mobydick All’interno del giornale
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l’inserto di arti e cultura
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 27 MARZO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Una chiacchierata a tutto campo sul voto e sul dopo-voto con il leader dell’Unione di centro
Un patto per la nuova Italia Casini: «Basta odi e barricate, apriamo una nuova fase politica» Alla Lega: «Per la riconciliazione serve anche il vostro contributo». A Tremonti: «Aiuta la famiglia e ti seguiamo». E lancia il suo progetto: «Un grande rassemblement per salvare il Paese» LE RAGIONI DELL’UDC
di Errico Novi
Contro l’assedio del bipolarismo
ROMA. Tutto quanto poteva servire a svuotare
Italia al centro. I valori al centro. Le persone al centro. Le Regionali sono elezioni importanti. Lo sono prima di tutto per la vita dei cittadini su cui le Regioni incidono molto con le loro competenze. Lo sono per le singole Regioni che meritano una scelta seria e ponderata da parte degli elettori, e meriterebbero più responsabilità da parte dei leader politici. Lo sono per l’Italia intera in questo momento delicato, perché è evidente che il governo di 13 regioni può influenzare tutta la penisola. E lo sono diventate anche sul piano politico, per la scelta - sbagliata - di Pdl e Pd di dare un tono referendario e apocalittico al risultato delle urne.
di significato questa campagna elettorale è stato fatto: dalle liste perse nei corridoi alle adunate nel segno del populismo. Eppure Pier Ferdinando Casini non si limita all’elencazione degli errori altrui ma rilancia il vero progetto dell’Udc per il dopo-Regionali. Lo fa attorno a una priorità, già scandita in ogni possibile occasione: «Riconciliazione nazionale». E ci crede al punto da rimodulare la colonna sonora del suo partito, quella del conflitto con la Lega: «Siamo avversari del leghismo e riteniamo sia meglio che il Carroccio perda qualche regione in più, così sarà più propenso a riflettere». Ciononostante, aggiunge, «se davvero si vuol rimettere insieme questo Paese la riconciliazione nazionale passa anche per un confronto con la Lega. Da lunedì si comincia a discutere anche di questo». Non deve esserci sorpresa, spiega il leader dell’Udc, «perché il discorso della pacificazione, se ci si crede davvero e si ha davvero a cuore il Paese, impone anche un superamento di tutti gli steccati. Noi siamo pronti a superare i nostri, Bossi deve superare quelli che riguardano l’unità nazionale». D’altronde in queste elezioni gli steccati ci sono, si vedono: «Li ha messi in campo per primo Berlusconi, ma in fondo il suo attacco contro di noi è spiegabile».
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di Rocco Buttiglione
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Appunti dalla Lombardia
Dal Nord una scossa: la centralità del lavoro
«È tempo di tornare alla solidarietà: serve un nuovo associazionismo per uscire dalla crisi» Riccardo Paradisi • pagina 4
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Intanto Geronzi va al vertice di Generali
Continuano gli attacchi della stampa mondiale
Un album di inediti del mito degli anni Sessanta
E Profumo finì nella rete di Bossi
Perché stiamo con Benedetto XVI
La seconda vita di Jimi Hendrix
di Giancarlo Galli
di Giuseppe Baiocchi
di Gennaro Malgieri
pronostici della vigilia che accreditano alla Lega di Umberto Bossi un buon risultato nelle principali regioni del Nord stanno mettendo in fibrillazione gli ambienti dell’Alta Finanza. Infatti, gli uomini del Carroccio sono determinati a conquistare poltrone di primissima fila nella galassia di quelle Fondazioni bancarie che, a loro volta, hanno una forte “voce in capitolo” nel sistema creditizio. Una situazione che può creare più di un problema a Alessandro Profumo, il numero uno (traballante già da un po’) del gruppo Unicredit.
uanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza!...». Era la Via Crucis al Colosseo la sera del Venerdì Santo del 2005, quando il cardinal Ratzinger meditava sulla nona stazione, mentre Papa Wojtyla seguiva dalla tv, ormai morente. Quel grido di dolore pubblico, quel riconoscimento senza ipocrisie dei mali umani che hanno infangato e infangano la Chiesa lasciò allora un’eco incancellabile.
apita di tuffarsi in un mondo sconosciuto, in un Oceano di possibilità irrealizzate e di intuizioni non verificabili, in una «nostalgia» (se così si può dire) che ti afferra facendoti inabissare nel futuro. In altri tempi, quando ero soltanto un ragazzo e lontano dal diventare il «ragazzo invecchiato» che sono oggi, avrei detto di essere immerso in un magma psichedelico, percorso da fremiti gioiosi e spinti da pulsioni ribelli. Ho ascoltato per ore i dodici brani di Valleys of Neptune e ho ritrovato, proprio come lo avevo lasciato, Jimi Hendrix.
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• ANNO XV •
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La strada dopo il voto. Intervista a Pier Ferdinando Casini: «Abbiamo smascherato la debolezza di questo sistema»
«Oltre la guerra civile»
«Credo davvero alla pacificazione, adesso le barricate devono cadere per tutti. Berlusconi ci attacca perché ci opponiamo al populismo e a questo schema a due» di Errico Novi segue dalla prima «Con Berlusconi - continua Casini - ci siamo parlati assai prima di presentare le liste e, preso atto che noi non ci saremmo alleati con il Pdl in tutte le regioni, ci ha chiesto di evitare almeno accordi con il Pd. Gli ho risposto che invece li avremmo fatti, dove ci fosse sembrato giusto. Si è visto costretto a confermare l’accordo con noi nel Lazio, in Campania e in Calabria, altrimenti le avrebbe perse già prima di combattere. E questo ha dimostrato la debolezza del bipartitismo. Noi l’abbiamo fatta emergere». Casini non si nasconde di aver suscitato rancori in tutti e due i colossi d’argilla. Ma anche qui non gli interessa esasperare le divergenze. E anzi prova a spalancare quello che per ora è uno spiraglio, per esempio, sulle politiche familiari: «Ho intravisto una disponibilità incoraggiante in Tremonti a parlare di un nuovo welfare per le famiglie. Me ne rallegro e dico: siamo pienamente disponibili a studiare tutte le possibili soluzioni e ad incontrarci con un Tremonti che voglia realizzarle». Se c’è da scrivere una pagina nuova, dopo questa tormentatissima campagna elettorale, il leader del Centro vuole farlo secondo uno schema diverso, pacificatorio. Al limite anche rovesciato rispetto alle divisioni che pure ci sono con Pdl e Pd. Stefano Folli le riconosce due meriti: aver interpretato bene il ruolo di forza moderata ed essersi fatto carico del discorso sulla riconciliazione. Ma nell’intervista pubblicata da liberal aggiunge che a ricucire deve essere anche la Lega. Se Bossi vuole le riforme, dice, deve ricomporre il rapporto con l’opposizione. Come le ho detto, noi faremo di tutto per contrastare la Lega, ma vogliamo ricucire il Paese con tutti, anche con il partito di Umberto Bossi. Perché l’Italia sta drammaticamente avvitandosi in
una spirale di odi contrapposti, di lotte corporative, territoriali, sindacali. E la Lega appunto, se perderà qualche regione in più sarà anche più facilitata a riflettere. Certo non dobbiamo indurla in tentazione perché se vince ovunque il rischio è che alzi sempre la posta e si vada veramente verso una disgregazione nazionale. Anche perché con il controllo delle regioni sommato al federalismo, molti nel Carroccio già vedono una secessione di fatto. Noi il federalismo non l’abbiamo votato. E oggi però i nodi vengono al pettine: siamo stati
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Vogliamo ricucire il Paese con tutti, perché l’Italia sta drammaticamente avvitandosi in una spirale di odi e lotte corporative
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gli unici a dire che, disegnato così, quel modello è un castello di carta, un insieme di buoni propositi che si infrangono sulla realtà. Al dunque si arriverà con i decreti attuativi: che potranno essere o un colpo di piccone sull’unità nazionale o la base di un federalismo solidale che lascia aperte le speranze. A proposito di speranze: Tremonti dice che non si può intervenire su nulla, poi però con i singoli candidati, Polverini in primis, l’Udc riesce a mettere sul tavolo il quoziente familiare, e ora anche Alemanno mostra interesse. Ripeto, ho colto in Tremonti alcuni passaggi sulla riforma fiscale che mostrano attenzione alla famiglia. Secondo me è importantissimo, noi non faremo cadere questa disponibilità. Ne ho già parlato con Bonanni l’altro giorno: io ritengo fondamentale avvicinarsi al quoziente familiare in tutte le for-
me possibili. C’è tutta la disponibilità mia e dell’Udc a incamminarsi nell’impresa. Se Tremonti ha il coraggio di andare avanti su questa strada ci incontrerà. In un editoriale sul Corriere, Angelo Panebianco indica nel tremontismo una delle evoluzioni possibili nel momento in cui uscirà
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con Berlusconi, o andavamo nelle giunte di sinistra. Non abbiamo fatto né l’una né l’altra cosa giocando la nostra carta nella politica nazionale. Ma tengo a chiarire un altro punto. Prego. Noi faremo un partito nuovo partendo da quello che c’è, che è l’Unione di centro: e per il dopo io penso a un rassemblement, non a un grande partito nella forma tradizionale. Ognuno mantiene la sua autonomia, poi tutte le forze politiche che vogliono aderire a un più rassemblement ampio lo possono fare. La Costituente di centro serve a rafforzare noi, a fare un Centro diverso e più forte. Ognuno a sua volta si organizzi, dopo possiamo ritrovarci insieme, con uno schema aperto, in cui nessuno è più ricattato da posizioni estremiste che non condivide. Questo riguarda anche Fini? Guardi, non cado nel gioco dei nomi e dei cognomi. L’appello che io lancio riguarda tutti coloro che pensano che la politica italiana debba recuperare dignità e serietà e che ci sia il bisogno storico di unirsi, dopo la “guerra civile” della Seconda Repubblica, per ricostruire questo Paese e assicurargli un futuro oggi chiaramente a rischio. Facciamo il flashback di questa campagna elettorale: tanto scandalo per la posizione dell’Udc, alimentato soprattutto da Berlusconi, forse nasce dal fatto che l’Udc ha messo in campo una pratica da altri dismessa, cioè la politica: scelta dei candidati, dei programmi, delle singole alleanze. Possiamo dirla anche così: dal suo punto di vista Berlusconi aveva ragione a non volerci, ma non era così forte da poterci non volere, se no perdeva sicuramente diverse regioni. E questo dimostra una cosa: il bipolarismo non funziona. Noi abbiamo scompaginato il tavolo che si erano apparecchiato Pd e Pdl. Loro erano persuasi che si dovesse entrare nelle parti predeterminate che avevano distribuito loro. Ripeto, me ne accorsi
Per il dopo, io non penso a un grande partito tradizionale, ma a un rassemblement dove ognuno mantiene la sua autonomia di scena Berlusconi. Parliamoci chiaro, per ora il tremontismo è solo un’espressione, nel senso che il ministro dell’Economia sta cercando di tenere i conti in ordine, e non è un merito da poco. Il resto è fumisteria. Ciò non vuol dire, ribadisco, che il suo sforzo di tenere i bilanci in ordine sia una cosa poco importante. Resta irrisolto un nodo, per il Pdl: quello dei ceti medi, illuminati sedici anni fa dalla discesa in campo di Berlusconi e ora delusi, smarriti. Una cosa è certa: queste Regionali non possono essere la prova generale per mandare a casa Berlusconi, perché sarebbe assolutamente demenziale: Berlusconi deve governare. La possibilità di un’alternativa efficace è solo nel fatto che questa legislatura si consumi con tutte le sue contraddizioni. Vada avanti e governi, questo è quello che deve fare. Il resto sono chiacchiere. Fra tre anni o il bipolarismo supera la prova perché Berlusconi governa bene, oppure implode tutto. Quando si dice che noi facciamo un investimento per il futuro si intende una cosa molto semplice: se volevamo incassare qualche vantaggio, stavamo nel governo
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Contro l’assedio del bipolarismo Solo i candidati centristi, vincendo l’ostilità di Pdl e Pd, hanno puntato sui programmi di Rocco Buttiglione Italia al centro. I valori al centro. Le persone al centro. Le Regionali sono elezioni importanti. Lo sono prima di tutto per la vita dei cittadini su cui le Regioni incidono molto con le loro competenze. Lo sono per le singole Regioni che meritano una scelta seria e ponderata da parte degli elettori, e meriterebbero più responsabilità da parte dei leader politici. Lo sono per l’Italia intera in questo momento delicato, perché è evidente che il governo di 13 regioni può influenzare tutta la penisola. E lo sono diventate anche sul piano politico, per la scelta - sbagliata - di Pdl e Pd di dare un tono referendario e apocalittico al risultato delle urne. Cosa c’entrano gli errori sulle liste, lo scontro con i magistrati, lo scontro con l’informazione, Berlusconi sì/Berlusconi no, il giustizialismo… con chi deciderà della salute dei cittadini del Lazio o del Piemonte? Con il governo del territorio della Puglia, della Campania, del Veneto? È anche a questo modo di far politica, a questo bipolarismo malato che ha come presupposto l’atto di fedeltà all’uno o all’altro contendente, che l’Udc si è opposto. E quanto è accaduto in questi mesi aiuta a capire che la scelta di autonomia fatta dall’Udc era quella giusta.
dini e l’impegno per migliorare concretamente la loro vita; abbiamo messo al centro i candidati migliori, quelli che ci garantiscono un buon governo delle Regioni; manteniamo al centro i valori non negoziabili, quelli laicamente ispirati all’identità cristiana, ma anche quelli dell’unità d’Italia, dell’economia sociale di mercato, della libertà. Essere centro non è un luogo geometrico, né una posizione pronta al trasformismo: non accettiamo che ci si tacci di opportunismo, quando abbiamo preferito la coerenza alle decine di poltrone che ci venivano offerte. Andiamo da soli nel 60% del Paese, con candidati di primissimo livello come Binetti, De Poli, Pezzotta, Galletti, Bosi e Poli Bortone, e dove abbiamo condivisoun’alleanza lo abbiamo fatto su programmi e criteri precisi e messi per iscritto. Come nel caso del Piemonte, dove Mercedes Bresso ha accettato la nostra piattaforma programmatica e si è impegnata a non intaccare in alcun modo i principi per noi non negoziabili: di questo l’Udc sarà ferma garante.
Nessun accordo strategico nazionale con gli esponenti di un bipolarismo malato; nessun cedimento a chi domina dagli estremi questo bipolarismo, la Lega e Di Pietro; nessuna rinuncia all’autonomia di giudizio in base a pregiudizi pro o contro Berlusconi. Piuttosto, abbiamo voluto mettere al centro le singole regioni, unico partito che davvero ha praticato e non solo predicato il federalismo; abbiamo messo al centro gli interessi dei citta-
Essere centro non è neanche solo moderazione che sfiora la tiepidezza, ma vuol dire credere fermamente nei valori fondanti della comunità italiana, difenderli e metterli al di sopra di tutto, specie al di sopra degli interessi particolari. L’unità del Paese, messa a repentaglio dalla Lega che se avrà in mano il nord farà un altro passo verso la secessione. Il rispetto di tutte le istituzioni in quanto tali, dal Capo dello Stato fino sia alla magistratura che al-
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quando parlai con Berlusconi tre mesi fa e lui disse: «Voi o andate da soli o non è che fate alleanze con la sinistra, se no vi attaccheremo». Risposi: fate bene ad attaccarci. Pretendeva che fossimo vincolati o ad un’alleanza con lui o ad andare da soli. Una scelta di comodo, ma solo per Berlusconi. Sull’altro versante il Pd alla fine mira-
la politica, che devono essere indipendenti l’una dall’altra. Anche il valore dei servizi nell’interesse dei cittadini e non dei politici, per cui l’impegno per una Pubblica Amministrazione e una Sanità efficienti, efficaci, non sprecone, dove prevalga il merito e la funzionalità, e non l’interesse di una classe politica a nominare amici e gestire appalti. E questo specie per il Meridione, risorsa per tutto il Paese ma che deve essere capace di uscire dai suoi problemi, cosa che non ha fatto durante il malgoverno delle amministrazioni di sinistra.
Il nostro orizzonte di valori riguarda i valori della nostra storia, della nostra nazione, del nostro popolo. Che in gran parte è il popolo cristiano, nel suo spirito includente e non settario. Le parole dei vescovi ci hanno incoraggiato sulla strada che stiamo percorrendo. Non dicono per chi bisogna votare. Non è loro compito. Ma leggendo con attenzione le loro parole, la conseguenza è che non si può votare la sinistra, principalmente perché è in larga parte a favore dell’aborto e dell’eutanasia, è contro la famiglia e contro la libertà di educazione. Ribadisco che la famiglia non è solo un valore cristiano: è un valore umano e sociale, e dalla sua disgregazione nascono gravi problematiche sociali che investono tutta la comunità con costi e conseguenze pesanti. Non si può certo mettere queste tematiche nelle mani di Emma Bonino. Ma allo stesso tempo i vescovi dicono che non si può votare neanche la destra, in quanto la de-
«Moderati» non significa essere «tiepidi», ma credere fermamente nei principi fondanti della comunità italiana
va alla stessa cosa, forse si aveva un po’ più di pudore a dirlo perché capivano come per noi quella scelta fosse impossibile. Con le alleanze variabili abbiamo scompaginato il bipolarismo, esattamente quello che volevamo ottenere. Il fatto che Pdl e Pd sono stati obbligati ad accettarle pur non volendole è una prova di debolezza del si-
stema. Berlusconi ha intuito il pericolo ma non ha avuto la forza di arrivare alle estreme conseguenze. È emersa una mancanza di autosufficienza strutturale, per entrambi. Ultima nota: in questa campagna elettorale si è fatta strada la tendenza a usare la parola “popolo”al posto di “partito”, anche a
stra è contro un’accoglienza umana degli immigrati, è contro la solidarietà sociale, e troppo spesso esponenti di quell’area non danno il necessario esempio di sobrietà. I vescovi certamente non hanno esplicitamente detto che bisogna votare per il centro, per l’UDC. Ma per chi legga con attenzione e pienezza le loro parole non sembra tanto difficile trarre le giuste conseguenze. L’Udc infatti è pienamente in linea con tutti i valori proclamati dalla Chiesa, lo è laicamente, ma lo è con convinzione. Noi riteniamo, come i vescovi, che non si possano separare a forza temi ugualmente importanti come la vita e la solidarietà sociale, o la famiglia e l’accoglienza. Noi vogliamo impegnarci per portare avanti insieme tutti questi valori, senza dividerli per piegarli alle logiche di comodo del bipolarismo.
Il voto deve tener conto da un lato degli interessi delle singole Regioni e dall’altro dei valori guida della nostra nazione e della nostra cultura, da tenere al di sopra delle fazioni. Per questi motivi noi dell’Udc continueremo a impegnarci politicamente in difesa dell’intero complesso dei principi nazionali e di quelli di ispirazione cristiana, e lo faremo laicamente sotto la nostra responsabilità. Non temiamo di offrirci al giudizio di quanti condividono quella tavola di valori chiedendo loro di avere il coraggio di investire su di noi, di supportarci, di votarci. Cosa cambierà dopo le elezioni? Molto, probabilmente, negli scenari politici degli altri, quando cominceranno le rese dei conti. Poco per l’Udc, dato che si conferma ogni giorno che la nostra linea di costruire un centro responsabile e salvare l’Italia dallo sfascio del bipolarismo malato è quella giusta.
sinistra, dal popolo viola a quello di Annozero. Si è anche chiarita una cosa: le riforme così come le evoca Berlusconi fanno parte di un populismo che è molto lontano dall’idea di democrazia rappresentativa. E non mi convince Quagliariello quando sostiene che in fondo nelle democrazie moderne un certo grado di po-
pulismo è fisiologico: qui si rischia una deriva sudamericana se si evocano con tanta superficialità soluzioni come i gazebo. Non è una cosa seria: prima ancora che il contenuto, nel processo delle riforme è la modalità che conta. Una persona che si dice liberale come Quagliariello dovrebbe sapere che la forma è sostanza.
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I candidati del centro/13. Block notes di Savino Pezzotta per la Lombardia
Dal Nord una scossa: la centralità del lavoro «Si deve immaginare un nuovo associazionismo d’impresa per reggere l’urto della concorrenza internazionale» di Riccardo Paradisi a scelta di consegnare il Nord alla Lega è sbagliata. La Lega oggi sta mordendo le calcagna del Pdl che è ormai preda della fobia del sorpasso, ma insomma è curioso che gli esponenti della Lega giurino contro Roma ladrona ma a Roma hanno sei ministri e nella Roma ladrona occupano tutte le sedie che possono». Per Savino Pezzotta, candidato dell’Udc per la Lombardia, è al nord che l’alleanza Pdl-Carroccio svela la sua vera natura, l’egemonia leghista sull’alleanza e la natura anfibia del Carroccio: antipolitico nella retorica nazionale, movimento di puro potere lì dove affonda le sue radici. Pezzotta evoca an-
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La scelta per i centristi contro il bipolarismo
Lettera aperta di un cittadino che ha scelto di votare Pezzotta di Enrico Cisnetto
che il recente pronunciamento dei vescovi sul voto a forze politiche che garantiscano il rispetto della vita e del diritto naturale («noi non ci siamo stupiti per quello che hanno detto: lo sappiamo da sempre»).
E sulla questione morale che investe trasversalmente destra e sinistra Pezzotta dice ironico: «Ci hanno spiegato che sono mele marce. Ma quelle mele ormai sono un cestino». Sul confronto Lega-Pdl che in Lombardia ha uno dei suoi punti più caldi quello che posso avvertire in Lombardia dice Pezzotta è che ceti moderati di professionisti hanno capito il gioco e hanno capito che c’è un’alternativa moderata e di centro. «Il problema vero è che la Lega ha fatto il pieno nei confronti del Pdl. La lega punta oggettivamente a un egemonia sul nord e per averla deve tentare di aumentare l suo peso in
inalmente la più brutta, inutile e surreale delle campagne elettorali è finita. Domani e dopo si vota per 13 amministrazioni regionali, ma mai come questa volta la consultazione è politica, e può determinare in modo significativo il proseguimento, o meno, della legislatura e dell’intera Seconda Repubblica. In gioco non c’è il confronto tra centrodestra e centro-sinistra. Prima di tutto perché se si parte dal risultato di cinque anni fa – 11 a 2 a favore dell’attuale opposizione – è chiaro che la coalizione guidata da Silvio Berlusconi potrà comunque cantare vittoria, togliendo ogni valore al confronto tra il numero delle regioni amministrate dai due poli. E poi perché se ci si trasferisce sul terreno più propriamente politico per giudicare i risultati di lunedì sera, come è giusto che sia, non è difficile arrivare alla conclusione che la partita vera si gioca dentro il centrodestra e dentro il governo. Infatti, i temi centrali di queste elezioni sono quattro verifiche, tutte nel centro-destra: del rapporto tra l’attuale maggioranza e il suo tradizionale elettorato; dei rapporti di forza tra Pdl e Lega;
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Lombardia. Ma questo è solo il punto di partenza, il loro obiettivo è sfondare anche in Toscana e realizzare non il federalismo ma il modello delle macroregioni teorizzato da Gianfranco Miglio. Ossia un centralismo con base regionale che segnerebbe la sconfitta del vero federalismo». Tanto che secondo Pezzotta il federalismo fiscale è solo la
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vedere quali sono i decreti attuativi, il risultato dipende dai contenuti che ci mettono dentro. Ci sono modalità che invece di mantenere l’impianto di solidarietà possono danneggiarlo. Noi siamo per un federalismo solidale: il federalismo fiscale deve essere accompagnato da un federalismo istituzionale che sposti i poteri dalle
Il blocco di potere che s’è creato qui ha come centro nevralgico e strutturale la sanità: Formigoni, come Errani in Emilia, si candida al quarto mandato consecutivo per garantirlo bandierina che i leghisti sventoleranno fino alla fine della legislatura, il loro vero interesse però è convincere che c’è una distinzione politica tra il nord e il resto del Paese: «Non sono così convinto sull’avvio del federalismo fiscale entro la fine della legislatura. Spesso la Lega Nord dice cose che non vengono mai realizzate. Il federalismo fiscale non è un meccanismo così automatico, bisogna
dell’equilibrio tra le diverse componenti interne al Pdl; dello stato di salute del governo. Mentre quanto accadrà nel centro-sinistra, a parte la misurazione del grado di concorrenza tra Di Pietro e il Pd, francamente appare quasi irrilevante.
Se questo è vero, avevano ragione coloro che in questi giorni hanno detto e scritto che per Berlusconi la corsa è, nell’ordine, contro l’astensione, contro il sorpasso della Lega e contro l’Udc. Sono infatti questi i tre possibili approdi di quell’elettorato moderato che non voterà mai a sinistra se dovesse lasciare il Pdl per disamoramento, disillusione e stanchezza. Si tratta di un dato certo, ancorché ancora non misurato (almeno fino a lunedì sera): una parte rilevante del voto ex An ed ex Forza Italia si sente tradito e medita di reagire. Le motivazioni di questo sentimento sono le più varie: il giudizio poco lusinghiero sul governo, salvo la reattività di fronte alle emergenze; la preoccupazione per una crisi economica che lo stesso premier ha più volte misconosciuto o, in nome di un astratto ottimismo, ridotto a poca
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Regioni ai Comuni». Sta emergendo insomma la differenza tra il federalismo della cultura cristiana e quello leghista: «Noi puntiamo a un federalismo che si concentra sulle municipalità, sulle città, sulle realtà comunali di cui è fatta l’Italia, il federalismo della lega punta invece a un centralismo regionale. Mentre il nostro è un federalismo sussidiario, sturziano e olivettiano (Pezzotta ci-
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Berlusconi e Bossi hanno ingessato la situazione sociale e politica del Nord dove la prima grande emergenza è il lavoro (e con esso la necessità di una nuova solidarietà contro la crisi) e non il dibattito sull’interrogativo fittizio “federalismo sìfederalismo no” imposto dal Carroccio
ta L’ordine delle comunità dell’imprenditore di Ivrea) – che pone al centro il territorio, la municipalità come luogo di governo,– il federalismo leghista, quello a cui inevitabilmente va a rimorchio il Pdl, ha nel potere regionale il suo cuore e il suo centro. Il territorio che abbiamo di vista noi è quello oggi messa in difficoltà dai tagli che hanno generato crisi nelle comunità municipali in affanno a pagare le piccole imprese.
Occorre partire dalla persona, la persona costituisce la libertà politica nel territorio, federalismo sussidiario che crea le municipalità». Ma negli incontri che ha avuto in questa campagna elettorale, dice Pezzotta, più che di federalismo si sente parlare di lavoro, del lavoro che non c’è, del lavoro che cambia, delle aziende piccole e medie
che sono in crisi anche in Lombardia. «Se n’è accorto anche Bossi che c’è la crisi in Lombardia. Noi abbiamo fatto un incontro con dei giovani.Tutti i ragazzi ti chiedono che futuro mi aspetta? E anche gli adulti pensano alla crisi, si preoccupano del lavoro che potrebbero perdere.I dati diffusi dall’Istat sull’occupazione confermano quanto l’Unione di Centro ha continuato a ripetere per tutta la campagna elettorale: il vero problema della Lombardia e del Paese è la crisi economica e le ricadute sul lavoro. Invece durante questa campagna elettorale abbiamo dovuto assistere a baruffe indecenti e a uno scontro politico in cui l’unico elemento è stata la pura lotta di potere per il potere, con un contenuto programmatico vago, a tratti surreale, lunare per i cittadini, gridato in modo scompo-
cosa, mentre brucia sulla pelle anche e soprattutto di una parte rilevante della borghesia, piccola e media; la crescente intolleranza verso le divisioni interne al Pdl e al governo e verso alcuni comportamenti di manifesto dilettantismo. In tutti i casi, siamo di fronte a qualcosa di rilevante e, forse, di non transitorio.
