Dato che un politico non crede mai in ciò che dice, resta assai sorpreso quando gli altri ci credono
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Charles De Gaulle di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 26 MARZO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Ultimi fuochi prima della chiusura della campagna elettorale. L’Agcom multa il Tg1 e il Tg5: «Non sono stati imparziali»
Arrivano i primi voti A due giorni dall’apertura delle urne,una speciale giuria di opinion maker indipendenti (Folli,Pombeni,Pansa e Ostellino) compila per liberal la pagella di tutti i protagonisti delle Regionali Fatwe e Jihad
Folli: «Berlusconi è a fine ciclo, Pansa: «Bersani è senza partito, ora inizia la sfida Bossi-Casini» meglio non si candidi nel 2013» «Da lunedì anche il Carroccio dovrà dare una risposta all’appello alla riconciliazione lanciato dai centristi»
«Il segretario democratico nelle dichiarazioni va a rimorchio del Cavaliere. E dietro ha un’ammucchiata simile all’Unione»
Errico Novi • pagina 2
Bin Laden torna a minacciare ma a Mardin i teologi processano al Qaeda
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Pombeni: «Povero federalismo, Ostellino: «Tra Silvio e Tonino, nessuno ha parlato di Regioni» che democrazia di Pulcinella!» «La strategia del premier è “muoia Sansone con tutti i filistei”. Solo il Centro ha un progetto per il lungo periodo»
«Da quindici anni in Italia ogni elezione è un referendum pro o contro Berlusconi. Solo Lega e Udc fanno politica» Franco Insardà • pagina 3
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Giorno dopo giorno, ormai va di moda accusare il Papa
Al vertice Ue, compromesso per coinvolgere l’Fmi
Dagli Usa all’Irlanda, assedio a Ratzinger
Aiuti alla Grecia, ha vinto la Merkel
«Non esiste base teologica per il jihad, è solo un pretesto». L’islam condanna la Rete e i suoi figli di Vincenzo Faccioli Pintozzi
di Riccardo Paradisi
di Enrico Singer
ROMA. Forse è morto e sepolto,
a nuova accusa che da oltreoceano si catapulta sul Vaticano è di quelle pesanti: le gerarchie ecclesiastiche non presero le opportune misure contro un religioso del Wisconsin che aveva abusato sessualmente di circa 200 ragazzini. E questo nonostante i vescovi americani avessero avvertito il Vaticano che lo scandalo avrebbe potuto danneggiare la Chiesa. A tirar fuori il caso è niente meno che il New York Times che cita una corrispondenza tra vescovi del Wisconsin e l’allora cardinale Joseph Ratzinger.
rau nein, la signora no, alla fine l’ha spuntata. Ha dovuto fare delle concessioni, certo, perché nell’Unione europea la legge del compromesso è più forte anche del rigore di Angela Merkel, ma l’operazione-salvataggio dei conti pubblici della Grecia è, almeno per due terzi, proprio quella che voleva la Cancelliera tedesca: un mix tra l’intervento del Fondo monetario internazionale e prestiti bilaterali che saranno garantiti da un severo piano di rientro dal deficit. E, soprattutto, che saranno un’ultima spiaggia.
lo sceicco del terrore, ma chiunque si sia preso la briga di farlo sembrare ancora vivo fa bene il suo lavoro. Ieri, dopo qualche settimana di silenzio, è riapparso con la solita verve che lo contraddistingue sin da quando, nove anni fa, è scomparso nel nulla. In un messaggio audio, Osama bin Laden ha minacciato di uccidere tutti gli ostaggi americani nelle mani di al Qaeda (e filiali sparse per il mondo) se gli Usa giustizieranno Khalid Sheikh Mohammed e i suoi compagni. Ma un gruppo di teologi e professori di diritto islamico ha scelto invece di mettere lui, e la sua Rete, sotto processo.
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
58 •
WWW.LIBERAL.IT
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 26 marzo 2010
Chiude la campagna
Ultimi fuochi, megamulta dell’Agcom a Tg1 e Tg5: «Non imparziali» di Andrea Ottieri
prima pagina ROMA. Ultimi colpi per la campagna
ho solo risposto ad alcune sue interviste. Per quanto mi riguarda, non c’è alcun contrasto. Non ho mai detto una parola negativa, ma ho sempre, comunque, affermato che dentro un partito del 40% ci sono posizioni e sensibilità diverse», ha detto il premier e Fini gli ha risposto con una battuta al vetriolo: «È vero che quello di domenica prossima è un voto per molti aspetti politico, ma non dimentichiamo che servira’ a governare una regione e non l’intero pianeta»), Bobo Maroni ha rilanciato la teoria del sorpasso leghista al Nord: «Non ci saranno ripercussioni sui rapporti tra Lega e Pdl dopo le elezioni, perché noi siamo persone serie e sappiamo che dobbiamo attuare un programma di governo. Non siamo al governo per avere un ministero in più.
elettorale che oggi a mezzanotte si chiude ufficialmente. Il colpo più forte, probabilmente, l’ha battuto l’Agcom: hanno fatto clamore le due megamulte (da 100 mila euro ciascuna) comminate da Agcom a Tg1 e Tg5 per lo «squilibrio tra Pdl e Pd» e la «marginale presenza delle nuove liste». L’Agenzia per le comuincazioni – nell’occhio del ciclone per il caso Innocenzi -. Ha anche richiamato tutte le emittenti ad «attuare un immediato riequilibrio» tra le forze politiche in vista delle Regionali. Ma tutti i leader degli schieramenti hanno lanciato i rispettivi messaggi forti. Se Berlusconi e Fini hanno continuato a duettare in punta di polemica sulle riforme («Non ho avuto occasione di parlare con Fini di presidenzialismo,
Una nostra vittoria servirà solo per convincere i nostri alleati ad accelerare sulla riforma federale dello Stato». Dal fronte delle opposizioni, invece, Bersani sfida la cabala e annuncia che vuole vincere almeno in sette regioni su tredici al voto: «Da parte mia non ci sarà il balletto su chi ha vinto o chi ha perso le elezioni. Io mi sono dato l’obiettivo di vincere nella maggioranza delle regioni che vanno al voto». L’Udc, invece, tra il serio e l’ironico ha diffuso in Toscana e altrove un «Manuale di sopravvivenza alla Lega», ossia un opuscolo che sintetizza le proposte politiche del partito di Casini. Senonché, viste le numerose richieste, una specifica ristampa del volumetto sarà distribuito anche oggi pomeriggio in occasione dei comizi di chiusura della campagna.
STEFANO FOLLI
«Il ciclo Berlusconi è finito. Ora inizia la sfida Bossi-Casini» Il premier senza più argomenti, ormai si ripete di Errico Novi
ROMA. Ci sono incognite che un voto regionale non può risolvere. Quelle di Berlusconi «alle prese con problemi sempre più ingombranti, dal presidio interno di Fini all’avanzata di Bossi» e consapevole «di affrontare una delle sue ultime battaglie». Ma anche quelle di Bersani, per il quale «il difficile comincia adesso». Stefano Folli intravede molti chiaroscuri oltre la siepe del 29 marzo, giorno della verità per governatori e leader. Ma si convince sempre più che sono due i protagonisti a cui spetta ricucire «questo Paese sfilacciato»: Pier Ferdinando Casini, «promotore di un giusto appello alla riconciliazione nazionale, in coerenza con l’immagine di forza tranquilla che vuole dare all’Udc»; e dall’altra parte «Umberto Bossi» perché «sa bene che anche lui deve contribuire in qualche forma al recupero di un rapporto con l’opposizione, se vuole ottenere le riforme che gli interessano». Non si può parlare di fase nuova, dunque, ma per l’editorialista del Sole-24 Ore il diversivo delle carte bollate non basta a cancellare i molti significati nascosti tra le pieghe di queste Regionali. Proviamo a giudicare la campagna elettorale dei cinque leader più importanti: per primo tocca a Casini. Ha fatto una buona campagna elettorale, su toni sobri, continua a essere portatore di messaggi non ansiogeni. È la parte che si conviene a una forza tranquilla, appunto. Il suo
appello alla riconciliazione nazionale è giusto, abbiamo davanti un Paese sfilacciato che deve essere riunito, perciò una forza che abbia il senso dell’interesse nazionale assume un ruolo importante. C’è però un punto debole. Quale? Le alleanze divergenti, che non sempre sono comprensibili per l’o-
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Sono le sue ultime battaglie, Silvio lo sa. Dal leader udc è arrivato un giusto appello alla riconciliazione, è quello che deve fare una forza tranquilla. Ma in questo è decisivo anche il ruolo del Carroccio, che deve usare i successi per ricucire con l’opposizione se vuole le riforme
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pinione pubblica. In questo Casini finisce fatalmente per essere contraddittorio, ma nemmeno vedo come potrebbe fare altrimenti, perché se ci si pone come forza terza nel gioco degli schieramenti non ci sono molte alternative. Resta comunque il suo punto di debolezza agli occhi dell’elettorato. Di Pietro si è agitato meno in
campagna elettorale che nei mesi precedenti. Ha capito che arrivati a questo punto le sue posizioni tradizionali avevano dato tutto quello che potevano dare. E che spingere ancora avrebbe potuto tenere aperti spazi per i suoi avversari interni.Anche la scelta fatta su De Luca in Campania rappresenta il tentativo di allargare lo spettro, di rivolgersi a un elettorato più consapevole, più sofisticato. Insomma, l’attenuazione non dipende solo dall’inaccessibilità delle consuete tribune televisive. Non so se si può parlare di cambio di strategia, ma è evidente che sul piano tattico Di Pietro ha scelto un registro diverso. Non c’è dubbio che il suo territorio di espansione principale resti il Pd: per sedurne fasce d’elettorato più ampie deve mettere in campo qualcosa di nuovo. Nelle vele di Bossi c’è un vento che trascina molti voti dal Pdl. Sarà un vincitore di queste elezioni, mi sorprenderei del contrario. Non so se arriverà a piantare la sua bandiera in Piemonte ma l’effetto del voto alla Lega sarà comunque notevole, vedremo un’ulteriore crescita anche in aree prima considerate periferiche per il Carroccio come l’Emilia.Tutto sta a capire cosa ne vuole fare di tanta forza. C’è chi dice che il governo delle Regioni è per Bossi la via a una secessione silenziosa. In realtà in questa campagna elettorale lo abbiamo visto prudente, ma qui il discorso non riguarda la lealtà
prima pagina verso Berlusconi, casomai il bisogno di far pesare i successi della Lega anche in Parlamento. Le riforme passano per il rapporto con l’opposizione e Bossi lo sa bene. Sa che deve essere lui a contribuire in qualche forma alla riconciliazione nazionale. Qui serve un’arte sofisticata, considerati gli obiettivi immediati e quelli più lontani. Sulla via tracciata da Berlusconi si va solo allo scontro permanente, mentre Bossi vince solo se c’è un sostegno ampio al federalismo fiscale. Bersani probabilmente incasserà soprattutto i dividendi degli appalti dati all’esterno. Si è trovato un po’ per caso: pensiamo che posizione aveva su Vendola. Alla fine i conti gli tornano, non ci sarà certo la disfatta che si pronosticava qualche mese fa, non verrà piallato dall’esito del voto. Anzi, ne uscirà l’immagine di un partito non statico. Resta il problema della strategia per il futuro. Un problema non da poco. Vincere in 8 o 9 regioni non vuol dire aver trovato la direzione di marcia. I risultati aiutano, ma il difficile, il vero lavoro di costruzione politica, per Bersani comincia adesso. Alla penultima curva del gran premio Berlusconi ha dato un pauroso strattone alla macchina. Fino a quel punto era apparso quasi disinteressato. Avrebbe preferito stare fuori, è stato tirato nel pieno della mischia dalle vicende anche extrapolitiche che si sono susseguite. Presentarsi sempre in prima fila, come se le elezioni fossero un referendum su di lui, ha un costo notevole per Berlusconi: è il modo per alzare la posta, ma quella scommessa determina ricadute soprattutto sulla sua immagine, se non riesce in pieno. Il risultato del Pdl è il risultato di Berlusconi, e bisognerà vedere se aver occupato giornali e televisioni basterà. Se si è mosso è perché ha percepito l’allarme. Gli è sembrato che franasse la terra sotto i piedi ed è diventato attivo, ma è decisamente a corto di idee nuove. Ha messo in campo uno schema classico, ma senza quella novità che avrebbe potuto fare la differenza. Quale poteva essere? L’annuncio sulle tasse che Tremonti gli ha impedito di fare. Vitale, dinamico, Berlusconi lo è stato, certo, ma anche ripetitivo. A piazza Duomo, dopo l’aggressione, qualcuno disse che quell’immagine insanguinata e fiera avrebbe assicurato a Berlusconi eterna vittoria. Pochi mesi e già ce ne siamo dimenticati. Questa politica trita tutto. Personalmente non mi sono mai sognato di vedere in quell’increscioso incidente una polizza definitiva. C’è stata ondata emotiva che non avrebbe potuto influire più di tanto sul percorso di Berlusconi. Un percorso che comunque sta andando verso la fine di una lunga stagione. Parliamo di un personaggio di enorme personalità, vitalità, capacità di gestire il consenso. Ma lui stesso sa che queste sono le ultime battaglie, con Fini che presidia un pezzo di partito e la Lega che si rafforza. Corre in salita e la fine non è lontana, lo ha capito.
26 marzo 2010 • pagina 3
PAOLO POMBENI
«Che tristezza, dopo l’orgia di federalismo tutti zitti sulle Regioni» L’unica strategia di lungo periodo è quella del Centro ma è duplice nel senso che bisognerà stabilire quanto andranno bene il Pd e le sue coalizioni rispetto alla competizione con il centrodestra. Penso che andrà sicuramente meglio rispetto a quello che si poteva prevedere solo qualche mese fa. La seconda cosa è stabilire se un eventuale successo voglia significare un rafforzamento della leadership di Bersani all’interno del partito e della coalizione. Su questo secondo punto, forse, i problemi sono più seri e consistenti. Bersani, quindi, in questa campagna elettorale
di Franco Insardà
ROMA. Per Paolo Pombeni la campagna elettorale di Berlusconi risponde a una strategia «di semidisperazione, nel senso che con questo attacco sopra le righe da un lato cerca di costruirsi un alibi, nel caso andasse male, addossando la colpa ai giudici e ai media, dall’altro, se gli andasse relativamente bene vuole monetizzare il successo, impedendo che sia attribuito, come è probabile che sia, in parte alla Lega e in parte agli ex di An e a Gianfranco Fini».
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I n s o mm a , p e r P o mb e n i questa che si conclude oggi è una campagna elettorale dai toni violenti nella quale il Cavaliere ha deciso di essere l’unico dominus nel bene e nel male: «È una strategia molto accentratrice e l’unica cosa che interessa a Berlusconi è che lui rimanga il centro dell’attenzione. È una campagna tipicamente populista, di quelle che fa chi si propone per essere vissuto come un profeta; ma in questo caso si tratta di un falso profeta. Il mio giudizio è sostanzialmente negativo perché il concetto di fondo è: muoia Sansone con tutti i Filistei. Nel senso che accentrando tutto su se stesso, Berlusconi impedisce che ci possano essere in questo Paese un confronto e una dialettica normali. Questa strategia potrebbe essere positiva per il suo piccolo interesse personale, ma in termini generali non è una campagna molto furba, perché lascerà un mare di macerie».
Il politologo bolognese ritiene, invece, che il segretario del Pd, Pierluigi Bersani sia stato «costretto a una campagna inevitabilmente speculare a quella di Berlusconi e da questo punto di vista va riconosciuta l’abilità del Cavaliere. Bersani ha dovuto replicare colpo su colpo, altrimenti sarebbe stato massacrato da Di Pietro. Sui possibili risultati, il proble-
Con ogni probabilità, quella che si conclude oggi per regionali di domenica e lunedì è stata una delle peggiori campagne elettoriali degli ultimi anni. Tempestata di inchieste e casi di cronaca, nonché di colpi da teatro, si è bruciata su temi come la giustizia e il presidenzialismo. Temi che nulla hanno a che fare con l’oggetto del voto: l’amministrazione delle regioni
Il premier ha fatto una campagna tipicamente populista, di quelle che fa chi si propone per essere vissuto come un profeta; ma in questo caso si tratta di un falso profeta. Il mio giudizio è sostanzialmente negativo perché il concetto di fondo è: muoia Sansone con tutti i Filistei
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ha fatto bene nei limiti in cui è stato costretto perché chi è sotto assedio difficilmente può fare delle grandi manovre in campo aperto».
Su Antonio Di Pietro Paolo Pombeni non è molto tenero: «Ha fatto la parte nella quale è assolutamente ingessato ed è l’unica che sa fare: quella di un Cicerone che attacca Catilina, fatta salva la notevole differenza oratoria tra il pm di mani pulite e il principe del foro romano. Però c’è sempre la solita domanda da farsi: che cosa farà nella vita Di Pietro nel momento in cui non dovesse avere più come interlocutore Berlusconi?»
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Secondo Pombeni, poi, l’atteggiamento di Di Pietro «ultimamente è più pacato e questo si spiega con il fatto che i toni sono stati talmente alti dall’altra parte che non è stato necessario esasperarli ancora di più, consentendogli di essere un po’ più contenuto. Ma il problema vero è che il suo portato politico non muta, non parla d’altro che del rapporto tra Berlusconi e i giudici e della legalità nel nostro Paese. Tutto rimane confinato in queste parole, il giorno in cui sentiremo Di Pietro affrontare un problema concreto si potrà parlare di una svolta».
Per il professor Pombeni la Lega ha condotto bene la sua campagna elettorale: «È un vero partito ed è in espansione, ha indovinato un filone, lavora costantemente su quello, e non si fa condizionare dalle polemiche. Bossi e i suoi puntano dritto per la loro strada, seppure con qualche sbavatura, e la loro classe dirigente persegue un obiettivo preciso. La campagna di Bossi è stata molto abile: ha preso le distanze dagli eccessi berlusconiani senza rompere con Berlusconi, ha coltivato l’immagine del partito della concretezza senza rinunciare a una certa dose di populismo. L’unico limite della Lega è che non sfonda oltre certi confini, non vedo una capacità a diventare un grande partito nazionale che possa puntare al trenta per cento dei consensi. Bossi quindi ha lavorato in questa campagna elettorale in questa direzione e raccoglierà buoni frutti».
GIAMPAOLO PANSA
«Bersani c’è, il Pd no. Gli sconsiglio di candidarsi nel 2013 Il vero pericolo del Paese si chiama Antonio Di Pietro
di Errico Novi
Anche la politica dell’Udc riceve un appezzamento: «Casini sta adottando una strategia di lungo periodo, smarcandosi da questa rissa infinita e costruendo l’immagine del leader responsabile che prende a cuore i problemi del Paese, che interpreta la stanchezza della gente rispetto a questa politica gridata. Queste elezioni saranno un test molto interessante rispetto a questa politica di Casini e il risultato che l’Udc otterrà sarà uno di quelli più indicativi sulla esistenza o meno di una maturità nell’elettorato». Il giudizio finale del professor Pombeni è, però, amaro: «È molto triste vedere che, dopo avere pronunciato discorsi pirotecnici sul federalismo, invece di discutere sul ruolo delle Regioni e sui loro poteri si limita a discutere su Berlusconi, sulle leggi, sull’aborto. Ho l’impressione che ci troviamo di fronte a un Paese schizofrenico, da un lato chiediamo che ci sia tanta devolution e dall’altro lato il discorso si limita alla distinzione tra angeli e demoni».
ROMA. C’è una cosa che Giampaolo Pansa non dice, forse per non apparire troppo severo, ma che alla fine si intuisce: il libro che ha appena pubblicato, I cari estinti, è un sottile dispetto. Alla politica di oggi, ai suoi leader, ai suoi discorsi il più delle volte ripetitivi e sconclusionati. Non nasconde, Pansa, la delusione per la qualità del dibattito degli ultimi mesi, compresa questa campagna elettorale: «Non andrò a votare, per la seconda volta consecutiva: in passato non mi ero mai astenuto, non mi era mai capitato. La politica italiana è il mio campo, il mondo che ho sempre raccontato. Ma mi è passata la voglia». E allora rievocare I cari estinti ha quasi l’aria dello sfregio: meglio il passato, sembra sottintendere l’editorialista di Libero e del Riformista, il passato ha avuto le sue miserie ma anche uno spessore oggi svanito. Non lo dice. Ma un po’, appunto, è implicito. Vogliamo darli o no questi voti? D’accordo, ma serve una premessa. Facciamola. Sono un giornalista anziano, ne ho viste tante e mi sono fatto un’idea precisa: le campagne elettorali in Italia sono come il budino del vecchio proverbio inglese, puoi capire come è andata solo quarantotto ore dopo. Lunedì sera magari è tutto diverso da come sembra ora. Nemmeno il più perfetto dei sondaggi è affidabile, cosicché ogni mia valutazione è sub judice.
