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di e h c a n cro
La tristezza va sopportata
come una malattia, senza tanti ragionamenti e ragioni Alain
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 2 APRILE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il segretario dei democratici risponde con una lettera alle critiche dei 49 oppositori: «Tranquilli, siamo ancora in piedi»
Pd, Tafazzi for President
Sono anni ormai che, dopo ogni elezione, la sinistra cade in preda a risse da condominio e autoflagellazioni degne del comico di “Mai dire gol”. È un alibi per fuggire dai veri problemi CONTROCORRENTE
Parla Massimo Cacciari
Difesa di Bersani (con un limite)
«Sinistra addio, l’unico futuro è con l’Udc»
di Giancristiano Desiderio Il Pd ha perso le elezioni, ma non è la fine del mondo. Un buon partito che ha l’aspirazione di governare prende atto della sconfitta, si rende conto degli sbagli e si prepara con dignità a rimettersi in cammino. La sinistra italiana invece applica la tragedia greca alle elezioni.
di Franco Insardà
di Errico Novi
ROMA. Il mare è aperto. È il
Tutto cominciò coin la caduta del Muro e la svolta della Bolognina lanciata da Achille Occhetto per cancellare la scomoda eredità del Partito comunista. Ne nacque il Pds, il partito democratico della sinistra, che ha inmpiegato quasi vent’anni per perdere la parola “sinistra”dalla sigla.Troppi.
mare delle riforme che non ammettono ulteriori rinvii, delle scelte che attendono i democratici sul dossier istituzionale come sul welfare. È in quel mare, dice Massimo Cacciari, che c’è spazio per un nuovo Pd, e per una forte alleanza con l’Udc. In questo futuro i democratici devono inoltrarsi con una linea politica davvero nuova, emancipata dall’idea di sinistra. Ma se la malattia del Pd va curata, non si può trascurare lo stato di salute del bipolarismo: «Che in realtà non c’è, visto il condizionamento di forze eterogenee sui due partiti maggiori», dice Cacciari.
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STORIA DI UN’ILLUSIONE
Ma il partito non è mai nato di Gabriella Mecucci
dossier
Lettera aperta agli amici di “Farefuturo”
Nel Pd è sempre tutti contro tutti: dopo il “caminetto”polemico di martedì e la lettera dei 49 senatori di mercoledì, ieri è toccato al segretario prendere carta e penna per difendere le proprie ragioni. Non serve autoflagellarsi, dice Pier Luigi Bersani, «il Pd è sempre in piedi e anzi adesso bisogna cominciare a camminare più svelti verso l’alternativa». Quale, per ora, ancora non si sa.
Belli i vostri fiori, ma cosa possono contro i cannoni della Lega?
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Il Cavaliere «chiede consigli» sul social network
Berlusconi lancia le grandi riforme. Su Facebook Il premier “salva” Raffaele Fitto: respinte le dimissioni del ministro sconfitto in Puglia. Per il rimpasto di governo i tempi si allungano
di Riccardo Paradisi Farefuturo è una delle poche realtà nell’arida landa della politica italiana. È una fondazione che ha messo in campo delle idee, ha lanciato delle suggestioni, ha posto dei problemi, ha seminato dei dubbi. a pagina 10
Marco Palombi • pagina 6
Spesso ignorati dall’Occidente, la loro Rete è decisiva per i diritti umani
Viaggio nell’arcipelago della libertà Dalla Cina alla Birmania, parlano i protagonisti del dissenso di Vincenzo Faccioli Pintozzi L’Arcipelago si è spostato. Dalle fredde latitudini della Siberia sovietica, il mondo descritto dagli anti-rivoluzionari russi ha fatto fagotto ed è virato verso i più caldi climi di Asia e Africa. Ma perché questo viene ignorato? Perché le miriadi di piccole e coraggiose realtà che compongono il network della nuova dissidenza è pressoché sconosciuto all’opinione pubblica internazionale? Da una parte c’è un primo fattore di natura squisitamente geografica. Sono troppo lontani da noi. Ma dall’altra, come sempre, è l’economia a dettare l’interesse internazionale per quei popoli.
Giù i Firewall di Pechino di Yang Jienli La popolazione cinese ha, oggi, il diritto e il dovere di decidere del proprio futuro. Così come quella del resto dell’Asia. Ecco perché, oggi più che mai, sono necessari network indipendenti che dicano la verità su ciò che
succede nel Paese e nel mondo. Con il mio gruppo “Initiatives for China”cerco di sensibilizzare il mondo sulle battaglie dei dissidenti cinesi: l’ultima volta, abbiamo sostenuto un uomo chiuso in un aeroporto di Tokyo.
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
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WWW.LIBERAL.IT
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IN REDAZIONE ALLE ORE
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Separati in casa. Non si ferma il fuoco amico sui vertici del Nazareno. Che rischiano di doversi affidare ai massimalisti
Il comarismo di sinistra
Continua la girandola di accuse incrociate nel Partito democratico. Il segretario scrive alla minoranza: «Tranquilli, siamo ancora in piedi» di Franco Insardà
ROMA. Sconfitta dopo sconfitta, il Partito democratico assomiglia sempre di più all’Inter dei primi anni delle gestione Moratti. I campioni non mancherebbero, ma il gioco di squadra langue. E con i risultati che tardano ad arrivare, lo spogliatoio si divide e i tifosi diminuiscono. Se in quell’Inter l’unica cosa che riusciva era sostituire l’allenatore, al Nazareno sono in molti a vedere un parallelo tra la vorticosa successione da Bianchi a Zaccheroni (passando per Simoni, Cuper, Hodgson e Lippi) e il fatto che in tre anni di vita il Pd ha avuto altrettanti segretari. Una girandola infinita di allenatori per ottenere sempre lo stesso risultato: perdere nella domenica decisiva, per poi iniziare, il lunedì, a criticare le
Matteo Renzi contro Nicola Zingaretti, Walter Veltroni apre a Nichi Vendola mentre il Cavaliere gongola e pensa al presidenzialismo scelte fatte per la partita e sostenere che con una squadra diversa si sarebbero potuti ottenere risultati diversi. E così nel Pd Walter Veltroni va via dopo le politiche del 2008. Dario Franceschini lascia dopo le Europee del 2009. E adesso, con l’asse Bossi-Berlusconi che ha sbancato alle amministrative, sulla graticola c’è Pier Luigi Bersani.
Per l’attuale segretario del Pd, infatti, da lunedì sera è iniziato quello che Rosy Bindi ha definito un“tiro al piccione”che, secondo il presidente del Pd, dovrebbe essere evitato. Ma sembra che queste Regionali abbiano dato munizioni a molte doppiette che sparano all’impazzata, con il rischio di impallinarsi a vicenda. Insomma la stagione della caccia in via del Nazareno non
subisce battute d’arresto. Il segretario Bersani e il suo vice Enrico Letta a caldo hanno cercato di tenere bassi i toni dichiarandosi, tutto sommato, soddisfatti per come erano andate le cose. Forse non avevano fatto i conti prima con il “disfattismo” di Di Pietro ( che ha dichiarato senza mezzi termini «ha vinto Berlusconi») e poi con il fuoco amico di veltroniani, franceschiniani, mariniani e prodiani. Un tutti contro tutti che fa assomigliare il Nazareno a quei condomini rissosi dove, in estenuanti e lunghissime riunioni, si litiga per ogni piccola decisione o, peggio ancora, dove le “comari” battibeccano per la cartaccia abbandonata dal bambino di turno sul pianerottolo. A difendere il segretario i suoi fedelissimi e i radicali con Marco Pannella in testa, grati a Bersani per la scelta, criticata da alcuni del suo partito, di candidare la Bonino nel Lazio.
Senza contare le polemiche a distanza tra le giovani leve del Pd: il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, e il presidente della provincia di Roma, Nicola Zingaretti. E ancora Walter Veltroni che ieri, intervistato da Repubblica, ha detto «Ammettiamo la sconfitta, il partito può rinascere se è aggressivo e popolare». Un partito nato per andare oltre
Contro i soliti istinti autodistruttivi dei democratici
Difesa di Bersani (con un limite) di Giancristiano Desiderio l Pd ha perso le elezioni, ma non è la fine del mondo. Un buon partito che ha l’aspirazione di governare prende atto della sconfitta, si rende conto degli sbagli e si prepara con dignità a rimettersi in cammino. La sinistra italiana invece è affetta da nannimorettismo. Sia pure alla rovescia. Il drammone è il suo pane quotidiano. La sua filosofia di fondo è la tragedia greca applicata alle elezioni. Così con questa volontà di fustigarsi e farsi del male si commette il solito errore: buttare il bambino con l’acqua sporca. Certo, l’acqua sporca va buttata, ma il bambino lo vogliamo salvare? Il bambino si chiama Pierluigi Bersani.
I
Oddio, per essere un fanciullo è un po’ cresciutello. Ma Bersani è una persona seria, concreta, ragionevole. E ha fatto l’unica cosa che poteva fare: ha ammesso di aver perso le elezioni ma ha anche detto che il partito non è sconfitto. Insomma, ha perso una battaglia, non la guerra. Che - vista la realtà senza eccessivi pregiudizi - è proprio quello che si è verificato. Pierluigi Bersani si è messo alla guida di un partito che, per il suo stato di salute e la sua storia giacobina e dipietrista, non era certamente in condizioni di liquidare con il voto regionale il governo che gode della più vasta maggioranza politica e parlamentare della storia repubblicana. Se si chiedeva questo a Bersani si sapeva di chiedere una cosa impossibile. Ecco perché oggi è ingiusto chiedere le dimissioni di Bersani. Ma è anche irrazionale e capriccioso. Se nel Pd facessero uno sforzo di ragionevolezza vedrebbero che Bersani ha limitato i danni. Portare a casa sette regioni, una in più della maggioranza di governo, di questi tempi è un signor risultato. D’accordo, si tratta delle regioni rosse più qualcos’altro. Tuttavia, quale sarebbe la ricetta giusta che le comari della sinistra vogliono opporre al leghismo e al berlusconismo? Il giustizialismo personale di Antonio Di Pietro e il moralismo astratto del suo partito non è una via di uscita dalla crisi della sinistra, ma una via da cui bisogna uscire perché rappresenta la causa di vittoria permanente di Berlusconi. Rimproverano a Bersani di essere troppo posato e poco aggressivo. Ma deve fare il politico, non la rockstar. Soprattutto non ha in mano la bacchetta magica per risolvere in due anni un disastro di venti. È proprio questa l’origine dello psicodramma esistenziale e nazional-popolare della sinistra italiana: l’idea che tutto si potrà risolvere alle prossime elezioni e con una gran bella manifestazione di piazza perché noi abbiamo le idee migliori e siamo l’avanguardia del senso della storia. Il merito di Bersani è di non credere più in questa vulgata popolare e postmoderna del marxismo di una volta. Il suo demerito è quello di non comunicarlo con altrettanta sicurezza e ragione. Ma prima lo si dice e prima ricominceranno a camminare con senso della metà: tutto l’armamentario ideologico della superiorità della sinistra italiana è un ferro di legno inservibile. Questo è il punto di partenza. La strada è lunga, molto lunga. Ma la sinistra che piange sempre ancora non è ai blocchi di partenza.
la sinistra, ma che non riesce a uscire da certi schemi in una spirale a metà tra l’amarezza morettiana e l’autolesionismo tafazziano. Il rischio, secondo alcuni esponenti moderati del Pd, è che mentre ieri Veltroni aveva messo da parte una sinistra radicale mal ridotta oggi Bersani rischia di farsi dettare la linea, sopraffatto da dipietristi, grillini e popolo viola che hanno acquisito un peso specifico diverso. E pensare che proprio Veltroni adesso auspica che la strada di Nichi Vendola possa incrociarsi con quella del Pd, un modo, secondo lui, «di tornare alla concezione per cui questo partito è nato, quello di ospitare anime diverse dentro lo stesso progetto riformista».
In questo clima è arrivata anche la lettera dei 49 senatori con la richiesta al segretario di “cambiare passo”. Bersani ha prima replicato loro di non continuare a «guardarsi l’ombelico» e poi ieri ha inviato una lettera ai coordinatori dei circoli del partito nella quale sostanzialmente conferma la sua linea e diffonde ottimismo. «Il Partito democratico è in piedi. Per la prima volta dopo molto tempo, nel voto di domenica e lunedì scorsi si è verificato un arretramento consistente dei consensi del Popolo delle libertà - ha scritto il segretario del Pd -, solo in parte compensato dalla crescita della Lega; le distanze tra il campo del centrodestra e il campo del centrosinistra sono oggi sensibilmente inferiori rispetto a un anno fa, e quindi pur dentro a elementi di delusione si apre uno spazio per il nostro impegno e per il nostro lavoro». A sostegno della tesi di Bersani è sceso in campo Enrico Letta che dalle colonne dell’Unità ha sostenuto la buona tenuta del partito e criticato la scelta suicida di «mettere in discussione il terzo segretario dopo 14 mesi». Ma Bersani, pungolato dalle critiche ha ammesso che «adesso dobbiamo accelerare. Da qui dobbiamo ripartire mettendoci al lavoro per rafforzare il nostro progetto e per dare radicamento a un Partito democratico concepito come una grande forza popolare, presente con continuità ovunque la gente vive e lavora e capace di offrire proposte che abbiano un contenuto sempre piu’ visibile e
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Massimo Cacciari ha portato al successo il «suo» candidato al Comune di Venezia, Giorgio Orsoni, raccogliendo anche i consensi dei centristi. E forte del successo di questo laboratorio lancia a Bersani la proposta di una replica in chiave nazionale
«Il futuro del Pd è con l’Udc»
Cacciari: «Ostellino si sbaglia, è questo “bipolarismo all’italiana“ a bloccare le riforme» di Errico Novi segue dalla prima Ed è così che la critica alla “illusione centrista” avanzata per esempio dall’editoriale di Piero Ostellino sul Corriere della Sera di ieri si ribalta in un’impietosa demitizzazione del persistente trionfalismo bipolare: «Come fa a essere bipolare un sistema come il nostro, dove si devono fare i conti con gli opposti populismi di destra e di sinistra?», si chiede infatti il sindaco uscente di Venezia, troppo motivato per uscire anche dalla scena politica. È arrivato il momento della svolta, per il Pd? È questa l’occasione per essere anche coerenti con l’elisione del termine “sinistra” dal nome del partito? I nomi possono avere anche un valore relativo: e infatti la questione del Pd è di strategia e di organizzazione. Ma è pur vero che se ti chiami Partito democratico devi pure spiegare in che cosa ti differenzi dall’essere un Partito democratico della sinistra. E perché non è stato fatto? Perché prevalgono sempre le ragioni della continuità, del compromesso con le proprie cosiddette radici, sulla scelta netta in una certa direzione. Una scelta che sembrava profilarsi all’inizio con il famoso discorso di Veltroni a Torino. In una conferenza stampa le hanno chiesto del Piemonte andato in fumo per i voti di Grillo. Lei ha risposto: “Quando smetteremo di farci del male da soli forse non succederà più”. Se perdi una regione perché una fetta consistente di sinistra-sinistra continua, per differenziarsi, a regalare le regioni e le città alla destra, se ti manca ogni spirito di coalizione, come è inevitabile in un bipolarismo imperfetto come il nostro, alla fine perdi. A Venezia si è vinto perché alla fine la volontà di coalizione
coerente». E riferendosi ai “ribelli” ha aggiunto che nel Pd «c’è spazio, come è nostro costume, per una discussione larga e libera sul dopo elezioni e sulle prospettive del nostro partito, ma non per dibattiti au-
è prevalsa, per fortuna. Sia a sinistra che nell’Udc. Ma non è questo il punto. Qual è il punto? La questione fondamentale in questo Paese è la linea politica dei due maggiori partiti, Pd e Pdl. Lì si gioca la sfida decisiva. Ma l’uno continua a stare in mezzo al guado, cioè a non diventare un partito democratico a tutti gli effetti, rompendo i vecchi schemi barocchi sinistresi, e l’altro continua a essere un partito proprietario, che si regge sull’egemonia mediatica di Berlusconi e si tira dietro tutti i problemi del personaggio, una cosa ancora più pazzesca. Se rimarranno queste due anomalie sarà difficile battere le ventate demagogiche e populiste, sia a destra che a sinistra. Piero Ostellino ha dedicato il suo editoriale sul Corriere della Sera alla “illusione centrista” infranta sulla dura realtà del bipolarismo. Ma è anche vero che dal malfunzionamento del bipolarismo, da lei appena ricordato, rischiano di derivare molti più danni che non dalle alleanze variabili dell’Udc. Bisognerebbe distinguere tra il modello bipolare e il bipolarismo all’italiana. Che è un bipolarismo per modo di dire. Quello vero è il modello anglosassone. Da noi ci sono diecimila famiglie dentro ogni partito e nessuno ha la forza sufficiente per governare da solo. Ormai anche il Pdl è del tutto ancorato al risultato della Lega. Della Lega al nord e dei leghismi alla Lombardo al Sud. Che bipolarismo è? Se lo chiede anche l’Udc. Dico di più: persino se si dicesse che in Italia è impossibile creare un sistema au-
toreferenziali che potrebbero allontanarci dal senso comune dei nostri concittadini». Archiviate e metabolizzate le Regionali per il Pd si apre un’altra partita che terrà banco nei prossimi mesi: quello delle
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tenticamente bipolare, si può essere d’accordo. Può darsi che adottarlo in Italia sia sbagliato in assoluto, può essere. Ma di sicuro quello che c’è oggi da noi non è un bipolarismo: i due partiti maggiori devono comunque ancorarsi a forze del tutto eterogenee rispetto a loro. Chiaro. Torniamo alla svolta del Pd: l’ex prosindaco di Mestre Gianfranco Bettin sostiene che il futuro è nell’alleanza forte tra il centro moderato e il riformismo democratico. È questo il senso della svolta per la linea politica del Pd? Il Pd deve innanzitutto definire le sue linee strategiche su alcune questioni fondamentali per il Paese a partire dalle riforme istituzionali. Ci vorrà un processo interno costituente, non semplice, ma è necessario. Il Pd deve dire la sua in modo chiaro su presidenzialismo, riforma del bicameralismo, dell’esecutivo. E ancora, sul federalismo, cioè sul rapporto tra enti locali, Regioni e Stato. E sulle riforme economiche a cominciare dalle pensioni: con chiarezza, senza guardare né a destra né a sinistra, ma secondo linee programmatiche precise, dicendo cose sensate. C’è la partita, che l’Italia sta perdendo, della formazione del capitale umano: la Cina spende più per scuola, università e ricerca che per l’esercito. Meglio tardi che mai, nel caso del Pd. Dopodiché ci si deve dare un’organizzazione davvero federale, altrimenti il partito non riuscirà mai a risolvere il problema del Nord, problema che lo sta ammazzando: vedi la sconfittà in Piemonte che è gravissima. E intorno a questo dovrà emergere un gruppo diri-
La nuova linea passa per il patto con il Centro. Basta con la sinistra, servono scelte nette su tutti i grandi temi
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riforme, presidenzialismo in testa. Potrebbe essere un’occasione, secondo alcuni esponenti del Pd meno fondamentalisti, per evitare un muro contro muro con Silvio Berlusconi e proporre un confronto per giunge-
gente forte. Finché invece di avviare questo processo continuerà a barcamenarsi tatticamente, perderà ancora voti. E le alleanze? A partire dalla linee programmatiche il Pd troverà le forze più vicine e farà le alleanze. Naturalmente i programmi per un governo nascono anche da compromessi: li hanno fatti i democristiani tedeschi con i liberali e in certi momenti anche con i socialdemocratici. Il Pd può allearsi con l’Udc, considerata la distanza sui temi eticamente sensibili? Non può, deve. È evidente che questi partiti coprono aree culturali e politiche distinte, la rappresentanza dell’uno non può sostituire quella dell’altro. Ma esse hanno davanti anche dei motivi di convergenza, delle ragioni per elaborare una strada comune. Nella situazione italiana attuale, queste due aree hanno il dovere di trovare sempre più motivi di accordo. Immaginiamoli. Penso alle riforme istituzionali, alla giustizia, alla comunicazione. I motivi di distinzione resteranno tali. Pd e Udc possono dar vita a forti convergenze, anche accentuando per certi versi i loro tratti di identità: nella situazione italiana credo che sia doveroso tentare questa strada. Credo che questo potrebbe caratterizzare la strategia del Pd per il prossimo futuro: si dovrà scegliere se andare in questa direzione, certo difficile, o in una sorta di Ulivo-bis. Bersani è l’uomo giusto per imboccare la prima strada. È una persona molto pragmatica ma bisognerà vedere se questo lo aiuterà o lo spingerà a tentare di tenere insieme tutto, sia l’Udc che la sinistra. A un certo punto bisognerà scegliere. Comunque questo assalto post-elettorale mi piace poco, rivedo il segno della cupiditas dissolvendi.
re a una soluzione condivisa con pesi e contrappesi. Altrimenti, conclude amaramente il nostro interlocutore Pd, l’alternativa sarebbe un presidenzialismo votato a maggioranza, con il successivo avallo refe-
rendario e con un Pd che, dopo l’inevitabile sconfitta, ricomincerebbe a criticare le scelte della dirigenza. Per la gioia delle “tristi comari” del Nazareno alla conquista di qualche minuto di notorietà.
