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Chi è incapace di vivere in società, o non ne ha bisogno perché è sufficiente a se stesso, è o una bestia o un dio.

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Aristotele di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 25 MARZO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Nel 2009 hanno perso il posto 380mila persone in più rispetto al 2008. Un record negativo che l’Italia non toccava dal ’55

Niente lavoro? Colpa dei pm L’Istat diffonde dati sempre più neri: la disoccupazione mai così alta da quindici anni. Ma il premier pensa ad altro: chiede voti contro la magistratura e per il presidenzialismo di Giancristiano Desiderio

Due analisi sulle divergenze con Obama

Perché ha ragione Bibi Netanyahu

La crisi fra Usa e Israele non si placa. Secondo Enrico Singer, è sbagliato chiedere ora lo stop agli insediamenti. Per John R. Bolton ex ambasciatore Usa all’Onu, la politica estera di Washington sembra schizofrenica Enrico Singer e John R. Bolton • pagine 4 e 5

L’Occidente deve prepararsi

ROMA. Le riforme non danno pane. La caustica battuta è di Giuliano Amato. Ma la notizia non è questa. Bensì il fatto che risalga a circa quindici anni fa. Il tema del cambiamento della forma di Stato o della forma di governo o di entrambe non è nuovo: anzi, è talmente datato da essere ormai scaduto come il classico yogurt. C’è un tempo per fare e un tempo per parlare. Il presidente del Consiglio del “governo del fare”lo dovrebbe sapere e lo sa, ma nessuno meglio di lui è così capace di invertire i termine della questione e fare del fare un parlare e del parlare un fare. Indro Montanelli lo definì con rabbia, ma non senza ragione,“piazzista” e aggiunse: «Gli italiani lo vogliono? Se lo tengano, perché c’è un solo modo per liberarsi di Berlusconi: mandarlo al governo». Profetico. A Palazzo Chigi Berlusconi ha fatto comunicazione, non politica. Possiamo dirlo con un’altra parola, quella utilizzata Gianfranco Fini: propaganda.

La maggioranza continua a dividersi

Sfida Lega-Pdl per il Nord Bossi: «Il nostro sorpasso ormai è nell’aria». Berlusconi: «Non è vero, siamo ancora avanti noi». Fini: «Le riforme si fanno con tutti, annunciarle ora è solo propaganda» Marco Palombi • pagina 3

a pagina 2

L’artista festeggia oggi il suo settantesimo compleanno

E Dio creò Mina

Non c’è stata e non ce n’è un’altra come lei ad ispirare con sensualità e poesia l’amore di intere generazioni di Gennaro Malgieri educente. Sensuale. Irresistibilmente attraente. Non so se nella storia della musica leggera italiana c’è un’altra canzone eroticamente torrida, ma L’importante è finire è la sintesi dell’amore profano più riuscita. Ma senza di lei, Mina, non avrebbe senso. a pagina 18

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seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

Un articolo del ministro

Ci ha insegnato i sentimenti

La voce d’Italia

A modo suo

di Mariastella Gelmini

di Enrico Letta

La storia della musica italiana passa dalla voce incredibile di Mina. Un pezzo delle vicende italiane, come una colonna sonora senza fine, è stato accompagnato per anni da quel timbro caldo. a pagina 19

Il ricordo, come un riflesso incondizionato, va subito alla spiaggia di Tirrenia, a pochi chilometri da casa. Primi anni ‘70, domenica al mare. Alla radio come sottofondo le straordinarie canzoni di Mina. a pagina 18

• ANNO XV •

NUMERO

57 •

Signori, arriva il tempo della Cyber War

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Nazioni ostili, hacker, terroristi: il problema non è sapere “se” l’attacco ci sarà, ma “quando” e “quanto” sarà distruttivo di John P. Avlon rima il vostro cellulare non funziona. Poi notate che non potete accedere ad Internet. Giù in strada, i bancomat non erogano i soldi. I semafori non funzionano e le chiamate allla polizia non vengono trasmesse ai ripetitori per le emergenze. Le radio annunciano che i sistemi di controllo delle dighe, delle ferrovie e delle centrali nucleari sono stati espugnati a distanza e compromessi. Il sistema di controllo del traffico aereo si è interrotto, lasciando migliaia di passeggeri a terra o dirottati ed impossibilitati a comunicare con i propri cari. La nostra civiltà digitale rabbrividisce al pensiero di un blocco. a pagina 12

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 25 marzo 2010

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Comizi. Una campagna elettorale surreale nella quale continuano a essere elusi tutti i problemi reali del Paese

Menano il voto per l’aia L’Italia arranca, le famiglie sono in difficoltà, le aziende e i lavoratori tremano. Ma noi parliamo di magistratura e presidenzialismo... di Giancristiano Desiderio

ROMA. Le riforme non danno pane. La caustica battuta è di Giuliano Amato. Ma la notizia non è questa. Bensì il fatto che risalga a circa quindici anni fa. Il tema del cambiamento della forma di Stato o della forma di governo o di entrambe non è nuovo: anzi, è talmente datato da essere ormai scaduto come il classico yogurt. C’è un tempo per fare e un tempo per parlare. Il presidente del Consiglio del “governo del fare” lo dovrebbe sapere e lo sa, ma nessuno meglio di lui è così capace di invertire i termine della questione e fare del fare un parlare e del parlare un fare. Indro Montanelli lo definì con rabbia, ma non senza ragione, “piazzista” e aggiunse: «Gli italiani lo vogliono? Se lo tengano, perché c’è un solo modo per liberarsi di Berlusconi: mandarlo al governo». Profetico. A Palazzo Chigi Berlusconi è ormai di casa ma, fatta eccezione per qualche buon intervento da tecnocrate qual è, il resto è comunicazione innalzata a politica. Possiamo dirlo con una sola parola, quella utilizzata dal capo dell’opposizione interna del Pdl, ossia Gianfranco Fini: propaganda. Riassunto preliminare: le riforme non danno pane perché sono diventate un mero calcolo propagandistico per sostenere il declino di Berlusconi.

L’occupazione italiana è in calo. L’Istat lo ha certificato con dati, numeri, cifre. Leggeteli qui accanto. Sembra, però, che il dato più sia significativo quello degli anni: erano quindici anni, infatti, che la disoccupazione non riprendeva a salire. I conti tornano: c’è stato tutto il tempo necessario e più che sufficiente per fare delle buone riforme, ma alla fine di un inutile quindicennio che ci ha ricondotto alla casella di partenza le riforme istituzionali non ci sono mentre il morso dei temi sociali si fa nuovamente sentire. La campagna elettorale per le regionali non è stata un bel vedere e un bel sentire. E non ci riferiamo ai pasticci dei ritardi e delle firme con relativi ricorsi al Tar e al consiglio di Stato. Ci riferiamo alla

Record di senza impiego nel 2009: sono 380 mila in più rispetto all’anno precedente

L’Istat: sempre più disoccupati mai così tanti dal 1995 di Gualtiero Lami

ROMA. La campagna elettorale si fa anche sulla pelle dei disoccupati, che nel 2009 sono aumentati enormemente e ancora continuano ad aumentare, benché in Italia molti si ostinino a dire che la crisi è passata e che va tutto bene. Insomma, gli occupati nella media 2009 sono diminuiti di 380 mila unità rispetto alla media 2008: questi i dati Istat che rappresentano il primo calo annuale dal 1995. Il tasso di disoccupazione medio è salito al 7,8% dal 6,8% della media del 2008. Nella media del 2009 l’occupazione si riduce su base annua del 1,6% (-380 mila unità). Alla flessione particolarmente robusta dell’occupazione maschile (-2% pari a 274 mila unità in meno rispetto alla media 2008) si associa quella meno accentuata dell’occupazione femminile (-1,1% pari a 105 mila unità). Il calo dell’occupazione si concentra al sud (-3% pari a 194 mila unità in meno) ma è alto anche nel nord (-1,3% pari a 161 mila unità in meno) mentre resta contenuto al centro (-0,5% pari a 25 mila unità in meno). Il risultato negativo dell’occupazione totale tiene conto della riduzione molto accentuata della componente italiana (-527 mila unità) controbilanciata dalla crescita, pur se con ritmi inferiori al passato, di quella straniera (+147 mila unità di cui 61 mila uomini e 86 mila donne). Nel complesso nel 2009 lavorano 23 milioni e 025 mila per un tasso di occupazione complessivo del 57,5% (-1,2 punti percentuali sulla media 2008). L’Istat, poi, ha comunicato i dati limitatamente all’ultimo trimestre del 2009: anche in questo caso il tasso di disoccupazione è salito all’8,6% (dato non destagionalizzato), il livello più alto dal 2001: i senza lavoro hanno raggiunto quota 2,145 milioni di unità, 369mila in più rispetto allo stesso periodo del 2008. Sarebbe a dire che l’emorragia di posti di lavoro non si è fer-

mata, purtroppo. Ma come si diceva, anche su questi drammatici dati ieri s’è fatta campagna elettorale. Specie da parte del governo che – come fa da mesi – s’è limitato a dire che altri paesi in Europa vanno peggio di noi. Come se bastasse questo a risolvere i problemi. Ecco che dichiarazioni, come dire, ufficiali. Maurizio Sacconi: «L’Istat ci consegna ora i dati complessivi del 2009, anno che ricorderemo per la violenta frenata dell’economia mondiale determinata da sfiducia e da crollo della domanda. Il dato medio della disoccupazione del 7,8 per cento si confronta con una media Eurozona del 9,4 per cento secondo un differenziale che si conferma anche nel dato congiunturale di gennaio. Peggiori dei dati italiani sono stati quelli di molti Paesi tra i quali Francia, Svezia, Spagna che addirittura supera il 18 per cento e gli stessi Stati Uniti nel 2009 hanno registrato una disoccupazione al 9,3 per cento». Giulio Tremonti: «I dati medi del nostro Paese sono sostanzialmente dati di tenuta migliore degli altri Paesi giacché il dato italiano è migliore della media europea. Da noi la disoccupazione è all’8,6% mentre la media europea supera il 10%. Non nego che c’è la crisi, ma la disoccupazione in altri paesi arriva anche al 20%. Ribadisco: sono dati che preferiremmo fossero diversi ma sono migliori rispetto ad altri». Insomma, invece di riflettere su noi stessi, beiamoci dei guai degli altri. Non è proprio un gesto di stile…

Ma anche Michele Ventura, vicecapogruppo pd alla Camera, non è da meno, sia pure dal versante opposto: «Abbiamo passato gli ultimi due anni a richiamare il governo perché si occupasse della crisi economica, dei lavoratori che perdono il posto, dei precari trasformati in disoccupati, delle famiglie in difficoltà. Voci non ascoltate da un presidente del consiglio troppo interessato a leggi ad personam, a intercettazioni, a processi brevi, a scudi personali e fiscali. I dati Istat sono allarmanti, ma sono il risultato di una mancanza di politica per l’occupazione che questo governo non ha voluto mettere in campo. I 380mila occupati in meno nel 2009 che diventano 480mila nel quarto trimestre dell’anno, quasi due milioni di disoccupati, come dice l’Istat, mostrano che mentre Berlusconi raccontava come la crisi fosse già superata, le aziende fossero costrette a licenziare. Basta promesse di guarigioni, anche mediche, miracolose. Basta anatemi e riforme da gazebo. Ci si occupi dell’Italia vera».

clamorosa bocciatura che proprio il Pdl ha fatto del suo “spirito federalista”. Ogni politica regionale dovrebbe, eccezione fatta per temi nazionali come, ad esempio, l’energia, ogni politica regionale deve avere il suo punto di riferimento nel territorio: ogni regione ha le sue esigenze e le sue risorse ed i candidati-govenatori devono proporre un loro programma e spiegare “come”intendano realizzarlo. Eppure, il federalismo non solo è completamente assente dalla campagna elettorale, ma la principale causa di questa assenza è rappresentata dal presidente del Consiglio che ancora una volta, pur dicendosi moderato, ha imboccato con decisione la strada del manicheismo politico chiedendo agli elettori una scelta tra il Bene e il Male. La propaganda politica di Silvio Berlusconi finalizzata alla propaganda politica è una malattia che sta per diventare vaccino: forse possiamo diventare immuni dal rischio di berlusconite. È la profezia di Montanelli che comincia ad avverarsi.

I temi da discutere e approfondire in campagna elettorale dovevano essere: lavoro, sanità, infrastrutture, pubblica amministrazione, servizi, sprechi e privilegi. Per accennare al lavoro che non c’è, soprattutto al Sud, si è dovuto attendere l’Istat. Per parlare delle condizioni di salute della sanità si è dovuto attendere un’inchiesta del Sole 24Ore. Su tutto il resto è buio a mezzogiorno perché, unico paese al mondo, in televisione va in onda il silenzio stampa proprio quando la stampa può e deve svolgere il suo lavoro di informazione. E mentre le trasmissioni di informazione e dibattito politico sono sospese, ecco che il presidente del Consiglio aumenta in video e in radio, in cielo e in terra e in ogni luogo la sua presenza con i suoi tre preferiti cavalli di battaglia: la sinistra è il male, la magistratura è antidemocratica, io sono il cambiamento. Le uscite di Berlusconi sembrano estemporanee, ma sono ben calcolate per tempi e temi. Da bravo “piazzista”, che ha studiato bene non solo le tecniche di marketing ma anche la propaganda ideologica del vecchio Pci, Berlusconi sa che la verità è irrilevante, che una bugia ripetuta mille volte è vera, che nella comunicazione è premiato chi è attivo. In fondo, come diceva don Gianni Baget Bozzo il consumismo è il comunismo che si è realizzato. Berlusconi applicando le scienze sociali e la retorica pubblicitaria


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La campagna si infiamma anche nella stessa maggioranza

Bossi-Fini: la sfida per la successione Uno attacca sul presidenzialismo («propaganda») L’altro annuncia il sorpasso della Lega al Nord di Marco Palombi

Silvio Berlusconi continua la sua campagna elettoriale a colpi di attacchi alla magistratura e a Bersani. Mentre Fini e Bossi si sfidano per la successione della leadeship del centro destra. alla politica e ai desideri degli italiani non fa altro che mercificare la politica vendendola porta a porta. Del resto, politica e pubblicità hanno molte cose in comune. Ma alla lunga, soprattutto in tempi di crisi, le differenze vengono a galla e se sei capo del governo puoi anche essere chiamato a pagare o rimborsare il prezzo del biglietto perché lo spettacolo non è più bello come una volta. Soprattutto, è stato già visto.

Berlusconi è fuori tempo massimo. Il tema delle riforme - il presidenzialismo, i poteri del premier - è un tema importante per un Paese come l’Italia in cui la politica è sempre in ritardo. Ma si può proporre agli italiani il presidenzialismo in una campagna elettorale in cui si eleggono i consigli regionali e provinciali? Si può proporre agli italiani il presidenzialismo come tema da utilizzare contro l’avversario politico e contro le critiche interne del proprio partito? A cosa serve una riforma istituzionale: a dare al Paese istituzioni più moderne o a ridare a Berlusconi un nuovo consenso? Questa campagna elettorale ci ha mostrato un Berlusconi in difficoltà che non ha esitato a trasferire nelle istituzioni i problemi interni del suo partito. Può darsi che alle parole non segui-

ranno i fatti. Le campagna elettorali sono fatte apposta per dire cose che non si faranno. Tuttavia, questa campagna elettorale è un po’ diversa perché il governo, che avrebbe anche potuto starsene buono a fare il suo lavoro, ha invece deciso di entrare con tutt’e due i piedi nel piatto e il modo - «il modo ancor m’offende» - con cui ciò è avvenuto fa chiaramente vedere come si svolgerà la lotta politica prossima ventura. Sotto le parole che non hanno senso ci sono emozioni, passioni e interessi che Berlusconi non modera, come dovrebbe, ma sollecita spazzando via la mediazione della politica che è l’unica vera cosa che i politici possono fare - e appellandosi direttamente al popolo di cui vuole essere ad un tempo il mezzo e il fine. Per i consigli regionali, provinciali e comunali abbiamo avuto poche informazioni da questa campagna elettorale al contempo muta e urlata, ma per la politica nazionale abbiamo più indicazioni e sappiamo ora più cose. Ad esempio, sappiamo che dalla prossima settimana il presidente della Camera avvertirà un senso di responsabilità, sia istituzionale sia politico, maggiore rispetto a quello avvertito finora. Sappiamo che gli equilibri istituzionali e i destini politici interrogheranno la volontà del presidente Fini.

ROMA. Più la presenza pubblica di Silvio Berlusconi, telefonica o corporea poco importa, s’infittisce e si eleva ad inimmaginabili vette d’astrazione post-politica (il partito dell’amore e quello dell’odio, i giudici cattivi, la bruttezza della Bresso), più risulta evidente che oramai a produrre contenuti di governo in quel che resta del centrodestra sono rimasti in due: Gianfranco Fini, che però sconta il suo scarso peso numerico, e Umberto Bossi. In altre parole un uomo che sta scommettendo tutto sul dopo-Berlusconi e il leader politico che al Cavaliere è già succeduto nei fatti. Ieri questo nuovo assetto della maggioranza s’è palesato in modo quasi plastico. È accaduto che una delle suggestioni da comizio del presidente del Consiglio – non la cura del cancro, ma l’elezione diretta, a scelta, del premier o del capo dello Stato – aggiornata e spiegata a mezzo stampa dal fido ministro Bondi abbia finito per svelare proprio l’assenza politica di Silvio Berlusconi. Contro le (solite) critiche di Fini, infatti, non s’è schierata la (solita) batteria di berluscones, ma lo stesso Bossi.

presidenzialismo «non è la priorità, bisogna vedere qual è il disegno generale»: insomma, «se il Paese diventa federalista non penso che il presidenzialismo rappresenti un pericolo». In linea generale, spiega Bossi, «si dovrebbe iniziare da quello da cui si può iniziare, ad esempio i decreti attuativi del federalismo fiscale. Comunque l’importante è pensare ad un percorso, al progetto generale». Il veleno, come vuole il vecchio adagio, è nella coda: «Voglio sentire cosa dice il Pdl, il suo leader, che è Berlusconi non Fini. Noi siamo alleati fedeli». È la Lega, quindi, che rimette al suo posto il presidente della Camera quando esagera. Si prenda la questione immigrazione e cittadinanza: «Fini ha una sua posizione? Vedremo i risultati elettorali. Serviranno anche a far capire chi aveva ragione».

Umberto Bossi, però, non si è limitato a prendere a sberle il riottoso alleato dell’uomo che ha salvato l’Italia dai matrimonio omosessuali «non firmando la legge europea sulla famiglia orizzontale» (fantomatico testo già citato dal palco di piazza San Giovanni sotto il nome di “famiglia trasversale”), il leader della Lega ha riservato qualche schiaffo anche allo stesso Berlusconi. Se il premier, in una delle sue molteplici incursioni in tv, s’era sbilanciato sul fatto che «il Pdl è e resterà sicuramente e saldamente il partito di maggioranza relativa», il leader del Carroccio, al contrario, qualche ora dopo ha preferito sottolineare il fatto che il sorpasso della Lega ai danni del partitone del Cavaliere è un fatto già acquisito: «Mi sembra una cosa abbastanza logica«. Di più: «L’idea del sorpasso non vede Berlusconi preoccupato. Per lui è quasi auspicabile, noi siamo una forza politica stabilizzatrice rispetto agli alleati». Siccome l’alleanza è composta da PdL e Lega si deve presumere che sia il partito del premier quello che va stabilizzato. Insomma, Berlusconi ormai tifa per la Lega, dimenticandosi però che i leghisti non tifano per lui ma per sé stessi: dopo le regionali, quando il Carroccio si sarà preso tutto il Nord col permesso del Cavaliere, la Lega non avrà più la “golden share” sul governo, ma la proprietà diretta dell’esecutivo al cui capo, a puro scopo scenografico, siederà ancora un signore convinto di comandare.