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Dietro il segretario democratico una coalizione improbabile come l’Unione di Prodi. Diversamente da Tonino, Pier Luigi è una persona equilibrata, ma sembra uno che si trova lì proprio perché deve e se potesse starebbe da un’altra parte. Silvio? Mi sa che la fine del suo ciclo è arrivata
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Qui d’altra parte vogliamo giudicare i leader dei partiti, non i candidati. Cominciamo da Casini? D’accordo. A lui do un voto bassino. Non ho capito bene la sua posizione. Sarà che ho un modo di ragionare piuttosto all’antica, elementare, ma credo si debba stare da una parte sola. Lui invece ha scelto il ruolo del partito-pirata, che si accorda a seconda di come fa comodo. A sua discolpa si potrebbe dire che ad
essere incoerenti sono gli altri e lui deve assecondare le irregolarità delle onde. Chiarisco: Casini mi sta simpatico, ha una bella faccia, è cresciuto nella Dc, il che suscita comunque rispetto di fronte a tanti avventurieri di oggi. Non capisco però perché chi sceglie il centrosinistra dovrebbe votare Udc anziché Pd e, allo stesso modo, cosa dovrebbe spingere quelli che sono per il centrodestra a preferire l’Udc a Berlusconi. Non siamo in un sistema bipartitico, grazie a Dio, ma bipolare sì, la legge elettorale parla chiaro. Il nostro vecchio amico Casini è rimandato, così la prossima volta impara e sceglie: o da una parte o dall’altra. Tocca a Di Pietro. Bocciato senza appello col minimo dei voti. L’ho conosciuto bene ai tempi del Pool, l’ho sostenuto anche, ma non ho mai condiviso la discesa in politica. Quando si indossa la toga bisognerebbe darsi una regola, c’è sempre il sospetto che un ex magistrato possa avvantaggiarsi del suo ruolo precedente. E Di Pietro si avvantaggia? Lo fa dalla prima elezione nel collegio del Mugello. E anche stavolta non si è impegnato in nient’altro che creare rottura. Campa di questo. Mentre qui non c’è bisogno di quelli che rompono ma di chi è in grado di cucire. Avessi scritto la metà della metà delle cose che dice Di Pietro sarei dietro le sbarre.
prima pagina E invece ci abbiamo fatto l’abitudine: pessimo segno. Dovrebbe fare una cosa, per essere davvero coerente. Davvero pensa che siamo in una dittatura? E allora non gli resta altro che prendere il fucile, darsi alla macchia e combattere. Questo a Di Pietro non glielo aveva ancora detto nessuno. Glielo dico io. Ne ho scritto su Libero e sul Riformista. Lui crea un clima pesante, è pericoloso, credo che negli altri Paesi europei nessun politico si permetta di comportarsi allo stesso modo. Ma devo ammettere una cosa. Prego. Nemmeno io riesco più a indignarmi per Di Pietro. Penso che saranno gli eventi a determinare la sua eclissi. Immaginiamo un governo in cui lui fa il dominus: roba da capelli dritti in testa.Via, bocciato. Che ne facciamo di Bossi? Sono più padano di lui. Vengo da Casale Monferrato e da una famiglia in cui i soldi erano pochi, direi che la tessera della Lega mi spetterebbe di diritto. Si considera troppo di parte e preferisce astenersi? No.Voglio dire piuttosto che Bossi amministra un patrimonio acquisito grazie alle mancanze degli altri. Ma certo, è l’unico a meritare un voto davvero positivo. Sarà tra i vincitori di questa campagna elettorale. I sondaggi annunciano un travaso impressionante dal Pdl al Carroccio. Parlo con quelli del Pdl e li sento terrorizzati. Sanno che in qualche regione del Nord il sorpasso è più di un’ipotesi. In Veneto soprattutto la situazione è drammatica: addirittura il Pdl sarebbe il terzo partito, con la Lega più in alto di tutti e anche il Pd un soffio davanti. Peggio del peggiore incubo, per i berlusconiani. Bossi ha avuto questo problema gravissimo di salute, non l’ho visto sul palco di un comizio, in tv ci va poco ma mi pare si arrangi bene. Parla in modo semplice e chiaro. È radicato sul territorio, conosce la realtà da vicino, e i fatti gli danno ragione. Se è per questo i fatti rischiano di dare ragione anche a Bersani. Sì, ma sentitelo: Berlusconi dice cose senza senso e lui va a rimorchio. Non lo promuoverei, anche perché non ho ancora capito bene cosa c’è alle sue spalle. È una persona perbene, ma voglio sperare che non gli venga in testa di candidarsi premier. Sarebbe così azzardato? Ma sì, perché viene dal vecchio Pci, ha un pedigree molto chiaro e per carità, rispettabilissimo, ma un premier post-comunista non può funzionare e anche con D’Alema si è visto. Soprattutto non mi convince la coalizione che assomiglia troppo all’Unione di Prodi, esperimento disastroso. A volte Bersani mi dà l’impressione di uno che si trova lì proprio perché deve, ma che se potesse se ne starebbe da un’altra parte. Demolito. Resta Berlusconi. A essere generosi la sua campagna elettorale meriterebbe 4. Tutto può accadere, ma a me sembra proprio che abbia terminato il suo ciclo. Ha avuto un 2009 terribile, ogni volta che apriva una porta veniva aggredito da un problema. Ma il punto è che ripresenta sempre le stesse cose, adesso ci ha messo i cento milioni di alberi, la lotta al cancro e ha preteso la firma dei candidati. A piazza San Giovanni si è visto proprio un karaoke, Polito ha ragione. Sa, è come se uno scrivesse sempre lo stesso articolo.Va bene la prima, la seconda, la terza, ma la quarta volta il lettore si chiede perché investire ogni giorno un euro e leggere sempre le stesse cose.
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PIERO OSTELLINO
«Silvio e Tonino, che bella democrazia di Pulcinella!» Anche per me Casini e Bossi sono gli unici veri politici di Franco Insardà
ROMA. «Voglio chiarire che non voto da trenta anni e, quindi, i miei giudizi sui leader politici sono assolutamente distaccati. Sono un liberale che si trova altrove, né a destra e né a sinistra. Nessuno, quindi, potrà attribuirmi, sulla base dei miei giudizi da osservatore, l’appartenenza a qualcuno degli schieramenti in campo». Fatta questa premessa, Piero Ostellino entra nello specifico e analizzando la campagna elettorale dice: «Ritengo che Casini e Bossi siano, effettivamente, gli unici due leader politici in grandi di fare politica davvero, in questo momento». Sul clima elettorale che in queste ultime settimane è stato particolarmente surriscaldato l’editorialista del Corriere delle Sera fa una riflessione più generale: «Da quindici anni, ormai, qualsiasi elezione c’è in Italia, anche quella per rinnovare un piccolo consiglio comunale, si risolve sempre in un referendum pro o contro Berlusconi. Questo vuol dire che non si è ancora capito che nella tripartizione weberiana (potere tradizionale, carismatico e legale) il nostro è un Paese dove il potere è fondato sulla legge e in particolare sulla Costituzione. È una situazione totalmente surreale e quando ci sono delle campagne elettorali, questa caratteristica viene fuori ancora di più. Ci troviamo di fronte a un Paese dal potere legale, come tutte le democrazie liberali del mondo, a cui viene data una connotazione di potere carismatico e che risolve tutto con un referendum su questo carisma. Carisma che, in effetti, non si traduce in un potere effettivo, se il presidente del Consiglio, come del resto è giusto, grazie al potere legale, non ha la possibilità di cancellare due trasmissioni televisive che non gli piacciono». Per Ostellino sulla campagna elettorale di Berlusconi «decideranno gli elettori. Resta, però, il fatto che l’attribuzione di un potere carismatico non gli viene soltanto dai suoi, convinti che solo con lui si vincono le elezioni e, quindi, non si preoccupano del resto. Ma l’attribuzione di questa natura carismatica gli viene conferita anche dalla sinistra, convinta che l’unico modo di vincere le elezioni sia quello di delegittimarlo. Un atteggiamento anche questo assurdo, dove nessuno dei due schieramenti presenta un programma politico credibile e, soprattutto, realizzabile. L’uno perché ritiene che sia sufficiente vincere con il carisma di Berlusconi, l’altro perché ritiene che sia sufficiente delegittimarlo. Siamo in una democrazia di cialtroni, una democrazia di Pulcinella. Che è poi quella che ci meritiamo».
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Se il giudizio di Ostellino sulla campagna di Berlusconi non è positivo quello sull’atteggiamento del segretario del Partito democratico, come si intuisce, non è molto diverso. «Il segretario del maggiore partito di opposizione in un Paese normale dovrebbe concentrare la sua attenzione sul proporre un programma totalmente alternativo e convincente con il quale presentarsi alle elezioni. Invece la campagna elettorale del Pd, ripeto, è stata esclusivamente improntata sulla delegittimazione di Berlusconi». Sull’atteggiamento della Lega, invece, l’ex direttore del Corriere della Sera dà sostanzialmente un giudizio positivo: «Umberto Bossi fa i conti con la realtà politica. È consapevole di avere un sano insediamento territoriale e su quei territori ha fatto nascere e crescere una classe dirigente che, partita dai consigli comunali, è arrivata in Parlamento e anche alla guida di ministeri importanti. E oggi si propone per governare le Regioni». Non dello stesso tenore le parole che Ostellino dedica al leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro che definisce «un ex poliziotto che andrebbe bene in uno di quei film sul Sud America, dove c’è il poliziotto che alla fine fa le scarpe al dittatore, perché ne conosce anche i misteri. Non lo prenderei molto sul serio dal punto di vista politico e di proposta. È un ex poliziotto che ragiona da ex poliziotto».
Da quindici anni, ormai, qualsiasi elezione c’è in Italia, anche quella per rinnovare un piccolo consiglio comunale, si risolve sempre in un referendum pro o contro Berlusconi. Questo vuol dire che non si è ancora capito che il nostro è un Paese dove il potere è fondato sulla legge e sulla Costituzione
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Mentre è diametralmente opposto il giudizio su Pier Ferdinando Casini: «È un democristiano e si comporta di conseguenza. La Democrazia cristiana, nel bene e nel male, era un partito che sapeva far politica. Staremo a vedere se gli elettori lo premieranno, resta, in ogni modo, il fatto che Casini cerca di ragionare con un atteggiamento moderato rispetto a qualsiasi forma di estremismo».
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Scaramanzie. Palazzo Grazioli accusa: il presidente della Camera ha accentuato la conflittualità, favorendo il non voto
Ecco il Fini espiatorio
Astensionismo alto? Dipende dall’ex leader di An, dicono già nel Pdl. «Non è vero, noi non c’entriamo niente», rispondono i fedelissimi di Francesco Capozza
ROMA. «Et voilà: hanno scelto il capro espiatorio di una possibile sconfitta elettorale. Inutile girarci attorno: si chiama Gianfranco Fini. E questa volta Vittorio Feltri non c’entra nulla, anche se ha sparato in prima pagina il colpo preventivo». Lo scrive su Ffwebmagazine, periodico online della Fondazione Farefuturo, il direttore Filippo Rossi. «Feltri continua l’articolo - fa il lavoro suo: annusa l’aria, capisce l’andazzo e lo trasforma in notizia, megafono legittimo di una strategia ormai fin troppo chiara. Strategia che non dà fastidio anche alla Lega, cominciando da Umberto Bossi che ad una domanda sulle “distanze” tra il presidente della Camera e il Carroccio sull’immigrazione, ha risposto: «vedremo i risultati elettorali. Serviranno anche a far capire chi aveva ragione». «Come se la linea del Pdl sull’immigrazione fosse quella di Fini» ha commentato un finiano doc come Ronchi.
Attribuire la colpa al primo inquilino di Montecitorio? Ne parlano tra di loro molti ex forzisti e anche qualche ex colonnello di An e c’è da scommettere che lo racconteranno in caso di sconfitta. Batteranno la grancassa per nascondere debolezze culturali e passi falsi strategici. Si tratta, scrive ancora Rossi, «di boatos di sottofondo che ribaltano tutte le regole della politica. Da che mondo è mondo, infatti, se un partito perde le elezioni, la responsabilità non può che ricadere su chi lo guida, sulla classe dirigente, su chi ha dettato la linea. Non certo sulla minoranza che, detto per inciso, viene oltretutto sempre descritta come irrisoria e irrilevante». Quattro gatti, insomma. Qualcuno allora dovrebbe spiegare come “quattro gatti”possano davvero influire sull’identità e sulla forza elettorale di un partito così grande, con una leadership così forte, inossidabile. Insomma, continua Rossi, «delle due l’una: o, come dicono, la “minoranza finiana” non conta nulla, e allora non c’e’ ragione di imputargli, in un senso o nell’altro, un risultato elettorale; oppure il Pdl non è così forte come dicono, non è la corazzata che vogliono far credere. Non si è mai vista, in un partito, una maggioranza che vive nell’ossessione quotidiana di quel che dice la minoranza». Dall’altra parte, quella che potremmo definire la “maggioranza berlusco-
No ai finiani, sì a Gheddafi: i due colpi del leader del “partito dell’amore”
«Se vinco è merito mio, se perdo è colpa sua» di Giancristiano Desiderio e ultime due mosse del Cavaliere per chiudere e subito riaprire la campagna elettorale. Prima mossa: non l’ha detto a nessuno. Non l’ha detto a nessuno per puntare sul cosiddetto “effetto sorpresa”. La sorpresa: sabato, giorno di riposo e silenzio della campagna elettorale, Silvio Berlusconi con ogni probabilità sarà a Tripoli, ospite del suo amico Gheddafi e, unico leader occidentale, presente al meeting della Lega Araba. Ce n’è quanto basta per interrompere le canoniche ventiquattro ore di silenzio della propaganda elettorale e apparire in video in splendida solitudine e parlare agli italiani delle grandi conquiste della politica internazionale al di là del Mediterraneo. Le cose andranno così come ve le raccontiamo e la Farnesina ha già fatto sapere che tutto andrà secondo regola: «Nessuno può fare polemica, si tratterà infatti di un appuntamento istituzionale e di prestigio, certo non rimandabile, non essendo un incontro bilaterale o una visita privata».
L
La seconda mossa è addirittura al di là delle elezioni. Se il Pdl dovesse perdere le elezioni c’è già un responsabile della sconfitta: Gianfranco Fini. Il presidente del Consiglio - lo hanno visto tutti - si è speso molto durante questi giorni di propaganda in cui ha dato fondo a tutto il suo collaudato repertorio: comunisti, giudici, cambiamento e perfino presidenzialismo per archiviare come cosa del passato remoto quella cosa strana e vuota invenzione che si chiama Pdl. Mentre l’altro, il Fini, non ha fatto nulla e se ne è stato con le braccia conserte e, anzi, appena ha potuto non ha perso occa-
sione per criticare il Fondatore e dirgli addirittura che dire agli elettori, che eleggeranno i consigli regionali e provinciali, che saranno anche chiamati ai gazebo per decidere se l’Italia sarà ancora una repubblica parlamentare o è meglio che diventi una repubblica presidenziale è solo propaganda e, purtroppo, coinvolge le istituzioni. Tutti hanno visto tutto. Per chi non avesse capito c’è il Feltri che con la sua solita prosa da pane al pane e vino al vino lo ha spiegato per benino: è colpa di Gianfranco. Amen. Lo schema è collaudato. È ben rodato. Sia la prima mossa, sia la seconda mossa sono state già usate da Berlusconi. Si tratta di colpi al di sotto della cintura, ma il capo del governo cita l’amore e Francesco mentre sotto al cuscino ha il Principe di Machiavelli. E il consiglio che più gli piace è quello che dice di stare sempre in campana e di non subire l’iniziativa altrui. Conta anche poco l’osservazione che «così il Pdl va a rotoli»: perché il Pdl è già andato a rotoli e Berlusconi è già passato alla nuova fase che si basa su un ragionamento semplice: se vinco è merito mio, se perdo è colpa sua. Provate a usare questo ragionamento su vasta scala, editoriale e politica, e vedrete che vi apparirà davanti una grande nuvola in cui è difficile distinguere il vero dal falso e soprattutto non si riesce a vedere quale sia il prossimo e necessario colpo a sorpresa di Berlusconi.
In fondo, con lo spettacolo a cui abbiamo assistito in queste settimane, ciò che stupisce è il fatto che il Pdl ancora non sia esploso. L’unica spiegazione possibile è questa: c’è di mezzo il governo. Quando c’è di mezzo un governo - e questo è il governo con la più grande maggioranza parlamentare di sempre - ci si va sempre con i piedi di piombo. Ma da lunedì pomeriggio le cose cambieranno. In un modo o nell’altro, ma cambieranno. Perché si è ormai giunti a metà legislatura e il Pdl così com’è non andrà a nessun altro appuntamento elettorale.
niana”, non ci sta a restare zitta nonostante l’ordine di scuderia proveniente da Palazzo Grazioli sia «abbassare i toni» - se a tre giorni dal voto, il presidente della Camera ha riservato l’ennesima palla in canna contro il governo. È proprio la tempistica dell’ultima sortita di Fini a segnare in qualche modo il passo. Perché mentre il premier si è buttato nella campagna elettorale ormai da una decina di giorni, l’ex leader di An ha scelto invece la linea della prudenza. E ha messo la faccia solo su due convegni, uno con la Polverini (lanciata da lui, ma adottata da Berlusconi) e l’altro con il socialista Caldoro (voluto fortissimamente in Campania dal suo braccio destro Bocchino). Salvo re-
Alessandro Campi ironizza: «Comunque vada, da lunedì non ci sarà un grande problema, ma si aprirà sicuramente un’ampia discussione» galare una sequela di esternazioni culminate in quello che è davvero difficile non leggere come una secca smentita al Cavaliere. Che solo due giorni fa ha rilanciato il presidenzialismo, ipotizzando di affidarsi al voto popolare, e meno di 24 ore dopo ha dovuto incassare la replica di Fini. «Per le riforme - dice il presidente della Camera - l’approccio non può essere basato sulle strumentalizzazioni di tipo propagandistico o legato al vantaggio, pur legittimo, che possa trovare questa o quella parte». Un segnale - è la lettura di tutto l’entourage del Cavaliere - che ormai i due sono su strade davvero diverse. E che il presidente della Camera - chiosa il vicecapogruppo a Montecitorio del Pdl Osvaldo Napoli - ragiona con una «prospettiva diversa» e guardando «ad altro». Insomma, a Palazzo Grazioli reputano impensabile che la terza carica dello Stato non si renda conto che fra tre giorni si vota. E che non sappia che, se è il problema del centrodestra è l’astensionismo, dare il segnale di una così alta conflittualità interna non fa che aumentarlo. Vanificando il tour de force di Berlusconi.
Per questo, è il ragionamento di un ministro molto vicino al premier, «i chiarimenti li faremo da lunedì, ma è ormai evidente che Fini «ha altro in testa». Di ipotesi se ne fanno molte, c’è chi è pronto a scommette-
prima pagina
26 marzo 2010 • pagina 7
Sabato Berlusconi sarà ospite di Gheddafi e della Lega araba
Il premier vola in Libia per l’ultimo comizio Per la chiusura della campagna, invece, stasera il Cavaliere duetterà con Minzolini al Tg1 di Marco Palombi
ROMA. La mattina a Bruxelles, in mezzo sul suo territorio, ora è Tripoli che deve to-
Gianfranco Fini è già la vittima designata dell’eventuale risultato non esaltante del Pdl alle elezioni. Mentre il vincitore annunciato è Umberto Bossi. A destra, Berlusconi con l’amico Gheddafi re che in questi giorni Fini abbia fatto l’ennesima conta dei suoi e che il numero di parlamentari pronti a seguirlo in un nuovo gruppo parlamentare avrebbe superato quota 50. C’è anche chi è fermamente convinto che Generazione Italia (nonostante lo scoop di Vittorio Feltri teso a ridimensionarne le velleità), l’ultima creatura dei finiani voluta dal fedelissimo Italo Bocchino, sia in realtà il trampolino di lancio non solo per il nuovo gruppo ma meno sommessamente per un vero e proprio partito. Di quest’ultima ipotesi però sembra non voler sentire parlare Alessandro Campi, direttore scientifico di FareFuturo e da molti considerato il vero deus ex machina delle mosse finiane. «Leggo anch’io di queste ipotesi che tuttavia, oltre che fantasiose, sono caratterizzate da una visione miope del percorso che il presidente Fini ha intrapreso negli ultimi anni» dice Campi che specifica inoltre: «Oltretutto una scissione di questo tipo darebbe ragione ai fantasmi che da tempo agitano Berlusconi e i suoi».
Ciò non vuol dire, però, che da martedì prossimo sarà tutto come prima, proprio Campi ammette che «parafrasando D’Alema possiamo dire che non ci sarà un grande problema, ma si aprirà sicuramente un’ampia discussione» riferendosi, evidentemente, ai problemi interni e di gestione del partito che Fini ha spesso sollevato. Insomma, mettersi a fare l’elenco dei tanti affondi della «contro-campagna elettorale» potrebbe essere lungo, da FareFuturo a Generazione Italia passando per la querelle sullo Stato di polizia. E al di là del silenzio ufficiale - sia dal fronte Berlusconi che da quello Fini - di certo c’è che ormai un redde rationem dopo il voto pare inevitabile. Perché se il Cavaliere ha l’abitudine di focalizzare gli ultimi giorni di campagna elettorale su due o tre argomenti chiave - vedi ad esempio la «magistratura politicizzata» - l’ex leader di An pare abbia cominciato a comportarsi in maniera del tutto speculare. Non perdendo occasione, proprio su quei temi, di prendere le distanze dal premier.
ai leader europei, poi una bella intervista a Skytg24, la chiusura della campagna elettorale di Renata Polverini a Roma e, dulcis in fundo, una bella apparizione al Tg1 di Augusto Minzolini. Questi gli appuntamenti salienti di oggi di Silvio Berlusconi, ma il clou della settimana del premier arriverà il sabato. Cosa c’è di meglio, nel giorno del silenzio elettorale, che farsi un bel viaggetto in Libia dall’amico Muhammar Gheddafi e farsi riprendere dalle apposite telecamere in uno dei ruoli che predilige, il diplomatico della pacca sulla spalla, il capo di governo che porta calore umano, una barzelletta e lo spirito del tempo ai quattro angoli del globo? Il viaggio nella Sirte non ha ancora una conferma ufficiale, ma fonti di palazzo Chigi lo danno quasi per scontato: il Cavaliere è stato invitato a presenziare ai lavori della Lega araba dal dittatore libico e avrebbe dato la sua disponibilità. L’Italia infatti, unico paese occidentale (ma non si sa se questo sia motivo di vanto), ha lo status di “osservatore” in seno all’organizzazione degli stati arabi che domani si occuperà in particolar modo di questione palestinese e conflitto arabo-israeliano. Gheddafi, cosa che preoccuperebbe le cancellerie di tutto il mondo eccetto la nostra, guiderà il suo primo vertice col programma di “salvare Gerusalemme da Israele”. Nessun imbarazzo, ovviamente, per Silvio Berlusconi (ammesso che vada davvero), visto che di recente il nostro è stato capace di benedire la guerra contro Gaza parlando alla Knesset e qualche ora più tardi, davanti ai palestinesi, paragonare i morti di quella guerra a quelli della Shoah.
gliere il bando sui visti per i cittadini dell’area Schengen e liberare il cittadino svizzero che tiene in prigione da settimane. Il Cavaliere potrebbe ottenere proprio questo e giusto in tempo per finire sugli ultimi telegiornali prima delle aperture dei seggi per le regionali, magari con accanto l’ostaggio felice e grato. «Mentre l’Italia promuove gli interessi della Libia a livello internazionale, Gheddafi denuncia la Corte penale internazionale come “agente di terrorismo internazionale” e minaccia il jihad contro Israele e la Svizzera», si lamenta il deputato radicale Matteo Mecacci, augurandosi – beata ingenuità – che «la Rai in vista e in occasione di questa eventuale visita in Libia informi i cittadini delle posizioni di chi si oppone a una politica di rapporti privilegiati con Gheddafi».
