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ISSN 1827-8817 00403

di e h c a n cro

La gente esige la libertà di

parola per compensare la libertà di pensiero, che invece rifugge Sören Kierkegaard

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 3 APRILE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Nicholas Kristof e Sheryl WuDunn hanno rielaborato i dati dell’International Labour Organization: peggio oggi che nell’Ottocento

Ottocentomila schiave Ottocentomila schiave all’anno Due Pulitzer americani denunciano: nel mondo ci sono 12,3 milioni di persone costrette ai lavori forzati, la maggioranza donne: un “affare”da 32 miliardi di dollari. Quanto il pil di una nazione di Luisa Arezzo

Le elezioni e l’immobilismo della maggioranza

el mondo ci sono almeno 12,3 milioni di uomini e donne costretti a lavori forzati di ogni genere e circa la metà ha meno di 18 anni. La denuncia arriva dall’Ilo - l’International Labour Organization -, che ha pubblicato un rapporto denominato «Alleanza globale contro il lavoro forzato». Secondo le stime 2 milioni e mezzo di persone sono costrette al lavoro forzato dallo Stato o da gruppi militari ribelli, ma la maggioranza dei moderni forzati (9.8 milioni) viene sfruttata nel settore privato. E c’è di più: l’Ilo fornisce la prima stima mondiale dei profitti generati dallo sfruttamento del lavoro di donne, uomini e bambini vittime della tratta di esseri umani: un totale di 32 miliardi di dollari l’anno.

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Scusate, non credo più alle riforme annunciate di Enrico Cisnetto fantastico. Se solo avessimo saputo che bastava tenere le elezioni Regionali – e pure parziali, 13 regioni su 20 – per fare, e magari in modo condiviso, le grandi riforme strutturali di cui il Paese ha bisogno da anni, avremmo chiesto di anticiparle abbinandole con le Politiche del 2008. D’accordo che in campagna elettorale di tutto si è parlato meno che delle Regioni e delle loro competenze, ma è davvero sorprendente come il centro-destra, Economia, da Berlusconi in istituzioni, giù, consideri il di sei giorni federalismo voto fa come il viatico e giustizia: per realizzare quanto non è ecco che stato fatto nei cosa primi due anni di occorre legislatura. Ascambiare serzione strampalata per almeno quattro ordini di motivi. Primo: al di là del 7 a 6 che è risultato indubbiamente molto favorevole al centro-destra, e non solo perché 5 anni fa era stato 11 a 2, politicamente il voto non segna affatto una vittoria dell’attuale maggioranza di governo.

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Parla Margherita Boniver

«Guerra totale per la legalità» «I trattati non bastano: devono impegnarsi i governi» Gabriella Mecucci • pagina 2

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Le ragioni dei centristi verso la Costituente

Ma il Partito della Nazione non è quello della nostalgia di Francesco D’Onofrio Assemblea nazionale che – come afferma il documento conclusivo del coordinamento dell’Unione di centro – definirà forme e modi per la nascita del nuovo soggetto politico, promosso appunto dall’Unione di centro, avrà davanti a sé una prima e fondamentale questione: proporre un equilibrio culturale, istituzionale e politico nuovo tra nostalgia e cambiamento. Infatti non vi è dubbio che molto forte sia stato, e sia tuttora, talvolta il ricordo ed il richiamo della Democrazia cristiana in quanto partito; talvolta il ricordo – in questo caso mitico – del “centro”. segue a pagina 8

L’

personaggio della settimana

Indagine su un personaggio centrale della Pasqua

Doku Umarov, il terrorista che spaventa Putin

Fenomenologia di Ponzio Pilato

Il Bin Laden della Cecenia

segue a pagina 4

BUONA PASQUA AI LETTORI torna in edicola mercoledì 7 aprile seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

di Sabino Caronia

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

Nel corso ordinario delle cose il suo nome sarebbe passato inosservato. Ma l’incontro casuale con Gesù gli ha dato un’importanza straordinaria che si è mantenuta durante i secoli. Dai quattro evangelisti a Durrenmatt, da Bulgakov a Anatole France, ecco che cosa si racconta del quanto governatore romano della Giudea.

Il leader della guerriglia cecena, il ribelle Doku Umarov, è uno dei personaggi più controversi del mondo contemporaneo. La sua battaglia per l’indipendenza territoriale del segmento caucasico noto come Cecenia ha infatti sposato nell’ultimo decennio l’islam radicale, quello dello “sceicco del terrore” Osama bin Laden.

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• ANNO XV •

NUMERO

64 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Inchiesta. 12,3 milioni di schiavi “rendono” ognuno 13mila dollari all’anno. Ecco tutti i dati di una tragedia ignorata

La Gomorra delle donne Lavori forzati dallo Stato, da gruppi militari ribelli e dalla criminalità Il rapporto sulla schiavitù nel mondo dà conto di una realtà spaventosa di Luisa Arezzo el mondo ci sono almeno 12,3 milioni di uomini e donne costretti a lavori forzati di ogni genere e circa la metà ha meno di 18 anni. La denuncia arriva dall’Ilo - l’International Labour Organization -, che ha pubblicato un rapporto denominato «Alleanza globale contro il lavoro forzato». Secondo le stime 2 milioni e mezzo di persone sono costrette al lavoro forzato dallo Stato o da gruppi militari ribelli, ma la maggioranza dei moderni forzati (9.8 milioni) viene sfruttata nel settore privato. Detta così, a un normale cittadino viene in mente la filiera dei palloni da calcio o delle scarpe da tennis fino a tutti i gadget importati dal sud est asiatico. Ma questa è solo una piccola parte della medaglia. Perché circa 2 milioni e mezzo di persone sono vittime della tratta di essere umani. E c’è di più:

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Nel mondo ci sono almeno 12,3 milioni di uomini e donne costretti a lavori forzati di ogni genere, la metà dei quali ha meno di diciotto anni l’Ilo fornisce la prima stima mondiale dei profitti generati dallo sfruttamento del lavoro di donne, uomini e bambini vittime della tratta di esseri umani: un totale di 32 miliardi di dollari l’anno, equivalente ad una media di circa 13mila dollari l’anno per ogni vittima.

La percentuale dei lavoratori forzati nel mondo vittime della tratta varia da un luogo all’altro. Nei Paesi industrializzati, in quelli in transizione nonché nel Medio Oriente e nell’Africa del Nord, la quota delle vittime della tratta arriva al 75% del totale. In Asia, America Latina e nell’Africa Sub-Sahariana, la percentuale delle persone coinvolte rappresenta meno del 20% delle vittime totali. Ma in generale il lavoro forzato è un problema mondiale che riguarda tutti i Paesi, tutte le regioni del mondo e tutti i tipi di economie. Secondo le stime - ma il fenomeno è difficile da misurare - la regione nella quale si trova il maggior numero di persone sottoposte al lavoro forzato è l’Asia, con 9.5 milioni. L’America Latina e i Caraibi contano complessivamente 1.3

Per Margherita Boniver «i trattati devono essere aggiornati»

«Adesso l’Occidente lanci la guerra totale per la legalità»

milioni di persone sottoposte al lavoro forzato mentre l’Africa Sub-Sahariana ne conta 660mila, il Medio Oriente e l’Africa del Nord insieme ne totalizzano 260mila. Nei Paesi industrializzati le vittime sono oltre 360mila e 210mila nei Paesi con economie in transizione. I minori di 18 anni pagano il più alto tributo rappresentando complessivamente il 40-50

di Gabriella Mecucci

ROMA. Margherita Boniver è una delle parlamentari italiane che si è più spesa sui diritti umani. Ha viaggiato in largo e in lungo per il mondo allo scopo di conoscerne tutte le violazioni. Si è impegnata molto, in questo ambito, anche sulle nuove schiavitù femminili. Onorevole da un rapporto di due studiosi americane risulta che ci sono ogni anno ben 800mila donne ridotte in schiavitù e che complessivamente ci sono nel mondo ben 12 milioni di schiave... Questi dati sono impressionanti, ma ritengono che contengano un errore per difetto. Le schiave sono ancora di più. Basti dire che solo in Europa ci sono ben 200mila donne sbattute nei bordelli. Provengono dai paesi più poveri dell’Est europeo, a partire dal Kossovo. Errore per difetto? Ma lo sa che durante il periodo dello schiavismo ogni hanno venivano deportati in tutto ottantamila persone? Guardi che la schiavitù sta rispuntando in tutti i modi possibili e immaginabili. Ci sono luoghi, ad esempio, come il Niger la Mauritania, dove si ripresenta nella forma più classica dei servi della gleba, così come era in Russia. Intere famiglie sono schiave di altre più ricche. Fanno i lavori più pesanti e non hanno alcun diritto. Sono di proprietà di altri. In genere ad essere ridotti in

questa condizione sono i Tuareg. Ma il maggior numero di donne viene ridotto in schiavitù per farne un uso sessuale. Finiscono nei bordelli dove poi trovano anche la morte perché contagiate dall’Aids... È vero. Se si gira per l’Asia si vedono tutte le forme possibili della schiavitù sessuale femminile. Spesso vengono vendute direttamente dalle famiglie. Accade per miseria, ma anche per ragioni culturali. Ci sono dei luoghi del mondo dove avere una figlia femmina è una disgrazia. Anche perché vige l’istituto della dote: per farla sposare, cioè, occorre mettere sul piatto un bel po’ di soldi. Accade allora che bambine di 9 o 10 anni, e persino più piccole vengono vendute ai pedofili europei ed americani. Se giri per la Cambagia, ad esempio, incontri migliaia di vecchi accompagnati per mano da ragazzine. Si vede ad occhio nudo a che cosa sono destinate le poverine. E poi ci sono le centinaia di migliaia di donne che vengono esportate nei paesi più ricchi per fare le prostitute. E la schiavitù sui posti di lavoro? Esiste anche quella. E la si trova soprattutto in quelle fabbriche dove si fanno prodotti contraffatti. Spesso sono in mano ai cinesi e lo sfruttamento è brutale. Che cosa si può fare per ridurre un fenomeno ormai così dilagante? Speravamo che la schiavitù fosse relegata all’Ottocento. E invece la vediamo riapparire un po’ ovunque sotto vecchie e nuove forme. Esistono leggi e trattati che la aboliscono, ma non basta. Occorre battersi con tutti gli strumenti possibili perché vengano aggiornati, altrimenti si trova sempre una scappatoia, e soprattutto applicati. L’Italia cosa fa? L’Italia si è molto impegnata a livello di Nazioni Unite per sconfiggere un fenomeno contiguo alla schiavitù femminile: e cioè l’uso diffusissimo della mutilazione sessuale. Ben 30milioni di donne subiscono questa barbarie. Accanto a questo c’è poi un impegno più generale sulla schiavitù femminile. La vera arma per batterla è una lotta senza quartiere per la legalità.

La stima mondiale dei profitti generati dallo sfruttamento e dalla tratta di esseri umani è di 32 miliardi di dollari l’anno (in media 13mila dollari l’anno per ogni vittima) % delle vittime del lavoro forzato nel mondo. Lo sfruttamento di individui a scopo economico colpisce inoltre più donne e bambine (56%) che uomini e ragazzi (44%). Ma il divario è enorme nel settore dello sfruttamento sessuale a scopo di lucro: il 98% delle vittime è costituito da donne e ragazzine. E di questo noi ci occuperemo in modo particolare.

Tecnicamente il traffico di esseri umani è spesso definito come il trasporto di qualcuno (con la forza o con l’inganno) al di là di un confine internazionale. Il dipartimento di Stato americano ha stimato che ogni anno vengono trasportate al di là dei confini nazionali fra 600mila e 800mila individui, di cui l’80 percento donne e ragazze, per lo più a scopo di sfruttamento sessuale. Questo significa che tutti quanti non attraversano un confine non rientrano in questa statistica. E questo vale per la maggior parte delle persone che sono ridotte in schiavitù nei bordelli. Come osserva il dipartimento di Stato Usa, la sua valutazione non comprende «milioni di vittime che in tutto il mondo sono ridotte in schiavitù a fine di sfruttamento nazionale all’interno dei loro confini nazionali». Di contro, nel decennio di maggiore attività della tratta di schiavi transatlantica, fra il 1780 e il 1790, furono imbarcati su navi negriere che attraversavano l’Atlantico dall’Africa al Nuovo Mondo una media di quasi 80mila schiavi l’anno. La media scese poi un po’più di 50mila fra il 1811 e il 1850. In altri termini, all’inizio del Ventunesimo secolo vengono rinchiuse ogni anno nei bordelli molte più donne e ragazze di quanti furono gli schiavi africani imbarcati ogni anno per l’America nel Sette-


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Secondo il dipartimento di Stato Usa, ogni anno vengono trasportate al di là dei confini nazionali, per sfruttamento sessuale, fra i 600mila e gli 800mila individui cento e Ottocento, anche se la popolazione complessiva era allora ovviamente molto minore. Quale che sia il numero esatto, pare quasi certo che la moderna tratta mondiale degli schiavi sia maggiore in termini assoluti della tratta degli schiavi attraverso l’Atlantico nel Settecento e Ottocento.

Benché negli ultimi decenni si siano fatti progressi nell’affrontare molti problemi umanitari, la schiavitù a fini di sfruttamento sessuale è in realtà aumentata. Una delle cause va vista nel crollo del co-

La regione al mondo nella quale si trova il maggior numero di persone sottoposte a al lavoro forzato è il Continente asiatico, con circa 9,4 milioni di sfruttati munismo in Europa orientale e in Indocina. In Romania e in altri paesi il risultato immediato fu una situazione di grande disagio economico, e dappertutto emersero criminali che riempirono il vuoto di potere. Il capitalismo creò nuovi mercati per riso e patate, ma anche per la carne femminile. Una seconda ragione per la crescita dei traffici di schiave sessuali è la globalizzazione. Una generazione fa, la gente se ne stava a casa; oggi è più facile e più economico andare in città o recarsi in un paese lontano. Una ragazza nigeriana la cui madre non è mai uscita dalla sua tribù, può trovarsi oggi in un bordello in Italia. Una terza ragione del peggiora-

mento della situazione è ascrivibile all’Aids. Una donna venduta a un bordello una volta andava incontro a un destino orrendo, che non sempre però equivaleva a una condanna a morte. Oggi purtroppo la sorte è quasi sempre questa. E a causa dei timori dell’Aids i clienti preferiscono ragazze più giovani, che hanno maggiori probabilità di non essere contagiate.Tanto in Asia quanto in Africa, inoltre, si crede che l’Hiv si possa curare facendo sesso con una vergine, leggenda che ha alimentato la domanda di ragazze giovani che così vengono rapite dai loro villaggi. Questi fattori spiegano il nostro particolare accento sulle schiave del sesso in opposizione ad altri tipi di lavori forzati. «Chiunque in India abbia visitato i bordelli e, per esempio, una fornace da mattoni, sa che è meglio lavorare come schiavi in una fornace. I lavoratori lì vivono per lo più insieme alle loro famiglie, e il loro lavoro non li espone al rischio del contagio, cosicché hanno sempre la speranza di poter fuggire». A scrivere questo sono Nicholas D. Kristof e Sheryl WuDunn, marito e moglie nella vita, entrambi giornalisti del New York Times, entrambi vincitori del Pulitzer, nel loro libro L’altra metà del cielo. Definire questo rapporto un semplice libro-inchiesta è decisamente riduttivo. Così come catalogarlo alla stregua di un lavoro di denuncia. Questo testo è molto di più: è il “Gomorra”dello sfruttamento e schiavismo delle donne nel mondo, o meglio: in buona parte del mondo. È un velo che si alza contro una piaga che tutti dicono di conoscere e che nessuno va a guardare. Un grido contro la violazione forse più macroscopica dei diritti umani: l’oppressione di donne e bambine nei paesi in via di sviluppo. Ragazze rapite, stuprate, forzate alla prostituzione da violenze efferate; ragazze costrette dai genitori, anche con l’uso della forza, a sposare uomini che non amano e che le considerano alla stregua di oggetti; ragazze che, entrando col matrimonio nella loro nuova casa, vengono percosse a turno dal marito, dai cognati, dal suocero e dalla suocera per imparare subito a chi devono obbedienza;

mogli incendiate dai mariti, donne sfigurate con acidi per vendetta; ragazze (quasi sempre bambine) vendute a bordelli, che vengono sconsigliate dal presentare denuncia alla polizia, perché la polizia è corrotta e normalmente, se si presentano alla loro porta, prefersicono violentarle per far loro capire dove soffia il vento.Violenze dettate da ignoranza, miseria, misoginia, sadismo. E spesso, molto spesso, dal business economico, enorme.