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Parabole. Dopo la caduta del Muro di Berlino fu disperso il buono e il cattivo di tante tradizioni della politica italiana
Storia di un partito mai nato Tutto cominciò con Occhetto: ma il suo Pds ha impiegato quasi vent’anni per perdere la “s” di “sinistra”. Nel duello continuo tra D’Alema e Veltroni di Gabriella Mecucci ntorno al Pd agonizzante, è iniziata una rissa da cortile alla ricerca del colpevole della sconfitta. Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi e il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti si rampognano. Il primo accusa il secondo di essere un vigliacco e per tutta risposta si becca l’epiteto di opportunista. La figlia di Veltroni, Martina, prende la parola da New York e sfida: «Vedremo se adesso qualcuno si dimette». Triste difesa di papà. Replica la figlia di Bersani, mentre cresce l’attesa per i possibili interventi dei discendenti di D’Alema e di Franceschini. Il dibattito poli-
né nel 2009 né nel 2008. Viene da molto lontano ed è figlia di molti padri: una serie quasi ininterrotta di errori, di scelte fatte a metà, di colpi di teatro, di piccoli e grandi opportunismi. Era già caduto il muro di Berlino, quanto Achille Occhetto finalmente si accorse che il Pci era diventato uno strumento inservibile. Lo disse a mezza voce, tanto che i giornalisti che erano alla Bolognina faticarono molto a capire che quella era una «dichiarazione storica». E comunque, sia come sia, anche se con incredibile ritardo, partì la “pratica”di scioglimento del glorioso partito di Gramsci e ToACHILLE OCCHETTO Come gliatti. chiamare il nuoFu lui, nel 1989, vo? Nessuno lo a lanciare sapeva. O meil dibattito glio, ciascuno gli su “la Cosa”, dava il suo nome. il nuovo Chi voleva fare «soggetto un Partito del lapolitico» che voro, chi preferiavrebbe dovuto va la parola soprendere il posto cialista e chi – (e modernizzare) iniziò da allora il vecchio Partito una ventennale comunista. discussione – Il travaglio durò puntava sul parquasi due anni tito democratico all’americana, che andasse oltre tico a sinistra è ormai al livel- la sinistra. Per due anni, dunlo di una lite fra comari di pro- que, il nuovo soggetto politico vincia, anche se vivono nei venne definito “la Cosa”. Escaquartieri più glamour della motage neanche troppo brilGrande Mela. Un pollaio vo- lante per coprire il vuoto di ciante e firmante. Quaranta- idee. Nomina sunt consequennove senatori hanno infatti tia rerum: se non sai che cosa sottoscritto un documento con vuoi fare, è impossibile dargli il quale mettono sotto accusa un nome. Bersani e gli chiedono un cambio di passo. In questa ba- Il risultato di quel lungo, loraonda naturalmente non si gorante confronto fu una chivede all’orizzonte nessuno che mera di nome Pds: un po’ porti qualche argomento poli- partito democratico, un po’ tico pesante al mulino della di- partito socialista. Si faceva scussione. E pensare che nel l’occhiolino alla cultura Pd è confluito ciò che restava più americanizzante, ma del Pci (componente di gran non si andava “oltre la silunga maggioritaria), della si- nistra”. Il nome la dice nistra democristiana e di un tutta sul papocchio a cui certo mondo laico con vaghe gli ex Pci erano approascendenze azioniste. Questi dati dopo ben due tortre «luoghi» un tempo rappre- nate congressuali. In sentavano straordinari pensa- più – tanto per aumentoi di cultura politica, oggi il tare la confusione – mix democratico a cui hanno successe quell’incredidato vita rantola nell’ignoran- bile incidente della za e nella rissosità. mancata elezione di Achille Occhetto a segretario. Ma l’agonia della sinistra E infine, nonostante furbizie e non è iniziata adesso: né ieri compromessucci, arrivò l’ine-
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vitabile scissione con un gruppo di comunisti doc (guidati da Armando Cossutta) che cantarono sino a notte fonda in una Rimini fredda e deserta Bandiera Rossa e l’Internazionale. Un cupo e ridicolo amarcord. Quelli del Pds, o comunque una larga maggioranza di essi, si erano, nonostante tutto, convinti che la vecchia cultura politica del Pci, le forme e le ritualità a lei annesse e connesse, erano diventati ormai strumenti inservibili. Sarebbe stato sano farci i conti sino in fondo e poi sbarazzarsene, in nome di una nuova identità da mettere alla base del partito. Ma i giovani leoni usciti dalla lunga crisi dell’elefante comunista, giudicarono un dibattito così approfondito faticoso e foriero di sconfitte. Invece di far nascere qualcosa di nuovo decisero di traslocare. Si aggrapparono alla grande zattera di Repubblica e ne fecero la loro casa. Orfani ormai di una cultura politica, adottarono quella del quotidiano di Eugenio Scalfari: un mix di difesa degli interessi di alcuni grandi gruppi industriali e finanziari, di anticlericalismo, di giustizialismo, di snobismo salottiero. Così, con l’acqua sporca – e ce n’era parecchia – del Pci venne buttato anche il bambi-
no del radicamento popolare, strani e gauchiste restavano del partito che sa stare sul ter- gauchiste, i vetero azionisti reritorio, che si impegna nell’a- stavano vetero azionisti e potenalisi sociale ed economica, vano continuare a prendersela capace di un certo riformismo, con la televisione (naturaliter contraddittorio, ma non figlio di destra), ma in compenso si dei disegni di lobby di potere. aggiungeva alla cultura, ormai In più, la cultura di in crisi, di Repubblica, una Repubblica, che ARMANDO COSSUTTA aveva “regnato” negli anni OttanSi oppose ta, era ormai anallo scioglimento che lei arrivata al del Partito capolinea. comunista, come anni prima aveva D al t ra sl oc o contrastato lo nacque la «gioiostrappo da Mosca sa macchina da di Berlinguer. guerra» che si inDopo l’ultimo franse, sfraceldel Pci, congresso landosi, contro il non aderì al Pds muro berluscoe diede vita niano, all’epoca a Rifondazione ancora fragile, comunista fatto di mattoni sconnessi e di cemento fresco. A quel punto prese le redini Massimo D’Alema che, con l’aria da bidello che fischia la fine della ricreazione, pensò di mettere a capo della coalizione di centrosinistra (con o senza trattino?), un ex democristiano come Prodi. Una buona trovata. Così: gli ex comunisti restavano ex comunisti, i vetero comunisti restavano vetero comunisti, i Verdi no-
spolverata di cultura della Sinistra democristiana. Il tutto coperto dal faccione sorridente (e dal passato di boiardo di Stato) del professor Romano Prodi. Il giochino riuscì grazie ad una notevole dose di fortuna: Berlusca venne mollato da una Lega ancora ingenua e primitiva.
Al governo per cinque anni, la sinistra aveva tempo e opportunità per ripensare se stessa e darsi un’identità e una cultura che rompessero col giustizialismo scalfariano e che la portassero a dialogare con i ceti imprenditoriali e con il Nord. Invece di fare questo, iniziò la sarabanda dei cambi al vertice. D’Alema fece fuori Prodi e si istallò a Palazzo Chigi. Perse le elezioni regionali e si dimise. Dopo di lui governò per un anno Giuliano Amato, ma non venne giudicato all’altezza di battere Berlusca. E così fu fatto dimettere da sindaco di Roma Rutelli e lo si nominò, in quattro e quatr’otto, candidato premier. Nel frattempo c’era chi aveva tentato di piantare «l’Ulivo mondiale». Balenò allora la speranza che anche in Italia potessero spuntare un Clinton o un Blair, ma durò l’espace d’un matin. A questo fallimento, seguì la nascita dei Ds: meno americani e più europei, meno democratici e più socialisti. Più passava il
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L’inaugurazione della nuova sede nazionale dei Ds a Roma in Via Nazionale, nel 2000, quando il partito lasciò la storica sede di via delle Botteghe Oscure. Nella foto si ricoscono, tra gli altri, anche Walter Veltroni, Massimo D’Alema e Fabio Mussi, storici amici-nemici del post-comunismo
tempo e più i giovani leoni della “svolta” invecchiavano. E i nuovi quadri selezionati venivano scelti perché fedeli al capo, e non perché originali, intelligenti e portatori di nuovi consensi. Le forze fresche erano dunque più esauste delle vecchie. In questa situazione, Rutelli non poteva che perdere. Ormai siamo entrati nel Duemila. I Ds, guidati da Fassino, riscoprirono la vecchia identità antiamericana del Pci e si lanciarono in manifesta-
La nascita del Partito democratico avvenne in piena tempesta politica, con il governo Prodi sull’orlo del collasso
to, che se un prete o un vescovo difendono i loro valori, vuol dire che si intromettono abusivamente nella PIERO FASSINO politica, che violano la laicità È stato dello stato. Se il segretario l’antiamericanidella transizione smo era figlio del dai Ds al Pd, Pci, l’anticlericache per questo lismo lo era di ha sacrificato “Repubblica” e un suo possibile dell’azionismo. I incarico nel diessini sommasecondo governo rono i lati pegProdi del 2006. giori di queste Rimase al partito, culture. Per forfondendosi poi tuna però era nacon la Margherita to, nel 2002, un di Rutelli nuovo soggetto politico, la Margherita che prese zioni rimpinzate di estremisti, un bel po’ di voti moderati in di militanti di centri sociali e uscita dal Ds. di strani preti rivoluzionari. A Genova purtroppo ci scappò il E alla fine, nonostante le morto. Mentre continuavano a tante sciocchezze, ci fu la risicantare le lodi del giustiziali- catissima vittoria del 2006. In smo, i diessini diventarono realtà era un pareggio. Invece progressivamente sempre più di fare di necessità virtù e di anticlericali. Indimenticabile dialogare con l’opposizione il referendum sulla feconda- berlusconiana per mettere in zione assistita quando teoriz- cantiere alcune importanti zarono che la Chiesa non po- riforme, Prodi e alleati scelsero teva intervenire nel discorso la politica del tutto mio: mio il pubblico. Che uno se è cattoli- Presidente della Repubblica, co lo deve essere solo in priva- mio il Presidente del Senato,
mio il Presidente della Camera. Ma questa immagine di arroganza venne coltivata e incrementata dalla politica del governo: l’accoppiata Visco-Padoa Schioppa inventò ogni sorta di tasse e balzelli. Il governo di Romano Prodi venne fatto cadere da Mastella, ma quando se ne andò aveva raggiunto i vertici dell’impopolarità. Mentre il distacco fra esecutivo e opinione pubblica si andava allargando, i diessini e i margheritini pensarono di osare ciò che prima non avevano mai osato. Con quasi venti anni di ritardo e ridotti ormai alla disperazione politica, decisero di dar vita al Partito democratico, la forza che rompeva con tutte le tradizioni precedenti e che non si definiva più di sinistra. Nel frattempo tanti di coloro che si erano battuti per quella svolta, se n’erano però andati: molti intellettuali, ma anche molti militanti ed elettori. Ma tant’è, finalmente era venuto il momento magico. E l’incarico far nascere il Pd fu dato all’allora sindaco di Roma, Walter Veltroni che si era conquistato negli anni una forte popolarità. Un bel discorso al Lingotto, una buona scenografia a Spello: l’operazione sembrava partita bene. Del resto si sapeva che il Pd avrebbe perso le elezioni politiche e che la sua nascita non era una scommessa per l’immediato ma per il futuro. Ma quando si arrivò alla politica vera e alle scelte che contano, la macchina dell’ex golden boy di Botteghe Oscure perse colpi. Il suo Partito democratico a vocazione maggioritaria doveva – questo
il progetto iniziale – andare al contestano il povero Bersani. voto da solo. Così come da so- E tutti gridano alla sconfitta lo sarebbe dovuto andare il Pdl anche se tutto sommato i dandi Berlusconi. Nessuno dei due ni sono stati contenuti. I sonrispettò la parola data. Veltroni daggi estivi, infatti, davano al lasciò fuori dalla coalizione i Pd solo due regioni sicure. vetero comunisti – e fece bene Certo, il partito non è andato – ma si mise in casa Di Pietro. bene, ma è stato precipitato Venne sconfitto, ma dentro la sull’orlo di una crisi di nervi sconfitta c’era anche il pesante dalle dichiarazioni di Di Piefardello della coabitazione col tro che ha cominciato a parlapartito dell’ex FAUSTO BERTINOTTI magistrato, che da allora diventò Dall’antagonismo sempre più posindacale tente. Il suo gioco alla poltrona era semplice: di presidente spararla sempre della Camera, la più grossa del Pd, sua vita politica soprattutto sul è intrecciata con piano giustizialitutte le sconfitte sta, ma non solo, della sinistra e raccattare tutti i italiana: nel 1997 voti estremisti e si impegnò per radicaleggianti far cadere che amavano i toil primo ni alti e sganghegoverno Prodi rati della propaganda, più dei sempre più esangui tentativi di Veltroni di fare re di debacle della coalizione, una opposizione ragionevole e mentre lui e solo lui ha visto ragionata. L’errore veltroniano aumentare i propri consensi. è di quelli difficilissimi da recu- Un episodio che la dice lunga perare. Oggi il suo partito è su chi sia egemone oggi all’insempre più prigioniero dell’Ita- terno del centrosinistra. «Non facciamoci del male», diceva lia dei Valori. un tempo Veltroni quando veIl Pd, insomma, non solo è niva invitato a fare i conti col nato fuori tempo massimo, ma passato comunista, oggi non è nato male. E non basta. Che vige più nemmeno l’imperatidire della sua nuova classe di- vo morettiano: il Pd non discurigente? I due giovani migliori, te di politica, ma in compenso Renzi e Zingaretti, dopo il ri- si dilania. Una volta il sultato elettorale, non hanno Pantheon della sinistra era trovato nulla di meglio da fare gremito di intellettuali, adesso che azzannarsi a suon d’insul- non ce n’è rimasto quasi nesti. Naturalmente di politica suno. L’ultimo ad essere cacnon parla nessuno. I senatori ciato è Nanni Moretti.
diario
pagina 6 • 2 aprile 2010
Social network. Il clima di euforia post-elettorale della maggioranza rilancia il dibattito su presidenzialismo e giustizia
Le riforme? Su Facebook
Berlusconi va in Rete: «Chiederemo consigli attraverso internet» ROMA. Le Regionali hanno ringiovanito Silvio Berlusconi. Il premier non solo ha cominciato ad usare il web per parlare coi cittadini («Ne ascolteremo i suggerimenti su internet»), ma s’è pure presentato al pubblico in formato 1994. In un messaggio postato sulla pagina Facebook del Giornale, infatti, il Cavaliere è tornato a cavalcare «la grande rivoluzione liberale» per modernizzare il Paese: «Adesso si apre un periodo di tregua elettorale e potremo avviare la stagione delle grandi riforme, la riforma dello stato, una grande riforma della giustizia, una riforma di ammodernamento del fisco». Poi il premier, dopo aver riconfermato la fiducia al dimissionario ministro Fitto, s’è trasferito sul sito dei Promotori della libertà: «Mi auguro che l’opposizione, o almeno una parte di essa, abbandoni i toni e gli atteggiamenti di ostilità preconcetta», anche se «noi avvieremo comunque il percorso delle riforme da fare nei prossimi tre anni». Riformare tutto, riformare subito. Il centrodestra, dopo aver temuto il bagno elettorale, ora sembra preso da una sorta di febbre costituente. Tutto il centrodestra, peraltro, se è vero che ieri – proprio mentre battezzava la finiana Generazione Italia – Italo Bocchino regalava perle in puro stile berluscones dalle pagine del Riformista: «Abbiamo vinto tutti. E Berlusconi è un genio. Subito presidenzialismo e giustizia. Se l’opposizione dice no, andremo avanti a maggioranza». Dove sia finita la corrente fi-
di Marco Palombi
il Senatùr i decreti attuativi del federalismo fiscale, non si capisce bene cosa possa volere il presidente della Camera, né quale sia il suo ruolo in questo tridente. Anche Pierluigi Bersani, alle prese con i soliti colpi bassi tra leaderini del Pd, non sa bene che via prendere. Mentre il partito di Repubblica, nel senso del giornale, l’ha già messo sulla linea di tiro un po’ perché non gli è mai andato a genio, un po’perché – parlando come parla – non si capisce bene quanto sia netto il su “niet” al nuovo giocattolo di Silvio
Il premier ringrazia pubblicamente Raffaele Fitto per l’impegno nel governo e ne respinge le dimissioni. Il rimpasto dell’esecutivo è rinviato niana che s’apprestava ad uscire dal Pdl solo dio lo sa, ora la maggioranza è un carro armato pronto a schiacciare chinque si frapponga sul suo cammino. È il momento delle “tre punte”– che già non portarono benissimo la prima volta – che lo stesso Bocchino ha rispolverato nel suo primo intervento sul sito proprio di Generazione Italia: Berlusconi, Fini e Bossi marciano divisi per colpire uniti. Solo che se il Cavaliere vuole subito la riforma punitiva della giustizia (e il divieto a pubblicare le intercettazioni) e
Berlusconi, il presidenzialismo. I “democratici” vorrebbero arroccarsi su un aggiornamento della bozza Violante (all’ingrosso riduzione del numero dei parlamentari, Senato delle Regioni, più poteri al premier, sfiducia costruttiva), ma sono tutti schierati per il no sull’elezione diretta del capo del governo o del presidente della Repubblica. Anche al netto delle prevedibili barricate sulla riforma della giustizia, che dovrebbe arrivare in una delle Camere entro aprile, un possibile accordo ap-
De Magistris apre ai grillini. Senza successo
Grillo corre da solo De Magistris apre a Grillo. E lui gli sbatte la porta in faccia. Sarà stato un pesce d’aprile, ma ieri pomeriggio sul blog di Beppe Grillo è apparso un post non proprio gentile nei confronti di Luigi De Magistris: «Parla a nome del Movimento 5 stelle senza averne l’autorità», è il verdetto. Tutti d’accordo? Per niente, perché la magdei gioranza commenti “grillini” è di orientamento opposto e sarebbe propensa a dare una chance all’ex pubblico ministero (in aspettativa). Ma la reazione “ufficiale” non sembra lasciare troppo spazio a trattative. La scintilla, comunque, era scoccata dopo una dichiarazione rilasciata da De Magistris al Corriere della sera, in cui l’esponente dell’Idv parlava di Grillo, del popolo viola, della manifestazione del dicembre, di chi si è astenuto alle Regionali dicendo: «Dobbiamo dialogare con tutti loro. E io
ho intenzione di fare passi politici e concreti, tutti in questo senso». «I passi, se li faccia da solo», è la replica durissima apparsa sul blog di Grillo, «è stato eletto con i voti dell’Italia dei valori e del blog. L’obiettivo era di avere un eurodeputato a Bruxelles e non in televisione. Fare luce sui capitali mafiosi in Europa e sui finanziamenti europei in Italia. Attraverso la Rete, ogni giorno. Un lavoro che fatto a tempo pieno non consentirebbe neppure di vedere la famiglia. È stato eletto come indipendente e poi ha preso la tessera Idv. Parla a nome del Movimento 5 Stelle senza averne l’autorità. Il popolo viola (chi è?) con le manifestazioni sovvenzionate dai partiti è per lui un punto di riferimento». Servirà poco, probabilmente, la marea di commenti pro-De Magistris: i grillini vogliono (per ora) camminare da soli.
pare lontanissimo. Bastava leggere le agenzie di ieri. Fabrizio Cicchitto, ad esempio: «Siamo impegnati a definire una nostra proposta organica sui temi della riforma istituzionale: terremo certamente conto anche della cosiddetta bozza Violante, però è anche chiaro che nessuno ci può chiedere di farne una fotocopia. Sul presidenzialismo come anche sul Senato federale, approfondiremo al di là delle piattaforme precedenti». E allora Luciano Violante, che oltre ad essere autore della famigerata bozza è anche responsabile del Pd per le riforme: «Noi siamo per un regime parlamentare razionalizzato, con forti poteri del premier ma con un Parlamento eletto dai cittadini e non nominato da oligarchie politiche. E siamo contrati all’elezione diretta del presidente del Consiglio. Se poi il centrodestra intende far da solo e andare a referendum confermativo non abbiamo problemi: ne hanno già persi due, perderanno anche il terzo». Risposta di Sandro Bondi: «Sorprende l’inusuale dichiarazione di Violante, brandire l’arma di un referendum prima ancora di conoscere le proposte della maggioranza è un segno di debolezza e quasi di fuga dalle proprie responsabilità». Conclusione di Maurizio Gasparri: «Noi cerchiamo il confronto, auspichiamo intese, però è singolare l’approccio di Violante che già arriva alle conclusioni, annunciando o minacciando referendum. In democrazia per cercare intese non si può immaginare che la maggioranza faccia suo il programma della minoranza».