«Le riforme vanno finalizzate allo spirito costituente, e devono avere come obiettivo l’interesse generale», dice l’ex leader di An

I fatti. Il presidente della Camera, in un incontro pubblico a Roma, è tornato a prendere le distanze dalla Grande Riforma “in solitaria” lanciata dal premier e dai suoi: «Per le riforme l’approccio non può essere basato sulle strumentalizzazioni di tipo propagandistico o legato al vantaggio, pur legittimo, che possa trovare questa o quella parte», ha scandito il presidente della Camera. E ancora: «Le riforme vanno finalizzate allo spirito costituente, e devono avere come obiettivo l’interesse generale ed il bene comune, nel rispetto della dialettica tra le forze e le culture politiche, così da poter garantire che la Costituzione riformata rappresenti una garanzia per tutti gli italiani: non solo per quelli del Nord o del Sud o per quelli che votano legittimamente questa o quella forza politica». Niente di nuovo, parole del tutto in linea col recente discorso pubblico di Fini, sempre più compreso nel ruolo di custode del bon ton repubblicano. La vera novità di giornata, come detto, è stato il duello pubblico che il senatur ha voluto ingaggiare con l’ex leader di An. «Quando si fanno le riforme e si modifica la Costituzione si può mettere dentro tutto», ha per così dire spiegato il leader della Lega a Skytg24, e anche se il


mondo

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Divergenze. Dopo il vertice fallito, la strategia di Washington (e Bruxelles) si allontana sempre di più da Gerusalemme

Le ragioni di Netanyahu

Imporre ora lo stop degli insediamenti è come chiedere a Israele di rinunciare a far valere le ragioni della sua stessa sopravvivenza di Enrico Singer iente foto con i soliti sorrisi e le strette di mano. Niente comunicati. Basterebbe questo per capire che l’incontro di Benjamin Netanyahu con Barack Obama a Washington e anche quello con i dirigenti europei a Bruxelles sono stati un fallimento. Che il clima è stato gelido, che ognuno è rimasto sulle sue posizioni. Che Casa Bianca, Unione europea e governo di Gerusalemme non sono mai stati così distanti. E che il blocco dei negoziati tra israeliani e palestinesi è destinato a durare. Forse per un altro anno, come ha fatto capire lo stesso Netanyahu. Con il rischio di qualche nuova fiammata di violenza sul terreno dove Hamas ha già fatto partire altri razzi dalla Striscia di Gaza provocando l’ennesimo raid aereo israeliano. La missione del primo ministro negli Usa e in Europa doveva servire a verificare quali erano i margini di manovra per riprendere un negoziato che è interrotto dall’esplosione della seconda intifada, nel dicembre

Qui accanto, l’automobile di Netanyahu arriva alla Casa Bianca per l’incontro con il presidente Barack Obama. Nella pagina a fianco, una veduta di Gerusalemme, sul cui futuro si è incagliata la trattativa tra israeliani e palestinesi

N

del 2008. E il verdetto è stato catastrofico. La lettera che Netanyahu ha consegnato - e illustrato punto per punto - ai suoi intrerlocutori spiegando quali sono i «passi distensivi» che è disposto a compiere per riannodare il dialogo con l’Anp, è stata giudicata «deludente». E

(che a Usa e Ue unisce Russia e Onu) per sospendere gli insediamenti nei territori contesi.

«Gerusalemme non è un insediamento, è la nostra capitale. Gli ebrei l’hanno costruita 3000 anni fa e continueranno a costruirla», ha detto Ne-

Ma di sicuro tutte le altre concessioni territoriali sono il principale argomento sul quale gli israeliani possono contare in un negoziato che deve fissare i confini dello Stato palestinese. Come la formula dei “due popoli, due Stati”è l’approdo finale della Road Map verso la

Non si è mai vista una trattativa in cui, ancora prima di mettersi seduti attorno a un tavolo, uno dei due contendenti fa tutte le concessioni che chiede la controparte. Le questioni territoriali sono la fine, non l’inizio del negoziato il suo atteggiamento è stato bollato come «intransigente» perché ha difeso a spada tratta il piano che prevede la costruzione di 1600 case a Gerusalemme Est, quel progetto che era stato annunciato proprio durante la visita del vicepresidente americano, Joe Biden, dieci giorni fa, e che è stato il primo segnale del grande freddo sceso tra Israele, Usa e Ue. Seguito subito dopo dall’appello-ultimatum lanciato a Mosca dal “quartetto”

tanyahu parlando davanti alla platea amica dell’Aipac, l’American-Israel Public Affairs Committee, riunita per il suo congresso annuale a Washington. Una frase a affetto, certo. Pronunciata per strappare l’applauso ai 7500 delegati giunti da ogni angolo del Paese che affollavano la sala dove c’erano anche oltre la metà dei 535 membri dei due rami del Congresso. Ma che Netanyahu ha pronunciato prima di andare alla Casa Bianca anche per far arrivare all’amministrazone Obama un messaggio molto chiaro. Non si è mai vista una trattativa in cui, ancora prima di mettersi seduti attorno a un tavolo, uno dei due contendenti fa tutte le concessioni che chiede la sua controparte. Perché questo è il vero nodo. I palestinesi, anche i moderati di Abu Mazen, sotto la pressione di Hamas, per riprendere le trattative pretendono da Israele il blocco definitivo dei nuovi insediamenti che, per il governo israeliano, non può essere davvero la prima mossa. Forse nemmeno l’ultima nel caso di Gerusalemme, il cui futuro status è un capitolo a parte, il più delicato, dell’intera trattativa.

pace, altrettanto finali saranno gli accordi sugli insediamenti. Il caso della Striscia di Gaza dove alcuni villaggi costruiti dai coloni furono letteralmente demoliti prima del ritiro israeliano - insegna.

Ma c’è di più. Non solo Israele vuole tenere la carta degli insediamenti per le ultime mosse del negoziato, che si tratti della Cisgiordania con i palestinesi o delle alture del Golan con la Siria.Vuole per prima cosa capire quali sono le reali intenzioni dei suoi interlocutori. Per Netanyahu sono i palestinesi che devono «dimostrare di volere la pace» e non, come proclama Hamas, la distruzione di Israele. È vero che la pace si fa con i nemici, ma da tutte e due le parti ci deve essere almemo la disponibilità al reciproco riconoscimento. Al rispetto del diritto di esistere «in pace e all’interno di confini sicuri» come tutte le intese fin qui raggiunte da Camp David a Olso hanno previsto. Altrimenti non ci sono concessioni territoriali che tengano. Gerusalemme, insomma, rovescia

l’ordine delle precondizioni per riaprire la trattativa e mette al primo posto le preoccupazioni per le minacce dell’Iran di Mahmoud Ahmadinejad che vuole «cancellare Israele dalle carte georgrafiche», che sostiene economicamente e militarmente sia Hamas che Hezbollah e che pepara la costruzione della bomba atomica. Nei suoi colloqui di Washington e di Bruxelles, Benjamin Netanyahu ha molto insistito su questo punto. Parlando al congresso dell’Aipac, ha detto che se le pressioni internazionali su Teheran dovessero fallire, se anche le nuove sanzioni dell’Onu non fossero sufficienti per fermare il progranna nucleare iraniano, Israele è pronta «ad agire da sola» per impedire che il regime degli ayatollah costruisca la bomba. «Roosevelt e Churchill sconfissero il nazismo, ma dopo la morte di sei milioni di miei fratelli: Israele oggi non delegherà a nessun altro il suo diritto all’autodifesa», ha detto Netanyahu. Un’altra frase ad affetto. Ma anche un altro messaggio molto preciso.

In una situazione così complessa, secondo il premier israeliano, «non possiamo farci intrappolare da condizioni illo-


mondo

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Una politica estera tutta da rifare L’ex ambasciatore Usa: «La schizofrenia di Washington si gioca tra Mosca e Tel Aviv» di John R. Bolton uando il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato di progettare la costruzione di nuovi alloggi nella West Bank durante la visita del vicepresidente Joe Biden - forse accidentalmente, forse no - l’amministrazione Obama ha immediatamente condannato l’episodio, sia privatamente che pubblicamente. Al tentativo di scuse di Netanyahu, il segretario di Stato Hillary Clinton si è vantata del fatto che “schiaffeggiare” apertamente uno stretto alleato americano aveva prodotto un risultato positivo e aiutato la ripresa dei negoziati di pace in Medioriente dopo quattordici mesi di fallimenti dell’Amministrazione nell’area.

Q

Pochi giorni dopo, durante la sua visita a Mosca, mentre il Segretario di Stato continuava a decantare i benefici effetti di prendere a calci un alleato, il primo ministro Vladimir Putin ha scelto di reagire. E lui stesso (nessun incidente, qui) ha scelto di annunciare, nel pieno delle trattative del Quartetto sulle eventuali sanzioni all’Iran circa il suo programma nucleare, che Mosca avrebbe aiutato Ahmadinejad ad avviare il reattore nucleare della centrale di Bushehr, costruita dai russi. A quel punto, non solo la Clinton non si è scagliata pubblicamente contro Putin, ma ha scelto di accettare - facendo poche storie - l’accensione del reattore come se fosse un diritto iraniano, non comprendendo forse che riprocessare giche e irragionevoli». Così, per riprendere i negoziati, magari anche indiretti in una prima fase, Israele propone un pacchetto di «misure costruttive» che a quanto ha rivelato il giornale Haaretz - comprendono sostanzialmente due punti: la liberazione di un buon numero di prigionieri palestinesi e la ri-

il plutonio da Bushehr significa rifornire l’Iran di materiale fissile per le armi nucleari. La nostra posizione internazionale è destinata a deteriorarsi rapidamente: se non saremo in grado di proteggere i nostri amici (che costringiamo a difendersi da soli), gli avversari si sentiranno sempre più spavaldi. D’altronde, come dovrebbero giudicare gli americani un simile atteggiamento: se provocati da un alleato l’amministrazione Obama reagisce con furia, ma se schiaffeggiata da un “competitor alla pari” (per dirla benevolmente), la squadra di Obama sorride benignamente? E ancora più importante: cosa pensano i nostri amici internazionali così come gli avversari, di questa giustapposizione? Come interpreta il resto del mondo le mosse di Obama e quali saranno le conseguenze che la politica estera statunitense subirà nei prossimi (e potenzialmente assai turbolenti) anni? L’ovvia considerazione, anche se non dovrebbe essere tale, è che il presidente ha una sua peculiare lista di priorità a seconda che si confronti con gli amici piuttosto che con gli avversari. Probabilmente Obama pensa che una simile condotta, strana come sanno essere solo gli americani, mostra al mondo

mozione di una serie di posti di blocco in Cisgiordania. Misure che dovrebbero «ristabilire un clima di fiducia e consentire lo sblocco della trattativa». Ma che sono oggettivamente assai lontane da quello che l’Anp reclama e che hanno fatto dire a Nabil Abu Rudeinah, portavoce del presidente Abu Mazen, che

che la sua amministrazione è capace di irrigidire la sua diplomazia fino a trasformarla in una crisi internazionale. Amici e nemici non ridefiniscono automaticamente le proprie strategie e tattiche quando un nuovo presidente sale al potere. Normalmente, le diplomazie straniere guardano con attenzione tutte le mosse e priorità del nuovo leader, leggono i suoi discorsi, si informano sui media e attraverso tutto ciò che può aiutarli a comprendere che cosa è destinato a restare uguale e che cosa a cambiare. Noi non dovremmo mai sottovalutare l’inerzia burocratica degli altri governi, e nemmeno la nostra. Né dovremmo mai ignorare la profonda convinzione che molti stranieri hanno (siano essi governanti o terroristi internazionali come Osama bin Laden) sul fatto che l’America va e viene, ma i suoi interessi fondamentali rimangono invariati (e francamente gli americani non dovrebbero sottovalutare nemmeno questo punto). Il processo di osservazione, valutazione e aggiustamento di tiro ovviamente richiede tempo, e solo dopo essersi fatta una precisa idea un Paese straniero altera o modifica le sue politiche. Perciò, nel grande gioco degli affari internazionali, è quasi

“Schiaffeggiamo” gli alleati e non alziamo la voce contro gli avversari. Il risultato è che oggi gli Stati Uniti sono meno sicuri di un anno fa...

«i palestinesi non torneranno al tavolo dei negoziati finché la linea degli israeliani resterà questa».

C’è poco spazio per la speranza di una schiarita nella crisi mediorientale. E c’è, sempre più netta, una divaricazione pericolosa tra Israele, Usa ed Eu-

sempre ponderoso, per l’enorme politica di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, cambiare direzione, seguendo correzioni di rotta imposte da altre priorità nazionali. Soltanto guardando queste manovre complementari e cambiamenti di politiche possiamo dare una risposta più accurata al quesito che si chiede se gli Stati Uniti siano più o meno sicuri di prima. Se osserviamo sotto questa luce i recenti incidenti con Israele e la Russia, abbiamo un risultato inquietante.

Che Israele si sia mossa in maniera intenzionale o accidentale, di sicuro si è messa in una posizione vulnerabile, e Obama ha peggiorato quella difficoltà. La Nato e gli altri alleati prenderanno nota della cosa, così come faranno i palestinesi radicali e gli estremisti islamici, a danno dell’America. La Russia, di contro, prende Washington per il naso mentre Corea del Nord, Iran e Venezuela approfittano, sempre a nostro svantaggio. Altri due colpi, fra i tanti, contro il team Obama. Gli Stati Uniti sono meno sicuri oggi di un anno fa, e i rischi sono appena iniziati. La risposta alla domanda che nessun giornale pone è che sì, con altri tre anni di gestione similare saremo ancora meno sicuri di quanto lo siamo oggi, e forse le minacce contro di noi saranno peggiori delle attuali. Fortunatamente, però, gli americani avranno nel 2012 un’elezione con cui potranno cercare di correggere il corso della storia.

ropa. Ma sarebbe troppo semplicistico dire che è tutta colpa dell’intransigenza di Netanyahu che, dopo avere fallito l’accordo per un governo di unità nazionale con Tzipi Livni e i centristi di Kadima, è condizionato dai suoi alleati di estrema destra, inflessibili sul capitolo degli insediamenti. Su un

punto in Israele sono tutti d’accordo: il diritto a esistere non è negoziabile. Prima di mettersi attorno al tavolo bisogna capire se l’approdo dei “due Stati, due popoli”vale anche per i palestinesi, Hamas compresa. E, soprattutto, non si può partire da quello che deve essere la fine, non l’inizio della trattativa.


diario

pagina 6 • 25 marzo 2010

Protesta. I borsisti ricevuti dai funzionari del ministero dell’Istruzione: «Siamo moderatamente soddisfatti». Ma la battaglia va avanti

I ricercatori si organizzano

Il portavoce: «Ci sono le basi di una trattativa. Ma tutto è in mano a Tremonti» ROMA. Alla fine l’incontro c’è stato. Ieri pomeriggio alle 16 in punto i rappresentanti dei precari e dei ricercatori dell’università italiana hanno varcato il portone del ministero dell’Istruzione e si sono seduti faccia a faccia non con il ministro Gelmini – assente perché in maternità – ma con diversi alti funzionari del ministero tra cui Alessandro Schiesaro, stretto collaboratore della titolare del dicastero e componente del suo gabinetto politico. Oggetto del colloquio (e del contendere) quello che liberal ha già denunciato sulla sua prima pagina di ieri: il fatto che in tutta Italia ormai i ricercatori contestano l’esclusione, prevista nel ddl Gelmini presentato nell’ultimo Consiglio dei ministri, dagli organi di governo degli atenei, come pure dalle commissioni di valutazione. «Moderatamente soddisfatti» si dicono i rappresentanti del Cnru che hanno preso parte all’incontro di ieri, tra questi Marco Merafina, portavoce dei ricercatori italiani. Allo stato attuale il ricercatore per divenire professore associato deve conseguire un’abilitazione nazionale e poi vincere un concorso a valutazione comparativa. Al contrario, il nuovo ricercatore a tempo determinato, dopo aver conseguito l’abilitazione, col ddl Gelmini potrà essere assunto come professore associato per chiamata diretta dagli atenei. «Questa procedura - scrivono i ricercatori - è vista come una discriminazione inconcepibile ed offensiva che tende a emarginare il ricercatore attuale, ridicolizzandone

mento delle proprie funzioni istituzionali. Inoltre, ci spiega Merafina, «di considerare alcune norme transitorie indispensabili che dovrebbero riguardare gli attuali ricercatori universitari, cancellando così definitivamente ogni prospettiva di soluzione al problema dello stato giuridico dei ricercatori universitari, attesa ormai da trent’anni».

Il ddl “dimentica” poi di assicurare una gestione democratica degli atenei attraverso la partecipazione di tutte com-

«C’è ancora tempo per rivedere il testo delle legge Gelmini e noi siamo fiduciosi, malgrado lo sforzo economico sia enorme» le competenze scientifiche e didattiche che, in molti casi, risultano essere ben superiori a quelle richieste per accedere “ipso facto” al ruolo di professore associato».

Ma secondo il Coordinamento Nazionale Ricercatori Universitari (Cnru), cosa dimentica il ddl Gelmini? Innanzi tutto di finanziare la riforma stessa, accentuando le difficoltà degli Atenei a predisporre una normale programmazione del personale in sede di bilancio, oltre alla difficoltà di assicurare un corretto svolgi-

questo punto era apparso decisivo l’incontro, avvenuto ieri in viale Trastevere, tra il direttivo del Coordinamento nazionale ricercatori universitari e la dirigenza ministeriale.

di Francesco Capozza

ponenti universitarie negli organi di governo e di «escludere i ricercatori universitari con più di 40 anni di contributi dal prepensionamento coatto, malgrado gli Ordini del giorno bipartisan in tal senso approvati nei due rami del Parlamento». E poi «le nuove regole previste dal disegno di legge, unite alla drammatica carenza di finanziamenti attualmente insufficienti perfino alla semplice copertura degli stipendi del personale già in ruolo, annullano di fatto qualunque reale prospettiva di carriera per i ricercatori». A

Lezioni e approfondimenti scaricabili da “iTunes U”

E la Federico II va sul web NAPOLI. L’Università di Napoli Federico II è la prima università italiana a lanciare il proprio canale iTunes U, un’area dell’iTunes Store che offre contenuti audio e video delle maggiori università, e a presentare la sua offerta formativa insieme ad università come Stanford, Yale, Oxford. Lo fa attraverso “Federica”, il web learning dell’Ateneo, che garantisce accesso libero all’ampia selezione dell’offerta formativa dell’Università. L’iniziativa è stata presentata ieri pomeriggio dal Rettore Guido Trombetti, dal direttore scientifico di “Federica web learning”Mauro Calise, e dal presidente presidente del Centro Servizi Informativi dell’Ateneo Giuseppe Marrucci. «La Federico II ha scelto di combinare la sua cultura millenaria con le nuove opportunità dell’era digitale» ha spiegato Trombetti. «La nostra università, fondata nel 1224, è tra le più antiche in Europa, e oggi si presenta come perfetto connubio di tradizione e innovazione». «Con le lezioni in iTunes U - ha sottolineato Marrucci - abbiamo scelto la

formula della massima flessibilità e apertura per venire incontro alle diverse domande degli studenti: dai nonfrequentanti, che hanno così a disposizione gli elementi base di ogni lezione, a coloro che, dopo aver seguito il corso in aula, vogliono “ripassarlo” a casa o in treno; ai molti che cercano di andare oltre la lezione, approfon-

dendone i temi grazie alle risorse web selezionate dai docenti». «E questo è solo l’inizio di un programma ambizioso - ha concluso Trombetti - Contiamo di arrivare a 300 corsi, 5000 lezioni e 1000 podcast entro la fine del 2010, includendo anche molti contenuti in lingua inglese, per un’offerta formativa sempre più vicina alle esigenze e al linguaggio del mondo giovanile».