Cosa faranno costoro domani e dopo? Il clamoroso astensionismo (53%) che ha caratterizzato il voto amministrativo francese di un paio di settimane fa ha fatto pensare che una parte importante degli italiani “delusi” potrebbe comportarsi analogamente ai francesi stanchi di Sarkozy. È ragionevole pensare che una parte farà così, ma non meno saggio è tener conto del fatto che quasi sempre alla vigilia delle consultazioni molti nostri concittadini dichiarano un astensionismo che poi non praticano. Perciò molto non voto, ma non nella misura della Francia. Ma quei “delusi”che alle urne ci vanno, e però non vogliono concedere un’ulteriore proroga di fiducia incondizionata al Cavaliere, hanno solo due alternative: o credere
sto, senza agganci a progetti alternativi per il governo del Paese. Noi abbiamo un merito in questa campagna elettorale: abbiamo parlato di lavoro, del destino della piccola impresa, abbiamo riflettuto con la gente del processo di profondo e radicale cambiamento che investe le piccole e medie imprese che si stanno ristrutturando per reggere la dinamica globale dei paesi emergenti, che insidiano il nostro sistema manifatturiero. La Lombardia è dentro un processo di grande trasformazione e le maggiori forze che se ne contendono il governo Pdl Lega ma anche Pd non hanno prodotto finora un’analisi di come si conformerà il nuovo modello di produzione in Lombardia e nel resto d’Italia». Il sonno delle regioni, sostiene Pezzotta, genera il mostro dell’ignavia: «Non ho visto nessu-
che la Lega stia sulla Luna e non al governo con lo stesso Berlusconi e il Pdl, e di conseguenza la votano illudendosi che il loro rimanga comunque un’espressione di protesta, oppure votare l’Udc. È, per esempio, quanto farò io, favorito dal fatto di votare a Milano e quindi non solo di potermi esprimere a favore di un uomo stimato e al quale mi lega una amicizia ve-
Fin da martedì bisognerà riaprire il dossier del «partito della nazione» per superare questa nostra politica malata e entrare nella Terza Repubblica ra come Savino Pezzotta, ma anche e soprattutto di sapere che in Lombardia l’Udc è fuori da entrambe le coalizioni del nostro sgangherato bipolarismo. Non è un dettaglio, questo. Perché lo dico con la franchezza che Casini e gli amici dell’Udc ben conoscono: non so se altrove, con l’Udc schie-
na azione di contrasto da parte delle regioni di fronte a questa crisi che arriva a mordere sull’impresa famigliare e territoriale che mette in vibrazione le piccole comunità, percorse dai flussi della globalizzazione. C’è al massimo un’azione di galleggiamento sulla crisi attraverso l’uso di alcuni strumenti come la cassa integrazione. Politiche innovative, di cambiamento e di sviluppo, io non le ho ancora viste. Sono convinto che occorra lavorare, anche con l’apporto delle università e dei vari soggetti sociali ed economici, a una sorta di road map per l’uscita dalla crisi. Una road map basata sull’innovazione e non solo su strumenti come gli ammortizzatori sociali».
L’Udc chiede il quoziente famigliare «che si promette sempre e non si apllica mai – dice
rato di qui o di là, mi comporterei come farò domani a Milano. È possibile, per non dire probabile che, che mi asterrei, come peraltro ho fatto altre volte quando questo maledetto sistema bipolare mi ha messo di fronte due minestre egualmente immangiabili.
In questi ultimi tempi mi è capitato con molta frequenza di fare incontri e tenere conferenze in molte zone del Nord del Paese, e ho sempre trovato nella borghesia produttiva che in larghissima misura si è affidata al centro-destra un grado di scoramento e persino di rabbia che francamente non mi aspettavo di trovare, comunque non in questa misura. Sono italiani che vogliono altro, che chiedono una diversa offerta politica, che pensano che si debba voltare pagina anche se poco ci sperano e soprattutto non sanno come si possa fare. Quando offro loro i ragionamenti di Società Aperta sulla Terza Repubblica, sulla necessità di un’Assemblea Costituente, sull’inderogabilità delle grandi riforme strutturali per la modernizzazione – istituzionale, politica, economica, infrastrutturale e civile – del
Pezzotta – Occorre assistenza alle famiglie, una politica organica, non social card. La disoccupazione ha colpito le famiglie più deboli, se non si passa dall’assistenza a una politica della famiglia non si fa un passo avanti. Quando parlo della piccola impresa, della sua centralità e della necessità di un’analisi della sua crisi parlo del perno della società civile qui in Lombardia che tiene insieme un tessuto connettivo. Se si rompe questo tessuto si frammenta la società. Oggi continuano a dirci che stiamo uscendo dalla crisi, è una pura e semplice mistificazione. Non si tornerà a come stavamo prima, si sta modificando tutto e se ci limitiamo a guardare a quanto sta avvenendo con gli occhi del passato non saremo all’altezza della sfida che è già arrivata».
L’altro grande problema posto in Lombardia dall’Udc è quello della sanità. Non è partita di poco conto. «I blocchi di potere che si sono creati in questa regione sono macroscopici. Ma la stessa cosa riguarda l’Emilia Romagna. Anche li c’è un sistema di potere centrato sulla sanità. E non è un caso che i due candidati si propongano in queste regioni oltre il terzo mandato. Sono i garanti di un patto di potere che ha il suo centro nella sanità, garanti che devono rimanere tali». Il Governo sta spingendo l’acceleratore sulla strada del nucleare. «Non ho nessuna particolare obiezione sul nucleare– dice Pezzotta – occorre perciò garantire un livello di sicurezza adeguato per la popolazione, chiarire come verranno eliminate le scorie e precisare dove saranno realizzate le centrali. E sarebbe stato meglio dire tutto ciò prima delle elezioni».
Paese, riscontro un grandissimo interesse e un’altrettanto grande disponibilità. Ma occorre dare a tutto questo uno sbocco. È da tempo, da quando l’Udc ha chiuso la sua esperienza dentro il bipolarismo e ha imboccato con coraggio la strada della Terza Repubblica, che dialogo con Casini e i dirigenti dell’Udc su questa prospettiva. Prima le elezioni europee e ora quelle regionali hanno impedito di andare oltre le buone intenzioni. Ed è un peccato, perché c’era lo spazio per partire ugualmente. Ma ora, quale che sia il risultato di questa consultazione, si apre una fase decisiva: tre anni di legislatura senza più un appuntamento elettorale in mezzo. È il momento di riaprire il dossier “partito della nazione”, che personalmente ho definito un partito “holding” capace di far convergere intorno ad un patto di governo, che lasci alla coscienza dei singoli e quindi al parlamento le questioni di natura etica, le forze cattoliche e laiche più aperte al cambiamento. Caro Casini, ne riparleremo a partire da martedì. Ma sappi comunque che “ora o mai più”. (www.enricocisnetto.it)
diario
pagina 6 • 27 marzo 2010
L’analisi. Vorrebbero “farsi fuori” a vicenda, ma si compensano e si giustificano. A discapito della politica e dell’informazione
San Michele, protettore di Silvio
I “nemici giurati” Santoro e Berlusconi hanno l’uno bisogno dell’altro così, a poche ore dalle elezioni, Michele Santoro viene in soccorso di Berlusconi. E Berlusconi regala a Santoro l’aureola del santo protettore della libertà d’informazione. I giornali, i siti internet, le televisioni, le radio, i politici non parlano d’altro che dell’eterno Masaniello. Lo spettacolo di faziosità del Paladozza di Bologna è rimbalzato attraverso Sky, ma persino attraverso la Rai con Rainews24, attraverso le televisioni locali e attraverso i più importanti siti internet. Santoro ha avuto il 13 per cento di share complessiva, ma questo sarebbe niente se non continuasse ad essere al centro dell’attenzione grazie a Berlusconi. Il premier infatti ha invocato contro il conduttore sanzioni da parte dell’Agcom e ha definito la sua trasmissione «un obbrobrio incivile e barbaro». Un modo efficace per insignire della medaglia da eroe un rumoroso propagandista.
E
D’altro canto il Paladozza è stato un’iniezione di voti per il cavaliere. Immaginatevi un elettore moderato che ascolta i “corsivi” fanatici di Marco Travaglio o che viene investito da una “santorata” come «non siamo al fascismo... ma certe assonanze preoccupano» o come la chiamata in causa del Presidente della Repubblica di dipietresca memoria, che cosa deve fare il pover’uomo? Magari aveva deciso di non andare a votare, ma – vista tanta indecenza – gli monta una tale rabbia che potrebbe persino digerire le peggiori berlusconate. Insomma, simul stabunt simul cadent: l’uno è la fortuna dell’altro. Nemici giurati? Nemmeno per sogno, anzi si tengono bordone. Si corrono in soccorso. E gli italiani debbono assistere a questa invereconda sceneggiata che dura ormai da più di un decennio. Il bello è che non ne sono nemmeno consapevoli: l’uno vorrebbe far fuori l’altro. E non s’accorge che così perderebbe il suo più importante supporter. Ma torniamo allo spettacolo del Paladozza, pardon, alla manifestazione contro la chiusura da parte della Rai dei talk show politici. C’erano
finalmente l’authority per la comunicazione si accorgeva che il Tg1 e il Tg5 davano al Pdl quasi il doppio dello spazio che avevano a disposizione gli altri partiti.Anche questo un bell’esempio di informazione corretta. Una volta si parlava in politica di “opposti estremismi”. Oggi nell’informazione ci sono gli “opposti faziosismi”.
di Gabriella Mecucci
Come si diceva, Santoro e Berlusconi si compensano e si giustificano a vicenda. Le campagne elettorali fanno il resto: forniscono il contesto esplosivo per queste polemiche d’accatto. Non ci chiedete di fare la cronaca di tutte le dichiarazioni arrivate ieri sul conduttore di Annozero e sulle “sparate censorie” del premier. Tutto questo è avvilente per la politica. Ma è forse ancor peggio per il giornalismo. Un mestiere, fatto un tempo della ricerca delle notizie e di
Legge elettorale, apertura del premier ROMA. Silvio Berlusconi ha garantito di essere disponibile a dialogare su tutto con l’opposizione, anche sulla riforma elettorare. Il premier lo ha dichiarato ieri pomeriggio nel corso di una diretta a Sky Tg24, specificando: «Io sono sempre disposto al dialogo. L’importante è che dall’altra parte ci sia un minimo di oggettività, comunque la legge che abbiamo ha dato buoni risultati. Si possono cambiare i dettagli ma non toccherei l’impianto».
A proposito delle urgenze da martedì, dopo le elezioni regionali ha dichiarato: «Da martedì bisogna iniziare a lavorare subito alla riforma della giustizia e alla riforma fiscale». Poi, entrando nel pieno del capitolo imprese, ha aggiunto: «Abbiamo fatto moltissimo per il mondo delle imprese. Il presidente di Confindustria Marcegaglia chiede la riduzione dell’Irap perché non può fare altro. È la sua funzione. Io posso dire che la riduzione dell’Irap è una nostra priorità».
i vari Gad Lerner, Travaglio, Floris, che per la verità sembra non aver troppo gradito alcune esagerazioni di San Michele. E poi c’era la compagnia di giro dei comici: da Luttazzi a Cornacchione a Vauro. Lerner, che evidentemente si sentiva in trincea contro il fascismo, c’è andato giù duro: «Un giorno dovremo mettere agli atti chi ha protestato e chi è stato zitto». Mentre Claudia Mori si è lamentata perchè «Celentano non potrà più fare la trasmissione in tv». Questa sceneggiata naturalmente avviene in nome della libertà di informare. E dove è di grazia, in tutto questo, la libera informazione? Una volta i giornalisti facevano le
Una volta si parlava di “opposti estremismi”. Oggi, nel mondo dei media, si è sviluppato invece il fenomeno degli “opposti faziosismi” inchieste e capitava che denunciassero il malcostume o addirittura comportamenti fuorilegge prima che intervenissero i magistrati. Raccontavano la realtà e stavano ben attenti ad avere tutte le prove di quello che sostenevano, altrimenti rischiavano tali e tante querele da seppellirli. Oggi i pubblici ministeri indagano e trovano nel mondo della stampa o della televisione alcuni loro portavoce. I giornalisti sono diventati molto spesso velinari delle Procure. E le sparano grosse, tanto non rischiano. Meno corrono pericoli e più si autodefinisco eroi, gente che ne ha del coraggio per recitare a memoria gli atti giudiziari. Quelli del Paladozza si sentivano un po’ come i giellini torinesi nel ’35, poco prima della retata dell’Ovra. Il bello è che mentre a Bologna si consumava la sceneggiata,
quella delle pezze d’appoggio sufficienti per sostenere una tesi, si è trasformato in un’arena di scontri selvaggi, dove vige la regola di chi la spara più grossa e con maggiore sicumera. I primi a dolersi di questa situazione,dovrebbero essere proprio i giornalisti. Invece di fare la sceneggiata santoriana, con tanto di caravanserraglio di comici e chansonnier, perchè non riscoprire il mestiere di informare e, magari, di protestare con puntualità e senso della misura? Fra le tante prese di posizioni su Santoro ce n’è una però che non può essere trascurata, perché potrebbe essere foriera di sviluppi. Il consigliere Rai Antonio Verro paventa la possibilità che Santono abbia «violato la par condicio e il contratto di esclusiva con la Rai; e siccome percepisce uno stipendio dall’azienda è tenuto a rispettare gli obblighi contrattuali». Guai in vista per San Michele? No, l’uomo è inamovibile. L’appuntamento alla prossima sceneggiata. Buonanotte informazione.
diario
27 marzo 2010 • pagina 7
Industria. «A Mirafiori potrebbe esserci lo sviluppo della monovolume ibrida» TORINO. Le radici di Fiat sono ben salde in Italia, e il tiro al bersaglio deve finire. Come il poliziotto buono e quello cattivo, Luca Cordero di Montezemolo e Sergio Marchionne si spartiscono i segnali da mandare all’esterno nel giorno dell’assemblea degli azionisti che approva il bilancio 2009. Da una parte il presidente lancia segnali di bontà e rassicurazione al mondo politico e sindacale, tranquillizzando sul destino del Lingotto e sull’impegno nel paese. Dall’altra parte, l’amministratore delegato, con la grinta che gli è propria, si occupa di difendere a tutto campo l’azienda dalle critiche che sono arrivate dagli stessi ambienti. Dando l’impressione di lanciare anche un bellicoso ultimatum all’establishment, in nome di quell’orgoglio Fiat che Torino conosce bene. Come da tradizione, l’apertura è stata appannaggio di Montezemolo. Dopo un ricordo di Francesco Paolo Mattio-
«Le nostre radici restano in Italia» Sul futuro del Lingotto, Marchionne e Montezemolo rassicurano politici e sindacati di Alessandro D’Amato li, recentemente scomparso, il presidente ha parlato della centralità italiana del gruppo: «La nostra storia, le nostre radici e il nostro cuore sono e saranno in Italia». E ha aggiunto: «Tutte le operazioni internazionali sono sempre state fatte pensando all’Italia, facendo il tifo per l’Italia e avendo questo Paese come focus della nostra storia». Una frase magari un po’ esagerata, ma che serve a far tacere le polemiche fund sull’hedge dell’auto che sembrava dovesse a un certo punto diventare Fiat. Il presidente ha poi descritto come “complicato” il 2009: «Tutti i settori hanno subito conseguenze per il brusco calo della domanda, tuttavia la Fiat ha saputo reagire con velocità e determinazione, raggiungendo e superando gli obiettivi che si era data». Il gruppo è in buone condizioni, ha aggiunto: «Desidero ringraziare anche gli azionisti della Fiat per il supporto fondamentale che ci hanno sempre assicurato. Se il nostro gruppo ha oggi una forte solidità finanziaria, se anche nei momenti di difficoltà può guardare avanti con ottimismo e tranquillità, un ringraziamento particolare lo dobbiamo all’azionista di riferimento, che ci ha sempre garantito un grande
appoggio senza condizionamenti, anche in momenti molto delicati. Questo - ha concluso Montezemolo - ci ha permesso di lavorare nelle migliori condizioni possibili per lo sviluppo dell’azienda». E nel finale è arrivato anche il plateau per l’a.d.: «Il gruppo Fiat ha sempre mantenuto gli impegni presi. Di questo dobbiamo rendere meri-
confronti del Lingotto: «Non parlo dei giornalisti, che fanno il loro mestiere - ha precisato ma di esponenti del mondo politico, sindacale e purtroppo anche imprenditoriale. Non pretendiamo le fanfare, ma non sono giusti neanche i fischi gratuiti». Al contrario, per l’a.d. della Fiat «l’azienda merita stima e rispetto». In particolare, Marchionne non accetta di essere messo sotto processo per la distribuzione dei dividendi: «Pagarli è un atto dovuto». E neanche per la prossima chiusura di Termini Imerese: ”Non chiuderemmo Termini se ci fossero delle alternative”. L’a.d. della Fiat ha poi rivendicato i risultati raggiunti dal 2004 a oggi: «La gara dei detrattori l’abbiamo già vista, così come abbiamo visto che si sbagliano sempre». E ha fatto riferimento in particolare ai rappresentanti dei lavoratori: «I toni e i comportamenti di alcuni esponenti, specie di parte sindacale, danno l’idea che le cose che abbiamo fatto non sono state capite o non sono state volutamente apprezzate, significa vivere in un altro mondo». E poi ha dato ampie assicurazioni in particolare sul futuro di Pomigliano d’Arco che, ha detto, diventerà il secondo più grande stabilimento
«Tutte le operazioni internazionali sono sempre state fatte pensando al nostro Paese, ma contro di noi c’è stato un tiro al bersaglio a volte gratuito» to a Sergio Marchionne», ha detto Montezemolo, chiamando all’applauso l’assemblea degli azionisti.
«Marchionne» ha detto Montezemolo «ha saputo creare e guidare un gruppo di persone di grande valore, capaci, determinate e coraggiose, che trasformano le difficoltà in opportunità e che vivono gli ostacoli come sfide da vincere. Su queste basi, su queste persone e su questa determinazione intendiamo costruire il futuro dell’azienda. Grazie quindi a tutti loro per quello che hanno fatto e continuano a fare ogni giorno». Poi ha cominciato a parlare proprio lui, l’a.d., e il tono è cambiato molto: Marchionne parlato di “tiro al bersaglio”nei
italiano entro tre anni: «Il programma più rilevante è quello su quel sito. La nostra attenzione per l’Italia non si ferma. Aumenteremo in modo significativo la produzione di autovetture nel Paese».
Nella conferenza stampa seguente è stato il turno delle domande dei giornalisti: «Non siamo separati in casa», hanno detto presidente e a.d. all’unisono. Mentre Marchionne ha rivendicato l’ottimo rapporto di lavoro con Scajola e ribadito che la Fiat è interessata allo sviluppo delle tecnologie ibride a Torino, dopo che questa mattina la presidente uscente della Regione Piemonte, Mercedes Bresso, aveva affermato che nel futuro dello stabilimento torinese di Mirafiori potrebbe esserci lo sviluppo del monovolume L0 a motore ibrido. «Abbiamo aperto un tavolo di discussione - ha detto al riguardo Marchionne - con la presidente Bresso e con l’onorevole Cota, con cui ho parlato anche questa mattina, e ho confermato il nostro interesse per lo sviluppo di tecnologie ibride. Fiat ha già investito moltissimo nello sviluppo dei motori a metano, gpl - ha aggiunto - e continuiamo a investire nello sviluppo dei motopropulsori». Infine, c’è stato lo spazio per togliersi l’ultimo sassolino dalla scarpa: «Con il governo io sono disposto al dialogo ma non ad accettare soluzioni fatte altrove. I rapporti devono essere in due direzioni, ci vuole rispetto reciproco», ha concluso Marchionne.
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pagina 8 • 27 marzo 2010
Polemiche. Prosegue la campagna «scandalistica» che vorrebbe colpire l’autorità (e la credibilità) della Chiesa
La via crucis di Benedetto
Gli attacchi al Papa minano l’unico muro contro il relativismo
«Q
uanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza!...». Era la Via Crucis al Colosseo la sera del Venerdì Santo del 2005, quando il cardinal Ratzinger meditava sulla nona stazione (Gesù cade per la terza volta), mentre Papa Wojtyla seguiva dalla tv, ormai morente. Quel grido di dolore pubblico, quel riconoscimento senza ipocrisie dei mali umani che hanno infangato e infangano la Chiesa lasciò allora un’eco incancellabile. E chi sarebbe diventato di lì a poco Benedetto XVI trasmise al mondo la percezione chiarissima che nulla andava e sarebbe stato nascosto e che un cammino di scabra purificazione era non solo necessario ma improcrastinabile.
A quell’epoca era già ampiamente esploso negli Stati Uniti lo scandalo della pedofilia dei preti e delle cause di risarcimento che portarono molte diocesi non lontane dalla bancarotta. Ed era già allora evidente che l’«onda mediatica» sugli abusi sessuali avrebbe dilagato altrove: le vicende irlandesi, i casi tedeschi e, forse, anche sporadici episodi italiani, comunicano comunque l’idea che la tempesta che sconvolge la Chiesa cattolica avrebbe prima o poi sfiorato se non aggredito, come sta avvenendo, proprio Papa Ratzinger, che pure era stato il primo a stabilire un confine netto ed energico sulla denun-
prio i dati dell’ex Sant’Offizio ridimensionano la portata quantitativa dello scandalo: in più di mezzo secolo, sui 450.000 preti cattolici, sono in tutto circa trecento i religiosi sanzionati per “crimina graviora”, ovvero i peccati collegati agli abusi sessuali. Anche se nell’impatto con il gregge un caso è comunque già “troppo“, le colpe di questa natura toccano dunque meno dell’0,1 per cento dei sacerdoti.
Ma questo ovviamente non importa: con quel supplemento di malizia e di morbosità che accompagna sempre l’informazione sulle storie di letto e di sesso, non par vero poter mettere sulla graticola mediatica e offrire alla facile riprovazione generale una intera “categoria” di persone: trascinare nel cinico baratro delle umane e inconfessate bassezze è un gusto più succoso se tocca figure che, per immagine collettiva e per sofferta vocazione, appaiono comunque animate dal nobile ideale di spendersi al servizio del prossimo. Semmai, dietro il clamore e il discredito, si occulta con cura quell’incongruenza culturale che assume i contorni di un tragico paradosso: tanto più ci si straccia le vesti sulle colpe e i peccati di una grave e mancata perfezione di comportamenti, quanto più si predica e si diffonde da decenni la piena e assoluta legittimità nella ricerca ossessiva del piacere fisico in tutte le sue infinite varianti e le forme comunque le-
Mentre trionfa l’edonismo etico, diventa indispensabile azzoppare nell’immagine pubblica chi vi si frappone come il solo ostacolo morale cia delle responsabilità, la vicinanza alle vittime e l’inderogabile espiazione dei colpevoli. A dire il vero, uno sguardo appena appena non prevenuto sulle vicende nelle quali si tenta di coinvolgere direttamente il pontefice può facilmente notare come la chiamata in causa sia capziosa e fondata su indizi del tutto labili: sia per quanto riguarda la lontana stagione di arcivescovo di Monaco sia per il lungo ministero alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede. Piuttosto pro-
siero unico”dominante. A partire probabilmente dall’acuto lavoro di riconciliazione tra ragione e fede, fino al coinvolgimento dei non credenti sui temi profondi della vita e della morte, in nome di una perenne e fondante moralità della condizione umana.
di Giuseppe Baiocchi
cite di una sessualità senza freni e senza regole, compresa la tendenza a “liberare” presto i bambini dalla loro innocenza. E se avanza e trionfa il relativismo etico (con la libertà sessuale come fortissimo detonatore), diventa utilissimo, se non indispensabile, azzoppare nell’immagine pubblica chi si frappone come ostacolo morale. E il timido professore bavarese vestito di bianco è apparso in questi anni un osso duro, e probabilmente più efficace di quanto si potesse supporre nel contrastare il “pen-
Il Vaticano risponde al “New York Times”
«Mera speculazione» CITTÀ DEL VATICANO. Dopo le rivelazioni sul caso del prete americano i cui abusi sui bambini sordomuti sarebbero stati coperti dalle gerarchie vaticane, il quotidiano americano New York Times ieri ha dedicato un nuovo capitolo dell’inchiesta che mette al centro della polemica il Papa. Questa volta il caso è quello del sacerdote tedesco Peter Hullermann, riconosciuto colpevole di abusi ai danni di minori e poi reintegrato nel lapastorale voro mentre era ancora in terapia psichiatrica negli anni in cui Joseph Ratzinger era arcivescovo di Monaco. Quando la vicenda è emersa, poche settimane fa, l’arcidiocesi di Monaco ha rilasciato una dichiarazione dell’allora vice di Ratzinger, Gerhard Gruber, che si è assunto tutta la responsabilità per il mancato intervento a carico del prete pedofilo. Ma il Nyt sostiene l’esistenza di una memoria
informativa consegnata al futuro Papa in cui lo si metteva al corrente del reintegro di Hullermann. Il documento, «la cui esistenza è confermata da due fonti ecclesiastiche - scrive il Nyt - dimostra che non solo Ratzinger presiedette un incontro il 15 gennaio 1980 in cui fu approvato il trasferimento del prete, ma fu anche informato della ridislocazione del sacerdote». Il Vaticano ha smentito le notizie tramite il portavoce padre Federico Lombardi il quale ha detto che l’allora arcivescovo di Monaco, Joseph Ratzinger, «non sapeva della decisione di reinserire il sacerdote nell’attività pastorale parrocchiale» e che l’articolo del qutodiano americano «non contiene alcuna nuova informazione oltre a quelle che la Arcidiocesi ha già comunicato», ragione per la quale «ogni altra versione» è una «mera speculazione».
Nel caricarsi sulle gracili spalle il peso di un pontificato con quest’impronta di un conflitto culturale senza quartiere, Ratzinger deve certamente aver messo nel conto la serie concentrica di attacchi che avrebbe ricevuto. E pure l’ampiezza di quel “fumo nel tempio” di cui già Paolo VI aveva colto l’odore infernale. Troppi “incidenti comunicativi” interni al Vaticano hanno già costellato il suo intenso ministero: dai fraintendimenti sul discorso di Ratisbona alle ambigue reticenze sul caso Boffo, fino al pasticcio sul recupero dei lefebvriani che lo costrinse a scrivere di persona una documentata spiegazione per i vescovi di tutto il mondo. Così, forse, si spiega ancor di più un altro passo della stessa meditazione di quella Via Crucis del 2005: «…Con la nostra caduta, Cristo, ti trasciniamo a terra, e Satana se la ride, perché spera che non riuscirai più a rialzarti da quella caduta… Tu, però, ti rialzerai. Ti sei rialzato, sei risorto e puoi rialzare anche noi…». Certo, secondo i criteri di analisi terrena, non c’è dubbio che il Papa viva una condizione di difficoltà. E la Chiesa che è tenuto a guidare sta soffrendo una fase di grave perdita di influenza, di prestigio e di potere. Eppure, nonostante la stanchezza evidente, stupisce il mite coraggio con cui Benedetto XVI non defletta di un millimetro dalla via tracciata e rifiuti di aprirsi ad un “modus vivendi” meno spigoloso con la cultura e i valori del tempo presente. Davvero allora ha già previsto la sorte del “piccolo gregge fedele” e delle tante pecore disperse. Sorretto, come proprio appare, dal mandato più misterioso e umanamente più scomodo affidato dal Fondatore (e che spesso non sembra toccare molti alti prelati più inclini all’onor del mondo): «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate…».