Riforme a maggioranza e una grande campagna di comunicazione contro l’opposizione per il referendum è in realtà il grande sogno di Silvio Berlusconi: secondo il premier, cavalcando la riduzione del numero dei parlamentari si può spingere la gente ai seggi a votare sì (nei referendum confermativi, infatti, non c’è quorum). Paradossalmente la parte del“facilitatore”del dialogo a questo giro toccherà ad Umberto Bossi. «Non abbiamo più alibi – diceva infatti ieri il neogovernatore veneto Luca Zaia - Il nostro consenso va in una direzione inequivocabile, quella delle riforme. Da soli si fa prima, ma insieme si fa più strada, quindi siamo aperti al dialogo con l’opposizione».
diario
2 aprile 2010 • pagina 7
Nei dati dell’Istat la fotografia dei contratti bloccati
Mentre Gasparri minaccia il direttore dell’Aifa
Gli stipendi vanno piano: in un anno solo +2,1%
Anche Zaia contro la Ru486: «Mai in Veneto»
ROMA. Nel mese di febbraio
ROMA. È scontro aperto sulla
l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie, con base dicembre 2005=100, ha presentato una variazione nulla rispetto al mese precedente e un incremento del 2,1% rispetto a febbraio 2009. Lo ha reso noto l’Istat facendo presente che «l’aumento registrato nel periodo gennaio-febbraio 2010, in confronto al corrispondente periodo dell’anno precedente, è del 2,2%». L’Istituto di statistica fa inoltre sapere che l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie per l’intera economia proiettato per l’anno 2010 in base alle sole applicazioni
Ru486. Dopo che mercoledì il neogovernatore del Piemonte Roberto Cota aveva provocatoriamente detto che «per quanto mi riguarda, può benissimo restare nei magazzini», ieri sulla vicenda si è scatenato anche Luca Zaia, appena eletto in Veneto: «Negli ospedali veneti la Ru486 non sarà mai disponibile!». In margine, ha detto la propria opinione anche Renata Polverini, neogovernatore di centrodestra del Lazio. Rispetto al collega piemontese e a quello veneto si è tenuta più prudente: «La somministrazione della Ru486 seguirà lo stesso percorso dell’aborto chirurgico, quindi sarà somministrata in ospedale. C’è una legge, la 194, che va rispettata io sono a favore della vita e farò tutto quello che è necessario per difenderla nel rispetto della legge». E a dar manforte ai pro-vita è sceso in campo anche monsignor Fisichella, presidente della pontifica accademia per la Vita. Da lui è arriva-
Lula verso il no definitivo all’estradizione di Battisti Il terrorista condannato per falso: e i tempi si allungano di Valentina Sisti
previste dai contratti in vigore alla fine dello scorso febbraio registrerebbe un incremento dell’1,6%, un valore - viene sottolineato - «piuttosto basso». Gli incrementi più elevati si osservano per servizi di informazione e comunicazione (4,4%), tessili, abbigliamento e lavorazione pelli (3,9%), acqua e servizi di smaltimento rifiuti (3,8%), regioni e autonomie locali (3,6%). Gli incrementi minori riguardano energia elettrica e gas (0,4%) ed edilizia (0,3%). La variazione risulta nulla per agricoltura, ministeri, scuola, militari-difesa, forze dell’ordine e attività dei vigili del fuoco.
Alla fine di febbraio risultano in vigore 36 contratti, che regolano il trattamento economico di circa 7,2 milioni di dipendenti. Risultano in attesa di rinnovo 42 accordi, relativi a circa 5,9 milioni di dipendenti. Relativamente all’intera economia, la quota di dipendenti in attesa di rinnovo è pari al 45,2%, in diminuzione rispetto a gennaio (49,1%), ma in marcata crescita rispetto a febbraio 2009 (18,7%). I mesi di attesa per i lavoratori con il contratto scaduto sono in media sette, in aumento rispetto a gennaio 2009 (5,6) e in considerevole riduzione rispetto a un anno prima, quando erano 14,2.
ROMA. Tra continui rinvii e smentite, sul viaggio di Silvio Berlusconi in Brasile continua ad aleggiare il mistero più fitto. Che c’è sotto? Forse l’eterno caso di Cesare Battisti, per il quale – trapela – l’estradizione che sembrava a un passo (dopo il sì della Suprema Corte) si allontana sempre più? Certo, ci sono stati il processo Mills, la campagna elettorale. Ma probabilmente pesa sul continuo rinvio l’ingarbugliarsi della situazione sul caso dell’ex leader dei Pac, al quale ora è stata anche inflitta una condanna-farlocca per uso di passaporto falso (due anni in regime di semilibertà), che ha tutta l’aria di essere l’ennesima scusa per prendere tempo, con l’obiettivo di far finire il caso nel dimenticatoio. E, secondo i media brasiliani (in modo particolare il sito web R7, che cita «due autorevoli fonti del governo»), sarebbe infatti solo una scappatoia escogitata per negare l’estradizione, stavolta definitivamente e «per motivi umanitari», sì da non offendere l’Italia creando polemiche sulla credibilità della nostra giustizia e sul regime carcerario per i detenuti “politici”. È con questa
del 2007, giorno della sua cattura a Copacabana. E dietro l’inciucio internazionale sul caso Battisti – rivelato dal quotidiano Folha de São Paulo – ci sarebbero commesse militari. A novembre, l’Iveco di Sete Lagoas, sussidiaria della Fiat, ha ricevuto l’incarico di costruire per le Forze armate brasiliane 2044 blindati in vent’anni: un affare da 3,73 miliardi di dollari. Ma soprattutto, ci sarebbe in ballo la fornitura di navi da guerra, si parla di dieci tra fregate, navi pattuglia e una nave multiuso di appoggio logistico. E c’è chi ha malignato che dietro la missione della portaerei Cavour ad Haiti, oltre all’encomiabile intento umanitario, ce ne sarebbe un altro molto più terra-terra – anche se c’entra il mare, parlando di navi – e cioè quello di mettere in vetrina la funzionalità e la potenzialità dell’industria cantieristica nazionale.
Sulle commesse la Boniver si dice all’oscuro. «Il nostro Paese ha sempre intrattenuto ottimi rapporti commerciali con il Brasile», conferma, «ma non ci sono mai stati ricatti o trattative poco chiare. Gli ostacoli, semmai, si devono cercare proprio all’interno della lobby di politici e intellettuali che continua a proteggerlo. E su questo purtroppo, non possiamo fare molto». E già. Ma perché da un po’ di tempo tacciono tutti? Tace – sin dall’inizio, in verità – il guardasigilli Angelino Alfano, che non ha reagito all’assurda proclamazione di rifugiato da parte del suo collega Tarso Genro (ora dimissionario, per candidarsi a governatore).Tace da un po’di tempo anche il ministro degli Esteri Franco Frattini. E tace soprattutto il premier, che continua a rimandare questa visita. E sempre stando ai quotidiani brasiliani, a pesare sui rapporti tra Lula e Berlusconi si sarebbero aggiunte altre partite economiche.Tra queste, la richiesta avanzata alla Fiat dal Dipartimento a difesa dei consumatori brasiliano di richiamare per controlli 60mila Stilo, che preoccupa molto la casa torinese. In ballo ci sarebbero intese per un controvalore di 10 miliardi di euro, destinate a rafforzare l’interscambio commerciale, che attualmente vale oltre 7 miliardi.
Berlusconi rinvia ancora la sua visita, voci su uno scambio per evitare guai alla Fiat. Boniver: «Assurdità, si è mobilitata una lobby»
motivazione, che il presidente Lula da Silva, infatti, sarebbe dell’avviso, e definitivamente stavolta, di non riconsegnare Battisti all’Italia. «Mi sembra un’ipotesi del tutto fantasiosa», rompe l’assordante silenzio del governo Margherita Boniver, presidente pdl della commissione parlamentare su Schengen, «l’Italia non ha mai modificato la sua richiesta, sui cui si sono pronunciati in modo netto magistratura e Parlamento. Certo, sapevamo fin da subito che ci sarebbe voluto tempo per l’estradizione perché come si sa Battisti può contare su una forte rete di protezione a livello internazionale». Una rete che potremmo definire bipartisan, visto che la sua principale tutrice è la scrittrice francese Fred Vergas, in grado di mobilitare Carla Bruni, sua grande amica e quindi, come è emerso, anche i Servizi francesi, che hanno condotto in salvo in Brasile l’ex terrorista ormai in pericolo, in Francia, dopo la fine della cosiddetta dottrina Mitterand. Cosicché la telenovela va avanti da oltre tre anni, tanti ne sono passati dal 18 marzo
to un plauso esplicito al govenratore piemontese, capace – ha detto - di «atti concreti che parlano da sé».
Ma dal Pdl è partito un attacco a tutto campo contro la Ru486. Sotto tiro da ieri cè anche il direttore dell’Aifa, l’Agenzia per il farmaco che ha dato il via libera al farmaco. «Appare sempre più evidente la inadeguatezza del direttore Guido Rasi – ha minacciato nel suo classico stile Maurizio Gasparri -, che continua ad intervenire in maniera strana sulla pillola e sembra sempre più un piazzista di farmaci. Porrò al governo il problema della gestione dell’Aifa, che a mio avviso non garantisce adeguati livelli di competenza, trasparenza, imparzialità. Con la salute e con la vita non si scherza». Pronta la replica del Pd: «Gasparri minaccia e dice cose fuori luogo» ha commentato Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd a palazzo Madama.
economia
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Viaggio a NordOvest/1. La vittoria di Cota in Piemonte e l’aumento dei voti in Lombardia fa salire le richieste di poltrone del Carroccio
La Padania degli affari I leghisti divisi tra la volontà di non scontrarsi con le grandi banche e la caccia alle utilities di Francesco Pacifico
ROMA. Alla prima festa di gala dopo il voto – la presentazione della lista congiunta Compagnia di San Paolo-Cariplo per il rinnovo del consiglio di sorveglianza di Intesa – non c’è l’ombra di un leghista. E guai a lamentarsi, perché come ha spiegato il padrone di casa, Giovanni Bazoli, «in 28 anni da quando sono in banca io non ho mai fatto dichiarazioni di ordine politico né ho fatto prendere alla banca decisioni influenzate dalla politica...». Che le vittoria di Luca Zaia in Veneto e Roberto Cota in Piemonte non debbano modificare gli equilibri nei salotti buoni, l’ha chiarito anche Alessandro Profumo. Il quale, ai giornalisti che gli chiedevano come avrebbe accolto il Carroccio “neo azionista”di Unicredit attraverso le fondazioni venete e piemontesi, ha replicato secco: «Abbiamo soci di tutto il mondo. Eppoi noi rispettiamo la politica, loro rispettino noi». Ma a dare ragione al primo e al secondo banchiere d’Italia ci ha pensato Umberto Bossi. Perché già lunedì sera nel fortino di via Bellerio – appena si è avuto conferma che in Veneto si era superato il 35,1 per cento, in Lombardia il 26,2 e in Piemonte il 16,7 – il Senatùr avrebbe imposto ai suoi di non cadere in provocazioni e di focalizzare tutte le forze per ottenere tra un anno la poltrona di vicesin-
daco di Milano (oggi in mano all’ex An Riccardo De Corato) snodo sensibile nella gestione degli appalti. C’è da muoversi con i piedi di piombo. Perché il voto di domenica e lunedì scorso forse ha istituzionalizzato l’asse BossiTremonti, sul quale domani potrebbe essere ricostruito il Pdl e che oggi, come dimostrano le dimissioni di Fitto, sconquassa via dell’Umiltà.
Umberto Bossi vanta l’amicizia di Guzzetti, Giorgetti i rapporti con Ponzellini e Passera. In attesa di un endorsement verso la Fiat, scatta la corsa a farsi accreditare dalla grande impresa Ed è materia esplosiva anche per i diretti interessati. Da via Bellerio si fa notare che in campagna elettorale, mentre il ministro dell’Economia diceva che «Roberto Cota farà sentire la sua voce in IntesaSanpaolo», il Senatùr riconosceva i meriti del patron di Cariplo con un inequivocabile «Giuseppe Guzzetti è sempre sul pezzo». E tanto basta per capire che, pur potendo far manbassa di consiglieri nelle fondazioni azioniste di Intesa e Unicredit da qui a tre anni, la Lega Nord non ha alcuna voglia di buttarsi in una battaglia considerata persa in partenza. Al riguardo, racconta un banchiere milanese, non certo tacciabile di simpatie leghiste o
destrorse: «Le casematte delle grandi banche, le fondazioni, sono impenetrabili. Quindi non ci sarà occupazione. Potrebbe esserci qualche riequilibrio in quelle venete, ma la cosa nasce in risposta allo snobismo di certi enti, che non sentono il bisogno di dare conto al territorio. Però stiamo parlando di signori come Giuseppe Guzzetti, Andrea Comba, Paolo Biasi, gente che la politica teme e che sa dirimere i conflitti prima che si mostrino all’orizzonte. Ci sono tutte le condizioni per un accordo di mutua assistenza». A leggere certi commenti l’Italia sembra tornata al 1993, quando i lanzichenecchi lumbard occuparono il comune di Milano con Marco Formentini.
Dimenticando, però, che da allora il Carroccio raccoglie più di un quarto dei voti complessivi nei motori del Nord, vanta come banchiere di riferimento Massimo Ponzellini (Popolare di Milano), gestisce un gigante dei servizi come la milanese Sea e controlla una miriade di utilities sul territorio.
Ma la grande finanza è un’altra cosa. E lo sanno bene gli stessi leghisti e gli alleati del Pdl. I quali, all’unisono, spiegano che se non ci sono le condizioni per mettere le mani sui colossi bancari milanesi, la competizione è focalizzata sulle tante poltrone pubbliche, con il Carroccio che punta a un deciso riequilibrio. E sarebbe sufficiente questo per spaventare Berlusconi e il Partito delle libertà, che al Nord ha perso un milione e mezzo di voti. Nel Nordest la vittoria di Zaia fa del Veneto un unico blocco verde come lo fu bianco fino a
20 anni fa. Ma nel Nordovest la partita è molto più complessa. In Lombardia si vuole rafforzare un potere costruito con amministratori fidati e capaci e sull’occupazione sistematica delle piccole municipalizzate. In Piemonte si vuole esportare questo modello, finora confinato nelle province del Sud (Novara, Vercelli) che il Carroccio ha conquistato in questi anni. Convinti negli anni prima le partite Iva e poi gli operai iscritti alla Cgil, la Lega cerca dopo il successo alle Regionali l’ultimo riconoscimento per essere a pieno titolo forza sistemica. Perché se si vuole rappresentare nella Seconda (o nella Terza?) Repubblica quello che per il Nord erano un tempo Donat Cattin, i Marcora o i Bisaglia, allora ci vuole la patente di affidabilità da parte della grande industria. Lo staff di Roberto Cota, come ha raccontato Dario Vico dalle colonne del Corriere, fa sapere
L’importanza dei voti raccolti tra i lavoratori dipendenti nelle aree colpite dalla crisi
Le tute blu, il tesoro del Senatùr di Giuliano Cazzola ega più di governo che di lotta? Il successo del partito è pieno e rotondo. Due governatori del Carroccio assumono la guida di Regioni assai significative per la struttura economica del Paese. Il Piemonte custodisce, ancora e nonostante tutto, la storia e la tradizione dell’industria italiana.
L
E il suo cuore batte tuttora alla Fiat, il gruppo che in regione ha più di 33mila dipendenti diretti e alimenta un indotto ancora più ampio. Roberto Cota sarà chiamato a misurarsi con una realtà che «vive nel mondo», ma che ha profonde e antiche radici a Torino.
Il Veneto è la capitale di quel NordEst che costituisce la parte più innovativa e dinamica dell’azienda Italia, dove esiste un’azienda ogni 4 o 5 abitanti. Piemonte e Veneto sono i due motori della rinascita italiana. La Lombardia è la sintesi di questo nuovo assetto e lo integra con una moderna struttura di servizi privati e pubblici, con un terziario qualificato e con iniziative finanziarie, all’altezza delle regioni più sviluppate non solo dell’Europa, ma del mondo. Nell’insieme, nell’intero pianeta ci sono ben poche realtà territoriali che possono competere – per livelli di occupazione e reddito – con il «blocco» che l’Onni-
economia Giulio Tremonti e Umberto Bossi. A sinistra, Roberto Cota. A destra, Giuseppe Bonomi. In basso, una manifestazione della Lega
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del comune e della provincia di Torino, mortifica le aspirazioni del Carroccio, il quale dovrà “accontentarsi”di FinPiemonte, braccio economico regionale e player principale nei business della logistica e dei parchi tecnologici. Ma è in Lombardia che si intravedono scenari strabilianti, visto che il Carroccio al Pirellone ha 20 consiglieri e ambisce a cinque assessorati, affiancando a sanità e territorio agricoltura e deleghe per un Expo, che nonostante ai lumbard non piaccia il cemento, deve portare appalti anche fuori Milano.
Oggi il Carroccio può vantare la guida della Sea con Giuseppe Bonomi, ma può esercitare un potere di veto in gangli importanti del parastato lombardo grazie alla presenza del sindaco di Varese, Attilio Fontana, in Fiera Milano, del maestro di
stretto rapporti saldi con il consigliere delegato Giuliano Zuccoli, il manager valtellinese che non ha mai lesinato aiuti al Carroccio a Sondrio. Così i lumbard guardano alla poltrona di Graziano Tarantini, presidente del consiglio di sorveglianza ed espressione dell’altro azionista forte della utility, il sindaco ciellino di Brescia, Adriano Paroli. In Foro Buonaparte si vede nel rafforzamento leghista il congelamento di ogni ipotesi di cessione della quota in Edison. Allo stesso modo l’attivismo del Carroccio sulla riforma delle utilities – emendamenti che potrebbero rallentare le privatizzazioni – potrà tornare utile quando Zuccoli riprenderà a fare acquisizioni in tutto il Nord per fare di A2A quella multiservizi sul modello della tedesca Rwe che tanto piaceva a Romano Prodi Ma per crescere si dovrà fare i conti con l’altro blocco di potere lombardo, quello che ruota intorno alla Compagnia delle Opere, ben rappresentato da Roberto Formigoni. A chi prevede scintille, Raffaele Cattaneo, assessore uscente alle Infrastrutture e a detta di molti delfino del governatore, replica: «Senza arrivare al parossismo del Cencelli, è giusto fare le nomine in proporzione al consenso degli elettori. Ma sono dieci anni che governiamo assieme senza problemi, non capisco perché d’improvviso dovremo scannarci».
A Milano il maggiore ostacolo alle ambizioni dei lumbard è Formigoni. A Torino c’è da fare i conti con il Pd che controlla Comune e Provincia. Le divergenze di obiettivi con Giulio Tremonti che il neogovernatore ha da tempo stretto un rapporto con Sergio Marchionne. E il Carroccio che un anno fa mise nel decreto incentivi un emendamento che impediva le rottamazioni alle aziende che delocalizzavano all’estero, si appresta a diventare uno dei più strenui difensori della centralità degli impianti di Mirafiori. Così, quando il Lingotto chiederà una mano, avrà lo stesso appoggio garantito negli anni da Castellani, Chiamparino, Ghigo e la Bresso. Umberto Bossi considera un amico l’avvocato Giuseppe Guzzetti, il ras della Fondazione Cariplo che nel 2010 distribuirà sul territorio 212 milioni di euro. Giancarlo Giorgetti, suo plenipotenziario per le cose economiche, vanta in IntesaSanpaolo un proficuo rapporto con il consigliere delegato Corrado Passera e il presidente del consiglio di gestione Enrico Salza. Senza contare che non
nasconde di aver piazzato lui sulla poltrona di presidente della Banca popolare di Milano il “concittadino” di Cazzago Brabbia, Massimo Ponzellini, in disgrazia a sinistra dopo il pensionamento di Romano Prodi.
Alessandro Profumo non riscuoterà grandi simpatie in via Bellerio – anche se Zaia due giorni fa gli espresso «tutta la sua stima» –, ma il vicepresidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona, rispetta il Carroccio al punto da presenziare, come ha ricordato Francesco Manacorda sulla Stampa, alla prima del non certo memorabile film Barbarossa. Tra i ministri preferiti di Confindustria c’è poi Roberto Calderoli, per certi aspetti un interlocutore più affidabile dello stesso Tremonti sul federalismo fiscale. Questi rapporti, ai quali la Lega tiene molto, sono propedeutici per portare risorse sul territo-
potente ha voluto collocare al di sopra del Po. È impressionante allora considerare i tassi di consenso che l’alleanza PdL e Lega hanno avuto, soprattutto in Lombardia e Veneto, nelle ultime elezioni regionali. In molte aree i due partiti superano il 60 per cento. E si tratta, sovente, di zone dove sono tanti i lavoratori dipendenti; non solo le partite Iva, ma vere e proprie «tute blu», magari iscritte alla Fiom. La sinistra dovrebbe riflettere su questi dati così eclatanti e significativi. Ha accusato il governo di aver abbassato le tutele dei lavoratori, di non aver gestito adeguatamente la crisi, di non avere una politica industriale, di sbattere la porta in faccia alle famiglie che non arrivano a fine mese. La Cgil non si è fatta mancare neppure un solo sciopero generale e ha accusato l’esecutivo di aver abbandonato le Pmi. Eppure – chissà perché – operai in cassa integrazione, disoccupati, giovani precari e pensionati, al pari di artigiani e commercianti hanno votato, in buona misura, per il centrodestra.Tra
rio: fossero i prestiti per le Pmi, i fondi a strade e autostrade che in questo quadrante servono come il pane, o i finanziamenti a mostre e convegni sulle tradizioni celtiche. In questa chiave è facile dare retta al parlamentare del Carroccio, ed ex presidente della provincia di Varese, Marco Reguzzoni, quando dice che «con le banche il nodo della questione è politico: la Lega è molto critica per una gestione in cui prevale la visione finanziaria della società. E che non è al servizio delle piccole e medie imprese, asse portante del Nord». Di conseguenza, un discorso è appoggiare Giulio Tremonti nella sua battaglia per allargare i cordoni del credito, un altro è seguirlo nell’infinita resa dei conti che porta avanti con i maggiori banchieri italiani. Più interessante, quindi, la partita che si aprirà a breve sulle ex municipalizzate. In Piemonte la presenza del Pd alla guida
Bossi e padre del deputato Davide, Bruno Caparini, in A2A, dell’architetto Giuseppe Frattini in Atm, del leader della provincia di Como, Leonardo Carioni, nella So.gen dell’Expo. Personaggi sconosciuti ai più, ma protagonisti di un modello che si vuole replicare in Piemonte con giovani interessanti come gi amministratori Elena Maccanti e Massimo Giordano. Racconta un consigliere regionale lombardo del Pdl: «Come il vecchio Pci si sono costruiti in casa una classe dirigenti di amministratori che risponde soltanto ai vertici. Come si confaceva alla Dc, dove valeva il motto “Parli dopo che hai lavorato”, è previsto un lungo cursus negli enti locali. E il meccanismo è così oliato che si preferisce rinunciare alle poltrone se non c’è l’uomo giusto». A breve dovranno essere rinnovati i cda di Atm e Amsa, ma è A2A la preda più interessante. Da tempo i leghisti avrebbero
l’altro in realtà in cui sono più forti le strutture operative della sinistra: camere del lavoro, patronati, centri di servizio sindacali, sezioni e federazioni di partito.