A Roma i ricercatori hanno mostrato i risultati di un recente sondaggio cui hanno partecipato in 5.000 (quindi, per chi si intende di ricerche demoscopiche, un numero molto elevato di interpellati). L’80% dei ricercatori chiede l’inquadramento alla seconda fascia docente per coloro che hanno fatto didattica certificata dalle facoltà, anche in atenei diversi, per almeno sei anni ed è pronto ad incrociare le braccia. Non è la prima volta che i ricercatori minacciano di bloccare i corsi accademici loro affidati ma mai come in questa occasione l’ipotesi di rifiuto delle supplenze accademiche è divenuta quasi realtà: «Stavolta - spiega il coordinatore nazionale Cnru, Marco Merafina - c’è più organizzazione. Con il sito internet l’aggregazione tra i ricercatori è molto accresciuta». Nei giorni scorsi il coordinamento aveva chiesto anche ai professori delle altre fasce di partecipare alla protesta non accettando ulteriori incarichi di docenza al di fuori di quelli istituzionali: «Se ciò avverrà - aveva detto Merafina non più tardi di due giorni fa - lo scopriremo cammin facendo. La questione non è tanto sulla loro disponibilità ma sulla loro mancanza di consapevolezza, di informazione e di organizzazione». L’incontro di ieri, si diceva, è servito per mettere delle basi «politiche» per una trattativa che non è semplice. «Il ministro è impossibilitato a riceverci perché in maternità e il senatore Valditara, che pure incontreremo la prossima settimana o subito dopo Pasqua, non ha certo i poteri che gli consentirebbero di poter prendere delle decisioni». Soddisfazione comunque c’è, perchè i dirigenti di viale Trastevere si sono detti disponibili anche a lavorare affinchè le richieste dei ricercatori vengano recepite dal testo attualmente all’esame del Senato e di cui lo stesso Valditara dovrebbe essere relatore. «Tempo per rivedere quel testo infondo ce n’è - dice Merafina - e noi siamo fiduciosi, nonostante lo sforzo economico, non ce lo nascondiamo, sia enorme e tutto nelle mani del ministro dell’Economia».


diario

25 marzo 2010 • pagina 7

Ieri a Roma la singolare pira. Il ministro: «Un gesto simbolico»

Nuovo appello di Benedetto XVI su aborto e matrimonio

Calderoli manda al rogo 375 mila «leggi inutili»

Il Papa: «Difendere sempre la vita»

ROMA. «Mettiamo sulla graticola tutte le leggi inutili. È un gesto simbolico e un monito rispetto ad altri strumenti che possono complicare la vita al cittadino». Con queste parole Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione normativa, piccone in spalla e torcia in mano, ieri ha acceso una pira formata da 32 metri cubi, circa 150 scatoloni di carta, 28 tonnellate e 585 chili per 4.754.642 pagine, mandando al rogo 375 mila atti normativi «inutili». A dare fuoco alle scatole (che non contenevano fogli ma materiale organico non inquinante) è stato, con un piccolo lanciafiamme e con un’ascia sulla spalla, lo stesso ministro.

CITTÀ DEL VATICANO. Ieri, durante l’udienza generale del mercoledì, davanti a una folla di pellegrini polacchi, papa Benedetto XVI è tornato a parlare di temi etici, tra cui il valore della vita e la difesa del matrimonio tra uomo e donna. Il Pontefice ha espresso il suo sostegno a chi lavora a «favore del rispetto per la vita e per la promozione della nuova sensibilità sociale», ricordando che il dono della vita va salvaguardo «dal concepimento fino alla morte naturale». Le parole arrivano in occasione della solennità dell’Annunciazione che ricorre domani: «In Polonia essa è celebrata anche come giornata della Sacralità della vita. Il mistero dell’incar-

«Abbiamo trovato tante leggi inutili - ha spiegato l’esponente leghista - alcune risalivano addirittura al 1861. Una montagna di complicazioni per il cittadino e per lo Stato. Per questo oggi (ieri, ndr) il simbolico rogo, che è anche un monito rispetto a tutti gli altri strumenti che possono complicare la vita: quindi sia l’Europa con le sue direttive, sia le Regioni con loro leggi, sia i Comuni con i loro atti amministrativi». Vicino alla piramide erano state sistemate anche due poltrone: «Abbiamo approfittato per metterle vista l’approvazione

A Pisa la bioetica mette in crisi il Pd Amministrazione comunale in tilt sul testamento biologico di Matteo Orsucci

PISA. «Questa città è stata la prima in Toscana a istituire il registro del testamento biologico». Sono state le parole dell’assessore comunale Federico Eligi, giunta piddina di Pisa, a margine della presentazione del libro di Beppino Englaro La vita senza limiti. La morte di Eluana in uno stato di diritto. Il sindaco della cittadina della torre pendente ha dato una piccola notizia, anticipando l’intenzione del consigliere comunale Giuliano Bani di presentare una mozione in consiglio per il conferimento della cittadinanza onoraria al signor Englaro. Non è una notizia da strapparsi i capelli, viene da sé, e magari meriterebbe sì e no un paio di colonne in cronaca non fosse all’interno di un quadro del quale non si può ignorare la cornice. Nei giorni della fine, mentre i cattolici pregavano per Eluana, i laici si domandavano come si potesse mettere tutta la vita di una bella ragazza nella sentenza di morte di un gruppo di toghe, mentre insomma l’Italia assisteva più o meno sgomenta all’esito di questa battaglia combattuta da un padre, come dice lui, con gli strumenti di uno Stato di diritto, per onorare le volontà della figlia – volontà di cui solo lui è stato depositario ché di definitivo e scritto nulla Eluana ha lasciato per poter decidere serenamente – insomma in quel Paese col groppo in gola ci furono medici che davanti ai tentativi disperati del padre della ragazza per staccare il sondino naso-gastrico che alimentava la figlia si fecero avanti per eseguire la sentenza della Cassazione. Molto prima di Udine vi fu la Toscana, ma Enrico Rossi, assessore regionale alla Sanità, batté il pugno sul tavolo dicendo che non si poteva fare, che insomma la questione della fine della vita non si poteva risolvere scegliendo una regione a caso e festa finita. Rossi fa parte del Partito democratico, vien da sé, ma la scelta fatta fu di inequivocabile indirizzo. Rossi sarà pure, con ogni probabilità, eccezion fatta per l’emorragia di vo-

tanti a sinistra, il futuro governatore della Toscana ma gli va riconosciuta l’onestà intellettuale di una coerenza in tema etico. Una coerenza che però cozza con due piani del proprio partito: il primo è quello localistico. Il futuro governatore, ex sindaco di Pontedera, ha in Pisa la capitale dell’interesse partitico, l’area d’influenza maggiore cui prendere consensi e cui dover rendere conto per l’elettorato.Adesso si ritrova con il sindaco Marco Filippeschi che, dopo la gestione oscena di Paolo Fontanelli della città, tenta il colpo di teatro non tanto organizzando presentazioni di libri a palazzo Gambacorti con Beppino Englaro, bensì dicendo che Pisa è fiera di dare a costui la cittadinanza onoraria. L’assessore Eligi ci mette del suo, con un carico da undici farlocco, dichiarando che Pisa è al passo coi tempi: vuoi mettere, è stata la prima città della regione ad avere un registro per il testamento biologico. Il che come dato di cronaca è pure vero, basterebbe però vedere quanti sono gli iscritti, dacché il registro è pubblico. Sì e no una Inquindicina. somma, non sembra che in una città che conta ottantamila abitanti – in calo – la cosa sia molto sentita.

Caos tra il sindaco, che vuole premiare Beppino Englaro, e l’assessore alla Sanità, che rifiutò Eluana negli ultimi giorni di vita

del dl sugli enti locali - ha detto Calderoli - queste sono solo due delle 40mila che abbiamo abolito». Il singolare rogo di ieri è stato definito una «sceneggiata» degna del «Ventennio», con i vigili del fuoco «costretti a fare da sponda al pensiero reazionario del Governo». È quanto denunciano le Rappresentanze di base dei vigili del fuoco commentando il falo delle leggi abrogate dal governo. «Una sceneggiata - ribadisce il sindacato - per innalzare un muro di carta alto 16 metri dentro la sede delle scuole di formazione del corpo nazionale dei vigili del fuoco, tutta a favore delle telecamere e di una campagna elettorale improntata alla litigiosità».

Il secondo piano critico è quello della stabilità partitica. Non più tardi di venti giorni fa la senatrice Poretti, quota radicale ma comunque alleata col Pd, ha attaccato sul sito dell’Aduc proprio l’assessore Rossi, reo, a suo dire, di voler osteggiare l’utilizzo della pillola Ru486 nei nosocomi toscani avendo posto l’obbligo dell’ospedalizzazione a cinque giorni. Insomma, una scelta da regione formigoniana, ciellina, cattolicheggiante, di destra… Sono proprio i temi della bioetica che spaccano il Partito democratico toscano in vista delle elezioni. E la coerenza di uno, Enrico Rossi in questo caso, coincide sì e no con la dilettantistica allo sbaraglio di moltissimi altri, cui piace fare invece retorica ed esercizio intellettuale sulla pelle dei malati terminali e di chi ancora deve nascere.

nazione svela il particolare valore e la dignità della vita umana. Dio ci ha dato questo dono e lo ha santificato, quando il figlio si è fatto uomo ed è nato da Maria. Bisogna salvaguardare questo dono dal concepimento fino alla morte naturale. Con tutto il cuore mi unisco a coloro che intraprendono diverse iniziative a favore del rispetto per la vita e per la promozione della nuova sensibilità sociale».

Sempre nella mattinata di ieri il Pontefice aveva parlato di matrimonio attraverso un appello rivolto ai partecipanti al X Forum internazionale dei giovani che si tiene questa settimana a Rocca di Papa. Un’esortazione «a scoprire la grandezza e la bellezza del matrimonio» nel quale «la relazione tra l’uomo e la donna riflette l’amore divino in maniera del tutto speciale. Mediante il Sacramento del matrimonio, gli sposi sono uniti da Dio e con la loro relazione manifestano l’amore di Cristo. In un contesto culturale in cui molte persone considerano il matrimonio come un contratto a tempo che si può infrangere – ha scritto il Papa - è di vitale importanza comprendere che il vero amore è fedele, dono di sé definitivo».


economia

pagina 8 • 25 marzo 2010

SERGIO VENTO

«Le regole non cambieranno» Sarebbe già un successo riequilibrare euro e dollaro di Francesco Pacifico

ROMA. «All’interno di ogni crisi ci sono prese politiche che risentono delle aspettative e delle speranze dei Paesi che si confrontano. Senza scomodare il Gattopardo, è per questo che sono convinto che nonostante si reclamino grandi mutamenti, alla fine cambierà ben poco negli equilibri europei». L’ambasciatore Sergio Vento – un passato a capo della nostra diplomazia a Belgrado, a Parigi e all’Onu, un presente da banchiere – non crede che sarà decisivo il Consiglio europeo che si apre oggi e che dovrebbe annunciare finalmente le misure per dare quella svolta che il Vecchio continente attende da tempo. Cosa attende l’Europa? C’è chi dice che abbia reagito bene di fronte alla crisi. Ma a farlo è stata la Ue o le varie economie locali, soprattutto quelle meglio bilanciate tra manifatturiero e finanza? A meno di un colpo di reni – ma non vedo leadership in grado di farlo – non prevedo un periodo brillante. E non è un caso che Obama e tutta la sua amministrazione, tanto sbrigativa come si confà a un Paese giovane, reputi che l’Europa non esista. Peggio di questo c’è solo l’implosione dell’euro. Questa è una drammatizzazione. Credo che ci si accontenterà di portare avanti il processo di indebolimento della moneta – per me è ancora troppo forte – che va bene a Paesi manifatturieri come la Francia o l’Italia o a con maggiore vocazione esportatrice come la Germania. Francia e Germania sono ai ferri corti. Certo, ma le diverse vedute sulla Grecia nascono da problemi interni. A Berlino la Merkel – sarà per la comune tendenza al solidarismo – si è accorta che andava più d’accordo con la Spd che con i liberali del Fdp. I quali, molto sensibili alle esigenze delle aziende esportatrici, sostengono tagli alle imposte e un allegerimento del welfare state più radicale di quanto previsto. E lì, tra poco ci sarà una tornata amministrativa E in Francia? Qui si è già votato e tutti si interrogano sulle sconfitta di Sarkozy e sui troppi dossier che ha aperto. Eppoi non dimentichiamoci fu Giscard d’Estaing nel 1975 a imporre l’ingresso nella Cee della Grecia,che usciva dalla dittatura.Ancora oggi tra i due Paesi ci sono forti legami finanziari. La Grecia ha massacrato la credibilità della Ue. L’ex commissario Almunia, sempre così rigoroso, non ne esce bene, ma per capire quello che sta succedendo bisogna guardare indietro. Jacques Delors mi diceva sempre che si era battuto per un’unione economica e monetaria,

per poi ritrovarsi con un unione monetaria alla quale erano stati concessi poteri di controllo sulla stabilità finanziaria. Non si è mai deciso sugli investimenti, sulla fiscalità ognuno fa quello che vuole, spesso anche dumping, già da allora erano chiare le asimmetrie tra Paesi in forte crescita e quelli in recessione. Lo sbaglio è aver equiparato Grecia e Germania? No. Per il caso ellenico non parlerei tanto di asimmetrie quanto di manipolazioni dei conti. Siamo di fronte a un problema di trasparenza. Non è un caso se oggi, in relazione ai poteri dell’Eurogruppo, si chiede l’istituzione di un istituto di statistica comunitario che non vidimi soltanto i dati degli organismi nazionali. Se manca un governo comune dell’economia perché non affidarsi al Fmi? Perché il Fondo monetario, nato del dopoguerra per coreggere gli squilibri nei pagamenti correnti tra le grande economie, dopo la crisi degli anni Settanta inizia a trasformarsi in qualcosa di opposto: lo strumento per correggere le storture dei debiti pubblici di quelle che oggi chiameremo economie emergenti. C’è chi lamenta un problema di sovranità? Possiamo girare questa considerazione: allora perché non c’è un’unica delegazione dell’Europa a Washington? Lo stesso euro ha significato una cessione, per quanto controllata, di sovranità verso la Bce. Come dimostra la gestione del Pesc, le cui decisioni restano sempre in ambito nazionale, non si va oltre meccanismi per una più fluida la collaborazione. Per Parigi Berlino, attraverso il richiamo al rigore, difende soltanto il suo export. Per quanto il 70-80 per cento delle esportazioni dei Paesi europei sia destinato ai Paesi europei, mi chiederei se ha senso stanziare il 40 per cento dei fondi europei all’agricoltura e soltanto il 2 alla ricerca. Parigi chiede di allentare il patto di stabilità, Berlino di rafforzarlo. Alla Francia sta soprattutto a cuore che la Germania compri più prodotti Oltralpe. Ma come il Patto non seguirà una riscrittura in senso restrittivo – Paesi come l’Italia o la Spagna non le permetterebbero mai – allo stesso modo un affievolimento della rigidità sarebbe respinta dalla Germania o dall’altra virtuosa d’Europa: l’Olanda. Proprio le elezioni ad Amsterdam, con la vittoria dell’estrema destra e il suo portato di insofferenza verso gli immigrati, sono un riflesso dei problemi occupazionali. Anche questo è rigore.

Parigi preme per aiutare Atene, perché è un suo vecchio partner. Berlino deve aiutare le sue aziende esportatrici

Da oggi il vertice dei leader

T r ova to l ’acc ordo : re go le du re e fond i i n te r n azi onal i di Alessandro D’Amato

ROMA. L’accordo sembra esserci, ma è al ribasso. Alla fine dovrebbe aver prevalso proprio la soluzione che tutti a parole dicevano di non volere. Oggi dovrebbe essere il giorno in cui Angela Merkel e Nicolas Sarkozy spiegheranno quali sono i termini dell’accordo che i paesi europei hanno preso per sostenere la Grecia. Che, secondo gli spifferi, prevedono l’intervento del Fondo Monetario Internazionale in prima battuta, e in seconda degli stati europei. Anche se dalla Germania e dalla Banca Centrale si parla sì dell’Fmi, ma soltanto per dispensare “aiuto tecnico”. Secondo l’agenzia Bloomberg, gli aiuti che verranno forniti dalla Ue e dal Fmi non dovranno contenere elementi di sussidio economico, e quindi non po-

Chi salverà

tranno andare oltre il prestito. Lo schema a cui si sta lavorando - spiega in funzionario - vedrebbe l’esborso di prestiti da parte del Fmi come ultima spiaggia. Solo dopo l’intervento di quest’ultimo, gli Stati europei potrebbero intervenire negoziando prestiti con la Grecia separatamente.

Ma un accordo tra i Ventisette sulle appropriate misure da prendere è ancora lontano dall’essere raggiunto. L’allargamento della crisi al Portogallo, la cui politica di riduzione del debito ha avuto oggi il parere negativo di Fitch Rating, rende più urgente per tutti arrivare a un’intesa. Alla vigilia del vertice europeo di Bruxelles anche il commissario Ue all’economia Olli

Rehn ha definito “necessaria”una soluzione condivisa per affrontare la situazione greca. E pur sostenendo che «sarebbe meglio predisporre uno strumento della zona euro per risolvere un problema intra-europeo», non ha escluso il ricorso al Fondo monetario, «un partner di cui riconosciamo la competenza tecnica». Sembra che prima del summit dei Ventisette, i 16 Paesi dell’Eurozona si riuniranno per discutere la questione, anche se c’è chi smentisce la circostanza. «La risposta alla questione specifica sarà un test per i leader europei e il loro impegno per l’unione monetaria europea», ha affermato il presidente della Commissione Ue Josè Manuel Barroso, intervenendo all’Europarlamento, e segnalan-


economia

25 marzo 2010 • pagina 9

LUDOVICO ORTONA

«Il vero deficit è di leadership» Cercasi nuovi Adenaur per rilanciare la Ue ROMA. «Un tempo c’era un mondo diviso a metà ma esistevano dei valori in grado di contrastare i rischi di deriva. E leader in grado di forzare la congiuntura». È da qui che l’ambasciatore Ludovico Ortona, già responsabile alla Farnesina dell’area centroamericana e capo della nostra diplomazia a Parigi fino a qualche mese fa, parte per raccontare la crisi in atto in Europa. Crisi che per lui è soprattutto politica: trae origine proprio dall’assenza di una classe dirigente in grado di fornire gli obiettivi e la strategia da seguire. Che cosa accade in Europa? Quella che stiamo vivendo è una crisi di carattere generale. Che coinvolge tutto il mondo. Nei momenti di recessione cambiano le prerogative degli Stati, si guarda soprattutto alle difficoltà economiche. È scontato dirlo, ma ora sarebbe necessario un maggiore slancio europeista, una maggiore volontà tra gli Stati membri nel trovare comuni progetti di sviluppo. Facile a dirsi… Lo so, ma il problema nasce dal fatto che quando si vive un periodo di recessione, tutti gli Stati si chiudono in se stessi. Non c’era meno egoismo prima. Francia e Germania hanno firmato intese importanti. L’Italia ha dato un contributo decisivo nel processo europeo. Più in generale c’era una maggiore volontà di europeismo. Ma va tenuta presente anche una tornata elettorale che va avanti da mesi e non ha ripercussioni soltanto negli Stati dove si vota. Basta vedere quello che sta accadendo in Francia. Le tensioni sorgono con l’apertura della Cina. Forse. Ma personalmente credo che in questa fase siano mancati i leader politici. Quelli di un tempo avevano sentimenti molto più profondamente europei. Ma non è che ogni generazione può produrre un Adenauer, uno Schuman o un De Gasperi. Anche la formazione della classe dirigente ha caratteristiche cicliche: ci possono essere momenti di pausa. E quello che viviamo è purtroppo uno di questi. E se non ci sarà un rilancio della Ue? Correremo il rischio di finire schiacciati di fronte all’emergere delle potenze asiatiche o di quelle americane come il Brasile. Questi squilibri potrebbero rendere ancora più difficile la nostra situazione. Mai come oggi Francia e Germania sono distanti. Ma il loro rapporto è inevitabile. Ci possono essere alti e bassi, legami meno chiari e meno intensi, ma la loro alleanza deve continuare. E se ha avuto una battuta d’arresto, ripartirà comunque più in là.

Forse imponendo un direttorio agli alleati? La spinta di Francia e Germania è necessaria, ma l’Europa cammina se c’è intesa tra tutti i maggiori Paesi dell’area, se i maggiori settori seguono percorsi comuni. Quella del direttorio, quindi, è un progetto che non piace quasi a nessuno e che da tempo viene respinto. Personalmente non credo che potrà mai realizzarsi. E per una semplice ragione: esistono Paesi dal forte nazionalismo, penso alla Polonia o alla Spagna, che non lo permetterebbero mai. Quale sarà il futuro dell’Europa? A mio parere ci attende un lento e progressivo consolidamento. Io sono abbastanza ottimista, anche se sono conscio che ci vorranno molti anni. È ottimista. Lo sono per un facile motivo: se l’aggressività delle nuove e delle vecchie economie del mondo diventa sempre più forte, l’Europa sarà costretta a trovare una maggiore coesione. La gestione del caso greco sembra invece dire il contrario. L’integrazione è ancora giovane e questi non sono processi che si improvvisano. Ripeto: la strada diventa scorrevole se c’è un grande slancio da parte dei leader. I quali non soltanto devono desiderare un rafforzamento della Ue, ma hanno l’obbligo di trovare consonanza negli obiettivi e coesione per raggiungerli come un tempo. E sul futuro dell’euro? Spero in un’evoluzione ancora più positiva, che diventi forte e rappresentativo di un’area come è stato il dollaro. In Germania c’è chi rimpiange il vecchio marco. Non credo che si tornerà indietro. Quello della moneta è un problema più complesso. Da più parti si chiede un governo forte dell’economia dell’area, però si dimentica che esiste un Eurogruppo che ha una sua capacità d’azione. Ma non la fa. Il problema? Siamo in 27 a decidere. Intanto l’Italia si avvicina alla Francia. Siamo in prospettiva di un’importante vertice bilaterale che dovrà chiarire e rafforzare le tante intese esistenti. Riconsolidare il rapporto tra Italia e Francia è fondamentale per la stessa coesione europea. Non crede che il ruolo di Roma in tutta la partita europea sia marginale? In Italia si parla soltanto di elezioni regionali. Non certo d’Europa. Ma infondo è normale: in Francia, dove sono stato in questi giorni, non si discute d’altro che della disfatta di Sarkozy alle amministrative. (f.p.)