Il fatto è che il rapporto tra Silvio Berlusconi e il dittatore libico è politicamente ancor più significativo di quello, comunque inquietante, con Vladimir Putin. Gheddafi è l’uomo che ha consentito al governo di espellere i “clandestini” dalle tv italiane, il tizio che impedisce che sugli schermi dei cittadini arrivino ad ora di pranzo o cena le immagini di centinaia di disgraziati, denutriti e con un piede nella fossa, che sbarcano a Lampedusa come arrivassero sulla terra promessa. Gli sbarchi, come sanno tutti compreso), (esecutivo non sono che una goccia nel mare degli ingressi illegali nel nostro Paese, eppure senza quelle immagini - orrende e fuorvianti l’immigrazione clandestina è passata da concreto dramma della povertà ad astratto pericolo criminale, la lucetta rossa della paura da accendere nel corpo sociale quando i miracoli non si riesce a farli o almeno a venderli. Silvio Berlusconi pensa dunque giustamente di chiudere la campagna elettorale sull’ennesimo referendum attorno alla sua persona accanto allo statista internazionale, per così dire, che più gli è tornato utile. Altro che mister Obamaaa. D’altronde in Libia la magistratura e la stampa non fanno perdere tempo a chi governa, la Corte costituzionale non ci pensa nemmeno a dare torto all’esecutivo, l’opposizione parla solo se interrogata (dalla polizia, in genere) e il popolo plaude festante in piazza a milionate alla volta. Non fosse per quel caldo…
L’Italia, unico Paese occidentale invitato, parteciperà alla sessione che il dittatore di Tripoli ha intitolato «Salvare Gerusalemme da Israele»
Traducendo: il nostro presidente del Consiglio ha tutta l’intenzione di andare per l’ennesima volta a regalare uno spot all’amico colonnello, incidentalmente anche il dittatore più longevo al mondo. Il ruolo che Berlusconi si è ritagliato stavolta, mentre il ghibli spazza la Sirte facendo sudare gli oltre mille giornalisti accreditati, è quello del “pacificatore”: il premier ha intenzione di uscire dalla tenda berbera di Gheddafi con la ripresa dei contatti diplomatici tra la Libia e la Svizzera. La situazione è propizia: mercoledì Berna ha rinunciato alla sua “lista nera”di cittadini libici che non possono entrare
diario
pagina 8 • 26 marzo 2010
Poteri forti. Tremonti e Berlusconi, per una volta d’accordo, spingono molto per la nomina del banchiere di Marino
Generali va alla resa dei conti Oggi Geronzi cerca di scalare il vertice del colosso di Trieste
ROMA. Sapremo tutto oggi pomeriggio. Ovvero, se Cesare Geronzi ce l’avrà fatta, a conseguire l’unanimità in tempo per l’appuntamento del comitato nomine di Mediobanca. Da dove alle 15,30 i sei del gruppo - oltre al presidente Cesare Geronzi e ai vicepresidenti Dieter Rampl e Marco Tronchetti Provera, l’amministratore delegato Alberto Nagel, il direttore generale Renato Pagliaro e il capofila dei soci francesi Vincent Bollorè - dovranno stilare la lista dei tredici per rinnovare il consiglio di Generali e indicare le preferenze per il vertice. Un elenco quello che sarà poi portato all’assemblea del 24 aprile a Trieste - non di poco conto perché esserne presenti o meno significa poter aspirare alla guida del Leone e prendere il posto dell’attuale presidente, l’85enne Antoine Bernheim, che pare non aver ancora smesso di sperare nella riconferma. I soci, però, tanto per cambiare sono divisi. Dopo che l’altroieri il banchiere romano ha incassato il sostegno di Vincent Bolloré, con le parole sull’età di Bernheim dette dal socio francese, la partita non si è però conclusa. I fronti sono due: quello che sostiene Geronzi e quello che si è coagulato attorno alla figura di uno dei due attuali amministratori delegati, Giovanni Perissinotto. Il presidente di Piazzetta Cuccia ha dalla sua l’appoggio di Tronchetti e anche quello, non si sa quanto esplicito visto che il finanziere bretone fino a poco tempo fa continuava a contare sul cavallo Bernheim, di
di Alessandro D’Amato
ro, entrambi azionisti del gruppo B. Sono poi arrivati anche il vice presidente del consiglio di sorveglianza del Banco Popolare Dino Piero Giarda e il presidente di Telecom Gabriele Galateri, entrambi anche consiglieri di amministrazione dello Ieo: proprio una riunione del cda dell’istituto europeo di oncologia era il motivo della loro presenza. Al termine dell’incontro, le bocche erano come al solito cucite, e per sapere se almeno il management
Ieri c’è stato grande movimento in Mediobanca: oltre al destino delle assicurazioni c’era in ballo il futuro di Unicredit e di Alessandro Profumo Bolloré. Perissinotto sarebbe invece sostenuto da Unicredit e, sembra, anche da Mario Draghi (Bankitalia è azionista di Generali). Oltre che ovviamente dal management interno, che di certo avrebbe da soffrire dall’arrivo a Trieste di un accentratore come l’attuale presidente di Mediobanca.
Ieri c’è stato un incontro tra Geronzi e Nagel, ad di Mediobanca, nello stesso giorno in cui a Piazzetta Cuccia si facevano vedere Stefano Cao, amministratore delegato di Sintonia dei Benetton, e Piero Ferre-
ha trovato l’accordo si dovrà attendere oggi, quando comincerà il comitato nomine. È probabile che a quel punto i giochi saranno già fatti, e si sarà deciso chi tra Perissinotto e Geronzi si troverà in lista. Di certo c’è che la politica sta tutta dalla parte di Geronzi. Anche se Silvio Berlusconi, interrogato in proposito, ha detto di non saperne nulla, il nome del banchiere di Marino è gradito a via XX Settembre, dove il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha capito che la presenza di un presidente come Geronzi potrebbe signi-
L’Istat pubblica i dati del consumo
Ancora giù le vendite ROMA. Le vendite al dettaglio dei prodotti alimentari sono diminuite a gennaio dell’1% rispetto a dicembre e del 3,3% rispetto allo stesso periodo del 2009. Lo rileva l’Istat precisando che il dato congiunturale è il peggiore da aprile 2007 mentre quello tendenziale è il peggiore dal marzo 2009, quando segnò il -5,2%. Nel complesso, le vendite al dettaglio a gennaio sono diminuite dello 0,5% rispetto a dicembre e del 2,6% rispetto a gennaio 2009. Lo rileva l’Istat precisando che il dato congiunturale è il peggiore da dicembre 2008 (allora segnò -0,7%). Secondo l’istituto di statistica il calo delle vendite su dicembre (0,5%) è la sintesi tra il -1% delle vendite alimentari (il dato peggiore da aprile 2007) e dello 0,3% dei prodotti non alimentari. Rispetto a gennaio 2009 le vendite alimentari sono diminuite del 3,3% (il calo più consistente da marzo 2009) mentre quelle dei prodotti non alimentari sono diminuite del 2,3%. Il calo tendenziale è stato forte soprattutto nelle imprese
della grande distribuzione (3,1%) mentre le imprese operanti su piccole superfici hanno segnato un -2,2% su gennaio. Nell’alimentare, le imprese della grande distribuzione hanno segnato un calo delle vendite del 3,5% mentre le imprese operanti su piccole superfici hanno registrato un calo delle vendite del 3,1%. Nel comparto non alimentare le aziende della grande distribuzione hanno segnato un calo delle vendite del 2,9% a fronte del calo del 2% dei piccoli negozi. Per quanto riguarda ipermercati e supermercati, poi, nell’alimentare hanno perso il 3% del fatturato al livello tendenziale mentre i discount hanno segnato un -2,9%. Sul calo complessivo del 2,6% delle vendite a gennaio spicca quello dei prodotti farmaceutici (-4,2%) e delle dotazioni per l’informatica (-4,3%). Reggono meglio la crisi l’abbigliamento e le calzature (1,2% per entrambi i comparti) la foto ottica (-0,6%) e il settore dei giocattoli, sport e campeggio (-0,9%).
ficare un maggiore impegno da parte del Leone di Trieste nelle partite del capitalismo italiano. E tra poco se ne dovranno giocare molte decisive, in primo luogo quella per Telecom. A mettergli i bastoni tra le ruote quindi sembra rimasto davvero poco, e soprattutto la memoria storica dovrebbe ricordare che nelle diverse situazioni in cui Geronzi si è trovato ai ferri corti con gli azionisti di Mediobanca, alla fine l’ha spuntata. In più, c’è da ricordare che in Unicredit i problemi della riorganizzazione si stanno sommando alle inquietudine delle fondazioni bancarie, che oggi vorrebbero contare di più nella banca di piazza Cordusio: insomma, ce ne sono di gatte da pelare anche dalle parti di Alessandro Profumo, senza voler aggiungere anche un problema a Trieste. Anche se stavolta, oltre a Profumo, secondo alcuni il presidente dovrebbe trovarsi contro anche Fabrizio Palenzona, che ha acquistato di recente un bel pacchetto di azioni Generali per la “sua” fondazione Cassa di Risparmio di Torino, e potrebbe schierarsi a sorpresa contro Geronzi. Perché una sconfitta del banchiere romano nella battaglia per il Leone di Trieste dovrebbe spianare la strada a Palenzona per il vertice di Mediobanca, al quale punta da sempre. Un’ipotesi tutta da verificare.
Intanto, Assogestioni accelera sulla definizione della lista di minoranza per il cda. Nella rosa di nomi tra cui individuare i due candidati che il comitato governance di Assogestioni presenterà poi ufficialmente, secondo quanto scrive Radiocor, vi sono quelli del rettore della Bocconi Guido Tabellini, di Anthony Wyand, e dell’ex-ambasciatore d’Italia negli Usa, Giovanni Castellaneta. Tabellini, in partenza oggi per il Canada, preferisce dedicarsi a tempo pieno agli impegni accademici e anche Wyand - in passato manager di primo piano nell’assicurazione in Gran Bretagna con il gruppo Aviva e ora nel cda di Unicredit e vice-presidente di Societè Generale, non sarà della partita. Castellaneta, invece, rimane una candidatura possibile. I tempi per l’ufficializzazione della lista per il cda Generali sono abbastanza stretti, perché il termine legale per la presentazione è il 6 aprile.
diario
26 marzo 2010 • pagina 9
L’ex assessore lombardo del Pdl non è in pericolo di vita
Il corpo sarebbe stato trovato da due donne delle pulizie a gennaio
Tangenti: Prosperini tenta il suicidio
Caso Claps, «i sacerdoti sapevano del cadavere»
MILANO. Pier Gianni Prosperini, l’ex assessore regionale lombardo agli arresti domiciliari per una vicenda di tangenti, ieri mattina ha tentato il suicidio nella propria abitazione milanese in corso Garibaldi, ferendosi ai polsi e alle gambe con un tagliacarte. La moglie se ne è accorta e ha chiesto l’intervento del 118: l’esponente del Pdl è stato trasportato in codice verde all’ospedale San Carlo e non è in pericolo di vita. Secondo quanto riferito dalla polizia, intervenuta dopo essere stata allertata dal 118, l’ex assessore regionale stava scrivendo delle lettere indirizzate alla figlia e alla moglie il cui contenuto non è ancora noto. Secondo gli inquirenti potrebbe trattarsi di un gesto dimostrativo. Sono in corso gli accertamenti per capire la dinamica e la volontà dell’uomo.
POTENZA. Il cadavere di Elisa
Prosperini aveva lasciato il carcere di Voghera il 17 marzo scorso dopo aver raggiunto un accordo con la Procura per un patteggiamento a due anni e dieci mesi di reclusione e il risarcimento di 150mila euro. L’ex assessore regionale al turismo era stato arrestato il 16 dicembre dello scorso anno insieme col patron del gruppo ProfitOdeon Tv, Raimondo Lagostena, e il consulente pubblicitario
In Campania impazzano i “concorsi-bufala” All’ospedale Cardarelli 26 posti da dirigente inesistenti di Angela Rossi
NAPOLI. Quello che accade a Napoli in questo periodo ha in sottofondo il sapore della beffa. Corsi e concorsi si sprecano in questa primavera elettorale e qualcuno lascia moti dubbi sulla volontà di offrire veramente occupazione. Anche l’ospedale Cardarelli ha bandito un concorso per 26 posti di dirigente medico. Peccato che la Pianta Organica dell’azienda non ne preveda nessuno. E così i “fortunati”che vinceranno il concorso saranno inseriti in una graduatoria in attesa di prendere servizio chissà quando. Che dire poi dei criteri di valutazione previsti dal bando? Sessanta i punti da assegnare che saranno così ripartiti: dieci in base ai titoli di carriera posseduti dai candidati, altri tre per titoli accademici e di studio, tre per pubblicazioni e titoli scientifici, quattro in base al curriculum formativo e professionale, i restanti quaranta saranno soggetti alla totale e assoluta discrezionalità degli esaminatori durante un colloquio volto ad accertare le capacità professionali. Una domanda sorge spontanea: i punti saranno assegnati solo in base a valutazioni asettiche? Si sa, con la fame atavica di posti di lavoro che c’è in Campania, il gioco è facile. Basta guardare, infatti, i numeri delle domande inviate per l’altro concorso, quello bandito dal Comune di Napoli, che ha fatto registrare un recordo di partecipanti. Queste le cifre relative al concorso-corso Ripam: 534 i posti, interamente gestito da Formez Italia, un totale di 112.572 domande, di cui 40mila arrivate negli ultimi tre giorni d’apertura del bando. Ed ecco le percentuali delle preferenze per le diverse mansioni: vigile urbano (42,78% delle richieste), istruttore amministrativo (27,37%). Il candidato ideale è diplomato (82,84%), rientra in una fascia di età tra i 20 e i 30 anni (53,93%) ed è originario della Campania (90%). Sul totale gli uomini sono il 49,63% e le donne il 50,37% . Il 29,40% dei candidati ha partecipato a più di un bando. In più ne è stato bandito un altro per 104 posti di dirigente, sempre a Palazzo San Giacomo. Vicende che non hanno tardato a provocare reazioni: «Siamo veramente scon-
certati dalla ennesima iniziativa clientelare dell’amministrazione comunale di Napoli con l’ulteriore Bando di Concorso per 104 Dirigenti, che vanno ad aggiungersi ai 534 posti già banditi nelle scorse settimane - affermano in una nota il capogruppo del Pdl Carlo Lamura e il vice presidente del Consiglio comunale Vincenzo Moretto - Ormai non c’è più limite alla sfrontatezza di un’amministrazione che sforna concorsi in piena campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio regionale con la promessa, più o meno celata, di procedere alle assunzioni, guarda caso, in coincidenza con le elezioni comunali della primavera 2011. Un tentativo di captatio benevolentiae che tradisce l’atteggiamento dell’amministrazione nei confronti delle migliaia di studenti e disoccupati che non riusciranno ad assicurarsi il tanto agognato impiego nel Comune di Napoli». Reazioni arrivano anche dall’Udeur attraverso il capogruppo consiliare Ciro Monaco: «Il famoso concorso per l’assunzione di 534 unità appare sempre più una bufala in quanto il Comune non sembra disporre dei fondi necessari per l’affidamento della gestione dello stesso al Formez, affidamento per il quale è stato preventivato un costo di ben 3 milioni e 250mila euro che allo stato non è certo disponibile. L’iniziativa dell’indizione di questo concorso, assunta dopo tanti anni di inattività e guarda caso a ridosso delle consultazioni elettorali, appare sempre più di chiaro stampo elettorale e propagandistico». E, tanto per chiudere il cerchio, anche la Regione Campania ha prorogato, sempre in campagna elettorale, gli incarichi dei dirigenti esterni. Cosa che ha fatto infuriare la Cisl regionale. Il segretario generale, Lina Lucci, ha infatti tuonato: «La Cisl Campania denuncia la proroga dei dirigenti esterni da parte della Regione Campania come un fatto grave che antepone e favorisce pochi eletti rispetto a quanti, per merito, in quanto vincitori di concorso, avrebbero diritto a quelle posizioni. La gravità è tanto maggiore perché si tratta di una scelta compiuta a poche settimane dalle elezioni regionali».
Bandi sospetti anche al Comune di Napoli, che annuncia l’assunzione di 534 nuovi impiegati, senza avere i fondi necessari
Massimo Saini. Secondo l’accusa, l’ex assessore avrebbe ricevuto una tangente da 230mila euro per fare aggiudicare al gruppo televisivo di Lagostena un appalto per trasmissioni sul turismo regionale di oltre 7 milioni di euro. Al centro delle indagini c’è anche una vicenda di debiti pregressi, maturati da Prosperini con le emittenti Telelombardia e Telecity per circa 200mila euro, e poi abbuonati al politico ricorrendo al sistema di gonfiare le fatturazioni per le trasmissioni in cui era pubblicizzata la Bit 2008 (Borsa internazionale per il turismo). Debiti non riconducibili alla Regione Lombardia, ma pagati dall’ente di cui Prosperini era assessore quando è finito in carcere.
Claps venne scoperto nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità prima del ritrovamento ufficiale del 17 marzo. Da fonti giudiziarie arriva la conferma alla notizia che le donne delle pulizie trovarono il corpo addirittura a gennaio e informarono i religiosi. Il capo della polizia Manganelli ha annunciato che «prossimamente ci saranno delle novità». «Si tratta di un’indagine così complessa, credo che meriti rispetto e la risposta non può che essere realizzata con il nostro silenzio sulle dinamiche relative a ciò che è avvenuto e avverrà». Un silenzio, quello sulla scoperta del cadavere, definito «inquietante» da monsignor Appignanesi, il vescovo a capo
della diocesi di Potenza nel periodo in cui scomparve la Claps. Interpellato dall’agenzia AdnKronos, ha detto: «La colpa non è della vigilanza attuale. Certamente se mesi fa è avvenuta la scoperta del cadavere e si è taciuto siamo di fronte ad un silenzio inquietante».