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
SALVATORES Da ieri nelle sale
FORMATO FAMIGLIA di Anselma Dell’Olio
er amor di patria si scrive poco di cinema italiano in questa rubrica. È schermo del primo per entrare nel secondo. In Bellissima di Luchino Visconti, Bello piacevole perciò poter condividere il divertimento per Happy Faun vero regista (Alessandro Blasetti) fa il casting per una bambina che deve recitare in un suo film finto. Anna Magnani impersona una madre mily, il nuovo film di Gabriele Salvatores (Mediterraneo, Io è l’aggettivo nel vero film di Visconti, che porta la figlioletta (una vera attrice non ho paura). La storia è più ambiziosa nella costruzioche si addice ad “Happy nel vero film di Visconti) a fare un provino per il ruolo prinne che nei contenuti, poiché è un metatesto in cui il protafamily”, un metafilm cipale nel falso film di Blasetti. Ci sono infinite variagonista è anche lo sceneggiatore del film, come lui zioni per fare cinema che si rivela come tale in stesso ci comunica, parlando direttamente al in cui protagonista e sceneggiatore corso d’opera. Si diceva che è rischioso: svepubblico. Tirare giù la «quarta parete», quel sono la stessa persona. Girato con maestria, delicato lando il trucco, si rischia di rompere definitidiaframma virtuale che per tacito accordo esie divertente, ha tempi e ritmi perfetti. vamente l’incanto o «sospensione d’incredulità» ste tra il pubblico in sala e gli attori sulla scena, è azzardato e a rischio di fallimento, ma non è una novità. che ogni narrazione inventata richiede, perché chi assiUn’esplosione di energia vitale Senza aggrovigliarci nella teoria, basti dire che «metacinema ste possa calarsi in un mondo di fantasia. La sceneggiatura di color rosso che è fiction che medita su se stessa senza smettere d’essere fiction». Happy Family è di Alessandro Genovesi, nasce come testo teatraricorda Klee... le, e né l’autore né il regista hanno interesse a fare uno sterile gioco inLo ha fatto con successo Woody Allen in La rosa purpurea del Cairo, in tellettuale di «decostruzione» del testo. cui c’è un film «finto» nel film «vero», con personaggi che scendono dallo
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Parola chiave Vento di Sergio Valzania Tre monologhi dall’aldilà di Maria Pia Ammirati
NELLE PAGINE DI POESIA
Vinicius, Ungà e la saudade del tuffatore di Leone Piccioni
Jimi Hendrix, sciamano dell’utopia di Gennaro Malgieri L’amarcord di Gianni Brera di Pier Mario Fasanotti
Da Lenci all’informale il magistero di Torino di Marco Vallora
salvatores formato
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tivi. Lei fa la traduttrice di guide turistiche e lui prepara costose barche da diporto e poi consegna le medesime ai proprietari in giro per il mondo. Perennemente abbrustolito («abbronzato» non rende l’idea), è un fricchettone attempato che fuma spinelli e veste camice hawaiiane e pantaloni da spiaggia in ogni occasione. Marta (una punk musona) odia la madre come tutte le teenager; il progetto matrimoniale di Filippo è una ciambella di salvataggio per lo smarrimento adolescenziale in cui si sente annegare. Non sono né ricchi né poveri. Nella calura estiva, Ezio il narratore-in-cerca-di-una-storia (o di un ubi consistam) girando in bicicletta investe Anna: lui finisce in ospedale con ferite lievi. Lei si sente in colpa perché stava attraversando col rosso, e per riparare lo invita alla cena organizzata per conoscere i futuri suoceri del figlio. Non succedono cose sconvolgenti e indelebili nel film; si sente molto l’ammirazione di Salvatores per il cinema di Wes Anderson (I Tenenbaum, The Fantastic Mr. Fox) in particolare Darjeeling Express del 2007, un on-the-road di tre fratelli americani, depressi, drogati e litigiosi, durante un viaggio in India dopo la morte improvvisa del padre, intrapreso per ritrovare la madre, diventata suora alternativa in un ashram, e l’unità perduta. Di quel film, Happy Family convoglia, a modo suo, il tocco leggero, onirico e grazioso, l’attenzione per bizzarrie e difetti dei personaggi, l’amore per la famiglia, e la difficoltà e di sopportarla e di farne a meno. È molto vicino allo spirito di Anderson la leggiadria generale e delle battute, spesso buttate via, raramente enfatizzate. Vincenzo corregge la madre svampita quando cerca di servire per la terza volta il primo: «Mamma, l’abbiamo già mangiato e pure il secondo, ora porta il dolce». E lei mormora, portando via il carrello: «Va bene, ma così la pasta si fredda».
Genovesi e Salvatores sembrano interessati sopratutto a gettare la maschera d’autore. Il protagonista del film è Ezio (il comico Fabio De Luigi), un ragazzone di trentotto anni che anche in giacca e cravatta sembra un letto disfatto; vive di rendita (il padre ha inventato quella pallina per il detersivo della lavatrice. Ogni volta che fate il bucato, lui incassa). La famiglia non c’è più, ed Ezio è solo, scaricato dalla fidanzata che lo accusa di essere un inetto, uno sfaticato che non ha mai lavorato un solo giorno, né ha combinato qualcosa in vita sua, un perdigiorno buono solo a consumare la tappezzeria e che lei si augura di non incontrare mai più. Ezio è desolato e si mette davanti all’unico strumento di lavoro che possiede - un computer - deciso a diventare uno scrittore. Prende una piega divertente quando, guardando in macchina, dunque rivolgendosi a «noi», butta lì «sarei anche a corto d’idee, ma non fa niente». Il pressbook spende molte parole per descrivere il film: «… confessione camuffata, diario smascherato, una commedia che parla della paura di essere felici, di cambiare la nostra vita per qualcosa che non conosciamo. Un esorcismo della noia di una lunga estate silenziosa in città, di desideri e paure, di essere troppo, di non essere nessuno». L’ultima è la frase che conta. Rende meglio la locuzione anglosassone to be at loose ends: essere sfilacciati, come stringhe di scarpe non annodate, o con espressione più cruda «un cane senza collare». Succede quando ci troviamo improvvisamente senza impegni, senza qualcuno che ci aspetta o che attende qualcosa da noi. Si apre un vuoto esistenziale che può mandare in crisi per la sparizione di ogni cosa che contribuisce a definire chi siamo e cosa campiamo a fare. E a mandarci in crisi, sempre ci riesce. Come dice Ezio nella sua narrazione, che non è fastidiosa né serve a nascondere lacune di sceneggiatura, ma n’è parte integrante: «Non avere niente da fare è la cosa più brutta che ci sia. L’altra è morire, ma non divaghiamo».
Forse perché Ezio non ha più ragazza né famiglia, ne inventa un paio, raccontando la storia di due famiglie, costrette a incontrarsi perché i rispettivi figli di sedici anni, Marta e Filippo (Alice Croci e Gianmaria Biancuzzi, esordienti) hanno deciso di sposarsi. È una bella trovata, insolita, che serve come gancio per entrare nel racconto e metterlo in moto. Ma come con il MacGuffin di Hitchcock, è un espediente che non ha molta importanza. Vincenzo e Anna Agosti sono i genitori di Filippo (il padre vero è un altro, ma dal giorno che se n’è andato il ragazzo non ne vuole sapere), un adolescente nato vecchio che detesta i compagni di scuola brufolosi e cialtroni, e vuole sposarsi non solo perché «ho trovato la donna della mia vita e non ha senso aspettare oltre», ma anche per differenziarsi dalla marmaglia d’impresentabili coetanei da cui si sente circondato.Vincenzo (un morbido Fabrizio Bentivoglio) ha una figlia di ventisette anni da un precedente matrimonio, Caterina (Valeria Bilello), una pianista classica di talento. È rientrata da poco in Italia da Londra, sola e depressa per la fine di un lungo rapporto; è convinta di puzzare «come tutti quelli di pelo rosso». Anna (Margherita Buy) è preoccupata perché da tre mesi non fa l’amore con Vincenzo: teme di non piacergli più. Il marito ha appena saputo di avere un tumore ma per ora tiene per sé la notizia. La mamma di Vincenzo (Corinna Augustoni) ha l’Alzheimer e ama cucinare. La famiglia Agosti è molto agiata. Marta ha Papà e Mamma (Diego Abbatantuono e Carla Signoris) senza altri appellaanno III - numero 12 - pagina II
famiglia
HAPPY FAMILY GENERE COMMEDIA DURATA 90 MINUTI PRODUZIONE ITALIA 2010 DISTRIBUZIONE 01 DISTRIBUTION
REGIA GABRIELE SALVATORES INTERPRETI FABIO DE LUIGI, DIEGO ABATANTUONO, FABRIZIO BENTIVOGLIO, MARGHERITA BUY, CARLA SIGNORIS
Durante la cena per le due famiglie ed Ezio, la nonna dimentichina è assistita da una coppia indiana in costume nazionale. Sono lì solo come omaggio al cineasta texano. In molti film del regista di I Tennenbaum è presente un personaggio indiano, spesso servitore e confidente dei protagonisti. (Darjeeling Express, poi, è girato interamente in India). Ancora più evidente è l’estrema cura del production design, merito di Rita Rabassini, bravissima; nei titoli è definita con semplicità «scenografa», con un’eleganza e un’abnegazione quasi sconosciuta nel cinema. Salvatores padroneggia bene i lati tecnico-artistici del suo mestiere. Gira con maestria; ogni inquadratura è composta come un quadro e mai in maniera leccata o leziosa.Tutto è al servizio della storia e degli attori. I colori sono quelli pastello dell’estate: Milano non è mai stata cantata in maniera tanto solare, soave, sognante. Piazze, palazzi, monumenti, impianti industriali, sono ripresi con infinito trasporto per la città e i suoi luoghi topici. In quasi tutte le scene è presente una piccola esplosione di rosso: negli abiti degli studenti a scuola, di Caterina e di altri personaggi, nei palloncini, nei semafori, nell’arredamento: il colore dell’energia vitale. Ricorda i quadri di Paul Klee, con quelle punte di rosso acceso che attirano l’occhio e mettono tutta la composizione a fuoco. La scenografia ha un ruolo decisivo nel racconto (come in Anderson); resta nella memoria più di tanti altri aspetti. Non è una debolezza ma la forza di un film delicato che sfiora l’evanescenza. Tempi e ritmi sono perfetti, si ride, e perfino la morte è trattata con garbo da questi personaggi in cerca d’armonia ed equilibrio. Finalmente si può dire «è bello», senza sentire la necessità di aggiungere «per un film italiano».
MobyDICK
parola chiave
l vento è una presenza costante nella nostra vita. I pesci nuotano nell’acqua; noi uomini e donne ci spostiamo sulla terra, ma sempre avvolti dall’aria. Quando vogliamo uscire dalla nostra biosfera, dalla sottile fascia atmosferica nella quale siamo adatti a vivere, per esplorare gli abissi del mare o le profondità dello spazio dobbiamo portarci dietro l’aria, che ci serve in ogni momento, letteralmente a ogni respiro. L’aria che si sposta, dolce nella brezza e impetuosa nell’uragano, è il vento. A stretto rigore si tratta di un movimento più che di un qualcosa dotato di esistenza propria. O di qualcosa che per esistere ha bisogno di un prima: è fatto dell’agitarsi di altro. Grande compagno d’avventure del vento è il mare. Che si tratti di materia da marinai è confermato dal fatto che a governare i grandi teloni che proteggevano il pubblico del Colosseo quando era in attività erano stati scelti uomini di mare, esperti nel maneggiare le vele.
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Il vento ha costituito la prima fonte di energia rinnovabile della storia. Popoli che hanno disboscato l’Europa e il nord dell’America per procurarsi il legname necessario al loro riscaldamento e alle loro industrie, oltre alla costruzione di case e navi, hanno conquistato il mondo spostandosi a bordo di navi a vela, mangiando un pane di grano macinato dai mulini a vento. Milioni di tonnellate di beni di ogni tipo hanno viaggiato sostenuti dal mare e sospinti dal vento. Le moderne pale eoliche ricostruiscono una sapienza all’uso del vento che nel Novecento si era spenta. Allora i mulini avevano smesso di funzionare costringendo Don Chisciotte a lottare con giganti nuovi come le dinamo e i generatori, le fucine e gli altiforni. Decisivo per il marinaio, il vento è importante anche per l’agricoltore, che deve conoscerlo e riconoscerlo. Dal suo arrivare e dalla direzione dalla quale si presenta il contadino sa che tempo farà e come va organizzato il lavoro dei campi. Per l’uomo di città la meteorologia ha perso d’importanza, la sua vita non cambia con il passare delle stagioni. Il vento è una scomodità quando rovescia gli ombrelli e uno strano incontro nei periodi di vacanza, al mare o in montagna, quando scompiglia i capelli in modo pittoresco o crea qualche fastidio sollevando le onde del mare e impedendo le gite in pattino. L’inurbamento aveva segnato anche per gli aquiloni una stagione di esilio dal cielo. Per fortuna sono ricomparsi. Le scritture furono redatte da uomini antichi, più prossimi di noi alla natura nelle sue manifestazioni primarie. Loro il vento lo conoscevano bene, era una presenza quotidiana, molti abitavano nelle prossimità del deserto, che in qualche modo è la sua casa, e spesso ricorrono a lui nello sforzo di parlarci del loro dialogo con Dio. Splendido l’avvio del Qoelet, dove attraverso il vento si dice della continuità del tempo nel quale l’uomo si dibatte in cerca di una ragione per il proprio essere. «Il
VENTO
È una presenza costante nella nostra vita, sempre avvolta dall’aria. Ed è la prima fonte di energia rinnovabile della storia. Del resto gli antichi, così prossimi alla natura, lo conoscevano bene. Tanto da ricorrere a lui per parlarci del loro dialogo con Dio
L’abbraccio del Padre di Sergio Valzania
Molti eventi narrati nella Bibbia si devono ai suoi effetti: l’ottava piaga d’Egitto, l’attraversamento del Mar Rosso da parte degli Ebrei in fuga. Spesso utilizzato come metafora, nel Qoelet è il simbolo dello smarrimento e della confusione degli uomini. Mentre nel Nuovo Testamento… vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna» (Qo 1,6). Questa entrata è seguita dalle riprese che fanno da contrappunto alla riflessione sulle vanità del mondo. «Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole ed ecco tutto è vanità e un inseguire il vento» (Qo 1,14); «Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, è ho compreso che anche questo è un inseguire il vento» (Qo 1,17); «Ecco, tutto mi è apparso vanità e un inseguire il vento: non c’è alcun vantaggio sotto il sole» (Qo 2,11). Il tema è ripreso ancora in seguito, creando una parte della magia poetica
di questo libro della Bibbia interpretato nei modi più diversi. Secondo alcuni contrassegnato dal più cupo pessimismo e secondo altri gioioso canto alla vita, fragile e dal significato oscuro, ma parte del grande progetto divino. Molte volte nella Bibbia Dio agisce proprio attraverso il vento, suo strumento operativo, verrebbe da dire, nella liberazione degli Ebrei dalla prigionia in Egitto e nel loro accompagnamento attraverso il deserto. È il vento a portare l’ottava piaga d’Egitto: «Il Signore diresse sul paese un vento d’Oriente per tutto il giorno e tutta la notte. Quando fu mattina, il vento d’Oriente aveva portato le cavallette» (Es 10,13). Di nuo-
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vo è il vento a consentire agli Ebrei l’attraversamento miracoloso del Mar Rosso: «E il Signore durante tutta la notte risospinse il mare con un forte vento d’Oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero» (Es 14,26). Il dono del cibo è portato anch’esso dal vento: «Intanto si era alzato un vento, per ordine del Signore, e portò quaglie dalla parte del mare e le fece cadere presso l’accampamento» (Nm 11,31). La maggior parte delle volte che compare nelle scritture, il vento è però utilizzato come metafora. La sua natura profonda pare essere quella esplicativa: basta nominarlo e per tutti è chiaro il senso di quello che si sta dicendo. La sua immagine è netta, fa parte della quotidianità dell’esperienza, pur conservando un carattere elusivo. È il tatto il senso con il quale ne riconosciamo la presenza, ma i suoi effetti sono evidenti alla vista e all’udito, se ci troviamo in campagna all’aperto. Quando passa, le foglie degli alberi si agitano e nei momenti di violenza arriva a sradicare i tronchi. Il profeta Osea minaccia in un modo divenuto proverbiale: «E poiché hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta» (Os 8,7). Nel libro dei Proverbi troviamo «Chi crea disordine in casa erediterà vento» (Pr 11,29) e «Il gocciolio continuo in tempo di pioggia e una moglie litigiosa si somigliano; chi la vuole trattenere, trattiene il vento» (Pr 27,16).
Nel Nuovo Testamento il vento appare più raramente. In Matteo c’è un racconto di tempesta. I discepoli salgono su di una barca per attraversare il lago di Tiberiade. Con loro è Gesù, che durante la traversata si addormenta. Allora si scatena il maltempo, in modo così violento da spaventare gli apostoli, alcuni dei quali pure sono pescatori. Svegliano il Cristo e lo supplicano: «Salvaci, Signore, siamo perduti!» (Mt 8,25). Una scena di affidamento, ma anche di sfiducia. La presenza fisica di Gesù al loro fianco non sembra sufficiente a garantire la salvezza. Gli uomini sono deboli, hanno sempre bisogno di un conforto ulteriore, di un gesto miracoloso, di un segno esplicito. La loro fede è sempre incerta. Gesù lo fa notare ai discepoli, prima di comandare alla tempesta di placarsi. La fiducia degli apostoli è tanto dubbiosa che al gesto miracoloso segue lo stupore ed essi si dicono l’un l’altro: «Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono?». Giovanni riporta un’occasione, spesso citata, nella quale è Gesù stesso a utilizzare la metafora del vento, mentre parla a Nicodemo, spiegandogli che per vedere il Regno di Dio occorre «rinascere dall’alto». Alla richiesta di spiegazioni «Come può un uomo rinascere quando è vecchio?», il capo della sinagoga si sente rispondere che «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8). Quello che nel Qoelet è il simbolo dello smarrimento e della confusione degli uomini si è trasformato nel grande abbraccio con il quale Dio accoglie i suoi figli.
Spoon un nome, uno stile MobyDICK
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cd
musica
di Stefano Bianchi
abbè. Non è che le posso conoscere tutte, le band dell’orbe terracqueo. Capita, ogni tanto, che me ne sgusci via qualcuna. Le cose sono andate così: il 4 marzo, in tivù, nella parte conclusiva del David Letterman Show dedicata come d’abitudine al rock dal vivo, entra in scena un quartetto che attacca con un pezzo tirato e senza fronzoli: drumming bello potente, chitarra che dopo un po’ se ne va in distorsione, contrappunti di tastiere, voce acidula. Perbacco. Si chiamano Spoon, hanno appena eseguito Got Nuffin, arrivano da Austin (Texas), raccolgono meritati applausi e Letterman consiglia di acquistare il loro album intitolato Transference. Mai sentiti prima.
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Bravi, dico fra me e me, per essere debuttanti. Dopodiché faccio una rapida ricerca su Internet (così, per scrupolo, saltellando fra Wikipedia e il loro sito) e scopro che non sono absolute beginners: esistono dal 1993 e il nome (cucchiaio) è un affettuoso omaggio ai krautrockers tedeschi Can, i quali inserirono Spoon nel long playing Ege Bamyasi del ’72. Quel brano, in seguito, fece da tema principale del thriller televisivo Das Messer trasformandosi in un grande successo. Vado avanti, nella convinzione che Transference sia (a dir tanto) la terza o quarta incisione dei quattro, di cui nel frattempo ho raccolto nomi, cognomi e strumenti: Britt Daniel (voce, chitarra),
Eric Harvey (chitarra, tastiere, percussioni), Rob Pope (basso), Jim Eno (batteria). E invece, con Transference fanno sette dopo Telephono (’96), A Series Of Sneaks (’98), Girls Can Tell (2001), Kill The Moonlight (2002), Gimme Fiction (2005) e Ga Ga Ga Ga Ga (2007). E mica ci possiamo dimenticare The Nefarious EP del ’94: un poker di brani tanto per gradire, di quando il gruppo era appena sbocciato con Britt Daniel e Jim Eno reduci dall’esperienza rockabilly negli Alien Beats. Gli Spoon, insomma, hanno un curriculum che tanto di cappello. E caspita se funzionano, in questo disco che ha debuttato al quarto posto della classifica americana Billboard 200 vendendone cinquantatremi-
la copie nella prima settimana dall’uscita. Oltreoceano, c’è chi ha definito la loro musica spoon-ish, quasi si trattasse d’una categoria a parte. Io, invece, la classifico asciutta e immediata: un azzeccato crossover di rock, schegge di new wave, funk e chi più ne ha più ne suoni. Tant’è che iniziano acustici e ossuti, con Before Destruction, tirando in ballo il folk e un canto che insegue Michael Stipe dei R.E.M. Cambiano registro col passo spinto (molto british, poco americano) di Is Love Forever? e Trouble Comes Running , che culminano con un non so che di Beatles, e voltano ancora faccia funkeggiando alla grande con The Mystery Zone: giro di basso stile Another One Bites The Dust dei Queen, fusione a freddo di Cake e Talking Heads. E se Who Makes Your Money, felpata e avvolgente, punta alla soul music, il lessico di Written In Reverse (pianoforte da brividi, voce da John Lennon) e di I Saw The Light è limpidamente blues. Apro parentesi: quest’ultima, si blocca all’improvviso per poi ripartire come una jam session frullando elettricità e psichedelìa. E sa tanto di work in progress anche Nobody Gets Me But You con quell’avvicendarsi di funky, discomusic, technopop anni Ottanta e il piano che a un certo punto fila in dissonanza con la chitarra elettrica. Mi piacciono, gli Spoon. Li ho scoperti fuori tempo massimo? Vabbè, vorrà dire che per punizione mi procurerò gli altri dischi. Spoon, Transference, Anti-Records/ Spin-Go!, 17,90 euro
in libreria
mondo
riviste
DIARIO DI UN MELOMANE
ARRIVA L’UNIVERSAL DISCOUNT
UN CAJCOVSKIJ D’ANNATA
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ercava la novità perché inseguiva lo stupore; e sentiva l’esigenza inderogabile di cambiare e trasformarsi perché si trovava in continuo divenire, sempre in stato larvale. Quando la musica assumeva le ali magnifiche della farfalla, la lasciava cadere per ricominciare da capo». Il famoso giudizio di Gianfranco Salvatore coglie appieno l’incessante lavoro di ricerca di
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na discesa inarrestabile, che nel primo trimestre del 2010 ha segnato un ulteriore calo di vendite del 14,5 per cento. Il mercato musicale continua a contrarsi, e le major corrono ai ripari con colpevole ritardo. Visto il fallimento di operazioni promozionali dai risultati incerti, che sempre avevano dribblato l’annosa questione dei costi, la Universal ha deciso di affrontare la
a mia Ouverture sta andando avanti sempre più velocemente; la maggior parte è stata già imbastita e una parte considerevole di quello che tu mi suggeristi di fare è fatta. In primo luogo, la trama è vostra: l’introduzione che ritrae il frate, il combattimento-Allegro, e l’amore-il secondo soggetto». Così scriveva Cajkovskij al collega Milij Balakirev, in seguito alla visita
Miles Davis racconta la sua parabola artistica nella nuova edizione della sua autobiografia
La major americana affronta per prima la crisi discografica: nuovi cd in vendita a sei dollari
“Amadeus” presenta la prima versione del “Romeo e Giulietta”: dirige Vladimir Jurowski
Miles Davis. Una persistente evoluzione stilistica, intimamente legata alle tormentate vicende personali narrate dal musicista in Miles - L’autobiografia (Minimum Fax, 579 pagine 20,00 euro), da pochi giorni in libreria in versione arricchita da contenuti extra. Gli amici, le donne, la famiglia, il vicolo cieco dell’eroina, la costante battaglia contro i pregiudizi razziali: tutto trova posto in pagine che sembrano evocare un grandioso kolossal hollywoodiano ricco di grandi coprotagonisti, da Charlie Parker a John Coltrane, da Jean-Paul Sartre a Ronald Reagan. Una lunga cavalcata dal bepop alla fusion, che abbina piglio battagliero e formidabili nozioni creative.
questione: i nuovi cd dell’etichetta saranno messi in vendita a un prezzo tra i sei e i dieci dollari. Dietro la retromarcia, c’è la constatazione che tenere alti i costi o maggiorarli nel caso di poco appetibili contenuti extra, è una strategia giurassica. La casa discografica venderà pertanto oltre i dieci dollari soltanto prodotti di particolare pregevolezza, mentre il catalogo in rete non subirà rincari. I vertici di Universal fanno sapere infine che agli esercenti spetterà il venticinque per cento a disco. Dopo l’ostinato testacoda, le major indulgono a più miti consigli.
che ispirò al compositore russo la prima stesura di Romeo e Giulietta. E proprio la versione originaria dell’opera, poi riveduta e corretta nell’estate del 1870, è al centro delle attenzioni di Amadeus. Riproposta sotto la direzione di Vladimir Jurowski, e suonata magnificamente dalla Russian National Orchestra, anche la prima edizione dell’opera presenta molti punti di interesse: a partire dall’incipit, dove fagotti, violoncelli e bassi intessono melodie alquanto sobrie: nulla a che vedere con la fascinazione corale che i clarinetti seppero immettere nella stesura definitiva. Una pietra miliare, che pure in foggia di diamante grezzo, non risparmia incanto e trasporto.
a cura di Francesco Lo Dico
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MobyDICK
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zapping
Wenders e la Calabria: UN EQUIVOCO VOLATILE di Bruno Giurato l Volo di Wim Wenders è un film volatile. Il cortometraggio realizzato per mostrare al mondo che i paesi della Calabria sono un modello mondiale di integrazione tra i popoli (e su cui Agazio Loiero sta spendendo la campagna elettorale dopo il disastro di Rosarno), al momento non si può vedere. C’è stata un’anteprima romana, ma a quanto ci dicono dalla Calabria Film Commission, non ci sono copie disponibili in dvd e si sta ancora lavorando sulla distribuzione. E ci sarebbe da chiedersi una cosa riguardo al contenuto del film: nei paesi calabresi in oggetto (Badolato, Riace, Caulonia, Stignano) questa benedetta integrazione c’è davvero, oppure si tratta della solita trasfusione di soldi pubblici che serve a tenere in piedi politiche sociali stentate? Ed è davvero possibile l’integrazione dove non esiste un tessuto sociale ed economico in grado di inserire i nativi, figuriamoci gli immigrati? Interrogativi di un certo peso. Ma a noialtri musicanti, e per di più con la moglie bella, interessa il lato sonoro del film. Arriva in Calabria Wim Wenders, quello di Ray Cooder, quello che con Buena Vista social club ha regalato una vecchiaia economicamente serena a tanti geni poveri habaneri, arriva Wenders in Calabria e come minimo dovrebbe affidare la colonna sonora a musicisti locali, che ci sono, e hanno lavorato bene a livello nazionale. Dai Quartaumentata agli Scialaruga, dai Marvanza a Mimmo Cavallaro, da Mujura all’Arlesiana Chorus Ensemble. E invece, a quanto ci dicono, la colonna sonora è stata registrata da Alfio Antico. Bravissimo senza dubbio, e senza dubbio siciliano di Lentini (Sr). Siamo a livello spaghetti con polpette in un italian restaurant del Midwest. È uno dei tanti equivoci del Volo, film volatile, molto volatile.
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teatro
Se la divinità si svela nello squallore di Enrica Rosso iaggio al centro dell’uomo dove la solitudine regna sovrana. Quattro atti profani di Antonio Tarantino, premio Ubu per la regia di Valter Malosti. «Io credo, ho sempre creduto che gli dei, i miti, gli eroi non siano mai scomparsi dal nostro mondo… è molto più facile incontrare divinità e figure mitiche tra gli ultimi, tra coloro che non dovendosi rappresentare come entità mondane, come figure rivestite di abiti di scena, di costumi atti a rendere possibile la recita della vita sociale, possono anziché rappresentarsi semplicemente presentarsi e rendersi trasparenti: coloro cioè che lasciano che la luce li trapassi. Sono costoro divinità ignare».Tarantino traccia con una scrittura convulsa, dirompente, dilagante, una mappa degli invisibili in quattro tempi: Stabat Mater, Passione secondo Giovanni (per i quali ha vinto il Premio Riccione nel 1993), Vespro della Beata Vergine, Lustrini. Malosti li ricompone e affida a interpreti eccellenti. Maria Paiato vincitrice del Premio Duse è Maria Croce ha il suo quartier generale in una ex-cabina telefonica ed è una barbona/battona di gran cuore, «un giro di tette non si nega a nessuno», che «tiene il cruccio del figlio» perché «il dottor Ponzio se ne lava le mani e il figlio non torna più». Ben conscia che «l’intelligenza ai poveri non gli fa bene, è un danno», si consuma nell’attesa di Giovanni. Lo stesso Malosti incarna un malato di mente: salta fuori da un tombino e affida la sua sopravvivenza all’autocelebrazione: è convinto
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di essere «Lui» (Dio), vorrebbe tanto fumarsi una MS e spera di tornare a casa per Pasqua; nel frattempo, per ingannare l’attesa parla con un teschio e si fa le pugnette. Mauro Avogadro è invece un padre chiamato a dare l’ultimo saluto al figlio travestito morto in terra straniera; un
monologo catartico di forte impatto. L’ultimo quadro vede in scena Michele di Mauro e Mariano Pirrello come don Chisciotte e lo scudiero Sancho Panza, ma anche come il Gatto e la Volpe. Cavagna, «il re dei gratta, il re dei bugiardi, il re dei coglioni», indossa una collana col Sacro
Cuore di Gesù trafitto da sette siringhe e Lustrini, un povero demente violato in giovane età ed emarginato per sempre, lo segue come fosse la luce dei suoi occhi roteando nell’aria il boa di piume. In un’immaginaria bidonville di ultima generazione ideata da Botto e Bruno, una sconnessa stratificazione di resti urbani, simboli dismessi di un’organizzazione sociale di base, trovano humus adeguato le cinque creature che popolano la tetralogia delle cure. Un luogo non luogo, un letamaio per anime semplici infilzato da pali della luce come fossero le tre croci su cui campeggia la scritta I.N.P.S. Una montagnola formicaio da cui emergono concentrati d’infelicità doppiata dalla follia. Uno squallore animato da bagliori improvvisi di oggetti che si animano o che finiscono di morire, scariche elettriche come stelle comete del degrado che, per un attimo, illuminano (Francesco dell’Elba) e segnano una tregua nelle esistenze cortocircuitate dei protagonisti. Su tutto incombe un cielo multicolor, un orizzonte livido, fotografia di un altrove distante e sciapo si direbbe portatore di disgrazie. Gli intarsi musicali di Giupi Alcaro mediano il trascorrere del tempo e l’apparente illogicità dei fatti.Vestiti da Federica Genovesi con il sapore della libertà, indossano pezzi di vite dismesse, in un trionfo di personalità.