In India, ogni due ore circa, viene data alle fiamme una moglie, per punirla di non aver portato una dote adeguata o per eliminarla al fine di permettere a un uomo di risposarsi, ma raramente questi fatti fanno notizia. Nelle città gemelle di Islamabad e di Rawalpindi, solo negli ultimi nove anni cinquemila donne e ragazze sono state annaffiate di cherosene e date alle fiamme da consanguinei o affini – o forse peggio, sono state bruciate con acido – a causa di un’azione percepita dagli uomini come disobbedienza. Certo, possiamo solo immaginare il clamore delle proteste mondiali se a farlo fossero i governi pakistano e indiano. Ma questo non è, e siccome i governi non sono coinvolti, tutto sembra più lontano. Se un dissidente importante viene arrestato in Cina, c’è

Nei Paesi industrializzati le vittime sono oltre 360mila. Lo sfruttamento di individui a scopo economico colpisce inoltre più donne e bambine (56%) che uomini e ragazzi (44%)

una levata di scudi occidentale. Ma se vengono rapite 100mila bambine, allo scopo di essere sfruttate sessualmente nei bordelli, questa – cosa incredibile – quasi non sembra una notizia. Così come non fa notizia il dato Onu che in India le bambine da uno a cinque anni di età hann un 50 per cento di probabilità di morire in più rispetto ai maschi della stessa età. Ma qui si entra nel campo della discriminazione di genere, e noi non vogliamo uscire fuori dalla denuncia dello schiavismo. Che si deve combattere. Uno può chiedersi: come? Innanzitutto sforzandosi di costruire ampie coalizioni fra linee liberal e conservatrici sul tema. E poi resistendo alla tentazione di esagerare. La comunità umanitaria/terzomondista ha minato la sua credibilità con le sue predizioni esagerate. Generando innumerevoli danni. Infine, è necessario che i governi facciano pressione sugli stati coinvolti affinché si attivino realmente ad estirpare la piaga.

Gli americani sapevano da diverso tempo che la discriminazione era una cosa ingiusta, ma la discriminazione razziale sembrava un problema profondamente radicato nella storia e nella cultura del sud, e la maggior parte delle persone di buon cuore non vedeva che cosa si potesse fare contro tali ingiustizie. Poi vennero Rosa Parks e Martin Luther King e gli attivisti per i diritti civili Freedom Riders. D’improvviso divenne impossibile non accorgersi più delle ingiustizie. Al tempo stesso l’aria fu invasa dallo smog, i fiumi e i mari si sporcarono di liquidi oleosi e molti animali furono a rischio estinzione per gran parte del Novecento, ma la distruzione ambientale proseguì senza molti commenti o opposizioni. Sembrava il prezzo triste ma inevitabile del progresso. Poi, nel 1962, Rachel Carson pubblicò la Primavera silenziosa. Era nato il movimento ambientalista. Allo stesso modo, oggi la sfida è quella di sollecitare il mondo ad affrontare i problemi delle donne chiuse in bordelli e delle adolescenti rapite o vendute che giacciono rannicchiate sul pavimento di capanne isolate.


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politica

Scetticismo. Dopo aver vinto le elezioni, la maggioranza assicura di cambiare regole: ma le divisioni interne sono sempre lì

Riforme? È una parola...

Economia, istituzioni, federalismo, giustizia: ecco cosa cambiare. Da anni Berlusconi promette la «rivoluzione»: si può credere che ora la farà davvero? di Enrico Cisnetto segue dalla prima Perché, come ha spiegato efficacemente Luca Ricolfi sulla Stampa, il Pdl ha perso voti sia in assoluto che in percentuale, tanto rispetto alle Europee quanto rispetto alle Politiche, perdite che non sono state compensate dal successo della Lega (aumentata in percentuale ma non in voti) visto che il vantaggio del centro-destra rispetto al centrosinistra si è dimezzato rispetto al 2008 scendendo dal 5-6% al 2-3%. In totale, stiamo parlando di circa due milioni e mezzo di consensi. Certo, nelle elezioni intermedie chi sta al governo di solito perde sempre un po’ di voti, ma il fatto che la clamorosa discesa del Pd – che ha preso 5.846.000 voti, minimo storico lontano anni luce non solo dai 7,8 milioni delle Regionali di 5 anni fa, ma anche rispetto ai 6,9 milioni delle recenti Europee, rispetto alle quali 1.111.000 voti di differenza sono il 16% in meno – abbia consentito al centro-destra di portarsi a casa sette amministrazioni regionali, non significa che la maggioranza e il governo possano considerarsi politicamente rafforzati. Il fatto che solo un italiano su sette degli aventi diritto al voto si esprime a favore del suo esecutivo dovrebbe indurre il premier a qualche riflessione in più di quelle, banali, che fin qui ci ha espresso.

Secondo: le elezioni non hanno certo rimarginato le profonde ferite interne che la maggioranza ha mostrato in questa prima parte della legislatura. Anzi, la nascita del “partito del Sud”, i risultati negativi in Puglia e Liguria, la reiterazione dell’idea che Berlusconi vince da solo e i candidati ben che vada non servono altrimenti sono d’impaccio, oltre che le tossine di alcune vicende che hanno tenuto banco prima delle elezioni, sono tutte cose che non depongono a favore dell’ipotesi che le Regionali abbiano sanato contrasti e divaricazioni interne. Perché Fini dovrebbe mettere tra parentesi i suoi motivi di dissenso sulle tante questioni di merito su cui ha in questi due anni mostrato idee diverse dal Cavaliere e da gran parte del Pdl? E perché dovrebbe tacere oggi quel che diceva ieri sul

Il no leghista alla Ru486 diventa “ni”; il Guardasigilli contro i magistrati anti-preti

Cota e Alfano: parte la gara per il favore dei cattolici di Errico Novi

ROMA. Verrebbe da chiedersi dov’era la Lega quando il Consiglio superiore di sanità ha dato il via libera all’uso della Ru486. Come mai si sia scatenata solo ora. Forse per un raffinato gusto estetico: le ouvertures devono essere sempre memorabili. Adesso alla sinfonia dei governatori padani s’unisce l’acuto di un ministro: ieri il guardasigilli Angelino Alfano ha avviato un’ispezione sulla Procura milanese. Obiettivo: «Verificare la correttezza, l’equilibrio e il riserbo del dottor Pietro Forno», il capo del pool specializzato in molestie sessuali che aveva lanciato generiche accuse di pedofilia e omertà nei confronti della Chiesa. C’è una straordinaria e curiosa mobilitazione dei due alleati di maggioranza nel mostrarsi sensibili e solerti verso la causa cattolica. Avessero avuto in passato le stesse attenzioni sarebbe stato meglio. Ne avrebbero guadagnato per esempio le famiglie, bene assoluto sempre difeso dalla Chiesa per il quale il governo non ha certo sprecato risorse. Non si è mai visto il Carroccio agitarsi per spingere l’amico ministro Giulio Tremonti ad aumentare le detrazioni per i nuclei familiari.

Va bene tutto, naturalmente. Ben vengano le preoccupazioni di Roberto Cota e Luca Zaia sugli effetti clinici ed esistenziali della Ru486. Basta solo che la battaglia per la vita non si riduca al velleitarismo. A un’alzata di scudi rumorosa a cui segue una mesta ritirata. Di questo per la verità già si è avuta impressione ieri pomeriggio, quando uno dei due neo-presidenti leghisti, il piemontese Cota, ha rettificato: «Non è mai stata mia intenzione violare la legge». Già finito l’effetto del bengala? Come ha giustamente ricordato il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini «la Lega è una grande forza politica e può chiedere alla maggioranza di cambiare la legge sulla pillola abortiva. E se vuole, può anche chiedere di cambiare la 194». Magari succede. Sarebbe interessante capire se il partito di Bossi riesce a passare dalla suggestione messianica alle realizzazioni concrete. Sui temi della vita, della famiglia e della difesa del cristianesimo, messo oggettivamente sotto attacco dai media di mezzo Occidente, c’è un’impegnativa battaglia da condurre. Ora che il mandato elettorale l’ha rafforzata politicamente, la Lega può impegnarsi anche in questo. Come è evidente le iniziative reali sono assai più impegnative delle affermazioni clamorose. C’è da fare i conti con le leggi dello Stato. A ricordarlo, oltre allo stesso Casini («c’è una legge fatta da questo governo e gli uomini delle istituzioni la devono applicare») e a molti esponenti di opposizione e maggioranza, ha provveduto il ministro della Salute Ferruccio Fazio in persona, in un colloquio pubblicato ieri da Repubblica. C’è da dire che come tutti gli eventi stressanti anche la campagna elettorale rischia di prolungarsi oltre il suo limite naturale: ed è difficile non intravedere, nella decisione assunta da Alfano di mettere “sotto osservazione” il procuratore milanese Forno, un modo per assecondare l’onda neocattolica dei leghisti. Se non altro questi ultimi movimentati giorni potrebbero servire a inchiodare la maggioranza, a reclamarne la coerenza con le dichiarazioni di principio. E a intraprendere appunto una nuova stagione di politiche in sostegno della famiglia e della vita. A cominciare da una più rigorosa applicazione della legge 194 nella parte che impone di prevenire le interruzioni di gravidanza. Interventi che costano molto più degli annunci roboanti e di cui però c’è assai più bisogno.

partito e il metodo con cui viene gestito? E per quale recondito motivo il Pdl dovrebbe diventare partito, come ha auspicato il ministro Matteoli, in virtù delle Regionali? Caso mai avrebbe dovuto diventarlo in vista delle elezioni, non dopo. E gli scontri tra ministri su mille questioni a cui abbiamo assistito, perché oggi dovrebbero venir meno? Si è detto per mesi, e non solo da parte del presidente della Camera, che l’agenda politica del governo era dettata dalla Lega: perché ora le cose dovrebbero cambiare se il partito di Bossi è uscito rafforzato dalle urne? Insomma, non è difficile pronosticare che voglia di resa dei conti e interessi ulteriormente divaricati creeranno pesanti e ulteriori tensioni nella maggioranza e nel governo, a tutto danno della presunta rinnovata volontà riformatrice improvvisamente sbocciata dopo il voto.

Il terzo motivo di scetticismo riguarda la volontà di fare le riforme e il contenuto di esse. Grosso modo potremmo dividere in quattro categorie le riforme che si sentono evocare: economiche, istituzionali (ruolo delle Camere, numero dei parlamentari, presidenzialismo e forma di governo, legge elettorale, ecc.), federalistiche, di giustizia. Sulle prime ci è stato detto senza mezzi termini che non andavano fatte, vuoi perché a crisi in corso (cioè proprio quando il terreno del consenso è più fertile) non si doveva toccare niente vuoi perché non ce n’era bisogno (previdenza). Su altre, come quella della sanità – che avrebbe dovuto essere il cuore del dibattito elettorale per le Regionali – è calata una pesante coltre di silenzio. Ora si è cambiata idea? Per favore, fatecelo sapere. Le riforme istituzionali, cui più esplicitamente si è fatto riferimento in queste ore, erano già state evocate subito dopo le Politiche di due anni fa, compresa la richiesta alla opposizioni di rendersi disponibili al confronto. Peccato, però, che quella buona intenzione, cui per la verità aveva risposto solo l’Udc, sia andata a farsi benedire nel giro di pochi giorni. Perché ora dovrebbe essere diverso? Anche qui, per favore ditecelo. Ma, in tutti i casi, le componenti pensanti delle opposizioni facciano il santo piacere di non aspettare il governo per giocare come al solito di rimessa, ma facciano una proposta organica (che per quanto mi riguarda non può che essere di tipo tedesco per tutte le questioni in ballo). La riforma della giustizia che fin qui non c’è stata, è poi la conferma che lo


politica

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«Per il Pd la nuova legge elettorale è uno dei punti essenziali»

«Aspettiamo una bozza dal centrodestra» Luciano Violante spera che sia finalmente giunto il momento per confrontarsi per il bene del Paese di Franco Insardà

ROMA. Archiviate le Regionali, Berlusconi è partito lancia in resta sulle riforme. E da Facebook chiede se iniziare dall’elezione diretta del Presidente della Repubblica e del premier, dal taglio dei parlamentari, o dal bicameralismo perfetto. Su questi ultimi temi Luciano Violante, presidente del forum “Riforma dello Stato” del Pd, ha presentato due anni fa un testo, da tutti riconosciuto come base di partenza per il dialogo tra i poli. « Il Paese ha bisogno delle riforme per ridiventare competitivo. Ma prima di tratteggiare scenari è necessario conoscere le proposte del centrodestra, che sinora appaiono contraddittorie». Si può partire dalla sua bozza? È la nostra base di partenza e alcuni la condividono anche nel centrodestra. Ma il testo va corretto almeno nella parte relativa al Senato, perché è superata. Si può parlare di cultura delle regole in quest’Italia? In materia di regole le culture che si combattono, e non solo in Italia, sono due: una per la quale le regole devono disciplinare l’esercizio del potere e l’altra secondo la quale l’esercizio del potere serve a imbrigliare l’applicazione delle regole. C’è un braccio di ferro permanente tra questi due modi di guardare alla democrazia. Potranno mai prevalere le regole? Accade in molti Paesi e non è un miracolo, ma un segno di maturità. Se si esercita il potere al solo fine di frenare l’applicazione delle regole, il sistema si blocca e si scatena una competizione selvaggia tra chi può e chi non è in grado di eludere l’applicazione delle regole. Risultato, le comunità nazionali vanno verso l’autodistruzione. Quali sono gli obiettivi del suo testo? Ridurre il numero dei parlamentari. Rendere il governo e il premier sufficientemente forti per controbilanciare il peso del Parlamento e disporre degli strumenti per realizzare il proprio programma. Il Parlamento dev’essere in grado di controllare il governo. Giustizia, federalismo, pensioni, legge elettorale: con quale di queste aprire il cantiere delle riforme? Aspettiamo le proposte del centrodestra. La legge elettorale per noi è uno dei punti essenziali. E la giustizia? Bisogna prima mettere mano al ruolo e ai poteri del premier e a quelli delle Camere attraverso l’istituzione del Senato federale; vanno

Anche il settore della Sanità andrebbe modificato profondamente, ma in campagna elettorale nessuno ne ha parlato. Possibile che ora abbiano cambiato idea? scetticismo non può essere considerato disfattismo: sono sette anni (negli ultimi nove) che il premier ci racconta quanto sia necessario e inderogabile un intervento organico in materia, ma sono sette anni che assistiamo a penosi interventi tampone che o non passano o non servono (neppure al Cavaliere). Perché, allora, noi che siamo più che disponibili alla separazione delle carriere dei magistrati piuttosto che alla revisione organica del codice e degli ordinamenti, dovremmo credere che questa sia la volta buona? Cosa fa la differenza?

Infine c’è la questione del federalismo. Adesso si può fare, dice baldanzosa la Lega facendo riferimento a quello fiscale. Ma come, ci avete raccontato che era cosa già fatta, e adesso ci dite che era una scatola vuota ancora tutta da riempire? Cosa vera, peraltro, ma allora in cosa consiste e soprattutto quanto costa perché non ci viene ancora detto? E perché parlarne adesso e non in campagna elettorale, cosa che avrebbe consentito ai cittadini di valutare il “federalismo realizzato”fin qui – quello che io preferisco chiamare “localismo esasperato”, che ha moltiplicato costi, contenzioso e diritti di veto, oltre all’assurdo di aver prodotto venti regioni con altrettante leggi diverse in quasi tutti i campi, e proprio quando si va verso una legislazione uni-

ca europea – e di ragionare se il regionalismo ha dato buoni frutti o se è il caso di cambiare strada? Adesso, con la Lega più forte, il rischio è di essere messi al bando per il solo motivo di volerne parlare.

