotta. Al tempo stesso ho una grande nostalgia della mia casa, e potrei dunque smettere di combattere in campo aperto e cercar riparo, la cara piccola protezione dei muri rossi di Rye, in qualsiasi momento mi giunga un cenno di richiamo. Spero che vi stiate godendo il tanto atteso diluvio, sotto il quale certo state diventando molto, molto verde - non di gelosia ma di gioia. Qui stiamo accovacciati davanti al fuoco e ci alziamo il bavero del cappotto. Ma potrei avere un passaggio in macchina domani - ed esso mi farà pensare ad altre occasioni benedette. Tenetene ancora una o due in serbo per il vostro, cara Mrs. Ford, sempre fedele Henry James a Mrs. Ford
LE VERITÀ NASCOSTE
Internet: in vendita i fantasmi inglesi LONDRA. Lasciate perdere l’idea di oscuri manieri nella brughiera inglese, da dove provengono strani lamenti e dove spariscono oggetti e persone. Internet, che di sicuro ha poco a che vedere con misteri e oscurità, ha abbattutto anche il muro della paura portando i fantasmi sulle aste online. Che su Internet si vendesse di tutto è cosa ormai nota, ma stavolta su un’asta virtuale è comparso il curioso annuncio dell’offerta di un paio di fantasmi “racchiusi”in due fialette di vetro con tanto di etichetta. Centinaia le richieste di acquisto, tanto che il prezzo è già schizzato a 1.800 dollari neozelandesi (900 euro circa). A renderlo noto il tabloid inglese The Sun: perché i venditori sono “kiwi”, ma gli acquirenti britannici doc. Come fosse uscito direttamente dalla trama del film Ghostbusters, l’annuncio dei due “spiriti catturati” è stato pubblicato sul sito TradeMe (un lontano cugino neozelandese del più blasonato eBay) da una donna neozelandese che dice di aver catturato il fantasma di un uomo e di una bambina. Avie Woodbury «era così stanca di convivere con questi due fantasmi che, lo scorso anno, ha chiamato l’esorcista locale per sbarazzarsene», spiega il Sun. La donna ha deciso così di mettere in vendita i due spiriti escludendo che possa esserci un pericolo visto che sono intrappolati in due fialette di acqua santa e che sono, per questo, “addormentati”. Woodbury ha scritto inoltre sul sito che “per ravvivare” gli spiriti, basta versare il contenuto nel piatto e «lasciarli evaporare nella casa». Insomma, la Rete non soltanto abbatte uno dei pochi rimasugli di inconscio che caratterizzava la nostra epoca moderna, ma fornisce persino la ricetta per un miglior rendimento dell’acquisto. Come se fossero quattro spiriti in padella.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
DA SINISTRA, CHIACCHIERE ELETTORALI È curioso che per l’opposizione, nella fattispecie per la parlamentare del Pd Ileana Argentin, il monitoraggio dei reati nella città di Roma sia - cito testualmente - «propaganda dei numeri». Forse se l’ex sindaco Veltroni avesse prestato un po’ più di attenzione al monitoraggio dei reati, e un po’ meno alle passerelle, molti problemi della Capitale sarebbero oggi risolti. Purtroppo l’atteggiamento della sinistra è sempre lo stesso. Ieri si dilettavano a dipingere un modello Roma clamorosamente fallimentare. Oggi si lanciano nella descrizione di una città a tinte fosche che esiste solo nella loro fervida fantasia. Esercizi di stile, buoni tutt’al più per il teatrino di quartiere. Ciò non toglie che l’aggressione avvenuta nei giorni scorsi alla Magliana sia un fatto molto grave e su cui ci auguriamo che gli inquirenti facciano luce nel più breve tempo possibile. Ma, volendo parlare di cose concrete, occorre ribadire che non c’è mai stata un’amministrazione che ha dedicato così tanto impegno al problema della sicurezza come la giunta Alemanno. Un lavoro quotidiano e costante, volto non solo al rafforzamento del presidio territoriale ma anche all’eliminazione di quelle sacche di degrado, come gli insediamenti abusivi, dove con più frequenza possono crearsi situazioni di violenza e di attrito sociale. Questa è l’unica strada percorribile per risolvere in modo serio e responsabile i problemi della città. Il resto sono inconsistenti chiacchiere pre-elettorali.
Barbara
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
Direttore da Washington Michael Novak
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Collaboratori
Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,
Roberto Mussapi, Francesco Napoli,
Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
Mario Arpino, Bruno Babando,
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
John R. Bolton, Mauro Canali,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
Franco Cardini, Carlo G. Cereti,
Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,
Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,
Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,
dei tributi, soprattutto in chiave locale e quindi federale, così da collocare i tributi dai settori che producono a quelli che inquinano. La green tax potrebbe incidere su rifiuti, scarichi d’acqua, rumore, traffico, smog, ma anche prelievo di materiali inerti. Prendiamo come esempio il valore per il conferimento dei rifiuti in discarica. In molte nazioni europee è molto superiore a quello italiano, ma soprattutto nel nostro Paese non si favoriscono comportamenti virtuosi perché genera un gettito per le Regioni piuttosto basso, ma anche un’applicazione a macchia di leopardo, dove esistono regioni più virtuose (al nord in particolare) e meno (come nel sud). Nelle nostre discariche si conferiscono ancora troppi rifiuti non differenziati, molti dei quali, come gli inerti da costruzione o demolizione, potrebbero venire recuperati, anche per rispettare le recenti direttivi in materia. Invece, il nostro dibattito è incentrato sull’individuazione di siti per nuove discariche, con l’inevitabile saturazione e non premiando la qualità della spesa. In sostanza, bisognerebbe tassare di più chi sporca, favorendo meccanismi di investimento in tecnologie pulite ma, soprattutto, garantendo nuove risorse al lavoro: chi inquina paga di più in tasse e i tributi versati compensano la detassazione sul lavoro. Vito Guerrera C I R C O L I L IB E R A L PU G L I A
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