Nei momenti di recessione cambiano le prerogative, si è egoisti, invece servirebbe più slancio per lo sviluppo

la Grecia? do di non vedere come i leader europei possano non affrontare la crisi greca durante il vertice anche se il tema «non è formalmente in agenda». Barroso ha insistito che la Commissione Ue ritiene che «ora sia appropriato creare un meccanismo di azione coordinata che può essere usato per fornire assistenza in caso di necessità». Il meccanismo di coordinamento nell’eurozona, sostenuto dalla Commissione Ue, rappresenterà «una rete di salvataggio nel caso in cui tutte le altre opzioni si siano esaurite, incluse le politiche a livello nazionale», ha confermato Barroso. «Spero che la questione venga risolta in uno spirito di responsabilità e di solidarietà», ha ribadito il

presidente della Commissione Ue: «In gioco c’è il principio di stabilità finanziaria che sta al centro dell’euro».

Da sottolineare anche nella giornata di ieri due interventi di membri della Banca Centrale Europea. «Il ricorso

esecutivo della Bce Lorenzo Bini Smaghi, secondo cui «se si ricorresse all’Fmi, l’immagine dell’euro diverrebbe quella di una divisa che può sopravvivere solo grazie all’aiuto di una organizzazione internazionale nella quale gli europei non hanno maggioranza e gli americani e gli asiatici hanno sempre più influenza». La Grecia «avrà probabilmente bisogno di una qualche forma di supporto finanziario esterno» e l’Unione Europea “deve muoversi” per risolvere la crisi debitoria greca, ha dichiarato invece Miguel Angel Fernandez Ordonez, Governatore della Banca di Spagna e consigliere della Bce, durante un incontro con imprenditori spagnoli, aggiungendo che

Bini Smaghi del board della Bce è contro il ricorso al Fondo montetario: «Sarebbe un danno per la forza dell’euro» al Fondo monetario internazionale per aiutare la Grecia, come proposto dalla Germania, è da rifiutare perché sarebbe un danno per l’euro», ha detto in un’intervista al quotidiano tedesco Die Zeit, il membro italiano del comitato

sarebbe meglio «non fare troppo rumore» sul caso. E ieri nella questione è intervenuto anche il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. «Ci sono tre ipotesi: che la Grecia sia lasciata da sola e la Grecia da sola potrebbe chiedere aiuto al Fondo monetario internazionale; che l’Europa, che è l’ipotesi proposta, faccia lei l’intervento; un’ipotesi intermedia che l’Europa organizzi un intervento utilizzando l’Fmi come banca, come know how ma sotto una regia politica dell’Europa», ha spiegato salomonicamente. E ha aggiunto: «Io preferirei l’ipotesi numero tre: che sia l’Europa che organizza la gestione del caso Grecia, non vorrei l’ipotesi uno e credo che sia gestibile l’ipotesi intemerdia».


pagina 10 • 25 marzo 2010

speciale elezioni

I candidati del centro/11. L’Udc con Paola Binetti corre da sola contro il potere rosso: «Perché qui non è mai cambiato»

Pressione a sinistra

«Tutto è schiacciato sul pubblico e verso l’impresa esiste una cultura del sospetto intollerabile. E poi bisogna rilanciare turismo e cultura» di Riccardo Paradisi on la candidatura di Paola Binetti l’Udc sfida in Umbria i due blocchi del bipolarismo italiano.. Un test, si è detto, per verificare se il centro può davvero essere il riferimento per chi vuole superare la logica binaria della scelta tra questa destra e questa sinistra. Una sfida impegnativa quella del centro in Umbria e la sua in particolare Binetti. Una scelta chiara per i valori cattolici. A proposito che le pare delle polemiche sulle dichiarazioni del Cardinal Bagnasco? Credo che chi sente il bisogno di tirare la tonaca dei vescovi siano quei parlamentari che non conoscono realmente la dottrina della Chiesa e il suo fonda-

C

mentale magistero che propone gli stessi valori a tutti. Nell’intervento di Bagnasco non c’è nulla di nuovo. Quando lui parla di tutela della vita e della famiglia, aggiungendovi la libertà di istruzione e religione, non fa altro che ripetere, parola per parola, il contenuto del documento di Ratzinger del 2003. È grave che chi si dice alfiere dei valori cattolici ignori il magistero della Chiesa di sempre e interpreti le esternazioni di un cardinale come un assist nei propri confronti. Da questo giochino ovviamente il Centro si tira fuori perché questi valori noi li conosciamo da sempre e ad essi è intonata la nostra azione politica. Veniamo all’Umbria Binetti: lei dunque corre sola. Ha detto bene chi ha parlato dell’Umbria come uno dei laboratori politici che in queste elezioni regionali l’Udc ha aperto in tutta Italia. L’andare da soli serve anche a verificare se a livello di percezione dell’opinione pubblica c’è davvero, come noi crediamo, l’esigenza di allargare lo sguardo rispetto a questo bipolarismo piazzaiolo. Dove destra e sinistra sono arrivate a gonfiare i numeri dei partecipanti alle loro manifestazioni. Il culturismo politico altera la reale dimensione delle piazze Siamo al paradosso di dover dire bugie, dimostrare appunto chi è più potente a suon di cifre gonfiate. E

Tre donne candidate alla Regione

Il Pd ha scelto Catiuscia Marini ROMA. A contendersi l’elezione alla presidenza dell’Umbria sono tre donne: Catiuscia Marini, Fiammetta Modena e Paola Binetti. Fiammetta Modena, avvocato 45enne, capogruppo del PdL nel consiglio regionale dell’Umbria dove figura da diverse legislature è la candidata per il centro destra. Non ha mai accettato la proposta di candidarsi alla guida del centrodestra umbro invece l’imprenditrice Luisa Todini, indicata tanto da Berlusconi quanto dai vertici regionali del Pdl umbro. Catiuscia Marini ha vinto le primarie del Pd dopo il ritiro di Mauro Agostini, e si è imposta su Gianpiero Bocci aggiudicandosi l’investitura ufficiale di candidato del centrosinistra. È sostenuta dalla governatrice uscente Maria Rita Lorenzetti che voleva candidarsi per la terza volta consecutiva alla guida dell’Umbria. La vera novità è la candidatura di Paola Binetti per l’Udc che corre da solo in questa gara elettorale. Alla presentazione della candidatura della Binetti è intervenuto Pierferdinando Casini, che ha spiegato la scelta: «Siamo qui a cantare fuori dal coro, dunque non facciamo scelte di convenienza. Nelle regioni rosse corriamo da soli: c’è troppo continuità nel centrosinistra e troppa insufficienza nel centrodestra. In queste regioni c’è un’economia drogata, che funziona con un sistema di favoritismi. L’essenziale ora è cambiare pagina. La Binetti è una candidata moderata, che non esclude ma apre».

per farlo non si ha pudore ad alterare la realtà dei fatti. Il centro da parte sua si rivolge a quella maggioranza silenziosa che non è andata né a piazza San Giovanni né a Piazza Navona In Umbria il potere forte è quello rappresentato dal Pd. Anche se le opposizioni dovrebbero avere gioco facile a criticare gli ultimi anni di governo della regione. L’Umbria è stato lo scenario d’un altro psicodramma del Pd, il tentativo ostinato del governatore uscente di candidarsi al governatorato per la terza volta, la rissa delle primarie. L’umbria dimostra nei fatti che il Pd non ha attraversato nessun reale processo di trasformazione rispetto al passato, rispetto all’esperienza Ds, a quella del Pds e a quella del Pci. Resta un filo di continuità mentale e culturale che viene appena nascosto dal maquillage superficiale messo in atto in questi anni. Del resto le persone e le famiglie politiche che caratterizzano quella realtà sono sempre le stesse e in particolar modo in questa regione dove il potere rosso non ha mai avuto un ricambio. Questo dato segna per la sinistra umbra un elemento di grande

Questo è un altro laboratorio politico aperto dall’Udc: un test per verificare l’attenzione al superamento di questo bipolarismo piazzaiolo che bara anche sui numeri delle piazze

fragilità. Qui non c’è alternanza nemmeno dentro il Pd. Si pensi solo alla totale emarginazione della componente cattolica, completamente esclusa da ogni rappresentanza nel listino. Del resto l’Umbria è la regione che nell’estendere il suo statuto ha rimosso completamente le sue radici cristiane, un paradosso per la terra d’elezione del francescanesimo. Ha negato le sue radici cristiane è vero ma in questo c’è stata la colpevole complicità del Pdl proprio nella persona della candidata Fiammetta Modena che coordinava la commissione sullo statuto. D’altra parte il Pdl non offre quelle garanzie in più rispetto alla componente a forte valenza cristiana cattolica che l’Umbria dovrebbe avere come regione che ha espresso una sua dimensione della vita spirituale. Qualcosa di diverso dal consumismo di questa destra e il laicismo di questa sinistra.


speciale elezioni L’Umbria è stata sempre governata dal centrosinistra. Ma questa volta nel Pd hanno litigato fino all’ultimo per la successione a Rita Lorenzetti, la governatrice uscente. La scelta è caduta sull’ex sindaco di Todi, Catiuscia Marini. I centristi dell’Udc hanno scelto di correre da soli

UMBRIA

Sono tanti, ormai, i problemi accumulati dalla sinistra in sessant’anni

L’agenda delle priorità del candidato-giornalista di Vincenzo Bacarani

PERUGIA. Una regione chiusa in se stessa, quasi isolata dal resto dell’Italia, nonostante si trovi al centro della penisola. L’Umbria si trova di fronte a un bivio: scegliere di uscire dall’isolamento, soprattutto economico e infrastrutturale, o percorrere la strada di un confronto costruttivo e propositivo con altre realtà regionali confinanti (o anche più lontane) per poter sviluppare sinergie significative nel settore imprenditoriale, artigianale e turistico. In circa 60 anni di governo regionale di sinistra o centrosinistra, tali argomenti sono stati discussi e ragionati e – in una certa misura – anche proposti. Ma i risultati sono stati, inutile negarlo, molto modesti. Le prossime elezioni potrebbero fornire l’occasione agli umbri per cambiare registro, per poter fare della loro regione un punto di riferimento. In che modo? In che ambiti? Visti da un “giornalista-candidato”, i nodi (e le soluzioni) sono questi: INFRASTRUTTURE. Partire da Torino o da Milano (in treno, auto o aereo non importa) e volere andare a Perugia, o in qualunque altro centro dell’Umbria, è di per sé un atto quasi masochistico. La famosa (meglio dire famigerata) superstrada che dovrebbe collegare automobilisticamente l’Umbria con il Nord è un cantiere perennemente aperto ed è soprattutto molto, molto pericolosa per le auto e per le persone. Non è tanto diversa la situazione per chi arriva da Roma. Il percorso ferroviario appare romantico e pittoresco con fermate in tutti i paesini. L’aeroporto sul quale sono stati fatti investimenti importanti collega Perugia con Malpensa che – come sanno tutti – è abbastanza scomoda per chi vuole andare a Milano. INDUSTRIA. Il sistema imprenditoriale risente ovviamente di questo clima di immobilismo. Ci sono alcune grandi e nobili realtà che tuttavia si appoggiano a realtà multinazionali o a grandi imprese del Nord Italia. Le piccole e medie imprese che operano sul territorio, sentono sulla propria pelle il peso della burocrazia che, come dicono alla Confapi (la

confederazione delle piccole e medie imprese) soffoca la creatività degli imprenditori. BUROCRAZIA. L’apparato della Pubblica Amministrazione è forse il nodo principale da sciogliere. Nel corso dei decenni passati si è sedimentata una situazione in cui gli enti pubblici risultano essere i principali datori di lavoro della regione. Non v’è motivo di dubitare che il welfare abbia fornito un contributo importante al benessere dei cittadini. Si rimane tuttavia perplessi di fronte alla preponderanza dell’amministrazione pubblica nella realtà economica e sociale dell’Umbria che – non scordiamocelo – conta complessivamente meno abitanti della città di Torino. TURISMO. Qui siamo di fronte a un paradosso: una regione che conserva attrattive turistiche di alto livello nell’arte, nella cultura, nell’architettura è una delle regioni in cui il turismo incide sul prodotto interno lordo in minima parte. Promozione e marketing nel settore turistico umbro sono state per decenni parole quasi sconosciute. Il turista che va in Umbria ci va perché ci vuole proprio andare, i grandi tour operator trascurano la regione e privilegiano la vicina e più vivace Toscana. AGRICOLTURA E PRODOTTI. In un angolo d’Italia ancora non pervasivamente contaminato dall’inquinamento, le coltivazioni biologiche, o comunque di qualità, potrebbero rappresentare un fiore all’occhiello di un’economia agricola che sembra essere ancora a misura d’uomo. La creazione di un marchio di qualità, a tutela e disciplina di un futuro Sistema Umbria, potrebbe essere un valore aggiunto da mettere in vetrina per una regione che voglia finalmente uscire dall’isolamento.

Oggi l’Udc si presenta in Umbria alternativo a queste due culture, ma questa strategia resterà anche all’indomani del risultato elettorale o ci saranno accordi diversi? La scelta di fondo resterà questa. Anche se noi corriamo per vincere non per partecipare. Nel caso non vincessimo noi e dovesse vincere la sinistra ci proponiamo di fare un’opposizione responsabile. La stessa condotta terremmo se dovesse governare il Pdl. Il centro vuole davvero rappresentare l’alternativa del buon governo, non vuole inserirsi in questa dialettica che propone ai cittadini conflittualità come stile di vita. In una regione come l’Umbria, governata da sessant’anni di monocolori rossi, il governo ha privilegiato la parte rispetto al tutto. Coloro per esempio che vengono dal mondo della piccola e media impresa sono sempre stati penalizzati. Su questo punto torneremo… Va anche detto che la regione è stata attraversata da anni di scandali: un’inchiesta sull’intreccio politico finanziario delle Coop rosse, il bilancio del comune di Perugia in dissesto per milioni di euro, una guerra civile interna al centrosinistra. Questo governo rosso della regione, come dicevo, soffre dello stigma di un potere che non ha mai avuto alternanze. Questo consuma dall’interno la linfa etica di una forma di governo. Si creano nicchie di potere che alla fine tendono a tutelare se stesse che non gli interessi della cittadinanza. Nell’ultimo congresso della Cgil regionale i dati sull’Umbria forniti dal sindacato sono preoccupanti. 80mila ore di cassa integrazione, 11mila lavoratori coinvolti, un implemento della cassa integrazione rispetto al 2009 del 103 per cento Va tenuto presente che l’Umbria era una regione in crisi prima della crisi. Figurarsi la situazione attuale. Del resto l’attenzione per l’impresa in Umbria è scarsa. Questa è una regione con un’economia schiacciata per il 70% sul pubblico. Dato da cui deriva peraltro la forza politica e il consenso indotto del potere attuale. Ma quel 33 per cento della regione che genera ricchezza, che non vive di impiego e indotto pubblico, è compressa, senza adeguata rappresentanza politica. L’ipertrofia burocratica rende difficile per piccoli e medi imprenditori accedere al credito, svecchiare le strutture. La piccola e media impresa soffre dunque in Umbria. Le faccio un esempio. Prendiamo i ristoranti, che sono quasi sempre vuoti. Ebbene continuano a pagare una tassa sui rifiuti urbani che parte dal presupposto che siano sempre pieni. Tutti pagano il costo del personale, anche a costo di un’occupazione assolutamente minimale. Un rapporto positivo tra amministrazione e impresa consentirebbe interventi calati sull’obiettiva realtà delle cose, un sistema tributario più flessibile rispetto alla piccola impresa. Invece la cultura nei confronti di ciò che non è

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pubblico resta in Umbria quella del sospetto. Per questo il centrodestra punta sulle professione, sul lavoro autonomo e l’imprenditoria. Piuttosto io credo che il centrodestra punti a riportare la situazione regionale ai processi nazionali. La Modena recentemente ha detto che le infrastrutture della regione Umbria – chieste a gran voce dall’imprenditoria – sono tutte già programmate in dettaglio perché c’è già il piano nazionale. Le ho obiettato che mi ricorda molto la storia del ponte sullo stretto. La cultura berlusconiana ci ha abituato a una politica dell’annuncio a cui non corrispondono mai fatti concreti. Un’altra voce in capitolo pesante dell’Umbria è quella della sanità. Per eliminare sprechi e ottimizzare servizi lei ha proposto l’introduzione di principi di welfare orizzontale. La gestione centralistica non funziona nemmeno nella sanità. In Umbria si è investito molto sugli approcci strutturali pochissimo sulla medicina territoriale. Che è invece la soluzione del problema, perché tende a creare reti positive che permettono di rispondere ai bisogni dei malati. Insomma se offriamo ai cittadini sul territorio dei servizi di studi associati che lavorano permanentemente con la diagnostica, che soddisfano richieste elementari dei pazienti, noi avremmo abbattuto le liste d’attesa, i costi, avremmo decongestionato gli ospedali, avremmo fatto degli interventi molto più costruttivi di quelli che non sono stati fatti fino ad ora. Ma in questo momento tutto ciò che preoccupa la sanità della regione è ciò che riguarda la sanità ospedaliera. In un terreno come l’Umbria dove alla dispersione sul territorio corrisponde una vasta concentrazione di persone – non ci dimentichiamo che l’Umbria ha poco più di 800mila abitanti – rispondono tanti piccoli nuclei ospedalieri che rappresentano costi che non soddisfano fino in fondo al totalità dei bisogni dei pazienti e nello stesso tempo creano un aggravio nella gestione delle risorse molto pesante. Lei ha accusato il governo umbro di sottovalutare i suoi beni culturali. La cultura in Umbria non è considerata in tutto il potenziale di risorsa che potrebbe avere. L’Umbria viene gestita come fosse un’insieme di città d’arte ma è un approccio sbagliato, perché in Umbria tutta questa ricchezza la trovi distribuita sul territorio. Ci vuole un modello in cui sia possibile, per il turista, muoversi da un centro all’altro come se ci trovassimo di fronte a un museo en plen air. E poi è chiaro che tu puoi fare dell’Umbria un settore del turismo artistico ma devi anche pensare che questo particolare clima regionale qui si lega con un dimensione spirituale e religiosa. Si tratterebbe di mettersi sulle frequenze culturali e religiose di questa regione. Insomma devi costruire una cultura turistica che rifletta una visione di sistema. E questa visione di sistema in Umbria sembra mancare A tutti i livelli. Dal comparto dell’abbigliamento a quello dell’artigianato passando appunto al settore del turismo. Abbiamo bisogno di uno sguardo nuovo per pensare l’Umbria.


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Una simulazione del 2008 ha svelato che gli Usa non sono ancora in grado di sopportare un assalto ai propri canali informatici vitali

L’Occidente si prepara alla Cyber War Nazioni ostili, hacker, terroristi: il problema non è sapere “se” l’attacco ci sarà, ma “quando” e “quanto” sarà distruttivo di John P. Avlon rima il vostro cellulare non funziona. Poi notate che non potete accedere ad Internet. Giù in strada, i bancomat non erogano i soldi. I semafori non funzionano e le chiamate allla polizia non vengono trasmesse ai ripetitori per le emergenze. Le radio annunciano che i sistemi di controllo delle dighe, delle ferrovie e delle centrali nucleari sono stati espugnati a distanza e compromessi.

P

Il sistema di controllo del traffico aereo si è interrotto, lasciando migliaia di passeggeri a terra o dirottati ed impossibilitati a comunicare con i propri cari. A tutto ciò si aggiunge un blackout che non dura da ore ma da giorni o perfino settimane. La nostra civiltà digitale rabbrividisce al pensiero di un blocco. Usciti dalla crisi, milioni

di dati riguardanti gli americani mancano e con essi miliardi di dollari.