Come se non bastasse il centrodestra – senza la Lega – ha vinto (nonostante tutto) nel Lazio, dove è forte il pubblico impiego e stravinto in due importanti regioni del Sud, perdendo in Puglia a causa di propri im-
Le mutazioni nella rappresentanza elettorale del centrodestra, le richieste del territorio e il successo degli uomini dell’Alberto da Giussano spingono il Pdl a non essere più il partito del presidente del Consiglio perdonabili errori (purtroppo nessuno ne risponderà). Manca un’analisi sociale del voto. Anche nel centrodestra. Soprattutto nel PdL, il quale non si interroga a sufficienza sulle caratteristiche del blocco sociale che lo sostiene e che è pronto a trasformarsi in una forza
Cattaneo porta l’esempio della Sea gestita da Giuseppe Bonomi: «Dopo l’abbandono di Alitalia, siamo riusciti a riportare il numero delle destinazioni da Malpensa a un livello accettabile, a recuperare quasi tutto il gap, grazie a un giusto equilibrio tra competenze ed espressione politica». Due giorni fa il gestore aeroportuale ha annunciato un aumento degli utili dell’8,4 per cento nel 2009. Quando si dice che la pax con(1-continua) viene a tutti.
strutturata, sostanzialmente interclassista, se trova un amalgama che lo tenga insieme. La vecchia Dc era unita come partito dei cattolici, ma doveva anche praticare delle scelte di carattere politico e sociale che giustificassero questa unità. Il PdL, per certi versi deve compiere il cammino inverso. Non può più permettersi di essere solo il partito del leader. Quanto al peso della Lega si danno spiegazioni solo sociologiche. Per giunta strane ed affrettate. Si dice che è un partito presente sul territorio, come se i voti si prendessero tenendo aperte le sezioni la domenica mattina. Ripetiamo: alle Regionali si è espresso un voto sul governo. E gli italiani hanno rifiutato la rappresentazione che della sua politica danno le opposizioni: un dagherrotipo di un Paese stremato, di un mondo del lavoro oppresso e precario, di famiglie costrette a mangiare pane e cipolla, di piccole imprese in balia degli usurai. Guai a sottovalutare questi casi, che purtroppo esistono e sono frequenti. Ma la nave va…
politica
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Verifiche. Le Regionali ridimensionano l’ex leader di An e la sua fondazione. Non basta più la moral-suasion nel Pdl
I fiori di Fini, i cannoni di Bossi Lettera a «Farefuturo» sulle loro battaglie e sul leghismo vincente di Riccardo Paradisi arefuturo è una delle poche realtà nell’arida landa della politica italiana. È una fondazione che ha messo in campo delle idee, ha lanciato delle suggestioni, ha posto dei problemi, ha seminato dei dubbi. Ha portato, soprattutto, scosse e provocazioni all’interno di un centrodestra dove l’esercizio del pensiero e del confronto viene troppo spesso avvertito con sospetto, come un atto di insubordinazione nel migliore dei casi, di indegnità alla partecipazione mistica del carisma d’una leadership pentecostale nel peggiore.
F
L’aver rotto questo unanimismo di facciata – anche indugiando in pose da coscienze critiche e un poco compiacendosi degli interessati plausi dell’opposizione – è uno dei meriti di Fini e della fondazione Farefuturo. Come è un merito l’aver messo in dubbio certi dogmi e certi tabù che rischiano con l’andar del tempo di modellare antropologicamente il centrodestra: il culto della personalità, il cesarismo, una pronunciata propensione al populismo, una diffidenza ostentata per ogni cultura che non sia televisiva, la tendenza a semplificare brutalmente questioni drammatiche e complesse come quella dell’immigrazione; l’aver posto il tema centrale della democrazia interna al partito; l’aver rivendicato alla destra italiana e alla sua storia un profilo legalitario, che ha il senso dello Stato e delle istituzioni, che rifiuta ogni pregiudiziale avversione antropologica per la magistratura, che ha nel suo album di famiglia figure come quella di Paolo Borsellino, che prima di essere un eroe era un magistrato e un uomo dello Stato. L’aver difeso l’identità nazionale e il Risorgimento di fronte a separatismi politici e revisionismi storiografici legittimi ma sospetti nella tempistica delle loro formulazioni e nelle intenzioni con cui vengono presentati; l’avere difeso un’idea sociale di mercato e di economia. Battaglie meritevoli. Soprattutto perché sono linee di resistenza e di proposta costate ai finiani di via del Seminario pesanti attacchi anche personali. Tra tutti quello recente di uno dei coordinatori
del Pdl, Sandro Bondi, che ha attribuito a Farefuturo la responsabilità di andare oltre le intenzioni del suo leader di riferimento, Gianfranco Fini, generando così confusione di idee nei serrati ranghi del Pdl. Un modo curioso di polemizzare in un partito liberale (seppur di massa) che dovrebbe avere il più sacro rispetto per i luoghi del dibattito e per le alterità culturali e soprattutto un modo curioso di concepire le fondazioni e i laboratori di cultura politica, evidentemente concepiti come pure cinghie di trasmissione ideologiche del partito o del principe. E d’altra parte è più semplice attaccare chi mette in campo attraverso una fondazione idee e sugge-
comunitario e una certa idea di nazione da attualizzare e non smobilitare in tempi di globalizzazione liquida e di crisi finanziarie planetarie.
Ma il discorso di Farefuturo, e indirettamente quello di Gianfranco Fini, suscita anche delle perplessità, sia nel merito delle idee che decide di agitare – o che al contrario decide di tacitare – sia nel metodo del suo lavoro politico e culturale. Lascia perplessi, per esempio il patriottismo costituzionale, una formula con cui sembra che Fini e la sua destra tendano a voler rimuovere un passato nazionalista generando però solo il depotenziamento di una reale idea-forza ad astratto concetto giuridico. Lascia perplessi la frettolosa smobilitazione e anzi il fastidio per ogni serio discorso revisionista avviato e portato innanzi dalla storiografia più matura e avveduta di questo Paese e che proprio la destra ex missina, che pure, senza indugi, ha fatto i conti con la propria storia, ritiene un tema intoccabile. Come a dimostrare, anche qui, una cattiva coscienza e però con-
Non si tratta di capire quante divisioni abbia Fini ma mentre lui parla di Internet e di Ingrao la Lega vince e Berlusconi diventa più forte stioni, anche scomode, piuttosto che concorrere al dibattito dispiegando strumenti propositivi come riviste, giornali, università liberali che in questi anni, nell’area ex forzista del Pdl, ci si è limitati a evocare come risorsa retorica che tale è rimasta. Farefuturo invece ha messo in campo una serie di convegni importanti, ha una rivista mensile Charta minuta, un webmagazine vivace. Con questi strumenti Farefuturo ha cercato di definire una piattaforma politico-culturale allacciando rapporti con le destre europee, cercando una sintesi tra i grandi filoni della cultura moderata e conservatrice del Vecchio continente. Alessandro Campi, il direttore scientifico della fondazione, ha dato vita a una rivista di politica in uscita il prossimo 10 aprile che è indipendente da Farefuturo ma sulle cui pagine prosegue lo sforzo di individuare un percorso di ricerca tra il realismo politico, il liberalismo
tribuendo a lasciare alle mitologie di parte – fascista o antifascista – e dunque nel fumo delle propagande, almeno più di vent’anni di decisiva storia nazionale. Storia senza la comprensione della quale non si capisce nulla dei perduranti nodi dell’Italia attuale, del suo non essere patria, della sua guerra civile permanente. Lasciano perplessi le posizioni sulla bioetica, le aperture a forme di intervento sulla vita e sulla morte che sembrano archiviare i principi di prudenza del diritto naturale e soprattutto difettare di realismo in un paese crocianamente cattolico come l’Italia. E del resto vorrà pur dire qualcosa che la candidata finiana Renata Polverini nel Lazio abbia vinto portando in punta di lancia proprio la difesa della vita e della famiglia tradizionale contro il laicismo radicale di Emma Bonino, le cui idee in questi campi come in altri, collimano invece paradossalmente molto con quelle di Fini e della sua pattuglia intellettuale di riferimento.
Ecco che siamo già venuti alla critica al metodo che si deve appuntare anche sull’analisi di Farefuturo su questo voto regionale. Analisi che non sia
sa dire se viziata da un eccesso o da un difetto di realismo politico. Insomma è evidente che Fini e le idee di Farefuturo escono se non sconfitte almeno ridimensionate all’interno del Pdl. Dalle analisi della fondazione e del finiano Secolo d’Italia invece scoloriscono le dure critiche alla lega che d’improvviso diventa interlocutore privilegiato e garante d’un riformismo istituzionale senza strappi, mentre si leggono rivendicazioni e compartecipazioni a una vittoria che ammesso sia tale – il Pdl ha perduto 1milione di voti rispetto alle regionali del 2005 e 2 milioni rispetto alle europee del 2009 – certamente non è la vittoria di Fini. Non perché il presidente della Camera abbia remato contro, come ha detto qualche forzista del Pdl, ma perché a vincere non è stato il suo Pdl, la sua idea di centrodestra ma quella di Bossi e di Belrusconi. Peraltro finora la destra nuova finiana non ha avuto nessun battesimo del fuoco politico. Da Farefuturo ci si attenderebbe una riflessione su questo punto e la presa d’atto che la moral suasion finiana all’interno del Pdl è insufficiente a determinare un cambio di linea e una modifica dei rapporti di forza, che le lodi di Repubblica, le pacche sulle spalle di Nancy Pelosi, i riconoscimenti ufficiali in Europa, non sono politica. Non si tratta di capire quante divisioni abbia il presidente della Camera, ma certo mentre Fini parla di Internet e di Pietro Ingrao la Lega vince, Berlusconi non perde e il Pdl diventa sempre più impermeabile alle idee e alle suggestioni della destra nuova. Certo, adesso nasce la corrente finiana Generazione Italia. Il sospetto è che sarebbe stata una componente con un avvenire più florido in caso di sconfitta berlusconiana e dispersione delle file intorno alla sua leadership. Si vedrà, sta di fatto che il rischio di Fini e di Farefuturo – senza uno scatto politico che non sia l’attendismo o la successione per decreto divino - è quello di trasformarsi da avanguardie a mosche cocchiere. Di diventare come il volitivo descritto da Nietzsche, che all’alba gridava “Sole sorgi!”e la sera: “Sole tramonta!”, convinto che fosse lui a determinare il sorgere e il tramontare del sole. Sarebbe un esito spiacevole.
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L’Occidente è intervenuto contro la repressione sovietica, ma ha deciso di lasciare solo chi oggi combatte per la democrazia
Arcipelago libertà
Viaggio nel mondo sotterraneo dei network della nuova dissidenza Sono ignorati ma fondamentali: la loro arma principale è internet di Vincenzo Faccioli Pintozzi Arcipelago si è spostato. Dalle fredde latitudini della Siberia sovietica, il mondo descritto dagli anti-rivoluzionari russi ha fatto fagotto ed è virato verso i più caldi climi di Asia e Africa. Ma perché questo viene ignorato? Perché le miriadi di piccole e coraggiose realtà che compongono il network della nuova dissidenza sono pressoché sconosciute all’opinione pubblica internazionale? Da una parte c’è un primo fattore di natura squisitamente geografica. L’orso sovietico e le sue crudeltà erano molto, troppo vicino all’Europa sofisticata e innamorata della democrazia. Basti pensare non soltanto alla contingenza dei confini che dividono il Vecchio Continente dal regno di Mosca, ma semplicemente alla Berlino pre-unificazione. Se le torture descritte da Solzenicyn avvenivano nei campi di lavoro siberiani, niente poteva far escludere che si verificassero - ugualmente crudeli - nei sotterranei della polizia segreta della Repubblica dell’Est. Per non parlare degli Stati dell’Europa orientale, affacciati sul giardino continentale, nelle mani di governi fantoccio schiavi di Mosca. Chi, invece, potrebbe legittimamente temere un’invasione cinese? Nessuno. Discorso ancora più valido se applicato alla Corea del Nord di Kim Jong-il, alla Birmania di Than Shwe o al Sudan di al Bashir. Ma questo è soltanto un primo fattore, che non spiega appieno il cambio di rotta fra il sostegno alla dissidenza “europea” e quello concesso a stento ai loro nipoti asiatici. Un’argomentazione più valida, onnicomprensiva e profonda è senza alcun
dubbio riscontrabile nei bilanci del Fondo monetario internazionale, che mostrano senza ombra di dubbio come la Cina, capofila nella repressione contemporanea, sia l’unico Paese al mondo a godere di scintillante salute finanziaria. Nessun governo, in nome di valori universalmente apprezzati e universalmente dimenticati, si azzarda a criticare più di tanto l’unico possibile creditore, l’unica mano che può ancora mettere mano al portafoglio per aiutare chi è in difficoltà. E non bisogna pensare che questo principio non sia applicabile alle altre nazioni che violano i diritti umani. Se si vuole ottenere un prestito si pensa a Pechino.
L’
Dai gulag sovietici ai laogai di Pechino La dissidenza anti-sovietica ha avuto in Aleksandr Isaevic Solzenicyn uno dei suoi campioni più celebri. Grazie al suo “Arcipelago Gulag”, il Nobel per la Letteratura ha fatto conoscere al mondo intero l’altra faccia dell’Urss. Una faccia caratterizzata da tortura e repressione contro i dissidenti e i non allineati. Oggi, il suo Arcipelago si è spostato in altri continenti. Ma i suoi nipoti “di diritto” vengono ignorati dal mondo.
Ma se si vuole far soldi con le materie prime, ad esempio, non si può fare a meno della Birmania della giunta militare. E se si cerca gas, si deve passare da Mosca. Mentre, se non si vogliono grane militari, bisogna lasciare perdere la Corea del Nord. In questo complicato sistema di pesi e contrappesi si intravede all’orizzonte una sottile linea comune, un network di sistemi di informazione indipendente e Organizzazioni non governative, che con le maniche rimboccate cerca di aiutare i popoli più colpiti dalla repressione. Alcuni esempi, li trovate in queste pagine, sono l’Initiatives for China di Yang Jienli e la Democratic Voice of Burma di Aye Chan Naing. La prima si occupa di sostenere materialmente i dissidenti cinesi, in patria o all’estero, finanziandoli
sottobanco o sostenendone le manifestazioni di protesta. La seconda è una vera e propria radio pirata, forte di 150 giornalisti su uno dei territori meno liberi del mondo, che dalla Thailandia trasmette le verità che la giunta militare birmana cerca di tenere nascoste.
A differenza della più nota Radio Free Europe, che con i soldi di Europa e Stati Uniti parlava di regime comunista e di iniziative per abbatterlo, queste realtà sono più o meno clandestine anche in Occidente. Le ragioni, molto alla buona, le abbiamo spiegate prima. Rimane però un problema più pragmatico, e più egoista, che andrebbe sottolineato. Un giorno, e lo dimostra la storia dell’umanità, anche queste nazioni godranno della libertà che appartiene a ogni uomo. Prima o poi la Cina - gigante sì, ma dai piedi d’argilla - inizierà il suo lento declino e la Birmania si ritroverà con i fucili scarichi. A quel punto, le popolazioni sottomesse rialzeranno la testa e si riprenderanno quello che gli spetta. Quanto meno, riprenderanno il controllo della loro vita. A quel punto, l’ignavo Occidente avrà a che fare con nuovi governi, democratici ma risentiti. Già oggi molti, nella Cina del XXI secolo, guardano con astio al silenzio del mondo libero davanti ai moti di Tiananmen. Quando arriverà il momento di aiutarli davvero, quanto meno con gesti evidenti, vedremo di che pasta è fatto il nostro mondo. E capiremo se non sia davvero condannato a perdere quell’egemonia di pensiero mondiale che lo ha caratterizzato da duemila anni a questa parte.
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La cyber-dissidenza è la strada verso la libertà del mondo intero. La riflessione di uno d
Buttiamo giù il Fire Vi racconto la strategia decisa dal governo cinese per fermare chi crede nella democrazia reale. E come possiamo sconfiggerla di Yang Jienli Organizzazione non governativa “Initiatives for China”è un movimento che lavora per sostenere la riforma politica della Cina. Come prima cosa, la più importante, noi cerchiamo di spingere il più possibile il concetto del “potere popolare”, che in cinese si dice Gong Min Li Liang. Questo concetto predica la consapevolezza dell’unione sociale e la spinta a conoscere e praticare tutti quei metodi, legali e non violenti, che costringano Pechino a mettere in pratica quanto c’è scritto nella Costituzione cinese e nella Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite. Il concetto di “potere popolare” viene pubblicizzato con una serie di pubblicazioni e tramite la Conferenza annuale dei leader inter-etnici. Ma, nel corso dell’anno, sosteniamo anche singole iniziative che ci vengono proposte e che sono un’opportunità per migliorarsi. Un esempio recente è quello del “Ponte aereo di Tokyo”, che abbiamo organizzato per sostenere la protesta non violenta di Feng Zhenghu. Feng ha passato 90 giorni nell’aeroporto giapponese di Marita per protestare contro la decisione del governo cinese, che non gli voleva permettere di tornare a casa in Cina. La
L’
coraggiosa protesta di quest’uomo ha messo sotto i riflettori una pratica, illegale, compiuta spesso dal governo di Pechino: rifiutare l’ingresso ai propri cittadini che siano considerati politicamente indesiderabili. Grazie al rumore che abbiamo alzato, anche tramite i nuovi media come Facebook e Twitter, il governo cinese è stato costretto a cedere e ha consentito a Feng di rientrare. Questo è un esempio eccellente di “potere popolare” all’opera.
Ma ovviamente sponsorizziamo anche diverse iniziative a favore della Cina in Europa e negli Stati Uniti, per insegnare alla comunità internazionale quale sia la vera situazione sociale e politica di quel Paese. Inoltre pubblichiamo Yibao, un magazine su internet che viene proposto come piattaforma per idee politiche, commenti e dibattiti. I suoi utenti sono cittadini cinesi, sia che vivano in patria sia che vivano all’estero. Questo perché la situazione dei media è particolare e fondamentale. Ovviamente, all’interno della Cina, i giornali sono controllati e manipolati dal governo centrale. Questo nel tempo è molto migliorato nel suo uso dello strumento, e ha capito che con frasi, stereotipi e sentimenti nazionalistici
Il direttore di Radio Radicale
«La strada è in salita ma si può vincere»
ROMA. I diritti umani «sono uno strumento che potrebbe rendere più conveniente il rapporto fra gli Stati, persino dal punto di vista economico». Lo spiega a liberal Massimo Bordin, direttore di Radio Radicale. Direttore, perché in Italia non si trova più spazio per i diritti umani? Perché la sensibilità dell’informazione è rivolta verso problemi diplomatici e bellici. E i diritti umani, politici e del singolo sono messi in secondo piano. Ci sono anche delle ragioni di realpolitik, dietro a questo stato di cose: due esempi macroscopici di questa affermazione sono l’attenzione nei confronti della politica di Gheddafi e di Putin da parte del governo e dei principali enti energetici di Stato ha un riflesso anche sulla qualità dell’informazione rispetto ai diritti umani. Bisogna poi tenere conto anche di un problema vecchissimo: ovvero di quanto le politiche energetiche abbiano in
Occidente un riflesso molto pesante sull’informazione. Però, quando il nemico era il’Urss, c’era più attenzione per i dissidenti... Questo è vero solo in parte. In realtà, noi facciamo degli sconti alla memoria che a volte sono singolari: nel 1977 ci fu uno sciopero indetto dai portuali di Venezia contro la Biennale, che quell’anno era dedicata al dissenso nei Paesi dell’Est sovietico. La risposta a questa manifestazione fu uno sciopero della Cgil e l’ostracismo della intellettualità d’elite italiana. Quindi è vero che c’era maggiore attenzione da parte dei governi, ma che ci fosse all’epoca un’egemonia della cultura dei diritti è meno giusto. In realtà anche allora vigeva il sostanzialismo. Il problema è purtroppo complicato: certo, oggi lo è di più perché non esiste più nulla di quello che c’era; c’è semplicemente un tipo di realpolitik molto più
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dei più noti dissidenti del mondo cinese, protagonista dei moti di Tiananmen
ewall di Pechino può manipolare in maniera efficace l’opinione pubblica. La sua influenza aumenta in maniera esponenziale perché, oltre a manipolare, Pechino può anche intimidire gli utenti e censurarne con la forza le idee. Ed ecco perché la battaglia per la libertà di internet è divenuta sempre di più una battaglia per i diritti umani e per il dissenso. Molti osservatori queste cose le sanno già, ma non molti sanno quanto il governo riesca a manipolare anche i media occidentali. Ad esempio, il 90 per cento di tutta l’informazione in lingua cinese che circola nel mondo è al soldo di Pechino: questo è anche immaginabile. Ma non molti sanno quanto sia invasiva l’influenza del governo comunista nel mondo dell’informazione “libera” dell’Occidente. Vengono usati benessere e minacce per convincere o neutralizzare accademici e giornalisti, che vengono spinti a sostenere - in maniera diretta o
verno di apparire come guardiano e garante della stabilità armonica dell’intera società cinese. E per sostenere questa immagine, la copertura che i media internazionali hanno dedicato ai Giochi Olimpici di Pechino 2008 è stata quasi fondamentale.