Quattro atti profani, Teatro Duse di Genova fino al 28 marzo, info: tel. 010 5342202 - www.teatro-di-genova.it
jazz
Il ritmo dello stalliere sciancato: alle origini del blues di Adriano Mazzoletti iunge in libreria la riedizione di Blues. La musica del Diavolo che Giles Oakley scrisse nel 1976 e che ebbe una prima edizione italiana due anni dopo, da tempo introvabile, per i tipi dell’editore Gabriele Mazzotta. Il lavoro di Oakley, uno studioso inglese produttore di programmi alla Bbc, è forse l’opera più attenta e completa sulla nascita e lo sviluppo del blues. L’autore non si limita ad analizzare il blues nei suoi diversi aspetti, da quello primitivo alle forme più recenti, ma dedica ampio spazio a quella corrente ancor poco studiata e analizzata conosciuta come Nigger Minstrels. A questo proposito ricordiamo solo alcuni articoli di Jean-Christophe Averty pubblicati, negli anni Sessanta, dalla rivista francese Jazz Hot. Anche il ben noto Harold Courlander nel suo importantissimo Negro Folk Music Usa, non cita
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Edwin Christy e i suoi Christy Minstrels, Dan Emmett e i Virginia Minstrels e Tom Rice che già nel 1828 eseguiva un motivo dal titolo Jump Jim Crow ispirato, sembra, dall’andamento di uno stalliere sciancato di Louisville nel Kentucky. L’epiteto Jim Crow (Jim il Corvo), all’epoca, non aveva ancora assunto la sinistra connotazione razzista che ebbe negli anni successivi. Oakley dedica diverse pagine del suo lavoro al periodo che possiamo individuare fra il 1820 e il 1850 quando alcuni bianchi avevano iniziato a interessarsi ai diversi aspetti della cultura nera. Si trattava della prima di una serie di ondate di assimilazione alla quale molte altre sarebbero seguite. Innanzitutto l’interesse per gli spirituals che «per molti - scrive Oakley - divennero il simbolo di un popolo nobile appena liberato. Negli anni Settanta del secolo XIX, i Fisk Jubilee Singers
con i loro spettacoli presentati con modi accattivanti nelle sale da concerto di tutto il mondo, contribuirono a creare una immagine della musica nera ben diversa dall’originale». Come fece in seguito Paul Robenson, il cui stile era così diverso da quello autentico di Mahalia Jackson o Sister Rosetta Tharpe. Nel capitolo dedicato ai Niggers Minstrels e ai Coon Songs - canzoni sulla vita dei neri
delle piantagioni - l’autore riporta molti dei raccontini che i Minstrels eseguivano nel corso dei loro spettacoli. All’inizio erano bianchi travestiti da neri con faccia e mani tinte con il nerofumo, labbra grosse, naso piatto, orecchie e piedi grandi, capelli crespi e lanosi. E rappresentavano tutti gli stereotipi devianti che all’epoca erano applicati ai neri: vanitosi, pigri, bugiardi, chiacchieroni. Successivamente gli stessi neri crearono i loro spettacoli, presentandosi come Black Minstrels, continuando a prendere in giro se stessi. Volume di straordinario interesse, con capitoli dedicati ai tent shows, ai circuiti Toba, ma anche ai grandi bluesmen, da Ma Rainey a John Lee Hooker. Giles Oakley, Blues. La musica del diavolo, Shake Edizioni, 340 pagine, 18,00 euro
libri Moro, Lady D. e il Poeta MobyDICK
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narrativa
tre monologhi dall’aldilà di Maria Pia Ammirati
ome imparare a essere niente, ovvero come imparare a morire lentamente. Tre monologhi sul crinale dell’inferno della vita prima della fine, la messa in scena della morte violenta di tre icone del nostro tempo, eroi dell’epoca contemporanea forzati alla morte, quasi immolati. È il libro di Alessandro Banda, lo scrittore di Merano conosciuto per le sue prove finemente letterarie concentrate geograficamente in Alto Adige. Un romanzo di voci monologanti che si allontana dai temi e luoghi più usuali, ricordiamo tra gli altri La città dove le donne dicono di no, per affrontare la scabrosa materia della morte violenta ricostruita nelle sue ultime fasi, senza risparmio di particolari. Ma chi muore in questo libro colto, citazionista, saturo di prosa cesellata? Tre nomi importanti che hanno segnato le cronache del secolo scorso: Aldo Moro, Pier Paolo Pasolini, Diana Spencer detta lady Diana. Tre personaggi, mai citati con il loro nome ma denominati come il Presidente, la Principessa e il Poeta, accomunati dalla tragedia di una morte «chiassosa» e crudele, fra loro distanti e diversi. Introdotti da una voce di traghettatore, un anonimo contabile di provincia incaricato di squadernare i fatti così come son stati, comprese le versioni diverse e discordanti, l’uomo si fa mediatore di «parole provenienti dall’aldilà» che arri-
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vano in genere «tra il primo e il due novembre», ma anche in altri momenti perché «i defunti sono imperiosi e poco delicati». Si comincia con l’attacco folgorante della voce di Aldo Moro, la ricostruzione dei fatti di via Fani, la mattanza della scorta paragonata per la velocità e la concitazione dell’azione a un set di un film americano dove gli attori cadono sotto i colpi delle pistole e dei mitra, con improvvisi squarci di involontaria comicità quando il Presidente ricorda che le armi si incepparono più volte, prima di scaricarsi sui cinque uomini della scorta. Il canto del Presidente si modula sul rancore, il rammarico e la pena. Più che di ricordo la voce del morto, il Presidente, narra la prigionia come una situazione dell’assurdo, il rapporto d’ambuiguità con i terroristi (gli uomini barbuti), che si occuparono della detenzione e che ebbero a che fare con Aldo Moro nei mesi della prigionia, fino al giorno dell’assassinio in una mattina ancora scura tra le dune di sabbia. La seconda voce mortale, quella della Principessa, ha il tono languido della donna inconclusa, in realtà vittima del proprio tempo come dei propri
rapporti familiari. Anche qui l’attacco entra d’impeto nei fatti, nella biografia del personaggio in quel preciso dato che caratterizza il destino, che prefigura la morte. Lady Diana ha sposato un uomo ridicolo, disinteressato al suo amore, un uomo che la tradisce ben prima del matrimonio, «il matrimonio del secolo», che nasconde come una facciata di panna bianca la sofferenza e la solitudine della Principessa. L’affannosa ricerca dell’amore è la carrellata di uomini che finisce con la folle corsa nelle strade di Parigi verso una morte ridicola, per mano di un autista ubriaco. Le versioni anche qui s’accavallano: fu attentato o solo sbadataggine, tutto può essere a esercizio dei posteri mai paghi di avere una sola verità. L’ultima voce è quella del Poeta, il poeta maledetto che si presenta nell’ipertrofia tipica che lo caratterizza, attraverso la reiterazione dell’Io. L’ossessione del sesso, la centralità del pensiero come àncora sui fatti del mondo e la spaventosa morte fredda dell’idroscalo declinata nei modi in cui fu e in come avrebbe potuto essere. Alessandro Banda, Come imparare a essere niente, Guanda, 152 pagine, 14,50 euro
riletture
Leo Longanesi e l’Italia del tempo che fu di Claudio Marabini in da ragazzo ho voluto un gran bene ai lunari, al libro dei sogni, alle carte da gioco, alle etichette delle bottiglie, ai ricami ottocenteschi della nonna e a tutte quelle cose che ormai sono giù di moda. Nella vecchia casa dei nonni in Romagna, dove io sono nato il 30 agosto 1905, si conservano ancora sotto campane di vetro i pettirossi e i martin pescatore imbalsamati: là io sono cresciuto, là ho letto le vite dei grandi briganti, là ho imparato i proverbi, là ho saputo che Garibaldi aveva fatto l’Italia, là ho bevuto il primo bicchiere di vino, là, in cucina, fra i vasi di ceramica bianchi, le “mazzette”, i finti piatti cinesi, i bicchieri di vetro verde, fra odore di salvia e di prezzemolo, ho imparato a essere italiano…». Così scriveva di sé Leo Longanesi sull’Italiano del 24 dicembre 1926. E io, con tutto quello che Longanesi ha scritto, mai ho dimenticato quella Romagna,
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quella di Bagnacavallo che per metà almeno è stata della mia famiglia, vicinissima alla città dove da sempre abito. E mi torna in mente un brano dalla Sua signora, un «taccuino» introdotto da Indro Montanelli, dove si legge un brano rapidissimo: «Una casellante, ferma al passaggio a livello, tiene in pugno la bandiera rossa. Sta a gambe larghe, solida, solenne, senza grazia come la Romagna». Sfoglio ancora. Il libro è un veloce viaggio in luoghi diversi. Ci troviamo a Imola, è Natale. Siamo nel ’56. «Sole sui tetti, cappone in tavola, malumore. Il cappone è insipido come la noia… “Quella lì”, dice mia madre, “porterà via anche metà del cappone…”.“L’economia familiare è più forte della parola di Gesù”, dico». Estrema curiosità, anche questa alimentata dal ricordo. Sfoglio: «Ci salveranno le vecchie zie». «Perché è l’amicizia, è la confidenza che, in Italia, tesse le stoffe, fonde i metalli e stampa la latta: è l’unione di più influenze, il fascio di più amici-
zie, l’accordo di più interessi che crea quella forza che piega la legge, che corrompe i costumi, che spezza la concorrenza; è la “pastetta”, la sola, la vera, la grande capacità che domina il mercato». Non so bene perché ogni tanto negli anni sento il bisogno di ritrovare Leo Longanesi, la sua parola, i suoi libri, il suo modo di capirci, di intuire come siamo. La mia impressione è che uno spirito come quello che ci regalarono «maestri» (ci sarà concessa la parola?) come lui e Montanelli non alligni nella nostra «casa»… Qualcosa è venuto meno, siamo tanto cambiati, diversi da quello che eravamo? Il paese è cambiato anche nei ricordi? Ma c’è da chiedersi se l’Italia che «viviamo» ogni giorno, che «sentiamo» alla televisione, che ci «viene incontro» sui giornali e riviste sia quella che vogliamo, che seguiamo con attenzione e con qualche affetto, per non dire con amore. Leo Longanesi non era tipo comodo: ma il paese che lui «sentiva» era sicuramen-
te quello che noi almeno facemmo in tempo a incontrare. Ci basta rileggere La sua signora, L’elefante, quelle indimenticabili Zie di un certo libro che noi facemmo in tempo a godere, anche se i tempi già stavano cambiando: ma non tanto da cancellare il «vecchio» dal «presente» che era intorno a noi, quel «vecchio» che noi desideravamo veder mutato ma in cui eravamo cresciuti e che malgrado tutto amavamo. C’era stato il fascismo, certo. E il mondo - il «nostro» mondo era quasi cancellato. Dovevamo aspettare il nuovo, forse presentendo che il presente sarebbe stato di ardua lettura. Longanesi torna come un vecchio maestro, forse antico ma vivo, vivissimo, che rimane ricco di un presente che a tratti sentiamo come se gli anni non fossero passati. Ma nasce in noi una domanda, profonda e inquietante: quel presente è così vivo in noi da farcelo sentire come un peso, quasi una lunga e indimenticata condanna? E cosa resta dell’Italia che Longanesi amava tanto?
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personaggi
L’agonia di Rimbaud raccontata dalla sorella di Angelo Crespi n una foto del 1908, Isabelle compare di mezzo profilo, le mani giunte sul grembo. È ormai una donna anziana. Da quasi vent’anni suo fratello Arthur è morto. Di lui ci rimane l’effige dell’aeternus puer, dell’eterno giovinetto scapigliato, capace nel giro di una manciata di mesi di cambiare la storia della poesia. Per sempre. Isabelle, invece è destinata a invecchiare. A sopravvivere all’amato familiare di cui nessuno all’inizio aveva ben compreso il genio. Nata nel 1860, di quattro anni più vecchia di Arthur, Isabella nel 1917 morirà dello stesso tumore che aveva ucciso il fratello nel 1891. Dobbiamo a lei la cronaca serrata e sen-
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società
za troppi fronzoli, e per questo ancora più convincente, degli ultimi giorni del poeta dalla vita leggendaria, straordinario scrittore tra i 16 e i 20, e poi girovago in cerca di se stesso tra Europa, Oriente e Africa fino al tragico epilogo a Marsiglia. L’agonia di Rimbaud è descritta con lucidità, quasi fosse un’anamnesi. Dopo un lungo viaggio dall’Africa alla Francia, Arthur viene amputato di una gamba e poi trasportato a Roche nella casa della sorella. Nonostante fosse luglio il clima è rigido come d’inverno, «i campi di grano si erano ghiacciati», il 10 agosto grandina, Arthur lotta con la malattia, alterna fasi cupe a improvvise euforie, medita di ripartire per la lontana Harar, fa progetti nonostante la
diminutio fisica, vuole farsi costruire un arto in legno, prova a usare le stampelle, poi cade in depressione, a volte è annoiato, calmo, altre più tranquillo, e allora racconta di quei suoi meravigliosi viaggi dove la vita vissuta ha preso il sopravvento sulla vita raccontata e sulla poesia. Proprio la poesia. Racconta Isabelle che Arthur in Africa aveva compreso di poter emergere come «letterato» in Francia, ma si rallegrava di non aver portato avanti l’opera intrapresa in gioventù perché «era male». Intanto le sue condizioni peggiorano. Dopo un ultimo trasbordo allucinante, Arthur ritorna a Marsiglia, dove viene alloggiato nell’ospedale de la Conception sotto il nome di Jean Rimbaud. Dai primi di ottobre
inizia la sua personale agonia, magro, pallido, lontana l’energia di un tempo, giorno dopo giorno viene scavato dalla malattia e muore il 10 novembre. In seguito Isabelle annoterà: «Coricato per sempre, soffrendo senza sosta sul suo letto di dolore il più crudele martirio, dal fondo della sua piccola camera d’ospedale, oscurata dalla contiguità di un portico e da folti platani, quali insegnamenti mi ha donato. In quattro mesi mi ha insegnato più che altri in trent’anni. Devo a lui se oggi so che cosa sono il mondo e la vita, la felicità e il dolore. Distingue che cos’è vivere, soffrire, morire». Isabelle Rimbaud, L’ultimo viaggio di mio fratello Arthur, Edizioni Via del Vento, 36 pagine, 4,00 euro
Effetto Tenco, così nacque la canzone d’autore di Giancristiano Desiderio o ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che chiarisca le idee a qualcuno. ciao, Luigi». È il messaggio che fu ritrovato nella stanza d’albergo dove Luigi Tenco si suicidò. Marco Santoro ne ricostruisce la vita, il talento, il sentimento, l’inizio e la fine nell’interessante libro Effetto Tenco. Genealogia della canzone d’autore. Ci si può suicidare per delle canzoni? Se solo avesse aspettato, Tenco avrebbe avuto il giusto riconoscimento. Lo si potrebbe dire con una delle sue più belle canzoni: «Vedrai,
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ricostruzioni
vedrai che cambierà, forse non sarà domani, ma un bel giorno cambierà…». Il bel giorno è venuto e Tenco è stato riconosciuto e celebrato come il cantautore. È pur vero, però, che viviamo in un paese in cui troppo spesso il riconoscimento arriva solo post mortem. Sarebbero tanti i casi che si potrebbero fare in letteratura. Il più noto è quello dell’altrettanto grande Guido Morselli. E non è l’unico. Il libro di Marco Santoro, che insegna sociologia a Bologna, è appassionato, rigoroso, stimolante, curioso, ho già detto che è interessante, insomma è un buon libro. Forse, è anche esagerato. In fondo, anche se si vuole sostenere il contrario, si sta pur sempre parlando di canzonette, di musica «leggera». O no? Comunque, per uno che si è occupato di notai, archivi e professioni simili è un bel salto, non c’è che dire. Ma Tenco? Tenco si sparò e il suo
suicidio produsse un effetto, «effetto Tenco», appunto. Per Santoro la morte sanremese di Tenco il 26 gennaio 1967 fu un «autentico evento» che produsse «una trasformazione profonda delle strutture insieme materiali e simboliche del mondo della canzone italiana». Per dirlo con un esempio ed essere chiari: se Tenco non si fosse ucciso, ci sarebbero stati De André, Paoli, Endrigo, Gaber, Guccini e poi De Gregori, Battiato, Conte, Fossati? Il sociologo sostiene di sì, ma in che modo sarebbero diventati ciò che sono diventati? Quale «effettivo» significato avrebbero avuto le loro canzoni? Come sarebbero state recepite, accolte, ascoltate, interpretate, apprezzate, criticate? La morte di Tenco - è la tesi del libro - ha prodotto, sia davanti a sé, cioè per il futuro, sia dietro di sé, cioè in retrospettiva, la canzone d’autore. Resta una domanda, inutile: ne valeva la pena? Marco Santoro, Effetto Tenco. Genealogia della canzone d’autore, Il Mulino, 280 pagine, 18,00 euro
Roatta e i Rosselli tra novel e storia
di Mario Donati l nostro paese, «l’Italia brava gente», ha sovente avuto «un uomo nero» o, per dirla alla Conrad, «un cuore di tenebra». È l’altra e orribile faccia della medaglia italica, fatta di bonarietà e di approssimazione. Durante il fascismo questo fantasma arrogante che amava imbracciare sempre il mitra si chiamava Mario Roatta, modenese (classe 1887), rapida carriera militare fino ad arrivare al vertice, potentissimo come capo del Sim (Servizio Informazione Militare) che a detta di molti, per efficienza e brutale disinvoltura si pose come modello per tante intelligence. Roatta è stato abilissimo a
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camuffarsi, nella storiografia e perfino da morto (il suo nome non c’è nella lapide). Fu arrestato, fuggì con complicità imbarazzanti, condannato all’ergastolo in contumacia, infine amnistiato dall’allora ministro della Giustizia Togliatti. E così, formalmente, non lo si può additare come l’uomo che, con furbesche trame, dette l’ordine di massacrare i socialisti Carlo e Nello Rosselli, su una strada della bassa Normandia. Erano le 19,30 del 9 giugno 1937. Il regime fascista non poteva permettersi un’azione simile a quella che eliminò Matteotti. La Francia di quel «cane rabbioso» di Léon Blum, «carogna di sinistra» come si diceva negli uffici di Ciano, ministro degli Esteri e gene-
ro del Duce, avrebbe scatenato una reazione internazionale. I papaveri in orbace non stimavano Roatta come stratega, ma sapevano che era l’uomo delle manovre subdole. Il giornalista Ulderico Munzi fa quel che lo storico non osa: scrive un récit, per dirla alla francese, e così la verità storica entra nella cornice della novel. Munzi ha buone fonti e ritrae un militare diabolico, pronto a tutto. Tante le accuse contro di lui. Ma scomodissime se tirate fuori per intero in un’Italia che già dopo il 1943 ballava il valzer dell’«inciucio». Roatta aveva fatto cose orribili. In Croazia avviò la pulizia etnica. Era stimato dal Francisco Franco, molto meno da Mussolini. Considerava Rosselli un
terrorista vestito da intellettuale, capace di sparare a tutti. E così ì due fratelli sono uccisi dalla setta fascista «La Cagoule». Notevole astuzia assoldare solo francesi. Era stato Ciano a chiamare Roatta. Non si poteva farli ammazzare in Spagna, né portarli in Italia. «I miei uomini conoscono il loro mestiere»: assicurò il generale. Compito difficile. Ma non era stato lui, in Etiopia, ad aver ingannato chi accusava l’ esercito italiano di aver usato gas vescicanti? Fino all’ultimo Roatta approfitterà di imbarazzi politici per salvare la pelle. La reputazione no, quella no. Ulderico Munzi, Il generale, Angelo Colla editore, 294 pagine, 18,00 euro
altre letture I complessi, conflittuali rapporti fra il capo del fascismo e il poeta condottiero Gabriele D’Annunzio vengono ricostruiti in un resoconto suggestivo di Carlo Delcroix: D’Annunzio e Mussolini (Le lettere, 95 pagine, 9,50 euro). Un libro scritto a metà fra la memorialistica e la ricostruzione storica, scritto nel secondo dopoguerra da un eroe della prima guerra mondiale. Un testo che costituisce una testimonianza importante rivelatrice delle illusioni, ma anche e soprattutto delle delusioni del mondo degli ex combattenti e dei mutilati. La prefazione di Francesco Perfetti contiene il carteggio inedito tra Delcroix e d’Annunzio.
Il cuore saggio di Jack Kornfield (Corbaccio, 470 pagine, 22,00 euro) è una guida accessibile alla psicologia buddista. Kornfield ha sperimentato di persona il potere di trasformazione degli insegnamenti buddisti sulla vita di chi li pratica. L’autore esamina la guarigione e il risveglio tramite le pratiche di consapevolezza, illustra come si trasformano le emozioni non salutari e spiega quali sono gli strumenti psicologici buddisti dal potere della concentrazione e della visualizzazione agli esercizi cognitivi. L’uomo è un lupo per l’altro uomo, diceva Hobbes. Per secoli filosofi, scienziati, psicologi ed economisti hanno contribuito a diffondere l’idea che l’essere umano sia per natura aggressivo e utilitarista, teso principalmente al soddisfacimento egoistico dei propri bisogni e al guadagno materiale. La storia quindi non sarebbe altro che una lotta senza quartiere tra individui isolati, uniti solo occasionalmente da ragioni di profitto. Ma negli ultimi decenni alcune scoperte nel campo della biologia e delle neuroscienze hanno evidenziato come negli uomini vi sia un corredo istintuale alla collaborazione e alla compassione. Alla luce di questo approccio Jeremy Rifkin propone in La civiltà dell’empatia (Mondadori, 632 pagine, 22,00 euro) una radicale rilettura del corso degli eventi umani. Fino ad aprire la possibilità a una società dell’empatia. a cura di Riccardo Paradisi
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ritratti
JIMI HENDRIX GRATIFICANTI SENSAZIONI, ANGELICHE APERTURE, ARMONIE TELLURICHE... QUESTO ANCORA SUSCITA LA SUA MUSICA, CHE CI RITORNA IN DODICI BRANI INEDITI, COMPOSTI TRA IL 1969 E IL 1970, RACCOLTI IN “VALLEYS OF NEPTUNE”. LA COLONNA SONORA CHE ACCOMPAGNÒ IL SOGNO DI UNA “NAZIONE” HIPPIE CON UN’AMBIZIOSA (E PURTROPPO PERDUTA) IDEA DI LIBERTÀ. UNA MUSICA ANCORA CAPACE DI DISEGNARE IL FUTURO…
Lo sciamano dell’utopia di Gennaro Malgieri apita di tuffarsi in un mondo sconosciuto, in un Oceano di possibilità irrealizzate e di intuizioni non verificabili, in una «nostalgia» (se così si può dire) che ti afferra facendoti inabissare nel futuro. In altri tempi, quando ero soltanto un ragazzo e lontano dal diventare il «ragazzo invecchiato» che sono oggi, avrei detto di essere immerso in un magma psichedelico, percorso da fremiti gioiosi e spinti da pulsioni ribelli. Quarant’anni dopo, chi lo avrebbe detto? Lo devo a un’occasione nella quale non speravo, semplicemente perché ignoravo che qualcuno la stesse approntando per tutti quei ragazzi che nel 1970 avevano diciassette anni. E così la sorpresa è stata più gradevole di quanto potessi immaginare. Ho ascoltato per ore i dodici brani di Valleys of Neptune e ho ritrovato, proprio come lo avevo lasciato, Jimi Hendrix. Se ne andò senza avvertire nessuno, dopo i trionfi di Monterrey, di Woodstock, di Whigt e, pur non avendolo dimenticato mai, tutto mi sarei aspettato tranne che ritrovarlo nei brani che compose tra il 1969 e il 1970, lasciandoli in un qualche studio di registrazione. La sorella Janie (come ha documentato su queste pagine in uno scintillante articolo Alfredo Marziano il 4 marzo scorso) ha rimesso le mani in questo lascito hendrixiano al solo scopo di ricordarci che la musica del genio di Seattle non è ancora finita, miracolosamente. Come non è finita quella Monk, di Davis, di Parker, di Mingus. Con una differenza: la musica di Hendrix è la sola «musica totale» (se il sommo Richard Wagner me lo consente) che al compimento del primo decennio di questo secolo possiamo considerare dell’avvenire, senza neppure provarci a definirla. Jazz, blues, rock, fusion? Tutto questo e niente di questo. Sensazioni. Gratificanti sensazioni di angeliche aperture su armonie telluriche.
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Così riconquistiamo l’Experience, senza dimenticare compagni di viaggio come Noel Redding, Mitch Mitchell, ma anche Chas Chandler e Billy Cox, compendio di una visione della musica che è letteratura, sogno, dolcissimo abbandono (Red House), per riprenderci l’Hendrix più visionario che ci aveva catturato con quattro album in vita e si ripropone oggi, come un «Otello bucaniere arrivato a Camelot», così scrisse Michael Thomas nel 1968, per non andarsene mai più. In effetti, a quattro decenni dalla scomparsa - ebbro, avvelenato e intorpidito dall’amore, mentre accanto a lui dormiva senza accoranno III - numero 12 - pagina VIII
gersi del suo precipitare nel buio Monika Danneman, nella notte tra il 17 e il 18 settembre 1970 - la musica che Hendrix ci ridona è la più moderna possibile dopo gli effimeri trionfi delle avanguardie post underground. A dimostrazione che quando sollevò le sorti di un rock stanco e ripetitivo con Purple haze, Hey Joe, Foxey Lay, Gypsy Eyes,Voodoo Chile - soltanto per citarne qualcuna - la fascinazione del mito colpì nel profondo chi immaginava la propria musica compiuta e definita: Clapton,
epoca, Room full of Mirror, si ascolta: «Vivevo in una stanza/ piena di specchi,/ tutto quello che riuscivo a vedere era me stesso». Lo specchio lo aveva fatto lui, mettendo in una cornice schegge varie, come racconta Charles R. Cross, per avere forse una visione deformata, come la vita di tutti noi, di se stesso, con una differenza: lui era capace di amare le proprie imperfezioni, di accarezzarle, di esaltarle perché umanissime, come umane erano le note di Hey Joe, un lungo struggente urlo, una richiesta di
Le convulsioni della modernità e la caduta degli ideali universali furono denunciati sul grande prato di Woodstock. L’angelo blu di Seattle, simbolo di quella rivolta pacifica, lo comprese prima di altri. Perciò è ancora così attuale McCartney, Townshend, Beck, Richard e tutto il Gotha del pop nella seconda metà degli anni Sessanta. Al punto che non ci fu nessuno a detestarlo, foss’anche per comprensibilissima gelosia.