Questo scenario può sembrare come l’ultimo grande successo cinematografico sul giorno del giudizio universale prodotto da Hollywood. Ma ciascuna delle situazioni succitate si è presentata durante il secolo scorso come il risultato di una cyber-attacco. Gli attacchi virtuali sono una minaccia in aumento, privi attualmente di una terminologia universalmente accettata, efficaci fattori dissuasivi o soluzioni legali su scala globale. Sono armi di distruzione di massa, utilizzate da avversari nascosti nell’anonimato, che potrebbero dimostrare, almeno temporaneamente, di poter paralizzare l’infrastruttura digitale della società moderna. Questo genere di attacco è ap-

L’avversario della rete più pericoloso per l’America non è il radicale islamico ma l’“hacktivista”, l’equivalente tecnologico del bandito solitario

petibile per i nemici dell’America non solo perché permette alle realtà più deboli di competere con quelle più forti, ma anche perché trasforma la nostra potenza tecnologica in una debolezza.

Sappiamo che al Qaeda è interessata al cyber-terrorismo. Computer sequestrati ad alQaida hanno fatto trapelare dettagli riguardanti i sistemi di Supervisione e di Acquisizione Dati (Scada) in America, i quali controllano l’infrastruttura strategica, comprese reti elettriche, centrali nucleari, cavi a fibre ottiche, condotti di gas e petrolio, dighe, ferrovie e depositi di acqua e relativi impianti di distribuzione. I sistemi Scada non sono stati creati per essere di pubblico accesso, ma molti attualmente sono controllati via Internet, rendendoli vulnerabili alle

infiltrazioni e agli attacchi. I computer di al Qaeda contenevano anche gli schemi di una diga degli Stati Uniti insieme al software d’ingegneria che abilitava gli operatori a simulare un guasto virtuale di dimensioni catastrofiche con relativa inondazione delle aree popolate. Una base sicura di al Qaeda in Pakistan era, secondo l’esperto di terrorismo Magnus Ranstorp, impegnata nello studio operativo degli attacchi via Internet.

Probabilmente l’avversario della rete più pericoloso per l’America non è il radicale islamico ma l’“hacktivista”, l’equivalente tecnologico del bandito solitario. «Siamo di fronte a delle persone, per citare Joker, “che vogliono solo vedere bruciare tutto”», dice Tom Rushmore, la cui piccola impresa di New Tork ha subito una perdita di 1.7 milioni


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Da sinistra: la copertina del settimanale “Time” dedicata alla cyberwar; estremisti islamici; l’esperto di terrorismo informatico Magnus Ranstorp

bes. “Il primo giorno avevamo già infiltrato la rete. In una settimana stavamo controllando un’intera centrale nucleare. Ho pensato, Dio, questo è un grande problema”.

di dollari tra il 2001 e il 2003, a causa degli hacker. Nel marzo del 2000, il quarantanovenne Vitek Boden, licenziato dal suo posto di lavoro in un impianto australiano di depurazione delle acque, si impadronì del sistema remoto di controllo ed inquinò i fiumi del Queensland, le coste e i parchi con un milione di litri di liquami nocivi, causando danni per milioni di dollari.

Nel 2007 negli Stati Uniti, un ricercatore dei Servizi di Sicurezza di Ibm, di nome Scott Lunsford, ha portato a termine con successo un hacker-test su una centrale nucleare, nonostante la Commissione per la Regolazione Nucleare ne avesse assicurato la pressoché impossibile riuscita. «Si è rivelato uno dei test di infiltrazione più facili che avessi mai effettuato”, ha dichiarato Lunsford su For-

In mani meno amichevoli rispetto a quelle di Lunsford, la capacità di controllare a distanza il rifornimento di energia della città potrebbe rivelarsi devastante. Alcuni cyber-attacchi sperimentali del Dipartimento di Sicurezza di Stato hanno creato dei generatori elettrici autodistruttivi. Recenti sedute del Congresso sono giunte alla conclusione che gli attacchi alle compagnie, sia private che pubbliche, rimangono in gran parte senza colpevole. L’infrastruttura energetica è già stata colpita all’estero: «Abbiamo informazioni secondo cui i cyber-attacchi sono stati usati per distruggere gli equipaggiamenti di competenza in parecchie regioni fuori dagli Stati Uniti», ha affermato Tom Donahue, esperto analista della Cia, durante una conferenza a New Orleans nel 2008. «In almeno un caso, la distruzione ha causato un’interruzione elettrica che interessava più città». Lo sviluppo relativamente recente delle reti digitali globalmente collegate ha inaugurato una nuova era di spionaggio. Ogni giorno il Dipartimento della Difesa rintraccia tre milioni di sonde non autorizzate nei suoi network, mentre il Dipartimento di Stato deve fronteggiarne due milioni. Il Dipartimento di Polizia di NewYork registra 70.00 tentativi giornalieri di intrusioni elettroniche. Nel 2007 il Comitato di Stato di Sorveglianza e Riforma del Governo ha assegnato al Dipartimento di Difesa, al Dipartimento di Stato, al Dipartimento del Tesoro e alla Commissione per la Regolamentazione Nucleare una “F” (un voto molto basso, ndr) sulla Pagella Federale di Sicurezza del Sistema Informatico. Nel giugno di quell’anno, le spie credettero di potersi accodare ai riusciti attacchi militari della Cina al sistema informatico dell’ufficio del Segretario della Difesa, Robert Gates, forzando 1.500 computer ad anda-

«Tutto è partito nel 2003, passando dall’hobby al crimine» Secondo il finlandese Mikko Hypponen, capo della ricerca dell’azienda F-Secure, specializzata nella produzione di software per la sicurezza di sistemi informatici, l’anno di svolta è stato il 2003. È in quell’anno, dice Hypponen, che si è assistito «al primo grande shift dall’hobbista al professionista del cybercrime, da quasi cinque anni ormai la sicurezza è diventata una questione di spionaggio tra aziende, o tra Paesi». Questo è, secondo Hypponen, l’aspetto del cy-

bercrime che coinvolge non la “semplice” malavita organizzata ma le intelligence governative. «In questo caso i target sono rappresentati dai contractor militari, i governi, le organizzazioni non governative. E anche in questo caso parliamo di un fenomeno in crescita. Nel 2008 si sono registrati 1968 attacchi di spionaggio, diventati 2195 nel 2009 e 895 fino al 18 marzo scorso».

re fuori linea. A questo episodio sono seguite estese incursioni cinesi nei computer del Dipartimento di Stato e dell’Istituto di Guerra Navale degli Usa (il cui sistema informatico è stato costretto all’interruzione per parecchie settimane). La Cina, infatti, ha seguito la via del cyberspionaggio con particolare determinazione. «I cinesi operano sia attraverso agenzie governative, come facciamo noi, ma anche sponsorizzando altre organizzazioni che si stanno impegnando in questo tipo di pirateria internazionale, in ogni caso con una direzione specifica», ha detto l’anno scorso al National Journal Joel Brenner, un ufficiale maggiore di controspionaggio delle amministrazioni Bush e Obama.

Nel 2008 le campagne elettorali per la presidenza, sia di Obama che di McCain, sono state infiltrate da spie informatiche di presunta origine cinese, le quali hanno avuto accesso ai documenti programmatici interni e ai piani di viaggio in modo da ottenere informazioni sul prossimo Presidente degli Stati Uniti. Attualmente alla Casa Bianca, prima di entrare nella Stanza Ovale, tutti i cellulari devono essere consegnati nella Stanza di Roosevelt o nella Situation Room, per paura che input audio o video interni possano venire attivati a distanza. Il problema però non si ferma allo spionaggio e al furto potenziale dei segreti governativi. Le spie russe e cinesi si sono introdotte nella rete elettronica USA ed hanno decriptato i software che potrebbero essere utilizzati per intaccare o distruggere infrastrutture cardine. “Se dovessimo entrare in guerra con loro”, ha detto un ufficiale dell’intelligence al Wall Street Journal lo scorso aprile, “cercheranno di attivarli”. Il Pentagono inoltre crede che gli hacker militari cinesi abbiano compilato un programma dettagliato per inabilitare la flotta delle portaerei statunitensi. Nella primavera del 2009, il Journal ha riportato la notizia secondo cui parti del programma Joint Strike Fighter, costato 300 milioni di dolla-

ri – il più costoso nella storia del Dipartimento della Difesa erano stati intaccate da hackerspia cinesi. Benché informati del pericolo da almeno un decennio, gli Stati Uniti stanno ancora cercando di riguadagnare il tempo perduto. Nel 2007, l’amministrazione Bush investì 17 miliardi di dollari nell’Iniziativa Comprensiva per la Cyber-Sicurezza Nazionale, che ha identificato e segnalato i vulnus esistenti così come ha sviluppato le procedure d’utilizzo contro i pericolosi intrusi del Web. Poco dopo l’inizio del suo mandato, il Presidente Obama ha dichiarato che la cyber-infrastruttura sarebbe stata considerata elemento strategico nazionale ed ha annunciato la nomina di un cyber-zar per dirigere tutti gli sforzi federali della Casa Bianca in coordinamento sia con il Consiglio Nazionale di Sicurezza e il Consiglio Economico Nazionale. Ad alcuni mesi da questo annuncio, tuttavia, i propositi non sono stati raggiunti. Il Dipartimento di Sicurezza di Stato intende impiegare fino a 1.000 esperti di sicurezza informatica durante i prossimi tre anni. Il Pentagono, dal canto suo, ha proposto un nuovo commando militare per il cyberspazio e parecchi progetti di legge per la sicurezza informatica stanno percorrendo l’iter del Senato.

Ma il nostro progresso non sta soverchiando la proliferazione della minaccia. Una simulazione di due giorni di guerra messa in atto dal governo Usa durante le ultime settimane dell’amministrazione Bush, secondo quanto detto dai partecipanti, ha riscontrato che «gli Stati Uniti non sono pronti ad affrontare un attacco ostile di rilievo ai danni dei loro canali informatici vitali». Che l’attacco sia sferrato da al Qaeda, una nazione ostile o un hacker solitario, non possiamo permetterci di aspettare un Pearl Harbor digitale per prendere sul serio questa minaccia. Il ritardo è pericoloso. I cyberattacchi stanno arrivando. Ma la questione importante non è tanto questa, quanto quella di capire in che momento e in che misura arriveranno.


mondo

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Dopo l’uscita di scena dell’ex presidente, il Pakistan è precipitato nel caos. La sicurezza interna resta il problema principale... a situazione interna del Pakistan è tutt’altro che migliorata dopo la rinuncia agli incarichi e il ritiro dalla politica attiva di Pervez Musharraf. Come era facilmente immaginabile – sebbene le stesse democrazie occidentali che a lungo lo avevano sostenuto, per il semplice fatto che era un militare “golpista”con la valigetta nucleare e potere quasi assoluto, ne avessero chiesto a gran voce le dimissioni – dopo la sua uscita di scena lo Stato è precipitato nel caos. Forse il disastro sarebbe accaduto ugualmente, ma ora anche i democratici occidentali più ideologicamente coinvolti sono costretti ad ammettere che il vero disastro, tuttora in atto, è accaduto “dopo”. Ma l’Occidente è rimasto sordo, ermeticamente chiuso nei suoi intoccabili principi. E lo ha isolato. Dopo un impressionante susseguirsi di stragi in tutto il Paese, seguito da uno sciagurato patto con scambio di poteri tra il presidente neo-eletto, Asif Ali Zardari e le forze telebane che avevano imposto la legge coranica ed il blocco della valle dello Swat, il governo, anche su pressione degli Stati Uniti, era tornato sui suoi passi, scatenando un’imponente offensiva militare per riappropriarsi dell’area. L’Esercito regolare si è dichiarato in più occasioni vincitore – e, militarmente, con ogni probabilità è vero. Ma se i successi ci sono stati, nel medio termine gli obiettivi dell’offensiva si sono dimostrati effimeri, tanto che, come si è visto, le incursioni contro i convogli continuano e la valle non è affatto sicura, nonostante la permanenza delle truppe.

L

Anzi, la vendetta per quello che i talebani considerano un tradimento dei patti continua tuttora con sanguinosi attacchi terroristici in tutto il Paese, dimostrando che l’azione governativa, sebbene abbia disorganizzato le forze degli estremisti del Ttp, non le ha indebolite in modo significativo. Secondo gli esperti, c’è poca speranza che la lotta contro gli islamisti possa essere vinta in modo definitivo nel medio temine, seppure dovesse ristabilirsi – ma anche ciò è questionabile – un minimo di stabilità interna. La sicurezza interna è dunque destinata a rimanere il problema principale, assai più che i mai sopiti duelli con l’India, ma le condizioni attuali continuano a distoglierne l’attenzione del governo. Anche sotto il profilo economico, malgrado gli interventi mirati del Fondo monetario internazionale (Imf), le cose non vanno bene e per il 2010-2011 si prevede un ulteriore allargamento negativo della forbice import-export. È un quadro desolante, difficile da comprendere se non si pensa a quello che è stato e che in parte ancora è il ruolo cruciale dell’Inter Service Intelligence (Isi), l’essenza e le origini di una lotta per il pote-

re mai sopita, il ruolo dei militari e la sicurezza nucleare, le relazioni internazionali del Paese e l’interesse attuale della Nato e dell’Occidente. Con gli anni l’Isi si è trasformato da un servizio intelligence operativo militare in un’organizzazione pervasiva di tutte le altre attività dello Stato. Faceva comodo così, anche se era evidente che acquistando potere sfuggiva in misura sempre maggiore all’autorità e al controllo dei vari governi, militari o civili, succedutisi nel tempo.

Musharraf, giovandosi del suo prestigio personale, aveva cercato di ridimensionarne in qualche modo i poteri. Con Zardari, che non ha lo stesso carisma di Musharraf, la situazione è anche peggiorata, tanto che gli stessi Stati Uniti si sono visti costretti a canalizzare gli ingenti aiuti che continuano a fornire al Pakistan verso proprie organizzazioni sul territorio, invece che procedere alle assegnazioni attraverso le strutture governative. Sono stati proprio gli “aiuti”, a suo tempo, a far crescere il potere dell’Isi a dismisura, fino a portarlo fuori controllo. A parte la parentesi Musharraf, il controllo centrale sull’Isi continua ad essere fonte di seri dubbi. C’è chi osserva – senza sbagliare di molto – che il Pakistan è vittima non solo di una erronea visione strategica regionale, ma anche dell’inaffidabilità dei suoi servizi segreti. I quali, secondo una valutazione di Ahmed Rashid, sono ancora troppo potenti per essere messi in riga dal governo e troppo invadenti perché un Capo di stato maggiore sia in grado di riformarli. La storia politica della Repubblica Islamica del Pakistan, dopo la fondazione nel 1947 da parte del “padre della Patria” Mohammed Alì Jinnah, vede alternarsi periodi di dittatura militare e di governi civili ispirati ai principi della democrazia parlamentare. I militari ritornarono al potere nel 1958 e lo tennero otre dieci anni. Dopo la guerra con l’India del 1971 il governo torna ad essere civile con l’elezione di Zulfiqar Ali Butto, padre di Benazir, ma dopo la sua esecuzione ritornano i militari con il già citato generale Zia ul-Haq, con il quale c’è un’espansione della legge islamica, un forte potenziamento dell’Isi e un prosperare delle mafie – la più potente quella dei trasporti – con ampio contrabbando di armi e droga con l’Afghanistan e l’attraversamento della linea Durand da parte di migliaia di profughi delle tribù pashtun d’oltre confine, che hanno fatto fiorire migliaia di scuole coraniche e introdotto sempre di più la legge islamica – la shari’a – in sovrapposizione alle leggi dello Stato. Dopo la morte di Zia, per dieci anni, a partire dal 1988, vediamo nuovamente governi civili, guidati alternativamente da Benazir Bhutto e da Nawaz Sharif, in eterna con-

Si stava meglio quando si stava Musharraf? L’Occidente l’ha fatto fuori. Oggi, mentre gli Usa discutono con il successore, il resto del mondo inizia a rimpiangerlo di Mario Arpino trapposizione. Con Sharif, i talebani e gli estremisti islamici hanno cominciato a trovare sempre maggiori spazi a livello di istituzioni centrali e periferiche. Secondo i commentatori, fino all’avvento del generale Musharraf, che ha cercato di porre freni ed avviare riforme – anche sociali oltre che economiche – i governi centrali sono stati caratterizzati da personalismi e corruzione politica.

Con Asif Ali Zardari, vedovo della Bhutto, siamo tornati ad un precario governo civile, insidiato dal vecchio concorrente Nawaz Sharif ed eternamente nel mirino della magistratura e dell’estremismo islamico. Ma anche Zardari, sul quale gli Stati Uniti hanno fatto forti pressioni perché intensifichi la lotta contro gli estremisti nella valle dello Swat e nel Waziristan del sud, in questo momento sta navigando in acque pericolose. Sospettato da sempre di corruzione, è tale la pressione di media, magistratura e alleati politici che a giudizio dei militari, che nel Paese continuano a contare, la sua rimozione non provocherebbe alcuna reazione, salvo forse nel Sindh, sua provincia di origine. Tra i vertici dell’esercito sembra corrente l’im-

pressione che anche gli Americani, ottenuti tutti i risultati possibili nella repressione degli estremisti islamici e dei talebani “di casa”, non muoverebbero un dito in caso di una sua emarginazione. Ciò è confermato da un sondaggio condotto l’estate scorsa dall’International Republican Institute secondo cui il 20 per cento dei pachistani è in favore di un nuovo governo militare, percentuale che sale al 65 per cento in casi di emergenza interna o di un dilagare eccessivo della corruzione. Solo il 25 per cento ritiene che le Forze Armate non abbiano diritto di interferire nella vita politica nazionale, mentre solo il 17 per cento dell’elettorato rimarrebbe ancora a favore di Zardari.

Tra i membri dell’attuale governo, solo il primo ministro Yousuf Gillani ha visto crescere i consensi dal 19 al 33 per cento. Continuando con l’indagine, l’amara sorpresa è che si rischia di cadere dalla padella nella brace. Circa il 75 per cento degli intervistati, stanco degli attentati e della guerra combattuta nelle province su pressione americana, vorrebbe che ad avvicendare Ali Zardari fosse proprio Nawaz Sharif, molto criticato, ma

ritenuto più incline ad iniziare trattative e compromessi con telebani ed estremisti. Questa volatilità della situazione, rapidamente peggiorata con il ritiro di Musharraf, preoccupa per molti aspetti, non ultimo quello della sicurezza nucleare. Il Pakistan è indubbiamen-


mondo

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...ma anche l’economia è in condizioni disperate. Un’anticipazione dal bimestrale “Risk” in edicola fronti. Le armi, tutto sommato, erano in mani sicure.