Un mistero lungo 17 anni quello di Elisa Claps. Le ricerche scattarono subito, ma della giovane, che allora aveva 16 anni, non si si seppe mai nulla. Quel giorno Elisa fu vista viva l’ultima volta nella chiesa della Santissima Trinità in via Pretoria, intorno a mezzogiorno. Poi su di lei calò il mistero. Ed è proprio dalla chiesa della Santissima Trinità che a distanza di tanto tempo sono ripartiti gli investigatori, arrivando alla clamorosa scoperta di resti umani pressocché mummificati, ed effetti personali, tra cui un orologio di plastica e un paio di occhiali. L’ultimo ad aver visto in vita la giovane fu il potentino Danilo Restivo. Un particolare importante che emerge dalle carte processuali del giudizio che si celebrò dopo la scomparsa della ragazza, nei confronti di un’amica di Elisa, Eliana De Cillis, di un altro giovane, Eris Gega, e dello stesso Restivo, che poi fu condannato per falsa testimonianza.
speciale elezioni
pagina 10 • 26 marzo 2010
I candidati del Centro/12. Il sostegno dell’Udc alla sindacalista che sfida Emma Bonino: «La mia forza sono i cittadini»
Tendenza Renata
Quoziente familiare, politiche per i giovani, formazione e riforma sanitaria La ricetta targata Polverini per affermare un nuovo modello regionale di Errico Novi
ROMA. Una tosta come Emma Bonino si è sfogata alla fine della tribuna politica Rai con un buffetto sulla guancia. Perché non può avercela con un’avversaria come Renata Polverini, mai maramalda, neppure nelle ore dell’intervento di Bagnasco sull’aborto, ma quasi prova rabbia di fronte a una cocciutaggine degna della migliore epica radicale. Se alla candidata del centrodestra si contesta l’inagibilità del negoziato sul sistema sanitario giacché il piano attuale è del governo Berlusconi, lei risponde: «E io lo ridiscuto». È quello che risponde anche a liberal. A lei è stata riservata una delle prove più “estreme” di questa tornata elettorale: quanto le è tornata utile l’esperienza delle lotte sindacali per affrontare tutto questo? Nessuno, all’inizio, poteva prevedere quello che ci ha riservato questa campagna elettorale. Io da parte mia sono
sempre andata avanti concentrandomi solo sulla campagna elettorale. La determinazione credo debba essere una dote fondamentale per ogni sindacalista e per ogni politico. In ogni caso sono stata fortemente motivata dalla gente, dalle migliaia di persone che ho incontrato e che hanno dimostrato di credere in me. Questa è stata la vera “molla” che mi ha fatto superare tutte le prove “estreme” di questa campagna elettorale. Ma se dovesse paragonare le vicende di questi giorni a una sua battaglia sindacale in particolare, quale sceglierebbe? Le vicende di questi giorni sono difficilmente collocabili in un altro contesto. Ogni vertenza è stata importante e mi ha visto impegnata a fondo. Capitolo sanità: il nodo principale che le toccherà sciogliere è arginare i gruppi di interesse: ha già pronta la strategia per farlo? Sulla sanità lei propone cose innovative come il potenziamento dei servizi sul territorio per dare respiro agli ospedali, l’infermiere scolastico, voucher per disabili: tutto questo però non richiede tempi più lunghi sul ripiano del “buco” finanziario? Crede che riuscirà a ottenere dal governo un’apertura di credito così robusta? La politica deve fare un passo indietro nella gestione della sanità: è il primo passo da fare per ridurre i costi e per
La corsa al femminile
Oltre a Emma c’è Marzia Marzoli È una sfida tutta al femminile, quella del Lazio, praticamente un inedito. Una competizione in cui c’è un tale concentrato di novità e anomalie da renderla praticamente irripetibile: incombe tra l’altro lo spettro delle pronunce sul merito del Tar e del Consiglio di Stato, così come quello dei ricorsi di chi è stato escluso o ha avuto a disposizione pochi giorni di campagna elettorale, come la Rete liberal di Vittorio Sgarbi. Alla candidatura di Emma Bonino il centrosinistra è arrivato in modo piuttosto imprevedibile, giacché sono stati i Radicali a proporla in modo unilaterale con il Pd che ha aderito a cose fatte. Con l’ex commissario europeo, oltre alla lista che porta il suo nome e quello dello storico leader Mario Pannella, c’è appunto il partito di Pier Luigi Bersani, la Federazione della sinistra, i Verdi, l’Italia dei Valori e il Partito socialista. Rimasto escluso il Pdl, con Renata Polverini sono schierati l’Udc, l’Udeur, il Partito dei pensionati, la Destra, l’Alleanza di Centro, Rete liberal, il Popolo della vita e la lista civica della candidata. Corre anche Marta Marzoli, rappresentante della Rete dei cittadini, per alcuni giorni unica avversaria della Bonino, quando la magistratura amministrativa non aveva ancora sancito l’ammissibilità del listino collegato alla Polverini, il cui rigetto avrebbe fatto saltare anche tutte le altre forze apparentate.
dare il giusto premio al merito e alla competenza. I gruppi di interesse sono fisiologici in una democrazia, sta alla politica contenere le scelte sbilanciate in favore di un gruppo piuttosto che di un altro e tutelare l’interesse generale. Quanto alle proposte apparentemente “costose”, vorrei ricordare che oggi, a fronte di un servizio costosissimo – con le addizionali Irpef e Irap al massimo, con i ticket e con ospedali chiusi e tagli ai posti letto – abbiamo un sistema sanitario largamente insufficiente in termini di efficacia e di qualità e un disavanzo annuo che supera abbondantemente il miliardo di euro. Serve un cambio di marcia nella governance del settore: controllo della spesa in tutte le sue fasi, accorpamento delle Asl, merito e trasparenza nelle nomine dei direttori e dei primari. Questo garantirà un vero rientro dal deficit annuo e una riduzione graduale del debito che oggi rappresenta il 60% del debito sanitario nazionale. In ogni caso, è mia intenzione rinegoziare il Piano Sanitario col governo nazionale perché la nostra Regione – come si legge anche dal Piano di Guzzanti – ha
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Vogliamo favorire una formazione mirata a rispondere alle richieste che vengono dal territorio, puntando a quelle figure professionali di cui le aziende hanno bisogno
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alcune caratteristiche strutturali per cui necessita di ulteriori fondi dallo Stato. Non si è ancora trovato un modo per assicurare ai partiti della Seconda Repubblica un livello di partecipazione dei cittadini pari a quello del passato, a parte eventi straordinari come la manifestazione di piazza San Giovanni: crede che la sua estrazione di leader sindacale la aiuterà, da presidente, a stabilire un rapporto diverso, più diretto con la gente? È importante invertire questo trend di disimpegno e di riduzione della partecipazione elettorale e politica in generale. Tuttavia, va detto che ancora oggi, tra le democrazie occidentali, abbiamo il tasso di partecipazione più alto in assoluto, per cui la politica nostrana continua a coinvolgere più cittadini rispetto quanto fa in altri Paesi europei e nordamericani. La ricetta comunque è una e una sola: affermare una politica credibile, che sia in grado di risolvere i problemi collettivi mediante politiche pubbliche efficaci ed efficienti, ossia tempestive e po-
speciale elezioni Dopo il clamoroso caso-Marrazzo, il centrodestra sembrava destinato a vincere la poltrona di governatore con Renata Polverini, grazie anche all’appoggio dell’Udc. Ma dopo il caos-liste che ha portato all’esclusione del Pdl a Roma, Emma Bonino sembra in vantaggio
LAZIO
Se vincerà la radicale, alcuni candidati esclusi del Pdl saranno riciclati come assessori
E Alemanno prepara la “Giunta salva-lista” di Gualtiero Lami
ROMA. Gira voce che il Campidoglio stia per trasformarsi in un ufficio di collocamento. Ad personas, naturalmente. Dalle parti di Alemanno, sondaggi Polverini-Bonino alla mano (un testa a testa a perdere per la sindacalista, dicono), tira aria di rimpasto con tanto di nuove nomine. «Un modo come un altro per piazzare i mancati candidati della lista Pdl di Roma e Provincia alle elezioni regionali in caso di vittoria del centrosinistra», ci spiega una fonte anonima vicina all’area ex Alleanza nazionale. Alemanno insomma sarebbe intenzionato a cucire una toppa sui grossolani errori commessi da Milioni, assicurando nella Giunta capitolina un porto certo, e ben stipendiato, ad alcuni degli esclusi dalla competizione di domenica e lunedì prossimi. A quanto sembra, il tavolo degli assessori non dovrebbe scricchiolare più di tanto (anche se, si dice, l’assessore alle Politiche educative scolastiche Laura Marsilio, sorella del deputato del Pdl Marco Marsilio, potrebbe al momento dormire sonni poco tranquilli), «e visto che in Giunta sono in tanti ad avere doppi o addirittura tripli incarichi, si tratta dunque di dirottare alcune “competenze” sui nuovi nominati». I quali, manco a dirlo, in caso di vittoria del centrodestra alle Regionali troverebbero comunque sicuro impiego nella Giunta di Renata Polverini, proprio come promesso da Silvio Berlusconi un paio di settimane fa. Qualche nome? «Meglio non sbilanciarsi, in fondo basta andare a prendersi i nomi di chi alle spalle vanta esperienza e militanza e...». E infatti, tra i nomi dei «meritevoli» che circolano maggiormente spiccano senz’altro quelli dei due ex aennini Luca Malcotti e Francesco Lollobrigida: il primo, sostenuto dal senatore Andrea Augello, arriva dritto dritto dal Fronte della Gioventù e ha un passato da consigliere capitolino prima e da sindacalista dell’Ugl poi; il secondo, sentimentalmente legato alla sorella del ministro Meloni, è stato
svezzato a pane e militanza dal deputato di area gasparriana Fabio Rampelli, e anche lui ha alle spalle qualche anno da consigliere regionale del Lazio durante la reggenza Marrazzo. Ci sarebbe però da scommettere anche nella “convocazione” di veterani come Luigi Celori, Donato Robilotta, Fabio Desideri o Marco Visconti. Ma la tattica messa in campo dalla squadra degli esclusi per acciuffare un-incarico-quale-chesia, non si basa solamente sull’ostentazione di un puro e inattaccabile pedigree politico-istituzionale da incorniciare a giorno e appendere in bella mostra sul muro del toto-nomine. Nella spartizione dei diversi incarichi entrerebbe in gioco una sorta di Manuale Cencelli improntato certamente sul classico meccanismo della “conta interna”, ma improvvisato su alcuni dei candidati della lista civica Polverini. Tradotto: ogni ex candidato della lista Pdl dirotterà il proprio bacino di voti su questo o quell’altro della lista civica. Di qui, il conteggio e il conseguente “verdetto”.
Sulla cronaca di Roma del Corriere della Sera di ieri è stata pubblicata la foto di un cartoncino scritto a penna, dimenticato da qualcuno al bar Vanni di viale Mazzini a Roma, che sembrerebbe dar conto proprio di queste «adozioni a distanza»: Alemanno seguirebbe da vicino Casciani, Augello conterebbe su Saponaro e Vicari, Rampelli su Palmieri e Miele, De Lillo sosterrebbe Illuzzi, Cicchitto invece Martelli e così via fino a Baccini, che avrebbe deciso di appoggiare Sodano. Tutte le manovre sono comunque congelate fino all’esito delle elezioni regionali. Che, nel Lazio senza dubbio, è del tutto incerto.
co costose per i contribuenti. Quanto a me, non credo proprio che il ruolo di responsabilità connesso alla presidenza della Regione mi allontanerà dalla gente. Certo aumenteranno gli impegni, l’agenda sarà sempre più fitta, ma farò di tutto per restare la persona che sono, con le priorità che ho sempre avuto, a partire dai problemi dei cittadini. Lei è tra i pochi protagonisti della scena politica italiana a promuovere il quoziente familiare: con lei ci sono l’Udc, il Forum famiglie e pochi altri. Ora però al Comune di Roma se ne studia una formulazione particolare: che non interviene sulle tasse ma sul costo dei servizi alla famiglia in modo appunto da ridurre tali costi per le famiglie con figli e anziani over 65. Condivide l’idea? La condivido e nel mio programma, nell’ambito delle competenze regionali, ho modulato le proposte legate alle politiche sociali sul modello del quoziente familiare. La Regione ad oggi non ha competenza in materia fiscale per poter introdurre il quoziente familiare, ma gli assegni, i bonus e le carte sociali possono essere parametrate sul numero dei componenti familiari ed è quanto proposto dal mio programma.Voglio poi ricordare come il quoziente familiare è una delle proposte del programma di governo del Pdl. In generale la crisi mette le famiglie a durissima prova: quali altre misure a loro favorevoli intende assumere? La famiglia in quanto attore principale della società deve essere sostenuta sotto il profilo economico, oltre che socio-assistenziale. Le nostre misure per la famiglia vanno dall’assegno
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governata seguirà alla lettera la direttiva del ministero della Salute secondo cui la pillola abortiva va somministrata solo nell’ambito di un vero ricovero e non in day hospital? Parliamo di un procedimento chimico che produce un aborto. Nel rispetto della legge credo che si debba garantire la salute della donna attraverso un processo di ospedalizzazione. Capitolo lavoro: tra le risposte efficaci alla crisi può esserci quella razionalizzazione degli aiuti alle imprese di cui lei parla nel suo programma: ma secondo lei quanto pesa, soprattutto nel Lazio meridionale, il rischio di infiltrazioni camorristiche nel tessuto produttivo? Lei punta molto sugli incentivi alle imprese per l’assunzione di precari e over 50, ma su queste politiche grava l’intricato nodo della formazione: come pensa di migliorarla? Il rischio di infiltrazioni della criminalità organizzata sicuramente c’è, per questo è nostra intenzione migliorare l’efficienza e l’efficacia dell’ Osservatorio tecnico-scientifico per la Sicurezza. Intendiamo renderlo più partecipativo grazie alla presenza di operatori di Polizia e i rappresentanti delle forze dell’ordine locali e nazionali e i ministeri di competenza che vivono giornalmente la realtà del territorio. Il lavoro è una delle parole chiave del mio programma per la Regione. La formazione è la chiave per favorire e sostenere l’occupazione, questo significa creare un rapporto stretto tra formazione, centri di ricerca e impresa. La ricerca scientifica, lo sviluppo tecnologico e l’innovazione costituiranno il motore dell’economia della conoscenza, della crescita e della competitività delle imprese.Vogliamo una formazione mirata a rispondere alle richieste che vengono dal territorio, puntando a quelle figure professionali di cui le aziende hanno bisogno. Nel suo programma ci sono 12 milioni di investimenti per la sicurez-
Bisogna il più possibile affermare una politica credibile, che sia in grado di risolvere i problemi della collettività attraverso politiche pubbliche efficaci ed efficienti, ovverosia tempestive e poco costose per i contribuenti
familiare regionale per il sostegno di tutti i figli a carico e delle persone diversamente abili presenti in famiglia alla gratuità di servizi e prestazioni pubbliche mirati ad agevolare i nuclei familiari numerosi. Riconosceremo a tutti gli appartenenti al nucleo familiare di un credito (di natura extra tributaria) da utilizzare al momento della richiesta di erogazione, da parte del cittadino, di servizi e prestazioni forniti direttamente o indirettamente dalla Regione, tenendo conto del numero degli appartenenti al nucleo familiare e della presenza di persone bisognose di cure, perché portatrici di handicap fisici ovvero mentali; Capitolo Ru486: la Regione da lei
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za e aiuti per rendere il turismo la prima industria della regione: sono due obiettivi che si intrecciano, giacché in un territorio ben protetto l’impresa turistica può mettere radici con più facilità, è così? Il diritto alla sicurezza è la precondizione per il godimento di tutti gli altri diritti fondamentali, tra cui i diritti economici nei quali rientrano quelli dell’impresa turistica. Sul fronte del turismo è necessario da un lato rafforzare le potenzialità di Roma che continua a vantare una permanenza media piuttosto bassa, dall’altro investire nel marketing territoriale per rilanciare le altre province e far capire che nel Lazio non c’è solo la Capitale. Il Comune di Roma si sta muovendo bene su questo fronte con il logo commerciale e il secondo polo turistico che mira a rafforzare il turismo d’affari, fieristico e congressuale. Occorre dunque impegnarsi per sviluppare un brand Lazio che faccia da completamento al richiamo di Roma e sfrutti quest’ultima come volano per moltiplicare le presenze.
il paginone
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La Chiesa cattolica continua ad essere sotto attacco per casi di pedofilia. L’ultimo scan
Angeli, demoni e
Per il vaticanista Magister c’è un animus anticristiano nell’attaccoa Benedetto XVI. Per il sociologo Introvigne, il NYT fa giornalismo spazzatura «perché il caso Murphy fu denunciato tempestivamente alle autorità civili» di Riccardo Paradisi
a nuova accusa che da oltreoceano si catapulta sul Vaticano è di quelle pesanti: le gerarchie ecclesiastiche non presero le opportune misure contro un religioso del Wisconsinche aveva abusato sessualmente di circa 200 ragazzini assistiti in un istituto per sordi. E questo nonostante i vescovi americani avessero avvertito il Vaticano che lo scandalo avrebbe potuto danneggiare seriamente la Chiesa. A tirar fuori il caso e presentarlo in questi termini è il New York Times secondo il quale dalla corrispondenza tra vescovi del Wisconsin e l’allora cardinale Joseph Ratzinger a metà degli anni Novanta le autorità ecclesiastiche dimostravano di avere come «principale preoccupazione quella di proteggere la Chiesa dalla scandalo».
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Il caso è quello padre Lawrence Murphy, che lavorò nell’isituto degli abusi dal 1950 al 1974. L’allora cardinale Tarcisio Bertone, oggi segretario di Stato vaticano, incaricò i vescovi del Wisconsin di avviare un processo canonico che avrebbe potuto portare all’allontanamento di padre Murphy. Ma Bertone, secondo il quotidiano, fermò il processo dopo che padre Murphy scrisse personalmente al cardinale Ratzinger spiegando che non avrebbe dovuto essere messo sotto processo perché pentito e in cattive condizioni di salute. Padre Murphy non ricevette mai punizioni o sanzioni, ma fu trasferito in segreto in varie parrocchie e scuole cattoliche ed è morto nel 1998. Questa l’accusa del New York Times. La risposta, inviata al quotidiano statunitense dal portavoce vaticano, smentisce però la ricostruzione del quotidiano statunitense. In una nota padre Federico Lombardi, ha spiegato che la Congregazione per la dottrina della fede non venne a conoscenza della vicenda se non venti anni dopo i fatti. Quanto alla segretezza dell’inchiesta vaticana sul caso, contrariamente ad alcune affermazioni circolate sulla stampa, né Crimen Sollicitationis, il documento vaticano che regola i processi a preti accusati di abusi, né il Codice di diritto canonico hanno mai proibito di riferire i casi di abusi su minori alle autorità giu-
diziarie. Alla luce del fatto che padre Murphy era anziano e in salute molto precaria e che viveva in isolamento e senza altre accuse di abusi riferite in oltre venti anni, la Congregazione per la Dottrina della fede suggerì che l’arcivescovo di Milwaukee valutasse di affrontare la situazione, ad esempio limitando il pubblico ministero di padre Murphy ed esigendo che egli accettasse la piena responsabilità della gravità
“ Per infangare la persona del Santo Padre si rivanga un episodio di trentacinque anni fa, noto e discusso dalla stampa locale già a metà degli anni Settanta
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dei suoi atti». Anche il sociologo della Religione Massimo Introvigne, direttore del Centro Studi Nuove Religioni, che è un organismo indipendente rispetto alla Chiesa Cattolica, ricostrui-
sce i fatti in modo diverso dal New York Times: «La Congregazione della Dottrina della Fede fu informata 20 anni dopo le decisioni assunte dall’arcidiocesi americana di Milwaukee (e cioè più di 40 anni dopo l’inizio degli abusi commessi dal sacerdote Lawrence Murphy). In pratica troppo tardi perché si potesse intervenire. E non sarebbe nemmeno vero che la chiesa avrebbe risparmiato al sacerdote pedofilo il confronto con la giustizia civile. «Intorno al 1975 don Murphy - dice Introvigne - fu accusato di abusi particolarmente gravi in un collegio per minorenni sordi. Il caso fu tempestivamente denunciato alle autorità civili, che non trovarono prove sufficienti per procedere contro don Murphy. La Chiesa, nella fattispecie più severa dello Stato, continuò tuttavia con persistenza a indagare su don Murphy e, giacchè sospettava che fosse colpevole, a limitare in diversi modi il suo esercizio del ministero, nonostante la denuncia contro di lui fosse stata archiviata dalla magistratura inquirente. Vent’anni dopo i fatti, nel 1995, in un clima di forti polemiche sui casi dei preti pedofili, l’Arcidiocesi di Milwaukee ritenne opportuno segnalare il caso alla Congregazione per la Dottrina della Fede». Il Cesnur ha potuto verificare che «la segnalazione era relativa a violazioni della disciplina della confessione, materia di competenza della Congregazione, e non aveva nulla a che fare con l’indagine civile, che si era svolta e si era conclusa vent’anni prima. Si deve anche notare - spiega Introvigne - che nei vent’anni precedenti al 1995 non vi era stato alcun fatto nuovo, o nuova accusa nei confronti di don Murphy. I fatti di cui si discuteva erano ancora quelli del 1975. L’arcidiocesi segnalò pure a Roma che don Murphy era moribondo. La Congregazione per la Dottrina della Fede certamente non pubblicò documenti e dichiarazioni a vent’anni dai fatti ma raccomandò che si continuassero a restringere le attività pastorali di don Murphy e che gli si chiedesse di ammettere pubblicamente le sue responsabilità». Quattro mesi dopo l’intervento romano don Murphy morì: «Eppure il New York Times insiste nel ribadire nel 1996 Ratzinger e Bertone, allora rispettivamnte
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ndalo americano denunciato dal New York Times
e sciacalli
«Gravi errori di giudizio e, per molti, fallimento nella leadership»
La Lettera pastorale del Papa ai vescovi d’Irlanda Sabato scorso Papa ha indirizzato una Lettera Pastorale a tutti i Cattolici dell’Irlanda per esprimere lo sgomento per gli abusi sessuali commessi sui giovani da parte di esponenti della Chiesa e per il modo in cui essi furono affrontati dai vescovi irlandesi e dai superiori religiosi. Egli chiede che la Lettera sia letta con attenzione nella sua interezza. Il Santo Padre parla della sua vicinanza nella preghiera a tutta la comunità cattolica irlandese in questo tempo pieno di amarezza e propone un cammino di risanamento, di rinnovamento e di riparazione. Chiede loro di ricordarsi della roccia da cui sono stati tagliati e in particolare del bel contributo che i missionari irlandesi apportarono alla civilizzazione dell’Europa e alla diffusione del cristianesimo in ogni continente. Negli ultimi anni si sono verificate molte sfide alla fede in Irlanda, al sopraggiungere di un rapido cambiamento sociale e di un declino nell’attaccamento a tradizionali pratiche devozionali e sacramentali. Questo è il contesto all’interno del quale si deve comprendere il modo con cui la Chiesa ha affrontato il problema dell’abuso sessuale dei ragazzi. Molti sono i fattori che hanno originato il problema: una insufficiente formazione morale e spirituale nei seminari e nei noviziati, una tendenza nella società a favorire il clero e altre figure in autorità, una preoccupazione fuori luogo per il buon nome della Chiesa e per evitare gli scandali hanno portato alla mancata applicazione, quando necessarie, delle pene canoniche che erano in vigore. Solo esaminando con attenzione i molti elementi che diedero origine alla crisi è possibile identificarne con precisione le cause e trovare rimedi efficaci. Rivolgendosi ai vescovi irlandesi, poi, il Papa rileva i gravi errori di giudizio e il fallimento della leadership di molti di loro. Sebbene risultasse spesso difficile sapere come affrontare situazioni complesse, rimane il fatto che furono commessi seri errori e che di conseguenza essi hanno perso credibilità. Il Papa li incoraggia a continuare a sforzarsi con determinazione per porre rimedio agli errori del passato e per prevenire ogni loro ripetersi.
prefetto e segretario della Congregazione della Dottrina della Fede, avrebbero insabbiato il caso. Incredibilmente dopo anni di precisazioni e dopo che il documento è stato pubblicato e commentato ampiamente in mezzo mondo, svelando le falsificazioni e gli errori di traduzione delle lobby laiciste, si accusa ancora l’istruzione Crimen sollicitationis del 1962 (in realtà,
seconda edizione di un testo del 1922) di avere operato per impedire che il caso di don Murphy fosse portato all’attenzione delle autorità civili». Insomma «Si tratta di giornalismo spazzatura che conferma come funzionano i panici morali. Per infangare la persona del Santo Padre si rivanga un episodio di trentacinque anni fa, noto e discusso dalla stampa locale già a
metà degli anni 1970, la cui gestione, per quanto di sua competenza, e un quarto di secolo dopo i fatti, da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede fu peraltro canonicamente e moralmente impeccabile, e molto più severa di quella delle autorità statali americane. Di quante di queste scoperte abbiamo ancora bisogno per renderci conto che l’attacco al Papa non ha nulla a che fare con la difesa delle vittime dei casi di pedofilia? Casi certamente gravi, inaccettabili e criminali come Benedetto XVI ha ricordato con santa severità». Attacco che mira a screditare un Pontefice e una Chiesa che, secondo la difesa cattolica, danno fastidio alle lobby per la loro efficace azione in difesa della vita e della famiglia. Insomma la tesi di Introvigne è che sia in corso un attacco contro Chiesa e cristianesimo, attacco che utilizza casi di abusi sui minori che nella Chiesa sono avvenuti e avvengono, ma come purtroppo in ogni istituzione dove adulti vengono a contatto con dei bambini. Eppure «Solo la Chiesa cattolica sembra far notizia» in questi casi come ha scritto Vittorio Messori sul Corriere della Sera. È anche l’opinione del vaticanista Sandro Magister. Si tratta di un attacco selettivo che viene portato dentro la Chiesa proprio contro colui che rappresenta la risposta più rigorosa e decisiva contro la pedofilia. Ma un attacco ordito da chi? Magister non pensa che vi siano regie precise e individuabili. Insomma non crede esista un grande vecchio che tira i fili dell’offensiva anticattolica e anticristiana.