Dall’altra parte, al lato opposto della stessa scala di valori, abbiamo visto quanto poco sia stata coperta la vicenda di Charta ’08, il manifesto per i diritti umani e per le riforme politiche nel Paese, e la sorte riservata agli intellettuali che l’hanno portata avanti. Un altro dato interessante lo riporta Human Rights Watch, secondo cui sul suolo nazionale avvengono ogni anno oltre 100mila manifestazioni contrarie al governo. E di queste, quasi nessuna viene riportata sui giornali. Abbiamo bisogno di rinforzare quegli articoli che riportano la realtà per come avviene, e lavora-
L’influenza politica (e soprattutto economica) del dragone d’Asia ha reso l’opinione pubblica internazionale cieca e sorda alle atrocità che vengono commesse contro il libero pensiero indiretta - i punti di vista del regime. I cosiddetti “osservatori imparziali” sanno che, a essere troppo critici con la Cina, si perde molto.
Quindi assistiamo alla rinascita dell’auto-censura, perché gli “esperti” non hanno abbastanza stomaco, o risorse, per entrare in profondità e raccontare la verità del Paese. Quindi, molti eventi estremamente significativi non vengono riportati; oppure, cosa ancora peggiore, vengono riportati sulla base delle informazioni concesse dall’esecutivo. Ad esempio, potremmo citare la volontà del go-
onnicomprensiva, che lascia ancora meno spazio al dissenso. Ma alzare la voce con i regimi non aiuterebbe anche sul piano economico? Sono completamente d’accordo. Vediamo le cose dalla nostra angolazione: io prima facevo l’esempio del problema energetico e da questo punto di vista, in fondo, le stesse tradizioni dell’Eni sono tradizione di una impresa commerciale e statale che ha avuto un che di progressivo, non solo per il nostro Paese ma anche per quelli del Terzo Mondo. Nel solco di quella tradizione, oggi, centrare il problema sui diritti umani potrebbe essere una scelta “aziendalmente conveniente”, oltre che politicamente rilevante. Le battaglie di Radio Radicale per i diritti umani sono famose. Come si porta avanti questa guerra? Io non voglio medaglie che non mi spettano: le battaglie per i diritti le fan-
no i radicali, nell’ambito del Partito radicale transnazionale. Noi cerchiamo di sostenerle al meglio. Certo, dal punto di vista dell’azione politica qualche successo lo abbiamo ottenuto: la moratoria sulla pena di morte, ad esempio. Che è sicuramente un atto simbolico ma che è riuscita, se non a fermare, quanto meno a frenare le esecuzioni. Altro aspetto importante è quello di avere un’attenzione non solo per il caso emblematico, ma cercare di mostrare anche i casi più nascosti. Alcuni giorni fa abbiamo fatto un programma dedicato alle elezioni presidenziali in Egitto: sui nostri giornali non si trovano non dico titoli, ma nemmeno righe sull’argomento. Il fatto che ci sia un signore, in quel Paese, che ha raccolto l’invito di ElBaradei sull’alleanza per il progresso; ha cercato di metterlo in pratica nel suo villaggio di una sperduta regione del Paese; sia stato fermato e torturato; ora sia in sciopero della fame non si trova da nessuna
re con i media liberi per dargli la possibilità di fare bene il loro lavoro. In questo senso, va segnalato che sempre più governi occidentali e Organizzazioni non governative stanno denunciando i danni della censura, danni che ricadono sul progresso sociale e sulla stabilità mentale. Un esempio viene dal discorso pronunciato il 21 gennaio scorso proprio su internet dal Segretario di Stato
parte. Questo piccolo caso - che per l’interessato non è piccolo per niente - riflette la situazione attuale. Questo è il modo con cui ci si deve porre rispetto ai diritti politici, che poi diventano diritti umani. E proprio questa mutazione è l’altro passo che si deve fare: la possibilità di vedere il diritto politico di esprimersi, di votare in elezioni libere e di candidarsi, come un diritto umano. Dobbiamo rassegnarci a questa indifferenza? Mai rassegnarsi. Se uno pensa a quello che era il diritto internazionale 20 anni fa, e quello che è oggi, si vede l’evoluzione della definizione proprio dei temi collegati alla libertà. Il percorso non è regressivo ma progressivo, almeno per quanto riguarda i diritti costituiti. Per quanto riguarda l’applicazione, è me(v.f.p.) glio lasciar perdere.
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americano Hillary Clinton. In quell’occasione, il numero due dell’amministrazione americana ha fatto un ottimo lavoro nell’articolare quanto ci sia bisogno di un internet che sia libera e aperta. Poco tempo fa, ho avuto il piacere di co-presiedere il Summit di Ginevra per i diritti umani e la democrazia. Abbiamo parlato molto, in quell’occasione, della libertà di internet e abbiamo preparato una Dichiarazione per la libertà sulla Rete, che è stata adottata dal Summit e inviata alle Nazioni Unite.Va poi applaudita la coraggiosa decisione presa nei giorni scorsi dal colosso americano Google, che ha deciso di andarsene dalla Cina per far cessare la censura del governo sui contenuti del suo motore di ricerca. Si tratta di una mossa che ha provocato e provocherà ulteriori mosse simili da parte del governo americano e di altri governi mondiali. Io sono convinto che la libertà dei mezzi di comunicazione sia un bisogno e un imperativo urgente, per tutta la comunità internazionale. Perché soltanto in questo modo si possono ottenere sviluppi positivi della situazione mondiale nel breve termine. In questo sentiero rientrano le iniziative e gli obiettivi di “Initiatives for China”. Attraverso la libertà, il “potere popolare”, il sostegno e l’educazione nel Paese vogliamo che la Cina si muova verso una transizione pacifica. Che porti a una società veramente democratica e maggiormente pluralistica. La nostra Organizzazione ritiene che una transizione di questo tipo sia la strada più percorribile per il progresso della società cinese e per i singoli cittadini, così come per i gruppi civili, etnici, religiosi e culturali che vivono nel Paese. Ogni cinese ha il diritto inamovibile di vivere una vita libera, e possibilmente felice.
A questo lavoriamo, perché siamo veramente convinti che una transizione pacifica sia anche il sentiero più diretto verso la stabilità mondiale e la pace del millennio. Durante la Guerra Fredda c’erano molti strumenti a sostegno della dissidenza, ma non so quanto la situazione sia cambiata oggi. Il popolo cinese, ad esempio, è responsabile di sé stesso e ha il diritto/dovere di autodeterminare il proprio futuro. D’altra parte nessun governo, per quanto potente possa essere, è in grado di tenere una pistola puntata alla tempia della sua stessa popolazione. Uomini coraggiosi come Hu Jia e Liu Xiaobo, l’autore di Charta ’08, stanno aprendo la strada. Una strada che deve essere lastricata anche attraverso una rete internet che sia veramente libera e aperta, attraverso la quale possano viaggiare in maniera sicura le idee e la consapevolezza politica. Dobbiamo creare con questi strumenti una consapevolezza e una coesione civile che possa diventare forza; quella forza che serve per sconfiggere chi vuole bloccare la verità e la libertà. Così come è stato buttato giù il Muro di Berlino, così come le società e gli Stati dell’Europa orientale sono divenuti liberi e democratici. Ma quando questo avverrà, i governi occidentali si devono far trovare pronti: devono schierarsi dal lato della libertà. Non possiamo permettere che si ripeta il silenzio assordante dell’Occidente di venti anni fa, quando rimase muto davanti al massacro del movimento democratico di piazza Tiananmen.
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Le sistematiche violazioni dei diritti umani compiute in diversi Paesi dell’Asia passano sotto silenzio per motivi commerciali
Si scrive Stato, si legge regime Le operazioni finanziarie di Pechino nello scacchiere mondiale sono sempre più inquietanti. Ma il mondo continua a tacere di Aldo Forbice finanza. È per queste ragioni che Obama è sempre molto tiepido quando incontra il premier Wen Jiabao e il presidente della Repubblica popolare Hu Jintao: si limita a ricordare l’importanza di tutelare i diritti degli esseri umani ma con toni moderati, senza insistere. Come del resto faceva Bush e, prima ancora, Clinton. Lo stesso comportamento lo si è visto in occasione della sua visita in Cina e successivamente. Certo, di recente ha ricevuto il Dalai Lama nonostante le scontate proteste di Pechino, ma senza particolare clamore, in una sede non troppo ufficiale e senza impegnarsi sulla lotta per l’indipendenza del Tibet. E questo nonostante che 70 associazioni per i diritti umani avessero chiesto un deciso intervento nei confronti del regime comunista per allentare la morsa di oppressione militare esercitata sui monaci buddisti e la popolazione del “Tetto del mondo”.
i sono tre o quattro notizie che andrebbero valutate attentamente per capire meglio i rebus del gigante Cina, anche dopo il viaggio di Barack Obama, che si è rivelato un autentico flop. Innanzitutto la politica commerciale aggressiva di Pechino, che tende a “conquistare” con ogni mezzo tutti i mercati occidentali (nessuno escluso), con la complicità molto interessata di partner europei e americani. La Banca centrale cinese è già in grado di manovrare per far “lievitare” il dollaro a proprio vantaggio. È già avvenuto nel novembre scorso quando la Banca ha varato un piano per sostenere lo yuan: è bastato quell’annuncio per provocare un nuovo crollo del dollaro. Ma ora le autorità cinesi sono preoccupate per l’andamento del “biglietto verde” ed hanno messo in atto misure monetarie per rilanciare la moneta del “nemico”, le cui quotazioni stanno risalendo. Bisogna infatti ricordare che il governo cinese è il più grande creditore degli Stati Uniti, ma Hu Jintao si è reso conto che la crisi americana non è ancora superata e non consente quindi a Obama di fare grandi promesse. La disoccupazione Usa è ancora al di sopra del 10 per cento e si fatica moltissimo a mantenere gli attuali livelli di occupazione in ogni settore (a cominciare dall’industria automobilistica). E di questa situazione Pechino cerca di approfittarne anche offrendo, a condizioni quasi gratuite, sostegni a quei Paesi in gravi difficoltà finanziarie, privilegiando ovviamente quegli Stati dove vi sono contropartite reali (economiche e politiche).
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In altre parole, i cinesi si dimostrano più disponibili verso quei Paesi dove è più facile riscontrare opportunità di contratti per forniture di greggio, gas naturale, altre materie prime e comunque dove si riscontrano potenzialità di mercati per l’esportazione di propri prodotti. In questo modo si spiega l’articolata strategia commerciale praticata con l’Iran, con il Brasile e gli altri Paesi dell’America Latina e con numerosi Stati africani. Qualche eccezione però esiste e si giustifica solo con motivazioni di leadership politica (gli accordi di assistenza a Cuba, ad esempio), ma anche altre misteriose (ma non troppo) operazioni di sostegno finanziario, come quelli recenti alla Moldova. È passato infatti sotto silenzio (perché nessun giornale e tg - o quasi - ne ha parlato), il prestito di un miliardo di dollari (più di un ottavo del Pil di questo Paese povero), pagabile in 15 anni al tasso (bassissimo) del 3 per cento, con i primi 5 anni a interesse zero. Più di un economista ha definito questo “prestito”un modo per Pechino per comprarsi
un Paese europeo. Forse questo giudizio è eccessivo, ma è un fatto che nessuna Banca europea, nessuna organizzazione comunitaria, ha voluto aiutare la Moldova, un Paese di emigranti contiguo alla Romania (con circa 4 milioni e mezzo di abitanti), ma la Cina sì. Anzi le autorità di Pechino si sono impegnate a finanziare tutti i progetti infrastrutturali del paese (impianti energetici, sistemi idrici, industrie ad alta tecnologia, ecc.), che arrivano a cifre largamente superiori al miliardo di dollari già previsto.
L’obiettivo di questa “testa di ponte” cinese in Europa è chiaro: allontanare questo Paese dell’ex blocco sovietico dalla Nato, dove si sentono sempre più attratti Stati come l’Ucraina e la Georgia. In questa direzione sembra registrarsi un altro accordo politico tra la Russia e Cina (anche perché in Moldova esiste ancora la questione irrisolta della piccola repubblica della Transni-
Nessuno ha parlato del prestito cinese alla Moldova: un miliardo di dollari pagabile in 15 anni al tasso del 3%. Più che un aiuto finanziario, un acquisto tout court del Paese europeo. Il fine? Farlo diventare la testa di ponte cinese in Europa. E allontanarlo dall’orbita Nato tria, dove Mosca mantiene importanti basi militari). Abbiamo ricordato il “caso Moldova” perché il regime comunista del più grande Paese del mondo segue una strategia politica di conquista della supremazia mondiale, utilizzando lo scacchiere dell’economia e della
Ma la Cina non lascia cadere occasione per criticare Washington su questo terreno. Pochi giorni fa il Consiglio di Stato del regime ha pubblicato un documento di denuncia, in cui si sostiene che gli Usa «non rispettano i diritti economici, sociali e culturali dei suoi cittadini, effettuando discriminazioni razziali, violando i diritti delle donne e dei bambini e non garantendo la sicurezza personale dei cittadini». Si potrebbe dire: ma da quale pulpito viene la predica… Frecciate al curaro sono state lanciate anche nei confronti di Nancy Pelosi, la carismatica speaker della Camera americana, perché aveva osato difendere «i coraggiosi tibetani». Per Pechino «la signora dovrebbe abbandonare i pregiudizi e smettere di usare il Tibet per interferire negli affari interni cinesi». A complicare i rapporti ora ci si è messo Google che, dopo avere avvertito le autorità di Pechino che non avrebbe più tollerato censure, ha deciso di trasferirsi a Hong Kong per non perdere il vastissino mercato cinese. In tal modo gli utenti cinesi potranno vedere notizie sulla democrazia, il massacro di Tiananmen, il Dalai Lama, la libertà religiosa, l’arcipelago dei laogai (i gulag cinesi), la repressione tibetana e delle altre minoranze etniche e religiose, ecc. Il braccio di ferro di Google con la censura cinese è iniziato il 12 gennaio scorso, quando la compagnia americana ha denunciato un attacco di hacker cinesi che si proponevano di rubare indirizzi e-mail di attivisti per i diritti umani. Da allora la società Usa ha minacciato di liberalizzare i suoi motori di ricerca, rifiutando ogni tipo di controllo di Pechino. Ora si teme che il regime di Pechino, per bloccare notizie “sgradevoli”, possa imporre lo stop
dossier
BANGKOK. Una voce democratica per la Birmania. È il nome della maggiore radio d’opposizione in Birmania oggi ribattezzato Myanmar - ed è uno dei pochi esempi di cyber-dissidenza in Asia. Aye Chan Naing è il direttore del network, che conta 150 giornalisti per la maggior parte nascosti nel territorio birmano. L’ultima volta che ne hanno beccati due, le autorità li hanno condannati a 13 e a 27 anni di galera. Aye accetta di parlare con liberal della sua battaglia per la democrazia: una battaglia «che l’Occidente vuole ignorare». Direttore, come è nata Democratic Voice of Burma? Il nostro giornale è nato sulle onde radio il 19 luglio del 1992. La prima trasmissione è stata fatta da Oslo, dove l’anno prima il Comitato del Premio Nobel per la Pace aveva premiato la nostra leader Aung San Suu Kyi. Quando prese il premio era già agli arresti domiciliari, e quindi vennero invitati al suo posto i suoi familiari – fu il figlio a pronunciare il discorso di accettazione – e alcuni membri del governo birmano in esilio. In quell’occazione chiedemmo al governo norvegese di aiutarci a mettere su una radio: la risposta fu positiva, ed ora eccoci qui. Al momento abbiamo circa 150 giornalisti, che per la maggior parte vivono all’interno della Birmania. Come comunicate con i vostri reporter? Per ovvi motivi, non posso spiegare con precisione in che modo ci manteniamo in contatto con loro, né come loro riescano a ottenere notizie sulle migliaia di detenuti politici che vivono nei campi di lavoro della giunta birmana. Ma sicuramente l’avvento di internet e dei telefoni cellulari ha permesso dei passi in avanti che prima erano impensabili. Ogni giorno abbiamo circa 10mila ascoltatori, che riescono a sentirci anche in Birmania nonostante il governo ci abbia censurato in ogni modo possibile.
ad ogni accesso ai servizi Google. Il mercato internet cinese è diventato negli ultimi anni il più vasto al mondo e nel 2013 arriverà a oltre 800 milioni di utenti. Non stupisce quindi l’interesse della multinazionale americana per questo grande mercato asiatico, ma neppure l’irritazione del regime nei confronti degli Usa. Anche perché proprio pochi giorni fa il Dipartimento di Stato sui diritti umani ha denunciato, in un annuario, la grave condizione
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Parla il direttore di Democratic Voice of Burma, Aye Chan
«L’informazione è più importante dell’ossigeno» Che rischi correte? L’arresto è all’ordine del giorno, per i giornalisti che lavorano all’interno del Paese. Se lavori come reporter in Birmania, e non fai parte dei media governativi, devi fare finta di essere una spia: non puoi dire a nessuno cosa stai facendo e devi tenerti lontano dalle autorità. Perché se ti prendono, sparisci nel nulla. L’ultima volta che due dei nostri sono stati presi - Hla Hla Win e Ngwe Soe Linn – sono stati condannati a 13 e a 27 anni di galera. Eppure, in teoria, chi lavora per noi non lavora per l’opposizio-
Voglio rispondere con una frase che ci ha inviato un nostro ascoltatore: «In Birmania noi viviamo non grazie all’aria che respiriamo, ma grazie alle parole che vi sentiamo dire». Noi continueremo a combattere, all’interno della legalità, per avere una vera democrazia all’interno del Paese; continueremo a chiedere alla giunta militare giustizia e libertà per i nostri leader e per i milioni di cittadini che vengono vessati in ogni modo. Perché non è giusto che ci siano ancora, al giorno d’oggi, regimi come quello che siede al vertice di Rangoon.
“
In un Paese come il Myanmar, dove la dittatura controlla tutto, è fondamentale mantenere viva la speranza degli abitanti comunicando come il mondo sia in apprensione per loro
ne: noi abbiamo iniziato come giornale della Lega per la democrazia, ma nel 2002 ci siamo staccati per diventare indipendenti: questo è il punto, per la giunta militare. Loro non hanno paura di dissidenti o oppositori politici: hanno paura della verità. Tra l’altro, ogni volta che facciamo un servizio un membro del nostro staff che non vive nel Paese chiama i rappresentanti del governo per chiedere una loro risposta. Ma non accettano mai di parlare. Cosa vi spinge ad andare avanti?
umanitaria in 194 Paesi, inserendo la Cina (insieme alla Corea del Nord, al Myamnar, Iran, Cuba e Russia) fra le nazioni col più alto indice di violazioni dei diritti fondamentali degli esseri umani, fra cui la negazione del libero accesso a internet. Nell’annuario si descrivono con toni preoccupanti ,anche la repressione di ogni tipo di minoranze (dai tibetani agli uighuri, dai Falung Gong ai cristiani di tutte le confessioni), e la politica del figlio unico appli-
”
Com’è la situazione dei diritti umani in Birmania? Una delle peggiori al mondo. Come ha da poco riferito un dirigente di Human Rights for Burma, l’Organizzazione non governativa che si occupa di denunciare all’Onu le violazioni commesse nel Paese, la giunta militare viola tutti i diritti previsti nella Carta delle Nazioni Unite. Io potrei continuare a scrivere e denunciare per giorni interi i casi di violenze quotidiane che avvengono nel Paese. I peggiori sono senza dubbio la violenza
cata ancora in modo rigido, nonostante la correzione di rotta imposta da qualche tempo dalle autorità.