E del resto che cosa si poteva invidiare a Hendrix, un talento non comune, una sensibilità che trasmetteva incandescenti sensazioni agli ascoltatori, la capacità di suonare il suo strumento come se fosse un’appendice del suo stesso corpo, di far vibrare l’anima di chiunque come mai era accaduto prima ascoltando i celebratissimi Beatles, Rolling Stones, Cream, Jefferson Airplane, Led Zeppelin, e via elencando? Di Hendrix resta la musica, le performance, ma anche i testi di canzoni che sembrano uscite dall’anima di Kerouac, di Ginsberg, di Ferlinghetti, di Corso; ma anche di Eliot e di Pound. In una delle ultime diceva: «La storia di una vita è più rapida di un battito di ciglia». La sua di sicuro. E nel secondo album, quello che si apriva con una versione entusiasmante della beatlesiana Sgt. Pepper’s Loneley Hearts Club Band, in un’altra che avrebbe fatto
comprensione, un mendicare brandelli di anima nel trionfo del nichilismo conformista. «Chiamami angelo blu selvaggio. Il selvaggio angelo blu», disse a chi doveva introdurlo in quello che sarebbe stato il suo ultimo grande concerto, a Wight, il 30 agosto del 1970. Poi volò a Stoccolma e a Fehmarn, in Germania: altre scariche andrenaliche, nonostante la depressione cominciasse a farsi sentire. E infine si fece davvero angelo, in una stanza d’albergo a Londra, in compagnia di Monika, l’ultima Electric Lady che si tolse la vita il 5 aprile 1996, dopo aver trascorso venticinque anni senza Hendrix dipingendo ossessivamente Hendrix in abbracci soprannaturali con lei.
C’era e rimane il senso profondo dell’effimero nelle composizioni hendrixiane. Musica e poesia. Niente, soprattutto oggi, di più trasgressivo. Da qui la sua attualità. La sua stupefacente contemporaneità. Oggi suonerebbe e canterebbe così come lo ascoltiamo in questo album postumo. Perciò chi ebbe la ventura di assistere alla sua performance più riuscita, a Woodstock, ne fece un simbolo, tutt’altro che negativo di una generazione che Valleys of Neptune ci restituisce nella sua genuità. In quell’occasione, Hendrix impugnò come un’arma la sua mitica Fender Stratocaster bianca e, dopo essersi fermato varie volte per accordarla, si produsse in una interpretazione che sarebbe rimasta indimenticabile di The Star Spangled Banner, l’inno americano, sul ritmo di Voo-
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doo Chile. Dalla sua chitarra uscirono suoni distorti, scariche di rumori simili a lontani bombardamenti. Il bassista Billy Cox e il chitarrista Larry Lee stesero le braccia lungo i fianchi e si misero sugli attenti. Il brano catapultò gli spettatori nell’universo lacerato del Vietnam, in quelle paludi dove gli Stati Uniti stavano affondando e i suoi soldati, trasformati in vittime e carnefici allo stesso tempo, respiravano l’odore del napalm immergendosi nell’orrore. Hendrix ridestò così, la mattina del 18 agosto 1969, i superstiti della tre giorni di «musica, pace e amore» di Woodstock. Gli altri se n’erano andati, sotto un temporale improvviso che si abbattè sulle cinquecentomila persone convenute in quel luogo fino ad allora sconosciuto, vicino a Bethel, nella contea di Ulster, Stato di New York, e che fece rimandare di un giorno la conclusione della kermesse. I centottantamila rimasti s’illuminarono improvvisamente ed ebbero la percezione che Woodstock non era stata soltanto una straordinaria occasione d’incontro, un’esperienza tra le tante, come il Monterrey pop festival o la Summer of love a San Francisco, ma l’avvio di una «rivolta» pacifica contro tutto ciò che minava la possibilità esprimere i loro disagi, le loro ansie, la creatività di quella «nazione hippie» che si stava formando al di là delle convenzioni e di un «ordine» tanto sfuggente da sentirlo estraneo se non ostile.
A ventiquattro anni dalle fine della guerra mondiale, attraversati da altri due conflitti, quello in Corea e quello in Vietnam, sempre sul punto di dover prendere le armi contro il «nemico assoluto», l’Unione Sovietica, e in allarme per le installazioni missilistiche a Cuba, i giovani americani di quarant’anni fa più che esorcizzare la violenza che pervadeva le loro coscienze e voleva impossessarsi delle loro esistenze, immaginavano che un altro mondo era possibile. Ma non furono compresi. Così a Woodstock si ritrovarono il 15 agosto ragazzi e ragazze provenienti da tutte le contrade americane, richiamati dagli unici «eroi» che riconoscevano, muniti soltanto di strumenti musicali e di parole tutt’altro che «innocenti» per l’establishment che fati-
cava a comprendere il linguaggio e le aspettative di quei figli dell’America i quali si attendevano da un paese che aveva contribuito a liberare l’Europa di essere essi stessi liberati dai pregiudizi e dalla costrizione a combattere guerre che non li riguardavano: i diritti dei popoli non erano nell’agenda delle amministrazioni statunitensi le quali non avevano neppure l’alibi di voler esportare nelle risaie indocinesi la democrazia, ma soltanto assicurarsi un futuro in un Pianeta inquieto. Woodstock era stato ideato da Michael Lang, Artie Kornfeld, John Roberts e Joel Roseman, quattro «figli dei fiori» con vocazioni manageriali. Avevano in mente un’iniziativa commerciale legata alla costruzione di uno studio di registrazione da mettere su nel villaggio di Woodstock. Poi pensarono a un festival musicale da realizzare nello stesso luogo. L’impresa apparve immediatamente proibitiva. Se non fosse stato Elliot Tiber (che racconta il tutto nel suo libro scritto con Tom Monte, Taking Woodstock, Rizzoli), proprietario di un motel sul White Lake a Bethel, che si offrì di ospitare l’evento, probabilmente i giovani impresari avrebbero lasciato perdere. Ma il fondo di Tiber era troppo piccolo per ospitare una manifestazione ambiziosa. Il giovanotto non si scoraggiò e chiese a un allevatore della zona, MaxYasgur, di affittargli i suoi seicento acri (2,4 Km quadri) per 75.000 dollari. La notizia fece il giro degli Stati Uniti e la contea si trasformò in una bolgia che sorprese gli organizzatori, ma spaventò addirittura buona parte delle autorità e dell’opinione pubblica che vedeva nell’evento una gigantesca manovra «sovversiva».
Uno dei protagonisti di Woodstock, David Crosby, ha raccontato a Rolling Stone: «Pensavamo di essere tutti singoli hippie dispersi. Ma quando arrivammo là, cambiammo idea di colpo. Dal nostro elicottero vedevamo la NY State Thruway bloccata per una trentina di chilometri e una folla gigantesca di almeno mezzo milione di persone: la mente vacillava. Non era mai accaduto prima, pareva quasi che dal nulla fosse emersa una terra aliena». Al-
la tecnica dopo aver ritenuto di sconfiggere l’utopia delle ideologie e delle rivoluzioni. La sola liberazione è riconoscere la persona che agisce in una comunità di uguali cercando di sottrarsi ai condizionamenti dell’avidità. Hendrix lo aveva compreso prima di molti sociologi che, in quel suo tempo ricco di speranze nonostante tutto, non riuscirono a comprendere politicamente l’utopia di Woodstock. Per la sinistra mondiale, legata al mondo comunista, essa rappresentava una distorsione nella lotta contro l’imperialismo. Per i conservatori fu la manifestazione di un «disordine morale». Per Ernesto Assante e Gino Castaldo, che hanno rievocato quell’esperienza nel libro Il tempo di Woodstock, fu il primo grande laboratorio «di prove generali per un mondo libero». Forse fu semplicemente la realizzazione di un sogno che, comunque la si pensi, quarant’anni dopo continuiamo a portarci dentro, convinti che le convulsioni della modernità e la caduta degli ideali universali furono inconsapevolmente denunciati su quel grande prato dove si assiepò una «nazione» senza futuro.
A ventisette anni è troppo presto per morire. Ma quando si è vissuto come se ne fossero passati cinquanta, non si può che allargare le braccia e concludere che soprattutto gli ultimi quattro sono stati al di là di ogni gloria musicale possibile. Dal 1966 al 1970 Hendrix ha innovato radicalmente la musica del suo tempo. Forse si è ancora frastornati dai colori che produsse sui palchi di mezzo mondo per dare un giudizio compiuto di ciò che ha rappresentato. Quell’ostinato distorsore che dava alla Fender sonorità mai ascoltate, quella voce roca, stridula, dolcissima, tenera e graffiante a seconda del brano, quella fisicità che era spettacolare in sé e quelle note tirate all’estremo, dove mai nessuno era riuscito a portarle prima di lui e dopo di lui, quel pedale che diventava incandescente, quella vita che cercava stabilità senza di fatto volerla nella realtà: tutto questo e altro ancora resta di Jimi Hendrix, genio e tormento, rappresentazione di inquietudini plurigenerazionali, fascinoso padrone di cuori avventurosi, ribelle tra i ri-
Suonava la sua Fender come fosse un’appendice del suo corpo, tirandone fuori sonorità mai ascoltate. E le sue canzoni mendicavano brandelli di anima nel trionfo del nichilismo conformista. Per questo si fa ancora amare come un classico tro che un «incubo di fango e stagnazione» animato da «intrusi dall’aria freak», come scrisse il New York Times per correggersi qualche giorno dopo quando ammise che si trattava di «un fenomeno di innocenza» al quale quella massa enorme di giovani aveva preso parte «per avere il piacere di stare insieme, liberi di godere uno stile di vita che è in se stesso una dichiarazione d’indipendenza». C’era qualcosa di più, comunque, a Woodstock. La ricerca di fughe da una opprimente realtà piccolo borghese, per esempio, cui davano voce gli Who, Santana, Joan Baez, Joe Cocker, i Grateful Dead, Crosby, Crosby Stills Nash andYoung, Janis Joplin, i Creedence Clearwater Revival, i Jefferson Airplane, Sly and the Family Stone. E c’era anche il tentativo di denunciare, sia pure ingenuamente, la modernità, l’invasività della tecnica, il dominio dell’utile per un ritorno a un comunitarismo dalle radici rurali, a una certa idea della bellezza. Di tutto questo la musica di Hendrix era la colonna sonora. Lo è stata a lungo. Oggi è un richiamo a un modo impossibile nel quale è proibito sperare, sognare, forse addormentarsi come uomini liberi dai condizionamenti del-
belli. Perché, avvicinandosi l’età grave, non dovremmo continuare ad amarlo come si ama un classico? Me lo chiedo ascoltando Bold As Love e Gypsy Eyes e mi abbandono al sorriso e alla commozione avvicinando con la memoria adolescenziali e appassionati amori che un fuzz box (inquietante per palati deboli) esaltava rimandando melodie diversamente banali eppure appaganti per chi si accontentava di stupidi flirt, molto poco baudelairiani, molto poco hendrixiani. Diremo, noi sopravvissuti, di quella tribù guidata dallo sciamano del suono quanto gli dobbiamo. Ma è presto.Altri precursori hanno aspettato secoli per essere finalmente celebrati. Hendrix viene glorificato dall’industria discografica, ma non basta. Il mito o te lo porti dentro o lo dimentichi. C’è chi non vuole scordare neppure un accordo. Il 20 settembre 1970, su The Observer,Tony Palmer, dando conto delle lacrime di Bob Dylan, di Eric Clapton, di Mick Jagger, scrisse: «Qualsiasi cosa Mozart e Cajkovskij siano arrivati a significare per gli amanti della musica classica, Hendrix ha significato altrettanto, se non di più, per un’intera generazione».
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A più di quarant’anni dalla prima edizione, ritorna “Il corpo della ragassa” iene da dire «peccato». Peccato che Gianni Brera, il più inventivo ed estroso giornalista sportivo del Novecento italiano non si sia preso altre vacanze al mare, in quella Liguria che lui accostava al nativo Pavese cercando e ricercando anelli storici e dialettali, e non abbia fatto uscire dal suo pancione linguistico un altro romanzo come Il corpo della ragassa. Questo straordinario racconto di miseria d’anteguerra, un impasto di rugginoso rancore, di sensualità e di ottusità e povertà rurali, viene riproposto oggi da Book Time (189 pagine, 14,00 euro). Il Brera figlio del sarto-barbiere di San Zenone nel 1968 aveva un’urgenza tutta particolare: Lust zu Fabulieren, impulso a raccontare direbbero i tedeschi, lontano dalle osterie di Monterosso (Cinque Terre), piantato su una sedia del balconcino, sigaro in bocca. Piacere quasi carnale di scrivere con la sua Olivetti Lettera 22, dalle dieci di mattina fino alle tre di notte, ben sapendo che non poteva concedersi più alcuna dilazione. In venti giorni il romanzo è finito. In quelle pagine c’è il suo Po popolato di ghiaiadori, di urla dai barconi e dalle rive, invischiato dalla brina, avvolto dalla nebbia che in novembre fa in modo che quella Bassa lombarda, ruvida, acetosa e dolente, si trasformi nel paese più triste del mondo.
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Palate di ghiaia, vino e gorgonzola, case senza il bagno, passi su scale di legno appesantiti dal vino che ottunde e slabbra i sogni, se ce ne sono, lenzuola col cattivo odore di troppi sonni, manate sul sedere di donne come se fossero asini da far trottare con tutto il loro gustoso carico di carne morbida, ragli e pianti, bestemmie e pudicizie, sesso come arma affilatissima, e unica, in dotazione alle femmine che altrimenti sarebbero solo bestie da soma. Il romanzo inizia con una sorta di indagine. Ma chi indaga si tiene dietro, non ingombra il palcoscenico dell’umanità affaticata e per fortuna sua non cosciente di alternative, sia pur modeste. Personaggi duri come il legno, se non sono donne, il cui imperativo è squallidamente semplice: vivere innanzitutto, godere di qualcosa, mangiare, lavarsi se si può, e fare l’amore.Tutto questo sotto lo scudo maledetto del lavoro che respinge il sole dell’immaginazione e dell’andare lontano. C’è l’orgoglio di denunciare se stessi come «poveri, ma non miserabili». Non sempre convince questo confine, eppure è rivendicato. San Zenone diventa San. Ma il luogo è quello, non c’è alcun camaleontismo geografico. È lì che sta Bibbiana Peroncini detta Binìn, figlia di un bracciante, maîtresse di una casa chiusa. È una quarantanovenne appesantita ma mai dimentica dei suoi «fianchi da signorina» quando faceva perdere la testa ai militari di Udine, bei tempi quelli. Dietro le persiane non ci sono solo profumi di basso costo e occhiate bovinamente maschili. No, non c’è solo carne da macello da consumare su materassi. Annota l’indagatore (alter-ego di Brera): «La gente
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L’amarcord
libri
di Gianni Brera di Pier Mario Fasanotti
Nel suo primo romanzo, il più inventivo giornalista sportivo italiano descrive il mondo dov’è nato e cresciuto. Un racconto di miseria, ottusità, sensualità e rancore, ambientato nella Bassa lombarda ruvida e dolente. Dove lo scrittore incontrò anche il calcio… banale taccia le puttane di grossolana idiozia, per avere sempre un lenone che le sfrutta. In verità, le sole di loro minimamente felici sono quelle che mandano i soldi a un uomo, chiunque egli sia. Così facendo si sentono vive e non proprio affogate nella professione». Binìn manda Francesca detta Cecchina, un gran seno che fa fischiare gli uomini, anche «all’americana», in casa di un ghiaiadore, tale Passlòn Aguzzi. Perché si riposi un poco. Passlòn, deformazione di Pasqualon, è un frequentatore del bordello visto che è vedovo da sette anni. Assieme a lui, in quella casa dove i bisogni bisogna farli fuori, c’è la vecchia zia e Teresa detta Tirisìn, diciannovenne. Cecchina, che conosce per istinto e per esperienza il fiato del desiderio maschile, riconosce nella ragazza la promessa di un’autonomia femminile. È il suo corpo, il «corpo della ragassa», la carta vin-
cente. Ma c’è da lavorarci sopra. Cecchina lo fa con malizia, diremmo proiettiva. In lei si specchia più giovane, a lei insegna non tanto la seduzione quanto la consapevolezza d’essere diversa da un uomo di osteria e da un mulo. Le indica un universo impreciso e lontano raccontando di quella modesta parte di mondo che lei stessa ha visitato, inventandosi un amore gentile (sarà smentita), insinuando nella mente della nuova amica che accanto all’atavica umiltà delle femmine ci può essere l’arroganza di un corpo, da giocare come un asso sul tavolo delle debolezze umane. Cecchina fa la smorfiosa, si muove con un languore connaturato ma ambiguo agli occhi di chi la osserva e la desidera. A poco a poco si adatterà a faticare lungo le rive nebbiose del «fiume traditore». Il sodalizio tra le due donne aumenta d’intensità e si impregna di complicità inusualmen-
te dolce. Tirisìn è per istinto sognatrice. Giorno dopo giorno s’accorge di molte cose. Che, per esempio, il bugliolo con il fango attorno non è cosa da signore. Che il viso può essere aggraziato dalla cosmesi. Che a ballare e a bere si può quasi perdere i sensi offrendo l’insolito spettacolo di sé. E Cecchina insiste, facendo perno sull’esperienza del proprio corpo sodo e abbondante: «Se non c’è l’amore, gli uomini sono peggio dei maiali». Eh sì, mica facile inventarselo l’amore tra fieno e ghiaia, tra faticose albe e sonni che schiantano pure l’anima. Ma c’è un girovago, un furbetto della Bassa. Erminio, sì, potrebbe essere lui.
Ma le vicende corrono e Teresìn si trova a servizio di un dottorone di Pavia, che vive con la sorella. Devoti, abitudinari, gretti. Teresa scopre com’è fatta una vera casa, spalanca gli occhi quando si trova in bagno e non sa come utilizzare ciò che le sta attorno. Il professor Ulderico Quario, cinquantenne, comincia a puntarla, dissimula la fretta, inventa un gioco teatrale segreto, ripetizione d’un copione già messo in scena nell’accogliente e dannunziana stanza da letto. E Teresìn, frastornata dai nomi francesi e dallo champagne, mostrerà tutto il suo essere «ragassa» all’untuoso, subdolo padrone di casa. La vista dei gioielli e degli abiti da sera la stordiscono: il mondo grossolanamente descrittole da Cecchina le si para davanti in versione lussuosa, ed è quindi più stordente di quanto lei potesse immaginare. La giovane donna si piega a voglie torbide, ma lo fa come un giunco delicatamente piegato da un vento sconosciuto (e ammorbante). Agisce per come è davvero, «candida fino alla bestemmia» secondo la diagnosi precisa e spudorata della sorella del medico-approfittatore. Poi la cronaca fa il suo corso, in mezzo ai «poveri che se sapessero di essere poveri sarebbero meno buoni». L’astuta tenutaria è regista occulta di tempi che rotolano fin troppo in fretta. Gianni Brera descrive il mondo dove è nato e cresciuto, dove i suoni dialettali sono anche segnaletica caratteriale. Si ricorda dell’infanzia, dei mobili del pianterreno che, per le alluvioni, erano sollevati di un metro con funi legate al soffitto, del frigorifero che non c’era ed era solo una cosa che si poteva ammirare nelle fabbriche di ghiaccio. Compare qua e là il ricordo della madre: «L’eccessiva fecondità l’aveva sfasciata, appesantendola molto. La mia infanzia è legata al ricordo scrisse il giornalista-narratore - dei suoi affanni di donna ormai vecchia e greve. Non stupisco, quindi, che mi lavasse in pratica due sole volte l’anno, a Natale e a Pasqua. L’estate non ne avevo bisogno, andavo ogni giorno al fiume». È in quella terra aspra e di stenti che Gianni Brera conoscerà il calcio, che in dialetto è fòlber. Davano calci a qualsiasi cosa, una qualsiasi gommaccia che per i mille bitorzoli rimbalzava in modo strano. Fece parte dei boy del Milan, ma il suo cuore s’intereriva quando segnava il Genoa.
video Atlantide MobyDICK
tv
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i parla poco, nei giornali, di un programma culturale snello e ben fatto. S’intitola Atlantide, storia di uomini e di mondi. Scarsa eco forse per il fatto che viene trasmesso, da La 7, a metà pomeriggio, fascia oraria inzeppata da talkshow, vecchi film e proposizione di cosette davvero marginali (senza accennare all’assenza di valide proposte per i ragazzi, almeno su Rai e Mediaset). Eppure Atlantide, sia pure supportato da mezzi non così ricchi, può competere dignitosamente con Ulisse di Alberto Angela.A condurlo è la sobria Greta Mauro, che fa da cerniera a vari interventi, perlopiù di storici e giornalisti stranieri, e non si pone mai come mattatore col dovere di stupire o far ridere: un gran pregio, oggi. Una delle più brillanti puntate della trasmissione è stata dedicata a Leonardo da Vinci, il genio poliedrico del Rinascimento italiano, in grado di passare da una sublime pittura a folgoranti intuizione di ingegneria che hanno anticipato l’odierna tecnologia. Leonardo parte con l’handicap d’essere un figlio illegittimo, figlio di un notaio e di una serva. Condizione che a quei tempi relegava un uomo o nel dimenticatoio o nella estrema difficoltà di affermarsi, anche perché nella Toscana dell’epoca chi era fuori da una Corporazione aveva la strada sbarrata. Il giovane Leonardo va a Firenze col padre e da questi viene presentato alla bottega di Andrea del Verrocchio. Qui impara alla svelta e si distingue per ingegno straordinario. Si interessa al problema di come far salire una sfera di due tonnellate sul Battistero, gli vengono affidate le commissioni di quadri, ed erano tanti visto che il Verrocchio era il principale «fornitore» artistico della famiglia dominante, i Medici. In un quadro, il «bastardo» di Vinci dipinge un angelo, di morbida fattura. Osservandolo e ammirandolo, il suo maestro, così dice una verosimile leggenda, deciderà di non prendere più in mano il pennello. La vita di Leonardo, per tutto il programma, viene spiegata e commentata da studiosi, perlopiù anglosassoni. Lo fanno con stringatezza. Forse la loro chiarezza non sarà mai eguagliata dagli accademici italiani, così proni a dissertare su strade laterali pur concettualmente interessanti. Nella Fi-
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I “pizzini” al tempo di Leonardo
web
EBAY, È L’ORA DI “MANI PULITE”
renze governata dai Medici serpeggiavano tradimenti e sospetti. Le dicerie diventavano presto condanne. La città del resto è sempre stata teatro di processi a volte inventati di sana pianta, di pettegolezzi, di ipotesi criminali.Vocazione alla maldicenza, non c’è che dire. Non a caso per le vie erano stati collocati dei «tamburi», una sorta di buca per le lettere anonime. A scadenze fisse le guardie raccoglievano i foglietti, i «pizzini» dei delatori. Poi si muoveva la magistratura, a caccia di prove. Come in altre città italiane era frequente vedere cadaveri per strada e impiccati nelle piazze. Leonardo osserverà il corpo penzolante e senza vita di un membro della famiglia Pazzi, reo di aver congiurato contro i Medici accoltellando mortalmente Giuliano, il fratello di Lorenzo (scampato miracolosamente all’agguato avvenuto in basilica). È uno dei primi autentici disegni leonardeschi, dove imperano la precisione, l’obbedienza ai particolari e la neutralità emotiva. Sarà proprio uno dei «tamburi» a mettere in difficoltà Leonardo, arrestato di notte «per crimini contro Dio», in realtà per sodomia. Accusato di aver avuto ripetuti rapporti carnali con un ragazzo di diciassette anni, l’artista-ingegnere viene processato ma poi assolto in mancanza di prove. Scriverà sui suoi Taccuini: «Nulla è più spaventoso di una reputazione rovinata». Sempre nei Taccuini si legge una frase-chiave che spiega il carattere e le abitudini dell’artista toscano: «Concepire un’idea è nobile, eseguire il lavoro è servile». Per questa ragione Leonardo non andrà a Roma. I Medici guarderanno distrattamente la sua pala d’altare sull’adorazione dei Magi. Contiene un’intuizione pittorica notevole (triangolo dentro un rettangolo), ma è incompiuta. Leonardo è stato forse assorbito dal nucleo concettuale del dipinto e non si è peritato di renderla opera finita. L’«omo sanza lettere», così come l’autodidatta di Vinci definiva se stesso, sarà un’occasione mancata sia per Firenze che per Roma. È Ludovico il Moro, della famiglia Sforza di Milano, a chiamarlo a corte. Dove resterà per ben diciassette anni.A questo punto una domanda: i nostri figli conoscono Leonardo daVinci? La sua straordinaria vita è considerata solo un vecchiume e una noia? Basterebbe proporre le puntate di Atlantide come materiale didattico. È così difficile o stravagante farci un pensiero, signor ministro? (p.m.f.)
games
dvd
SONY PRESENTA L’ANTI-EDIPO
NATURAL BORN DANCERS
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rofittatori e lestofanti hanno trovato nel web la nuova Mecca del raggiro, e per eBay è giunto il momento del classico giro di vite. I gestori del noto portale di e-commerce si avvarranno della collaborazione della National Retail Federation,per ripulire gli annunci malandrini presenti sul sito, e limitare le ingenti spese legali spesso derivate da operazioni di risarcimento in-
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iò che mai avevano osato Eschilo e Sofocle, lo hanno fatto alla Sony qualche tempo fa, quando Kratos tenta di colpire a morte il padre degli Dei, che se la scampa solo perché Atena offre la vita al suo posto. Riletture mitologiche tendenzialmente indifferenti al concetto di immortalità, che hanno fatto la fortuna dell’arcinoto God of war. E che animano anche il terzo ecla-
epigrafe che introduce la pellicola è quanto mai azzeccata: «Questo film non contiene immagini accelerate». Recita così l’incipit di Rize, applaudito documentario sui ghetti americani del celebre fotografo David LaChapelle. Un’indagine sorretta dal ritmo forsennato del krump, ballo che ha preso piede a partire dagli anni Novanta presso numerose comunità afroamerica-
Il portale di Pierre Omidyar lancia l’offensiva contro truffatori e riciclatori di merci illegali
Il terzo capitolo di “God of war” ripropone lo scontro tra Zeus e i Titani guidati dal figlio
David LaChapelle abbandona il jet set e filma i “krumpers” dei ghetti afro-americani
tentate dai clienti truffati. Alla bisogna, i vertici di eBay predisporrano inoltre una serie di controlli a tappeto e l’utilizzo di nuove tecnologie come Lerpnet e Proac, capaci di tracciare le manovre fraudolente e risalire alla provenienza delle merci. L’obiettivo è azzerare quasi del tutto l’ingente numero di prodotti spesso smaltiti illegalmente sul web perché frutto di rapine e traffici illeciti. Dopo l’appannamento registrato nei mesi scorsi, e la parziale risalita degli ultimi tempi, eBay punta tutto sulla sicurezza per riconquistare migliaia di clienti sempre più atterriti dalle compravendite sul web. È il momento delle pulizia di primavera. Garantisce Pierre Omidyar.
tante capitolo della saga. A nulla serve qui l’agnizione che fruttò a Edipo ben altri consigli: appreso che Zeus è in realtà suo padre, Kratos deduce che vuol fargli comunque la pelle. Cedevole alle lusinghe, l’episodio della trilogia ripropone gli archetipi che hanno fatto le fortune del titolo: adrenalina, iperrealismo e superomismo innalzato a vette da Olimpo. I più vanesi possono anche usufruire di un widget aggiuntivo: è possibile attribuire alla propria foto insospettabili fattezze da titano. Gli ammiratori di Annibal Caro, girino alla larga.
ne. Accomunati dall’hip-hop e dal malessere, i natural born dancers non si limitano a esibirsi in nome dell’effettismo televisivo, ma aprono uno squarcio su certi guasti della globalizzazione, che attraverso il merchandising spesso svuota di senso i fenomeni spontanei a vantaggio del puro entertainment. Le battles, autentiche tenzoni coreografiche tra gang, assorbono conflitti e sperequazioni di un mondo in cui il ballo è capace di salvare molti giovani dalla deriva. Fotografo vip, LaChapelle stavolta stupisce: «Ho sentito la necessità di filmare gente sconosciuta - ha spiegato - che vive in un ambiente problematico e che di rado è al centro dell’attenzione».
a cura di Francesco Lo Dico
L’
MobyDICK
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poesia
Vinicius e le parole della saudade di Leone Piccioni
(…) Ed amo te, ed amo te, amo te Come ama la bestia feroce a mordere, la femmina Come il mare allo scoglio si avventa demente. E in bramire si placa e torna sempre. Sei mia e do a te me valido e indissolubile Ogni volta afferrando fra quanto innervosisce, Dell’essere tuo l’imo, quel vortice assoluto Che fa si possa cogliere il grande fiore della tenebra.
stato annunciato che uscirà presto da Mondadori un Meridiano con tutte le traduzioni di Giuseppe Ungaretti: Omero, Shakespeare, Racine, Blake, Mallarmé, Esenin, S.J. Pers e altri, con poesia popolare e poesia dotta del Brasile con particolare rilievo per Vinicius de Moraes.Vinicius (1913-1980) era molto amico di Ungaretti e noi riprendiamo questa volta in mano il volume Poesie e canzoni (Vallecchi 1981) che contiene opere poetiche di Vinicius, con una nota e delle traduzioni dello stesso Ungaretti.Vinicius de Moraes, poeta dei maggiori del Brasile, inventore anche nell’area della musica brasiliana con Tom Jobim della «bossa nova»! Della sua poesia Ungaretti ha scritto tra l’altro: «La lontananza, l’assenza, una malinconia, crollo e inabissarsi, e pure rimasta a galla quasi lieve nebbia, velatura appe-
È
Di te amo i lunghi piedi, puerili ancora e lenti Nel tuo crearti, di te amo le aste tenere Che per soavi spirali adolescenti salgono Infinite, di esatto tocco e fremito. Di te amo le braccia giovani che abbracciano Fidenti il criminoso mio squilibrio Le disvelate mani, mani moltiplicanti Che accompagnano in frotta il mio incupito nuoto. Amo il tuo grembo pieno onda d’ombra e di piuma Onda lenta e solinga dove si va facendo esausto il mare Dove è buono affondare sino a rompermi il sangue E di amore affogarmi a piangere, piangere. In te amo i grandi occhi sovrumani Dove sondo, sommozzatore, la voragine buia Nell’ansia di scoprire, negli arcani più fondi Sotto l’oceano oceani e, più in là, la mia immagine. Ciò è anche più di quanto la poesia non osi Quando in seguito a molto mare ed in seguito a molto amore Emergendo da te, ah, che silenzio posa Ah, che tristezza cade sul tuffatore! Vinicius de Moraes dal Tuffatore (traduzione di Giuseppe Ungaretti)
na distinguibile, tale è, nonostante attorno imperversi solleone, la fonte di ispirazione della poesia di Vinicius, e una sensualità, una sessualità che lo svincola da tutto e lo annienta lungi da tutto, da se stesso, e, mentre dura, dal suo atto stesso che l’immedesima, amando nell’altra persona… Persino la donna, ossessione, incubo che perenne lo libera, gli è subito nella fantasia, nel grido carnale soffocato dall’anima pazienza disparita»: «In te amo i grandi occhi sovrumani/ dove sondo, sommozzatore, la voragine buia/ nell’ansia di scoprire, negli arcani più fondi/ sotto l’oceano oceani e, più in là, la mia immagine.// Ciò è anche più di quanto la poesia non osi/ quando in seguito a molto male ed in seguito a molto amore/ emergendo da te, ah, che silenzio posa/ ah, che tristezza cade sul tuffatore». Sono le due ultime strofe del Tuffatore nella traduzione ungarettiana.