L’uso di questa arma, della generica e indiscriminata accusa di pedofilia che viene reiterata contro la Chiesa, l’accusa più infame che si possa rivolgere a qualcuno, muove da un’avversione diffusa per il cristianesimo. «Tanto che a queste campagne di denigrazione basate su fatti specifici e isolati seguono sempre analisi che tendono a individuare il cristianesimo come portatore di una vita malsana, di una morale repressiva e oscurantista, il cui lato oscuro sarebbe appunto la perversione. Il fatto è che i portatori di questo attacco sono degli ipocriti visto che sono gli stessi che predicano la più radicale liberazione sessuale e l’abbattimento di ogni tabù, gente che non ha nessun diritto di giudicare chi fa del sesso un uso abnorme. Non a caso queste centrali del moralismo anticristiano tacciono quando la sottocultura pedofila ha la sfrontatezza, come in Olanda, di tentare di presentarsi al pubblico cercando legittimità e riconoscimento ufficiale». E si tace anche del fatto che gli atti d’accusa più duri contro la pedofilia interna alla Chiesa e come crimine diffuso nel mondo siano proprio quelli di Benedetto XVI. La lettera di Benedetto XVI ai cattolici d’Irlanda resta un documento fortissimo contro l’abominio delle pedofilia. «L’indagine che peraltro fu commissionata alcuni anni fa da un ente di ricerca non cattolico sulla diffusione della pedofilia diede risultati assolutamente incontrovertibili sul fatto che l’aberrazione pedofila è molto forte non è un’esclusiva della Chiesa, che è forte anche nelle congregazioni protestanti e in tutti quegli angoli della società dove ci sono contatti tra adulti e bambini. È forte anche all’in-
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terno delle famiglie purtroppo, dove si pratica questo tipo comportamento. Insomma questa tendenza di addossare alla Chiesa questa responsabilità peculiare obbedisce a un animus, a una volontà di colpire in una direzione». Il che non significa che la Chiesa non avverta la gravità di un crimine odioso. Che se possibile diventa ancora più grave quando compiuto da un sacerdote di quella fede che si rifà all’insegnamento di Gesù Cristo, il quale disse: «Chi scandalizza uno di questi piccoli è meglio per lui che gli si metta una macina di asino al collo e venga gettato nel mare» (Mc 9,42).
“ L’indagine di un ente di ricerca non cattolico rivelava una diffusione della pedofilia anche nelle congregazioni protestanti e ovunque vi siano contatti tra adulti e bambini. Specie nelle stesse famiglie
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Vanno anche ricordati però anche i casi ricorda come quello del cardinale di Chicago Bernardin, alla fine degli anni Novanta. Che fu accusato di abusi sessuali da un giovane che anni dopo ritrattò completamente. Benedetto XVI intanto, come il cavaliere del Dhurer, procede sulla strada del suo magistero con lo sguardo in avanti. E ieri, ricevendo i vescovi dei Paesi scandinavi, ha parlato del diritto dei bambini di nascere e di crescere in una famiglia formata da un uomo e una donna. È questo modello che deve avere la priorità su ogni altro supposto diritto degli adulti di imporre loro modelli alternativi di vita familiare e certamente su ogni supposto diritto all’aborto. I bambini hanno il diritto di essere concepiti e di essere portati in grembo, introdotti nel mondo e cresciuti all’interno del matrimonio: è attraverso la relazione certa e riconosciuta dei loro genitori che essi possono scoprire la loro identità e raggiungere il loro pieno sviluppo umano».
mondo
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Bruxelles. Maratona notturna per trovare un’intesa su un mix tra l’intervento dell’Fmi e i prestiti bilaterali
L’Europa di Frau nein Compromesso sul piano per salvare Atene Ma la Merkel ha imposto i suoi paletti di Enrico Singer rau nein, la signora no, alla fine l’ha spuntata. Ha dovuto fare delle concessioni, certo, perché nell’Unione europea la legge del compromesso è più forte anche del rigore di Angela Merkel, ma l’operazione-salvataggio dei conti pubblici della Grecia è, almeno per due terzi, proprio quella che voleva la Cancelliera tedesca: un mix tra l’intervento del Fondo monetario internazionale e prestiti bilaterali che saranno garantiti da un severo piano di rientro dal deficit. E, soprattutto, che saranno un’ultima spiaggia, una risorsa non automatica, ma estrema alla quale Atene potrebbe anche non fare ricorso. Ma che dovrebbe consentirgli di recupeare credibilità sul mercato internazionale, salvaguardando anche la stabilità dell’euro. I dettagli dell’intesa sono stati affidati a un vertice dei capi di Stato e di governo dei sedici Paesi dell’area euro che si sono riuniti a Bruxelles dopo la cena a ventisette alla quale hanno partecipato tutti i leader della Ue riuniti per il Consiglio europeo di primavera che si concluderà oggi. Così la formalizzazione dell’accordo è avvenuta in piena notte quando liberal aveva già chiuso in tipografia questa edizione. Ma la sostanza del compromesso l’aveva già anticipata JeanClaude Juncker, premier lussemburghese e presidente dell’Eurogruppo, che ha mediato tra la posizione di Berlino e quella di Parigi che proponeva un programma di aiuti alla Grecia da parte della Ue prima che dal Fmi, magari attraverso la creazione di un vero e proprio Fondo monetario europeo.
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promesso il premier George Papandreu risolva la crisi da sola con le misure di austerità che ha già adottato. Anche perché se il piano di salvataggio sarà davvero messo in pratica, potrebbe scattare un effetto-domino con il Portogallo pronto a fare da seconda pedina, come dimostra il downgrade del suo bilancio pubblico (deficit al 9,3 per cento) appena sentenziato da Fitch Rating. Proprio il rischio di creare un meccanismo che «aiuti chi non se lo merita» - la definizione è tedesca - ha spinto la Merkel a puntare i piedi. La Germania, che ha l’economia più forte dell’Unione europea, è stata inflessibile rispetto all’ipotesi di aiutare oggi la Grecia, domani il Portogallo e poi chissà chi altro, soltanto con i fondi dei contribuenti dei Paesi virtuosi (leggi sempre Germania). Le elezioni regionali tedesche, in programma tra meno di due mesi, hanno fatto il resto. Il ministro delle Finanze, Wolfgang Schauble, in un’intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, è stato molto chiaro: un piano di aiuti strutturale avrebbe costituito «un precedente capace di indurre altri Paesi a una gestione allegra dell’economia». E Angela Merkel a Bruxelles ha insistito perché i Paesi dell’euro rivedano, in direzione di un maggior rigore, le regole di attuazione del patto di stabilità per imporre «sanzioni più tempestive e più efficaci in futuro nei confronti di quei governi che mettono a rischio la stabilità dell’euro».
La crisi economica rovina il vertice che vara il nuovo piano decennale della Ue in un clima irreale. E che si divide anche sul futuro ingresso della Turchia
Sulla Grecia i sedici Paesi dell’Eurogruppo se la sono cavata così. Con una soluzione che ricuce gli strappi e con la speranza, soprattutto, che la Grecia - come ha
Alla luce di questo compromesso, che non sana le divergenze di fondo, su tutto il vertice di Bruxelles è calato un clima quasi irreale. Perché fino a qualche ora prima il Consiglio europeo, riunito nella sua formazione a ventisette, aveva discusso, e approvato, la “stategia Europa 2020”: il piano decennale che dovrebbe porre rimedio al disastro della “strategia di Lisbona” varata nel 2000 e conclusa quest’anno con il fallimento di tutti i suoi obietti-
L’allarme del vicedirettore dell’Ocse: senza riforme non ci sarà una svolta
Padoan: «La moneta sarà più debole» ROMA. «Indipendentemente dalla crisi greca, andiamo verso un unione monetaria più debole perché non è stata completata la sua costruzione istituzionale». Chiuso il caso Atene, l’economista Pier Carlo Padoan, oggi capoeconomista e vicedirettore dell’Ocse in passato responsabile per il Sudeuropa del Fmi, vede sfide più impegnative per l’Europa. Cosa manca al Vecchio Continente per ripartire? La crisi ha dimostrato che la Ue necessità di strumenti che adesso non ha e che invece possiede il Fondo monetario internazionale. E che sono strumenti di sorveglianza, finanziamento e ristrutturazione. Affidarsi o meno all’organismo di Washington, non osta che si costruiscano in Europa realtà simili. Che lo si chiami Fondo moneterario europeo, è relativo. All’improvviso lo sbarco del Fmi in Grecia non è più tabù. Stiamo a vedere cosa si deciderà. Ma anche se ci fosse, non cambierebbe nulla. Sarebbe soltanto il riconoscimento che l’Europa ha bisogno di strumenti che non ha. L’Ocse non ha mai ostentato ottimismo per l’eurozona. Continuerà a camminare su un sentiero stretto, perché deve risolvere nodi strutturali che si porta appresso. E se questo vale soprattutto per alcuni Paesi, il quadro generale non è dei migliori. Per l’Italia si pensa subito a pensioni e a liberalizzazioni. Il Paese ha molti problemi strutturali, ma il sistema pensionistico
non è la priorità. Necessità soltanto di una manutenzione, perché grazie alla Dini non siamo in coda alla classifica per livello di sostenibilità di questa voce. Sulle liberalizzazioni? Questo è il vero nodo, e non soltanto perché molti comparti dei servizi pubblici avrebbero bisogno di una più generale riforma. Perché la Merkel è stata così con Atene? No so ancora capire in questa rigidità qual è il confine tra parole e fatti. Quel che è certo è che Berlino si trova di fronte al dilemma di chi non può accettare lassismo sul versante della finanza pubblica, ma nel contempo sa bene che nessuno può permettersi il fallimento dell’economia greca. Perché colpirebbe tutta l’Europa. I primi a essere contagiati saranno Spagna e Portogallo? Sicuramente c’è il rischio di ampliare il nervosismo sui mercati, ma se la crisi greca sarà risolta, si eviterà una spirale negativa. Nelle accuse all’export tedesco si legge la volontà di modificare il patto di stabilità? Il patto non è in buona salute. Quando la crisi sarà passata, bisognerà renderlo più efficiente, più rigoroso, ma anche più orientato allo sviluppo. Ma non credo che la Germania farà sconti. Che fine fa l’unione politica? Resta un obiettivo di lungo periodo. Ma se pensiamo di realizzarla in questa fase, non avremmo né l’unione politica né il salvataggio della Grecia. (f.p.)
mondo
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Il parere di Antonio Puri Purini, ex ambasciatore italiano in Gerrmania
«Ma io dico che Berlino vuole solo difendere l’euro»
Secondo il diplomatico, il timore dei tedeschi è che «aiutando oggi Atene, domani si debba intervenire per Lisbona e Madrid» di Francesco Pacifico
vi. Europa 2020, che liberal ha anticipato nelle scorse settimane, dovrebbe rilanciare l’occupazione, sviluppare la ricerca e la formazione, aiutare l’economia verde: in sostanza, dovrebbe realizzare nei prossimi dieci anni quello che non è stato fatto fino ad oggi, nonostante i solenni impegni firmati a Lisbona. Una cerimonia in tono minore, alla quale ha partecipato anche Silvio Berlusconi con gli altri leader europei che per più della metà - sedici su ventisette - avevano la testa alle crisi in atto, piuttosto che ai traguardi elencati nelle trentacinque pagine del piano decennale che rischia di diventare un nuovo libro dei sogni.
Tra l’Europa dei veti e quella delle ambizioni, il fossato è sempre più profondo. Gli accordi di facciata non devono trarre in inganno. Servono a salvare il minimo comune denominatore dell’unità europea, ma non sono sufficienti a restituire alla Ue lo slancio necessario per affrontare i problemi sul tappeto. Anche il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, lo ha ammesso commentando l’intesa sul capitolo-Grecia: l’Italia avrebbe «preferito la soluzione tutta Ue», ma ha accettato quella «intermedia». E il presidente della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, ha avvertito che le difficoltà «non sono ancora superate» e ha chiesto un’azione «coordinata e determinata» per garantire la stabilità dell’euro perché «l’unione monetaria non riguarda soltanto la moneta, ma è la volontà di condividere un destino comune». Come dire che il più resta da fare. E non solo sul terreno dell’economia perché c’è un altro problema che si annuncia: quello dell’ingresso della Turchia nella Ue. Ieri a Bruxelles c’era anche il capo dei negoziatori per l’adesione di Ankara, Egemen Bagis, che ha incontrato la Commissione per fare il punto sullo stato dei negoziati avviati cinque anni fa. Ma che è stato accolto da una vera doccia fredda. Angela Merkel, che a fine mese visiterà la Turchia, si è schierata sulle posizioni di Nicolas Sarkozy: più che la piena adesione, il governo turco dovrebbe puntare a un «partenariato privilegiato» con la Ue. Una specie di partecipazione di serie B che Recep Tayyip Erdogan ha più volte respinto e che promette un’altra spaccatura tra i Ventisette.
ROMA. «Stiamo pagando quella che il presidente Ciampi chiamava la “zoppia” dell’Europa, l’assenza di un coordinamento della politica economica e di sviluppo». Mentre le diplomazie del Vecchio continente litigano per trovare una soluzione all’esplosione del deficit greco, l’ambasciatore Antonio Puri Purini ripensa alle parole che più di dieci anni fa Carlo Azeglio Ciampi, uno dei padri della Ue, pronunciò appena insediato al Quirinale. «Possono essere tante le soluzioni per dare un governo all’economia dell’area, ma credo che sia utile ricordare la formula suggerita dal Presidente: senza sottrarre competenze agli Stati, si deve spingerli verso obiettivi e progetti condivisi, per poi demandarne l’attuazione ai singoli Paesi, secondo regole e istituzioni proprie». Perché per l’ex responsabile della diplomazia italiana a Berlino, come allora, «il problema è di natura politica, capire fino a dove ci si vuole spingere nell’integrazione europea». Difficile parlare oggi di integrazione. Non ricordo momenti nei quali le politiche nazionali abbiano tanto spadroneggiato a Bruxelles come oggi. Se in passato c’è sempre stata una certa sintesi tra esigenze nazionali e individuazione dei bisogni europei, adesso manca la capacità di individuare gli interessi comuni. E questo dovrebbe essere compito degli principali Stati membri. Ma quando c’è deficit di leadership, non può che sorgere una situazione di stallo. Servirebbe un Adenauer o un De Gasperi. Negli anni recenti hanno esercito in toto la loro leadership sia Gerhard Schröder sia Angela Merkel. Schröder fece un’ampia riforma sociale per rimettere in moto l’economia, rischiò, vinse la battaglia, ma perse le elezioni. Il semestre di presidenza dell’Unione guidato dal cancelliere Merkel ha portato alla firma del Trattato di Lisbona. Le generazioni passate di politici europei o avevano vissuto la Seconda guerra mondiale oppure erano cresciuti nel ricordo di quest’evento. Di conseguenza il progetto di unificazione del continente aveva una grande attrattività. Perché la Merkel è stata tanto rigida verso Atene?
La Germania è storicamente ossessionato dal problema della stabilità. La memoria dell’inflazione degli anni Venti passa da generazione in generazione. Poi c’è il tema dell’euro: per i tedeschi la crisi greca lascia intravedere una minaccia che mai si sarebbero aspettati. E si chiedono perché, dopo i sacrifici per rimettere in sesto la loro economia, aiutare un Paese che va in pensione a 60 anni mentre loro non lo fanno prima dei 67. Ma sarebbe un errore pensare che la Germania usi il rigore europeo
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Il presidente Ciampi spiegava che i problemi di sovranità si risolvono spingendo gli Stati a concordare progetti comuni, ma attuandoli singolarmente per questioni interne, quando sta lavorando per salvare l’euro. Tra un po’ si vota al Bundesrat. Che la coalizione tra cristiani sociali e liberali si muova con difficoltà inaspettate e non si sia ancora messa in moto con la fluidità immaginata, è vero. Allo stesso modo pesano la promessa elettorale di abbassare le tasse del Fdp, un elevato debito pubblico e l’obbligo, secondo lo Schuldenbremse, di azzerare entro il 2014 il deficit. Ma dietro le mosse del vicecancelliere Schauble, una delle menti più lucide del governo, vedo il timore che, risolto il caso greco, dopo due mesi ci si ritrova ad affrontare un’analoga situazione in Portogallo. E magari dopo due mesi ancora in Spagna. Dove va l’Europa? Non dimentichiamoci che l’unione monetaria è stata soltanto una tappa di un percorso. Se ci fermassimo qui, verrebbe meno l’Europa stessa. E saremmo soltanto una zona di stabilità economica e militare – come vorreb-
bero alcune cancellerie –, un’area dove si contrattano gli interessi nazionali. La politica sta giocando con il fuoco, i cittadini dovrebbe incalzare i loro governanti perché facciano un passo indietro a favore delle istituzioni comunitarie. Ma più che al futuro guarderei al perché si è arrivati a questo. Prego? Non si è voluta creare una Commissione autorevole. Che infatti si muove sempre più in punta di piedi, delimitata com’è dai governi. La Ue funziona se cammina su due gambe: la sovranità sovranazionale e la cooperazione. Che si sia sviluppato soltanto quest’ambito lo vediamo anche nel cambio d’indirizzo dell’Italia, che, tradizionalmente in prima linea per una gestione comune dei maggiori dossier, è passata a chiedere il rispetto degli spazi degli Stati. Anche l’euro sembra a rischio. Ognuno dice la sua, ma tutti sono consapevoli dell’importanza della moneta unica e che bisogna difenderla a spada tratta. E il Paese che sta più lavorando per blindare l’euro e risolvere la crisi greca è la Germania: naturalmente con i suoi metodi. A Berlino si rimpiange il marco. Sono ipotesi così strampalate che non si possono prendere in considerazione. Se poi i giornali, la Bild o il più autorevole Die Welt, nell’emotività del momento trasmettano le nostalgie sul marco, questo non fa dimenticare che l’introduzione dell’euro ha facilitato la riunificazione della Germania. Come si esce da questa crisi? Non sono un economista, ma il concetto di fondo è la solidarietà europea. Che non si traduce nell’idea di essere sempre e comunque aiutati, ma su quella di seguire le regole, il rigore. Nel 1992, dopo l’uscita della lira dallo Sme, l’Italia ha risalito la china facendo riforme complesse come quella pensionistica. Cosa cambierà con un intervento del Fondo monetario? Nella sostanza poco, a livello di comunicazione molto. Di fronte al mondo, agli Stati Uniti e alla Cina, sarebbe la dimostrazione che l’Europa non riesce a gestire un suo importante problema interno. A meno che l’intervento di Washington non sia inserito in una logica di azione comunitaria.