Quarto e ultimo punto. Dicono gli esponenti del governo: nei primi due anni di legislatura non esistevano le condizioni per fare le riforme perché nel 2009 c’erano le Europee e nel 2010 le Regionali; ora, invece, ci sono tre anni davanti senza elezioni e dunque la strada è spianata. A parte il fatto che il prossimo anno ci sarà il rinnovo di Comuni importanti come Milano, Torino e Napoli, ma povero quel governo e misera quella maggioranza che non agiscono per il bene del Paese per paura di essere giudicati dagli elettori. Se poi si tratta di un esecutivo che gode di una maggioranza parlamentare schiacciante come l’attuale, che non ha riscontro in tutta la storia della Repubblica, peggio mi sento. E se di fronte ha un’opposizione divisa tra chi è ben disposto a ragionare (l’Udc) e chi pratica esclusivamente l’anti-berlusconismo – cioè una pare utile e l’altra ignorabile – allora davvero non ci sono alibi. Dunque torna la domanda: perché ieri no e domani sì? Vedrete, fra qualche settimana avremo già la risposta. Nel frattempo, buona Pasqua. (www.enricocisnetto.it)

corretti alcuni aspetti dell’articolo 117 della Costituzione per riequilibrare il rapporto Stato-Regioni. Poi ci sarà la necessità di fare una riflessione anche sulla magistratura che nel Quarantotto era parte della pubblica amministrazione e oggi, come in altri paesi democratici, è parte del sistema di governo. Ovviamente garantendo la sua indipendenza. L’esito delle Regionali darà a Berlusconi la stura per nuove riforme ad personam? Hanno vinto i candidati del centrodestra, ma il Pdl ha perso molto. Spero che non si facciano più leggi“personali”. Sulle riforme, invece, c’è un po’ di confusione nel centrodestra. Perché? C’è chi parla di elezione diretta del premier, chi del capo dello Stato. L’elezione diretta del presidente del Consiglio l’avevano istituita soltanto gli israeliani, ma dopo due legislature l’hanno abbandonata dal momento che è risultata uno strumento autodistruttivo. A questo proposito Shimon Peres mi disse una volta che gli israeliani avevano a disposizione due voti: uno per eleggere il premier e l’altro per buttarlo giù votando una maggioranza diversa per il Parlamento. Lei si è detto contrario al presidenzialismo tanto caro al Cavaliere. Un sistema parlamentare razionalizzato comporta i minori sconvolgimenti possibili e il massimo delle utilità desiderabili. Quanto al presidenzialismo bisogna distinguere: il sistema americano è serio, ma ha bisogno di grandi riforme di sostegno, prime fra tutte il divieto di conflitto di interessi e l’assoluta libertà dei mezzi di informazione dalla politica. Il sistema francese è in corso di trasformazione. Se poi i modelli sono i sultanati mediorientali e ai califfati africani, è inutile sedersi al tavolo. Dimentica il conflitto d’interessi? Anche mettendo da parte la questione Berlusconi, il problema resta. Con una riforma che prevedesse l’elezione diretta senza una legge sul conflitto d’interessi e nuove norme elettorali, qualsiasi avventuriero con un po’ di soldi rischierebbe di ritrovarsi nelle proprie mani tutto il potere che dà la Costituzione. Meno parlamentari non si traducono in un Parlamento meno rappresentativo? Abbiamo già una rete di rappresentanza molto robusta che parte dagli enti locali. Non bisogna qualificare la rappresentanza per il numero dei parlamentari, ma per i loro poteri e la loro autorevolezza.

Se si pensa di esercitare il potere solo per frenare l’applicazione delle regole, il sistema si blocca e si scatena una lotta selvaggia per eluderle


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Viaggio a Nordest/2. La vittoria di Zaia rafforza il controllo del Nordest. Ma c’è chi parla già di monarchia assoluta

Banca nazionale padana La Lega punta a sedersi nei salotti buoni del Veneto dove fin qui non poteva entrare: dalle potenti fondazioni alle ricche multiutilities di Francesco Pacifico

ROMA. Antonio De Poli, terzo incomodo in una competizione scontata in partenza, registra sconsolato: «Pur di tenersi la Regione, negli anni passati Giancarlo Galan e il centrodestra hanno concesso alla Lega di tutto: sindaci, presidenze di Provincia e delle comunità montane, ex municipalizzate, le principali reti su turismo e agricoltura, tutto di tutto. Ora che Luca Zaia ha conquistato Palazzo Balbi, siamo di fronte a un potere assoluto».

Perché l’analisi che fa senza remore il candidato dell’Udc alle ultime amministrative, la condividono gli esponenti del Pdl e la paventa anche quel melieu di imprenditori e finanzieri orfani dell’ex governatore. Se Alessandro Profumo – entrato indirettamente negli interessi del Carroccio – garantisce che la vittoria della Lega poco inciderà sulla gestione e sull’evoluzione di Unicredit, tutti i grandi nomi dell’economia locale non possono ostentare la stessa tranquillità. Anche perché è difficile pensare che possano conciliarsi due modi di gestire il potere (quello di Galan e quello di Zaia) che più opposti non potrebbero essere. Da manager dei servizi l’ex presidente ha affidato le principali commesse e lo sviluppo del principale motore italiano a un ristretto numero di imprese (i Mantovani che hanno costruito il Passante, la Gemmo impianti, lo studio di progettazione Altieri). E al netto di ogni considerazione sull’esclusività di questo club, è difficile mettere in discussione l’alta qualità delle realizzazioni o le grandi capacità organizzative. Dal canto suo, la Liga Veneta non è più soltanto il braccio politico delle partite Iva e lo strumento per realizzare le loro aspirazioni di autonomia fiscale. Fabrichetta dopo fabbrichetta è diventata il riferimento del ricco mondo dei cavatori, come i fratelli Remo e Sergio Mosole delle Inerti-Sile, tanto che qualcuno ha collegato questi rapporti alla battaglia dei leghisti contro i termovalorizzatori. Ma sono con il Carroccio anche le tante imprese edilizie sparse sul territorio e che fanno fatica a entrare nel giro delle grandi lottizzazioni. In

La «sicurezza» economica e di potere spingerà i leghisti sulle rivendicazioni delle origini

Così il Carroccio riscoprirà il secessionismo nordista di Carlo Lottieri on il voto di domenica scorsa al Nord cambia tutto: e non soltanto perché la conquista di due importanti regioni da parte della Lega e il sorpasso sul Pdl in molte province sposta verso Bossi l’asse degli equilibri interni alla coalizione di centro-destra. C’è anche e soprattutto una nuova responsabilità in capo ai leghisti: specialmente in Veneto, dove la Lega è il primo partito, ora governa la Regione e amministra pure città importanti: da Verona a Treviso. C’è però da chiedersi in che modo gli uomini di Bossi sapranno utilizzare la fiducia ottenuta dagli elettori. Se infatti all’inizio degli anni Novanta la Lega del «basta tasse, basta Roma» era in chiara sintonia con un Nord-Est in forte crescita, ora le cose sono cambiate. Sulle ragioni della vittoria della Lega si sono sprecate le interpretazioni, ma in realtà è evidente che una parte rilevante di tale successo è legata al fatto che il Carroccio era l’unica alternativa nelle mani di un elettore moderato che intendeva restare nel centro-destra e non se la sentiva il votare il Cavaliere delle ministre-veline, delle escort di palazzo Grazioli, e soprattutto delle troppe promesse mai mantenute. Bossi ha capito l’antifona e si è predisposto ad incassare lo scontento. Adesso è però necessario, e specialmente in Veneto, che la Lega prenda l’iniziativa e mostri di avere un proprio disegno per lo sviluppo: c’è quindi urgenza che elabori alcune idee forti per aiutare la ripresa di quella che è stata la regione più dinamica e che ora sta perdendo troppe occasioni.

C

ro al finanziamento del montepremi dell’Unire, le corse dei cavalli!). A più riprese ha guardato con ostilità a quello stesso mercato globale in cui le imprese venete hanno costruito la loro fortuna. Il Veneto che Zaia ha in mente non punta a rinverdire le intraprese di Marco Polo e lo spirito avventuroso dei mercanti della Serenissima, ma sembra semmai ispirato da quella chiusura su di sé che a lungo ha dominato l’universo rurale di tanta parte del Nord. L’insistenza sulla tutela delle produzioni locali incarna un leghismo che ha rigettato lo spirito concorrenziale del vero federalismo, ripiegando in un localismo autarchico. Va anche però aggiunto, a parziale discolpa, che in questi anni era oggettivamente assai arduo immaginare una politica economica alternativa a quella di Giulio Tremonti senza disporre di voti, capitali, sostegni. Nel quadro del tutto nuovo in cui ci si trova ora, nulla quindi esclude che le cose possano cambiare. La Lega ci ha abituato a mille giri di valzer ed è possibile che, chiamata a dare risposte a un Veneto che arranca, metta in solaio le nostalgie radical-chic in stile Slow Food e torni a parlare di libertà e sviluppo.

Il Veneto arranca: forse il governatore abbandonerà il vecchio protezionismo

Un tempo gli schemi leghisti erano chiari, riconducibili al binomio“federalismo e liberismo”. L’idea era quella di spingere verso un progressivo distacco del Nord dal resto del Paese, per ridurre il trasferimento di risorse legato all’assistenzialismo. Il Settentrione delle imprese private trovava nella Lega un interprete determinato a bloccare il flusso di soldi che affluisce al Sud e tiene a galla un’economia altrimenti ancor più in difficoltà. Da anni, però, quello spirito è stato abbandonato. In particolare, in qualità di ministro dell’Agricoltura il neo-presidente veneto Luca Zaia ha sposato logiche molto assistenziali a favore del mondo agricolo (recentemente si è perfino felicitato di aver destinato 150 milioni di eu-

Le difficoltà dell’economia veneta sono note e discendono soprattutto da un prelievo fiscale esorbitante a cui non corrispondono servizi adeguati. Il ritardo del sistema educativo e la carenza di infrastrutture esigono interventi urgenti, ma nulla si può fare se non si riduce il peso dello Stato e non si innesta un federalismo che obblighi ogni regione a vivere di quanto produce e crei una vera concorrenza tra giurisdizioni autonome. In questi anni, la necessità di restare all’interno del centro-destra ha portato la Lega a “italianizzarsi”, stemperando la propria vocazione centrifuga. La propaganda contro l’emigrazione è servita proprio ad abbandonare le polemiche contro il Mezzogiorno, tanto importanti nella Lega delle origini. Ma se c’è una ragione sociale alla base del leghismo essa sta nelle rivendicazioni di un Nord che vuole sempre più sganciarsi da Roma e dal Sud. È quindi possibile che l’ultima vittoria uscita dalle urne e soprattutto la necessità d’individuare una strategia di governo portino la Lega a riscoprire le proprie ragioni di un tempo. Staremo a vedere.

ogni caso, una taglia di imprese molto piccole in un periodo nel quale è diventato un obbligo capitalizzare le Pmi. Proprio il mondo che faceva riferimento a Galan, e che frenò le sue ambizioni di milazzismo, non sa come porsi. C’è chi come l’abile finanziere e patron della società aeroportuale Save, Enrico Marchi, è spesso ospite della villa di Refrontolo di Zaia. Altri nomi legati alla Finanza come Roberto Meneguzzo e Giorgio Drago (Palladio,Veneto Banca e Hopa) potrebbero seguire il cammino degli Amenduni (macchine olearie d’eccellenza ma anche interessi in Mediobanca e Generali), che gioco forza si sono avvicinati Maurizio Sacconi. Pur sapendo che il ministro del Lavoro, come l’altro doge del Pdl Renato Brunetta, non hanno un controllo del territorio capillare come quello di Galan e il Carroccio. Dopo un certo distacco, non concedono più che la disponibilità a collaborare i Tomat, i Riello, Vardanega e Peghin, Rossi Luciani, cioè il nuovo e il vecchio gotha di Confindustria. Stanno a guardare anche le coop rosse, che negli anni di Galan hanno molto lavorato con la Sanità. Per capire che cosa potrebbe avvenire nel prossimo quinquennio in Regione bisogna andare a Treviso, fucina del modello Zaia, inteso come capacità di conquistare consensi e lanciare progetti anche fuori dai confini leghisti.

Al riguardo il settimanale l’Espresso ha raccontato che la società del ministero delle Politiche Agricole, Buonitalia, non ha lesinato erogazioni e commesse a pioggia sulla Marca, come quella alla City Center di Treviso (per farsi rifare il sito) oppure alle società di Tino Vettorello, nato come macellaio a San Polo di Piave o oggi ristoratore preferito del neogovernatore con il suo locale a Ormelle. Nella città dove la Lega quasi tutto controlla (Comune, Provincia e municipalizzate) c’è un pezzo di potere importante, che si è sempre ben guardato dal mischiarsi al Carroccio: la Fondazione Cassamarca del sovrano illuminato Dino De Poli, contrapposizione naturale allo sceriffo, teso com’è alla buona


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3 aprile 2010 • pagina 7

Da sinistra, Altero Matteoli, Giancarlo Galan, Silvio Berlusconi, Luca Zaia e Renato Brunetta nel giorno di inaugurazione del Passante di Mestre. Nella foto piccola a sinistra, il presidente di Cassamarca, Dino De Poli. A destra, l’Ad di Unicredit, Alessandro Profumo. Nella pagina a fianco, l’Arena di Verona, uno dei simboli del Nordest italiano amministrazione e alla sicurezza, Giancarlo Gentilini. Come tutti i suoi colleghi, De Poli controlla un patrimonio molto ingente. Eroga sul territorio circa 50 milioni di euro. Soprattutto ha la presunzione di non dover rendere conto alla politica locale, che pure lo elegge attraverso gli enti locali. Finché tutta andava bene, persino la Lega faceva spallucce di fronte all’offensiva politico-culturale portata avanti dal sovrano illuminato. Ma oggi le cose stanno cambiando e può accadere quello che fino a qualche mese fa sembrava impensabile.

L’ex ministro delle Politiche Agricole “scomoda” Alessandro Profumo e attacca Unicredit per poter dire la sua sui forzieri gestiti da Paolo Biasi (Cariverona) e Dino De Poli (Cassamarca) Da un lato languono i progetti urbanistici che De Poli aveva regalato alla Marca (la cittadella dei servizi all’Appiani, il quartiere universitario Umanesino Latino, gli scavi alla Ca’Tron per riportare alla luce la via Annia romana): servono soldi, ne risente in vitalità il centro storico di Treviso . Dall’altro c’è la crisi di Unicredit, che nel 2009 ha girato all’azionista Cassamarca (ha lo 0,8 per cento) un dividendo di 4 milioni contro i 33 dell’esercizio precedente.

Apriti cielo. Due consiglieri in quota Carroccio (il costituzionalista Luca Antonini e il consigliere regionale Marco Serena) hanno lamentato la scarsa trasparenza dell’ente, denunciato che le università di Padova e Venezia aspettano erogazioni pregresse per 800 milioni, fatto intendere che si nasconde un buco di proporzioni notevoli. In questo bailamme la prima vittima è stata il segretario generale, Renato Sartor, sostituito con il giovane Carlo Caprano.

Gian Paolo Gobbo, sindaco della città e mentore politico di Zaia, ha provato a frenare le ire leghiste, ma a tutti è parsi come una manovra per tenere sulla graticola De Poli, che a breve presenterà il bilancio più difficile della sua presidenza. Si scommette come suo successore Massimo Malvestìo, scuola Dc, rampante avvocato d’affari e alla testa di importanti sgr immobiliare legate a grandi ristrutturazioni in città. Ma il Carroccio si potrebbe “accontentare” di un segretario generale forte, in grado di commissariare De Poli. Questa vicenda, che ha tutte le stimmate di una bega locale, ha finito per diventare un caso nazionale in quanto è scoppiata mentre Alessandro Profumo provava a far digerire alle fondazioni – dopo due aumenti di capitale e un taglio alla cedola – una riorganizzazione della banca, dove ogni territoriale rispondeva direttamente a piazza Cordusio. A contrastarlo proprie le due fondazioni espressioni degli enti locali

veneti: Cassamarca e la CariVerona (forte di una quota del 5 per cento) di Paolo Blasi. Zaia si è fiondato sulla cosa come un falco. E gli è bastato trasferire il suo slogan “più local e meno global”al progetto di Banca Unica di piazza Cordusio per prendere “tre” piccioni con una fava: si è fatto campagna elettorale a costo zero (Unicredit ha nell’area 7mila dipendenti), si è proposto come interlocutore del primo banchiere del territorio, ha lanciato la sua campagna contro gli spocchiosi signori delle Fondazioni, che a breve vedranno il rinnovo dei loro consigli. Chi conosce bene il neogovernatore del Veneto dice che è sincero quando dice: «Stimo Profumo, il problema non è Unicredit». Che parlare di country manager e subholding lo annoia. La questione va ricondotta a una partita tutta locale dei nuovi equilibri della Regione. Il messaggio è chiaro: i cattolici sociali Paolo Biasi e Dino De Poli dovranno scendere a patti con il Carroccio; Unicredit, che ha fatto incetta di tutte le casse di risparmio locali, dovrà allargare il monte impieghi a favore di piccoli imprenditori, associazioni del non profit e famiglie indebitate. Tutta gente che un tempo recuperava le risorse che gli mancano sul mercato o attraverso i trasferimenti statali. In fondo Zaia pretende da Paolo Biasi, Dino De Poli e Alessandro Profumo, lo stesso riconoscimento che Giuseppe Guzzetti o Corrado Passera hanno concesso a leader leghisti di Lombardia e Piemonte. Di più, sembra di rivedere quel proget-

to di banchimpresa al quale si sono ispirati, anche se con modalità diverse, Romano Prodi nel 2006 e Giulio Tremonti nel 2008: perché se si ha il potere di concedere gli appalti e di far valere una moral suasion su chi dà il credito, allora si è a pieno titolo forza di sistema. Se il progetto si realizzasse – ma si devono sempre fare i conti con professionisti del parastato come Biasi e De Poli – allora il controllo militare che il Carroccio fa sentire su città come Treviso e Verona, potrebbe estendersi anche alle ribelli Vicenza, Padova e Venezia, dove

relativa e dove dal più piccolo imprenditore all’ultima associazione di volontariato si intravede un’eccessiva vicinanza politica. E anche sulle nomine, non si ragiona per meriti, ma solo per appartenenza».