Lo squili bri o demografico, infatti, era arrivata a un punto così grave che diventava urgente correre ai ripari, concedendo qualche concessione. Ad esempio, non è ancora stato eliminato il mercato delle schiave coreane. Ogni anno migliaia di ragazze fuggono dalla Corea del Nord per sopravvivere al-
sessuale, gli espropri delle terre e gli omicidi extra-giudiziari. Ma c’è anche la tragedia dei bambini-soldato, un esercito di mezzo milione di innocenti la cui vita è stata distrutta dal governo. Che rapporti avete con la dissidenza del resto del mondo? Come strumento di comunicazione, cerchiamo di avere contatti con tutte quelle organizzazioni di esuli che combattono contro le ingiustizie nella loro patria. Noi siamo parte del mondo dei media, e quindi cerchiamo di scambiare con gli altri media della dissidenza informazioni e soprattutto metodi per eludere la censura dei regimi. Dallo scorso anno, abbiamo lanciato un network internazionale di “amici”in giro per il mondo. Cosa potrebbe fare la comunità internazionale per aiutare la Birmania? Il mio giornale non è espressione di un partito politico, neanche della Lega per la democrazia; dunque, la mia è l’opinione di un giornalista. Io credo che la comunità internazionale debba avere una posizione unica sulla Birmania: altrimenti, sarà molto difficile esercitare la giusta pressione per costringere la giunta militare a cambiare atteggiamento nei confronti dei diritti umani e della democrazia. È importante inoltre che venga fatta pressione anche su Cina e India, che di fatto rendono possibile la sopravvivenza economica della nazione: se il mondo occidentale si unisce, non c’è bisogno di fare grandi cose. Basta chiedere giustizia con una voce unica. In questo senso, ad esempio, il Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani potrebbe essere una piattaforma utile. Certo, in quella struttura ci sono delle carenze evidenti - penso alla selezione degli Stati membri - ma di fatto l’infrastruttura internazionale esiste. Se venisse sviluppato con una vera volontà politica, potrebbe diventare la chiave di volta per costringere il governo birmano a trattare con l’opposizione e con i gruppi etnici del Paese. Questa è la via per la nostra democrazia. Ma a me sembra che l’Occidente, questa democra(v.f.p.) zia, non la voglia.
la fame: in Cina organizzazioni criminali comprano queste donne per rivenderle e farle sposare a cinesi a 67mila yuan, con la complicità delle guardie di confine e persino di gerarchi del partito comunista. Del resto, come scrive anche Mo Yan nel suo libro L’uomo che allevava i gatti (Einaudi), «le bambine non contano». E lo conferma la strage delle bambine in corso da trent’anni. E questa “regola” vale anche per le donne.
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Afghanistan. Il presidente accusa la comunità internazionale l di là dei sorrisi e delle strette di mano di circostanza, è evidente che tra il presidente afgano Hamid Karzai e i suoi sostenitori stranieri ci sia un gap politico e di gestione della guerra in progressiva crescita. Ieri le accuse rivolte dal Governo di Kabul ai partner d’oltrefrontiera di essere stati i responsabili dei brogli durante la campagna per le elezioni presidenziali e il successivo spoglio dei voti, l’estate scorsa, hanno palesato le frizioni che intercorrono fra un Presidente afgano eletto “con riserva” e i Paesi occidentali che lo hanno accettato ob torto collo. All’inizio della settimana, la visita a sorpresa del presidente Usa, Barack Obama, era stata interpretata come un gesto di amicizia di Washington verso Karzai, dopo lo scetticismo da sempre rimarcato dal Dipartimento di Stato Usa in merito alla sua vittoria elettorale. Le ombre sui brogli non sono ancora fugate e probabilmente mai lo saranno. Ciononostante Obama era arrivato a Kabul indossando gli abiti dell’uomo di pace. Aveva sottolineato la necessità per il paese di introdurre uno Stato di diritto e un sistema legislativo moderni. Aveva chiesto a Karzai di presentare una linea politica di lotta alla corruzione e al narcotraffico.
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Ma soprattutto gli aveva ricordato che la sua posizione è quella di un presidente democraticamente eletto dalla popolazione locale e che, per tanto, non può permettersi di assumere atteggiamenti eccessivamente autoritari. Obama faceva l’implicito riferimento alle pressioni che Karzai continua a fare per l’apertura di un dialogo con i talebani, senza specificare però con quali gruppi di que-
Karzai: «Voto truccato? È tutta colpa vostra» Il Capo dello Stato accusa l’Onu, la Ue e i paesi Isaf di aver truccato le elezioni di Antonio Picasso
soprattutto nella prospettiva di creare una democrazia stabile e pluralista nel cuore dell’Asia centrale. Come vorrebbero fare gli Stati Uniti. Dal canto suo Karzai, dopo aver cortesemente ascoltato i suggerimenti e forse anche le richieste perentorie di Obama, ha agito in modo diametralmente contrario alle attese di Washington. Ieri
Così facendo, ha screditato i suoi sostenitori stranieri. Proprio coloro che, pur nel dubbio, gli hanno comunque accordato fiducia sti ultimi. Iniziativa peraltro osteggiata da molti, sia all’interno del paese sia nella compagine dell’alleanza Isaf-Nato. L’India, in questo senso, il cui peso “nell’Af-Pak war” è decisamente in aumento, ha sottolineato più volte la sua contrarietà nel negoziare con quei nemici che, a suo giudizio, sono i responsabili della guerra in Afghanistan, del terrorismo in Pakistan e degli attentati sul proprio territorio. New Delhi ritiene impossibile fare una distinzione fra talebani “buoni e cattivi”,
infatti, incontrando la Electoral Complaints Commission (Ecc), la commissione elettorale indipendente creata ad hoc per verificare la trasparenza di qualsiasi corsa elettorale fatta o da farsi nel Paese, Karzai ha esplicitamente rimandato le accuse oltre confine in merito ai probabili brogli che si sarebbero verificati durante le presidenziali del 2009. A suo giudizio, le frodi sarebbero da attribuire all’Onu, all’Unione Europea e alle rappresentanze diplomatiche pre-
Tutte le mosse del candidato sconfitto in agosto
Le trame di Abdullah Sconfitto e quindi missing in action? Tutt’altro. Dopo la conferma della vittoria di Karzai alle presidenziali, il leader tagiko, Abdullah Abdullah, sul quale si era scommesso come potenziale successore dell’attuale presidente, sembrava essere scomparso nell’ombra. In realtà in questi ultimi sei mesi, l’ex ministro degli Esteri afgano, nonché braccio destro del mitico comandante Ahmad Shah Massud (il “leone del Panshir”), ha saputo consolidare con pazienza una posizione politica molto influente. Seguendo i canoni democratici che non sono ancora propri dell’Afghanistan, ha accettato la sconfitta pur lasciando in sospeso il dubbio sui brogli elettorali. In questo modo, le responsabilità della scarsa trasparenza del voto di agosto ricadono tutte sul Presidente
eletto. Ha preferito porsi a capo dell’opposizione in seno al Parlamento, consapevole che in una situazione di crisi, così drammatica come quella che sta attraversando il Paese, è più facile criticare l’operato del Governo, piuttosto che farne parte. Quella di Abdullah è una scelta populistica che sta già portando i suoi vantaggi. Non è un caso che proprio il Parlamento abbia bloccato il tentativo di Karzai di nominare autonomamente i membri della Commissione Elettorale. I tagiki in Afghanistan superano il 25% della popolazione. Esserne il leader, come lo è Abdullah Abdullah, significa controllare un gruppo di pressione molto consistente. Magari con il sogno non riposto di sostituire Karzai, in qualità di erede diretto di Massud. (a.p.)
senti nella capitale afgana. Così facendo, il presidente ha screditato i suoi sostenitori stranieri. Proprio coloro che, pur nel dubbio, gli hanno comunque accordato fiducia. La prima a reagire a queste accuse è stata la Francia, definendole eufemisticamente “stupide”. A suo tempo, il governo di Parigi era stato uno dei più convinti sostenitori affinché il nodo dei brogli elettorali venisse superato nel più breve tempo possibile e che Karzai fosse confermato alla presidenza senza tante discussioni o polemiche.
È comprensibile quindi il risentimento da parte del ministero degli Esteri francese. Non solo, già da qualche mese il Presidente afgano ha fatto una battaglia personale per la nomina dei cinque membri dell’Ecc. Inizialmente pretendeva che questi venissero scelti unicamente dalla sua persona. Poi, dietro pressione degli Usa, ha accettato la spartizione fra tre commissari stranieri, designati dai rappresentanti delle Nazioni Unite a Kabul, e altri due afgani, scelti dalle autorità governative nazionali. Peraltro l’obiettivo di Karzai era quello di nominare questi ultimi motu proprio. Ieri tuttavia, la Camera bassa di Kabul gli ha negato la possibilità di agire in questo modo tanto autonomo e palesemente poco democratico. Il Parlamento afgano ha imposto al suo Presidente che i due membri nazionali dell’Ecc vengano scelti rispettivamente dalla Corte Suprema nazionale e da un’ulteriore commissione indipendente attiva nell’ambito dei diritti umani. La deriva autoritaria del Presidente afgano ha subito quindi uno stop. Non certo grazie alle pressioni di Obama, il cui viaggio - viste le immediate ripercussioni – si è rivelato improduttivo per l’inefficacia delle pressioni fatte su Karzai. Quanto piuttosto grazie alle percezioni avute dai membri del Parlamento nazionale, tali per cui il Presidente starebbe cercando di muoversi come un capo clan che crede di disporre di poteri eccezionali, vista la condizione di guerra in cui versa il Paese. Nel complesso arcipelago etnico, culturale e religioso che cal’Afghanistan ratterizza però, è difficile che il capo di una singola fazione assurga a leader indiscusso di tutte le altre. A meno che non disponga di un carisma personale superiore. Questa però è una qualità che Karzai non ha mai sfoderato.
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Dopo gli ultimi due attentati è il nemico numero uno di Putin
Il governo si farà carico dei costi per le famiglie povere
Doku Umarov, l’emiro ceceno in guerra con Mosca
L’India dice sì alla scuola dell’obbligo
GROZNY. Si è proclamato nel 2007 Emiro del Caucaso, deciso a esportare dalla Cecenia la lotta antirussa in tutta la regione. Doku Umarov, combattente a Grozny e dintorni sin dalla prima guerra di metà anni Novanta, si vanta di avere progressivamente destabilizzato l’area nord-caucasica, con il Dagestan e l’Inguscezia nuovi epicentri di violenza. La sua posizione è tuttavia fortemente indebolita in seguito alla relativa pacificazione della Cecenia con il pugno duro del presidente Ramzan Kadyrov, appoggiato da Putin. Umarov, che ha rivendicato gli attentati nella metropolitana di Mosca di lunedì scorso, ha 46 anni, una folta barba, sei figli e due fratelli uccisi durante le operazioni antiterrorismo. Amico del famigerato Shamil Basayev, ha combattuto prima nel nome dell’indipendenza cecena e poi della fede islamica. Nel 2006 viene nominato presidente della Repubblica di Ichkeria (in pratica, degli indipendentisti).
NUOVA DELHI. Una storica legge che rende la scuola primaria obbligatoria e gratuita è entrata oggi in vigore in India, Paese dove milioni di bambini ad oggi non possono frequentare la scuola perché i genitori sono troppo poveri per sostenere le spese scolastiche o perché costretti a lavorare. Questa nuova legge dà il diritto a tutti i bambini, dai 6 ai 14 anni, ad una istruzione libera, indipendentemente dalle origini sociali, dal sesso e dalle condizioni economiche. Circa otto milioni di bambini - prevalentemente bambine - non vanno a scuola in India, secondo l’Unicef. La nuova legge dovrebbe anche favorire l’educazione dei bambini che appartengono alla casta de-
Ma già nel giro di un anno arriva alla rottura con la leadership separatista, proprio perchè passato a propagandare il concetto di Emirato caucasico, di cui la Cecenia è solo una provincia, alla pari con le altre repubbliche del Caucaso russo. Così nell’ot-
La fuga negli Usa del fisico di Teheran Shahram Amiri era scomparso lo scorso giugno di Giovanni Radini
L a presenza a Pechino del capo negoziatore per il nucleare di Teheran, Said Jalili, riporta la questione dell’atomica degli ayatollah al centro del dibattito internazionale. Così come le notizie riportate dall’americana Abc su Shahram Amiri, il fisico atomico iraniano di cui si erano perse le tracce dal giugno dello scorso anno. La notizia ha fatto da volano per riprendere il discorso della crisi fra Teheran e il resto del mondo in merito alle ambizioni nucleari del regime. Di Amiri si è sempre saputo ben poco, salvo il fatto che facesse parte del team di ricercatori dell’Iran’s Atomic Energy Organization (Iaeo). La sua scomparsa coincide con i giorni più violenti delle manifestazioni post-elettorali dell’estate 2009, per questo solo dopo qualche mese vi si è prestata attenzione. Sembra che in quei giorni Amiri si trovasse in Arabia Saudita, in pellegrinaggio alla Mecca. La sua scelta di espatriare proprio nel momento di maggiore tensione politica per il suo Paese ha sollevato molti dubbi sulla sincera veridicità del suo viaggio nei luoghi sacri dell’Islam. Fra settembre e ottobre infatti, la stampa britannica e quella israeliana avevano sostenuto che Amiri avesse raggiunto gli Usa e lì avesse chiesto asilo politico.Teheran aveva replicato accusando Washington di aver sequestrato il proprio ingegnere per recuperare informazioni segrete relative al suo programma nucleare. Osservandola da entrambi i lati, la questione fa pensare che Amiri abbia comunque aperto un canale di dialogo – volontario o forzato – con la Cia. Resta da capire quali notizie siano state trasmesse, o confessate, dal fisico di Teheran circa i progetti nucleari del suo Paese. Dall’inizio dell’anno la crisi iraniana sta attraversando fasi di forte tensione, intervallate da momenti di cristallizzazione. Il regime aveva rigettato la cosiddetta “proposta di Vienna”, presentata da Francia e Russia di trasferire nei propri centri di ricerca una parte della sua produzione di uranio al fine di arricchirlo al 20% e quindi riportarlo nel Paese. Ne era conseguita una rinnovata intransigenza dagli Stati Uniti, nonché l’abbandono delle posizioni di apertura
di Mosca.Tra gennaio e febbraio, si era previsto che la questione tornasse in sede del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove – pur rischiando il veto della Cina – Washington sperava in una risoluzione sanzionatoria contro gli Ayatollah. Non solo, il comandante del Centcom, il generale Petraeus, si era espresso favorevolmente all’opzione di un intervento armato contro i centri di ricerca nucleari individuati in Iran. Un’eventualità, questa, più volte ventilata da Israele.
Improvvisamente però, altri problemi hanno distratto il Dipartimento di Stato Usa, in primis il processo di pace israelo-palestinese. Attualmente la questione iraniana resta in stand by. Un mese fa, il nuovo Segretario Generale per l’Agenzia Onu per l’energia nucleare (Aiea), il giapponese Yukiya Amano, ha chiesto ai suoi tecnici un report di aggiornamento. Il dossier si presenta fortemente critico nei confronti di Teheran. Le accuse rivolte al regime sono di forma e non di merito. In nessun passaggio infatti si parla espressamente di una bomba atomica di prossima produzione. Ciò che l’Aiea sottolinea però, è che il governo di Teheran si è dimostrato ostinatamente irremovibile, rifiutando sia il confronto che il presidente Obama aveva offerto un anno fa, sia le proposte concrete e irrifiutabili definite aVienna dalla stessa Aiea e dal gruppo 5+1 (i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con l’aggiunta della Germania). Attualmente il problema resta bloccato per la contrarietà della Cina a imporre nuove sanzioni, ma anche per la scarsità di notizie in mano all’Agenzia atomica dell’Onu. Quel che si sa è che in Iran il processo di arricchimento di uranio è arrivato al 3,5%. Qualcuno ha parlato del superamento del 4%, ma la notizia non è confermata. Va detto che per la realizzazione di un ordigno nucleare è necessario raggiungere il 90% di purezza della materia. Infine non si conosce il numero esatto di reattori attivi nel Paese. Di fronte a questa nebulosa di notizie, l’Aiea preferisce tergiversare, lasciando a mezz’aria sia i falchi sia le colombe.
Il governo iraniano aveva accusato Washington di averlo rapito. Ma gli americani avevano sempre negato
tobre 2007 si consuma la separazione politica e il parlamento ceceno secessionista in esilio revoca la presidenza ad Umarov, che da allora costruisce le sue alleanze tra le file dell’estremismo radicale. Suoi compagni di lotta diventano Anzor Estemirov (considerato il responsabile di un attacco del 2005 con oltre 100 morti nel Caucaso settentrionale) e Said Buryatski, un altro capo della guerriglia islamista ritenuto tra l’altro l’autore dell’attentato al treno Nevski Express lo scorso novembre (28 morti). Entrambi sono stati di recente uccisi e gli attentati di questi giorni sia a Mosca che in Daghestan sarebbero la vendetta di Umarov per la loro morte.
gli “intoccabili”, la più bassa dell’India e che spesso non godono del diritto di andare a scuola. «Oggi, il nostro governo si presenta davanti a voi per dare a tutti i bambini il diritto ad una istruzione primaria», ha dichiarato il primo ministro indiano, Manmohan Singh, in una intervista alla televisione. «Ciò dimostra il nostro impegno verso l’istruzione dei nostri figli e il futuro dell’India».
Grazie ad una legge votata dal Parlamento nell’agosto 2009, tutte le spese che impediscono ai bambini di frequentare la scuola saranno sostenute dal governo. Quest’ultimo sarà anche responsabile dell’iscrizione dei bambini e dovrà assicurarsi della loro presenza a scuola, ha precisato il governo in un comunicato. Le scuole private dovranno, da parte loro, riservare un quarto dei loro posti ai bambini meno fortunati. «Decine di milioni di bambini potranno godere di questa iniziativa che garantisce una istruzione di qualità con equità», ha commentato Karin Hulshof, rappresentante dell’Unicef in India. La nuova legge dovrebbe costare più di 35 miliardi di dollari (26 miliardi di euro) al governo su un periodo di cinque anni.
cultura
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Reportage. Il professor Hassan Badawi ci racconta il difficile compito di uno storico dell’arte nel tutelare l’eredità dell’area fondata dai fenici e passata sotto il dominio di Costantino
Monumenti sotto Tiro Viaggio nel grande patrimonio archeologico della città libanese, attualmente salvaguardata dai militari italiani dell’Unifil di Pierre Chiartano
TIRO. Sur per gli arabi, è una città fenicia che le vicende politiche hanno voluto sia la capitale del distretto meridionale del Libano. Terra di storia e di sofferenze umane per i numerosi conflitti di cui è stata teatro negli ultimi trent’anni. Non lontana dal confine con Israele, è diventata un feudo degli sciiti del partito di Dio, Hezbollah, quelli che sono cresciuti gridando contro Israele e oggi amministrano un territorio difficile. E urlano meno. Ma la città che si affaccia sul mare, a poco più di un’ora di auto da Beirut, è un posto ricco di sorprese e di storia. E non mancano i legami con l’Italia, anche se risalenti ai tempi dell’antica Roma. La costa frastagliata che alterna sabbia a scogli bassi è stato un attracco importante dal tempo dell’imperatore Tiberio e anche prima. Alle spalle della linea di costa piantagioni di banane fanno da contrappunto a piccoli centri abitati, che qui nel sud spesso assomigliano a baraccopoli.Vicino al carrefour, a un centinaio di metri dal sito di al Bass, intuisci l’ingresso di una caserma del Lebanese armed force, dalla presenza di un vecchio cingolato M-113, incastrato in un terrapieno che le piogge hanno reso inutile. Protetto dal sole da un tetto di lamiera ondulata che ruggine e vento hanno trasformato in una crosta del tempo. Mentre il lungo mare costellato di palme traccia il confine occidentale del parco archeologico.
gnò, facendola radere al suolo. La città allora era costituita da una serie di isole. Alessandro durante la sua campagna militare costruì dei terrapieni che la collegarono definitivamente alla terra ferma, trasformandola in una penisola. Ma la storia per Tiro non era ancora finita, e giunge fino a nostri giorni, nonostante la guerra civile e i danni che anche qui ha provocato. «Stiamo camminando lungo la strada bizantina con una carreggiata ristretta rispetto a quella romana», ci spiega il professor Hassan Badawi, che tra i tan-
ti incarichi che ricopre è anche docente di Storia dell’arte all’Università Libanaise, mentre ci accompagna sugli scavi della città antica nella zona di al Bass. Un’area archeologica di rara bellezza che nasconde reperti di grande interesse storico, compreso l’ippodromo romano meglio conservato al mondo. «L’opus spicatum» di alcune pavimentazioni e la strada a dorso d’asino a grandi blocchi è ciò che distingue, a prima vista, lo stile romano, spiega Badawi. Si cammina lungo un acciottolato ben conservato con resti di mura e frammenti di necropoli a punteggiare i due lati del percorso, che in fondo vede un grande arco di trionfo del secondo secolo a.C. svettare contro delle nubi minacciose e cariche di pioggia, tipiche nell’inverno libanese. «Durante la guerra civile le milizie hanno usato l’esplosivo per staccare dei pezzi di sarcofagi e venderli al mercato internazionale. Poi grazie a un intenso lavoro di catalogazione, molti di questi reperti rubati sono stati recuperati», continua lo storico dell’arte, mentre i carabinieri del Tuscania mettono in sicurezza il perimetro dell’area che stiamo visitando.Tanto per ricordarci cosa sia diventata Tiro oggi: un luogo ancora pericoloso.