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Islam. La fatwa contro i mongoli che giustifica i terroristi non ha basi teologiche: il mondo arabo si ribella al fondamentalismo
Processo a Bin Laden
Lo sceicco avverte gli Usa: «Se uccidete la mente dell’11/9, morirete» Ma i leader islamici in Turchia scomunicano al Qaeda e la “guerra santa” di Vincenzo Faccioli Pintozzi
ROMA. Forse è morto e sepolto, lo sceicco del terrore, ma chiunque si sia preso la briga di farlo sembrare ancora vivo fa bene il suo lavoro. E ieri, dopo qualche settimana di silenzio – l’ultima volta aveva pronunciato un inatteso endorsement alla Conferenza internazionale sul Clima di Copenhagen – è riapparso con la solita verve che lo contraddistingue sin da quando, nove anni fa, è scomparso nel nulla. In un messaggio audio, dunque, Osama bin Laden ha minacciato di uccidere tutti gli ostaggi americani nelle mani di al Qaeda (e filiali sparse per il mondo) se gli Usa giustizieranno Khalid Sheikh Mohammed e i suoi compagni. Mohammed, accusato di aver ideato gli attacchi dell’11 settembre 2001, è attualmente detenuto nel carcere speciale di Guantanamo insieme ad altre quattro persone ritenute coinvolte negli attentati alle Twin Towers. Nel nastro audio, la voce attribuita allo sceicco del terrore afferma che «la Casa Bianca ha annunciato la volontà di giustiziare Khaled Sheikh Mohammed e un coimputato: il giorno in cui dovesse prendere questa decisione avrà anche deciso che ognuno di voi che dovesse cadere nelle nostre mani sarà giustiziato». Fin qui, per quanto atroce, potrebbe rientrare tutto nell’ambito della cronaca internazionale: se non uccidono per fede, gli integralisti musulmani uccidono per odio; per ricatto; per denaro; per propaganda o persino senza motivo apparente. Sono numerosi i casi di omicidi compiuti da
glia suo condizionamento. Da qui nascono domande come «Può una donna osservare un cane nero mentre è incinta?», che ha dato vita alla lapidazione di un’adultera in Arabia Saudita. Il mufti risponde indicando quale sia a suo parere la linea da perseguire, in campo civile, penale o persino amministrativo.
Essendo la fatwa un’opinione personale, per quanto autorevole, non ne discende automaticamente che il responso debba essere applicato; dunque una fatwa non ha alcuna diretta esecutività, a meno che non sia fatta propria dal giudice o che il mufti non appartenga alla medesima scuola giuridica del giudice che gli abbia sottoposto ufficialmente il quesito. Oltre alla mancanza di esecutorietà della fatwa, va comunque ricordato che, essendo una sorta di parere pro veritate, può frequentemente avvenire che siano emesse fatwa tra loro del tutto discordanti. Il fatto non crea scandalo nella cultura giuridica islamica, dal momento che un hadith attribuito a Maometto asserisce che «la disparità di giudizi è una benedizione per la Umma islamica», ovvero l’unità del mondo arabo a cui mira Osama bin Laden. Ora però questa unione è messa a serio rischio dall’analisi teologica dei dotti che si riuniscono in Turchia. Provenienti da Arabia Saudita, Egitto, Giordania e altri Paesi musulmani si riuniranno per discutere sull’applicazione pacifica del jihad, la cui fatwa di origine dovrebbe essere interpretata in una prospettiva più pacifica di quanto in effetti avvenga. La vicenda della fatwa di Mardin, quella pri-
Studiosi da tutto il mondo islamico mettono al centro di un colloquio internazionale la fatwa, emanata nel XIII secolo, che diede inizio e base teologica ai kamikaze che uccidono i non musulmani esaltati che, brandendo il Corano senza averlo letto, si convincono di avere già un piede nel Paradiso dei kamikaze o dei martiri della fede islamica, morti per il credo.
Ora, però, tutto questo potrebbe cambiare perché domani – nella città turca di Mardin - un gruppo internazionale di studiosi musulmani di livello altissimo si riunirà per esaminare attentamente una fatwa (un editto religioso islamico), decretata sette secoli fa da un alto esponente religioso a proposito del “jihad”, la famigerata guerra santa contro gli infedeli. Di per sé, la fatwa è la risposta fornita a un qadi, giudice musul-
mano, da un esperto di diritto musulmano (il faqih) su un quesito presentatogli per sapere se una data fattispecie sia regolamentata dalla sharia (la legge islamica) e quali siano le modalità per applicarne il disposto. In questo caso il faqih viene detto mufti. I tribunali coranici agiscono in base alla sharia, ovvero in base ai contenuti di ciò che dice il Corano, la Sunna e gli hadit, i detti attribuiti a Maometto. Dato che le fonti del diritto sono spesso in contrasto fra loro, il giudice islamico (che non è mai un dotto, ovvero un ulema) è costretto a ricorrere alla consulenza di un mufti. A cui però deve esporre il quesito in forma rigorosamente astratta per evitare qualsivo-
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Parla il presidente dei “Musulmani moderati” Gamal Bouchaim a violenza non può mai essere giustificata nel nome di Dio. E i kamikaze non sono martiri ma criminali». Non usa metafore Gamal Bouchaib, presidente del movimento dei Musulmani moderati in Italia e membro del Comitato per l’islam presso il ministero dell’Interno. Da anni Gamal è impegnato a diffondere e a far conoscere un islam liberale, un islam che non rinnega i diritti umani universali e il valore sacro della vita. «È tempo di aprire una stagione nuova nell’Islam e di smantellare l’ideologia dei gruppi terroristi che si rifanno al Corano e alla Sunnah. Al-Qaeda - dice Gamal - si serve della fatwa di Mardin per giustificare il suo operato. Invece bisogna sfidare le motivazioni religiose dei kamikaze che sognano il paradiso dove 77 vergini dai capelli neri accoglieranno i martiri. Che non sono per niente martiri, ma semplicemente criminali. E bisogna trovare il coraggio di dirlo apertamente. Dio è contro la violenza. Al contrario, il terrorismo islamico giustifica la propria pratica appoggiandosi su versetti coranici e su argomenti tratti dalla Sunnah. E per avere la certezza che essi, compiendo l’atto terroristico, fanno il gesto di pietà suprema, lo compiono soltanto dopo avere ricevuto una fatwa. La violenza in nome dell’Islam è così diffusa che si esercita anche contro altri musulmani: è sotto gli occhi di tutti la carneficina fra sunniti e sciiti in Iraq o in Pakistan».
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Ma che cosa si può fare? «È necessario un movimento di popolo che risani il volto sfigurato dell’islam ad opera di gente senza scrupoli che vive ancorata a retaggi medioevali e tribali». Un passo verso un nuovo Islam sembra essere la riunione che si terrà proprio a Mardin, in Turchia, dove studiosi islamici provenienti da Arabia Saudita, Giordania, Egitto e altri Paesi musulmani, discuterranno del perché il jihad dovrebbe essere interpretato in una prospettiva
«Ma Dio non vuole sangue in suo nome» «Nel Corano non c’è alcun riferimento al jihad, il Profeta era esempio di convivenza» di Rossella Fabiani più pacifica di quanto non avvenga oggi. «Prima di parlare di jihad come di guerra santa, che il Corano ammette si possa fare contro i non musulmani o i miscredenti (kuffâr) secondo la“fatwa di Mardin”risalente al XIII secolo, mi preme ricordare che una fatwa è un fondamento della sharia, è un ordinamento legislativo che, a differenza di quanto fanno i dotti musulmani pii, gli estremisti usano sulla pelle delle persone. Quello che deve essere chiaro è che non bisogna più credere alla teoria della sovranità divina e soprattutto bisogna opporsi alla casta dei signori dell’Islam che tengono i musulmani in ostaggio di una teocrazia superata dal progresso e li sottopongono all’arbitrio di una casta di religiosi, anche se nell’islam non esiste nulla che possa assomigliare al sacerdozio, poiché per definizione non esiste alcun intermediario tra l’uomo e Dio. Inoltre bisogna lottare non soltanto contro il jihadismo islamico, ma anche contro il cosiddetto islam moderato». Già Churchill diceva che «una persona conciliante è uno che nutre un coccodrillo, sperando che mangi per ultimo». E i nostri coccodrilli sono i “moderati”. In Europa e negli Stati Uniti gran parte dell’opinione pub-
maria, risale al XIII secolo: all’epoca, la maggior parte del Medioriente oggi musulmano era occupato dai mongoli, che avevano distrutto numerose città e sterminato molte popolazioni dell’area. Nonostante un buon numero di loro si fosse convertito all’islam, i mongoli seguivano la loro legge - la yasa, diretta emanazione di Gengis il Khan - e non la sharia.
Per questo motivo, lo studioso ibn Taymiyyah condannò i mongoli come “ipocriti”, inteso come “non veri musulmani”. Per poi sostenere che per ogni “vero musulmano” era un obbligo religioso combattere una guerra santa contro tali apostati. Questo primo invito alla guerra contro gli stranieri, nel cui ri-
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passo con i diritti umani. Il problema è una lettura arcaica e mediovale dei diritti umani, mentre il Corano non è mai andato contro i valori dell’uomo. Un esempio di Islam positivo viene dal Marocco dove è stata ratificata una moudawana (uno statuto speciale) per le donne e una per la preparazione degli imam. L’Islam ha questa faccia fortemente pacifica che non viene mai raccontata. Ma che esiste, e che il movimento che rappresento vuole fare emergere. Il jihad, nella sua accezione terroristica, è stato iniziato da Osama bin Laden esclusivamente per i suoi motivi politici e di rappresentanza. I terroristi giustificano l’arma del jihad come guerra santa, in realtà jihad viene da judh che significa sforzo interiore che il musulmano deve compiere verso Allah con preghiere e buone azioni. È una dimensione spirituale interiore che i fondamentalisti hanno invece trasformato in una dimensione materiale ed esteriore per realizzare il loro disegno del Califfato universale. Il jihad come guerra santa non ha alcun riferimento nel Corano. In una sura il profeta dice che chi uccide una persona uccide tutta la comunità. Si tratta della sura della Mâ’idah (la Tavola imbandita) 5, 27-32:
Ci sono letture integraliste, arcaiche e medioevali del Corano, ma esistono anche altre letture del Libro che possono andare di pari passo con i valori universali dell’uomo blica e dei governi è convinta che i Fratelli musulmani, che si propongono come gli unici e veri rappresentanti dell’islam, dovrebbero essere autorizzati a prendere parte ai processi politici del Medio Oriente, dal momento che sono considerati “moderati” in quanto non professano apertamente né il jihad né gli attentati terroristici. La loro autorità - dicono - deriva interamente dal libro santo del Corano. «Esistono delle letture integraliste del Corano, ma esistono anche altre letture del Libro che possono andare di pari
chiamo echeggia comunque la voce di Maometto, costituisce dunque oggi la base teologica per gruppi islamici radicali come l’egiziano Takfir wal-Hijra (“Scomunica ed esodo”) o terroristici come al Qaida, che fanno riferimento a quella fatwa per giustificare il loro operato. Aftab Malik, direttore dell’Istituto islamico britannico e uno degli organizzatori della prossima riunione di studiosi in Turchia, spiega: «È così che nacque il concetto di guerra santa contro gli infedeli. Questa giustificazione della violenza, nota come la “fatwa di Mardin”, è divenuta uno strumento nelle mani dei gruppi radicali terroristi. È per questo motivo che ab-
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biamo scelto di riunirci a Mardin e di intitolare il convegno “Mardin, la terra della pace”». Questo incontro di studiosi rischia dunque di trasformarsi in un
«...chiunque uccida un uomo che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità...». E chi usa il jihad con una giustificazione religiosa contraddice il testo sacro del Corano che dice di onorare. Ma forse, in questo caso, sarebbe più giusto parlare di strumentalizzarzione. C’è dunque una confusione interiore, nel Corano si parla soltanto di fare uno sforzo per essere degno di un Islam pulito e purificato. Nel Corano la parola jihad viene usata come sforzo spirituale di buona condotta».
Gamal Bouchaib ricorda che Maometto ha accolto i cristiani di Najran quando andarono a pregare nella sua moschea, oggi nota come la moschea del Profeta nella città santa di Medina. «A fronte di questo è possibile dare vita a un nuovo capitolo dei rapporti con i non musulmani in quanto nostri fratelli nell’umanità. Termini quali dar al-harb (casa della guerra), dar al-salam (casa della pace) e ahl al-dhimma (monoteisti non musulmani) sono prodotti di condizioni storiche ormai passate che non sono più applicabili oggi». La condanna di Gamal è chiara: è una condanna del terrorismo senza se, senza ma e senza giustificazioni religiose. Gamal Bouchaib è anche un deciso sostenitore dei diritti umani universali e dei diritti delle donne. «La condizione femminile nel mondo arabo è un pilastro per il progresso del mondo islamico e il modo in cui una cultura considera le donne determina il grado di progresso o di arretratezza di una società. L’idea di una cultura maschile superiore non è un precetto religioso. L’incontro di Mardin significa che qualcosa si sta muovendo e che prende sempre più corpo l’idea che bisogna opporsi alla devastante corrente del terrorismo per strappargli ogni pretesto religioso».
nei giorni scorsi da un imam britannico. Si tratta di un procedimento congiunto, di una mossa a tenaglia che potrebbe essere il prodromo della fine del terrorismo nel nome della fede. Con la conseguente caduta della nobiltà implicita, almeno per la Umma, degli Stati e dei governi che ne finanziano gli uomini. Potrebbe essere l’inizio di quel Rinascimento musulmano auspicato dai pochi filosofi laici di quel mondo, l’alba di quel disarmo mondiale che tutti, non soltanto in Occidente, auspicano da moltissimo tempo. Nella turca Mardin, dove tutto è cominciato, tutto potrebbe finire. Prima che sia troppo tardi.
Fondamentale la presenza dei teologi sauditi: se i custodi dei luoghi santi dell’islam condannano definitivamente la violenza, potrebbe essere prossimo un disarmo mondiale processo a Osama bin Laden e a tutti i suoi emuli; ad al Qaeda e a tutte le sue emanazioni in giro per il mondo.
Un processo che si accosta alla corposa disamina proprio della “Rete” fatta
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Usa. Lo stop dovuto a una violazione procedurale scoperta dal Gop WASHINGTON. Ciak, si rigira. Anzi, si rivota. Abbiamo scherzato. Avete presente la storica approvazione della riforma della sanità negli Stati Uniti? Avete presente le trattative fino all’ultimo secondo, gli accordi, le accuse, le manifestazioni? E la firma solenne del presidente Obama? Erano prove generali, lo show si deve ripetere. Un paio di cavilli procedurali scovati dai repubblicani costringono la legge a tornare in aula per ripetere esame e votazione. Per essere più precisi, sono gli allegati alla riforma che dovranno essere approvati di nuovo dalla Camera perché i repubblicani, nel corso della impegnativa maratona notturna al Senato, hanno scovato due imperfezioni procedurali o conflitti sul budget. Certo, chi trarrà vantaggio dalla ripetizione di tutto il meccanismo è da verificare. Che l’opposizione alla riforma approvata fosse durissima era stranoto, e che si cercasse ogni mezzo per stroncarla era altrettanto sotto gli occhi di tutti. Ma tra le mille battaglie portate avanti dagli oppositori – che non sono solo repubblicani – il vizio procedurale è un fatto nuovo e a quanto pare efficace. Con obiettivi politici molto chiari, anche se l’oltranzismo può portare in sé anche un rischio effetto boomerang.
La legge firmata martedì scorso dal presidente Obama, dovrà tornare alla Camera dei rappresentanti per un nuovo voto su una serie di emendamenti a causa di un vizio procedurale. I falchi sono riusciti a dimostrare che due delle norme del progetto violano le regole di budget. È ufficiale, lo ha annunciato il portavoce democratico del Senato: «i repubblicani hanno trovato due disposizioni relativamente mi-
La svolta di Obama torna alla Camera La legge sulla riforma sanitaria di nuovo al voto per irregolarità di Osvaldo Baldacci
menica scorsa il testo approvato dal Senato, a condizione di accompagnarlo da un pacchetto di emendamenti che apportino le modifiche auspicate dai deputati. Mercoledì il Senato ha avviato il dibattito sugli emendamenti chiesti dalla Camera al momento di avviare i negoziati prima dell’adozione del te-
Sono due gli emendamenti della discordia ”scovati” dai repubblicani che i democrats hanno già stralciato dal testo nori che costituiscono delle irregolarità nella procedura del Senato e dobbiamo rinviare il testo davanti alla Camera dei rappresentanti», ha spiegato Jim Manley, portavoce del leader della maggioranza al Senato, Harry Reid. Il Senato e la Camera Usa adottano regolarmente versioni diverse di una stessa legge prima di negoziare un testo congiunto sul quale le due assemblee si pronunciano una nuova volta. Nel caso della riforma sulla Sanità Usa, la Camera dei rappresentanti ha adottato do-
sto. Senza fornire dettagli specifici, Manly ha raccontato che le irregolarità sollevate dai repubblicani sono in relazione a tematiche pertinenti l’istruzione superiore. «Sono fiducioso che la Camera dei rappresentanti potrà risolvere i problemi e varare la legge», ha aggiunto.
Un po’ più esplicito è il New York Times. Per il quotidiano «le irregolarità riguardano quegli emendamenti che regolano la concessione delle borse di studio agli studenti con basso reddito, e
Avviate azioni legali nei tribunali federali
L’offensiva dei 13 Stati Non si sono fatti commuovere dalla dedica del presidente Obama a sua madre, «che ha dovuto lottare con le compagnie assicurative persino mentre combatteva contro il cancro nei suoi ultimi giorni di vita». L’opposizione dei repubblicani e dei tea party alla riforma è durissima. E non è sostenuta solo dalle lobbies, ma anche da una vasta fascia della middle class, quella che finora si è pagata l’assicurazione sanitaria e ora vede vicini di casa magari un po’più ricchi di loro che ottengono la copertura senza sforzo. Per questo anche alcuni democratici sono rimasti contrari, mentre altri si mostrano comunque titubanti. E non sono solo vizi procedurali a mettersi di traverso. I procuratori generali di 13 Stati americani hanno avviato un procedimento legale
affinché il governo federale blocchi la riforma in quanto anti-costituzionale: il procuratore generale della Florida Bill McCollum (nella foto) guida la protesta che vede schierati anche South Carolina, Nebraska, Texas, Michigan, Utah, Pennsylvania, Alabama, South Dakota, Louisiana, Idaho, Washington e Colorado.Tutti i procuratori generali, tranne uno, sono repubblicani. Molti esperti sostengono che questa azione è destinata a fallire in quanto la Costituzione americana stabilisce che le leggi federali soppiantano le leggi dei singoli Stati. Ma l’obiettivo del vasto movimento di opposizione è politico, e mira a tenere in piedi il dibattito e la controversia sulla costituzionalità almeno fino alle elezioni di mid(O.Ba.) term, a novembre.
che non possono essere approvati con il procedimento della reconciliatio adottato dall’amministrazione per evitare ostruzionismi parlamentari in Senato. Un elemento che viola la norma secondo cui le leggi approvate con il processo di riconciliazione devono contenere solamente spese o introiti a livello federale». Il processo legislativo noto come “riconciliazione” richiede solo la maggioranza semplice - 51 voti invece di 60 - ed è uno strumento scelto dalle colombe proprio per evitare che i repubblicani bloccassero il passaggio della riforma stessa, ma con insito il rischio di un nuovo passaggio alla Camera, come appunto avverrà. Oltre alle borse di studio, il secondo emendamento della discordia è del senatore repubblicano David Vitter, che è riuscito a introdurre un’altra modifica al testo iniziale secondo il quale «la concessione dell’esenzione alle tasse federali sul carburante per le unità mobili di mammografia fa saltare il complesso ingranaggio legislativo».
Una battuta d’arresto dunque per i democratici, dopo la fatica fatta domenica scorsa per arrivare a un voto positivo, quando alla fine l’hanno spuntata con 219 voti a favore e 212 contrari. Un risultato ben lontano dagli auspici bipartisan che hanno accompagnato Obama lungo questo primo anno di presidenza e di negoziati in favore della riforma. Infatti dopo mesi di difficili negoziati un nutrito pacchetto di deputati democratici ha comunque votato contro la legge del suo presidente, e nessun repubblicano a favore. Cosa accadrà ora è tutto da vedere. La nuova approvazione alla Camera potrebbe anche non essere così scontata, data la fatica fatta per trovare un ritroso e risicato consenso. Ma è verosimile che nonostante le pressioni di una parte dell’elettorato nessun deputato cambi il suo voto a così breve distanza di tempo. Resta allora da capire se l’opinione pubblica punterà le sue critiche sulla brutta figura dei democratici e sulla scena della firma di Obama quando ancora non aveva la pelle dell’orso, oppure riterrà ostinazione pregiudiziale inutile l’accanimento dei repubblicani. I quali comunque sperano in un altro effetto positivo: quanto più tardi la riforma entrerà in vigore, tanto più tardi verranno percepiti gli eventuali benefici. E le elezioni sono tra pochi mesi, a novembre.
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La firma forse a Praga l’8 aprile, ma la battaglia non è vinta
Fao:«Ma a livello mondiale la deforestazione è diminuita»
Accordo Start: oggi il sì di Obama e Medvedev?
In dieci anni persa un’area boschiva come il Costa Rica
GINEVRA. Il nuovo accordo
ROMA. La deforestazione diminuisce a livello globale, ma rimane allarmante in molti paesi secondo il nuovo nuovo rapporto Valutazione delle Risorse Forestali Mondiali 2010 presentato dalla Fao. A livello globale la deforestazione, causata prevalentemente dalla conversione delle foreste tropicali in terra agricola, negli ultimi dieci anni è diminuita, tuttavia in molti paesi continua ad una tasso allarmante, dice il rapporto. A livello mondiale, nel decennio 2000-2010, ogni anno circa 13 milioni di ettari di foreste sono stati convertiti ad altro uso, o sono andati perduti per cause naturali, rispetto ai circa 16 milioni di ettari l’anno perduti nel decennio precedente.