Ora le cose potrebbero cambiare. Il debole Zardari, stretto da un lato dagli avvocati del perfido alleato-nemico Sharif e dall’altro dalle forze dell’integralismo, per sopravvivere potrebbe cambiare bandiera e arrivare a trattative che, come già successo, potrebbero consentire ai talebani di mettere piede fuori dai loro santuari. Se dovesse subentrare nuovamente Nawaz Sharif, un certo numero di concessioni importanti sarebbero certe. Con Musharraf in sella cose del genere erano impensabili, anche se le anime candide nostrane e d’oltre oceano continueranno a parlarne male. I dubbi ci sono, e sono tanti. Il primo riguarda la oggettiva volontà e la reale possibilità di esercitare quel ruolo che la comunità internazionale – forse oggi inconfessatamente pentita – chiede a Zardari di confermare. Altri dubbi riguardano i suoi effettivi poteri, il suo rapporto con l’Esercito e alla posizione dello stesso Esercito e dell’Isi nei confronti dei talebani di casa. Il pensiero, o forse l’incubo, non può non tornare sulla sicurezza delle testate.

te potenza atomica, possedendo in proprio sia le testate sia i vettori. Il tutto è in funzione anti-India, con la quale il bilancio degli armamenti nucleari è sostanzialmente in pareggio. Sessanta testate ciascuno, secondo l’osservatorio Sipri di Stoccolma, ma l’India ha il vantag-

gio strategico di essere sette volte più grande, con una popolazione sette volte superiore. Sebbene il Pakistan, come l’India, non abbia mai firmato il trattato di non proliferazione, l’Occidente non ha mai avvertito né l’uno, né l’altra come minaccia diretta nei propri con-

Sembra che dopo l’11 settembre ci fossero dei piani, predisposti con la consulenza americana, per una disattivazione rapida delle armi nel caso corressero il rischio di cadere in mani irresponsabili. E ora? E se subentrerà davvero Sharif? Una delle prime azioni di Musharraf era stata quella di porre l’armamento sotto stretto controllo militare, sottraendolo ai giochi di potere dell’inaffidabile“padre della bomba islamica”, il chiacchierato ingegner Khan che, anzi, era stato posto sotto custodia agli arresti domiciliari. Ora Asif Zardari, che ricerca un minimo di popolarità, lo ha rimesso in libertà, con l’applauso degli islamisti. Per fortuna, sinora il triplo sistema di sicurezza, mutuato da quello in vigore in Occidente, non è stato toccato. Il controllo politico, la così detta National Command Authority, dovrebbe continuar a far capo al presidente, cioè allo stesso Zardari. Il controllo militare fa tutt’ora capo alla Divisione Piani Strategici dello Stato Maggiore, che a sua volta fa capo al Generale Kayani, comandante dell’Esercito e della Difesa. Il controllo tattico, in caso di impiego, viene delegato ai comandi operativi. Senza il consenso contemporaneo di queste tre chiavi distinte lungo la catena, il sistema non funziona e le testate rimangono inerti, quindi inutilizzabili. Ma, con il plaudente contributo di tutti i democratici dell’Occidente, ormai Musharraf se n’è andato. Al suo posto c’è uno spaventatissimo Zardari, per di più mutilato di una parte dei poteri e del carisma che aveva il generale. In ogni caso, grazie ai militari, al momento il nucleare

sembrerebbe ancora al sicuro. Ma per quanto, se le premesse sono quelle che osserviamo ogni giorno? L’attacco dell’anno scorso al quartier generale delle Forze Armate a Rawalpindi, mai tentato prima, ha fatto suonare un preoccupante campanello d’allarme. A parte il braccio di ferro con l’India per la questione del Kashmir, per l’attenuazione del quale l’Occidente, ma anche alcuni Paesi arabi sunniti, sta cercando di gettare acqua sul fuoco, le relazioni esterne del Pakistan hanno una tendenza positiva a tutto campo. Scontata è la collaborazione con la Cina, prevalentemente in ambito militare, ma anche per le tecnologie duali. Il Paese sa che per uscire dalla crisi economica, istituzionale ed esistenziale in cui si trova ha bisogno dell’aiuto di tutti, e si comporta di conseguenza. D’altro canto, tutti si rendono conto che il Pakistan, vero bastione tra civiltà e barbarie, non può e non deve essere lasciato cadere.Tanto più visto che è cooperativo e, nonostante una situazione interna assai travagliata, fa di tutto per aiutarsi anche da solo. All’interno, vi è consapevolezza di questa necessità. Anche per quanto riguarda le operazioni nella valle dello Swat e nel Sud Waziristan, vi sono indizi di atteggiamento positivo da parte della popolazione. Secondo un sondaggio abbastanza recente condotto da Gallup Pakistan, il 51 per cento degli intervistati appoggia l’offensiva governativa, anche se il 39 per cento è convinto che la guerra contro i talebani di casa sia un conflitto voluto dagli Americani. Resta però il fatto che, tra tutti, il 37 per cento è convinto che si tratti di un conflitto necessario, vitale per il Paese. Gli Stati Uniti, dal canto loro, continuano a chiedere a Islamabad più impegno, in cambio di una serie di incentivi nel campo dell’intelligence e della cooperazione civile e militare. Anche l’Italia, pochi lo sanno, nell’ambito dell’ultimo provvedimento per il rifinanziamento della missioni internazionali, ha stanziato una posta che va a beneficio di una missione civile in Pakistan.

Dopo il boom degli investimenti in epoca Musharraf, con una crescita media annua del 17,7 per cento negli anni tra il 2003 e il 2007, nel 2008 c’è subito stata una contrazione del 6,5 per cento, con una previsione di lieve crescita – l’1,7 per cento – nel 2010. Incrementate invece del 24 per cento, da un anno all’altro, le rimesse dei pachistani all’estero. L’inflazione, salita dopo Musharraf al 23,3 per cento, tende ora a mantenersi attorno al 13 per cento. L’intero assetto macroeconomico pachistano sta ora stabilizzandosi, dopo varie trance di finanziamenti di emergenza da parte del Fondo Monetario Internazionale. Ma il pericolo di collasso persiste, per cui sono necessarie misure austere (aumenti del carburan-

te, dell’elettricità, ecc.) per ridurre la domanda interna, mentre la forbice del deficit commerciale con l’estero si andrà allargando nel prossimo biennio a causa di una crescita dell’export definita “anemica”. La politica di assistenza da parte degli Stati Uniti ha creato aspettative anche nel settore civile, con 7,5 miliardi di dollari assegnati con una legge federale approvata alla fine dell’anno scorso. Ciò nonostante, la presenza degli Stati Uniti nel Sud asiatico continua ad essere percepita dai Pakistani come negativa, tesa soprattutto a rafforzare il partenariato con l’India, loro storico nemico.

L’interesse della Nato e dell’America per la salvezza del Pakistan è evidente. Le numerose visite, dalla Clinton a Petraeus, dal consigliere speciale di Obama per la sicurezza Jones al generale McChrystal, comandante di teatro delle forse Isaf e Usa, ne sono puntuale conferma. Pur non volendo truppe straniere sul loro territorio e protestando formalmente per gli attacchi mirati dei Predator nelle aree tribali, i militari pachistani continuano a temere che il focus della politica Nato e Usa si concentri più sul versante afgano che su quello pachistano, facendo prima o poi venir meno i supporti di cui l’Esercito continua ad avere urgente bisogno. D’altro canto, la globalizzazione crescente ha accresciuto l’influenza della cultura occidentale, che trova terreno favorevole nei residui di abitudini britanniche importate al tempo della separazione dall’India. Ciò è vero sopra tutto tra la parte più ricca della popolazione, che ha più facile accesso ai prodotti occidentali, dai ristoranti ai beni di consumo. Negli anni di Musharraf, ma intelligentemente questo tuttora continua, il governo ha garantito numerosi incentivi alle compagnie statunitensi ed europee in grado di fornire un apporto tecnologico avanzato. Esenzioni fiscali per dieci anni, azzeramento dei dazi sugli elaboratori, finanziamenti per l’insediamento di società miste, agevolazioni per l’educazione tecnica all’Information Technology sono ormai prassi usuali nel mondo industriale pachistano, che spesso è in grado di fornire software e servizi a basso costo anche fuori dalla regione. Se solo fosse possibile far regredire l’estremismo islamico, che al momento sta invece avanzando, un Pakistan moderno, che già esiste senza venir meno alle proprie tradizioni, ha tutto il potenziale per diventare davvero un partner preferenziale dell’Occidente nell’Asia centrale. Il tormentone della storia politica più recente del Paese continuerà a basarsi ancora a lungo sulla tripla A, “Allah, Army e America”. Speriamo sia così, perché, nessuno arricci il naso, questo è davvero il caso più favorevole!


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Diplomazia. Scelta la sede per siglare il nuovo Start 2 fra Stati Uniti e Russia PRAGA. Doveva essere il pilastro fondamentale del progetto di difesa missilistica di Bush, invece la Repubblica Ceca sarà la sede della firma del rinnovo del trattato antimissile Start-2 (Trattato sulla riduzione delle armi strategiche di teatro). È praticamente ufficiale il fatto che Praga sarà il luogo dove verrà firmato l’accordo tra Stati Uniti e Russia dato ormai per fatto. Solo Mosca non conferma la scelta della capitale boema, cosa che lascia intendere la remota possibilità che data e luogo potrebbero ancora cambiare, con Kiev che a lungo si è offerta di essere la sede della cerimonia. Per quanto riguarda il quando, sembra che tutto converga verso la metà di aprile, forse il 4 aprile, in vista del vertice sul nucleare già in programma a Washington l’11 e 12 del mese. Sono soprattutto gli Stati Uniti a fare pressione, e quello del disarmo nucleare è dopo la riforma sanitaria - un altro dei temi su cui Obama ha investito la sua immagine. Lo scorso anno proprio il 4 aprile e proprio a Praga il presidente americano aveva pronunciato un famoso discorso in cui aveva addirittura prospettato l’opzione zero, parlando di un mondo senza armi nucleari. A quelle roboanti parole stanno seguendo dei fatti di portata ben più limitata, ma Obama non vuole restare proprio senza niente. Più cauto il Cremlino. La notizia che in seguito a una richiesta statunitense Praga ha accettato di essere la sede della cerimonia della firma del nuovo Trattato di disarmo nucleare (Start 2) tra Russia e Stati Uniti, è stata data ieri dal portavoce del ministero degli Esteri ceco, Filip Kanda: «Abbiamo ricevuto la richiesta di firmare il Trattato a Praga, e, in quanto alleati, abbiamo acconsentito». Il luogo e la data dell’incontro potreb-

Il disarmo di Obama si firmerà a Praga Ancora in piedi il pressing di Kiev, mentre per la firma si pensa al 4 aprile di Osvaldo Baldacci

che vuole nell’accordo anche un legame tra le armi nucleari offensive e quelle difensive. Un non-accordo su questo punto potrebbe portare a uno slittamento della firma. D’altro canto pochi giorni fa durante la visita di Hillary Clinton a Mosca sia gli americani che i russi avevano affermato che i negoziati di Ginevra avevano ormai risolto tutte le

Washington e Mosca si sono accordati su una riduzione delle testate entro una forbice di 1.500-1.675 e dei vettori tra 500 e 1.100 bero però cambiare ancora perché - spiega il portavoce «la decisione spetta solo ed esclusivamente agli Stati Uniti e alla Russia». E infatti, da Mosca, arriva ancora qualche perplessità. Il Cremlino insiste sulla necessità che il documento in discussione sia collegato al dossier del progetto di difesa antimissile che gli Usa di Obama intendono dislocare in Europa centrale, seppur con un piano diverso e ridimensionato rispetto a quello dell’amministrazione Bush. Mosca ha esplicitamente detto

questioni aperte e la firma era imminente in quanto si trattava solo di definire dettagli formali. Oltre che sulle “guerre stellari”, i colloqui avevano rallentato durante l’anno a causa di divergenze sulle misure di verifica e sui sistemi di conteggio delle armi e dei sistemi di lancio. Poi a inizio marzo si erano sentiti telefonicamente anche Obama e Medvedev, segno dell’evoluzione della situazione, che vuole essere anche il gesto simbolico del ritorno a relazioni di collaborazione e amicizia tra Washington e

Iran, Corea, Siria e Venezuela hanno la Bomba

Un mondo pieno di armi Mentre Usa e Russia discutono della riduzione dei loro arsenali strategici, sono altre le minacce che si prospettano nel XXI secolo. Trascuriamo le armi nella disponibilità di Francia e Gran Bretagna, e accenniamo solo alla nuova superpotenza cinese che aumenta le sue spese militari del 10% annuo ma proprio quest’anno ha dato segnai distensivi. Pechino comunque dispone di 500 bombe atomiche e di missili balistici. Ma i rischi principali sono quelli che vengono dalle situazioni irregolari. India e Pakistan hanno rifiutato di firmare il Protocollo internazionale sul nucleare, e i loro arsenali atomici sono quelli che hanno destato le maggiori preoccupazioni. Da una parte perché la tensione tra i due Paesi li ha portati spesso e anche di recente sul-

l’orla della guerra, ma poi anche perché dal Pakistan è partita la rete dello scienziato Khan che ha diffuso tecnologie nucleari in mezzo mondo, mentre sempre Islamabad è il Paese che desta maggiori preoccupazioni quanto a stabilità e di conseguenza a sicurezza delle stanze dei bottoni nucleari, alle cui porte come è noto incombono gli estremisti islamici di al Qaeda e dei talebani. Israele dal canto suo non ha mai riconosciuto di possedere armi atomiche, che comunque giocano un ruolo decisivo in medio Oriente. Le minacce peggiori vengono dal programma iraniano e da quello nordcoreano, a cui si starebbe ispirando Rangoon. Sospetti nel recente passato sono stati espressi sulla Siria, mentre si agita il venezuelano Chavez, (O.Ba.) amico di Teheran.

Pechino dopo gli ultimi anni di tensione. D’altro canto il trattato attualmente in vigore è scaduto da mesi. L’accordo si riallaccia allo Start firmato nel 1991 e scaduto il 5 dicembre 2009. La prima proposta per la firma di un trattato sulla riduzione dell’imponente arsenale strategico offensivo delle due superpotenze la fece il presidente Usa Ronald Reagan a Ginevra il 29 giugno 1982. Partirono negoziati, che furono più volte interrotti. L’elemento di dissenso più importante fu il lancio dell’Iniziativa di difesa strategica, il cosiddetto scudo stellare. Lo Start fu firmato il 31 luglio 1991 dall’allora presidente dell’Unione sovietica Mikhail Gorbaciov e dal presidente Usa George Bush padre. Start-1 prevedeva la riduzione degli arsenali nucleari della metà, portandoli a 6.000 testate per potenza. Un bel passo avanti rispetto alle 30 mila armi nucleari degli Usa nel 1965 o alle oltre 40 mila sovietiche del 1985 (allora come ora occorre distinguere tra testate strategiche, testate non strategiche, riserve, e armi in via di smantellamento).

Nel 1993 (era Clinton) arrivò Start-2, che portava a 3.500 le testate ma mai ratificato. Furono Bush figlio e Putin nel 2002 a raggiungere un nuovo accordo per ridurre le armi nucleari a 1.700/2.200 a testa, ma la Russia poi non ha più ratificato il trattato. Il nuovo Trattato per la riduzione delle armi strategiche è oggetto di negoziato tra Mosca e Washington dallo scorso luglio. Il trattato è arrivato a scadenza naturale il 5 dicembre scorso, senza che si sia fatto in tempo ad avere un nuovo documento condiviso per sostituirlo. A dare nuovo impulso è stato il vertice del 6 luglio 2009 a Mosca tra Obama e Medvedev. Allora i due leader concordarono una riduzione delle testate entro una forbice di 1.500-1.675 e dei vettori tra 500 e 1.100. Per l’effettiva valenza dell’accordo bisogna comunque tener presente due fattori di segno opposto. Da un lato, quante delle testate da smantellare siano in realtà armi desuete. Dall’altra quanto invece le nuove tecnologie consentano di cambiare le carte in tavola, con meno armi ma più potenti e sofisticate, e allo stesso con meccanismi che rendono più difficile un conto effettivo. Ma soprattutto bisognerà sempre tener presente che ormai i due non sono più gli unici protagonisti della scena mondiale, e la corsa all’atomica e ai missili sembra aperta.


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L’arrestato è padre Liu, ha organizzato un campo giovani

Secondo una ricostruzione, l’uomo voleva giustizia

Cina, in galera un sacerdote non ufficiale del Fujian

Sepolto ieri a Rawalpindi l’uomo bruciato vivo

PECHINO. Un sacerdote sotterraneo della diocesi di Mindong (Fujian) è stato arrestato il 19 marzo scorso. P. Liu Maochun, 36 anni, è stato preso dalle forze di sicurezza il giorno dopo la liberazione di un altro sacerdote, p. Giovanni Battista Luo Wen, rilasciato dopo 15 giorni di detenzione. L’arresto di p. Liu avviene in concomitanza con un incontro plenario della Commissione vaticana sulla Chiesa in Cina.

RAWALPINDI. Si sono svolti ieri, fra imponenti misure di sicurezza, i funerali di Arshed Masih, 38enne cristiano pakistano, bruciato vivo perché ha rifiutato di convertirsi all’islam. Centinaia di persone hanno partecipato alle esequie, fra cui membri della società civile e rappresentanti delle Ong. Finora la polizia non ha arrestato nessuno fra i presunti responsabili e non si registrano iniziative del governo federale e dal Ministero per le minoranze. Nel frattempo emergono ulteriori dettagli sul delitto: una fonte bene informata riferisce che sarebbe stata la polizia a appiccare il fuoco all’uomo, seguendo le “istruzioni” impartite dal datore di lavoro di Arshed

P. Liu e p. Luo fanno parte di un gruppo di sette sacerdoti non riconosciuti dal governo, che fra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio hanno tenuto due campi per 300 giovani universitari della diocesi. Tale attività, secondo i regolamenti del ministero degli affari religioni è illegale perché svolta al di fuori del controllo del governo e dell’Associazione patriottica. Durante lo svolgimento del campo, presso la chiesa di Saiqi, le forze di sicurezza hanno minacciato i sacerdoti e i giovani e ordinato di cancellare l’incontro. I sacerdoti invece hanno continuato fino alla fine, incoraggiando i giovani a fare altrettanto. Circa un mese dopo p. Luo è stato arrestato. In precedenza aveva dichiarato ad AsiaNews che egli era «pronto ad andare in prigione», che non

Sgominata al Qaeda nel Regno dei sauditi Arrestati 113 terroristi: volevano colpire il petrolio di Vincenzo Faccioli Pintozzi

RIYADH. Mentre il mondo musulmano inizia a interrogarsi sui fondamenti teologici del terrorismo, una minaccia diretta al cuore più riverito dell’islam sembra essere stato sventato ieri. In Arabia Saudita, nazione che ospita e difende la Mecca e Medina, la sicurezza saudita ha sgominato una rete terroristica e scoperto due cellule di kamikaze che facevano capo al Qaeda ed erano attive nel Regno arabo. Secondo quanto ha reso noto il portavoce del ministero dell’Interno di Riyadh, Mansour alTurky, alla tv satellitare al Arabiya, la rete terroristica e le due cellule di attentatori suicidi erano separate e lavoravano in modo indipendente. Il loro obiettivo era eseguire attentati in Arabia Saudita, in particolare contro le raffinerie di petrolio delle province orientali del Paese. I due gruppi erano guidati dai terroristi di al Qaeda presenti in Yemen e per conto loro effettuavano sopralluoghi e riprese video degli obiettivi da colpire. I componenti delle cellule erano in maggioranza non sauditi entrati illegalmente nel Paese. La polizia ha arrestato 113 persone, di cui 47 sauditi. Tra gli stranieri ci sarebbero anche 51 yemeniti e altri immigrati eritrei, somali e del Bangladesh. Gli arrestati sono stati trovati in possesso di armi e munizioni. «Hanno approfittato della guerra che l’esercito saudita ha condotto nei mesi scorsi con i ribelli sciiti yemeniti lungo il confine meridionale - ha spiegato al-Turky - per penetrare nel nostro territorio. Sono stati inviati dai terroristi che si trovano in Yemen per compiere attentati nel Paese». Secondo gli inquirenti i membri di questa rete facevano capo ad Abu Muhajir, uno dei leader di al Qaeda in Yemen, il quale impartiva gli ordini ai diversi membri del gruppo. La polizia saudita ha arrestato in tutto 59 sauditi, 51 yemeniti, un eritreo, un somalo e un cittadino del Bangladesh. «La rete terroristica sgominata era composta da 101 elementi - ha concluso il portavoce della sicurezza saudita mentre le due cellule kamikaze scoperte erano composte da sei elementi ciascuna». Secondo quanto riferisce una fonte della sicurez-

za saudita alla tv satellitare al Arabiya, tra i piani della rete terroristica di al-Qaeda sgominata vi erano quelli di uccidere alcuni capi della polizia locale e compiere attentati contro le raffinerie di petrolio. È la prima volta che gli inquirenti sauditi sono riusciti a sgominare una banda di terroristi che aveva come finalità quella di eseguire omicidi mirati contro i funzionari di polizia. L’ordine imparito dai capi di al Qaeda presenti in Yemen era quello di uccidere alcuni funzionari che combattono in prima linea contro il terrorismo in Arabia Saudita. Solo lo scorso 23 agosto un kamikaze di al Qaeda, proveniente dallo Yemen, ha eseguito un attentato contro il principe Nayf bin Abdel Aziz, vice ministro degli Interni saudita, impegnato nel convincere i terroristi a pentirsi e ad abbandonare la lotta armata.