Foto grande, la strada bizantina del sito di al Bass a Tiro, con un carabinere del «Tuscania» Nella foto qui sotto, Hassan Badawi curatore del parco arcehologico per il governo libanese Foto in alto a destra, le gradinate dell’ippodromo romano meglio conservato al mondo In basso a destra, lato est del parco
restauro nazionale. È una branca dell’Università libanese fondata nel 1997, con l’aiuto di un istituto francese e dell’Università La Sapienza.Venivano a insegnare professori da Francia e Italia. Inizialmente dedicato agli architetti, ha visto ultimamente l’inserimento di corsi Solo con i rinvenimenti che provengo- per archeologi, urbanisti e ingegneri. no da questo sito ci sarebbe da riempire Tutte figure che, all’interno di uno scaun intero museo. Il lavoro per i restaura- vo, devono conoscere varie tecniche di tori è tanto, sia che si tratti di monumen- restauro», puntualizza il nostro accomti che di materiale erratico o altrimenti pagnatore. Sembra strano parlare di catalogabile. «A Tripoli (la città più a storia e di arte in un contesto dove il runord del Paese, ndr) esiste un centro di more delle tensioni e l’odore della guerra si sente ancora. Ma è la cifra della natura umana: tanto forte quando distrugge, tanto determinata quando vuole tornare alla normalità. La struttura amministrativa di chi deve conservare la storia libanese risente ancora dell’antica presenza struita dall’esercito inglese, durante la seconfrancese. «Siamo legati al minida guerra mondiale, utilizzando molto legnastero della Cultura con me proveniente dalle alture una direzione generale della regione di Al Kamdelle Antichità. La legmoua, sul monte Libano. ge istitutiva è quella dei Prima della guerra l’Orient francesi del 1936. Doexpress si fermava nella vremmo cambiarle, ancittà di Tripoli più a nord, in che se abbiamo ancora una bella stazione in stile francese costruita nel 1911, delle leggi ottomane. dove è ancora possibile troSiamo nella quinta revare delle locomotive della pubblica libanese, dofine del XIX secolo. Ma nel vremmo rinnovarle Libano di oggi non esiste certe normative. La più un sistema ferroviario, maggior parte delle completamente distrutto missioni sono infatti dalla guerra civile. Ogni francesi, altre spagnomese sorgono gruppi come le, tedesche… le italiaSave our station che vorrebbero conservare ne sono poche». Tiro è sempre almeno il ricordo del chemin de fer. stata al centro di un sistema dove la multiculturalità ha domi-
Tra le antiche mura i resti della strada ferrata del treno amato da Agatha Christie
L’antico insediamento di Tiro risale all’età del bronzo, poi i fenici la resero famosa col commercio della porpora, il pigmento derivato dai molluschi con cui si tinteggiavano le stoffe più importanti, quelle destinate a essere indossate dalle aristocrazie mediterranee. E in Libano ancora oggi vivono delle aristocrazie illuminate che parlano col mondo e danno importanza alla cultura. Un motivo in più per salvaguardare un patrimonio archeologico e storico così ricco. Le maestranze di Tiro, si racconta, lavorarono alla costruzione del Tempio di Re Salomone, le sue colonie dominarono il Mare Nostrum e una di queste, Cartagine, ne provocò anche il declino. Nel 332 a.C. ci mise del suo anche Alessandro Magno, che dopo sette mesi d’assedio la espu-
L’ultimo binario a Oriente ra i tantissimi reperti degli scavi archeologici della città libanese c’è qualcosa di meno antico, ma pur sempre ricco di fascino. Sul confine orientale della zona archeologica sui resti di quello che doveva essere un terrapieno, si notano tra le erbacce due binari arrugginiti che sembrano sbucare dal nulla dietro alcuni cespugli. È ciò che rimane dell’ultima tratta ferroviaria dell’Orient express, anche se sono veramente pochi a saperlo. Il servizio passeggeri della Compagnie Internationale des Wagons-Lits che dal 1883 collegava la Gare dell’est di Parigi a Istambul e poi ancora più verso oriente fino in Libano. Il percorso del treno caro ai racconti di Agatha Christie è cambiato più volte e il servizio fu interrotto durante i due conflitti mondiali tra il 1914 e il 1921 e poi tra il 1939 e il 1945 per poi essere chiuso definitivamente nel 1977. Questa tratta pare che venne co-
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segnato lingua ed epigrafia latina a Beirut. Poi continua con l’affascinante storia dei “benetton”.
nato. «In Oriente, Costantino, dopo l’editto di Milano del quarto secolo, trasferì la sede dell’impero a Bisanzio. Anche durante il governo dei romani che durò quattro secoli – dal 1 a.C. al 4 secolo d.C. – la lingua parlata era il greco, solo i pubblici funzionari usavano il latino. A Bint Jabeil abbiamo trovato nelle fondazioni di una moschea delle iscrizioni che parlano di Settimio Severo, scritte in greco. Costantino diede la libertà ai cittadini romani di diventare cristiani. Si venne così a determinare la strana situazione di figli cristiani con genitori pagani. Allora quando moriva un romano pagano si faceva il battesimo post mortem. Mettevano un cristiano vivo sopra un letto – col cadavere sotto – e l’acqua rituale colava sulla salma battezzandola. Teodosio però interruppe queste pratiche, così invalse la regola del battesimo alla nascita. Un’altra legge di quell’epoca è l’orientamento a est dell’abside delle chiese. A Balbeek però ci sono chiese con absidi in entrambe le direzioni». E a occidente della strada maestra di al Bass si vede un complesso descritto come una cappella per quella strana cerimonia. Tiro era famosa per la produzione della porpora, del vetro, delle alici sotto sale – il garum – che serviva come integratore alimentare. «Opus quadratum e opus africanum è il nome dato dai romani a una tecnica edilizia cartaginese, poi trasferita in Italia. Si tratta di un doppio telaio con pietre e calcestruzzo all’interno».
Nonostante l’aiuto dato dal contingente dei carabinieri inquadrato nella missione Unifil per la sorveglianza del sito, non mancano i problemi. «Servono ope-
Madawi: «A Bint Jabeil, sotto le fondamenta di una moschea, abbiamo trovato alcune iscrizioni che parlano di Settimio Severo, scritte in caratteri greci» re di bonifica per mantenere in buone condizioni l’area e renderla parte di una scenografia», spiega Badawi. Queste regioni si distinguevano da Roma per cultura e tendenze. «Tiro e tutto l’Oriente erano legati al culto ellenistico. Per questo motivo non troviamo arene per giochi con gli animali feroci. È più facile imbattersi in strutture per lo sport come i gymnasium e locali per la boxe, come
ad esempio nella parte più interna della città», continua il professore mentre arriviamo nei pressi di una splendida spianata. «Questo ippodromo è solo un po’ più piccolo di quello che si trova a Roma, ma è meglio conservato. Qui correvano le bighe con i cavalli. Fino al secondo secolo c’erano quattro squadre con i colori bianco, rosso, verde e blu. Queste ultime due poi si sono riunite con i colori verde e blu. I blu correvano per i venetoi o veneton: i veneziani che avevano comprato quella squadra. La “v” non esiste nel greco antico e veniva letta come “b”. Quando cadde Costantinopoli queste genti tornarono a Venezia col nome di benetton. Per lo stesso motivo per cui i romani chiamavano i fenici – che si scriveva phoenici – con il nome di punici. La lettera “h” non esisteva», aggiunge il professore, che ha anche in-
«I veneziani arrivati in Oriente con l’imperatore Costantino comprarono la squadra blu e i loro tifosi venivano chiamati benetton. Non è una fesseria!». Poi Badawi ci accompagna verso la tribuna est di quello che un tempo era l’ippodromo, una vasta zona delimitata a nord dai palazzi della Tiro moderna, a ovest dal lungomare, a sud dai resti di una enorme gradinata che ha resistito al tempo e ai terremoti. «Qui c’erano anche le terme dei benetton con il loro nome iscritto sul mosaico della pavimentazione. La loro squadra gareggiò anche a Gerusalemme e a Costantinopoli. I tifosi dei benetton andavano a Balbeek alla chiesa di Santa Barbara per chiedere la benedizione per guadagnare i buoni auspici per la corsa. Avevano trasformato il piccolo tempio di Venere, a forma circolare, in una cappella dedicata alla santa. In Libano viene ancora festeggiata ogni anno», il professore confessa che tempo fa cercò di farsi sponsorizzare uno studio sul tema dall’azienda italiana il cui marchio ha campeggiato anche nella Formula Uno, senza successo. «I circhi romani in Oriente sono stati anche teatro di massacri di cristiani. Tiro è stata una città di martiri. Santa Cristina di Bolsena era originaria di Tiro. Durante i miei studi ne ho trovato traccia sul liber pontificalis. Anche qui ci sono dei luoghi che ricordano il martirio cristiano come a Tarragona in Spagna». «Nell’ippodromo c’era una capienza per trentamila spettatori seduti e altri ancora in piedi». Poi dopo il 1948 questo grande sito ha ospitato migliaia di profughi palestinesi aprendo un capitolo mai chiuso della difficile convivenza tra libanesi e palestinesi. E ancora oggi è spesso bersaglio di atti vandalici. Grazie all’aiuto del contingente italiano e del nucleo carabinieri di Naquoura si è attivato un servizio di sorveglianza che aiuterà questa meraviglia a rimanere un simbolo di cultura e quindi di pace a sud del fiume Litani, nel cuore della terra di Hezbollah.
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esuita ad un passo dall’eresia galileiana, alchimista, filosofo, matematico, scienziato ed inventore. Ma di Athanasius Kircher, religioso tedesco nato nel 1602 in un villaggio della Germania centrale e morto a Roma all’età di 72 anni, si può dire questo e molto più, perché grazie ai suoi studi, e alla sua indole di umanista, dobbiamo la prima osservazione del microrganismo portatore della peste, e un monumentale tentativo di decifrazione dei geroglifici egizi che lo rese celeberrimo tra gli studiosi della sua epoca. Roma fu la sua città d’elezione, dove arrivò fuggendo dalla Guerra dei Trent’anni che stava lacerando il suo paese. Professore di filosofia, matematica e lingue orientali, nella città pontificia ricevette l’incarico di professore di scienze matematiche grazie a papa Urbano VIII, che pur avendo condannato Galilei all’abiura, apprezzava le teorie astronomiche del gesuita che confermavano l’eliocentrismo. Se dopo la presa di Porta Pia non fosse stato distrutto il suo museo, a piazza del Collegio Romano invece del liceo Visconti avremmo ancora il Kircher museum, una raccolta estremamente composita di cose meravigliose, una cosiddetta “wunderkammer”, il cui contenuto oggi è stato diviso tra il museo Pigorini, quello etrusco di Valle Giulia e il museo Nazionale Romano.
Di Athanasius Kircher è rimasta anche una raccolta epistolare conservata presso l’archivio dell’università Gregoriana che da qualche anno sta venendo digitalizzata per essere presto disponibile su internet
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Kircher lo definì un “teatro di natura ed arte”, e pare che ospitasse, oltre a strumenti matematici ed astronomici come sfere armillari, orologi solari, astrolabi, macchine per il moto perpetuo, collezioni etnologiche e campioni vegetali ed animali, anche code di sirene e ossa di giganti (almeno così riporta il catalogo del museo pubblicato nel 1678). La camera delle meraviglie venne smembrata con l’unificazione del regno d’Italia perché sospettata di contenere oggetti magici e altre bizzarrie troppo legate alla religione. Durante la sua esistenza Kircher scrisse una quantità impressionante di volumi scientifici, circa 44, che spaziano dallo studio dei geroglifici, Oedipus Aegyptiacus, alla metafisica, Ars Magna Lucis et Umbrae, la cabala, Cabbala Haebraicae vetus et Christiana, lo studio della musica, Musurgia Universalis o la vulcanologia, Mundus Subterraneus, che lo affascinò durante uno dei suoi viaggi lungo la nostra penisola quando gli capitò di assistere a delle piccole eruzioni dell’Etna e del-
Scienza. Alchimista, filosofo, matematico e inventore: vita di uno studioso a 360° gradi
Kircher, il gesuita che vedeva il futuro di Gaia Giuliani lo Stromboli. Nel volume sui segreti del sottosuolo, inserì anche una mappa egizia di Atlantide, che riteneva si fosse inabissata a causa di un’eruzione. In vita si convinse che la sua fama sarebbe durata nei
L’errore di Kircher fu proprio quello di non considerarla una lingua, ma un insieme di simboli, ai quali dedicò la maggior parte della sua esistenza. Dagli studiosi contemporanei è comunque considerato il fondatore dell’egittologia avendo tra l’altro individuato il collegamento fra il copto e la lingua dei faraoni. Grazie alla sua conoscenza della materia, nacque una collaborazione con Gian Lorenzo Bernini per la realizzazione della Fontana dei Fiu-
la collaborazione kircheriana al monumento.
Se apparentemente può sembrare un drago, è in realtà la trasfigurazione di un armadillo, animale conservato nel suo museo ed arrivato in Italia grazie ai contatti che il gesuita aveva con i suoi confratelli missionari nel Nuovo Mondo. Perché di Kircher è rimasta anche una copiosissima raccolta epistolare conservata presso l’archivio dell’università Gregoriana che da
Dagli storici contemporanei è considerato il fondatore dell’egittologia anche per aver compreso il collegamento fra il copto e la lingua dei faraoni mi e di quella dell’elefantino in piazza della Minerva, entrambe provviste di obelischi i cui geroglifici vennero intensamente studiati da Kircher.
secoli grazie alla decrittazione dei geroglifici, ma così non sarebbe stato prima di Jean François Champollion, vero interprete della lingua egizia.
L’erudito tedesco diede istruzioni per l’ideazione della fontana di piazza Navona, suggerendo proporzioni e simboli. Sotto la statua che rappresenta il Rio della Plata c’è un piccolo animale, la “firma”, il sigillo del-
qualche anno, con la collaborazione del museo di Storia della Scienza di Firenze, sta venendo digitalizzata per essere presto disponibile su internet. In tutto si tratta di quattordici volumi che contengono circa 2300 lettere. Tra i destinatari ci sono anche Leibniz,Torricelli e Caterina di Russia, oltre ai succitati missionari gesuiti in viaggio tra Americhe e Cina. Le loro lettere costituiscono un’importante te-
stimonianza dell’impatto che ebbero questi paesi lontani sulla cultura e sulla scienza europee. Per quanto riguarda Caterina di Russia invece, l’interesse per Kircher era nato dopo la lettura di un suo trattato sull’arte della memoria oltre che sul metodo di decifrazione dei geroglifici. Ma non si trattava di un mero interesse culturale: la regina intendeva usare le conoscenze del gesuita per aiutare i servizi segreti del suo paese. Tra le varie ideazioni del religioso infatti c’era anche la Cassetta Matematica, un congegno costruito per aiutare il giovane principe Carlo Giuseppe d’Austria a destreggiarsi con i numeri. Grazie ad un complesso sistema di aste in legno, la cassetta permetteva di eseguire calcoli aritmetici, geometrici, astronomici, progettare fortificazioni e scrivere messaggi cifrati, insomma un piccolo computer.
L’apporto di Athanasius Kircher alla modernità, non si limita a quanto detto finora. Una delle invenzioni che gli viene più spesso attribuita è la lanterna magica, a cui seguì poco dopo la prima versione della camera oscura, costruita con due parallelepipedi di legno e una serie di lenti. Strumenti antesignani di cinema e fotografia, sono lì a dimostrare la visionarietà scientifica, ed artistica, sulla quale basò le sue ricerche. Che si trattasse di geroglifici (male) interpretati a livello allegorico, lenti miracolose o frontespizi e illustrazioni dei suoi libri, che realizzava quasi sempre da sé, Kircher seppe vedere, con secoli di anticipo, una porzione del futuro a venire.
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Libri&Musica. Da Mondadori arriva il volume “Io chi sono?”, scritto a quattro mani da Franco Battiato e Daniele Bossari
Filosofia di un Maestro di vita di Matteo Poddi
Pagina dopo pagina, il lettore si immerge nell’universo spirituale che fa da cornice alle sue canzoni
la mente umana. Basti pensare alla maieutica e alla sua valenza didattica. Questo libro è filosofico nel senso letterale del termine. È un libro che esalta e stimola l’amore per la conoscenza. Ci spinge a trascendere il piano dei bisogni e della materialità per volgere lo sguardo dimensioni verso più elevate. E la musica in questo senso può giocare un ruolo fondamentale. Non a caso alcune delle pagine più ispirate della tradizione cristiana sono state concepite per essere accompagnate dal suono e dalla musica. Basti pensare al Cantico dei Cantici o agli innumerevoli salmi che si incontrano nella Bibbia. La musica ha perso, nei secoli, il suo legame con il sacro ma non la sua forza evocativa diventando un mero divertissement. Per questo Battiato è convinto che possa essere uno strumento di elevazione spirituale, perché in fondo lo è sempre stato ed infatti la sua è musica per la mente. Non un mero strumento di evasione ma un mezzo per indagare realtà che vanno al di là della quotidianità e della materialità. La musica è impalpabile, ispirata, metafisica in un certo senso. È fatta di suoni ma è il frutto del pensiero e dell’ispirazione. È sinonimo di emozioni ma anche di logica. Un ibrido estremamente riuscito perché riesce ad emozionare usando le parole e i suoni. Al di là delle logiche commerciali, i brani musicali servono anche per diffondere la cultura e l’amore per la vita.
stupendo generazioni diverse. Ancora oggi riesce a tratteggiare come nessun altro l’Italietta in cui viviamo attraverso i testi delle canzoni del suo nuovo album e in particolare di Inneres Auge, dove si pone domande come «che male c’è ad organizzare feste private con delle belle ragazze per allietare primari e servitori dello Stato?» e «che cosa possono le leggi dove regna soltanto il denaro?». Domande scomode, anche queste, che aiutano a gettare luce nell’intricato mondo fatto di rumours e intrighi di palazzo nel quale ci siamo abituati a vivere fingendo che sia “il migliore dei mondi possibili” per dirla come Leibniz. Le domande sono da sempre lo strumento attraverso il quale l’uomo cerca di scoprire le verità che regolano il funzionamento dell’universo e del-
Nella canzone che dà il titolo al libro Battiato dichiara che tutto è illusorio e privo di sostanza. «Tutto è vacuità» recita il testo nel quale il Maestro rincara la dose affermando: «E siamo qui, ancora vivi di nuovo qui, da tempo immemorabile, qui non si impara niente sempre gli stessi errori, inevitabilmente gli stessi orrori da sempre come sempre». Sconfortante? No, se possono ancora essere a disposizione degli uomini alcuni fari della sapienza dai quali lasciarsi guidare. E la luce di un artista come Battiato è sempre in grado di illuminare tutto lo spazio che ci circonda per chilometri e chilometri. Anche in tempi bui come questi. Un libro da leggere tutto d’un fiato per combattere l’assenza di valori della società contemporanea.
i è mai capitato di cercare una risposta alle vostre domande esistenziali nel testo di una canzone? Se siete degli appassionati di buona musica o semplicemente se avete vissuto un momento di grande sconforto nella vostra vita, sicuramente vi sì. Ci sono artisti, come il maestro della canzone d’autore Franco Battiato, che si prestano meglio di altri ad essere considerati dei veri e propri maître à penser oltre che dei cantanti. Certo, la forma libro è quella più adatta ad affrontare argomenti complessi come quelli relativi al senso della vita e alla sfera trascendentale.
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Nei testi delle canzoni ci sono degli spunti, delle suggestioni ma il pensiero di Battiato, in una forma più sistematica, lo si può trovare nel libro Battiato Io chi sono? edito da Mondadori per la collana Ingrandimenti e scritto a quattro mani con Daniele Bossari. Qui il conduttore televisivo nonché vj appare in una veste nuova, quella del discepolo che interroga il suo guru con fiducia per avere conforto e supporto nel proprio percorso spirituale. Percorso che però, Battiato lo ricorda spesso, è un unicum e quindi non può essere suggerito a tutti senza distinzioni. Ognuno di noi ha la sua strada da percorrere ma il confronto tra gli uomini è, da sempre, un momento utile per condividere esperienze sia negative sia positive. Esperienze forti alle quali anelano coloro che sentono di dover intraprendere un percorso di elevazione spirituale. Parlare di spiritualità in un periodo di crisi come questo è doppiamente difficile. Eppure Battiato non si esprime in modo criptico. Le sue sono pillole di saggezza fruibili anche dal neofita desideroso di approfondire tematiche trascendentali. Le parole di Franco Battiato, nelle sue canzoni come in questo libro, hanno il raro pregio di trasportare la mente del lettore lontano dai luoghi ordinari, trascinarla in «voli imprevedibili e ascese velocissime», come quelli descritti nella canzone Gli uccelli. Questo volume è il prezioso distillato del pensiero del Maestro, un’immersione nell’universo filosofico e spirituale che fa da cornice alle sue canzoni ed è per questo che ogni volta scoprire l’origine di un verso amato rappresenta una piccola illuminazione. Pagina dopo pagina, si incontrano storie e geografie straordinarie, lama tibetani e maestri sufi, pas-
si dei Veda e del Mahabharata, insegnamenti del Buddismo e della teosofia. C’è spazio per tutti i credo e tutte le pratiche religiose in questo libro che descrive tutte le sfaccettature del-
Sopra e in alto, due immagini di Franco Battiato e la copertina del libro “Io chi sono?”, scritto dall’artista insieme con Daniele Bossari
l’animo umano e le circostanze della vita. Tutto senza arroganza né manie di protagonismo. Si discute, con semplicità, di musica e di meditazione, di morte e di rinascita, di estasi mistiche e viaggi psichedelici, dei modi per resistere alla “cloaca” del mondo contemporaneo. Il dibattito è aperto e Battiato non vuole avere l’ultima parola su tutto. Daniele Bossari, spinto da quel proverbio giapponese per cui “chiedere è vergogna di un momento, non chiedere è vergogna di una vita”, pone domande interessanti al cantautore, domande a volte scomode. Battiato, da oltre trent’anni, non si interessa solo di musica ma anche di cinema, di pittura e in generale di tutto ciò che ruota attorno all’essere umano.