Start fra Stati Uniti e Russia è pronto per la firma, che dovrebbe avvenire a Praga il prossimo otto aprile. Il via libera al testo lo daranno i presidenti dei due Paesi, Barack Obama e Dmitry Medvedev, nel corso di una telefonata prevista per oggi. Ma la battaglia non è conclusa. Nel testo del trattato negoziato a Ginevra non sono stati inseriti limiti ai piani di difesa anti missile degli Stati Uniti in Europa, ma nel preambolo si riconosce, come aveva fortemente chiesto la Russia, la relazione fra armi offensive e armi difensive in modo, tuttavia, non vincolante. Ed è su questo che potrebbe giocarsi la ratifica dell’accordo negli Stati Uniti: il Washington Post rende noto inoltre che potrebbero essere necessari altri mesi prima che il Senato possa discutere il testo perché i negoziatori dei due Paesi devono ancora completare gli annessi tecnici all’accordo che, come aveva anticipato il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, è un testo di venti pagine accompagnato da numerosi documenti aggiuntivi.
Ad anticipare problemi nella fase di ratifica erano stati il leader della minoranza repubblicana, Mitch McConnell, e John Kyl, un altro esponente del Gop
Iraq: «Ritardare i risultati elettorali» Il ministro degli Interni teme gli scontri di piazza di Pierre Chiartano
BAGHDAD. È un testa a testa nei risultati elettorali iracheni del 7 marzo. Le due coalizioni sarebbero distanziate da una manciata di voti. Infatti il ministro degli Interni iracheno, Jawad al Bolani, ha chiesto alla Commissione Elettorale Indipendente di ritardare la diffusione dei dati definitivi delle elezioni politiche svoltesi, prevista per oggi. Al Bolani ha giustificato la richiesta con motivi di sicurezza e di ordine pubblico: le tensioni fra i vari schieramenti potrebbero riflettersi in disordini fra i militanti dei diversi partiti, considerando anche che il venerdì rappresenta la festività settimanale nel mondo islamico. La stessa Commissione aveva reso noto ieri che a scrutinio completato i due principali partiti in lizza, l’Alleanza per uno Stato di Diritto (Aed, sciita) e il Blocco Iracheno (laico, sciita ma che comprende personalità sunnite), erano separati da uno o due seggi; prima dell’annuncio ufficiale dei risultati tuttavia la Commissione dovrà tuttavia esaminare le decine di ricorsi ancora pendenti. Parliamo in base agli ultimi dati ufficiali, che riguardano il 95 per cento dei voti scrutinati, il Bi si profila come il primo partito, con circa 8mila voti di vantaggio sull’Aed di Al Maliki; tuttavia quest’ultimo è in testa in sette delle diciotto provincie del Paese, contro le cinque conquistate dal Bi. Ad essere più importante ai fini del risultato finale è al distribuzione delle province, base per l’assegnazione dei deputati, ma i risultati mostrano come Allawi nutra un forte seguito nel Paese e rendono più difficile per Al Maliki rivendicare il rinnovo dell’incarico. In particolare, l’Aed si sarebbe assicurata il vantaggio nella circoscrizione di Baghdad, la principale del Paese con i suoi 70 deputati sui 325 in palio; Al Maliki può contare sul fatto di essere in vantaggio anche a Bassora, terza circoscrizione del Paese con 24 deputati, mentre nelle tre provincie autonome del Kurdistan iracheno è netto il vantaggio di Kurdistania, la coalizione fra i due partiti storici curdi (Upk e Pdk), sulla nuova formazione del Gorren. Poi c’è Kirkuk che rappresenta una novità rispetto al 2005: la provincia viene considerata una
bomba a orologeria data l’importanza petrolifera della zona, ”arabizzata”per questo da Saddam e oggetto ora di un ritorno massiccio della popolazione curda, che la considera parte della propria regione autonoma: qualunque sia l’esito delle elezioni, non appare probabile che quelle delle varie comunità - arabe sciite e sunnite, curde e turcomanne - che risultino sconfitte accettino il verdetto delle urne senza proteste.
La formazione del nuovo governo potrebbe rivelarsi un processo di mesi - dopo le scorse elezioni ne dovettero passare sei - nonostante la legislatura termini il 16 marzo e da allora l’esecutivo uscente non potrà che dedicarsi al disbrigo degli affari correnti. In base alla Costituzione irachena il Presidente della Repubblica incarica il leader del partito di maggioranza, che ha 30 giorni di tempo per formare un esecutivo; in caso di fallimento l’incarico passa ad un altro deputato, che ha due settimane a disposizione per presentare un’alternativa. In attesa di conoscere l’esito definitivo, sono iniziate le grandi manovre per il varo di una coalizione, dato che nessun partito ha conquistato la maggioranza assoluta: il premier iracheno uscente e leader dell’Aed, Nouri al Maliki, ha incontrato il presidente Jalal Talabani; i due politici hanno espresso la volontà di continuare le trattative. Nei giorni scorsi anche Talabani aveva appoggiato la richiesta di Al Maliki di un riconteggio, nonostante lo scrutinio non fosse ancora stato completato, giustificandola con la necessità di «escludere ogni dubbio» sull’esito delle consultazioni. Secca la replica del Blocco Iracheno dell’ex premier Ayad Allawi: né il Presidente né il Primo ministro hanno l’autorità di ordinare un riconteggio, ipotesi peraltro esclusa ieri dalla stessa Commissione elettorale indipendente. Al Maliki ha anche incontrato i rappresentanti dell’Alleanza nazionale irachena, principale partito confessionale sciita, in particolare due delegati del movimento radicale di Moktada Al Sadr, fin qui contrario ad una riconferma del mandato al premier uscente.
Il Blocco iracheno di Allawi si profila come il primo partito, con circa 8mila voti di vantaggio sull’Aed di Al Maliki
al Senato, in una lettera indirizzata la settimana scorsa a Obama. «La difesa anti missile non è in discussione», hanno scritto i due sottolineando che la ratifica sarà «altamente improbabile» in caso contrario (per l’entrata in vigore del trattato è necessario, oltre che il via libera anche un voto a maggioranza qualificata al Senato Usa equivalente ad almeno 67 voti favorevoli). L’accordo prevede la riduzione del tetto delle testate montate su vettori a lungo raggio dispiegati da 2.200 a 1.550 entro sette anni dalla firma. I missili dovrebbero essere ridotti della metà, da 1.600 a 800. In ogni caso i tempi per la ratifica saranno lunghi: nel 1991 furono necessari 430 giorni di lavori.
Questi sono alcuni dei risultati a cui è giunto il rapporto Fao “Valutazione delle Risorse Forestali Mondiali 2010”, lo studio (che copre 233 paesi e territori) più attendibile ed esaustivo sinora disponibile sulle risorse forestali del pianeta.
Il Brasile e l’Indonesia, che negli anni ’90 registravano la più alta perdita netta di foreste, hanno ridotto in modo significativo i loro tassi di deforestazione. Inoltre, grazie agli ambiziosi programmi di riforestazione della Cina, dell’India, degli Stati Uniti e del Vietnam - insieme con l’espansione naturale delle foreste in alcune regioni - ogni anno si sono aggiunti oltre sette milioni di ettari di nuove foreste. Di conseguenza la perdita netta di area forestale tra il 2000 ed il 2010 si è ridotta di 5,2 milioni di ettari l’anno, rispetto agli 8,3 milioni di ettari degli anni ’90. La superficie forestale totale nel mondo copre poco più di quattro miliardi di ettari, vale a dire il 31 per cento del totale della superficie terrestre. La perdita netta annuale di foreste (quando la somma di tutte le nuove aree forestali guadagnate è minore delle perdite) negli anni 2000-2010 è stata equivalente ad un’area grande quanto la Costarica.
cultura
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Celebrazioni. Dal 10 aprile al 23 maggio al Duomo di Torino l’Ostensione della Sacra Sindone
Sulle tracce di Cristo Il sudario, la Croce, i chiodi: guida ragionata alle reliquie della tradizione di Osvaldo Baldacci ella bella cornice del Museo Diocesano di Castellammare di Stabia, domani alle dieci verrà presentata ai fedeli l’Ostensione della Sacra Sindone. A illustrare l’esposizione del sacro lenzuolo che secondo tradizione accolse il corpo del Cristo, in mostra al Duomo di Torino dal prossimo dieci aprile al ventitrè maggio, una conferenza organizzata dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Mons. Raffaele Pellecchia” e dall’Opera Diocesana Pellegrinaggi intitolata La sindona, testimone di una presenza.
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ropa, in Italia e specialmente a Roma. Nella capitale una bella passeggiata a Santa Croce in Gerusalemme (chiodo di Gesù, iscrizione della croce, pezzi della Croce), alla Scala Santa (quella del Pretorio, in cima alla quale si conserva un tradizionale tesoro di reliquie), a San Giovanni in Laterano (la tavola dell’Ultima Cena), a San Pietro (la Veronica, la lancia di Longino), a Santa Prassede (la
e degne di onore (ma non di adorazione) in quanto testimonianza di vite di fede, in relazione ai santi e tanto più ovviamente quando riportano direttamente a Gesù. La Chiesa in linea di massima segue una linea prudente, esponendo le reliquie, confermandone in rarissimi casi l’autenticità, e perlopiù riferendosi a esse con la formula “come piamente si crede”, intendendo così che le reli-
della Chiesa, e all’inizio anche dell’impero, cioè Roma. A questo si aggiunga che quando l’oriente è caduto sotto il dominio musulmano, alla forza centripeta di Roma si sovrappose quella centrifuga che portava i cristiani a fuggire dal Medio Oriente e a mettere al riparo quanto avevano di più prezioso. Due successivi momenti “eliminarono”poi la concorrenza dell’altra capitale imperiale,
(Egeria) parlano del culto di queste reliquie prima di tutto a Gerusalemme e poi a Roma e Costantinopoli. Le storie sulle imprese cristiane di Elena e di Costantino sono cambiate nel tempo e hanno via via accresciuto il loro aspetto favoloso, ma il nocciolo è autentico. Restano molti gli aspetti da chiarire. È anche il caso delle reliquie più coerenti dal punto di vista storico, quelle appunto conser-
colonna della fustigazione), forse a san Lorenzo (dove un signore ipotizza si trovi il calice dell’Ultima Cena). Chiodi e spine sono sparsi in moltissime chiese, mentre la corona sarebbe a Notre Dame, un chiodo a Milano, il Sacro Caliz a Valencia, la Sindone a Torino, un Sudario a Oviedo. Nei centri della cristianità occidentale sono infatti raccolte miriadi di reliquie che riconducono a quei giorni.
quie, alcune, possano comunque aiutare i fedeli, senza compromissioni scientifiche e storiche. È classica l’argomentazione che non sono le reliquie a provocare eventuali benefici o miracoli, ma la fede dei fedeli che vi si accostano. C’è poi da aggiungere che se da una parte è evidente che alcune reliquie tradizionali – ormai meno famose - sono inverosimili, per altre esistono dei percorsi storici che hanno una qualche credibilità. Bisogna infatti ricordare che non solo è possibile che le primissime comunità cristiane potessero conservare con venerazione alcuni oggetti così come la memoria dei fatti e dei luoghi (la fede cristiana ha sempre avuto come punto centrale l’incarnazione, quindi la presenza storica, fisica, materiale), ma è anche ragionevole che queste reliquie seguissero poi itinerari che le portavano verso i centri più importanti
Costantinopoli: prima conquistata e saccheggiata dai crociati latini nel 1204, poi definitivamente soggiogata dai turchi nel 1453. Tutto spingeva verso Roma le reliquie. E qui infatti le troviamo.
vate a Santa Croce in Gerusalemme a Roma, riconducibili direttamente a Sant’Elena e per le quali Gregorio Magno già nel sesto secolo fissa la stazione delle cerimonie papali del venerdì santo in Hierusalem: 3 frammenti di legno della Vera Croce, parte dell’iscrizione di condanna di Gesù, uno dei chiodi, parte della croce del buon ladrone. Sono sempre esposti ai pellegrini, e hanno un discreto supporto storico. Di recente ad esempio diversi studi (alcuni condotti da israeliani) hanno confermato l’autenticità del Titulus, cioè la famosa iscrizione trilingue (“INRI”, Gesù nazareno re dei giudei) fatta porre da Pilato sopra la testa di Gesù crocifisso. La tavola di noce risalirebbe al primo secolo, i caratteri paleografici sarebbero corretti, e la conservazione della scritta avrebbe un senso. Altri studi però datano la tavola all’XI secolo, sebbene
L’occasione ricorda che la Pasqua è ormai imminente e pochi ricordano che è possibile ripercorrerla visitando oggetti che secondo la tradizione risalgono direttamente ai giorni della Passione, morte e resurrezione di Gesù. La Sindone, appunto. Ma anche la vera Croce, gli strumenti della Passione, la Scala Santa, memorie dell’Ultima Cena. E anche il Graal. Un itinerario sulle “orme di Cristo”, fatto lì dove per la verità Cristo non ha mai camminato. Nel senso che per chi non ha la fortuna di poter andare nei prossimi giorni a Gerusalemme, esiste un’alternativa molto più vicina, in Eu-
In proposito c’è da fare una premessa di chiarezza. Per la Chiesa cattolica le reliquie non sono oggetto di fede né fonte di salvezza. Sono un aiuto in quanto appiglio concreto per la devozione, e sono preziose
L’epicentro di questa storia è nella zona di San Giovanni in Laterano tra la tarda antichità e l’alto medioevo. In realtà le storie si sovrappongono e sono anche in contrasto fra loro, oltre al fatto che alcune storie pur riferite alle epoche più antiche si affermano invece tardi. Il fulcro comunque è Costantino e soprattutto sua madre Elena. Che l’imperatrice si sia recata in Palestina e ne abbia riportato reliquie preziose è un fatto praticamente certo in quanto testimoniato già da autorevoli contemporanei del IV secolo (Eusebio, Ambrogio, Cirillo…), lo stesso periodo in cui i primi racconti di pellegrini
cultura
molti studiosi propendano per l’autenticità o per la riproduzione esatta della tavola autentica. Ciononostante ci sono anche tradizioni contrarie, come quelle che indicano queste reliquie a Costantinopoli o a Gerusalemme quando invece dovevano già essere nel palazzo romano di sant’Elena.
Per quanto riguarda la Croce, poi, di tradizioni ce ne sono
molto inferiore al volume della Croce. I frammenti conservati a Costantinopoli vennero saccheggiati dai crociati nel 1204, e sparsi per l’Europa Occidentale. La croce che era conservata a Gerusalemme (e per la quale è testimoniata fin dal IV secolo la festa dell’Esaltazione della Croce il 14 settembre) invece ha avuto una storia travagliata e al momento risulta dispersa da secoli: nel 614 il persiano Cosroe II portò via la Croce come trofeo quando prese Gerusalemme, nel 628, l’imperatore d’Oriente Eraclio recuperò la Croce, che portò prima a Costantinopoli e poi di nuovo a Gerusalemme; nel 1009 i cristiani la nascosero quando il sultano al-Hakim fece distruggere i luoghi santi, poi venne recuperata dai crociati nel 1099 - senza controversie sull’autenticità - e infine portata con loro nella sconfitta di Hattin nel 1187, dopo la quale se ne perdono le tracce. A Roma ci sono stati diversi frammenti della Croce “verosi-
quella che è stata bagnata dal sangue di Gesù, portata sempre da Sant’Elena. E inoltre vi si conservano due spine della Corona. Di queste ce ne sono molte in tantissime chiese d’Europa, però c’è anche una tradizione abbastanza univoca sulla sua storia (ammesso che tale oggetto fosse conservabile): la “vera” Corona di spine sarebbe infatti a Notre Dame, dove venne trasferita dalla Sainte Chapelle fatta appositamente costruire da re Luigi IX, che a sua volta l’aveva avuta dall’imperatore di Costantinopoli che l’aveva prelevata dalla Basilica di Sion dove era stata venerata per secoli. Da questa corona sarebbero state prelevate spine da donare ad altre chiese. Per restare a Roma, proprio a causa del suo tesoro di reliquie era chiamato Sancta Sanctorum la cappella dei Papi nel Palazzo Laterano. La tradizione dice che la Scala Santa è quella percorsa da Gesù in occasione del processo di Pilato, e ci sarebbero ancora tracce del suo sangue
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menti della colonna della flagellazione, i sandali di Gesù molto venerati nel Medio Evo. Tra la cappella di San Lorenzo in Palatio e San Giovanni in Laterano ci sarebbero invece resti dell’Ultima Cena, cioè la tavola su cui mangiarono e/o la tavola/sgabello su cui era seduto Gesù quando lavò i piedi agli apostoli il Giovedì Santo, la tovaglia e gli asciugamani.
Un’altra chiesa romana meritevole di una visita è Santa Prassede, che vanta la colonna della flagellazione, prelevata dal tribunale romano di Gerusalemme. Mentre un’altra reliquia di fama è la lancia con cui il soldato romano Longino trafisse il costato di Gesù in Croce. Sono diverse le lance che rivendicano di essere questa reliquia. Celebre è la Lancia Sacra del tesoro imperiale di Vienna, che conterrebbe anche un chiodo della Croce. Ci sono poi altre due reliquie che sono a diverso titolo tra le più discusse. La prima è la Sindone,
Qui accanto, la Sacra Sindone che sarà esposta presso il Duomo di Torino dal dieci aprile al ventitré maggio: secondo la tradizione sarebbe il sudario che ha ospitato il corpo di Cristo in seguito alla deposizione. In alto, l’impronta del viso lasciata sul tessuto
Per la Chiesa molte delle spoglie non sono oggetto di fede né fonte di salvezza, ma un appiglio per i devoti diverse. Giustificabili con l’idea che la stessa Elena l’avrebbe divisa in più parti, cosa che ne spiegherebbe la contemporanea presenza a Roma, Gerusalemme e Costantinopoli, per non citare i numerosi frammenti sparsi in molte chiese.Tanti da essere diventati leggendari e da essere oggetto dell’ironia dei protestanti, anche se poi uno studio moderno ha dimostrato che la somma dei frammenti attualmente conservati è pari a un cubo di circa 16 cm di lato, di
mili” (in fondo stiamo parlando di una tradizione legata a Papi e imperatori): a Santa Croce, nel Sancta Sanctorum della Scala Santa, in San Pietro, ma anche a S. Maria in Trastevere, S. Sabina, S. Maria del Popolo, S. Paolo. Frammenti grandi e famosi sono anche a Notre Dame de Paris, nel Duomo di Pisa, a Santa Maria del Fiore, nel Duomo di Limburgo (Germania), a Liébana (Spagna).
Per quanto riguarda i chiodi, ha destato scalpore il recente ritrovamento di un possibile candidato in una tomba templare su un’isola del Portogallo. Ne sono attestati una trentina in tutta Europa, di cui i più illustri in Italia: un paio a Roma, primo fra tutti quello di Santa Croce, uno a Milano, uno nella Corona Ferrea di Monza, ma anche a Venezia. A Santa Croce la terra della Cappella sarebbe
sui gradini 2, 11 e 28 dal basso. Da secoli i fedeli salgono in ginocchio i 28 gradini di questo monumento, la cui veridicità è controversa. Per altro a Gerusalemme c’è un’altra scala che rivendica di essere quella del pretorio, mentre nei Vangeli durante il processo di Gesù da Pilato di scale non si parla. Oggi la Scala Santa conduce al Sancta Sanctorum che vanta forse 1500 anni di storia come deposito di reliquie: il luogo più santo del mondo, dicevano i Papi. Una ricognizione scientifica del 1905 dopo che niente era più stato aperto dal 1518 ha confermato la preziosità del tesoro, anche se le voci popolari sulle reliquie erano cresciute fino a comprendere cose fantastiche. Giusto per un riepilogo tra le reliquie la cui presenza è attestata ci sono diversi frammenti della Croce di Cristo, terra e pietre dai luoghi santi (Gerusalemme e Betlemme), fram-
che sarebbe il sudario in cui fu avvolto il corpo di Gesù. Analisi e teorie si susseguono, ma il suo mistero rimane abbastanza irrisolto. Conservata a Torino, sarà esposta ai fedeli dal 10 aprile al 23 maggio. Non è oggetto di fede, ma viene tenuta in grande considerazione per confrontare le corrispondenze con il racconto della Passione come descritto dai Vangeli. Tra i temi spinosi la radiazione al radiocarbonio che diede un’età medievale, ma anche nuove ricerche che d’altro canto rafforzano la verosimiglianza della reliquia. Per altro di teli legati alla Passione di Gesù ce ne sono anche altri. A San Pietro ne è conservato uno che sarebbe la celebre Veronica,
nel medioevo più venerato persino dei resti dell’apostolo. Ci sono poi il Sudario di Oviedo, un’immagine conservata a Vienna, una ad Alicante, una a Jaén, una presso la chiesa di san Bartolomeo degli Armeni a Genova, e il Volto Santo di Manoppello (PE), e il Sacro Volto di Manoppello.