Le nomine appunto. In questi anni il Carroccio si è “accontentato” soprattutto delle piccole municipalizzate, ma oggi, accanto alle Fondazioni il bottino pregiato sono le grandi utilities e le finanziare create da Galan. L’ex doge aveva trasformato nello snodo principale della gestione dei grandi business la società Veneto Sviluppo, messa nelle mani di Irene Gemmo, titolare dell’omonimo gruppo di impiantistica. I leghisti, in un piano più ampio che prevede sperimentazioni di federalismo fiscale in campo demaniale e rafforzamento dei Confidi, vogliono trasformare questo gioiello da struttura di intermediazione del credito a cassaforte di partecipazioni azionarie. E tanto basta per ipotizzare un sistema di private equity che aiuti io settori in difficoltà. Ma ancora più grossa la partita dell’energia. Galan puntava a una multiutility del Nordest, unendo sul modello A2A i co-

Deve ricollocarsi il sistema di potere legato ai grandi progetti di Galan. Il partito di Bossi preferisce guardare alla piccola impresa, costruttori o cavatori che siano. Il ruolo di Marchi e di Meneguzzo governa il centrosinistra. Manuela del Lago, parlamentare del Carrocio ed ex presidente della provincia di Vicenza, replica che «la forza della Lega sta in un messaggio trasversale: siamo gli amministratori di tutti». Di diversa opinione Giorgio Stradiotto, senatore del Pd di Martellago: «C’è la sensazione di una macchina molto clientelare nelle province dove Lega è partito di maggioranza

lossi locali Ascopiave e ApsAcegas. I leghisti, che vedono innaturale una fusione con i vicini friuliani e trentini, difendono un modello più radicato sul territorio. E in questa logica rivendicano la guida della società Ascopiave, per la quale hanno già candidato il sindaco di Vittorio Veneto, Giannantonio Da Re. Perché, come si sa, il Carroccio i manager ama forgiarli negli enti locali.


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Conti. L’Istat fa l’analisi definitiva dell’anno della crisi: le entrate diminuiscono del 2%, le spese aumentano del 3%

2009, odissea nel debito

Il rapporto deficit/pil arriva al 5,2%: non andava così male dal 1996 ROMA. Era il primo anno del governo Prodi, il 1996, e secondo l’unanimità dei commentatori l’Italia navigava in una situazione economica disastrosa. In quell’anno il rapporto deficit/Pil si era attestato intorno al 5,2%; esattamente lo stesso di oggi, come certifica l’Istat nel consueto comunicato, ricordando anche che il rapporto si attestava al 2,7% nel 2008 e sottolineando che il dato è al netto delle operazioni di swap (i contratti derivati) che, se considerate, attestano il deficit/Pil al 5,3%, come previsto dal governo. Il dato del deficit 2009 (5,2%) non include dunque gli effetti delle operazioni «swap» che, per il terzo anno di seguito, hanno registrato un segno meno. Nel 2009 l’effetto negativo è stato dello 0,07% che, arrotondato allo 0,1%, appare nel dato sul deficit (5,3%) comunicato sempre dall’Istat lo scorso primo marzo. Ma effetti negativi per lo Stato dalle operazioni di swap compaiono anche nel 2007 (-0,02%) e nel 2008 (0,04%). Nel quarto trimestre - aggiunge l’Istat - il saldo primario (indebitamento al netto degli interessi passivi) è risultato positivo e pari a 966 milioni di euro (più 11.036 milioni di euro nel corrispondente trimestre del 2008), con una incidenza positiva sul Pil dello 0,2% (più 2,7% nel corrispondente trime-

stat, quello sull’avanzo primario (al netto degli interessi sul debito pubblico), che nel 2009 è risultato pari a -0,6% contro il +2,5% dell’anno precedente: si tratta del primo calo dal 1991. Negativo anche il saldo corrente (risparmio): -2% nel 2009 contro il +0,8% del 2008. E mentre le entrate calano, aumentano le spese: nel 2009 le uscite totali hanno infatti registrato un aumento del 3% anche se più contenuto rispetto al 3,5% del 2008. Nel quarto trimestre 2009 le entrate totali hanno registrato in termini tendenziali una diminuzione dell’1,2%: la stessa variazione registrata nello stesso periodo dell’anno precedente. Complessivamente, quindi, nel 2009 le entrate totali risultano diminuite del 2%, mentre erano aumentate dello 0,9% nell’anno precedente.

di Alessandro D’Amato

I ricavi legati alla pressione fiscale non sono crollati solo grazie allo scudo. Ma il vero problema resta il costo della macchina dello Stato che continua a salire stre del 2008). Complessivamente, però per l’anno 2009 il saldo primario rispetto al Pil risulta negativo e pari allo 0,6% contro un più 2,5% nell’anno precedente. Sempre nel quarto trimestre 2009, il saldo corrente è risultato negativo e pari a

segue dalla prima Ma di un centro inteso quale luogo geometrico collocato tra destra e sinistra, visti quali poli politici alternativi. Talvolta, infine, il ricordo – esso, sì, reale e non mitico – di una ipotesi di governo complessivo dell’Italia in senso moderato e quindi “centro” inteso non quale luogo geometrico distinto tra destra e sinistra, ma quale sintesi appunto di proposta di cambiamento e di cultura della libertà. Non si tratta pertanto di una nostalgica pretesa di riproposizione del passato, che a sua volta degenerò da una vera e propria cultura pluralistica della libertà ad un’esperienza concreta di occupazione di tutte le istituzioni di governo, tipica del Partito-Stato. Quello che stiamo sperimentando, infatti, è sostanzialmente un “bipolarismo molto strano”: da un lato vi è chi opera in un’ottica esclusivamente elettorale, nella quale operano insieme proposte politiche e strutturali anche diverse tra di loro, purché capaci di convivere e di vincere al momento delle elezioni; dall’altro vi è la perdurante crisi di chi sembra essere vissuto troppo a lungo con le categorie proprie

2.012 milioni di euro, contro il valore positivo di 9.531 milioni di euro nel corrispondente trimestre dell’anno precedente, con una incidenza negativa sul Pil pari allo 0,5% (+ 2,4% nel corrispondente trimestre del 2008). Nel 2009 il saldo corren-

te in rapporto al Pil è stato negativo e pari al 2% (più 0,8% nel 2008). Le entrate totali sono diminuite lo scorso anno del 2% (+0,9% nel 2008), mentre le uscite sono aumentate del 3% (+3,5% nel 2008). Nel quarto trimestre le entrate totali hanno registrato un calo dell’1,2% (stessa variazione dello stesso periodo del 2008) e le uscite sono aumentate del 2,5% (-1,4% nel quarto trimestre 2008). Tra gli altri dati comunicati dall’I-

Il centro del cambiamento non è quello della nostalgia di Francesco D’Onofrio della declinazione del comunismo in chiave sovietica. Non si tratta dunque di un bipolarismo nel quale si confrontino due proposte omogenee sul significato stesso della convivenza sullo stesso territorio, ma di una contrapposizione che vive quasi esclusivamente al momento delle elezioni.

Il nuovo soggetto politico che nascerà, dunque, al termine di questa difficilissima stagione di sopravvivenza politica, dovrà pertanto definire il proprio rapporto con il sistema politico italiano attuale, considerato nel suo insieme. È in questo contesto che assume rilievo particolarmente significativo la questione economica, culturale e territoriale della identità nazionale. Dimensione economica innanzitutto, dunque. Si tratta in particolare di cogliere il passaggio in atto in tante parti del mondo, da una civiltà sostanzialmente agricola, ad una ci-

viltà sostanzialmente industriale, ad una civiltà prevalentemente finanziaria. Dove si colloca, dunque, l’Italia in questa fase, soprattutto laddove si consideri la nuova centralità del Mediterraneo, lo stato attuale del processo di integrazione europeo, la dimensione, anche se soltanto incipiente, della globalizzazione? Dimensione culturale, in secondo luogo. L’Italia che si ha in mente resta ancorata sostanzialmente all’Occidente del quale essa fa parte, pur nei cambiamenti che l’attuale fase storica sta facendo conoscere proprio all’Occidente? Dimensione territoriale, infine.

L’Italia che si ha in mente è quella per la quale celebreremo i centocinquant’anni di storia nazionale, o è quella destinata a modificarsi, fino al punto da giungere ad una pluralità di Stati, come talvolta sembra affermare – e non soltanto a parole

Sempre nel quarto trimestre le entrate totali hanno rappresentato il 54,8% del Pil, con un aumento di 0,2 punti percentuali rispetto a quanto rilevato nel quarto trimestre 2008. Le sole entrate correnti hanno registrato nel quarto trimestre 2009 una diminuzione tendenziale del 3,7%, dovuta alla diminuzione delle imposte dirette (meno 9%), delle imposte indirette (meno 0,3%), dei contributi sociali (meno 0,3%) e delle altre entrate correnti (meno 1,2%).

– il movimento leghista? Sono queste le questioni di fondo che non consentono di vivere la nascita del nuovo soggetto politico in termini prevalenti di nostalgia per il passato: il cambiamento, infatti, è intervenuto e sta intervenendo su tutti e tre quelli che i costituzionalisti hanno chiamato gli elementi costitutivi dello Stato: popolo, territorio e sovranità. Il nuovo equilibrio tra la nostalgia e il cambiamento dovrà pertanto rappresentare l’asse identitario di fondo del nuovo soggetto politico: si tratta infatti di una fase politica profondamente nuova, che invoca allo stesso tempo nostalgia sì per un sistema politico capace di esprimere un governo moderato del Paese e cambiamento per quel che concerne la competitività del sistema produttivo italiano nel mondo contemporaneo; l’apertura intelligente e rigorosa vero i non-italiani, che in passato si è saputa dimostrare nei confronti di arabi e cinesi; la disponibilità ad una riconsiderazione anche profonda del rapporto tra centro e periferia del sistema istituzionale italiano, fino a farlo considerare idoneo a reggere una riforma federalistica dello Stato unitario medesimo.


mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

ALLA RICERCA

Breve storia di una lingua da recuperare

DELL’YIDDISH PERDUTO di Franco Palmieri

opo Babele, ogni lingua divenne uno strumento di interpretazione del quale deposito, scavo, repertorio è mai possibile rinverdirne la presenza? CoDalle mondo (forse perciò fatichiamo tanto a capirci). Ma le lingue, si minciamo dall’inizio, perché tutto ha una sua Genesi. Da Juden, ebreo in sa, devono essere un po’ sgualdrinelle: mescolarsi e farsi antico tedesco, deriva Jiddish, trascritto poi nella grafia corrente usaorigini ai mescolare. Come la vita, la lingua evolve, ce lo insegnò ta in Occidente, Yiddish; quindi lingua degli ebrei. Come tutte le Coen, è il “gergo” che la Scuola di Francoforte fin dagli anni Trenta, e poi Adorcose che si innestano nella «tradizione del nuovo», anche l’yiddish entrò nella koinè (linguaggio e parlata) degli no fino a Cesare Segre & Co.: i linguisti. Ma ci sono è stato capace di rivoluzionare lingue e linguaggi, forme semiologiche e struebrei russo-ucraini-slavo-mitteleuropei in seguito la comunicazione: nella tradizione, nella menti comunicativi che solo in parte possono a una rivoluzione, sia pure pacifica e tutta sul letteratura, nella cultura popolare. Un elemento versante della comunicazione popolare. essere classificati nella sterminata fogliazione degli idiomi. L’yiddish è uno di questi; se ne parla È noto che il mondo ebraico classico, ancora oggi, essenziale della commedia umana che tanto ma se ne sa poco. Se ne parla soprattutto coniuattinge nei suoi libri alle fonti originarie scritte in lingua non deve andare perduto. Al biblica; essendo libri sapienziali di derivazione religiosa - Togandolo insieme a «umorismo»: infatti l’Umorismo yiddish è di là dell’umorismo... rah, Kabbala, Gematria - non possono essere che interpretati suluna specie di luogo comune di marca ebraica mitteleuropea evocato più come timbratura di fabbrica che esaminato nella sua sostanza l’originale scritto in ebraico. Ma il popolo, si sa, è ignorante, pensa prioriginaria. Ma se oggi dobbiamo constatare che l’yiddish non c’è più, da ma alla pancia e poi alla mente. Che fare?

D

Parola chiave Paura di Sergio Belardinelli Il tango in 3.0 dei Gotan Project di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

L’Eternità svelata da Emily Dickinson di Roberto Mussapi

Il Vangelo secondo Pilato di Sabino Caronia Steve, Simon e noi italiani di Anselma Dell’Olio

Viaggio nel volto e nel corpo di Cristo di Marco Vallora


alla ricerca dell’yiddish

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Poiché il popolo delle shtetlach - plurale di shtetl, in yiddish: paesotto - dove gli ebrei erano stati confinati fin dai tempi della zarina Caterina di Russia (nel Settecento), parlava una sorta di jargon, come veniva definito l’yiddish, avvenne una decodificazione semplificata dei testi sapienziali riscritti nella lingua che il popolo capiva. La Bibbia ridotta a feuilleton, perdipiù illustrata (la figurazione antropomorfa, come nell’Islam, non è ammessa nei temi religiosi) ristabilì il perduto rapporto tra popolo e tradizione grazie a una rivoluzione delle forme di comunicazione. Già nel Sedicesimo secolo il rabbino Jacob Ashkenazi di Janov (il suo cognome significa: ebreo tedesco), aveva raccontato storie e leggende tratte dal Pentateuco in un’opera ancora oggi famosa, nota col titolo di Ze’enu URe’ena. Ma l’yiddish entrò nel Pantheon letterario askenazita in seguito a una visione laica dell’ebraismo, posizione ebraica riformista da cui negli anni Venti ebbe vita l’Ebraismo riformato - oggi totalmente affermato negli Stati Uniti - teorizzato nella rivista The Reconstructionist con Ira Eisestein, Maurice Samuel e Isaac Bashevis Singer tra gli altri.