L’attentato, fallito a causa del basso potenziale dell’esplosivo che il kamikaze portava con sé, era stato rivendicato in un messaggio audio dai capi di al Qaeda in Yemen. Ma quello di ieri, fatti salvi arresti preventivi della non proprio celeberrima polizia saudita, è senza alcun dubbio uno degli elementi di novità più forte nella geografia del terrorismo islamico. L’Arabia Saudita, custode dei luoghi sacri musulmani e roccaforte del wahabismo integralista, paga forse una vicinanza ritenuta eccessiva con gli Stati Uniti. E, forse, anche un minor appoggio logistico e finanziario alla struttura terroristica dello “sceicco del terrore”, sempre più sfuggente e sempre meno amico del Golfo. L’estremismo duro e puro, oramai, non è più quello del Califfato strictu sensu, ma affonda le sue radici nei campi di addestramento pakistani e, sempre più prepotentemente, in quelli africani. L’attacco diretto al cuore dell’islam dogmatico è un segnale del riflusso del terrorismo: i figli minori sono cresciuti e vogliono emanciparsi da padri troppo nobili e troppo scomodi. Ecco perché, una volta di più, è auspicabile un Illuminismo del mondo musulmano. Che faccia chiarezza fra figli e figliastri.

Fra i fermati ci sono molti stranieri, in maggioranza yemeniti ed eritrei. Si tratta del “riflusso” del terrorismo

aveva «nulla da temere» e che era «orgoglioso di essere un sacerdote cattolico, desideroso di professare la fede anche con le azioni». E aveva aggiunto: «Sarei felice di servire come testimone di Cristo e seguire l’esempio di tanti santi martiri». Altri due sacerdoti, p. Guo Xijin e p. Miu Yong hanno ricevuto l’avviso di arresto, e pensano che saranno detenuti nel prossimo futuro. A tutti e sette i sacerdoti coinvolti è stata comminata una multa di 500 yuan (circa 50 euro). Secondo i regolamenti sulle attività religiose, chi opera al di fuori del controllo del regime è considerato un “delinquente”. La Chiesa sotterranea è perseguitata perché rifiuta l’adesione all’Associazione patriottica.

Masih. Il 38enne cristiano pakistano, sposato e padre di tre figli dai 7 ai 12 anni, è morto il 22 marzo scorso in seguito alle gravissime ferite riportate durante l’assalto. Egli presentava ustioni sull’80% del corpo e fin dall’inizio i sanitari avevano escluso possibilità di salvezza.

A scatenare la violenza dei suoi assalitori, il rifiuto dell’uomo e della moglie di convertirsi all’islam.Peter Jacob, segretario esecutivo di Giustizia e pace della Chiesa cattolica pakistana (Ncjp): «La più ferma condanna per quest’atto brutale» e sottolinea che «un nostro gruppo di indagine ha raggiunto Rawalpindi e ha avviato una inchiesta parallela sui fatti». Egli aggiunge che «a breve diffonderemo un documento, previa opportuna verifica di tutti gli elementi». L’attivista denuncia infine, con rammarico, il silenzio dei media pakistani sull’incidente e la mancanza di iniziative del governo federale e dal Ministero per le minoranze. Intanto cominciano a circolare voci secondo cui Arshed Masih si sarebbe dato fuoco da solo, per protestare contro le ripetute violenze e torture della polizia ai danni della moglie, Martha Arshed. Gli abusi sarebbero avvenuti nella stessa stazione di polizia.


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Miti. Festa di compleanno per Mina, una delle più lucenti stelle della canzone italiana, una donna che ha saputo trasformare la sua voce in una leggenda

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bolle blu

Sensuale, ribelle, sfuggente: così ha dato corpo e anima ai sogni di una generazione di Gennaro Malgieri

educente. Sensuale. Irresistibilmente attraente. Non so se nella storia della musica leggera italiana c’è un’altra canzone eroticamente torrida, ma L’importante è finire è la sintesi dell’amore profano più riuscita, la sublime materialità del sesso che paradossalmente s’innerva nel divino antro della fantasia che lo guida. Il testo, l’accompagnamento, la voce soprattutto rimandano, infatti, ad un universo nel quale la passione è totale, l’incontro dei sensi è un gioco serissimo al quale l’interprete si offre ben oltre l’immaginazione che suscitano le parole.

S

Q u e s t a e r a M i n a nel 1975, capace di scandalizzare e di scaldare, al punto da costringere la Rai a censurare quell’estate una canzone che, con eleganza raffinatissima, restituiva al sesso lo stupore che andato perdendo, di videoclip in videoclip, fino ad annullarsi nella costruzione banale della pornografia dei nostri tristissimi, volgari giorni, scanditi da fanciul-

L’eterna educatrice sentimentale... di Enrico Letta l ricordo, come un riflesso incondizionato, va subito alla spiaggia di Tirrenia, a pochi chilometri da casa. Primi anni ‘70, domenica al mare con la famiglia, neanche un centimetro di arenile libero. Alla radio come sottofondo le canzoni di Mina. A raccontare relazioni più o meno tormentate: e non sai quanto amore ti ho dato? A dirne quattro a un indifendibile Alberto Lupo, molto ciarliero e poco pragmatico: parole parole parole. A contemplare lo «stupore della notte» immaginando cosa mai sarebbe successo se telefonando... Credo che per quelli della mia generazione, nati nella seconda metà degli anni Sessanta, la voce di Mina si sia tradotta in una specie di educazione sentimentale via etere. Confusi o meno confusi, Mina ci cantava di qualcosa che ancora non conoscevamo bene ma che intuivamo essere comunque potente. Almeno tanto quanto il suo timbro vocale. Mina che piaceva a tutti, donne e uomini, vecchi e giovani. Mina che in tv, da Canzonissima, duettava con i mostri sacri ma gli teneva testa. Mina che poi è scomparsa dalla tv e così si è sottratta a quell’involgarimento che con gli anni ha come contaminato l’immaginario collettivo del Paese. Mina che, però, è rimasta lì: sempre uguale, bella e fiera nei frame in bianco e nero. Sempre la più brava. A duettare con Celentano o con gli Afterhours. Con il dono rarissimo di continuare a piacere ancora a tutti, donne e uomini, vecchi e giovani. Ma senza quasi volerlo e senza ammiccamenti. Solo a modo suo. Auguri Mina.

I

le tutt’altro che in fiore provocanti come zucchine fuori stagione. Tra la femmina Mina e la cantante strepitosa che per oltre mezzo secolo ha affascinato platee di adoranti ascoltatori non c’è mai stata discontinuità. L’una senza l’altra non sono pensabili. E Io e te da soli, del 1971, è forse la migliore espressione della capacità di seduzione che soltanto una donna autentica e completa, in grado di essere in ogni istante della propria esistenza artista qualsiasi cosa faccia, sa giocarsi sul tavolo dell’infinita partita con l’altro da lei. Con quella bellezza che ha incantato adolescenti e uomini maturi, senza lasciare indifferenti

Mina a «Studio Uno», la straordinaria trasmissione televisiva di Antonello Falqui che la consacrò diva dello spettacolo a tutto tondo: lì Mina non solo cantava ma interloquiva con i suoi ospiti, spesso diventando una spalla perfetta le donne che non riuscivano a detestarla neppure quando le sottraeva l’attenzione dei loro uomini perché capivano che in quelle canzoni Mina si proponeva come prototipo della donna universale, e la sua voce come grido dolorante, dolcissimo, rabbioso, eccitante, che tutte le donne del mondo avrebbero voluto emettere. Per questo l’abbiamo amata, uomini e donne. Anche quando con l’amore ci ha giocato. Anche quando lo ha irriso. Anche quando l’ha aggredito.

Sì, ha saputo trovarsi i poeti giusti, Mina. Ma non sempre le poesie rie-

scono a colpire cuori e sensi, ad accendere sentimenti e risentimenti, a placare ardori e sofferenze. A lei è riuscito. E per questo il Tempo la celebra. E noi, altro non possiamo fare, che ammettere l’incantamento davanti a una cantante (soltanto cantante?) che è stata capace di abbandonare le scene, per portarsele con sé; per fare della sua vita una scena senza confini catodici, senza i limiti di un palcoscenico, senza le luci di un varietà destinato a spegnersi. La sua scena l’ha costruita nell’irreale, insinuandosi come un fantasma invisibile ed inafferrabile nelle menti di ascoltatori che hanno cercato poesia e poesia e poesia. Come in quelle parole


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parole parole quando “c’era la notte che parla”, come le suggeriva Alberto Lupo, che vedeva spegnere nei suoi occhi la luna e le ricordava che se non ci fosse bisognerebbe inventarla. Parlava a Mina, ma anche a tutte le donne rivolgendosi a lei. Non so se

l’abbia ingoiata, come s’ingoia una po’di felicità o di tristezza, magari di rado, forse senza pensarci. E riascoltandola deve essersi chiesto, tempo dopo: ma dove ho sentito questa musica che mi ritorna in mente e mi fa palpitare mentre cammino incontro a un destino che non ha niente a che vedere con essa? Perché sono così disincantato, mentre la vita mi sta tormentando e tornano gli amori abbandonati, gli amori finiti, gli amori irrisolti, gli amori che mi hanno fatto male? Interrogativi che dobbiamo a Mina come a Prevért, come a Nazim Hikmet o a nessuno, forse soltanto a noi stessi che dentro una poesia ce la portiamo comunque, magari senza averla mai provata a scrivere.

Forse ha anche saputo trovare i poeti giusti, ma alle volte le poesie da sole non bastano per arrivare al centro delle emozioni

Un’artista del suo calibro deve inorgoglirci

La colonna sonora di un’epoca di Mariastella Gelmini a storia della musica italiana passa dalla voce incredibile e dalle famosissime interpretazioni di Mina. Un pezzo delle vicende italiane, come una colonna sonora senza fine, è stato accompagnato e continua ad essere accompagnato da quel timbro caldo ed emozionante. Un’artista del suo calibro deve inorgoglirci. Le sue canzoni legano intere generazioni e arrivano a tutti. Sono cresciuta con mia madre che ascoltava grandi successi come Se telefonando o E poi, Parole, parole, parole ed ho continuato ad appassio-

L

narmi alle sue interpretazioni. Una delle mie preferite è sicuramente E se domani come anche Ancora.

A Mina lego ricordi e periodi della mia vita e questo è davvero una sorta di “miracolo”che la musica, tra le arti più sublimi, attraverso la voce di Mina è riuscita a compiere per tutto il nostro Paese. Un regalo prezioso e senza tempo che ciascuno di noi deve custodire come patrimonio indelebile. Tantissimi auguri di cuore per i suoi settant’anni.

Mina, a un certo punto della sua vita, si sia stancata anche delle parole e abbia cercato dell’altro; altro che non sapremo mai. Ma mi piace credere che l’incontro con le emozioni battistiane l’abbia appagata almeno un po’ illudendola (perché è di illusioni che soprattutto si vive) che la vita cominci e finisca con un canto, un canto d’amore. Vorrei che fosse amore quante volte l’abbiamo ascoltata, struggendoci e quietandoci e poi struggendoci ancora e inabissandoci nei recessi dell’impossibile, dell’inafferrabile? E così sulle onde finemente modulate di una voce inimitabile abbiamo cercato noi stessi, naufraghi in un mare d’amore perduto, e le anime che avremmo voluto tenere con noi. Ma questo vale per centinaia di brani che mai ci hanno lasciato indifferenti.

Ecco, Mina non ha mai provocato indifferenza. E anche chi, per sua disgrazia, ne abbia almeno una volta ascoltata distrattamente una sillaba, un vocalizzo, una nota, credo

Sarà solo una “questione di feeling” come duettava Mina con Riccardo Cocciante. Un feeling che si riaccende oggi che l’artista compie settant’anni. E la sua bellezza intatta, voglio credere in niente cambiata da quando l’ammiravo ragazzo sul piccolo schermo, turbato il giusto, come chiunque credo, davanti a quelle gambe che comunque non mi distoglievano dall’ascolto delle sue canzoni. Il corpo e la voce. In mezzo l’anima, collante naturale perché l’intelligenza seduca come le movenze ammiccanti. E Dio creò la donna, si disse per l’abbagliante Brigitte Bardot. E dopo la donna, Mina. Buon compleanno. E grazie per aver fatto riposare amori infiniti su cuscini irreali.


cultura

pagina 20 • 25 marzo 2010

e pagine più brillanti e visionarie del nuovo libro di Marco Follini appena uscito per Mondadori, Elogio della Pazienza, sono quelle dedicate a Silvio Berlusconi. L’autore lo conosce bene e può scrivere a ragione che con lui gli è «capitato di condividere qualche anno e più di una disputa». Da questa convivenza, più subita che ricercata, nascono riflessioni puntuali e illuminanti come «L’esibizione di sé, per il Cav, è un’ideologia, non solo una tecnica. Forse è perfino una morale», «Il fatto è che per Berlusconi l’abito della propaganda è la pelle, non è il rivestimento» e il definitivo «Berlusconi è un uomo che non crede nei confini. Quello tra il privato e il pubblico. Quello tra gli interessi e i doveri. Quello tra i giochi di parte e le regole comuni. Quello tra gli interessi e i doveri. Quello tra la politica e le istituzioni. Quello tra la sua persona e le sue funzioni. E mille altri».

L

Un’analisi brillante e un po’ rassegnata, che si colloca all’interno di una riflessione molto approfondita sull’Italia degli ultimi decenni e sulle sue prospettive politiche, fatta da un politico che ha attraversato questi anni ricoprendo ruoli di responsabilità, fino alla Vicepresidenza del Consiglio, e ha tentato molte vie per portare il proprio contributo alle vicende del paese. In questa fase non sembra molto soddisfatto della situazione. Follini ha scelto per il suo libro un titolo che riprende quello del famoso saggio di Erasmo da Rotterdam, Elogio della Pazzia, per fare il punto sulla sua esperienza politica, la sua vita, e insieme su quella di una generazione formata a una scuola altissima, quella dei Moro e dei Fanfani, dei Berlinguer e degli Andreotti, per trovarsi relegata ai margini dei processi decisionali che si svolgono nel nostro paese. I nomi dei suoi compagni d’avventura sono D’Alema, al quale è riconosciuta la palma di essere «tecnicamente il migliore», e poi l’amico Casini,Veltroni, Rutelli, Fassino, tutti accomunati dal fatto di non essere stati partecipi delle grandi trasformazioni del mondo nel quale hanno vissuto. «È come se in fondo la storia ci fosse passata sopra», scrive Follini. Il terrorismo è stato sconfitto dalla generazione precedente, il Muro di Berlino è caduto «senza che noi muovessimo una pietra», persino i cambiamenti del sistema politico italiano portano la firma di altri. Intanto entravano in campo attori diversi, in teoria meno attrezzati per calcare la scena della politica ma più determinati, sanguigni, aggressivi, mediaticamente efficaci. Forse più capaci nell’interpretare i tempi nuovi che si affac-

Libri. Contrasti, girotondi, limiti e frenesie del Paese nel suo “Elogio della pazienza”

L’Italia tachicardica di Marco Follini di Sergio Valzania

Per l’autore, è compito della politica ricondurre le smanie in un alveo condiviso, per consentire una mutazione lenta, ma vera

A destra, Marco Follini. Qui sopra, la copertina del suo nuovo libro “Elogio della pazienza”. In alto, un disegno di Michelangelo Pace

ciavano. Anche in questo caso Follini fa i nomi. Non solo Berlusconi e Prodi, i protagonisti dell’ultimo quindicennio politico italiano; Bossi e Di Pietro sono allo stesso modo partecipi di uno stile diverso di proporsi all’elettorato. Se si trattasse di pittura quello descritto sarebbe il contrasto fra una generazione di capaci artigiani, formati diligentemente a bottega ma prigionieri del manierismo, e un gruppo di contemporanei molto meno preparati sul piano tecnico, ma sostenuto e sospinto da un senso artistico più potente, meglio attrezzato nel raccontare il mondo di oggi.

Il tema della politica come interpretazione, come esplicitazione del racconto collettivo di una comunità è caro a Follini. Fa parte della sua concezione alta della politica, che non si propone di amministrare interessi o di accompagnare la trasformazione che sempre attraversa una società. Ambisce piuttosto a esserne il punto di sintesi, il luogo di raccolta e soprattutto di interpretazione positiva del suo sentire, dove il suo immaginario, fatto di timo-

ri, sogni, paure e speranze si trasforma nella prospettiva del futuro. A questo riguardo Follini esercita la sua critica e formula quella che è insieme una proposta e un augurio. Il limite dell’Italia degli ultimi decenni, avverte, sta nella contraddizione profonda che lega una frenesia di superficie, un movimentismo marinettiano, a un immobilismo di fondo. Prigioniera di un forsennato girotondo la nostra società sembra muoversi rapidissima per restare invece sempre fer-

ma e sempre più in ritardo rispetto alle urgenze che la stringono da ogni parte. Qui arriva l’elogio della pazienza, di una politica che in quanto riflette è anche capace di fare, di fornire una guida in grado di accompagnare il paese nella direzione nella quale pure chiede di andare, se qualcuno le desse il tempo di riflettere, la liberasse dalla frenesia improduttiva che l’avvolge. Follini rivendica per la politica un ruolo etico, pure nella gestione di un contrasto reale fra interessi diversi, caratterizzato dal senso di responsabilità nei confronti delle richieste dell’elettorato, per loro natura tendenti al radicalismo. Ossia all’impossibile, al tutto subito. Per lui la politica ha anche, forse soprattutto, il compito paziente di assorbire queste spinte e ricondurle in un alveo per quanto possibile comune e condiviso, in modo che sia possibile realizzare una trasformazione lenta, ma effettiva. Come quella vissuta dall’Italia negli anni del dopoguerra e del centro-sinistra, che negli ultimi decenni si è bloccata per essere sostituita da un’emergenza permanente e priva di esiti concreti. In fondo, dice Follini, la nuova scuola politica è riuscita a conquistare il consenso dell’elettorato, ma ha fallito nella sua missione fondamentale, quella di far avanzare il paese nel suo percorso di modernizzazione.

L’assetto politico che è stato raggiunto è un nuovo bipolarismo imperfetto, il cui campo moderato è adesso dominato da sentimenti di una destra rimasta estranea al periodo precedente, mentre la sinistra è divenuta uno spazio di risulta, nel quale si trovano a convivere istanze troppo diverse per riuscire a condensarsi in un progetto comune. La stessa densità di sapere politico la condanna all’inerzia, al contrasto interno, in definitiva alla sterilità. Eppure un sistema fondato su di una leadeship fortissima non ha una proiezione verso il futuro, è destinato ad attraversare una crisi profonda al termine della quale la prospettiva migliore consiste nel recupero di un sapere politico proveniente dalla tradizione moderata. Quello di cui parla Follini non assomiglia al Grande Centro, un nuovo attore che si agiti su di un palcoscenico fin troppo affollato, quanto a un ripensamento collettivo, una ricostruzione di sistema che smetta di scimmiottare esperienze estranee alla nostra tradizione e si sforzi invece di recuperare quanto di positivo essa contiene. Che non è poco.


spettacoli

25 marzo 2010 • pagina 21

Danza. Pienone a Carpi per lo spettacolo dei Ballets Trockadero: un metro e ottanta di artisti maschi, rigorosamente in tutù

Tutti pazzi per i “Trocks”

di Diana Del Monte

CARPI. Martedì sera, a Carpi, le silfidi alate della delicatissima coreografia di Fokine apparivano decisamente più robuste del solito: alte più di un metro e ottanta e con scarpette da punta numero 43, si sono presentate al pubblico con una tecnica brillante, ma occasionalmente villose nei loro costumi ispirati ai tutù romantici di Benois. Ad esibirsi erano Les Ballets Trockadero de Montecarlo, una compagnia di balletto interamente al maschile con un repertorio che include i classici più noti della tradizione ballettistica, sia di origine romantica che neoclassica, e della modern dance americana, tutti rivisitati in chiave ironica e parossistica. Coreograficamente fedeli agli originali, gli spettacoli dei Trocks, come li chiamano affettuosamente i loro sostenitori, sono spettacoli en travesti, come si usa dire, con un grado di raffinatezza stilistica difficilmente immaginabile. Nata quasi per gioco nel 1974 da un gruppo di professionisti che si divertiva a parodiare i classici della tradizione, questa originale compagnia ha iniziato la sua ascesa esibendosi al margine degli spettacoli off-off Broadway. Conquistato immediatamente il favore del pubblico e della critica, dopo meno di due anni i Trocks erano già strutturati come una compagnia di balletto professionale, con maître de ballet e lezioni quotidiane, impegnati a impacchettare e spacchettare velocemente giganteschi tutù per far fronte alle lunghe tourneé all’estero. Da allora, si sono esibiti nei palcoscenici di più di 500 città, in oltre 30 paesi diversi: Parigi, Vienna, Amsterdam, Londra, e poi il Giappone, la Cina e l’Australia; questo originale ensemble di professionisti è stato invitato anche nei templi del balletto, primo fra tutti il Teatro Bol’shoj di Mosca, e dalla famiglia reale britannica. Durante quest’ultima tourneé italiana, che si concluderà a Ravenna il 27 e 28 marzo, hanno portato in scena in alcuni dei loro cavalli di battaglia, come La morte del cigno. Poco prima dell’apertura del sipario una voce annuncia: «Nel pieno rispetto della tradizione del balletto russo, annunciamo che…», arriva così l’immanca-

In questa pagina, in senso orario, la compagnia Les Ballets Trockadero in: “Go For Barocco”; “Les Sylphides”; di nuovo in “Go For Barocco”; “La Morte del Cigno”

bile elenco delle sostituzioni, fenomeno ben noto ai ballettomani di tutto il mondo, seguito dall’altrettanto nota richiesta di non fare foto, in questo caso «perché il flash potrebbe turbare le danzatrici più sensibili, riportando loro alla mente le crudeli immagini delle fucilazioni bolsceviche». L’annuncio si chiude con la rassicurante affermazione che «nonostante ciò, si avvisano gli spettatori che tutte le nostre

della metrica musicale. Chiude Majisimas, un pout pourri ispirato alle danze di carattere e curato da Raffaele Morra, danzatore della compagnia originario della provincia di Cuneo, sulla musica dell’opera di Jules Massenet, El Cid, del 1885.