C’è nella sua poesia, come nei versi delle canzoni, una intensa saudade tipicamente brasiliana che è insieme un accorato rimpianto ma anche una illusione commossa di felicità. Maysa, grande cantante del recente passato della musica brasiliana, ha scritto in una sua poesia di non conoscere la felicità pregandola dunque di mandarle una sua fotografia. La prima raccolta di versi di Vinicius è del ’33: Il cammino verso la distanza. Aveva vent’anni. Conobbe Ungaretti fin dal ’36 quando il nostro poeta era a San Paolo per la cattedra universitaria di Italiano (non era riuscito in Italia Ungaretti - e si chiacchiera del suo fascismo - nemmeno a trovare un posto di lavoro che gli consentisse di
mantenere la sua famiglia!). Ecco un’altra famosa composizione di Vinicius de Moraes: «Di mattina abbuio/ di giorno attardo/ di sera annotto/ di notte ardo.// Ad ovest morte/ gli vivo contro/ del sud captivo/ mio nord è l’est./ Gli altri computino/ passo per passo/ io muoio ieri// nasco domani/ vado ov’è spazio/ mio tempo è quando». Scritta a NewYork nel 1950. Entra nella carriera diplomatica e nel ’46 Vinicius parte per Los Angeles come vice console.Va in missione in più parti del mondo e anche a Roma (tra il ’52 e il ’54), a Parigi, in altri paesi del Sudamerica. Il suo amore per la musica popolare è immediato e fortissimo: di pari passo il suo lavoro di poeta procede con quello di inventore di una musica nuova. Nel ’69 decide di andarsene dal Brasile per ragioni politiche. Sono andati al potere i Generali, è stata ripristinata la pena di morte, nel paese persecuzioni e spionaggi. Dopo pochi mesi, per saudade, riparte per il suo paese dopo aver avuto qualche segnale di un vento meno tempestoso. Tornando si decise alla nuova carriera, al nuovo lavoro teatrale che da allora, infaticabilmente, lo ha portato in giro in tanti teatri del mondo. È il maggiore «paroliere» che si conosca nella musica popolare: «La felicità è come una piuma/ che il vento si porta per l’aria/ vola così lieve/ ma ha vita breve/ bisogna che il vento non cada».
A Roma Vinicius incontra di nuovo Ungaretti e lo conosco subito anch’io: diventiamo amici. Passiamo sere memorabili in casa di amici e di mio fratello.Vinicius suona la chitarra e canta le sue canzoni, Ungaretti le traduce: i giovani, le belle ragazze non possono fare a meno di seguire quel ritmo affascinante con passi di danza.Vinicius beve molto volentieri: nel suo divertente italiano dice che quando beve - non sempre si fa «vinti», «trinti» whisky al giorno. Quando esce dopo una nottata musicale porta con sé anche il bicchiere di whisky e lo beve per strada. Io certamente non gli sto dietro, ma in qualche modo partecipo ai brindisi. Ungaretti, ottantenne, ci dice: «Farete di me un alcolizzato!». Quando ho l’occasione di andare in Brasile, Vinicius mi fa affettuosamente da guida nel mondo musicale: conosco i grandi come Jobim, Elis Regina, Jorge Ben, i cantanti di Bahia guidati da Caetano Veloso e Gal Costa, un mito come Baden Powell. Vinicius ha impegni in tutto il mondo per i suoi canti: suona con Toquinho che «tocca» la chitarra in modo esemplare e con un ottimo complesso. Anche in Italia, al Sistina a Roma, o attraverso la radio e la televisione diventa molto popolare. Incide anche dischi, affiancato da Sergio Bardotti che traduceva i suoi testi in italiano, e in uno ha come corista Mia Martini. Predilige la voce di Sergio Endrigo. Sul tavolino del palcoscenico non mancano mai un bicchiere e una bottiglia. La vita sembra sgorgare da lui: la poesia, la musica, i figli, le donne, eppure Vinicius ha fatto ben poco per aggiungere anche un sol giorno al termine della sua esistenza terrena. È rimasto con noi con la sua poesia, con le sue canzoni e il suo ineguagliabile fascino umano.
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il club di calliope FARLO CAPIRE Farlo capire a chi potrà capire. Non si nasconde il carico degli anni ma l’amare è un istinto, ha la sua voce e i suoi modi, non vuole esser frainteso o respinto solo perché alla notte non manca molto. La notte concede zone di chiarore, la luna è rossa. Un cuore anche se titubante è un cuore. Cominciamo a pensare che si possa. Silvio Ramat 11 maggio 2009
UN POPOLO DI POETI Siamo dentro questo soffio Di fede in una vena d’amore, Siamo nella spiaggia del sole, Nel velo di luce, Un canto dolce che giunge Col vento di questa stagione, E ci fa stare vicini Insieme tra le verdi colline Che vediamo dal treno, Nella piana di pace c’è la speranza Che tutto ora non si fermi.
RISALENDO AL CASTELLO, A METÀ MATTINA in libreria
Mary Donci
di Loretto Rafanelli a casa rotta (128 pagine, 14,00 euro), è il secondo libro che Annelisa Alleva pubblica nelle edizioni Jaca Book, dopo Istinto e spettri, ma è bene non dimenticare che la Alleva è pure una nota traduttrice dal russo (Pu\u0161kin, Tolstoj) e ha curato la importante antologia Poeti russi oggi (Libri Scheiwiller, 2008). La casa rotta è un libro complesso, in alcune parti assai tortuoso, ma una traccia illuminante per avvicinarci a questo lavoro poetico ce la fornisce la quarta di copertina di Roberto Mussapi, allorché parla di «…un’amplificazione della realtà psichica e sentimentale, un’amplificazione perfettamente fedele alla fonte…». C’è infatti in queste poesie una singolare sintonia tra il disagio sofferto e la scrittura poetica:
L
dell’afflizione; la scrittura tuttavia non si incrina al dolore, non si lascia andare alla disperazione, al pianto, ma diviene la cronaca di un meticoloso sofferto inventario («Entrano e escono dalla tua stanza/ le scarpe bianche da fanciulla,/ il tallone nudo di una, la penna/ che sporge appuntata a una tasca,/ la martingala della dottoressa, la gala di una sottoveste che sporge/ dietro, dal camice di un’inserviente»). La seconda sezione, «La casa rotta», è quella più oscura e segreta, dove a volte il corso dell’opera assume quasi i contorni di una inquietante sinistra filastrocca («Vero che la sveglia scende coi tacchi sui gradini./ Vero che sui mobili la notte per ultima dispare./ Vero che stiamo stretti, anche nel letto./ Vero che la martire cristiana ripo-
Prima si guardava il cielo Nel vetro del respiro Andando sulla traccia della luna Mi chiedo cosa si ripone nelle tasche Del dubbio della storia di noi tutti Nella storia mia che non so.
Daniele Felloci
Nella seconda, complessa raccolta di Annalida Alleva, una singolare sintonia tra disagio e scrittura poetica: il verso assomiglia a un battito secco, il battito del dolore il verso ci appare come un battito secco, il battito del dolore. I versi sono brevi e incisivi, conclusi spesso col punto, quasi come ci fosse una indicazione obbligata. Come se ci fosse una lama che penetra nella più grande solitudine. Oppure la goccia della flebo che evidenzia la toponomastica di una malattia. Fino a divenire un incubo, un’ossessione. E il lettore non potrà che perdersi nel labirinto che la Alleva abita. Nella prima sezione, «Sogno chimico», a nostro avviso la parte più bella, c’è il racconto di una degenza di una persona amata in una clinica e il conseguente andare e venire dal luogo
sa…»), e il disagio appare più marcato e il linguaggio assume connotati marcatamente asfittici e dolenti. La terza parte, «Castellane», che ha anche una versione in inglese, scritta dalla Alleva nel castello di Hawthornden, in Scozia, dove la proprietaria ospita scrittori da tutto il mondo, pur venendo da un luogo suggestivamente chiuso, paradossalmente appare più distesa e lineare, la voce qui si fa più calma e distesa: «Nessuno potrà mai togliermi la felicità/ di scendere le scale che dalla biblioteca/ riportano al castello, sempre bagnate/ e costellate di licheni, a metà mattina…».
Quando un uomo solo dice io sono tutto allora stai attento mio piccolo figlio quando un uomo si incorona senza averne diritto stai attento non sai quando il sole sorgerà domani e dopo domani.
Renzo Priami
«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma
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mostre
Da Lenci all’informale il magistero di Torino
è un «momento», nell’intelligente mostra su Torino Sperimentale 1959-1969, curata da Francesca Pola e Giorgina Bertolino, in cui il visitatore si trova, quasi fosse un diaframmaintercapedine epocale vivente, tra una magnifica opera, poco vista, di Fontana, Cielo di New York, Metallo 1962, sbrecciato e ferito dai colpi sventranti di martello (come si evince da foto storica, targata Gazzetta del Popolo) e un frammento del denso e complesso documentario Rai (altri tempi!) girato da Rossellini per l’evento anniversario Italia ’61. Con consulenza di Carlo Casalegno, sceneggiatura di Valentino Orsini e testo di Vittorio Gorresio, editorialista della Stampa. È il momento finale dell’intervista alla solita, povera vittima predestinata, nel ruolo espiatorio di Esemplare Emigrata Meridionale Che Non Sa Bene Dove Si Trova, una settantenne sdentata, che pare una centenaria d’oggi, e che dovrebbe a fiammifero reagire alle esigenze del petulante microfono sondante. Che vorrebbe in lei veder incarnarsi la Rappresentante Tipica del Disorientamento Geografico. Non soltanto è difficile cavarle una parola, a quelle (ri)inchieste per lei legittimamente ostrogote e moleste, ma è meraviglioso e commovente vedere come guarda rapita «come dondola», quell’insulso, stregante serpente del microfono antidiluviano. Che voleva pungerla e pinzarla con le domande sociologiche e ora, pendolarmente raggiunge i parenti, raccolti intorno a corona, così che vedendoli presentarsi, lei si mette a strepitare fuori sincrono, guastando la festa preparata all’intervistante. Che esalta il ruolo fiat et lux di Tori-
C’
arti
di Marco Vallora
no, schiusa da sempre ad accogliere a braccia aperte gli «stranieri», con la «buona moneta» della solidarietà e il «sacrificio» dell’imprenditorialità nobiliare. Forse bastava orientare di qualche grado la cinepresona, per scoprire i terribili cartelli anteleghisti che sconsigliavano ai meridionali di cercare accoglienza d’affitto in quelle case benportanti. Quello che è palpabile, il quel «momento» cruciale, è la distanza abissale tra un mondo antico e arcaico, pasoliniano, che s’avvia precipitosamente a industrializzarsi, selvaggiamente, e un’arte ipersofisticata e decadente, che cerca in qualche modo le sue violente vie di fuga (le martellate di Fontana parlano, anzi, risuonano chiare). E quel microfonoserprente, fantasma emblematico, è un segno magnifico e quasi sciamanico di bigamia impossibile (Beuys nelle vicinanze). Tutto questo alla mostra di Bolaffi, dedicata ad alcune opere sintomatiche, che segnalano vistosamente il ruolo innovatore, e forse non mai riconosciuto abbastanza, della Torino artistica post-guerra fredda. Che con mostre, cataloghi, proclami, fogli, film, gallerie private preveggenti e nuove istituzioni emergenti (la nascita della futura Gam) e una corona lussuosissima d’intelligenze spesso in guerra tra loro dialoga con l’arte e le forze rivoluzionarie internazionali, «lanciando» l’Arte Povera. Facendo conoscere precocissimamente, rispetto ad altre italiche città: Bacon, Hartung, la Nevelson, Vieira da Silva,
Mathieu e tutta la storia dell’informel cosmopolita (grazie al franco-torinese Michel Tapié, imparentato Toulouse-Lautrec). Vivacità di Torino, nell’editoria, nell’arte, nella musica, nella grafica, nell’architettura, nella storia della museografia, nel cinema sperimentale, nel design, nella filosofia, nella storia della regia e nei movimenti politici intorno al ’68. Ma non è una improvvisa novità e c’è un’altra mostra, a Torino, che, proprio perché paradossale, nel confronto, mette in luce un periodo precedente, ma assai importante del gusto e dell’imprenditorialità torinese, questa volta nella storia della ceramica da tinello (senza nessun intento dispregiativo) e del pre-design artigianale. Stiamo parlando della Ars Lenci (i collezionisti di pezzi déco e di modernariato sanno bene di che si parla), la stessa che lanciò intorno al 1919, anno di fondazione, le fortunate bambole di pezza e di panno (appunto Lenci), che fecero furore nelle stanze infantili delle case piccoloborghesi ma anche nelle riviste alla moda, del gusto casalingo. Non stupisce che a parlare per primi di questa micro-scultura da tavolino e specchiera da entrata, con coniglietti country e belve esotiche, sciantose vamp, scatole da cipra a dado in ceramica variopinta, Marlenes Dietrich in frac (negli stessi giorni del successo di Angelo Azzurro) e firmate tutte da artisti di nome, come Chessa, Sturani, Deabate, fossero proprio le riviste sofisticate d’architettura, come (ancora) Casa Bella e poi Domus, di quel Giò Ponti, designer-déco assai vicino a questi esiti, con la sua linea di porcellane Richard Ginori. C’è una frase pubblicitaria, coniata da Eco, che mi torna in mente e che non so se sia vera o solo lambiccata, e che sostiene che «l’Italia senza Torino sarebbe stata assai diversa, mentre non è dato esser vero il contrario». Non so se sia condivisibile, ma è facile capire che Torino, in effetti, con la sua imprenditorialità imprevedibile e la sua eccentrica originalità, nella storia del gusto moderno, ha un suo ruolo più importante di quanto forse si continui a pensare.
Torino Sperimentale, Torino, Sala Bolaffi, fino al 9 maggio; L’avventura Lenci. Ceramica d’arredo 19271937, Torino, Palazzo Madama, fino al 27 luglio
diario culinario
Trani, gusto e tradizione oltre la Procura di Francesco Capozza elle scorse settimane il nome di questa cittadina ha evocato per lo più uno strano mix tra politica e magistratura. Invece Trani è una città dove il cibo (il buon cibo) e il vino sono spesso una delle gioie più belle sia per i suoi cittadini che per i turisti. Certo,Trani vanta centinaia di ristoranti, pizzerie, ristorantipizzeria, taverne e trattorie, osterie e ovviamente hostarie, enoteche e wine bar e champagnerie, pub, birrerie, cervecerie, bodeguite, churrascherie, locande, agriturismi, sale banchetti, circoli privati, semiprivati, pseudoprivati con uso cucina, bistrot, brasserie, glieglierie, per un numero di coperti doppio rispetto a città del Nord o dell’interno di dimensioni quadruple: un fenomeno che va al di là di ogni umana
N
comprensione. Ovvio che per non sbagliare si mangi da mammà. Lo dice anche Carlin Petrini di Slow Food che per esperienze gastronomiche autentiche bisogna ormai rifugiarsi nelle case private, dove non entrano i vigili, l’ufficio igiene, le normative europee, le tasse, i clienti che chiedono gli gnocchi al salmone. Nulla di ciò che ha veramente valore può avere un prezzo e così le traneserie migliori si sono mangiate gratis: il polpo crudo a casa di un avvocato amico di famiglia, i totani ripieni cucinati nel forno a legna (d’ulivo) a casa di un noto farmacista, le cartellate col mosto cotto a casa di una lontana zia di amici e compagni di viaggio. Solo i dilettanti possono tendere al sublime, i professionisti devono far quadrare i conti. Una sera ogni tanto è perciò legittimo andarsene in giro per verificare i co-
stumi alimentari dei contemporanei. L’indirizzo giusto perché la conoscenza non diventi sofferenza è Corteinfiore, in via Ognissanti, tra la chiesa dei templari e Santa Teresa, nel cuore di Trani vecchia. Si mangia in un antico hortus conclusus, con alberi di agrumi e di altri frutti, che d’inverno viene coperto da un gazebo riscaldato. A parte certi scampi danesi enormi che se non ci fossero sarebbe meglio (ma che comunque vengono chiamati onestamente col loro nome, surgelati), tutto il resto è pesce pescato e sbarcato qui davanti ogni mattina. Si comincia col crudo: ostriche, ricci, cozze pelose, vongole, noci e tagliatella (seppia tagliata a listarelle), che in terra di Bari non prevede complicazioni e leziosaggini giapponesi. Unico condimento: il profumo del mare. Il pesce-pesce (rombi, sampietri, ombrine...) te lo mo-
strano prima di consegnarlo al cuoco, come da ottima regola in disuso. I primi sono di pasta fatta in casa da qualche loro signora, forse la stessa artefice di dolci meravigliosi come la sfoglia e l’amatissimo babà. Il vino: dimenticare il Riesling italico di un’aziendola nordica dal nome incitabile offerto come aperitivo, tralasciare certi rossi monumentali messi in carta senz’altra logica che quella perversa del «chillo ca costa ’e cchiù», lanciarsi invece sul Gravina di Botromagno, uno dei migliori bianchi pugliesi, o sulle bottiglie ischitane di Casa D’Ambra, in primis la Biancolella base che come c’era da aspettarsi è più scorrevole, spensierata e socievole della versione superiore,Vigna Frassitelli. Sui 35,00 euro.
Corteinfiore, Trani (Ba), via Ognissanti 18, tel. 0883 508402
MobyDICK
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fotografia
Quei pionieri della riproduzione multipla
a selezionatissima e preziosa mostra allestita al Petit Palais, promossa dall’Atelier de Restauration et de Conservation des Photographie (Arcp) di Parigi, con la collaborazione della Fondazione per la storia della fotografia Alinari, ripercorre gli anni del pionierismo sperimentale della riproduzione meccanica (e chimica) della realtà, poco prima che essa assumesse la denominazione di fotografia. Questa parola infatti nasce e si afferma in concomitanza con l’invenzione del pro-
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archeologia
di Marzia Marandola cesso negativo-positivo e l’adozione della carta come supporto in luogo del metallo: dunque nei tardi decenni dell’Ottocento. L’incubazione di questo processo è lunga e costellata di interrogativi: qual è il supporto che meglio e più a lungo conserva l’immagine? E quale conferisce maggiore qualità alle sfumature cromatiche e all’incisione dei contorni? Occorreranno decenni di esperimenti di appassionati, professionisti e dilettanti, prima di approdare alla fotografia stampata in positivo su carta da un negativo su supporto di carta cerata, di vetro o altro materiale. Antenati prossimi della fotografia sono il Callotipo, brevettato nel 1840-41, il Dagherrotipo, fotografia in copia unica impressa su un supporto metallico; il Collodion, un negativo impresso su una placca di vetro, brevettato nel 1851 da Frederick Scott Archer. Oggetto della mostra sono i primi esperimenti che si tennero in Italia, scrigno di tante opere artistiche, per tentare la riproduzione multipla di sculture, architetture e paesaggi. Si tratta di una riproduzione volontariamente soggettiva, dettata da una personale visione artistica del fotografo che interpreta la seduzione e si misura sulla bellezza del soggetto rappresentato. Esemplare di tale attitudine
è lo stupefacente negativo su carta di Vero Veraci, un artista fotografo fiorentino vissuto nella prima metà del XIX secolo, del quale è esposto il ritratto della statua in bronzo di Perseo di Benvenuto Cellini. Drammatizzata da un fondo notturno e da ritocchi di guache apposti sul retro dell’immagine, così da rendere ancora più evidenti le tensioni muscolari del magnifico corpo dell’eroe, l’immagine suggerisce impressionanti effetti di luce.
Ancora all’arte fiorentina fa riferimento la sorprendente riproduzione della cupola gonfiante di Santa Maria del Fiore di Brunelleschi stagliata su un cielo color rubino, negativo su carta di Eugène Piot datata al 1851. Accanto a opere di squisita eleganza artistica, che gareggiano con il soggetto da riprodurre, sono esposte immagini con un carattere più descrittivo e di testimonianza storica. È il caso della foto delle mura di villa Sciarra a Roma sbrecciate dai cannoneggiamenti del 1848 di Frédéric Flachéron o della porta Regia di Palermo parzialmente schermata da barricate improvvisate: 1860 è la data dell’immagine che si associa ai moti per l’unificazione nazionale. Accanto alle riproduzioni artistiche si affiancano ben presto anche ritratti, come quello di un trombettista o quello, venato di pittoresco, del pescatore. Complemento utilissimo dell’esposizione, che ha un efficace sottinteso didattico, sono le spiegazioni delle tecniche fondamentali di preparazione della carta per il negativo e il positivo, dello sviluppo, del lavaggio e della tiratura.
Eloge du Négatif. Les débuts de la Photographie sur papier en Italie 1846-1862, Petit Palais Paris Musées, fino al 2 maggio
L’aroma del vino nei simposi di Morgantina a Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma espone al Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo (fino al 23 maggio) uno straordinario complesso di argenti che compongono il «tesoro di Morgantina», dal nome della città siciliana dove furono portati alla luce da scavatori clandestini. E l’occultamento nella cosidetta Casa di Eupolemos (un nome scritto in greco) di questi argenti di epoca ellenistica che miracolosamente erano sfuggiti al saccheggio operato dai Romani nel 211 avanti Cristo, è stata una fortuna perché diversi studiosi hanno potuto dimostrare la loro provenienza dalla splendida polis siculo-ellenizzata di Morgantina che all’epoca faceva parte del piccolo e ricco regno di Gerone II (275-215 avanti Cristo). Secondo alcuni studiosi il tesoro sarebbe appartenuto a Hierofante, sommo sacerdote di Demetra e Persefone. Oggi il rientro in Italia dopo trent’anni, dal Metropolitam Museum of Art di New York dove erano conservati, è stato possibile grazie a un accordo tra il Ministero per i Beni e le Attività culturali e il museo statunitense. La storia pubblica di questi
L
di Rossella Fabiani argenti comincia nel 1984 quando il Metropolitan annunciò con grande clamore l’acquisizione dei 16 oggetti, risalenti al III secolo avanti Cristo, ritenuti tra i più raffinati argenti ellenistici noti della Magna Grecia, indicandone genericamente la provenienza da Taranto o dalla Sicilia orientale, e l’acquisto con una spesa di 2 milioni e 700 mila dollari dal commerciante Robert Hecht negli anni 1981-1982 e 1984. Le indagini del Nucleo tutela patrimonio culturale dei Carabinieri insieme alle ricerche archeologiche condotte da Malcolm Bell III e agli studi specialistici di Pier Giovanni Guzzo, hanno confermato l’identificazione della provenienza degli oggetti da scavi clandestini nell’antica città siculo-greca di Morgantina. Al valore effettivo che gli argenti possiedono si deve aggiungere quello storico, relativo cioè alla formazione della collezione nell’antichità, ai passaggi di proprietà, al modo di accumulare beni preziosi e farne tesoro, tanto da volerli proteggere in circostanze di pericolo. Infatti, è probabile che il proprietario li abbia nascosti sperando di poterli recuperare. Ma soprattutto questi argenti testimoniano l’espressione artistica del mondo ellenistico del III secolo avanti Cristo che aveva i due poli più importanti a Siracusa con Archimede e ad Alessandria d’Egitto con la prestigiosa Biblioteca e i suoi studiosi, tra cui Eratostene. I sedici manufatti del tesoro di Morgantina sono in argento dorato, alcuni composti da più elementi. I pezzi sono di produzione e cronologia diverse, for-
se acquisiti progressivamente, passando di mano, tesaurizzati e infine raccolti per essere nascosti. Nove degli oggetti sembrano destinati al simposio: le due grandi coppe (mastoi) con piedi a forma di maschere teatrali dovevano servire, secondo l’uso greco, a mescolare il vino con l’acqua e con altre sostanze aromatiche; la brocchetta (olpe) e l’attingitoio (kyathos) a servirlo, infine, le quattro coppe (tre con medaglione sul fondo, una con decorazione a reticolo) e la tazza a due anse (skyphos), a berlo. Ma ci sono anche: due contenitori
muniti di piede e di coperchio (pisside), uno con una lamina decorata a sbalzo con la raffigurazione di Demetra che tiene la cornucopia e Trittolemo, l’altro con la raffigurazione della Dea Sikelia in atto di lanciare un masso di pietra lavica; una brocca con il corpo allungato e l’imboccatura rotonda (olpe); un altare cilindrico e una coppia di corna. Dopo Roma, il complesso di argenti dal 4 giugno verrà esposto al Museo Archeologico regionale Antonino Salinas di Palermo per poi arrivare nella loro sede definitiva: Morgantina.
ai confini della realtà Do you speak cornish?
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i misteri dell’universo
MobyDICK
essuno conosce quale sia il numero di lingue esistenti nel mondo, e questo per due ragioni: la definizione di lingua in alternativa a dialetto è un problema complesso passibile di diverse soluzioni, ed esistono popolazioni isolate il cui linguaggio non è stato mai studiato. La tendenza generale è tuttavia verso la perdita della ricchezza linguistica per vari motivi. Una lingua parlata da poche persone e sopravvissuta per millenni in regioni isolate può essere perduta quando tale popolazione entra in contatto con altre più numerose e più «civilizzate»; allora spesso le giovani generazioni rifiutano la lingua degli avi.