Se Marc Chagall, Modigliani e Carlo Levi sono stati pittori figurativi, lo si deve anche alla tradizione laica che nell’Ottocento si innesta nell’ebraismo europeo orientale. Claudio Magris, nel suo saggio Lontano da dove, aveva in parte raccontato la nascita della letteratura yiddish nell’Est europeo, segnalando le opere di Mendel Mocher Sforim (da sefarim, libri, in ebraico) e Isaac Loeb Perez. La differenza è questa: l’yiddish antico era scritto in caratteri ebraici e mescolava idiomi provenzali e slavi oltre a quelli germanici, mentre l’yiddish letterario di Perez e fino a Isaac Bashevis Singer, era scritto in caratteri latini. Una conquista o una spoliazione? Alla Columbia University di New York c’è un dipartimento dove si insegna l’yiddish; ma il giornale yiddish fondato da Abram Cahan agli inizi del Novecento è defunto da un bel pezzo. Ma se sfogliate il Webster, come dire il Devoto-Oli da noi, scoprite l’esistenza nell’anglo-americano di una miriade di parole yiddish perfettamente innestate nella lingua di Faulkner e di Hemingway, ma non per il loro diretto intervento, che anzi non ne hanno fatto mai uso nei loro libri; nel Webster ci sono entrate perché quelle parole sono state usate nel libro di Henry Roth Calli it sleep (Chiamalo sonno, pubblicato da noi da Lerici, uno dei romanzi di formazione in chiave ebraica, come lo furono Il giovane Holden in Usa e Il grande Meulne in Francia), e poi successivamente da Sholom Asch, Maurice Samuel, Philip Roth, Bernard Malamud, Saul Bellow, Chaim Potok, Cinzia Osick oltre a riviste come Midstream e Commentary. Ma la vera rivoluzione l’yiddish la operò in modo furtivo e paradossale, arricchendosi di quella stratificazione illetteraria che è propria della koinè popolare la quale, come nella Commedia dell’Arte, trasfigura le parole in simboli e i nomi in modelli psico-linguistici e, in definitiva, i comportamenti caratteriali in personaggi. Scorporato delle originarie sinterizzazioni bibliche e moralisticheggianti, il racconto popolare in yiddish attinse alla tradizione popolare, una sorta di Andrea da Barberino o Giambattista Basile nostrani che soprattutto Celebri ebrei: dall’alto, Allan Stewart Königsberg (Woody Allen), Saul Bellow, Isaac Singer, Henry Roth e i Fratelli Marx. A destra, il dipinto “Red Jew” di Chagall

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Scholom Aleichen coagulò in racconti vivaci da cui poi, per naturale derivazione, nasceranno il teatro yiddish di Mosca, di Varsavia, di Vienna finiti tra bolscevismo e Shoah. Un teatro fatto di quei personaggi, una vera Commedia dell’Arte yiddish che noi oggi abbiamo riscoperto nel suo umorismo, travisandone tuttavia le origini e i significati. Per non andare troppo lontano, ce ne hanno dato un esempio ferocissimo i fratelli Coen nel film A serious man; come dire, dalla shtetl al Minnesota, dove il film è ambientato. La galleria di tali personaggi è straordinaria e completa: il Lufthmanscen è l’uomo d’aria, quello che a una domanda risponde: nuh?, per evitare di rispondere. La perfetta donna di casa, quella tosta, è una Balabusteh; quindi anche una suocera imperdonabile. Il maldestro, lo sfigato, è uno Schlemiel; praticamente Fortunello cui Sergio Tofano oppose il Signor Bonaventura. Lo Schlemiel è appunto il signor Gopnik di A serious man, il quale ha un figlio che non è certo un Bocher (studente modello) e una figlia che vuole farsi la plastica al naso per sembrare una Chiksah (wasp, cioè americana non ebrea), mentre l’amante della moglie, che si presenta con una bottiglia di vino e dice «Questo non è mica un Manishevish» (il vino dolciastro di Pesach), è il classico sbruffone approfittatore, in yiddish uno Schnorrer (Zangwill scrisse, in inglese, il Re degli Schnorrer); perdipiù, il povero Gopnik (che suona come in yiddish: kopnik, senza testa), è affetto da Schlimazel, cioè da sfortuna totale. Su questi personaggi, negli anni in cui negli Usa, ma soprattutto sulla costa orientale - New York, Connecticut, New England - dove la presenza di ebrei ashkenaziti di lingua yiddish era cospicua, umoristi come Lenny Bruce, Jerry Lewis e Zero Mostel, cantanti come Theodore Bikel, e in tournèe anche i Marx Brothers, hanno dato vita a spassose rappresentazioni molto satiriche di quel mondo ebraico piccolo borghese che dalla città veniva a passare nei Catzkill, i resorts dove colline e boschi ricopiavano il nostalgico paesaggio di un’Europa forzatamente perduta. Anche Woody Allen (il signor Koenigsberg) scriveva i testi di quei cabaret. Estratti da quel jargon popolaresco, i modelli linguistici e lettera-

perduto

ri trasfusi nella fiction americana dettero vita al romanzo amerydish, dove la lingua di Shakespeare si mescola e si amalgama a quella di Sholom Aleichen ed entra nella comunicazione verbale del parlato quotidiano. Facendo un salto all’indietro, da New York all’Italia, direttamente nel ghetto ebraico di Roma (noto tra gli ebrei come «Piazza», già sede delle Cinque Sholae), ci potremmo legittimamente domandare: perché il giudaico-romanesco che è un corposo impasto di ebraico, italiano antico e ladino non è entrato nella koinè locale e tanto meno nella letteratura? Né Giorgio Bassani né Carlo Levi, né Natalia Ginzburg né Primo Levi hanno attinto parole, espressioni idiomatiche e modelli linguistici da quella fonte popolare. Sabatino Lopez, che è stato un autore teatrale di commedie borghesi, ha rappresentato nelle sue opere un mondo completamente assimilabile a quello della borghesia medio-alta lombarda. Il cinema si è limitato a mostrare dell’ebraismo segni esteriori: la yamulkah (nome yiddish per la chippà, che suona come kepì, elmetto austriaco della prima guerra modiale), il talled (lo scialle delle cerimonie religiose) oppure alcune scene del Seder di Pesach (ordinazione della cena rituale della Pasqua ebraica). Si citano due opere dove il giudaico-romanesco-ladino appare: le poesie di Crescenzo Del Monte e la commedia La ‘gnora Luna, della compagnia dei giovani di Firenze, ormai del tutto dimenticata. Sul versante che prese le mosse dall’Haskalàh, producendo una cultura popolare e letteraria ebraica che ha trovato la sua più alta definizione negli Stati Uniti, non si è parimenti sviluppato un analogo percorso in Europa e, sorprendentemente, nemmeno da noi che vantiamo la più antica presenza ebraica della Diaspora. Il revival letterario ebraico è tutto memorialistico-nostalgico e rievocativo-dolente sul filo della Shoah. Eppure lo jargon giudaico-romanesco non ha quasi nulla da individuare all’umorismo yiddish, anche se a esso manca la componente satirica che riscatta con l’arguzia una condizione sottoposta a un rosce; e questa è parola giudaico-romanesca che significa prepotente. Risvolti storici e condizioni sociali non hanno operato quella naturale trasfusione, attraverso tematiche espresse anche semiologicamente, di un mondo popolare vivacissimo che nemmeno il cinema, il teatro, il cabaret hanno saputo sfruttare. Lo stesso Moni Ovadia ricopia una tradizione mitteleuropea ebraica che si innesta nel filone Ottocentesco e produce soltanto accumulazione, impedendo quella naturale trasfusione che rinnova la letteratura redificandola nella contemporaneità, cioè della tradizione nel nuovo.

Oggi nel panorama letterario ebraico contemporaneo troviamo soltanto un nome, che per formazione e carattere culturale possiede doti interpretative vicine a quelle degli autori ebreo-americani, Alessandro Piperno, l’autore di Con le peggiori intenzioni, titolo sottilmente e ironicamente giustificativo di un percorso di formazione fuori dalla Tradizione dei Padri. Come raccontava una vignetta uscita nel 1910 in Polonia: Sholom Aleichen che con le sue opere satiriche solletica lo spirito dell’ebreo tartassato, così avremmo oggi bisogno di un autore capace di far rifiorire modelli narrativi e personaggi di una commedia umana, quella yiddish, relegata nel mondo dei percorsi nostalgici ormai sempre più sbiaditi. Un po’ è anche colpa di certi percorsi ebraici che hanno evidenziato dell’ebraismo solo gli aspetti tragici, come se la memoria avesse solo il volto della ferocia subita. Sergio Leone, nel 1984, ambientando la storia nella Lower East Side di una New York degli anni Venti per girare C’era una volta in America, nel quartiere che era degli ebrei della Mitteleuropa e russi, ci restituisce un quadro che Abraham Cahan, fondatore anche del giornale yiddish Forwertz (che vuol dire Avanti!) aveva narrato nel suo romanzo The rise of David Lewinskj. Era meno tragico nel film con De Niro; tuttavia è singolare che sia stato Sergio Leone da noi a mostrare una tale sensibilità. La forza delle grandi cose resiste al tempo, ma va aiutata.


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parola chiave

a bambini accade spesso che soffitte, cantine e sottoscala siano luoghi abitati dall’uomo nero; luoghi di cui abbiamo paura e dove, per farci coraggio, entriamo fischiettando o parlando da soli ad alta voce. Accade anche che si abbia paura che il compagno di giochi ci chieda di andare in bicicletta senza mani, come sa far lui, e che, per evitare figuracce, si trascorrano interi pomeriggi nel cortile di casa, finché non si è imparato, mantenendo viva negli anni la grande soddisfazione per esserci riusciti. Sono due paure che possono manifestarsi con la stessa intensità, ma assai diverse l’una dall’altra. La prima non ha un oggetto vero e proprio; ci si appiccica addosso in modo quasi paralizzante e sentiamo di non poterci far nulla: scomparirà soltanto una volta che saremo fuori della soffitta. La seconda invece ha un oggetto preciso e sappiamo benissimo che per farla scomparire non dobbiamo far altro che imparare ad andare in bicicletta senza mani. Se poi la paura che il nostro compagno di giochi si accorga che non sappiamo andare in bicicletta senza mani si accompagni a una paura ancora più grande di fronte all’idea di lasciare il manubrio, allora non abbiamo scampo; possiamo soltanto escogitare espedienti affinché nessuno se ne accorga. A meno che la paura di fare figuracce sia talmente grande da spingerci a fare di tutto pur di vincere la paura di andare in bicicletta senza mani. E si potrebbe continuare. In ogni caso quale insegnamento possiamo trarre da questa breve fenomenologia della paura? Anzitutto questo: la paura, quali che siano il suo oggetto o i suoi oggetti, appartiene all’equipaggiamento biologico dell’uomo. Al pari del dolore, il quale segnala una disfunzione o una ferita del nostro organismo, la paura segnala ciò che ci minaccia; essa rappresenta sempre una sorta di appello alla nostra intelligenza a tirarci fuori da determinate situazioni.

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A questo proposito l’esperienza ci insegna che una minaccia ci appare più o meno grave a seconda della capacità che abbiamo di padroneggiarla. Più ci sentiamo impotenti e più abbiamo paura; più abbiamo paura e più diventiamo impotenti, in un vortice sempre più paralizzante. La paura infatti è, sì, un campanello d’allarme per la nostra intelligenza, ma, di per sé, non ci dice nulla su come certe situazioni andrebbero padroneggiate. Come ben sappiamo, essa tende piuttosto a inibire le nostre capacità; tanto è vero che il primo insegnamento che la nostra intelligenza trae dalla paura è che è difficile agire in modo intelligente quando si è impauriti. La paura ci mette sul chi va là; e se diciamo che esistono paure intelligenti e paure stupide, paure infantili e paure che sarebbe stupido non avere è perché siamo convinti che, quando abbiamo paura, dobbiamo anzitutto fare i conti con la realtà, ossia con ciò che concretamente ci minaccia. Per fare un esempio, la paura dell’uomo nero può non essere meno intensa della paura che abbiamo per le conseguenze di una nostra azione, eppure, non appena le commisuriamo alla realtà, sentiamo che sono due paure diverse. La realtà è il vero banco di prova delle nostre paure. Proprio per questo diciamo che esistono paure reali e paure immaginarie, rimedi reali e rimedi immaginari.Voler esorcizzare, poniamo, la paura della morte andando tutti i giorni

PAURA

Appartiene all’equipaggiamento biologico dell’uomo: segnala ciò che ci minaccia, è un campanello d’allarme per la nostra intelligenza. Ma oggi i pericoli possibili vengono troppo spesso considerati reali, diventando così un freno al nostro agire

Le sicurezze impossibili di Sergio Belardinelli

L’ottimismo ingiustificato di ieri ha lasciato il posto a un pessimismo ugualmente ingiustificato, secondo il quale la terra si appresterebbe a diventare una landa desolata, minacciata dalla tecnica, dallo straniero, da coloro che detengono le leve del potere economico mondiale. L’uomo nero è dappertutto dal medico equivale un po’ a fischiettare in soffitta per paura dell’uomo nero. Fatta questa lunga premessa, bisogna tuttavia riconoscere che qualche volta può essere la stessa complessità del reale a rendere difficile stabilire se una paura o un rimedio possono considerarsi giustificati. È il caso, ad esempio, della paura crescente nei riguardi delle conseguenze ecologiche di un certo sviluppo

scientifico-tecnico-industriale e delle nuove sfide etiche, tecniche e politiche che esso porta con sé; è il caso della paura che abbiamo di fronte ai nuovi scenari socio-politici che si profilano all’orizzonte della crisi economico-finanziaria che stiamo attraversando; è il caso di certe paure che abbiamo nei confronti dello «straniero» col quale dobbiamo ormai convivere quotidianamente; è il ca-

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so, infine, ma si potrebbe continuare, della paura che abbiamo in quanto genitori di non essere all’altezza dei nostri compiti educativi. Alla fine degli anni Settanta, Hans Jonas propose in uno dei suoi libri più importanti, Das Prinzip Verantwortung (Il principio responsabilità), una vera e propria «euristica della paura» come grimaldello per fronteggiare il potere sempre più minaccioso della tecnica sulla natura e sugli uomini. La sua tesi di fondo era che, dovendo scegliere tra le prospettive nefaste di un determinato sviluppo e quelle favorevoli, fosse molto più ragionevole affidarci alle nostre paure che ai nostri desideri. Una tesi indubbiamente molto seria, che però con gli anni mi sembra che abbia subito una pericolosa radicalizzazione. E oggi si tende ad assumere i «pericoli possibili» connessi alle nostre scelte come se fossero «pericoli reali», facendo poi leva sulla paura per impedire qualsiasi scelta della quale non si possa garantire l’assoluta sicurezza. Chi ha paura pretende di aver ragione per il semplice fatto di aver paura. Succede così che l’ottimismo ingiustificato di ieri, la pretesa di realizzare il paradiso su questa terra, sembra aver lasciato il posto a un pessimismo ugualmente ingiustificato, secondo il quale la terra si appresterebbe a diventare una landa desolata, minacciata ora dalla tecnica, ora dallo straniero, ora da coloro che detengono le leve del potere economico-finanziario mondiale. E questo senza rendersi conto del vero pericolo che stiamo correndo: quello di trasformare il mondo in una grande soffitta abitata dall’uomo nero; di rimanere cioè come paralizzati dalla paura e dall’incertezza, sempre più incapaci di reagire in modo razionale sia di fronte ai pericoli «reali» che a quelli «possibili» e quindi di lasciare che le cose si facciano da sole.

So di compiere un’affermazione per molti versi provocatoria, ma nel contesto socio-culturale che ho appena tratteggiato, contrassegnato da una sorta di paura metafisica, il primo dovere che abbiamo è quello di richiamare alcune banalità che possono non piacerci, ma che sono fondamentali. La prima delle quali è la seguente: la vita è rischiosa di per sé; il mito di una assoluta sicurezza, di una sicurezza che non esiste e che non può esistere, rappresenta il miglior brodo di coltura della paura metafisica che sta paralizzando tutti. Meglio attrezzarci dunque a convivere con un’incertezza condivisa e magari «controllabile», che tener dietro a sicurezze impossibili. Per una serie di motivi, che in questa sede posso appena accennare, si tratta di un compito molto difficile. Il nostro potere crescente sulla natura e sulle contingenze della vita sociale e individuale ci ha infatti prima illusi di poter tenere tutto sotto controllo e poi delusi di fronte a un’incertezza e a una finitezza persistenti, che però, a differenza di ieri, non riusciamo più ad accettare. Mai come oggi abbiamo parlato tanto di libertà e di rischi, e mai come oggi, a tutti i livelli, abbiamo tanto desiderato la sicurezza. L’idea che prima o poi la nostra vita finirà ci è sempre più insopportabile. Per paura tendiamo come a rimuoverla, senza accorgerci che in questo modo perdiamo il senso stesso della realtà; rinunciamo al bene possibile per il semplice fatto che ci è preclusa la perfezione. Il colmo della stupidità.