Il fatto che degli uomini grandi e grossi danzino tutte le parti femminili arrampicati su enormi scarpette da punta è certamente motivo di divertimento, ma la vera chiave dello spettacolo è l’acume con il quale i Trocks sanno cogliere e mettere in scena, esasperandole, le cifre stilistiche dei coreografi, i vezzi delle ballerine, il

dietro le quinte. Da quando sono stati immortalati da Richard Avedon sulle pagine di Vogue all’inizio della loro carriera, i Trocks sono una delle realtà più longeve e applaudite del mondo della danza classica con numerosi fanclub in tutto il mondo e una vera e propria venerazione da parte del pubblico giapponese. Attualmente la compagnia conta quattordici elementi, di cui tre italiani, provenienti dalle migliori accademie e scuole di danza; la loro professionalità e le loro capacità come danzatori sono l’altra chiave di lettura del fenomeno Trocks, indispensabile per spiegare questo lungo e ampio suc-

La compagnia conta quattordici elementi, di cui tre italiani, provenienti dalle migliori accademie e scuole di danza; la loro professionalità e le loro straordinarie capacità come danzatori spiegano questo lungo e ampio successo ballerine sono fortunatamente di buon umore».

Lo spettacolo si apre con Les Sylphide, seguito dal Pas de deux del Don Chisciotte e da Go For Barocco, variazione neoclassica con la coreografia di Peter Anderson che, parafrasando Concerto Barocco un’opera del 1942 del coreografo George Balanchine, su musiche di Bach - elabora una feroce satira del balletto neo, neo, neo classico, esaltandone la freddezza e la ricerca di perfezione nell’interpretazione

carattere delle variazioni della tradizione ballettistica e, non ultimi, i piccoli incidenti di percorso in cui possono incorrere, e incorrono, le compagnie di professionisti e l’habitus del

cesso. La tecnica è forte e questo traspare sia nei ruoli femminili, con fouettés di assoluto rispetto, che in quelli maschili, che non sfuggono alla feroce ironia dello spettacolo. Gli unici nèi sono il numero, decisamente esiguo se paragonato a quello dei corpi di ballo tradizionali, che li limita nella scelta del repertorio, e l’impossibilità di essere compresi appieno da coloro che non hanno una passione per il balletto, o sono reduci da un’immersione nel repertorio classico. A Carpi, infine, hanno regalato al loro affe-

zionato pubblico un gradito fuori programma, La Morte del Cigno, interpretata da Paul Ghiselin nei panni di Ida Nevasayneva; l’annuncio a inizio serata, incastrato tra quelli ironici delle sostituzioni, è stato immediatamente recepito e accolto dal pubblico con un entusiasmo da concerto rock. La Morte del Cigno, infatti, è probabilmente il loro pezzo di maggior successo, e d’altra parte Ghiselin è memorabile nella sua satira almeno quanto la Pavlova lo è nella storia di questo bellissimo e poetico assolo.

Les Ballets Trockadero sono uno spettacolo imperdibile per i ballettomani, ma risultano gustosi anche a chi non ha una grande esperienza come spettatore. Grazie a loro: Marina Plezegetovstageskaya (Roberto Forleo), Olga Supphozova (Robert Carter), Vanya Verikosa (Brock Hayhoe), Maria Paranova (Or Sagi), Lariska Dumbchenko (Raffaele Morra), Irina Kolesterolikova (Giovanni Ravelo), Colette Adae (Claude Gamba), Katarina Bychkova (Joshua Grant),Yakatarina Verbosovich (Chase Johnsey), Nadezhda Bogdownova (Christopher Lam), Giuseppina Zambellini (Davide Marongiu), Svetlana Lofatkina (Fernando Medina Gallego), Doris Vidanya (Christopher Montoya). Sarà difficile guardare ancora con gli stessi occhi le delicate silfidi fokiniane.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Maroni intervenga per mettere fine al blocco delle carriere Da circa trent’anni il personale del corpo nazionale dei vigili del fuoco è bloccato nelle carriere, mentre per la protezione civile è stato possibile effettuare passaggi di qualifica o assunzioni di livello dirigenziale con una semplice delibera. Così tanti vigili del fuoco stanno arrivando alla pensione, senza aver mai conseguito un avanzamento di qualifica. Intanto il contratto nazionale dei Vvf è bloccato da 26 mesi, gli straordinari vengono retribuiti con costante ritardo ed il nostro ruolo viene sempre più marginalizzato a quello di manovalanza del soccorso. Per questi motivi abbiamo lanciato una campagna nazionale di sensibilizzazione, chiedendo a tutte le forze politiche di presentare, l’interrogazione predisposta dalla RdB, in cui si chiede al ministro Maroni di intervenire con procedure di urgenza per mettere fine al blocco delle carriere. Moltissimi i consiglieri regionali e comunali, di tutti gli schieramenti politici, che dal nord al sud Italia hanno inoltrato la medesima interrogazione.

La RdB P.I. Vigili del Fuoco

SFRUTTAMENTO STATALISTA La proprietà privata produce benessere comune, perché richiede impegno amministrativo, responsabilità ed esposizione ai rischi. Il mercato concorrenziale determina pluralismo e democrazia politica; moltiplica i centri gestionali delle risorse; garantisce libertà ed efficienza produttiva. L’esistenza di più unità economiche competitive assicura frantumazione del potere e relativa indipendenza della società civile nei confronti dello Stato. Le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Come contrasto fra aspettative ed esiti reali, la rivoluzione comunista - mirante a liberare dallo sfruttamento - lo accentua.Vuole il bene, crea il male. Rispetto all’ordine borghese, il collettivismo burocratico costituisce una regressione storica. Nel collettivismo assoluto, gerarchi, mandarini, nomenklatura e, in genere, caste partitiche,

burocratiche e militari dello Stato padrone e dittatoriale sfruttano (in guisa dispotica e arbitraria) il mondo del lavoro e il comune cittadino. Questi viene ridotto quasi a moderno schiavo, privo di voce, indipendenza e diritti umani. La pianificazione autoritaria centrale e la nazionalizzazione dei mezzi produttivi implicano la nazionalizzazione delle persone: nel comunismo reale, gli esseri umani diventano proprietà dello Stato tentacolare, fiscalista e vessatorio.

Gianfranco Nìbale

COOP FIRENZE E PUBBLICITÀ INGANNEVOLE Abbiamo denunciato all’Antitrust la pubblicità di UniCoop Firenze che ha questo slogan: “Contro il carovita per sempre”. Una diminuzione dei prezzi di vendita fino al 20% per sempre, che ancora campeggia sul sito della cooperativa. Ora ci è giunta comunicazione che l’Antitrust veri-

Arma letale (per gli insetti) Le piante carnivore denominate della femiglia delle “drosere” (quella nella foto è una “drosera stolonifera” australiana) sono ricoperte da peli unicellulari alla cui sommità ci sono ghiandole che secernono un liquido appiccicoso e letale per le loro prede (insetti e piccoli invertebrati).

ficherà la rilevanza dei fatti segnalati, e che la pratica è la numero PS5720. Riteniamo tale pubblicità ingannevole, perché fa una promessa praticamente impossibile da mantenere. Cosa vuol dire uno sconto del 20% per sempre? Rispetto a cosa, quanto e quando? Sembra proprio che questo “per sempre” non sia e non possa essere vero, e infatti è già stato oggetto di condanna dell’Antitrust.

Lettera firmata

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

NON SONO LE IDEE A FARE LA DIFFERENZA Un flusso ingente di idee, che affluisce in un mare di ostacoli: tale è la politica italiana che adopera due armi: l’accusa e l’ostruzionismo. Si cancellano così anche gli immani sforzi di un presidente della Repubblica di ricordare che la politica ha un compito fondamentale che è il bene di tutti gli italiani. In Italia purtroppo non sono le idee a fare la differenza, ma i ruoli ricoperti.

Gennaro Napoli

dal ”People’s Daily” del 24/03/2010

Dai, attacca la Cina! di Justin Ward e tormentate relazioni fra Stati Uniti e Cina sono molto più profonde di quelle di un matrimonio in crisi. Quando i tempi sono buoni, i buoni sentimenti abbondano; ma al primo segnale di problema, l’America sbatte la sua frustrazione su Pechino. Sembra un marito che, appena licenziato, torna a casa e picchia la moglie. L’ultimo punto che viene dibattuto, in ordine di tempo, è la debacle sulla valuta: il Senato americano è arrivato a comportarsi da bullo, minacciando la Cina di sanzioni in caso di mancata riforma monetaria. Questo ultimo round di botte non è nient’altro che una distrazione, con cui Washington cerca di offuscare le vere ragioni che sono alla base del crollo della propria economia portando l’attenzione pubblica su altri temi. Mentre chi è al governo briga per una costosissima riforma della sanità pubblica. Anche ignorando il fatto che i problemi dell’economia americana non sono collegabili soltanto alla bilancia commerciale con la Cina, gli economisti non sono concordi nel sostenere che rivalutando la moneta cinese e cambiando l’attuale politica valutaria di Pechino si possano risolvere tutte le questioni. Secondo un rapporto della Heritage Foundation, nonostante la Cina “tenga volontariamente basso” lo yuan, l’export americano nel Paese asiatico è cresciuto del 400 per cento nei dieci anni fra il 1998 e il 2008. È vero che anche l’export cinese è cresciuto moltissimo, in questo periodo, ma la cosa ha colpito per la maggior parte il resto dell’Asia. Non gli Stati Uniti. La storia mostra che la rapida rivalutazione dello yen – avvenuta negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso – non ha risolto il problema

L

commerciale con il Giappone. Per quale motivo, oggi, gli economisti credono che la situazione cinese possa essere diversa? Gli Stati Uniti competono con le altre nazioni asiatiche e con l’Europa per vendere i propri prodotti in Cina, e la rivalutazione dello yuan non avrebbe effetti su questo campo.

Al contrario, la rivalutazione dello yen ha danneggiato enormemente l’economia interna giapponese, e tutto fa pensare che lo stesso potrebbe accadere in Cina. Secondo la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, forzare Pechino a rivalutare la propria valuta ne minaccia la stabilità d mette allo stesso tempo in pericolo l’ordine economico globale. L’agenzia sostiene che «aspettarsi che la Cina lasci il suo tasso di scambio monetario alla mercè di mercati totalmente incontrollabili e vada dunque incontro al rischio di un apprezzamento sconvolgente come quello giapponese significa ignorare l’importanza che la Cina riveste per la stabilità interna ed esterna, della regione e del pianeta». Alcuni recenti test condotti dal governo cinese per misurare gli effetti di una crescita dello yuan sulla produzione stima che verrebbero colpiti violentemente i settori tessili e manifatturiero, mettendo a rischio 25 milioni di posti di lavoro. Forzare la rivalutazione dello yuan è una mossa che fa perdere tutti i contendenti. Perché se la Cina mette a rischio la propria stabilità economica e sociale, anche l’America

ne subirà le conseguenze. Molti economisti, inoltre, sottolineano che con l’enorme accumulo di debito estero americano nelle mani di Pechino una crescita dello yuan metterà nuova pressione sui tassi di interesse negli Stati Uniti: e questo potrebbe causare una recessione peggiore.Visto lo stato in cui versano le carte di credito e i tassi di interesse statunitensi, gli americani hanno bisogno di tassi più alti quanto il cuore di Dick Cheney ha bisogno di un Big Mac. Uno yuan debole crea a Washington più benefici che danni. Principalmente, aiuta gli americani consumatori, perché fornisce loro una più ampia varietà di prodotti a basso costo. Una rivalutazione dello yuan significa inflazione, e questa – combinata con più alti tassi di interesse – rappresenta un passo in più verso il baratro. E anche se dovessero crescere il costo del lavoro e il prezzo della produzione, non è ipotizzabile pensare che il lavoro apparirà nelle mani degli americani. Basterà andare, per avere un minor costo di produzione industriale. verso il Messico o un’altra delle nazioni in via di sviluppo. Questa è la globalizzazione.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Per fortuna sono un bravo animale sano

LE RAGIONI DI UNA SCELTA PROIETTATA VERSO IL FUTURO La scelta effettuata dall’Unione di centro in Puglia non è, come troppo spesso è stato semplicisticamente riportato, una scelta di correre da “soli”o una “terza via”. Invero l’Unione di centro corre in Puglia, regione che ha scelto un sistema presidenziale di elezione del proprio presidente, con Adriana Poli Bortone. Cioè, con il candidato più credibile in termini di leadership, competenza amministrativa ed esperienze politica. Adriana Poli Bortone rappresenta uno dei migliori frutti di questa terra, e l’Unione di centro ha ritenuto di dover proporre non un “proprio” candidato, ma il miglior candidato per lo sviluppo e la salvezza della nostra amata regione. Una scelta, cioè, operata al di là degli steccati delle ideologie, delle appartenenze; capace di gettare ponti verso il futuro, verso lo sviluppo, verso la partecipazione. Noi speriamo che i pugliesi sappiano cogliere e premiare questa scelta. Sappiamo bene che il compito è più che difficile, ma abbiamo anche la consapevolezza che solo le imprese che appaiono impossibili sono capaci di cambiare veramente il destino degli uomi-

Ciao caro, va tutto bene, adesso. Avrei voluto piangere durante il viaggio, perché ho sempre nostalgia di me stessa. Ma per fortuna sono un bravo animale sano e ho dormito benissimo, grazie. Quanto al tuo fantasma, lo cerco inutilmente in giro per la città. Le donne di qui sono tutte brune, bassine, con capelli lisci e aria insipida. Ma per strada ci sono quasi solo uomini. Le donne, così sembra, si chiudono in casa e compiono il loro dovere, mettendo al mondo una dozzina di figli all’anno. La gente di qui mi guarda come se io arrivassi dritta dritta dal Giardino Zoologico. Pienamente d’accordo. Per non dare nell’occhio, uso bigodini sulla testa e una voce dolce come nemmeno Giulietta conobbe. Che più? Avrei voluto scrivere altre cose. Ma tu avresti detto: sta cercando di essere «geniale». Sai, Lùcio, tutta l’effervescenza che ho provocato mi ha fatto solo venire un enorme desiderio di dimostrare a me e agli altri di essere più di una donna. Lo so che non ci credi. Anche io del resto non ci credevo. Ok. Basta sciocchezze. È tutto molto divertente. Solo che non mi aspettavo di ridere della vita. Da buona slava ero una giovane seria, disposta a piangere per l’umanità... (Sto ridendo). Un grande abbraccio. Clarice Lispector a Lùcio Cardoso

LE VERITÀ NASCOSTE

Mondiali in Sud Africa, taxi vs autobus JOHANNESBURG. Approfittando dei fondi per i Mondiali di Calcio, l’amministrazione di Johannesburg ha investito milioni di euro per dotare finalmente la più grande città sudafricana di un servizio di autobus degno di questo nome. Ma così facendo ha messo i piedi nel piatto della categoria più organizzata, forte, minacciosa e temibile di lavoratori della città: i tassisti. Il risultato è che ora i nuovi autobus devono viaggiare con la scorta della polizia. Da circa un anno i guidatori dei minibus adibiti a taxi collettivi fanno di tutto per ostacolare, se non far fallire del tutto, lo sviluppo del BRT (Bus Rapid Transit). Più volte la polizia è dovuta intervenire con le maniere forti per disperdere una manifestazioni di tassisti che bloccavano le strade a Soweto, la grande township al margine sud occidentale di Johannesburg, per protestare contro l’inaugurazione di un nuovo servizio della Brt, che prevede l’utilizzo di minibus per collegare le linee dei mezzi rapidi, e di una nuova linea che collega direttamente la township con la stazione di Ellis Park, dove si trova uno dei due stadi dei Mondiali (l’altro, nuovo, è a Soccer City). I tassisti sostengono che per loro è questione di vita o di morte: ne va del loro unico mezzo di sostentamento. Ma in realtà sono abituati a non avere concorrenza (il regime di apartheid che ha governato il Sudafrica per decenni, fino al 1994, aveva volutamente ignorato il trasporto pubblico per limitare la mobilità della popolazione nera nelle città) e hanno sfruttato questo monopolio di fatto per agire da padroni della strada, e spesso da protagonisti della cronaca nera. Solo nelle ultime 24 ore si contano 24 morti e 22 feriti tra i passeggeri per la spericolata guida dei conducenti pubblici. E ora arrivano i Mondiali.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

FARMACI: COME RISPARMIARE. LETTERA A CHI SARÀ GOVERNATORE Come risparmiare sui farmaci? Una spesa tutta a carico di quelle singole regioni che fra pochissimo avranno dei nuovi governatori. Ed è a costoro che invieremo questa lettera con i nostri consigli. Signor Presidente, i costi dei farmaci a carico del servizio sanitario, cioè della regione, si possono non solo contenere ma diminuire ricorrendo alla telematica: il medico di base potrebbe prescrivere i farmaci, ordinandoli direttamente alle industrie o ai depositi e facendoli recapitare a casa dell’assistito o presso il proprio studio, per poi distribuirli all’utente. Gli acquisti potrebbero riguardare prevalentemente farmaci per la cura di malattie croniche, prescrivibili a cicli. Questo metodo eliminerebbe il passaggio attraverso le farmacie, con notevoli risparmi per la cassa regionale. Uno studio in tal senso è stato effettuato dell’istituto scientifico WidO, del servizio sanitario tedesco: ogni anno si potrebbero risparmiare 877.880 milioni di euro. Altro sistema è stato sperimentato in Galizia (Spagna), dove sono state eliminate le confezioni degli antibiotici, sostituite con recipienti presso le farmacie: il medico prescrive e il farmacista consegna esattamente la dose idonea al paziente. Si sono evitati sprechi e soprattutto si è risparmiato il 35% della spesa. Con gli auguri di buon lavoro e la fiducia che la proposta trovi accoglienza.

Primo Mastrantoni, segretario dell’Aduc

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Collaboratori

Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,

Roberto Mussapi, Francesco Napoli,

Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

Mario Arpino, Bruno Babando,

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

John R. Bolton, Mauro Canali,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

Franco Cardini, Carlo G. Cereti,

Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,

Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,

Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,

ni. L’Unione di centro, con Io Sud-Mpa, rappresenta una forza compatta e coesa nella difesa degli interessi del meridione nell’ambito, però, di una cornice di unità nazionale. Noi dell’Unione di centro siamo il Partito della Nazione, dell’unità nazionale, della difesa della famiglia e dei più deboli. Siamo, grazie al presidente Casini ed a tutti gli uomini liberi e forti che ci voteranno, la speranza di rinascita per questo Paese. Un Paese che ha bisogno di uomini e donne capaci di servire le istituzioni. Di uomini, come il nostro leader Casini, capaci di “vedere” una strada, di vivere il centro non come un luogo ma come un metodo di fare politica, di avere senso di responsabilità e sensibilità istituzionale, di farci sentire baresi, pugliesi, italiani ed europei: figli di una stessa terra, protagonisti di un comune destino. Forse abbiamo semplicemente anticipato il futuro. Per alcuni, infatti, siamo dei “sognatori”: che kantianamente vuol dire camminare alla luce della luna ed avere quale condanna quella di vedere l’alba assai prima degli altri. Ignazio Lagrotta C O O R D I N A T O R E RE G I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L PU G L I A

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