Infine c’è il Graal, la reliquia che più di tutte è stata fraintesa. La tradizione si riferisce alla coppa dell’Ultima Cena, dove forse fu anche raccolto un po’ del sangue di Gesù in croce. E la parola Graal viene dal latino medievale: gradalis. Anch’esso secondo alcuni potrebbe trovarsi proprio a Roma. Alfredo Barbagallo di recente ha sostenuto – senza troppi sensazionalismi fanta-complottisti – che molte tracce portano alla basilica di san Lorenzo Fuori le Mura. In effetti antichi racconti legano San Lorenzo a quella coppa. E da questo parte anche la storia più documentata ed accreditata, quella che attraverso i parenti spagnoli di san Lorenzo e la resistenza cristiana contro i mori finisce per collocare il Sacro Caliz a Valencia, dove è tutt’ora venerato, visitato anche dal Papa. Si aggiunga che proprio dalla Spagna si originarono le leggende cavalleresche del Graal che si diffusero poi in Francia e Inghilterra e che tanto hanno contribuito da un lato alla fama di questa reliquia, dall’altra al suo fraintendimento. Un diverso tipo di cammino tra gli strumenti della Passione si può poi fare sempre a Roma passeggiando sul Ponte Sant’Angelo, decorato con le statue del Bernini di angeli che appunto portano quegli oggetti. Due degli angeli più belli sono stati collocati nella chiesa di sant’Andrea delle Fratte.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Quoziente familiare: una priorità per invertire il calo di nascite I dati diffusi dall’Istat indicano azioni chiare: l’Italia continua a fare pochi figli e le donne tendono a ritardare sempre di più il momento della maternità. Credo che sia giunto il momento di affrontare con decisione questo problema, ponendo in atto le basi di una vera e propria politica demografica. Purtroppo l’attuale crisi economica ha rallentato il percorso verso l’introduzione del quoziente familiare. Esso, tuttavia, rimane prioritario se vogliamo invertire il trend, così negativo, che in tema di natalità vede l’Italia agli ultimi posti in Europa. Un trend parzialmente corretto dall’apporto delle donne immigrate, come certifica l’Istat, ma che continua a scontare decenni di sostanziale indifferenza nei confronti della maternità, relegata ad evento privato della singola famiglia e mai considerata nel suo valore pubblico e sociale. L’esempio francese, in questo senso, ha dimostrato chiaramente che le famiglie sono pronte a fare più figli se opportunamente sostenute e incentivate dallo Stato. E un tasso più elevato di nascite costituisce la garanzia più solida per la competitività, la sostenibilità economica, la coesione sociale e la solidarietà fra le generazioni.
Barbara
L’ULTIMO DEI PENSIERI Sapere quando si voterà a Bologna è l’ultimo dei miei pensieri, dal momento che il commissario, dottoressa Cancellieri, amministra la città con esperienza ed equilibrio. Avrei giustificato un’anticipazione del voto se da parte dell’opposizione si fosse manifestato un atteggiamento (almeno) di moderata ostilità nella vicenda della lista Pdl per il collegio provinciale di Roma. Ci hanno accusati invece, in piazza del Popolo, di violentare le regole e la democrazia. A mio avviso, non vi è una sostanziale differenza tra il decreto salva-liste del governo ed un eventuale provvedimento che consentisse di votare a Bologna in autunno. Se Delbono si fosse dimesso nei termini indicati dalle norme vigenti, si sarebbe votato in città insieme alle regionali. Continuo quindi a non capire perché il decreto sia
Pigrizia congenita
giudicato una misura degna di una dittatura, mentre il progetto di legge di Gianluca Galletti garantirebbe il ripristino della democrazia.
È tempo di “pennichella” in questa vera e propria piscina di ippopotami in Tanzania. E non sembra che i singoli animali siano troppo disturbati dalla presenza ingombrante dei loro simili. La pigrizia, prima di tutto
G. C.
COMUNALI BOLOGNA: VOTO AD OTTOBRE Il commissario al comune di Bologna, Annamaria Cancellieri, sta lavorando bene ma andare al voto ad ottobre, come indicato dal premier, è la soluzione migliore per salvaguardare la democrazia ed evitare alla città un governo provvisorio di durata eccessiva. Certo ora la decisione spetta solo al ministro dell’Interno Maroni, ma è proprio sulla base delle affermazioni di Berlusconi per il voto ad ottobre, che vorrei sottoscrivere anche io la proposta di legge di Galletti per far votare i bolognesi il prima possibile perché non può esservi nessuna contrapposizione partitica o poli-
tica se c’è una volontà comune di restituire alla città un organo di governo democraticamente eletto dai suoi cittadini.
Francesco Comellini
OBAMA, UN RIFORMISTA VERO Obama è un riformista nei fatti, non a chiacchiere. La sua riforma sanitaria era probabilmente l’unica possibile nel contesto economico e politico degli Stati Uniti. È stata fortemente voluta per anni dai democratici, a cominciare da Hillary Clinton, ed è stata condotta in porto nonostan-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
te le enormi resistenze e il prezzo politico che ha già cominciato a pagare. Certamente nessun europeo farebbe mai a cambio con il sistema sanitario americano, neppure con questo appena riformato, ma il presidente doveva scegliere tra il conservare un meccanismo profondamente ingiusto e classista o inseguire un modello ideale di sanità pubblica. Da riformista ha scelto il cambiamento possibile e graduale. Una grande lezione per la politica italiana di destra e di sinistra.
Pia
da ”The Australian” 25/03/10
Rio Tinto, ecco il sequel ’affaire Rio Tinto, la guerra dell’alluminio tra Cina e Australia, sembra essere giunta a una svolta. Almeno per ciò che riguarda le conseguenze giudiziarie. È arrivata la notizia da fonti ufficiali del dipartimento degli Affari esteri di Camberra che la prima corte di Giustizia di Shangai ha informato il consolato generale australiano che il verdetto sul processo a Stern Hu, responsabile della Rio Tinto in Cina, sarà emesso lunedì prossimo. Si tratta una faccenda che ha infiammato lo scorso anno i rapporti diplomatici tra Pechino e Camberra. La Rio TInto è proprietaria di una delle maggiori miniere d’alluminio al mondo e la sempre più affamata industria cinese ne voleva un pezzo. Per essere sicura di sfamare gli altiforni dell’industria automobilistica in ripresa dall’estate passata. Aveva proposto di acquistare un pacchetto d’azioni considerevole, ma il governo australiano aveva posto il veto vista anche la vicinanza delle miniare a un luogo strategico per la difesa del continente: la base di Woomera.
L
Una storia che è una via di mezzo tra una guerra economica – in ballo anche il costo sul mercato dell’alluminio che Pechino vorrebbe a prezzi scontati – e una spy story in piena regola. Ora, dopo numerose schermaglie diplomatiche che avevano portato all’arresto di Stern Hu, responsabile in Cina di Rio Tinto la polizia, all’inizio di quest’anno, aveva passato l’incartamento alla procura generale, «dopo cinque mesi di investigazioni, su quattro persone sospette compreso Hu» per l’eventuale istruzione del processo ed è «stato avvisato il consolato generale australiano di Shangai» si poteva leggere sul China Daily. Infatti era la procura di Shangai a dover decidere se
il semplice procedimento giudiziario si sarebbe trasformerato in un processo. E possiamo solo immaginare come in questa fase si “combatta” una guerra sotterranea tra la Cina e la terra dei canguri. La portavoce del consolato australiano avevaa suo tempo dichiarato in proposito «non siamo in grado di stabilire quanto tempo durerà questa fase istruttoria e non siamo in grado neanche di prevederne l’esito». La durata della fase investigativa è durata tre mesi in più della norma e un fatto che ne sottolinea l’estrema delicatezza.
Hu che è il responsabile della sede cinese della Rio Tinto è in carcere dal luglio 2009 assieme ad altri tre colleghi di nazionalità cinese. L’accusa? Aver sottratto segreti di Stato. Dopo un mese dalla contestazione di aver rubato segreti commerciali per Hu e di aver pagato delle tangenti, l’arresto da parte della polizia municipale di Shangai. Ricordiamo che proprio in quel periodo aera in corso la vicenda delle miniere australiane con la proposta d’acquisto da parte di una società cinese Chinalco. Un’azienda di Stato leader nella produzione d’alluminio che aveva l’obiettivo di acquisire il 18 per cento del pacchetto azionario di Rio Tinto. I soldi in ballo erano tanti. La Chinalco che già deteneva il 9 per cento della società australiana, aveva da poco sottoscritto un aumento di capitale per 15,2 miliardi di dollari.
Quindi con grandi aspettative che la successiva offerta potesse esser accolta. Poi l’amara sconfitta. «Jing Yunchuang capo dello studio legale Gaotong di Pechino ha affermato che allo stato delle cose la fase successiva sarà quella processuale». Hu rischia una condanna al massimo «per sette anni» afferma il legale e la società australiana a rifondere i danni. «Gli esperti affermano che il caso non dovrebbe incidere sui rapporti tra Cina e Australia» recita il quotidiano cinese, ma dietro l’apparente neutralità della formula possiamo immaginare una realtà molto vicina al ricatto.
Il governo australiano ha già annunciato che interverrà per fare delle considerazioni ufficiali sulla sentenza del tribunale cinese. Ricordiamo che una delle principali accuse contro Hu, quella di aver rubato segreti industriali è già caduta. Rimarrebbe in piedi quella per corruzione.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Se la patria richiederà la mia morte, sarà per te l’ultimo respiro Caro, piccolo tesoro mio... sono di nuovo chiamato a dirti addio per un breve periodo. Domattina due divisioni del nostro Corpo d’Armata, la I e la II, si metteranno in marcia per una nuova missione. Staremo via per due o forse tre settimane. Ti scriverò alla prima occasione. Continua a essere forte e ricorda i successi passati. Dio e la fortuna finora ci hanno assistito. Perché non continuare a sperare nella Sua benedizione? Con il pensiero della mia adorata e la santa ispirazione di una causa giusta e nobile, con animo lieto e ben disposto mi metto in cammino per compiere il mio dovere per il mio Paese. Non occorre che ripeta al mio tesoro che, finché vivrò, lei per me è tutto. E se il Destino vorrà farmi morire, morire perché la patria lo richiede, la mia ultima preghiera sarà per te, pronuncerò il tuo nome nel mio ultimo respiro, e il Cielo non sarà Cielo finché non ci saremo riuniti. Scrivi a Monroe, informali della mia assenza. Per sempre tuo e per l’eternità Il generale George A. Custer alla moglie Elizabeth Custer
LE VERITÀ NASCOSTE
Gb, torna la sifilide: «Colpa di Facebook» LONDRA. I social network avranno senza dubbio cambiato la vita della popolazione mondiale, riscrivendo le leggi della comunicazione. Ma sono riusciti anche a riportare in auge problemi non da poco come la sifilide. Quanto meno in Gran Bretagna, dove secondo il professor Peter Kelly Facebook «ha contribuito alla diffusione della patologia». Kelly, direttore della sanità pubblica nella regione di Teeside, ha affermato che nelle aree in cui il sito sociale è molto popolare «il numero di persone affette da sifilide è quadruplicato, proprio perché il network ha dato alla gente un nuovo modo di incontrare più partner per incontri sessuali occasionali». Il personale sanitario di Teeside avrebbe infatti trovato un legame tra i social network e l’aumento dei casi del virus, soprattutto tra le giovani donne: «C’è stato un aumento di quattro volte nel numero di casi di sifilide rilevati, e a essere colpite sono state soprattutto le donne dai 20 ai 24 anni e gli uomini dai 25 ai 30. Non ho i nomi delle persone colpite, solo le cifre, ma ho visto che molte delle persone affette dal virus hanno incontrato i loro partner attraverso i siti di social network». La sifilide, ha aggiunto, «è una malattia devastante e le piattaforme sociali come Facebook stanno rendendo più facile alle persone trovare partner occasionali con cui fare sesso». Anche se i casi di sifilide in Gran Bretagna sono diminuiti grazie alla diffusione dell’uso del preservativo negli anni Ottanta e Novanta, il virus sta ritornando: lo scorso anno si sarebbero verificati circa 4.000 casi. La malattia può causare gravi problemi al cuore, alle vie respiratorie e danni al sistema nervoso centrale. Un portavoce di Facebook ha chiesto agli utenti di «esercitare prudenza» contro il morbo.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
BANKITALIA: STOP AL MASSIMO SCOPERTO Ho appreso della recente proposta della Banca d’Italia al ministero dell’Economia, al fine di vietare le commissioni di massimo scoperto. Penso che, nonostante le proposte di intervento, la commissione continua ad esistere. Di fatto potrebbe essere un escamotage utilizzato dagli istituti bancari per aggirare la questione. Continuo a criticare duramente l’inerzia della Banca d’Italia. Se la Banca d’Italia continua a volgere lo sguardo altrove, bisognerà avviare azioni legali contro gli istituti bancari che aggirano la normativa vigente.
Alessandra De Giorgi
L’ABOLIZIONE DELLA COMMISSIONE MASSIMO SCOPERTO Bankitalia ha chiesto al ministero dell’Economia di «vietare la commissione di massimo scoperto e permettere la sola commissione per la messa a disposizione dei fondi, omnicompresiva e proporzionale». Tale commissione era già stata abolita, però le banche hanno“interpretato male”le nuove norme ed ecco che Bankitalia applica la politica del riannuncio. La cosa è grave anche perché, dopo l’abolizione di questa commissione il 29 gennaio 2009, le banche, che avevano l’impegno di adeguare tutti i conti già esistenti entro fine giugno 2009, non solo hanno modificato il nome al medesimo balzello, ma lo hanno anche reso più oneroso per il correntista. Faccio una domanda semplice: ma quando c’è già una norma prevista dalla legge e questa norma viene disattesa, l’autorità di controllo non dovrebbe sanzionare i trasgressori? Perché Bankitalia è così indulgente?
Vincenzo Donvito
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
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IL PERCHÉ DI UNA SCELTA Il 28 e 29 marzo prossimi si terranno in Lombardia le elezioni regionali, che porteranno con sé una grande novità rispetto alle ultime tre legislature: l’Udc infatti si presenterà da sola, candidando un proprio esponente alla carica di presidente della regione, Savino Pezzotta. Per chi non segue le vicende politiche questa scelta potrebbe apparire come un controsenso, difatti l’Udc ha condiviso con le forze del centrodestra un percorso di quindici anni, che ha consentito alla regione di migliorare la qualità dei servizi offerti alla popolazione. In realtà la scelta è diventata inevitabile, quando ci si è resi conto che, rispetto alle legislature passate, si stava consumando una discontinuità notevole: non solo in Lombardia, ma in gran parte del Nord Italia, il Pdl stava abdicando dal ruolo, che per il peso elettorale gli spetta, di baricentro della coalizione e consegnava alla Lega il pallino del gioco politico. Sia a livello nazionale che a livello locale, le forze appartenenti alla Costituente di Centro hanno cercato di contenere la deriva leghista, ma purtroppo non c’è stato verso di ristabilire un rapporto corretto con la Lega, che, quando si è resa conto dell’arrendevolezza e della confusione che regna nel Pdl (ben esemplificata dal caos della presentazione delle liste per le elezioni regionali), non ha fatto altro che porre un veto su un’alleanza con l’Udc, per poter essere sicura di non avere contrappesi nei futuri governi delle regioni settentrionali. La domanda che, a questo punto, possiamo porci è questa: i futuri governi delle regioni settentrionali, con un’impronta fortemente leghista, saranno in grado di venire incontro alle esigenze degli abitanti del Nord o piuttosto inseguiranno la demagogia leghista, che non affronta i problemi ma piuttosto cerca facili capri espiatori? Le premesse non sono delle migliori, il ruolo della Costituente di Centro deve diventare sempre più quello di un soggetto politico in grado di costruire un’alternativa rispetto a due opposti estremismi, che puntano più alla soddisfazione dei propri istinti politici, che alla ricerca del bene comune, inteso come bene di tutti e non solo di una parte. Per quanto possa apparire, a prima vista, numericamente marginale, il ruolo di Liberal e delle forze aderenti alla Costituente di Centro è in realtà centrale, in vista di una rinascita della vera politica in Italia: è per questo che ognuno di noi è chiamato a dare il proprio contributo in questa fase di lunga e difficile transizione. Dario Nicolini C O O R D I N A T O R E CI R C O L I LI B E R A L GI O V A N I D E L L A LO M B A R D I A
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ULTIMAPAGINA Dibattiti. Un nuovo saggio di Edoardo Boncinelli sul cervello, sempre diviso tra neuroni ed emozioni
Quando la Scienza perde di Gabriella Mecucci uomo è l’unico essere che dice io e che forse sa pensare l’io. Una macchina molto complessa gli dà questa capacità, una macchina fatta di emozioni, di corpo, di coscienza. È affascinante inerpicarsi in questi arditi sentieri, per definire simili concetti, per capire come interagiscono. Edoardo Boncinelli, genetista, prova a percorrerli usando gli strumenti del suo mestiere,ma non solo,in un libro dal titolo,“Mi ritorno in mente”, Longanesi. Non c’è nulla di più interessante e misterioso della coscienza. Che cosa è davvero? È questo il nodo centrale del volume che nella prima parte descrive la natura e le funzioni del cervello e nell’ultimo capitolo delinea una teoria dell’io.
L’
Boncinelli descrive tre forme di coscienza. La prima è la consapevolezza, la capacità cioè di renderci conto di «dove siamo, di che cosa stiamo facendo e anche di come lo possiamo fare». Qualunque essere umano ha tale caratteristica, e non solo lui. Anche gli animali ce l’hanno. Almeno alcuni: valga per tutti l’esempio del «cane che può avere voglia di andare in una stanza,ma se sa che il suo padrone non vuole,non ci va finchè questo guarda: appena costui non guarda più, quatto quatto vi si dirige». Esiste poi quella che Boncinelli definisce «la coscienza esplicabile e condivisa dalla maggior parte degli esseri umani adulti». Attraverso la parola possiamo affermare di avere coscienza di secondo grado, «una facoltà che non potrebbe probabilmente essere inferita dalla sola osservazione del comportamento». Ogni persona può raccontare molte cose di sè e della sua interiorità. Non può esserci autocoscienza senza consapevolezza,ma può esserci invece consapevolezza senza autocoscienza. L’interazione di queste due coscienze- secondo Boncinelli – ci rende unici, individui. Esiste poi una terza forma di coscienza, quella fenomenica, «privata, intrinsecamente incomunicabile e accessibile soltanto al diretto interessato, cioè io e il mio Sé». Per fare un esempio, un orologio, una foto, una canzone possono avere per me e solo per me un certo significato che gli altri non percepiscono e che è del tutto soggettivo. Ma la nostra mente è un luogo molto affollato: ci sono le emozioni, di cui la più intensa è certamente il dolore, ci sono i sentimenti, ci sono gli affetti. E molto altro. Boncinelli fa un’attenta disamina di tutto ciò che, aggiunto alla definizione di che cosa è la coscienza, lo porta alla definizione di una teoria dell’io che non finisce mai, che come tale è eterno. Una teoria non del tutto convincente e, qua e là, addirittura un po’ labile. Ma vediamo alcuni passaggi del ragionamento. L’autore prima di tutto esclude dell’esistenza di Forze Superiori, di Mezze Divinità, di Divinità Supreme. Afferma: «Essere convinti che ci sono talvolta può aiutare, come può aiutare condividere i miei problemi con esseri umani conversando con loro, ma il sollievo è apparente... Posso passare la giornata a pregare e a divertirmi con gli amici, ma quando viene la sera non posso non sentire il morso della disperazione o l’amarezza del dispiacere». Discutibile il paragone fra la consolazione della fede e quella della compa-
la COSCIENZA La consapevolezza, comunicazione e percezione reale: queste sono le tre dimensioni analizzate dallo studioso. Per il quale il segreto del sapere e dei sentimenti non è spiegabile gnia di un gruppo di amici. Ma l’autore insiste: «Mi sorge un dubbio che questi io che sono in grado di appigliarsi a tutto questo non siano io, ma echi sfumati di un noi». Come se l’individuo si obnubilasse nella religione. Almeno così pare di intendere. Escluso il Soprannaturale che non è nemmeno figlio di un autentico bisogno dell’io, Boncinelli va alla ricerca di qualcosa di eterno. E che cosa trova? L’antidoto alla caducità del tutto, è l’io. Si domanda: sino a quando durerò io? E si risponde: «Su questo ho le idee chiare, non so quanto durerò, e quante cose vedrò, ma sarà per sempre. Non ci sarà, penso, un momento di discontinuità. La discontinuità non è contemplata nell’io e dall’io, che è per definizione uno ed eterno». Naturalmente, Boncinelli chiarisce che è perfettamente consapevole che il suo corpo morirà e che morirà anche il suo Sé, «ma non io». «Non sono radicato in nulla, sono sospeso nel vuoto avulso dal tempo, ma sono sorprendentemente tenace. Perché indivisibile. Solo le cose divisibili periscono, al momento della disconnessione delle parti che le compongono». Se così stanno le cose, prosegue Boncinelli il problema non è la vita ma la morte. E perché, viene voglia di domandargli, l’umanità sin dagli albori si è
sempre interrogata a lungo e drammaticamente sulla morte? Perché tanto lavorio su un non problema?
Ma la verità è che, alla fine del libro, di questo io eterno non si sa molto e lo stesso autore lo riconosce quando ripropone l’interrogativo leopardiano: «E io che sono?». Dopo aver abbozzato qualche risposta e averne scartate altre, compresa quella del “giunco pensante” di pascaliana memoria, Boncinelli si arrende: «Probabilmente non lo so». “Mi ritorno in mente”è un libro molto interessante. Capace di fornire spiegazioni soddisfacenti e comunque interessanti sino a quando si parla del cervello, del soma,della descrizione e definizione della coscienza. Arrivati a questa soglia la scienza ci lascia. E con essa l’autore. Occorrerebbe ricorrere alla filosofia, ma a questo punto Boncinelli zoppica. Fa appello alla poesia – e fa bene – ma non gli basta. Quando si arriva agli interrogativi ultimi, la risposta è solo una: non lo so. Tanto onesta, quanto deludente.