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cd

arlos Gardel, inventore della tango canción, avrebbe sicuramente applaudito il nuovo gioiello «electrauthentico» dell’argentino Eduardo Makaroff (chitarra e strumenti a corda), del francese Philippe Cohen Solal (tastiere) e dello svizzero Christoph H. Müller (programmazione strumenti elettronici). Dopo il sorprendente boom di La Revancha del Tango (2001) e il bis da 10 con lode acchiappato nel 2006 con Lunático (si chiamava così il puledro da corsa del maestro Gardel), i Gotan Project arricchiscono il loro rivoluzionario stile di frontiera con Tango 3.0. Titolo quantomai azzeccato, dal sapore internettiano. Se infatti il Web 3.0 scandisce la molteplicità di significati che illustrano l’utilizzo della Rete e

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musica Il tango in 3.0 MobyDICK

dei Gotan Project di Stefano Bianchi l’interazione fra tutti i percorsi evolutivi possibili, quel 3.0 incollato alla danza argentina ha il potere di trasformarla in un imprevedibile suono multietnico. Merito di questa multinazionale del baile domiciliata a Parigi, che il disc jockey e produttore inglese Gilles Peterson definisce così: «Quando si

in libreria

parla di una nuova World Music che riesca a mixare la DJ Culture con l’Underground, è chiaro che i Gotan Project sono stati i primi a fondere il folklore con l’elettronica. Senza sacrificare un grammo della loro classe». Nel ’99, per poter cominciare la carriera nel miglior modo possibile, il trio rende omaggio a Tango Project, long playing uscito nell’82 che raccoglieva una pattuglia di musicisti americani impegnati a rielaborare storici tanghi come Por Una Cabeza di Carlos Gardel e Alfredo Le Pera. Makaroff, Cohen Solal & Müller si tengono ben stretto il vocabolo ribaltano Project, Tango in Gotan sfruttando lo slang spagnolo del lunfardo (utilizzato dai prigionieri nelle carceri di Buenos Aires e Montevideo per non farsi comprendere dalle guardie) e il gioco è fatto. Dopo aver rivisitato Last Tango In Paris del sassofonista jazz Gato Barbieri e averla inserita nella Hotel compilation Costes del dj Stéphane Pompougnac, nel 2000 i Gotan Project

mondo

prendono a modello il ballo dei sobborghi per comporre Vuelvo Al Sur/El Capitalismo Foraneo, ipnotico pezzo che affianca il suono urticante del bandoneón (stile Astor Piazzolla) a grumi orchestrali e campionamenti elettronici. La forza tanguera, che s’innamora della drum machine, sprigiona brividi di piacere. Sono le stesse, insinuanti emozioni che troviamo in questo disco dove il suono rallenta per farsi uggioso tra fiati e il bandoneón suonato da Melingo (Tango Square); si riempie di voluttà con archi, pianoforte, sax e un coro di bambini (Rayuela); si fa insinuante disegnando la bellezza di Peligro. Ma il tango, in 3.0, è una magia che in Desilusion si sposa col ritmo ska affidandosi alla voce di Cristina Villalonga (la ritroviamo nella «morriconiana» melodia di Erase Una Vez) e che in La Gloria sceglie il metronomo dell’electrodance puntando su Victor Hugo Morales, leggendario commentatore sportivo d’Argentina che trasforma il classico urlo «gooooool!» in «goooooo-tan!». Poi, idealmente, Buenos Aires incontra New Orleans e Nashville. Ecco, allora, il blues e lo swing di De Hombre A Hombre, il tango e il blues e il jazz di Panamericana, l’audace azzardo di un country argentino che scandisce El Mensajero. Varrà la pena riassaporarli dal vivo, questi incroci fatali di tradizione e ultramodernismo: il 25 maggio all’Atlantico Live di Roma, il 26 al Saschall di Firenze, il 27 all’Alcatraz di Milano. Gotan Project, Tango 3.0, ¡Ya Basta! /Self, 17,90 euro

riviste

UN BOSS PER AMICO

LIVERPOOL, ALL YOU NEED IS JOHN

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l tour italiano è ancora negli occhi di tutte quelle migliaia di persone che hanno affollato gli stadi per vederlo esibirsi. Logica conseguenza di un legame che il Boss ha saputo stringere con la Penisola in decenni di attività. Un’eco che risuona sinuosa nel libro che Stefano Pecoraio dedica all’intramontabile rockstar: Bruce Springsteen. Welcome to Asbury Park (Aliberti, 196 pa-

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asceva il 9 ottobre del 1940 a Liverpool per poi morire in circostanze tragiche quarant’anni dopo a New York, l’8 dicembre 1980. In mezzo una carriera inimitabile, prima come anima dei Beatles, e poi come anima di un mondo in cambiamento. In vista del settantesimo compleanno di John Lennon, Liverpool ha deciso di fare le cose in grande, e da ottobre a dicembre

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Stefano Pecoraio esplora origini e luoghi di Springsteen, ricostruiti con l’aiuto dell’artista

Da ottobre a dicembre due mesi di eventi in riva al Mersey per festeggiare i 70 di Lennon

Metheny a Bari con il suo ”Orchestrion”: nessuna grande novità, ma la classe resta immutata

gine, 17,00 euro). I primi passi nel mondo della musica, luoghi e persone che ne hanno visto fiorire la personalità artistica (da segnalare il reportage esclusivo dall’ Upstage, riaperto per l’autore dopo 38 anni), i saldi rapporti con la gente comune che hanno consentito al Boss di rimanere sempre con i piedi per terra, nonostante le vertiginose altezze dei suoi successi. Non una semplice ricostruzione di date e avvenimenti, il lavoro di Pecoraio, ma anche il risultato di un fortunato sodalizio tra l’autore e l’artista, avviato nel 2007, che beneficia della spontaneità e dell’immediatezza. Un diario di viaggio godibile e attento, in compagnia di un amico speciale.

dedicherà un intero bimestre di eventi al suo più illustre cittadino. «È una delle figure più rappresentative del ventesimo secolo - ha dichiarato il sindaco della città britannica, Mike Storey - il suo messaggio di pace è così forte da essere d’ispirazione per molti ancora oggi». Si parte il 9 ottobre al Cavern Club, storico locale in cui i Fab Four mossero i primi passi, si prosegue con concorsi di poesia indetti in memoria dell’artista, e svariate esibizioni musicali. Il clou il 9 dicembre all’Echo Arena, per il grande concerto Lennon Remembered.

più ingabbiate». La vivida cronaca che Ignazio Loconte affida alle pagine di jazzitalia.net esprime la palpabile emozione provocata di recente da Metheny al Teatroteam di Bari. Un’occasione per presentare al folto drappello di fan italiani, il disco che il musicista di Lee’s Summit ha licenziato in questo 2010: Orchestrion. Ancora un album all’insegna del Pmg sound, composto da cinque suite supportate da liquide pentatoniche, punteggiate qua e là da marimbe e vibrafoni. Dai virtuosismi travolgenti di Spirit of the air al minimalismo di Entry Point non si avverte nessuna novità o svolta epocale, ma numeri d’alta scuola e piacere viscerale sono in cassaforte.

a cura di Francesco Lo Dico

IL FAVOLOSO MONDO DI PAT orride, felice come un bambino. Guadagna il palco con piede veloce, come chi non vede l’ora di incominciare a giocare. Pat Metheny è in ottima forma fisica, con il volto radioso come da qualche tempo non s’avvertiva. Messo nell’angolo dei ricordi il tour con Meldhau, più da showbusiness che non altro, riacquista la sua identità espressiva, i suoni, le sue fantasie non


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zapping

Anche De Simone celebra SAN DIEGO ARMANDO di Bruno Giurato on fa nessuna meraviglia. Abbiamo letto Giuseppe Marotta, genio vero di Napoli (misconosciuto dal secolo devastato e vile). Raccontava di un adagio di sua nonna: «Come visse la Madonna fino ai quindici anni? Digiuna». Così la vecchia confortava il nipote alle prese con la fame di inizio Novecento. Siamo scesi dal treno e siamo finiti alla cappella Sansevero, il Cristo velato rese invidioso Canova, e ci ha fatto tremare. Il panneggio perfetto, dicono derivato da un procedimento alchemico, il sorriso che non è già più da sepolcro. È un annuncio di paradiso o un blasfemo menefoutisme barocco, soave, sui tre giorni abissali? Neanche Giuseppe Sanmartino, ex presepista e autore della scultura lo sa dire. Abbiamo fatto una seduta spiritica proprio per intervistarlo. Poi abbiamo attraversato Piazza Nilo, dove sognamo di vivere in un palazzo antico coi soffitti alti, e siamo finiti a San Gregorio Armeno: le Madonne di terracotta con sguardo da popolana e pizzi lussuosi. E finalmente lui, Diego Armando Maradona, calciatore. La sua statuetta nel presepio come il Santo che è, a scanso di ogni dottrina e per i tanti miracoli che ha fatto. Raccontava un personaggio di Luciano De Crescenzo (che il secolo devastato e vile conosce molto meglio di Marotta, e che da lui ha copiato quasi tutto): «Io ci ho provato a chiedergli la grazia, a Maradona, a mme me pare che funziona!». E adesso Roberto De Simone, che ha letto, studiato, scritto la musica di Napoli dai canti dei fimmanielli all’Apocalisse, sta scrivendo un’opera su di lui. Sul santo Maradona, che, come disse una volta Vittorio Sgarbi, «è come la Madonna». Non fa nessuna meraviglia, nel reale invaso di spiriti e destino che è Napoli.

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jazz

E lo speziale (di Donizetti) va in lambretta di Jacopo Pellegrini n teatro dal nome bellissimo e benaugurante, in cui si osserva un’antica usanza altrove purtroppo tramontata. Siamo a Fano, nelle Marche; sulla piazza principale, sotto a dei portici, da un atrio spazioso si accede a un imponente doppio scalone e, di lì, alla sala tardo neoclassica del Teatro della Fortuna. Ogni anno, a carnevale, vi ha luogo un ciclo di spettacoli intitolato al più famoso scenografo del Settecento, il fanese Giacomo Torelli. Nel corso della breve stagione, uno dei dopo recita è riservato a un ballo in maschera, colla platea sollevata di qualche metro, un dee-jay, luci stroboscopiche, e un buffet succulento a disposizione del pubblico. Per Torelliana 2010 il direttore artistico Fiorenza Cedolins (sì, proprio il soprano; vi chiederete come se la cavi nel nuovo ruolo: diamole un po’ di tempo e stiamo a vedere) ha scelto, di Gaetano Donizetti, Il campanello, noto anche come Il campanello dello speziale, nella primitiva versione rappresentata a Napoli nel 1836, con i dialoghi parlati e la parte di Don Annibale (lo speziale) in dialetto partenopeo.A dirla tutta, per voluttà di completezza, nel corpo di questa stesura sono stati introdotti anche il nuovo brindisi e l’aria composti per una ripresa dell’anno successivo, sempre a Napoli ma tutta in italiano e coi recitativi cantati; senza però togliere il brindisi originario (ch’è poi quello celeberrimo, nato per Lucrezia Borgia, «Il segreto per esser felici»), così da raddoppiare un episodio meramente accessorio e decorativo. Ad allungare ulteriormente il brodo, Serafina - fresca sposa del farmacista Don Annibale, col quale non riesce a consumare per le continue interruzioni notturne cagionate dal geloso cugino Enrico (un mago degli scherzi e dei travestimenti), Serafina, dicevo, durante la festa nuziale esegue pure un altro brano di Donizetti, la cavatina di Norina dal Don Pasquale. Un’applicazione alquanto disinvolta della filologia, dunque, ma anche una preziosa opportunità per valutare l’effetto dell’alternanza canto/parlato. Che, a conti fatti, non funziona troppo bene; e ciò in barba a quei due veri mattatori della scena che rispondono ai nomi di Alfonso Antoniozzi e Roberto De Candia, chiamati a interpretare Annibale ed Enrico. Senza scordare Stefania Donzelli, Serafina argutamente svampita. I meno convincenti, in definitiva, ri-

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sultano gli assegnatari delle parti solo (o quasi solo) recitate: Spiridione, l’aiutante del farmacista (Martino D’Amico), e Rosa, madre di Serafina (Elena Bresciani). La colpa, ripeto, non è - non sempre, almeno - degli interpreti, ma semmai dell’ampliamento subìto dai segmenti recitati e del ritmo non abbastanza serrato impresso alla loro declamazione. Mauro Avogadro, il regista, si dev’essere divertito un mondo a montare lo spettacolino ambientato alle soglie del boom economico, tra lambrette e gonne a palloncino che fanno molto commedia all’italiana; in effetti, ha allineato un bel po’ di gag spiritosi, anche se poi non ha saputo conferire organicità al progetto e individualità ai caratteri. I parlati, d’altra parte, stabiliscono un’aura ironica, straniante in rapporto alla musica: la dialettica tra i due mezzi d’e-

spressione innesca il gioco teatrale d’una «commedia nella commedia» basata sulla parodia. Parodia dell’opera seria in genere (Duetto Serafina-Enrico), parodia di se stesso e di Rossini (in uno dei recitativi aggiunti nel 1837 si fa il verso alla Canzone del salice nell’Otello, e a Fano lo si è felicemente ancorché impropriamente ripristinato). Se Antoniozzi non sembra molto interessato sul piano vocale, De Candia, alle prese con una parte molto acuta (Donizetti la scrisse su misura d’uno dei primi grandi baritoni, Giorgio Ronconi), realizza cose egregie. Al podio è Matteo Beltrami: molto brio (fin troppo, alle volte) e polso saldo con un’orchestra e un coro di buona volontà.

Frank Sinatra visto da Oscar Peterson

di Adriano Mazzoletti l pianista canadese Oscar Peterson (1925-2007) è il quarto grande musicista di jazz a cui è stato eretto un monumento. Lo hanno preceduto, Louis Armstrong, il cui busto si trova a New Orleans in Armstrong Park, la vecchia Congo Square, Sidney Bechet con un busto nella pineta di Antibes e infine Wynton Marsalis (caso forse unico di un monumento eretto a una persona ancora in vita) in Francia, a Marciac dove da anni si svolge un festival sotto la direzione dello stesso trombettista americano. Infine, sempre in Francia, la cui straordinaria predisposizione per il jazz è antica e radicata, sarà ben presto inaugurato un momento a Django Reinhardt a Samois-sur-Seine, la cittadina dove il grande chitarrista manouche scomparve nel 1953. Per ritornare a Peterson, il 30 giugno di fronte al National

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classica

Arts Centre di Toronto, sarà inaugurata una statua in bronzo, realizzata da Ruth Abernethy, del più celebre musicista jazz canadese. Lo scultore è lo stesso che ha realizzato la statua di Glenn Gould che si trova, sempre a Toronto, all’ingresso della Cbc (la Radio pubblica canadese). Nella sua statua Peterson è seduto di fronte a un pianoforte gran coda esattamente come in quella dedicata a Glenn Gould. Chi ha avuto modo di vederle sembra che Oscar e Glenn, stiano duettando a distanza. Ma il fatto più sorprendente è il costo del monumento in bronzo, 210 mila dollari, so-

stenuto interamente, con una sottoscrizione, dagli ammiratori di Peterson. L’amministrazione cittadina si è limitata a mettere a disposizione lo spazio. In questi giorni in Europa, invece, la casa discografica Essential Jazz Classic ha pubblicato in cd una serie di brani che Peterson, accompagnato dal contrabbassista Ray Brown e dal batterista Ed Thigpen, aveva registrato il 18 maggio 1959 a Parigi, per Verve, la ben nota etichetta dell’impresario Norman Granz. In tutto dodici celebri canzoni che furono spesso interpretate anche da Frank Sinatra a cui il disco è dedicato (You Make Me

Feel So Young, Come dance with Me, Just in Time, The Birth of the Blues che Sinatra cantò con Louis Armstrong e altri). Il cd comprende altre nove incisioni realizzate da Peterson a Hollywood in epoche diverse e anch’esse, da tempo, fuori catalogo. I compilatori del disco hanno scelto, nell’immensa discografia del pianista canadese, le incisioni di quei motivi che fecero anche parte del repertorio di Sinatra: I’ve got a World on a String, Night and Day, That Old Black Magic, Blue Moon. Un disco questo non solo con grandi interpretazioni di colui che fu giustamente considerato l’erede di Art Tatum, ma di piacevolissimo ascolto per tutti coloro che amano la canzone classica americana, che così raramente oggi è dato di ascoltare. The Oscar Peterson Trio, A Jazz Portrait of Frank Sinatra, Essential Jazz Classic