N
Vediamo alcuni casi di perdita di lingue in tempi moderni. In Gran Bretagna è scomparso, da circa un secolo, il cornish, variante del celtico nella penisola di Cornovaglia; sopravvivono varianti nelle Highlands scozzesi e anche qui la scomparsa appare prossima (chi scrive, negli anni Settanta nel villaggio di Achnasheen, sentì parlare fra i locali solo tale lingua). In Irlanda il celtico è lingua ufficiale, con l’inglese, ma è parlato da una minoranza sempre più ridotta. In Italia, in Aspromonte, nell’Ottocento si trovavano villaggi dove la parlata era ancora il greco antico di migrazioni antecedenti l’epoca platonica, ben diverso dal greco relativamente moderno della cosiddetta Grecìa salentina, originato da migrazioni dopo la conquista turca di Costantinopoli. Anche queste parlate dell’Aspromonte sono ora perdute. Nella prima metà del Novecento esistevano in Unione Sovietica una trentina di lingue del gruppo ugrofinnico, dove le principali sono ungherese e finlandese. Alcune di queste erano parlate in sperdute parti della foresta russa da poche centinaia o addirittura poche unità di persone, e sono ora certamente Fuori estinte. Europa il quadro delle estinzioni è ancora più ampio, con tante lingue amerindie, africane e asiatiche scomparse. Cito due casi. Il primo, quello degli Ik, studiati solo brevemente e superficialmente da Colin Turnbull. Erano una popolazione africana non bantu, localizzata su un monte sacro al confine di Sudan, Uganda, Kenya. Erano cacciatori, ma quando gli inglesi trasformarono il loro territorio in un parco, fu loro proibita la caccia, dovettero divenire servi dei Masai e si fecero essenzialmente morire di fame. La loro lingua era una variante dell’egizio antico, le loro caratteristiche antropometriche simili a quelle degli
di Emilio Spedicato egizi. Forse, quindi, vivevano nella regione originaria degli egizi…
Ancora non minacciata di estinzione a breve, ma la cosa non si può escludere, è la lingua degli Hunza, localizzati in una valle, un tempo remota, fra Pakistan e Cina, ora accessibile con la Karakorum Highway. Questa lingua, detta Burushaski, è forse la più complessa lingua al mondo, in quanto, ad esem-
gno, proveniendo dalla regione dei monti Bororo del Kirghisistan, e che si sono installati nella valle che sembra corrispondere geograficmente al Giardino dell’Eden… Non meno notevole è il caso di villaggi nella regione del medio Fiume Giallo, dove le donne parlavano, ancora negli anni Cinquanta, un linguaggio proprio segreto, con una scrittura propria segreta. Tale scrittura e linguaggio, con l’arrivo
È una variante del celtico nella penisola di Cornovaglia, ma è scomparso da circa un secolo. Stessa sorte capitata a molte altre lingue conosciute dagli avi e rifiutate dalle giovani generazioni. Dall’Africa alla Siberia, alla Cina. Ne restano comunque 6909... pio, il nome di un oggetto non è fisso, ma dipende dalla sua relazione con gli oggetti vicini. Sino a qualche tempo fa la si riteneva una lingua unica e isolata, ora sono state scoperte delle relazioni con il basco e lingue similari in Siberia, quale il Na-Dene. Gli Hunza, che chiamano se stessi Bororo, sono solo circa 40 mila… e ci sono elementi per dire che arrivarono in quel luogo dopo essersi accodati ad Alessandro Ma-
del comunismo, fu rifiutata dalle giovani, e quel che resta è stato recuperato dagli studiosi dalle donne anziane. Un ritrovamento incredibile si è avuto con la scoperta di una tomba, datata oltre 4000 anni fa, dove questa scrittura segreta appariva, essenzialmente immutata. Scoperta che apre la questione di chi abbia originato la scrittura, forse qualche donna… Nel secolo passato si sono perdute
centinaia di lingue. Miracolosamente ogni tanto se ne scoprono, come avvenuto recentemente nelle regioni della Cina di più difficile accesso, in prossimità del Tibet, nelle province di Yunnan e Szechuan. Qui si sono ritrovate una settantina di nuove lingue, parlate da gruppi di qualche decina di migliaia di persone al massimo, localizzate in villaggi situati in vallate isolate e foreste. Isolamento che è stato fondamentale per la condi servazione queste lingue. Di questa scoperta è autore l’australiano Jamin Pelkey e la notizia è apparsa su un numero di Science. Il governo cinese ha quindi aumentato il numero delle lingue ufficiali della Repubblica da 56 a 134. Pelkey ha per ogni nuova lingua un dizionario di 1200 parole e sta traducendo la Bibbia in queste lingue, senza opposizione da parte del governo cinese.
Concludiamo osservando che secondo il volume Ethnologue delle lingue mondiali, queste sono attualmente 6909. Numero certo variabile, ma con un trend inevitabile orientato verso la diminuzione.a
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Cassazione: dare del “gay” è reato. Il political correct è liberticida? Dire gay a qualcuno è reato: lo ha stabilito la Corte di Cassazione che ha confermato la multa di 400 euro per ingiuria, inflitta a un vigile che aveva scritto a un collega, con il quale vi era rivalità per diventare comandante dei vigili urbani, denunciando il suo essere gay. La Cassazione ha stabilito che l’espressione è da censurare perché ha un intento denigratorio ed esprime riprovazione per le tendenze omosessuali. Un reato d’opinione che è stato sancito tale grazie all’esistenza nei nostri codici di leggi che i giudici applicano. È questo uno dei grandi scogli del nostro sistema politico, sociale e civico. Fintanto che non si capirà che la libera espressione di un’opinione non può essere sancita con la legge, il nostro non potrà dirsi un Paese libero. Anche per le affermazioni più imbarazzanti, come potrebbe essere con questa sentenza: la libertà o è tale o non è. La Costituzione recita al primo comma dell’articolo 21: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Questo principio è però disatteso con procedimenti penali come quello di cui parliamo. Se questo accade nelle aule di giustizia, non ci si può lamentare se poi accade in tanti altri luoghi, come il web.
V.D.
LE VERITÀ NASCOSTE
PER IL PRESIDENZIALISMO SERVE L’ASSEMBLEA COSTITUENTE Se non vuole continuare a dare i numeri, taroccando anche quelli dei partecipanti alla manifestazione di piazza San Giovanni, Berlusconi apra un confronto serio sulle riforme isituzionali e troverà ascolto. Di certo, non si può pensare di risolvere i problemi del nostro Paese solo proponendo in chiave preelettorale l’elezione diretta del premier o del capo dello Stato. Servono pesi e contrappesi che garantiscano la democrazia quanto la governabilità, una legge elettorale degna di questo nome e una rivisitazione della forma della rappresentanza parlamentare e soprattutto una condivisione delle nuove regole che sia la più ampia possibile. In una parola, serve un’Assemblea costituente.
Riccardo
CASO CUCCHI: UNA MORTE EVITABILE Il Senato e la commissione sul Ssn ha avuto la forza di approvare una relazione finale dell’inchiesta sull’efficacia, l’efficienza e l’appropriatezza delle cure prestate al Stefano Cucchi, morto per disidratazione. Un detenuto in sciopero della fame e della sete che, nella ricerca disperata di vedersi riconosciuto un diritto, quello dell’assistenza del legale di fiducia, forse anche per cercare di denunciare chi gli aveva provocato le lesioni traumatiche. Nel suo percorso sanitario Cucchi purtroppo non ha avuto la corretta assistenza sanitaria, questo dovevamo registrare nella commissione. Il Senato e il governo sarà bene prendano in considerazione le nostre valutazioni e le problematicità del caso singolo e più in generale dell’assistenza sanitaria in carcere. Tutto il materiale della commissione occorre ora che vengano non solo inviati alla Procura, ma
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Kabul, niente Burger King per i soldati KABUL. Niente più hamburger o pizza per i soldati americani alle basi di Kandahar e Bagram. L’editto arriva direttamente dal comandante delle forze Usa in Afghanistan, il generale Stanley McChrystal. Le file chiassose di soldati all’esterno dei Burger King e gli assembramenti agli spacci takeaway dei Pizza Hut non piacciono al generale, noto per la sobrietà del suo stile di vita. Desideroso che i suoi uomini si concentrino sugli obiettivi militari, McChrystal ha ordinato la chiusura della maggior parte dei locali in stile yankee che sono a poco a poco spuntati nell’area circostante la base aerea americana; anche con un pizzico di soddisfazione da parte dei marines impegnati nelle missioni lontani dalla base, obbligati ad accontentarsi delle razioni liofilizzate. In un comunicato si legge: «Questa è una zona di guerra, non un parco divertimenti». La chiusura dei Burger King, Pizza Hut, Dairy Queen e Military Car Sales, dove i militari a bordo dei loro pick-up si possono portare via pizza, hot-dog e hamburger «favorirà una messa fuoco sugli obiettivi della missione». E forse la chiusura li favorirà davvero, gli obiettivi; ma non aiuterà chi li persegue.
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
Il bambolino e i barracuda Un banco di barracuda circonda un coraggioso fotografo naturalista nel Mare di Bismarck, al largo dell’isola di New Hannover (Papua Nuova Guinea). Alcuni barracuda possono raggiungere anche i 2 metri di lunghezza
anche desecretati e resi accessibili a tutti nell’ottica della trasparenza e dell’accesso agli atti delle istituzioni. Dopo mesi dal fatto speriamo che anche la Procura riesca a concludere le sue indagini e a individuare i responsabili di una morte che poteva essere evitata.
Donatella
NON LIQUET Oltre ventisecoli fa, quando il diritto romano era agli albori poteva capitare che i pretori non decidevano pronunciare le parole: «Non liquet». Poi con l’evoluzione della dottrina giuridica, tale originaria lacuna venne superata e vennero date risposte e sentenze a tutte le istanze di giustizia. Nella situazione attuale degli uffici giudiziari, carenti numericamente di magistrati, personale e mezzi perché la forbice della riduzione della spesa pubblica ha colpito ingiustamente anche il comparto Giustizia, senza tener conto che per l’aumento della criminalità e della litigiosità, doveva essere tenuto fuori dalla forbice del risparmio, perché era da considerare in emergenza, i progetti del processo breve e quello del riordino della magistratura onoraria rischiano di far fare alla giustizia un salto all’indietro di venti secoli. E infatti ridurre di un terzo l’organico dei giudici di pace, non per mancanza di lavoro ma per produrre il modesto risparmio di meno di 5 milioni annue di indennità fissa,
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
Direttore da Washington Michael Novak
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Collaboratori
Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,
Roberto Mussapi, Francesco Napoli,
Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
Mario Arpino, Bruno Babando,
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
John R. Bolton, Mauro Canali,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
Franco Cardini, Carlo G. Cereti,
Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,
Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,
Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,
meno del costo di una sagra paesana di un piccolo centro, nella situazione di arretrato lievitante perché sono state sovraccaricate di competenze rispetto a quelle attribuite all’atto della loro istituzione, significa provocare la cessazione di molti giudizi per decorrenza di termini. Praticamente viene riesumato il «Non liquet» dei pretori dell’antica Roma, anche se questa volta per altri motivi. L’estinzione del giudizio, coem previsto nel disegno di legge, provocherà sicuramente giudizi contro lo Stato italiano dinanzi alla Corte europea. Le aumentate incompatibilità per i magistrati onorari ed estesi anche ai loro familiari, rischia di provocare un esodo massiccio e creare altri vuoti di organico. Il che sarebbe una Iattura considerata la grande quantità dii lavoro da loro svolta. Non bisogna più chiamarli onorari quindi, ma aggregati, supplenti, perché viene vietato loro l’esercizio della professione forense.
Luigi Celebre
IL COMPROMESSO INDOTTO Dal marzo 1978 ad oggi qualche luce è stata fatta sul delitto Moro. I giovani di allora presero la notizia come l’apice della stagione terrorista italiana, ma nel contempo ravvisarono che da un apice si può solo scendere. Così Aldo Moro ha realizzato un compromesso storico particolare, che ha avvicinato la sinistra al centro politico del Paese.
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mondo
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Fondamentalismo. Wahhabiti, salafiti, indo-pakistani e turchi: sono i quattro “poli” estremisti ormai considerati come interlocutori legittimi
Mappa dell’islam europeo Come i musulmani integralisti hanno “invaso” il Vecchio Continente senza sparare un colpo di Alexandre del Valle conosciute prima degli anni Novanta, le rivendicazioni islamiche riguardo il velo, il burqa, i minareti e contro l’islamofobia (Jihad by court), sono sempre più esigenti. Ma questo fenomeno non è del tutto spontaneo: piuttosto è il frutto di una strategia concepita dai «grandi poli mondiali dell’islam radicale» presenti in Europa. Che in meno di vent’anni sono riusciti a farsi riconoscere come i “rappresentanti” dell’islam europeo, soppiantando i leader musulmani moderati. Il loro fine è palese: per impedire l’integrazione dei musulmani europei, hanno rafforzato il sentimento persecutorio nei confronti dei musulmani e promosso un “ghetto volontario”, cioè una coscienza d’appartenenza islamica europea separata. Per ottenere nuove concessioni, non hanno mostrato subito il loro volto intollerante, antisemita, cristianofobo e ostile all’integrazione, ma hanno strumentalizzato il malessere sociale degli immigrati e i valori tolleranti degli europei, “islamofobi” colpevolizzati. Infine, hanno intimidito e fatto tacere i musulmani moderati.
S
Questi poli radicali dell’Islam sono: primo, il polo saudowahhabita: l’Arabia Saudita (e le istituzioni islamiche ad esso collegate) patrocina e finanza: l’Organizzazione della Conferenza Islamica (Oic). I suoi centri europei per il proselitismo di stato wahhabita sono: l’Assemblea Mondiale della Gioventù musulmana (Wamy), la Lega islamica mondiale (Rabitat) e le organizzazioni collegate come il World Muslim Congress. Secondo: il polo “salafita”, fra cui i
Fratelli Musulmani (Uoii in Italia), legati ai paesi del Golfo e del Prossimo Oriente. I “Fratelli” controllano le maggiori istituzioni islamiche europee: l’ «Unione internazionale degli Ulema», il «Consiglio europeo della fatwa e della ricerca», con sede a Dublino, l’«Istituto europeo di scienze umane», con sede a Saint-Léger-de-Fougeret (Francia) che forma gli imam europei, la Federazione delle or-
Hanno preso il controllo del territorio in modo quasi mafioso,alternando l’intimidazione fisica al separatismo,ed etichettando come traditori coloro che non si sottomettono all’ordine islamico parallelo ganizzazioni islamiche in Europa (Fioe), con sede a Markfield (Gran Bretagna). Il massimo referente dei Fratelli in Europa è lo sceicco Youssef Qaradawi, importante telepredicatore salafita su la tv araba Al Jazeera, specializzato nelle fatwa per i musulmani d’Europa.
In prima fila sia nel condannare per blasfemia lo scandalo delle vignette danesi contro Maometto, sia nel difendere il diritto a indossare il velo. Ha anche giustificato la jihad in Palestina contro i sionisti o in Iraq contro gli Americani. Dalla Svizzera, i suoi discepoli - Tariq e Hani Ramadan -gestiscono il centro islamico di Ginevra, creato dal padre, Said Ramadan, genero del fondatore dei Fratelli, Hassan al Banna. Terzo: il polo “indo-pakistano”: composto da gruppi integralisti come i Barelvi, i Tabligh, che hanno fanatizzato terroristi europei come Khaled Kelkal (attentati islamici del 1995-1996 in
Francia), oppure i Deoband o l’influentissimo Jama’at-i-Islami, equivalente indo-pakistano dei Fratelli musulmani. Questo ramo è presente in Olanda, Belgio e Inghilterra. E grazie a lui molti futuri islamo-terroristi europei sono stati addestrati in Pakistan e Afghanistan, dove i talebani e Al Qaeda li hanno addestrati a preparare gli attentati di Londra e altrove. Quarto: l’Islamismo turco, rappresentato in Europa dallo Stato turco (Diyanet: direzione di culto del ministero dell’Interno turco che gestisce l’islam turco europeo attraverso i consolati). Poi dalle organizzazioni islamiste turche in Europa come il Milli Görüs o le Confraternite fondamentaliste (Nurçu, Naqshband, Suleymanci), presenti in Germania, Alsazia, Austria, Svizzera, Ollanda, Belgio e paesi del Nord. Dagli anni Novanta, quindi, i poli estremisti dell’islamismo sono stati ufficialmente riconosciuti dalle autorità europee co-
me interlocutori legittimi. Hanno preso il controllo del territorio in modo quasi mafioso, cioè alternando l’intimidazione fisica al separatismo, ed etichettando come traditori coloro che non si sottomettono all’ordine islamico parallelo. È cosi che i Fratelli musulmani hanno preso il controllo di: associazioni islamiche, moschee, centri islamici e istituzioni che convogliano il denaro islamico, le reti che certificano il cibo Halal, le macellerie halal, eccetera.
Grazie a questo, e non solo all’iniezione di denaro dall’estero (paesi del Golfo), hanno monopolizzato le strutture di rappresentanza dell’Islam in Italia, in Francia in Belgio, in Spagna, in Germania, in Olanda e in Inghilterra, diventando anche economicamente autonome. Al punto che oggi l’80 per cento delle moschee, centri islamici e strutture di macellazione sacrificale delle carne halal è controllato o dalle associazioni vicine ai Fratelli mu-
sulmani (Italia, Svizzera, Belgio, Francia), o dalla Lega Islamica Mondiale - leggi Arabia Saudita – (Spagna, Belgio), o dai poli indo-pakistani e turchi integralisti (Inghilterra, Olanda, Svizzera, Paesi nordici, Germania). I poli dell’islamizzazione sopracitati concepiscono l’Europa post-cristiana e relativista come un terreno da conquistare, una “dimora della predicazione” (Dar al-Dawaà) o della ”testimonianza” islamica (Shahada). Per capire i loro obbiettivi di conquista, occorre menzionare le parole del docente saudita Ali Kettani, autore dell’opuscolo di presentazione del programma della Fondazione islamica per la Scienza, la tecnologia e lo sviluppo, intitolato Oggi l’Islam: «Il successo di una minoranza musulmana in un paese non-musulmano si misura, in un tempo più o meno lontano, nel riuscire a diventare un giorno o l’altro una maggioranza. Questo fenomeno non si deve svolgere con la forza, ma attraverso un pro-
Manifestazioni di musulmani integralisti a Londra. A sinistra, donne musulmane in fila. Nella pagina a fianco, in alto: Tariq Ramadan
mondo
cesso di assimilazione tra la minoranza islamica e la maggioranza non-islamica, che deve accettare più o meno lentamente, la moralità e la religione islamica e a medio termine identificarsi con l’Islam».
Diffusa in tutta l’Europa a destinazione degli immigrati musulmani e dei convertiti, questo opuscolo fa parte di un insieme di tanti volumi (con il best-seller di Qardawi Il lecito e l’illecito che spiega come picchiare la donna, ammazzare l’apostata e dominare gli infedeli) e saggi diffusi nei centri islamici per preparare le menti islamiche a non integrarsi ai valori occidentali e obbligare così i non-musulmani a adattarsi all’Islam, in nome del “diritto alla differenza”. Globalmente, anche se sono rivali nel controllare l’islam europeo, i grandi poli dell’islamizzazione dell’Europa hanno stabilito rivendicazioni ed esigenze da fare in Europa: - diritto ad indossare il velo islamico nei luoghi pubblici e anche sulle le foto delle carte d’identità; - rifiuto delle classi miste nelle scuole e di certi corsi di biologia, di sport o di letteratura “offensivi per l’islam”; - attuazione di corsi di corano nelle scuole pubbliche e/o scuole private islamiche; - riconoscimento della legge islamica in materia di stato civile (matrimonio islamico, ripudio, poligamia, cimiteri musulmani separati); - finanziamento o appoggio
pubblico alla costruzione di moschee e centri musulmani; - cibo halal nelle mense, aerei, ecc. Piscine e spiagge separate per le donne; - riconoscimento dell’Islam come seconda religione ufficiale; - capellani islamici nelle carceri e nelle istituzioni educative; - partiti politici islamici per rispecchiare gli interessi della “comunità musulmana”. - penalizzazione della ”blasfemia” contro l’islam o il profeta Maometto e dell’islamofobia. Per testare le reazioni delle società “infedeli”, a partire dagli anni Novanta i poli islamici hanno lanciato una serie di sfide (o prove di forza) attraverso una serie di scandali politicomediatici: dai Versetti satanici di Salman Rushdie alle proteste contro la proibizione del velo islamico in Francia o contro il discorso “islamofobo” di Ratisbona di Papa Raztinger; dalla crisi delle vignette contro Maometto, alle proteste per il referendum svizzero contro i minareti. Lo scopo di questi scandali è di costringere la autorità infedeli colpevolizzate a cedere alle esigenze islamiche radicali, per calmare la rabbia dei musulmani. Già, in Francia e in Italia, in Gran Bretagna o in Belgio, gli islamici esigono di boicottare per i giovani le lezioni scolastiche considerate “empie” (ginnastica, biologia, catechismo) o di respingere lo studio di alcuni autori “blasfemi”: Voltaire, Mozart,Victor Hugo, Salman Rushdie, Taslima Nasreen e anche Dante Alighieri, che nella sua Divina Commedia ha osato collocare Maometto nel settimo girone dell’inferno. A Roma, capitale del cattolicesimo, è stata costruita la moschea più grande d’Europa, finanziata per il 75 percento dall’Arabia Saudita (35 milioni di euro) che mira ufficialmente a diventare «la fonte da cui si irradia il volto tollerante dell’Islam al fine di correggere l’immagine negativa di questa religione», mentre le autorità saudite continuano a negare la libertà religiosa a tutti i non-musulmani in Arabia. Annunciando ex ante la vicenda dei minareti proibiti in Svizzera, che gli islamisti volevano più alti in segno di dominazione, i promotori sauditi della moschea di Roma avevano inizialmente chiesto che il minareto fosse più alto di San Pietro stesso. Oltralpe, la Svizzera, dove un decreto federale 10 anni fa aveva autorizzato le ragazze svizzere ad indossare il velo
islamico anche nelle fotografie dei loro passaporti, è stata comunque accusata di “islamofobia” dalle organizzazioni islamiche, quando la popolazione elvetica ha respinto i minareti (che non sono né necessari alla preghiera né un’obbligo cranico, ma solo un segno di dominazione islamica). In Belgio, Olanda, Germania e altri paesi nordici, la legge prevede un finanziamento dello Stato non solo per la costruzione delle moschee ma anche per stipendiare gli insegnanti di islam nelle scuole pubbliche.
Ma queste concessioni - impensabili per i cristiani nei paesi musulmani - non bastano. E adesso gli islamici esigono la penalizzazione dell’islamofobia, forti del sostegno dell’Onu e del Consiglio d’Europa. A Bruxelles, i quartieri di SaintJosse o Scharbeek, a maggioranza islamica e dove la polizia non osa avventurarsi, le bevande alcoliche sono proibite. Perché la legge islamica progredisce proprio in quei quartieri che riproducono il modus vivendi islamico, a volte anche più integralista che in Turchia, Algeria o Tunisia, da dove provengono
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ha rischiato di essere ammazzato pochi giorni fa). Nei Paesi Bassi, un decreto della Corte Suprema del 30 maggio 1986 assegna agli Imam (pur essendo apertamente radicali) lo stesso valore giuridico concesso ai sacerdoti cristiani e ai rabbini, consentendo loro di esercitare negli ospedali, nelle carceri e di ottenere sussidi pubblici. La Costituzione prottegge le scuole private islamiche, sovvenzionate dal governo e sempre più numerose. Mentre i corsi di educazione islamica sono previsti anche nelle scuole pubbliche. Dal 1987, il Parlamento ha deciso che non si può distinguere tra la chiamata alla preghiera lanciata dalle moschee e le campane delle chiese. Ma questo non è bastato. E adesso le organizzazioni islamiche esigono nuove leggi eccezionali per introdurre parzialmente la Shari’a e condannare severamente la bestemmia in nome di una vecchia legge (non più applicata) che la considerava un delitto penale. In Inghilterra, la libertà di manovra dei fanatici di Allah è quasi senza limite: i principali oppositori islamici del mondo, tra cui il tunisino salafita Rachid Ghannouchi, vi esprimono il loro odio anti-occidentale, organizzando raccolte di fondi pubblici per i “combattenti musulmani” in Iraq o in Afghanistan. In alcune città ”musulmane”come Nottin-
A Roma, capitale del cattolicesimo, è stata costruita la moschea più grande d’Europa, finanziata per il 75 percento dall’Arabia Saudita: i promotori volevano un minareto più alto di San Pietro molti dei rifugiati. Dal 1998, i musulmani del Belgio sono rappresentati da un Consiglio islamico i cui membri sono legati ai fondamentalisti. Ma queste concessioni non bastano, e dopo aver ottenuto la possibilità di vestire il velo nella società belga (visibile dappertutto), adesso gli islamici esigono la libertà per il burqa e il diritto, per alcune finte organizzazioni “anti-razziste” come la Lega araba europea, di «controllare la polizia» e verificare che non agisca in modo “islamofobo” quando arresta dei delinquenti “musulmani”. In Danimarca, la legislazione più liberale d’Europa in materia d’istruzione religiosa, si permette velo, burqa e le scuole islamiche controllate dai wahhabiti. Ma anche questo non basta, e la Danimarca è ormai il paese maggiormente accusato di “islamofobia” (dopo il caso delle vignette, il cui autore
gham e Bradford, la Shari’a è in aperta concorrenza con la legge inglese. Le associazioni islamiche e fanatiche come i Deoband (scuola giuridica dei talebani) sono selezionate per fornire seminari di formazione sull’Islam alla polizia e ai funzionari. Il direttore dell’Istituto musulmano, Kalim Siddiqui, vecchia figura istituzionale dell’Islam britannico, ha sostenuto la sentenza di morte contro Salman Rushdie (1992) e ha fondato sia un Partito islamico inglese sia un “Parlamento musulmano” per istaurare, contro le leggi inglesi “impure”, una “disobbedienza civile islamica”, ed esigere una patria separata per i musulmani perchè vi possiano applicare la shari’a. Di recente, gli islamici hanno presentato alle elezioni locali delle liste rosso-verdi, come la coalizione antisionista Respect, che unisce i trotskisti del socialist worker’s party e i sala-
fiti filo-talebani. Lo stesso tipo di lista elettorale è stata elaborata in Belgio sotto il nome di Resist, cosi come le liste “europalestinesi”in Francia o il Partito dei Musulmani di Francia dell’antisemita radicale Ennacer Latrèche, che chiama ad un’insurrezione islamica-terzomondista e antisionista contro l’ordine stabilito. In Spagna, per la prima volta, una delle numerosissime organizzazioni irridentiste islamiche andaluse - ispirate dall’ex marxista negazionista Garaudy e dal movimento dei Murabitun - ha creato il Partito del rinascimento e dell’Unione della Spagna, il cui leader Mustafa Barrach, è sostenuto dal Regno del Marocco, (paese amico dell’Europa), che sostiene in Andalusia l’idea irridentista e pericolosissima del “ritorno della Spagna” all’islam. Dappertutto, in Europa, osserviamo il fenomeno seguente: più gli islamici radicali ottengono vantaggi, concessioni, sussidi pubblici e riconoscimenti ufficiali, più si lamentano e accusano gli europei di essere razzisti e islamofobi, esigendo nuove concessioni. È quella che io chiamo ”strategia dell’escalation”.
Straordinari comunicatori, i poli dell’islamizzazione hanno sfruttato e “religiosizzato” i problemi di natura economica degli immigrati che, all’inizio, non avevano niente che a vedere con la religione. Convincendoli che la re-islamizzazione e la richiesta di diritti comunitari speciali fossero l’unica via per combattere l’islamofobia degli europei. Questo ha permesso di reclutare tanti giovani vagamente nati musulmani, non praticanti e sradicati, attizzando il loro senso di ribellione. Affascinati dal “carisma” di un Tariq Ramadan, dei campioni sportivi neomusulmani come Mike Tyson o dei gruppi rap-musulmani, questi giovani sono diventati dei neo-fondamentalisti non in base a un desiderio iniziale di religiosità, ma in funzione insurrezionale e identitaria. E così queste persone, ormai al limite della paranoia, anziché chiedersi cosa offrire alla loro nuova patria (come faceva mio padre, italiano nato in Tunisia ed emigrato in Francia) pensano che la società “infedele” ex-coloniale gli debba dare tutto. Altrimenti va combattuta Accettando questo postulato (in aperta contraddizione con i principi di laicità e d’uguaglianza), le nostre élite hanno commesso l’errore di equiparare il pluralismo democratico e la tolleranza con il differenzialismo islamico intollerante. In nome del “diritto alla differenza”, hanno concesso “diritti differenti”. Sono caduti nella trappola. L’ingranaggio deve essere fermato ed è necessario promuovere – come sta tentando di fare Sarkozy – un nuovo d’integrazione. patriottismo Perchè la natura non ama il vuoto. O li integriamo, o saranno loro a integrare noi.