Aristocratico, poliedrico, innovativo, fuori da tutti gli schemi, ha saputo coniugare in maniera straordinaria raffinatezza, sperimentazione e un inossidabile successo di pubblico. Con le sue parole in musica ha esplorato e suggerito mondi nuovi del pensiero, dello spazio e della parola, affascinando e
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
L’Antitrust multa la L’Oreal Italia per la pubblicità di creme antirughe L’Antitrust ha multato la L’Oreal Italia per pratica commerciale scorretta. Creme miracolose, gel dagli effetti dimagranti, sieri della gioventù, per essere seducenti, affascinanti, per contare veramente qualcosa nella società senza rughe e chili di troppo. Basta fare un giro nei blog e nei forum di bellezza per capire quanta presa hanno queste pubblicità sul pubblico, soprattutto sui teen-ager e di sesso femminile. «Anche io le voglio!», dice Disperata Cellulite che commenta l’ultimo ritrovato della scienza in fatto di creme dimagranti e ancora: «Le voglio tutte», prosegue Titti. I brand cosmetici e la pubblicità hanno dei precisi doveri nei confronti del pubblico di riferimento, soprattutto se il target è facilmente influenzabile e sensibile ad alcune tematiche, come le adolescenti. Non dimentichiamoci che sono 50-200mila donne italiane che ogni anno si ammalano di anoressia e bulimia, patologie considerate dalla Sisdca come la prima causa di morte per malattia tra le giovani di età compresa tra i 12 e i 25 anni. Si fa leva sulle debolezze per incentivare il mercato e la vendita di prodotti falsamente miracolosi, ma il gioco non vale la candela se ad avere la peggio e a cadere vittima di simili messaggi sono centinaia e centinaia di consumatori sensibili a certe tematiche e per questo influenzabili.
Alessandra De Giorgi
RIPRESA ECONOMICA La ripresa economica del nostro Paese langue e con essa i relativi problemi. Ben ha fatto la presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, a richiamare l’attenzione su problemi e programmi che riguardano la ripresa economica e quindi i lavoratori. Nonostante telegiornali e giornali radio pubblicizzino la notizia dell’aumento della produzione industriale del 2,6% nel mese di gennaio, i dati reali non sono così confortanti. L’aumento su base annua è del solo 0,1% e a febbraio l’attività industriale ha il segno negativo dello 0,1%. A questi dati ci aggiungiamo una diminuzione del Pil, relativa allo scorso anno, del 5,1% rispetto all’anno precedente. Insomma non riusciamo a decollare anche perché il nostro sistema normativo non facilita nessuno, né le imprese né i singoli
cittadini. Nella classifica elaborata da World Bank Group’s Doing Business, per le facilitazioni nel fare business, l’Italia si classifica al 78esimo posto su 183 Paesi, superata da Georgia (ex Urss), Thailandia e Arabia Saudita; sempre secondo la World Bank, nel nostro Paese, il tempo impiegato dalle imprese per pagare le tasse annuali ammonta a 334 ore (media Oecd 194 ore), le tasse su lavoro e contribuzione sono del 43,4 (media Oecd 24,4%). Insomma fare impresa in Italia è difficile e questo dipende da chi governa il Paese. L’invito al presidente Berlusconi è chiaro.
Primo Mastrantoni
L’OSPEDALE PIEMONTE, PATRIMONIO DA TUTELARE A volte, il formale rispetto della normativa non è garanzia di sicurezza, e mi riferisco
Appetito incandescente L’Osteopilus Septentrionalis è una raganella originaria di Cuba che si è diffusa in molte aree del centro e del nord America. Insaziabile, la Cuban Tree Frog si avventa su tutto ciò che riesce a far entrare in bocca. Nella foto, questo esemplare ha letteralmente ingoiato una lucina a intermittenza nel sud della Florida
ai danni subiti dall’ospedale Papardo in occasione del nubifragio. I danni subiti dal nuovissimo reparto dell’ospedale e il trasferimento di alcune degenti all’ospedale Piemonte suonano come un allarme beffardo nei confronti di chi auspica e ritiene inevitabile la chiusura della struttura di viale Europa, per la cui regolarità non occorrono stravolgimenti strutturali, ma semplici adeguamenti alle prescrizioni in materia anti-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
sismica. Un presidio ospedaliero di emergenza, con ambulatori specialistici è un importante punto di riferimento per Messina e l’intera provincia, grazie anche alla posizione strategica che lo pone nelle vicinanze dell’ingresso autostradale.Quanto accaduto ci impone di fare il possibile per garantire la salvaguardia di questo grande patrimonio e dei suoi lavoratori.
Domenico
da ”Haaretz” del 01/04/10
Un druso a Damasco di Avi Issacharoff asrallah il leader del partito di Dio, Hezbollah, ha accusato Israele di avere un piano per distruggere la moschea di Al-Aqsa nell’antica Gerusalemme. È successo durante un’intervista rilasciata alla tv del movimento sciita di Al Manar, mercoledì. Ha rincarato la dose accusando lo Stato ebraico di aver propagandato la versione secondo cui ci sarebbe l’organizzazione sciita dietro l’uccisione del leader libanese Rafik Hariri. «Fonti ben conosciute danno la colpa alla Siria, così fanno gli arabi e gli attori internazionali» ha continuato Nasrallah. «Il governo d’Israele, così come i suoi media accusano Hezbollah di quell’assassinio». E poi ha continuato accusando la lobby sionista americana di averli messi sul banco degli imputati anche per gli attentati del 2001 negli Usa e di aver collaborato con al Qaeda. Nasrallah ha poi commentato l’incontro di riconciliazione avvenuto, mercoledì, tra il presidente siriano Bashar Assad e il leader druso libanese Walid Jumblatt.
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I rapporti tra loro erano cessati dopo l’omicidio di Hariri. Le agenzie ufficiali siriane hanno sottolineato come Jumblatt sia stato uno «dei più fieri critici e oppositori» del governo siriano che ci fosse in Libano, per evidenziare il cambio di rotta. I due vecchi rivali hanno parlato dell’importanza di Hezbollah per la resistenza contro Israele come tema principale dell’incontro. Un meeting che è sembrato contribuire in maniera determinante alla ricostruzione del prestigio e dell’influenza di Damasco in Libano. Un appeal politico e di potere perso dopo il
ritiro delle truppe siriane avvenuto cinque anni fa. Un episodio la riappacificazione con il ledaer druso che avrebbe riaperto dei canali di dialogo con alcuni politici libanesi considerati appartenenti all’area dei filoamericani. «L’importanza della resistenza come garanzia contro lo Stato ebraico» sarebbe stato un altro dei temi dell’incontro, secondo le agenzie ufficiali che hanno dato enfasi all’avvenimento. Il movimento sciita avrebbe fatto da intermediario per il vertice.
Dopo il 2005, Jumblatt era diventato fortemente antisiriano, accusando Damasco di essere complice degli assassinio di Hariri. E a quell’epoca non era stato il solo ad aver alzato l’indice contro un complotto di marca siriana. Oggi però, dopo attente riflessioni, avrebbe capito quanto importanti siano i rapporti con la Siria per preservare il Libano da un altro bagno di sangue e garantire la sicurezza della minoranza drusa. La Siria naturalmente ha negato ogni coinvolgimento con il delitto del politico sunnita, la cui vicenda è stata sottoposta a un’inchiesta delle Nazioni Unite, nel 2006. Hezbollah che nel 2006 ha combattuto una guerra contro Israele è comunque visto nel mondo arabo come una forza di resistenza, ma anche politica, visto che gestisce due ministeri a Beirut. Ora l’organizzazione sciita sta preparando una con-
troinchiesta sulla morte di Hariri, anche perché le voci su di un suo diretto coinvolgimento arrivano sempre più frequenti dagli ambienti europei. Wiab Wahhab, un ministro dell’attuale governo libanese, martedì scorso, avrebbe dichiarato a un giornale kuwaitiano di essere convinto che l’inchiesta Onu sia stata montata contro l’organizzazione sciita e che gli Stati Uniti abbiano esercitato pressioni affinché le accuse fossero dirette contro il partito di Dio.
Un quotidiano libanese Al-Diar ha scritto che molti diplomatici europei starebbero sondando il terreno sulle eventuali reazioni interne al Libano, nel caso l’inchiesta porti dritto al movimento sciita. Per timore che questo possa causare il riaccendersi del conflittoe scateni una nuova guerra civile. Nello scorso week-end Hezbollah ha fatto sapere di non avere nulla contro il lavoro degli inquirenti del Palazzo di vetro e di essere pronti a dimostrare la loro estraneità all’omicidio Hariri.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Tre strofe di fiori, la mia intimità rustica... Cara Signorina, non sarebbe abbastanza dire che anche questi fiori (dopo i fiori scritti) siano arrivati freschi: sono arrivati riposati, felici! Li aveva anche rincalzati con così tanto garbo nel loro triplo letto da viaggio! Questi tre strati, queste tre parti... direi, queste tre strofe di fiori che rappresentavano come le tre gradazioni dell’intimità rustica e che, nel loro insieme, delineavano come una remota e segreta mitologia della passeggiata eterna. Fioriture silvestri, piccoli anemoni di campo, fresie di giardino, e un unico tulipano slanciato, così giovane, un po’ vanitoso. Non saprei dare un nome ai fiori rossi, dal calice verde, ma mi sembra di averli già visti da qualche parte e che, a guardarli attentamente, giungerebbero di lontano dei ricordi a ravvisarli. Quel che soprattutto riconosco sono questi delicati anemoni che un tempo andavo a destare nel mio grande giardino di Roma; dormivano ancora, infatti, quand’io uscivo, mattiniero, ed ero io a gettar loro il carattere del giorno fra le palpebre esitanti; ma, poi, erano loro a far assai meglio di me dispiegando i teneri petali, colti da un ardore ricettivo, dischiudendosi al Sole fino al punto che talvolta mancava loro la forza di richiudersi per la notte... Rainer Maria Rilke ad Antoinette de Bonstetten
LE VERITÀ NASCOSTE
Fa uccidere la moglie, sbaglia e si ammazza NUOVA DELHI. L’amore non è bello se non è litigarello, ma in questo caso più che di litigi è corretto parlare di decessi. Un indiano di 39 anni, che ha assoldato tre killer per liberarsi della moglie e poter così continuare la relazione con una amante, si è infatti suicidato non potendo sostenere le conseguenze del fallimento del progetto. Lo scrive la stampa di Delhi, che in pieno stile Bollywood ha sceneggiato il fallito omicidio e le macabre conseguenze. Naresh Tyagi, imprenditore agricolo di Modi Naghar (nello Stato settentrionale dell’Uttar Pradesh), era sposato da cinque anni con Asha, che gli aveva dato un figlio e che era incinta di quattro mesi del secondo. Ma da qualche tempo l’uomo aveva avviato una relazione clandestina con una donna del villaggio. Questa liason, però, non era facile da gestire e la consorte, oramai insospettita, aveva iniziato a fare troppe domande. Non potendo sopportare la tensione, Naresh ha avvicinato tre giovani, offrendo loro 30.000 rupie (quasi 500 euro) per portare a termine l’assassinio della moglie. Il piano messo a punto non ha però funzionato perché, dopo essere stata narcotizzata, strangolata con una sciarpa e abbandonata in una giungla abitata da animali selvaggi, la donna si è presentata il giorno dopo a casa dei suoi genitori. È scattata la denuncia alla polizia che ha arrestato due dei tre aspiranti assassini mentre una “panchayat” (assemblea dei saggi del villaggio) ha condannato marito e componenti della banda a pagare 80.000 rupie (1.280 euro) di danni. Afflitto dalle critiche dei suoi compaesani, e incapace di tornare ad affrontare la moglie, l’uomo ha deciso di suicidarsi, sparandosi ad una tempia.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
ALITALIA. ACQUISTO BIGLIETTI ONLINE POCO CHIARO Quanto costa volare con Alitalia acquistando online? Il prezzo del biglietto più cinque euro. Alcuni giorni fa avevamo denunciato all’Antitrust la condotta commerciale scorretta della compagnia. L’Autorità ha aperto la pratica per verificare la rilevanza dei fatti segnalati. In attesa della pronuncia dell’Antitrust, dal nostro punto di vista ci sono pochi dubbi sull’ingannevolezza della procedura di acquisto dei biglietti online, in quanto l’aggravio di 5 euro, chiamato diritto amministrativo, altro non è che un balzello che resta nascosto fino al momento del pagamento: pagina principale del sito, regole tariffarie e condizioni generali di trasporto non ne fanno menzione. Non tutti i consumatori sono costretti a pagare la soprattassa: possessori di alcune carte di credito, ed altre categorie sono esentati dalla spesa. Stando così le cose, non si capisce perché si debba chiamare diritto amministrativo un qualche cosa che del diritto non ha nemmeno l’ombra: magie Alitalia! La condotta della compagnia aerea di bandiera è la stessa sia nel caso di acquisto di un biglietto ordinario, sia di uno in promozione: in questo caso l’ulteriore scorrettezza sta nel fatto che nella home page del sito si dice che il prezzo è “tutto incluso”. Ricordiamo che il decreto Bersani, in materia di trasparenza delle tariffe aeree, oltre che il codice del consumo vietano simili condotte. Il Garante della concorrenza, proprio in materia di tariffe aeree,ha avuto modo di affermare che «l’indicazione della tariffa deve includere ogni onere economico gravante sul consumatore».
APPUNTAMENTI APRILE 2010 VENERDÌ 23 ORE 11, ROMA, PALAZZO FERRAJOLI-PIAZZA COLONNA
Consiglio Nazionale Circoli liberal SEGRETARIO
Aduc
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
Direttore da Washington Michael Novak
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Collaboratori
Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,
Roberto Mussapi, Francesco Napoli,
Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
NUOVO CIRCOLO LIBERAL IN VERSILIA Si è costituito un Circolo Liberal a Viareggio, alla presenza dei promotori Guido Gemmi, responsabile versiliese; Fabio Pezzini, responsabile provinciale; Paolo Spadaccini presidente del consiglio comunale di Viareggio; Beppe Galli, Gianni Giampaoli, Ugo Iacometti, Antonio Pepi, Nando Galli. Gemmi ha così sintetizzato la nascita del nuovo Circolo: «Una nuova casa per chi avverte con preoccupazione il vuoto politico su cui si basa l’attuale sistema. C’è bisogno anche nella nostra città di una profonda rigenerazione politica, amministrativa, organizzativa, funzionale. È giunto secondo noi il momento di fare appello alle migliori energie presenti a Viareggio. Eliminando ogni interferenza, ogni impedimento, ogni deriva che tenda ad ostacolare lo sviluppo armonico di programmi e di iniziative serie e concrete necessarie a riportare Viareggio a quel livello d’immagine, di sviluppo e di stabilità sociale ed economica che le competono. Per la sua storia, per la sua tradizione, per la forza e il carattere della sua gente. I problemi che attanagliano oggi Viareggio possono e devono essere affrontati e superati, unendo gli sforzi tra tutte le migliori componenti culturali, economiche, sociali della nostra città, ripercorrendo gli itinerari di un tempo non troppo lontano nel quale le cose andavano molto meglio rispetto ad oggi. Il Circolo Liberal intende inserirsi nel contesto dei sodalizi aventi uno spirito costitutivo permeato di valori autentici di libertà e di progresso democratico e civile. Rifuggendo dalle troppe derive indotte da una prassi politica devastante, legata all’esclusiva gestione di interessi personali, alla sopraffazione dello spirito e della libera circolazione del pensiero e della cultura, alla messa in circolazione di una classe dirigente senza riferimenti ideali, povera di idee e di modesta qualità. Noi di Liberal ci adopereremo per sbloccare le migliori energie presenti nella nostra città; per recuperare la tradizione e l’immagine di una Viareggio di qualità, amata e invidiata nel mondo, una città che tuttavia non può riposare sugli allori, né avvinghiarsi in dinamiche avvolgenti, amministrativamente sterili e creatrici di immobilismi e perdite di competitività; una città che deve rapidamente invertire un processo caratterizzato da una crescente sciatteria, da un inutile pressappochismo, dalla assenza di una “visione”per il futuro e per le nuove generazioni. Confidiamo di poter contribuire a riscoprire il gusto della buona pratica amministrativa chiamando tutti i cittadini ad una loro nuova consapevolezza verso nuovi orizzonti di progresso e di civiltà. Guido Gemmi e Fabio Pezzini C I R C O L I LI B E R A L VI A R E G G I O
Mario Arpino, Bruno Babando,
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
John R. Bolton, Mauro Canali,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
Franco Cardini, Carlo G. Cereti,
Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,
Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,
Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,
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ULTIMAPAGINA Red Devils. Il primo ministro inglese studia la riforma della Premier League
Il contropiede di Gordon Brown: club di calcio di Francesco Lo Dico rima della fragorosa disfatta del Milan, in occasione della partita d’andata degli ottavi di Champions giocata a San Siro, i fan del Manchester United sbarcati a Malpensa avevano seminato profondo sconcerto in tutti i tifosi italiani. Che diamine ci facevano i supporter dei Diavoli Rossi, di quelle sciarpe a scacchi gialli e verdi annodate attorno al collo? Era il giallo e il verde del Manchester delle origini, quando si chiamava ancora Newton Heath, e le squadre di calcio, non ancora imprese, erano “club”nel vero senso della parola. Qualcosa di molto distante dall’attuale panorama, che vede i tifosi dello United inneggiare alla tradizione della loro squadra contro la disinvolta politica dei Glazer, attuali proprietari
P
americani: cedere Cristiano Ronaldo, non comprare nessuno, e produrre in compenso 819 milioni di euro di debiti, nonostante un ossessivo marketing.
Il primo ministro Gordon Brown, innamorato del calcio e detentore di una piccola quota dell’amatissimo Raith Rovers, sognava da tempo di rimettere le mani sul sistemacalcio britannico. Da una parte i contestatori di Glazer, riuniti in un’associazione che ormai ha superato i 75mila iscritti, dall’altra l’accoppiata Tom Hicks e George Gillett, altri businessmen statunitensi che a Liverpool si confrontano con un buco da 270 milioni di euro, e una protesta popolare di dimensioni altrettanto notevoli. E poi il fallimento (già avvenuto, in questo caso) del Portsmouth, più altri vari ed eventuali, che si profilano all’orizzonte di alcuni club in crisi economica. Il calcio inglese sembra andare incontro al crac, il mandato popolare del Labour, in predicato di uscire di scena alle prossime elezioni dopo un’egemonia che dura ormai da tredici anni, idem o quasi. Le circostanze sono favorevoli, oggi come non mai, per una riforma della Premier all’insegna del premier. La bozza elaborata da Gordon Brown, secondo quanto rivelato dal Guardian, punta a due obiettivi: consegnare una quota azionaria dei club non inferiore al 25 per cento nelle mani dei tifosi, «come riconoscimento del legame con la co-
munità locale». E concedere poi priorità d’acquisto agli stessi supporter, nel caso la squadra del cuore finisca in vendita o in amministrazione controllata. Ma le misure contro i furbetti del Borsalino (tradizionale copricapo del cinema yankee), non finiscono qui. Brown punta infatti a dotare la Football Association (l’equivalente della nostra Figc) di strumenti in grado di abolire diritti acquisiti dai vertici societari dei club professionistici. In soldoni, la possibilità di trasformare una squadra di calcio, nella versione bailada di un mutuo sub-prime: arricchirsi a discapito di un tetto sopra la testa, o di un pallone che corre in uno
team agitano fin da ora lo spettro di una causa contro il depauperamento per decreto, ma in molti fanno notare come la golden share popolare significherebbe dare voce in capitolo a chi la storia del calcio la scrive gratis con bandiere, trasferte, e gagliardetti. Tutta gente che, potrebbe avere giusta voce in capitolo in caso di scalate societarie non troppo limpide. Ma la strategia dell’azionariato popolare, ha davanti un cammino irto, e non saranno pochi quanti ne sconsiglieranno il cammino. Da più parti si teme infatti che i grossi investitori, faranno armi e bagagli per allontanarsi dalla Premiership. Gestire potere e strategie
ai TIFOSI A Downing Street si lavora a un piano in due punti: consegnare una quota del 25 per cento nelle mani dei supporter, e concedere loro priorità d’acquisto in caso il club finisca in vendita o in amministrazione controllata
stadio. Si lavora inoltre a un’operazione trasparenza, in grado di mettere il pubblico nella condizione di conoscere i veri proprietari del club (i tifosi del Leeds United se lo domandano da un pezzo) e sono inoltre allo studio investimenti sullo sviluppo del settore giovanile e più controlli sulle operazioni di cessione di una società calcistica.
Musica per le orecchie di Michel Platini, che già da tempo promette stilettate contro un mondo del pallone che sembra in procinto di scoppiare. Le indiscrezioni dicono che l’ex juventino abbia molto apprezzato le intuizioni di Gordon. Meno entusiasti, i club guardano invece al piano Brown, come una pasciuta wasp di Beverly Hills alla riforma sanitaria di Obama: intollerabile intromissione nelle faccende personali. I presidenti dei
aziendali in coabitazione con tifosi veri, creerebbe di certo innnumerevoli traiettorie di collisione.
Didier Drogba, Wayne Rooney, Fernando Torres: in questi anni il calcio inglese ha saputo trasformarsi nel più eclatante spettacolo pedatorio del Pianeta. Ma dietro le prodezze dei singoli, i trionfi internazionali, gli spot milionari, c’è sempre e comunque quella creatura passionale e vorace che è il tifoso. È lui a tenere in piedi la baracca, e nemmeno il più sofisticato humour del posto, potrebbe rendere sopportabile l’idea che il tetto gli caschi in testa.