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narrativa

di Pier Mario Fasanotti n formidabile duello a distanza ravvicinata in questo quasi-giallo letterario che sta riscuotendo un successo enorme in tutto il mondo. Da una parte c’è Rufus Griswold, critico letterario, mancato scrittore, uomo mediocre e imprigionato in paure para-religiose. Dall’altra Edgar Allan Poe, «lo stravagante ubriacone del sud», il genio delle lettere americane che temeva «l’abisso dell’anonimato», povero, incompreso eppure riconosciuto alla fine come «il grande signore del subconscio». I due s’incontrano nella hall di un albergo. Rufus sta ultimando un’antologia dei poeti americani e dubita della forza «malvagia» dei versi del giovane Poe, rendendosi però conto che ha passato la notte a rimuginare sui testi di quel balordo di Richmond fino a impararli a memoria. L’autore di questi straordinari ritratti, ove affascina la sobbalzante esistenza del figlio di attori straccioni e ubriaconi (poi allevato dalla ricca famiglia Allan), è il norvegese Nikolaj Frobenius, che ha raggiunto la notorietà internazionale con Il valletto di de Sade (proposto dalla Tea nel 2004). Frobenius tratteggia con maestria i due opposti che si fronteggiano tra Baltimora, Philadelphia, Boston e New York. Opposti che esistono in qualsiasi società del mondo, non necessariamente letteraria. Rufus ha idee meschine e conformistiche sull’arte e sulla poesia, crede di essere finalmente una persona importante e influente per il solo fatto di aver composto e prefatto un’antologia. Si crede Dio, ma è di una «cattiveria abbagliante». Concede presenza a Poe in quel suo florilegio, ma ne è quasi costretto. E l’emaciato e pallido Edgar comincerà a ossessionarlo nei sogni e nelle veglie, a tal punto che Rufus, una volta infilatosi sotto le coltri e premutosi contro la schiena della moglie, immagina d’avere accanto Poe in camicia da notte. Il suo rapporto con il poeta «maledetto» sfiora l’ambiguità sessuale, almeno nei deliri onirici. Si domanda ogni giorno come fare per schiacciare l’autore di versi e racconti che giudica intrisi di «lussuriosa porcheria». Si tormenta, sfiora a volte la comprensione del genio ma rigetta, con tortuosi ragionamenti e sotterfugi, la possibilità di riconoscere la sua splendida «barbarie». Preferisce in-

U

riletture

Quel duello con Poe sull’orlo del precipizio

libri

teressarsi su come vive lo scrittore, s’interroga sul perché abbia sposato la cugina quattordicenne, chiede in giro se mai certe recensioni senza firma, che sono pugnalate mortali, siano da attribuire a quell’uomo che parla bene e male dei libri sulle riviste letterarie e quando ne parla male è come se lanciasse una freccia avvelenata. Da un lato c’è la creazione letteraria, dall’altro c’è il pettegolezzo e il borbottio di un mediocre. La trama duellante s’arricchisce del colore giallo quando Rufus, e non solo lui, si accorge che alcuni delitti assomigliano troppo, in dinamica e in inventiva macabra, a certi racconti di Poe, in particolare a Berenice e a I delitti della Rue Morgue. Il critico mostra la sua bassezza umana con insinuazioni e lettere anonime, si strugge pensando al colloquio sentimentale tra Edgar e la donna che non diventerà sua seconda moglie. Si mette di mezzo, mentalmente e non. Nel contempo è lo stesso Poe, di fronte a strabilianti coincidenze, a chiedersi se viene prima la letteratura o la vita. Lo scrittore, che praticamente venne cacciato di casa dal padre adottivo, vaga tra incomprensioni, barcolla sotto le scudisciate della povertà e dell’alcolismo. Ma continua a osservare la gente - sua intramontabile passione - e inventa trame. Pesca nel pozzo della paura. Non si sofferma filosoficamente sul concetto di peccato, semmai ne descrive le conseguenze. Nel Demone della perversità, Poe scrive: «Siamo sull’orlo di un precipizio.Vi gettiamo dentro un’occhiata, e malessere e vertigini ci colgono. Il nostro primo impulso è di tirarci via dal pericolo. Nondimeno, inesplicabilmente, restiamo». E scrivendo, giorno e notte, lui rimaneva su quell’abisso, timoroso ed estasiato. Sotto i suoi occhi c’era l’anima degli uomini, il mondo violento. E anche la mediocrità dei tanti Rufus che popolano la terra. Il critico che vuole abbattere «la sudicia fama» del genio si autodistruggerà con la sua amorale impotenza. Se Poe ha scritto di delitti scavando nelle profondità dell’anima, Rufus è diventato solo un delinquente. Se il primo brillerà di fama mondiale, il secondo sarà presto dimenticato e cancellato «da uno schizzo di fango». Nikolaj Frobenius, Vi mostrerò la paura, Ponte alle Grazie, 302 pagine, 18,00 euro

La saggezza di Leo Strauss contro Kojève e la Rive Gauche di Giancristiano Desiderio esercizio che oggi vi propongo di fare è di rileggere un testo apparso or sono quarant’anni, ma ora nuovamente pubblicato in Italia nelle edizioni Sylvestre Bonnard: è il libro di Herbert R. Lottman La Rive Gauche. Intellettuali e impegno politico dal Fronte popolare alla Guerra fredda. L’esercizio, però, non finisce qui. Perché il testo di Lottman va riletto in parallelo con la ripubblicazione presso Adelphi del libro e carteggio di Leo Strauss e Alexandre Kojève Sulla tirannide perché, al di là della pubblicazione in questo volume del dialogo classico di Senofonte intitolato Gerone, il vero argomento è il rapporto tra potere e saggezza, politica e filosofia e il diverso modo di intenderlo che avevano questi due grandi

L’

pensatori del Novecento. Ora, il rapporto tra pensiero e azione non è forse al centro anche di quella speciale Repubblica degli intellettuali - e, si potrebbe dire, Repubblica degli intellettuali vanitosi - che ci fu sulla riva sinistra della Senna tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del secolo scorso? Herbert R. Lottman è un giornalista americano che ha vissuto gran parte della sua vita a Parigi. Proprio perché è un libro scritto da un giornalista La Rive Gauche è ben documentato, non fa uso di retorica e ci dà un veritiero affresco della vita dei membri dell’intellighenzia parigina ripercorrendo tutta la sua parabola dagli anni trionfali del Fronte popolare agli anni delle polemiche e del declino dopo la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della Guerra fredda. I quattro leader indiscussi della Repubblica

degli intellettuali, quasi una sorta di quattro moschettieri, furono André Gide, André Malraux, Louis Aragon, Jean-Paul Sartre. Ma qual era la caratteristica di fondo di questa speciale repubblica del pensiero? Che era un pensiero prestato alla politica e anche qualcosa di più di «prestato» dal momento che la Rive Gauche fu antifascista e antinazista ma non fu anticomunista e, anzi, si può definire filosovietica. Il tratto negativo, dunque, di quella repubblica parigina così alla moda e diventata col tempo mitica e pittoresca, tanto da diventare meta turistica, fu la sua incapacità di essere anti-totalitaria. Tra il 1932 e il 1965, quindi ricoprendo per intero lo stesso dell’affermazione e declino della Rive Gauche, si sviluppa l’interessantissimo scambio epistolare tra Strauss e Kojève che ora, edito, va ad arricchire questo vo-

lume già così ricco con il Gerone di Senofonte, il commento Sulla tirannide di Strauss, la risposta dialettica di Kojéve Tirannide e saggezza e la Replica di Strauss (ma di Leo Strauss mi permetto di suggerire ai lettori, perché l’argomento è il medesimo, anche il testo ora uscito da Marietti: La città e l’uomo). I due filosofi sono divisi sull’essenziale: mentre Kojève, con la sua lettura di Hegel e di Marx, crede nella possibilità e necessità di conciliare filosofia e società, Strauss avverte che proprio in questa pretesa, insieme filosofica e politica, c’è il vero pericolo per la libertà e la radice del male moderno. Strauss si mostra più saggio di Kojève perché non solo sa che non è possibile, ma è consapevole che non è neanche auspicabile una società pienamente razionale. Oggi è ancora questo il problema delle nostre vite.


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Cristiana, Mario e una storia mangiata dal tempo di Mario Donati ll’inizio sorpresa e cortesia. Poi fastidio e risentimento. Fino a un rosario di accuse, colpi ben assestati di una donna sessantenne al suo ex marito che da oltreoceano le scrive nell’intento di recuperare e ravvivare un comune passato. L’agile e intenso romanzo di Romana Petri non è epistolare in senso classico, nel senso che sono leggibili sono le lettere di Cristiana, la protagonista, a Mario. Perché Mario, pur risposato con una bella e giovane donna, si dice disposto a ricominciare con Cristiana? È lei che lo intuisce con brutale lucidità: «Ti stai infilando in un tunnel strettissimo, mi sembri un

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diritti

personaggio di uno di quei film in cui, per salvarsi la vita, c’è chi è costretto a camminare carponi in un budello senza aria e senza luce. Non hai l’età per correre questi rischi… e poi, credimi, stai proprio recitando una parte, le lettere che mi scrivi sono il camerino in cui ti trucchi». Il maquillage sentimentale ha il perverso scopo di sentirsi più giovane, credendo che si possa riacciuffare un passato. Soltanto che in quel passato (a quindici anni dal divorzio, con due figli in comune) c’è stata una distrazione «oscena» di lui, e poi tradimenti, e poi ridicole e snobistiche pose di esponente di estrema sinistra che diceva d’essere astemio pur di non bere il vino scadente dei «compagni» proletari.

Cristiana è la donna saggia che regola definitivamente i conti con un improbabile ritorno del passato: «Gran parte della nostra vita viene inghiottita da qualcosa che non la risputerà mai fuori. Gran parte della nostra vita se la mangia il tempo. Anche noi due siamo stati mangiati. Rassegnati e trova pace». L’ex moglie, che si è felicemente risposata, fa notare con garbata crudezza di fare una certa fatica ad accettare la sua stagione matura: «Ma non posso preoccuparmi anche della tua». E poi lo svelamento della personalità di Mario è avvenuto da un pezzo: «Quando sei esasperato diventi crudele, perché quando sei messo alle strette ti vendichi volendo la miseria di

chi ti sta accanto». La donna, che magari può dare l’impressione di essere inizialmente lusingata da un bizzarro quanto gioco di recupero dell’ex marito, il suo percorso intimo l’ha compiuto, «trasformando il tempo dell’attesa in allegria». Poi la stilettata finale: «Perdonami, ma a te lo devo proprio dire che non sei stato tu il mio più grande amore». La figura femminile si stacca dall’infantile confusione del maschio che poco o nulla ha elaborato della propria esistenza e si ostina a riprendere un gioco. Crudele e inutile. Romana Petri, Ti spiego, Cavallo di Ferro editore, 200 pagine, 16,50 euro

Una Victoria per i “desaparecidos”

di Vincenzo Faccioli Pintozzi l dramma dei “desaparecidos”argentini è conosciuto in tutto il mondo. Ma sentire dalla viva voce di uno dei bambini scambiati cosa voglia dire avere avuto una vita falsificata cambia leggermente la prospettiva con cui ci si accosta al testo. Victoria Donda, la più giovane parlamentare di Buenos Aires, scrive un romanzo-memoriale che spiega al lettore passo dopo passo come sia nata una prima volta a bordo di uno dei famigerati “voli della morte” dei generali sudamericani, e una seconda volta - quella vera - quando viene contattata dalle “Nonne di Plaza di Mayo”. Essere la “nipote numero 78” cambia radicalmente, come intuibile, la sua esistenza. Analìa, così era stata chiamata dalla famiglia che l’aveva avuta in affidamento, muore sul colpo

I

biografie

per diventare Victoria. Interessante notare come la rivelazione della sua vera ascendenza non le provoca un comprensibile rifiuto della vita: Victoria prende talmente sul serio la sua nuova nascita che decide di dedicare ad essa il resto dell’esistenza. Ed ecco che l’esperienza politica delle “Nonne”, combattenti per la verità di una pagina buia della storia argentina, apre uno spiraglio anche per Victoria. Che però, verso la fine del libro, scrive con molta sincerità: «Dovevo capire cosa implicava il fatto di chiamarmi Victoria Donda, ma al tempo stesso per essere Victoria dovevo ricollocare Analìa e sforzarmi che non sparisse sotto le macerie di una vita edificata sulla menzogna». L’auspicio della giovanissima combattente è la chiave di lettura del libro e, in un certo senso, la chiave di lettura di ogni società che deve fare i conti con un passato scomodo e doloroso. La

lezione di Victoria è che il revisionismo non è una verità assoluta, e che un’esplosione non nasconde tutto sotto le macerie. Anzi, cercando di seppellire Analìa e tutto il suo passato sotto le macerie, Victoria non potrebbe essere mai equilibrata. La lezione espressa dalla giovane autrice, eletta a 27 anni deputata di Buenos Aires (la più giovane nella storia del Paese sudamericano), è una lezione utile non soltanto alle latitudini caraibiche patria delle dittature militari, ma anche in questa vecchissima e sempre giovane Europa. Per cicatrizzarsi, una ferita deve essere esposta all’aria e iniziare a creare i propri anticorpi in maniera spontanea, non indotta. Nel caso argentino, l’esempio della Donda ha aperto la via a una riconciliazione nazionale importante, che potrebbe finalmente dare vita a una storiografia condivisa che faccia luce dagli albori del peronismo a oggi. Una storia condivisa, non combattuta. Victoria Donda, Il mio nome è Victoria, Corbaccio Editore 203 pagine, 17,50 euro

Vivere con l’handicap si può, grazie all’amore di Franco Insardà ichele Pacciano è un giornalista di quelli veri e per il suo lavoro non si fa certamente fermare dalla carrozzella sulla quale è costretto per una tetraparesi spastica fin dalla nascita. A come Amore è la storia della sua vita e del suo handicap, «raccontato a sua madre», ma non solo. Pacciano dimostra che con l’handicap si può anche scherzare e come è riuscito a trasformare la sua carrozzella, da ostacolo, in un’arma che ha usato e usa per farsi valere e riuscire a strappare dichiarazioni a

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grandi personalità: da Arafat a Oscar Luigi Scalfaro. Ma l’handicap in questa biografia si trasforma in un mezzo per osservare gli altri e per osservare quel pezzo di mondo in bilico fra Puglia e Basilicata che è la Provincia di Taranto. Vi fanno capolino pediatri impotenti e stiliste d’antan, disabili gravissimi e fratelli sanissimi, formidabili figure di terapiste, comuniste con i boccoli e una galleria di personaggi familiari su cui svetta positiva la figura dei genitori, i più colpiti dalla disabilità assieme al disabile stesso. E ancora, amici che lo trasportano di peso in gita sull’Aspromonte e colleghi gior-

nalisti, tra i quali il sottoscritto, che lo «cazziano» per una debolezza di troppo. E ancora, il rapporto con le donne, una delle barriere più forti da abbattere per i disabili, vissuto gioiosamente e goliardicamente anche di fronte alle domande più imbarazzanti. Con una ironia che rende Michele Pacciano simpatico a tutti, anzi, spesso, spiazza i suoi interlocutori che si sentono «handicappati» di fronte alla sua schietta naturalezza. A proposito di donne si chiede nel suo libro: «Perché un disabile deve avere solo storie romantiche e grandiose, magari con un fine lieto o tragico? Perché un disabi-

le non può avere un amante?». Insomma Pacciano ci trascina nella sua vita e ci costringe a vedere il mondo dalla carrozzella e da lì cominciamo a capire che qualsiasi tipo di guaio si può affrontare. Magari non con il suo coraggio e con il suo spirito ma con la nostra personale ricetta. Da trovare maledettamente ogni volta che l’esistenza, per un motivo o l’altro, ci spinge giù. Per rialzarsi e gridare ancora una volta «sono vivo». Con le gambe o senza. Michele Pacciano, A come Amore, Armando Editore 75 pagine, 10,00 euro

altre letture La metapolitica

non è una disciplina accademica, però il suo studio rinvia alla filosofia politica. Tuttavia di rado se ne parla in enciclopedie e manuali di storia del pensiero politico, probabilmente perché su di essa pesa tuttora l’accusa di romanticismo con i suoi rischi di deriva irrazionalista. Un’accusa in parte fondata ma che rischia di far trascurare l’altro volto, quello positivo della metapolitica. È quello che nel suo Metapolitica. L’altro sguardo sul potere (Edizioni Il Foglio, 103 pagine, 10,00 euro) fa il sociologo Carlo Gambescia per il quale la metapolitica può rappresentare un’analisi razionale di quello che viene oltre e dopo la politica. Un’analisi imperniata sulle scienze sociali e non sull’astratta ricerca dell’Ottimo Stato o sulla sua abolizione rivoluzionaria.