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Asimmetrie. La Merkel chiede una stretta per evitare extradeficit come quello di Atene ROMA. L’euro si rafforza, le borse vanno giù, i tedeschi annullano le loro vacanze pasquali nelle isole dell’Egeo. Ma soltanto a maggio – quando Atene emetterà bond per 16 miliardi – il mercato darà il suo giudizio sul compromesso franco-tedesco per salvare la Grecia. Se lo spread con il Bund tedesco sarà superiore ai 6 punti percentuali, svanirà miseramente il salvagente ideato dalla Merkel e Sarkoz. E dai prestiti bilaterali forniti per due terzi dai Paesi Ue e per un terzo dal Fmi si dovrà passare a iniezioni di liquidità. Per le quali, non soltanto per motivi formali, l’unico soggetto deputato è il Fondo monetario.
Chiuso il dossier greco con un pareggio – la Merkel può dire ai suoi elettori che non sarà la Germania a pagare il deficit greco, la Francia può rivendicare la forza di far cambiare l’agenda ai vicini – per Angela Merkel e Nicolas Sarkozy si apre una sfida più delicata: come cambiare il Patto di stabilità europeo, se renderlo più rigoroso come vuole Berlino oppure più votato allo sviluppo come chiede Parigi. Proprio ieri, mentre tutte le cancellerie del Vecchio continente cantavano vittoria, la Merkel è uscita allo scoperto: «La crisi dei conti pubblici greci non è soltanto un fatto di speculazione ma soprattutto di budget. Che il Trattato di Maastricht dice che non dovrebbe accadere. Ma, se accade, la Ue deve trovare una soluzione». Per Berlino La soluzione passa per una modifica diretta a tutti i Ventisette dell’Unione e non soltanto all’Eurozona. «Una soluzione sistemica per affrontare casi come questi, anche se non si deve correre con i tempi». L’uscita della Merkel non è ultimativa, ma basta già la mi-
Dopo la Grecia, si litiga sul Patto di stabilità Parigi invece chiede meno vincoli per incentivare la domanda interna di Francesco Pacifico
esportatrice al mondo, lo scorso anno poteva vantare un surplus commerciale di 135,8 miliardi di euro. Ma ha una domanda interna (è pari al 58 per cento del Pil) debole. Per tamponare quest’aspetto e rafforzare le vendite estere, la cancelleria deve mantenere i conti in attivo, in modo da poter aiutare le sue aziende con incentivi alla ricerca e
Nel mirino c’è il surplus commerciale della Germania (+135 miliardi di euro) che non permette politiche di sviluppo naccia per spaventare una parte dell’Europa. La stessa – Italia in primis – che si era accodata alle critiche del ministro francese delle Finanze, Christine Lagarde, al surplus commerciale e «alla forte pressione sul costo della manodopera» tedeschi, per «un modello non sostenibile per il bene dell’Eurogruppo». Questa una partita si interseca con il salvataggio della Grecia, la difesa dell’euro dalle speculazioni, la crescita stessa dell’Europa. La Germania che fino al 2008 è stata la prima economia
sgravi fiscali, leve principali per la competitività. È dagli anni della riunificazione che la Locomotiva tedesca corre nonostante quest’asimmetria. Ma i Paesi limitrofi sembrano essersene accorti da quando Berlino ha ridotto le sue importazioni di macchine di precisione da Francia e Italia. E da quando i mercati hanno scelto proprio i deficit commerciali quale benchmark per calcolare il rischio sui debiti sovrani. Lo dimostrano le minacce di downgrade da parte delle maggiori agenzia di rating alla Spagna,
Berlusconi delega Van Rompuy e se ne va
Voto “belga” per Silvio BRUXELLES.
Miracoli del nuovo Trattato, assurdità della nuova Europa. Alla seconda giornata del vertice dei capi di Stato e di governo Ue (che si è conclusa ieri a Bruxelles), mentre i Ventisette membri della nuova Europa decidevano le sorti della Grecia, il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi si è fatto rappresentare da Herman Van Rompuy, presidente permanente del Consiglio europeo. Dopo aver partecipato alla prima serata di lavori, e alla decisione sul sostegno alla Grecia, e aver riproposto ai partner il problema delle pensioni con la proposta di un innalzamento a livello europeo dell’età pensionabile, il premier italiano è ripartito per Roma in mattinata. In questo primo vertice dell’era post-Trattato di Lisbona, il premier non ha
potuto farsi rappresentare da un ministro o da un diplomatico italiano: per questo, la “delega” di Berlusconi è stata data al presidente Van Rompuy, che in un certo senso è dunque diventato “italiano” per qualche ora: il tempo di esaminare in sintesi la nuova strategia Europa 2020 e la strategia sul clima dopo Copenhagen. Proprio al vertice di Copenaghen Berlusconi aveva adottato le nuove regole Ue facendosi rappresentare al summit del leader dal cancelliere tedesco Angela Merkel. Prima dell’entrata in vigore del Trattato, il capo di un governo assente poteva esser rappresentato dal ministro degli Esteri o dall’ambasciatore. Con il trattato di Lisbona, invece, entrambe queste figure sono escluse dalla riunione dei leader.
Paese con un debito pubblico pari soltanto al 55 per cento del Pil ma con deficit commerciale di 49,5 miliardi di euro. Non a caso l’Italia, con un deficit commerciale di 4,1 miliardi e un passivo che viaggia verso il 115 per cento del Pil, è considerata più stabile. La Francia ha un rapporto import/export in negativo per 54,5 miliardi. Ha dei consumi interni ancora più fragili di quelli tedeschi. Soffre un’architettura burocratica molto costosa. Di conseguenza non può più accontentarsi della stabilità che gli garantisce un radicato manifatturiero e una diplomazia campione nel creare il terreno per conquistare commesse in tutto il mondo. Deve, con dosi massicce di keynesismo, ravvivare la domanda interna. Ma il Patto, così com’è, non lo consente. Proprio i magheggi fatti dal ministero delle Finanze ellenico dimostrano che già prima della crisi il vincolo 3 per cento lo rispettavano in pochi. E a maggior ragione lo si farà adesso, da quando anche la Cina opera in deficit. Ma senza un riequilibrio al suo interno l’Europa, che vende beni per lo più ai Paesi limitrofi, difficilmente riprenderà a correre.
E qui si ritorna alla Germania. Il Paese non ha la forza di alzare il livello delle importazioni. Ma può aiutare le altre economie accettando di inflazionare il suo sistema. Nonostante siano passati quasi 90 anni, il ricordo della Repubblica di Weimer è ancora presente nel Paese. Ma stavolta si dovrà superare vecchi tabù, se si vuole invertire una tendenza che vede i mercati speculare sull’euro, forti del tasso di rischio legato proprio al deficit commerciale dell’area. Se il prossimo maggio sapremo quanto gli operatori credono al cordone di garanzia offerto dalla Ue alla Grecia, quasi contemporaneamente le cancellerie europee attendono di capire come la Merkel vorrà rilanciare l’economia. La speranza è che passino in secondo piano i tagli fiscali promessi dai liberali alle aziende esportatrici, e si discuta di liberalizzazioni. La logica è semplice: soltanto risparmiando sui servizi i tedeschi avranno più soldi da spendere per i beni prodotti in Francia, Italia o Spagna. Altrimenti i primi tre obiettivi formalizzati ieri al Consiglio d’Europa per l’Agenda 2002 (tasso di occupazione al 75 per cento, almeno il 3 per cento del Pil alla ricerca e riduzione delle emissioni di CO2 al 20 per cento) resteranno lettera morta.
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La Commissione assegna due seggi in più all’ex premier
L’intesa finale riduce di circa un terzo le armi nucleari
Elezioni in Iraq, Allawi in vantaggio
Russia-Usa, accordo raggiunto sullo Start
BAGHDAD. Le autorità irachene hanno rafforzato le misure di sicurezza in diverse provincie in vista della pubblicazione dei risultati elettorali definitivi, pubblicati nella tarda giornata di ieri. Secondo i primi dati, l’ex premier Allawi sarebbe in vantaggio ma di soli due seggi. Centinaia di sostenitori del primo ministro Nouri al Maliki hanno intanto manifestato a Baghdad per richiedere un riconteggio manuale dei voti. Al Maliki, in corsa con la lista “Stato di diritto”, chiede ora il ricontaggio dopo che i risultati parziali indicano il suo principale rivale, Ayad Allawi, come vincitore delle elezioni del 7 marzo con la sua “Lista per l’Iraq”. «Penso che un largo segmento della società irachena dirà oggi addio ad al Maliki - ha intanto commentato Fatah al Sheikh, candidato della lista di Allawisecondo le nostre informazioni siamo in testa di tre o quattro seggi rispetto alla lista “Stato di Diritto”».Kamal al Saadi, candidato per Allawi, ha dichiarato alla televisione irachena che il suo partito è pronto a rivolgersi alla Corte federale se la commissione elettorale respingerà la richiesta di riconteggio manuale dei voti.
La commissione ha già risposto che una simile operazione
WASHINGTON.
Corea, guerra in mare Tensione sul confine Una nave del Sud affonda: un missile dal Nord? di Osvaldo Baldacci
SEOUL. Battaglia navale nel Mar Giallo. Sale ai massimi la tensione tra Corea del Nord e Corea del Sud, anche se bisogna dire che formalmente l’unità coinvolta nello scontro a fuoco con una nave sudcoreana fino a ieri sera non era stata ancora ufficialmente identificata. Non è la prima volta che unità navali delle due Coree si scontrano in quei tratti di mare, ma è sicuramente l’incidente di confine più grande e grave da molti anni a questa parte. Soprattutto se saranno confermate le notizie che parlano di numerosi morti. Infatti non si è trattato di uno scambio di colpi tra motovedette, come in altre circostanze passate. Nel 1999, nel 2002 e il 10 novembre scorso ci sono stati scambi di colpi tra le marine delle due Coree in seguito a sconfinamenti veri o presunti. A fine gennaio Pyongyang ha esploso alcuni colpi in mare per un’esercitazione militare per la quale aveva interdetto la navigazione attorno alle isole di Baengnyeong e Daecheong. Stavolta invece una grande nave militare della Corea del Sud è stata affondata da un siluro, mentre altre unità del sud hanno aperto il fuoco contro un’imbarcazione ufficialmente non identificata. La nave che ieri sera stava colando a picco nelle acque al confine tra i due Paesi aveva 15.000 tonnellate di stazza e un equipaggio di 104 unità. Avviate le operazioni di salvataggio, ma potrebbero esserci già molte vittime. La marina della Corea del Sud, in risposta all’episodio a largo dell’isola di Baengnyeong, avrebbe aperto il fuoco contro una nave non identificata, in direzione nord. A Seoul è scattato subito il massimo allarme, l’allerta delle truppe di Seul è al massimo livello, al punto che il governo ha convocato una riunione d’emergenza dei ministri interessati del comitato di Sicurezza. Anche perché poche ore prima dello scontro a fuoco le forze armate nordcoreane avevano accusato Seul di tentare di rovesciare il regime di Pyongyang e avevano minacciato di rispondere con un attacco nucleare. «Chi cerca di abbattere il sistema subirà attacchi nucleari senza precedenti dall’esercito invincibile», ha affermato un portavoce dello stato maggiore interforze di Pyongyang. Solo poche settimane fa la Corea del Nord aveva detto di stare implementando le sue
difese in risposta alle esercitazioni militari congiunte di Corea del Sud e Stati Uniti.
La cosiddetta Northern limit line è un confine marittimo conteso e controverso nel Mar Giallo a ovest della penisola coreana, tracciato alla fine del conflitto del 1950-53 ma mai accettato dal Nord anche perché dopo l’armistizio le due Coree non hanno mai siglato un trattato di pace, e quindi tecnicamente sono ancora in guerra. Secondo quel confine, l’isola di Baengnyeong è sotto il controllo di Seoul. Analogamente il confine terrestre lungo il famoso 38° parallelo è solo una linea di armistizio, e benché si chiami “zona smilitarizzata”in quanto c’è una fascia di terreno di nessuno, in realtà è la striscia di terreno più pesantemente armata e presidiata di tutto il pianeta, con una massiccia presenza di forze statunitensi. Nonché con un concentrato di armamenti nucleari a disposizione dell’esercito Usa, ma anche di quello nordcoreano. Pyongyang infatti è l’unico dei cosiddetti Paesi canaglia ad aver davvero realizzato la bomba atomica. Due i test nucleari portati a termine dagli scienziati militari del regime comunista, anche se il secondo sarebbe andato male. Sembra però confermato che il Paese Eremita disponga di una piccola quantità di piccole bombe atomiche, ed è del tutto evidente che il Grande Leader intende far pesare questa carta in ogni rapporto con la comunità internazionale. Le atomiche coreane, e la stabilità del regime, interessano non solo gli Stati Uniti ma tutta la regione. Con Seul, sono impegnati in prima fila anche Giappone, Russia e Cina, ma ciononostante la Corea del Nord che era arrivata ad accettare l’accordo per rinunciare ai programmi nucleari ha poi mandato tutto all’aria facendo ricominciare tutto dall’inizio. Nonostante questo gli Stati Uniti hanno anche mandato degli inviati, ma certo la battaglia navale di ieri, tanto più se le vittime saranno numerose, ha fatto tornare molto indietro le lancette del dialogo. Se infatti la comunità internazionale è abituata a questo modo di gestire le cose da parte di Pyongyang, tra ricatti, atti di forza e persino azioni violente, non è detto che sia disposta ad accettare questo livello di provocazioni.
Formalmente, Seoul e Pyongyang sono ancora in guerra. Non è mai stato siglato l’armistizio che pose fine al conflitto del ’53
sarebbe impossibile in quanto richiederebbe diversi mesi di spoglio. Nel frattempo, però, nove persone sono rimaste uccisi e trenntuno feriti in due attentati compiuti in una località vicino Baquba, a nord di Baghdad. Lo ha indicato il comando delle forze di sicurezza della provincia. Due ordigni sono esplosi simultaneamente davanti a un caffé e a un ristorante della località di Khales, 65 chilometri a nordest di Baghdad. Lo ha precisato il comando delle forze di sicurezza della provincia di Diyala, di cui Baquba è la capitale. Questi due attentati sono avvenuti a meno di un’ora dall’annuncio dei risultati ufficiale delle elezioni politiche a Baghdad.
Accordo raggiunto tra Stati Uniti e Russia sulla riduzione dei rispettivi arsenali nucleari. Lo Start 2 sarà firmato l’8 aprile a Praga e stabilisce un tetto di 1.550 testate nucleari operative e di 800 vettori nucleari. L’intesa avrà una durata di dieci anni e potrà essere estesa successivamente per altri cinque anni. Il Senato Usa e il Parlamento russo dovranno approvare il trattato prima che possa entrare in vigore. Soddisfatto il presidente Barack Obama, secondo il quale Stati Uniti e Russia hanno raggiunto «il più ampio accordo sulla riduzione di armamenti in due decenni». L’inquilino della Casa Bianca ha spiegato che l’intesa «riduce di circa un
terzo le armi nucleari che i due paesi potranno dislocare», mantenendo «la flessibilità necessaria per proteggere la nostra sicurezza nazionale e per garantire la sicurezza dei nostri alleati», ha aggiunto Obama. «Con questo accordo Usa e Russia lanciano un chiaro segnale al mondo che intendiamo guidare e rafforzare gli sforzi globali per bloccare la proliferazione nucleare e per garantire che le altre nazioni rispettino le loro responsabilità», ha detto Obama. Per il presidente russo Dmitri Medvedev il nuovo accordo sul disarmo rispecchia l’equilibrio degli interessi di entrambi i Paesi.
Il nuovo accordo, ha aggiunto il Cremlino, «testimonierà la fedeltà della Russia e degli Usa, le più grandi potenze nucleari del mondo, alla riduzione dei propri arsenali strategici offensivi in conformità allo spirito e alla lettera del trattato sulla non proliferazione». «Seguendo la via del disarmo - prosegue il comunicato della presidenza russa - entrambi i Paesi vedono come proprio obiettivo finale la costruzione del mondo libero dalle armi nucleari. Un notevole contributo del nuovo accordo al rafforzamento del regime di non proliferazione e del disarmo ».
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il personaggio della settimana
Se Profumo finisce nella rete di Bossi Ascesa e caduta del banchiere che ai tempi di Prodi voleva rivoluzionare il sistema italiano mentre adesso deve combattere contro l’espansionismo finanziario del Carroccio per salvare almeno la «sua» Unicredit di Giancarlo Galli pronostici della vigilia che accreditano alla Lega di Umberto Bossi un buon risultato nelle principali regioni del Nord (Veneto, Lombardia e forse in Piemonte) stanno mettendo in fibrillazione gli ambienti dell’Alta Finanza. Infatti, gli uomini del Carroccio sono determinati a conquistare poltrone di primissima fila nella galassia di quelle Fondazioni bancarie che, a loro volta, hanno una forte “voce in capitolo” nel sistema creditizio.
I
Andiamo con ordine, partendo dal Veneto. Qui il ministro dell’Agricoltura, Luca Zaia, già ritenendo scontato il successo, va rimescolando carte ed alleanze. Come ha promesso ad Umberto Bossi: controllando il territorio attraverso gli enti locali. Dove i leghisti detengono posizioni di rilievo, a cominciare da Verona col sindaco Flavio Tosi. La Fondazione Cariverona che ingloba le Fondazioni Casse Risparmio di Verona, Vicenza, Belluno e Ancona, è azionista rilevante di Unicredit, colosso europeo guidato con alterne fortune da Alessandro Profumo. Da qualche stagione, il dominus della Fondazione Cariverona, Paolo Biasi, è entrato in rotta di collisione con Profumo, in più di un’occasione contestandolo. Un atteggiamento che ha destato scalpore. Ma poiché c’è capito ben poco di quel che bolle nel pentolone Unicredit, val la pena di spiegare, anche in chiave politica.
Profumo, genovese di nascita, milanese d’adozione, è un banchiere di stampo anglosassone, tecnocrate cresciuto alla scuola della leggendaria
McKinsey. Nato nel 1957, in virtù di meriti e buone relazioni (fondamentali il patronage del vecchio Lucio Rondelli, presidente del Credito Italiano ed intimo di Enrico Cuccia; nonché la consuetudine con Marco Tronchetti Provera, erede della dinastia Pirelli), è stato rapidamente cooptato nell’establishment. Arrivato al vertice di Unicredit, fa piazza pulita della vecchia guardia, beccandosi i nomignoli di Mister Jena e Mister Arroganza. Lui però preferisce far parlare (siamo nel 2005) i meriti: con cipiglio napoleonico aggrega al suo regno la Hvb, terza banca tedesca che controlla la banca Austria; apre a raffica sportelli nei Balcani, nell’Est europeo. Il Frankfurter Allgemeine lo ribattezza: Alessandro il Grande.
Che sia vera gloria è tutto ancora da dimostrare. In Borsa il titolo Unicredit sfiora gli 8 euro (ora viaggia a fatica attorno ai 2) allo scoppio della bolla finanziaria del 2007. Il mito s’incrina, ma Profumo tiene botta, fors’anche in virtù dell’immagine di “banchiere progressista” che s’è costruito. Non con interviste o bla-bla-bla, che aborre, ma schierandosi pubblicamente per Romano Prodi. Senonché l’astro dell’Ulivo declina rapidamente (dimissioni, trionfo berlusconiano nel 2008), proprio nel momento dell’esplosione dei crac finanziari. E comincia la traversata nel deserto di un Alessandro non più “Il Grande”. In quel di Verona, affina le armi il settantenne Paolo Biasi. Ricco ed enigmatico esponente di una dinastia imprenditoriale scaligera (soprannomi: Mister Silenzio e La Sfinge), le cui simpatie politiche risentono del mutare delle stagioni. Sino a strizzar l’occhio alla Lega, al conterraneo Luca Zaia. Che, a sua volta, vede Profumo come il fumo negli occhi. Natural-
mente, Profumo contrattacca, deciso a sfuggire alla tenaglia di Biasi-Zaia. E s’inventa il progetto della “Banca Unica” (cioè centralizzata), che taglierebbe l’erba sotto ai piedi agli esponenti dei soci locali. Ma la proposta è rinviata dal Consiglio di Unicredit al dopo elezioni. Quindi: se la Lega, servendosi del cavallo di Troia Biasi, potrà fare voce grossa in Unicredit, per il prodiano Profumo l’avvenire diviene incerto. Ha smentito voci di dimissioni, ma talvolta le smentite sono armi a doppio taglio. Dal Veneto al Piemonte. Qui, la partita elettorale è sul filo del rasoio, fra l’uscente governatore Pd Mercedes Bresso ed il leghista Roberto Cota. Se le urne dovessero premiare Cota, molti segnali ne anticipano la volontà di influire sugli assetti bancari. In pratica, sulla Fondazione San Paolo, primo azionista del Gruppo Intesa-San Paolo, che non si ritiene sufficientemente rappresentata ai vertici dal presidente del Consiglio di gestione, Enrico Salza, settantenne, ex liberale, accusato di eccessiva subordinazione, quasi un complesso, nei confronti di Giovanni Bazoli, ex prodiano doc, presidente del Consiglio di sorveglianza. Poiché Bazoli, nonostante l’anagrafe (1932), è considerato “intoccabile” per la sua rete di relazioni, la poltrona di Salza scricchiola.
L’intero sistema bancario-finanziario italiano ruota però attorno a Milano. Perno, la mitica Mediobanca, fondata nel 1946 da Enrico Cuccia, che sino alla morte nel 2000 ha dettato legge. Riverito e rispettato per l’eccezionale personalità, i legami con l’Alta Finanza francese ed anglosassone, che gli consentirono di “tenere a balìa” l’italico capitalismo. Propiziandone il rilancio. Scomparso Cuccia, la stella di Mediobannca s’è progres-
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Dal Credito italiano al colosso della finanza
Decisione all’unanimità, Bolloré sarà vicepresidente
E Geronzi conquista il vertice di Generali
Alessandro Profumo, amministratore delegato del gruppo Unicredit, è nato a Genova il 17 febbraio 1957. Ultimo di cinque figli, ha trascorso l’infanzia a Palermo dove suo padre ingegnere aveva fondato una piccola industria elettronica. Nel 1970 si è trasferito con la famiglia a Milano dove ha frequentato prima il Liceo Classico Manzoni e poi l’Università Bocconi. Nel 1977 ha sposato Sabina Ratti, ex compagna di liceo, e ha iniziato la sua esperienza nel settore creditizio al Banco Lariano, dove ha lavorato fino al 1987. A quel punto, ha lasciato il settore bancario per approdare nella consulenza aziendale: Dal 1987 al 1989 è stato responsabile di progetti strategici per McKinsey & Company, poi capo relazioni istituzionali alla ”Bain, Cuneo e associati” (oggi Bain & Company). Nell’aprile 1991 è tornato nel settore bancario assumendo la carica di direttore centrale per il gruppo RAS. Nel 1994 è passato al Credito Italiano, diventandone direttore generale nel 1995 e amministratore delegato nel 1997. Con la nascita del gruppo Unicredit (1998) ha assunto la guida della nuova società e ha iniziato la sua politica di acquisizione di istituti di credito minori. Nel 2005 ha perfezionato l’integrazione con il gruppo tedesco HVB mentre nel 2007 si è fuso con Capitalia: a questo punto Profumo è a capo di uno dei più grandi gruppi bancari d’Europa.
sivamente appannata, e non molto lustro le è derivato dall’arrivo del romano Cesare Geronzi. A prescindere dai problemi giudiziari, Geronzi più che un Ammiraglio è considerato uno scaltro navigatore. Fra gli scogli della politica (inizio di carriera propiziato da Giulio Andreotti), ed il banking. Sua caratteristica “storica”, traghettare i vari istituti presieduti verso porti più ampi e sicuri. Ultimo esempio, la confluenza di Capitalia (con Banco di Sicilia e Banco di Roma) in Unicredit.
Mediobanca non è “traghettabile”. Tuttavia, fanno notare gli osservatori non distratti, il santuario del quale Cuccia aveva difeso sino all’ultimo respiro l’indipendenza e l’autonomia assolute, s’è lentamente trasformato in un semiprotettorato berlusconiano. Nel Cda compaiono i nomi di Tarak Ben Ammar, Marina Berlusconi, Ennio Doris. Una situazione che desta preoccupazione nei “soci francesi”, con Vincent Bolloré esponente di spicco, assai prossimo sia a Jacques Chirac che a Nicolas Sarkozy. Che temono i transalpini? Sono in ansia per la partecipazione-chiave di Mediobanca nelle Assicurazioni generali, fiore all’occhiello del nostro capitalismo.
TRIESTE. Cesare Geronzi si avvia
I vertici lumbàrd hanno chiesto la sua testa, affidando il comando della battaglia alle Fondazioni del Nord. Lui ha parlato di dimissioni poi ha smentito. Ma le smentite sono armi a doppio taglio
Con la sua miriade di partecipazioni. Attualmente guidata dal francese Antoine Bernheim. Classe 1924. Determinatissimo a resistere (anche con l’appoggio del management), nel timore che se fosse sostituito da Cesare Geronzi, per le Generali il futuro si presenterebbe a dire poco incerto. Nel senso che Geronzi potrebbe essere tentato (o sollecitato) da un’altra operazione-traghetto. Essendo noti gli occhi che sulle Generali hanno puntato la francese Axa e la tedesca Allianz.
Come s’è faticosamente tentato di tratteggiare semplificando, tutto è in movimento negli assetti dell’establishment finanziario italiano. La piramide è composta da tantissimi tasselli, incastri. Un collante, certo, la politica. Ma se i partiti tradizionali, anche se spesso, obtorto collo, hanno garantito una relativa indipendenza, ora la Lega va ripromettendosi di farsi sentire. Partendo dal basso (vedi Cariverona-Unicredit) e sempre più su. Lasciando aperta ogni ipotesi. Per questo le elezioni di domani, se il Nord Italia si tingerà di verde leghista, assumeranno un significato che va ben oltre lo specifico regionale. A breve scadenza, coinvolgerà l’intero mappamondo bancario.
a diventare presidente delle Generali e Renato Pagliaro, direttore generale di Piazzetta Cuccia, a prendere il suo posto al vertice di Mediobanca. Vice di Geronzi sarà Vincent Bolloré, il candidato che fino all’ultimo aveva contrastato la nomina del banchiere di marino. La notizia è trapelata ieri pomeriggio dopo una serie di riunioni, di voci e controvoci che si sono rincorse in Mediobanca. Una giornata convulsa che si è conclusa con un «comitato nomine» che ha deciso di convocare il patto di sindacato dell’istituto entro metà della prossima settimana per nominare il nuovo presidente dell’istituto proprio in vista del passaggio ufficiale di Geronzi al vertice del Leone. Secondo le stesse fonti finanziarie la lista per il Cda delle Generali è stata stesa e il rinvio di qualche giorno è legato ai tempi tecnici per convocare il patto. Infatti la nomina ufficiale era attesa per ieri stesso, nel corso del «comitato nomine». Mediobanca, in una nota ufficiale ha scritto: «L’odierno comitato nomine di Mediobanca ha avviato l’iter decisionale per la predisposizione della lista per la nomina del Consiglio di Amministrazione di Assicurazioni Generali; si prevede di concluderlo entro la metà della prossima settimana in concomitanza con la convocanda riunione del Patto di Sindacato di Mediobanca». La situazione si è sbloccata con queste parole: «È fatta, all’unanimità». Lo ha detto proprio Vincent Bolloré uscendo dalla sede di Mediobanca dove si era tenuta, per poco più di due ore, la riunione del comitato nomine chiamato a stilare la lista per il rinnovo del consiglio di Generali. Il finanziere non aveva voluto precisare se si fosse deciso di mettere in lista il presidente dell’Istituto di Piazzetta Cuccia, Cesare Geronzi. Poco dopo Bolloré, poi, aveva lasciato piazzetta Cuccia anche il presidente di Unicredit, Dieter Rampl, senza rilasciare dichiarazioni. L’ultimo a uscire è stato lo stesso Geronzi che a questo punto corona la sua lunga rincorsa al colosso delle assicurazioni e della finanza italiana (e non solo). «Presidente, allora va a Trieste?», gli hanno chiesto i cronisti appostati fuori dalla sede di mediobanda, ma Geronzi non ha risposto, ha detto solo «Ciao a tutti», salutando con la mano.