Qual è la radice dell’odio dell’Islam fondamentalista per l’Occidente? Sono davvero le Crociate la causa remota dell’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001? Fra gli storici e gli studiosi di politica non pochi addossano alle guerre cristiane la responsabilità di avere inaugurato l’era della colonizzazione europea allo scopo di accaparrarsi le ricchezze della Terra santa e di arruolare nuovi credenti. Questa interpretazione giustifica l’idea di una sorta di peccato originale che condizionerebbe i rapporti dell’Islam con l’Occidente. Non è così per Rodney Stark che in Gli eserciti di Dio. Le vere ragioni delle Crociate (Lindau, 362 pagine, 24,50 euro) ricolloca al giusto posto quelle guerre cristiane analizzandone motivazioni politiche e culturali e ridando onore a chi vi partecipò. «Voglio essere un santo. Voglio salvare anime a milioni. Voglio fare del bene ovunque». A pronunciare questa parole non è un uomo comune, è una creatura della notte, il vampiro Lestat. Cristallizzato in un’eterna giovinezza, Lestat è bello come il sole che lo respinge, ma l’oscurità che ha dentro lo tormenta da secoli. La sua brama di redenzione, bontà e amore contrasta con la sua natura di viaggiatore della notte e il suo unico rifugio è la residenza di Blacwood Farm. E proprio qui giunge la bellissima Mona Mayfair, di cui si innamora e per questo amore deve prolungare la sua dannazione…Arriva in Italia Blood (Longanesi, 358 pagine, 18,60 euro), l’inedito romanzo di Anne Rice, autrice del bestseller Intervista col vampiro. a cura di Riccardo Paradisi


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il paginone

NEL CORSO ORDINARIO DELLE COSE IL SUO NOME SAREBBE PASSATO INOSSERVATO, AL PARI DI ALTRI CHE AVEVANO RICOPERTO IL SUO STESSO RUOLO. MA L’INCONTRO CASUALE CON GESÙ GLI HA DATO UN’IMPORTANZA STRAORDINARIA CHE SI È MANTENUTA DURANTE I SECOLI. DAI QUATTRO EVANGELISTI A DÜRRENMATT, PASSANDO PER LA LETTERATURA APOCRIFA, BULGAKOV E ANATOLE FRANCE, ECCO COSA SI RACCONTA DEL QUINTO GOVERNATORE ROMANO DELLA GIUDEA

Il Vangelo secondo Pilato di Sabino Caronia ecchio, amareggiato, Ponzio Pilato incontra un amico conosciuto in Giudea quando era procuratore e a lui racconta le sue disgrazie di amministratore, vittima del proconsole Vitellio. «Chi difenderà la mia memoria?», chiede. L’amico, più frivolo, ricorda una ballerina incontrata in una bettola di Gerusalemme, il cui nome, Maria Maddalena, non viene pronunciato, finita tra i fedeli di un giovane taumaturgo, Gesù il Nazareno. «Ponzio, ti ricordi di quest’uomo?», chiede l’amico. Ponzio Pilato aggrotta le sopracciglia, si porta la mano alla fronte come chi vuole ritrovare un ricordo. Poi, dopo qualche istante di silenzio, mormora: «Gesù? Gesù il Nazareno? No, non ricordo». L’episodio, tratto da Il procuratore della Giudea di Anatole France, ben si presta a introdurre il nostro discorso su Ponzio Pilato.

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Ponzio Pilato fu il quinto governatore della provincia romana della Giudea, carica che ricoprì dal 26 al 37

del suo ruolo di giudice di Gesù non finirono col primo secolo né con la letteratura apocrifa o medievale. Anche l’immaginario popolare che mette in primo piano il romano alla ricerca della verità, il giudice che si lava le mani o il governatore indeciso contribuisce alle molte e diverse interpretazioni di Pilato. Considerata l’importanza di Pilato non sorprende incontrare molte e diverse trattazioni della figura storica del governatore. In generale, queste presentazioni sono state influenzate da due fattori. Anzitutto, le fonti a disposizione sono relativamente scarse, e quelle disponibili sembrano offrire ritratti contraddittori di Pilato. Gli scrittori giudei - Filone e Flavio Giuseppe - dipingono Pilato in termini negativi, come un uomo rude e crudele che fu nemico della nazione giudaica. I Vangeli cristiani, invece, secondo l’interpretazione più diffusa, presentano un governatore che, sebbene fosse debole e insicuro, riconobbe l’innocenza di Gesù e tentò di salvarlo dall’esecuzio-

La sua figura è spesso descritta in modo contraddittorio. Per Filone e Flavio Giuseppe, era rude e crudele, nemico della nazione giudaica. Nei Vangeli è invece debole e insicuro, ma capace di riconoscere l’innocenza di Cristo d.C. Uno dei fatti più sicuri del cristianesimo è che Gesù di Nazaret fu crocifisso sotto Ponzio Pilato: esso è infatti documentato non solo dalla tradizione cristiana più antica ma anche dallo storico romano Tacito negli Annali (15, 44). Nel corso ordinario delle cose Pilato sarebbe passato pressoché inosservato, al pari degli altri colleghi governatori romani, e sarebbe rimasto soltanto un nome nelle pagine di Filone e Giuseppe Flavio. L’incontro casuale con Gesù di Nazaret ha fatto sì che il suo nome sopravvivesse nella memoria cristiana acquistando un’importanza straordinaria nei secoli. Il processo di Gesù fu un evento storico che rese necessaria la riflessione cristiana dando così origine alle molte e diverse interpretazioni di Pilato, ma le interpretazioni di Pilato e anno III - numero 12 - pagina VIII

ne. In secondo luogo molte interpretazioni di Pilato paiono riflettere, consapevolmente o no, l’ambiente sociale e politico dei loro autori. Questi Pilati riflettono più la società contemporanea di chi scrive, che la Giudea del primo secolo sotto l’amministrazione di Pilato. Nell’ex Unione Sovietica, Pilato e gli atti a lui attribuiti, ad esempio il lavarsi le mani, furono in primo piano soprattutto nelle opere dell’era staliniana. Il debole Pilato deiVangeli fu considerato una figura particolarmente adatta a incarnare la rinuncia alla responsabilità etica, il compromesso morale e l’inclinazione a pensare a se stessi che molti autori vedevano incoraggiati dall’ideologia staliniana. Esemplare tra queste opere dell’era staliniana fu Il maestro e Margherita di Bulgakov, scritto nel

1938, dove nell’originale interpretazione dell’autore delle scene del processo, Pilato diventa una figura credibile e penosa, la cui rovina è la sua stessa codardia morale. Ma leggiamo: «Al mattino presto del giorno 14 del mese primaverile di Nisan, avvolto in un mantello bianco foderato di rosso, con una strascicata andatura da cavaliere, nel porticato tra le due ali del palazzo di Erode il Grande, entrò il procuratore della Giudea Ponzio Pilato…». «Un mantello bianco foderato di rosso». Così lo immagina Bulgakov.

Non poteva mancare una fioritura apocrifa attorno a Ponzio Pilato. È soprattutto sulla sua vita successiva che si è scatenata la fantasia apocrifa, compresa quella moderna. A proposito di quest’ultima pensiamo, oltre al Procuratore di Giudea di Anatole France, a Il punto di vista di Ponzio Pilato di Paul Claudel, alla Moglie di Pilato di Gertrud von Le Fort, al Ponzio Pilato di Roger Caillois, al Pilato di Friedrich Dürrenmatt. Soprattutto interessanti sono i racconti sulla morte di Pilato. Per quanto riguarda la sua fine, la cosiddetta Paradosi di Pilato, una ipotetica tradizione storica delle sue vicende, descrive una fine tragica durante una partita di caccia con l’imperatore. «Un giorno Tiberio, andando a caccia, stava inseguendo una gazzella; ma, quando questa giunse davanti alla porta di una caverna, si fermò. Pilato si spinse a vedere.Tiberio lanciò nel frattempo una freccia per colpire l’animale ma essa attraversò l’ingresso della caverna e uccise Pilato». Più impressionante è la narrazione fatta da un altro testo apocrifo, La morte di Pilato, in cui il procuratore muore suicida a Roma con un colpo del suo pugnale, ma non trova pace neanche come cadavere: «Viene legato ad un grosso masso ed immerso nel fiume Tevere. Gli spiriti maligni e immondi, rallegrandosi di quel corpo maligno e immondo, si agitavano tutti nelle acque». Si racconta anche che Pilato finì in esilio in Francia, a Vienne, sul Rodano, nelle cui acque un giorno si gettò. A volte ancora adesso sul fiume si allunga l’ombra inquieta del procuratore della Giudea: indossa la toga che portava quel giorno nel pretorio, e chi ha la sventura di incontrare quell’ombra è destinato a morire entro l’anno. Ritorna anche qui il riferimento alla toga, come nel


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cessi per lei un numero da giocoliere.“Dubitare e credere sono la stessa cosa, Pilato. Solo l’indifferenza è atea”». A preparare questa conclusione è il celebre interrogativo, l’eterna, irresolubile domanda, che ritorna dal Vangelo di Giovanni (Gv. 18, 38): «Che cos’è la verità?». Non a caso anche il Pilato di Bulgakov si trovava a porre la stessa domanda e rifletteva: «O Numi! Gli sto chiedendo delle cose che non c’entrano col processo… Non riesco più a dominare la mente…». È significativo il fatto che nel Vangelo di Giovanni Pilato pronunci la famosa domanda «Che cos’è la verità?» senza aspettare risposta, come si comprende dalla frase immediatamente successiva: «Detto questo uscì di nuovo verso i Giudei». Su questo è opportuno soffermarsi. Ma andiamo con ordine. Nel «Diario di un romanzo», che costituisce l’ultima parte del volume di Schmitt, è sottolineata, a conferma della loro credibilità, la differenza fra i quattro testi evangelici. È appunto così. Per Marco, Pilato è tutt’altro che debole e insicuro, è un politico astuto che manipola la folla per evitare una situazione imbarazzante ed è anche un rappresentante forte degli interessi dell’Impero. Nel Vangelo di Matteo, la rappresentazione del prefetto è secondaria di fronte all’intento primario che è di far vedere che la folla giudaica respinge il suo messia e se ne prende la responsabilità («Pilato, visto che non otteneva nulla e che, anzi, stava sorgendo un tumulto, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla dicendo:“Sono innocente del sangue di questo giusto: voi ne risponderete”. E tutto il popolo rispose: “Il suo sangue è su noi e sui nostri figli”»). Nel racconto di Luca, Pilato ha un ruolo importante in quanto rappresentante della legge romana che dichiara Gesù innocente e, tuttavia, egli ha tratti piuttosto ambigui, principalmente la debolezza, dal momento che permette ai rappresentanti della nazione giudaica di costringerlo a condannare un innocente.

Sopra, “Ecce Homo” di Antonio Ciseri. A destra, Rod Steiger interpreta Ponzio Pilato nel “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli. Nella pagina a fianco una statua del procuratore romano della Giudea

racconto di Bulgakov. Una tradizione abbastanza antica vorrebbe invece che Pilato e sua moglie Claudia Procula si convertissero al cristianesimo. La tradizione apocrifa cristiana esalta la conversione di Pilato, che muore come martire decapitato per ordine di Tiberio, e viene accolto in cielo da Cristo. Non per nulla la chiesa etiopica venera come santo il procuratore romano.

La conversione del procuratore sarebbe avvenuta in coincidenza della resurrezione di Cristo, secondo il Vangelo di Gamaliele, opera copta del Quinto secolo, dove si legge che «entrato nella tomba di Cristo, Pilato prese le bende mortuarie, le abbracciò e per la gran gioia scoppiò in lacrime. Si volse poi a un suo capitano che aveva perso un occhio in guerra e rifletté: “Sono sicuro che queste bende restituiranno la luce al suo occhio”. Avvicinò a lui le bende mortuarie e gli disse: “Non senti, fratello, il profumo di queste bende? Non è un odore di cadavere ma di porpora regale impregnata di soavi aromi […]”. Il capitano prese quelle bende e si mise a baciarle dicendo: “Sono certo che il corpo che voi avete avvolto è risorto dai morti!”. Nell’istante in cui il suo volto le toccò, il suo occhio guarì e vide la gioiosa luce del sole come prima. Fu come se Gesù avesse posto su di lui la mano, proprio come era accaduto al cieco nato». Due romanzi recenti si

ispirano alla figura del procuratore di Giudea. Con il Ponzio Pilato di Giorgio Linguaglossa, la cui vena è drammaticamente nichilista («Oggi finalmente ho capito che tutte le nostre azioni fluiscono naturalmente nell’alveo del nulla. E che del nulla non rimarrà nulla. E, poi, che cos’è il nulla? Che cos’è l’universo? Che importa e a chi può importare se il nulla sia infinito o più piccolo della capocchia di uno spillo? Che differenza fa?»), è stato pubblicato in questi giorni, in una nuova edizione completata dal capitolo «Diario di un romanzo rubato», che ne ha accompagnato la scrittura, il Vangelo secondo Pilato di Eric-Emmanuel Schmitt. Il ro-

In Giovanni, al contrario, Pilato è un manipolatore sarcastico e sicuro della sua autorità che, nel condannare Gesù, è in linea con gli interessi dei Giudei, ma fa pagare loro un prezzo molto alto costringendoli ad accettare Cesare come unico re. Nell’esposizione di Giovanni, Pilato si allea con il mondo ostile che rifiuta Gesù, cosicché, mentre Gesù si prepara alla glorificazione sulla croce, tutti i sovrani della terra, con Pilato come rappresentante di Roma e dei Giudei, sono giudicati e trovati manchevoli per la loro risposta negativa a Gesù. Ma leggiamo.Alla domanda di Pilato: «Dunque sei tu re?», Gesù risponde: «Tu dici che io sono re. Io sono nato per questo e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» e a questo punto Pilato pronuncia la famosa domanda «Che cos’è la verità?», ma poi, detto questo, esce fuori senza aspettare la risposta. Quella di Pilato, che esce senza aspettare risposta, non è un’espressione di irritazione verso un prigioniero che controbatte insistentemente alle domande del governatore con allusioni a un altro mondo e alla verità, sebbene sul piano puramente letterario si potrebbe forse rintracciare qualche elemento in questo senso, ma, al contrario, allo stesso modo degli oppositori giudei, Pilato mostra di

«Avvolto in un mantello bianco foderato di rosso, con una strascicata andatura da cavaliere». Così è descritto nel “Maestro e Margherita”: un esempio di codardia morale, la stessa che veniva incoraggiata dai metodi dell’era staliniana manzo di Schmitt, con la sua interessante problematica religiosa, è costituito dapprima da un prologo in cui il narratore è lo stesso Yeshua che nel culmine tenebroso del Getsemani ripercorre il suo cammino esistenziale e poi dal vero e proprio Vangelo secondo Pilato, un’inchiesta innescata dalla scoperta che il corpo di Yeshua è scomparso dal sepolcro. Il capitolo dedicato a Pilato, strutturato nella forma epistolare di una ventina di lettere indirizzate dal procuratore al fratello Tito a Roma, si svolge con ritmo serrato fino alla necessaria conclusione: «Nel caso di Yeshua ho cercato di salvare la ragione, di salvarla ad ogni costo contro il mistero. Ho fallito e ho capito che c’era qualcosa di incomprensibile. Mi lamento spesso con Claudia: prima ero un romano che sapeva; ora sono un romano che dubita e mia moglie ride e batte le mani come se fa-

non essere dalla verità e dunque, come i Giudei, fa parte di quel mondo che non crede e che ripudia Gesù. Anche la sua domanda sulla verità è inoltre mal posta. La domanda appropriata non era: Che cosa è la verità, ma: Chi è la verità. Il governatore non capisce che la verità è fatta persona nel prigioniero che è davanti a lui. Rientrando nel pretorio, dopo l’incontro con Caifa, Pilato aveva chiamato Gesù e gli aveva detto: «Tu sei il re dei Giudei?» e Gesù aveva risposto: «Dici questo da te stesso o altri te l’hanno detto di me?», a cui Pilato aveva replicato: «Sono forse io un giudeo?». Per Giovanni la risposta alla replica di Pilato («Sono forse io un giudeo?») è sì. Nel respingere Gesù infatti Pilato, come singolo individuo e come rappresentante dell’Impero, si è unito al mondo dei non credenti, quel mondo che per Giovanni è rappresentato simbolicamente dai Giudei.


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Cuore di mamma

pagina 18 • 3 aprile 2010

tv

video

e gli imperativi del fare

di Pier Mario Fasanotti niziamo con un ragionamento molto semplice, addirittura ovvio se non banale. Sui programmi di intrattenimento della televisione pomeridiana. Chi li può seguire? Gli uomini, e molte donne, non riescono perché lavorano. I ragazzi, su Rai e Mediaset, non trovano appigli: per il vecchiume e la leziosità delle proposte e perché hanno ormai due alternative, se proprio vogliono stare davanti a uno schermo, ossia il computer e i serial, i documentari e i film offerti da Sky. Chi rimane dunque? Le casalinghe. Ma soprattutto quelle che per età sono propense a far passare il tempo sedute sul divano. Insomma, le nonne. Ecco la chiave che ha permesso a certi produttori di aprire la scatola delle possibili sorprese. O il pettegolezzo tipo rotocalco da parrucchiere, con relativo chiacchiericcio da salotto (anzi: tinello), o il sapore d’antico. Soffermiamoci su quest’ultima suggestione e capiamo perché è stato affidato ad Amadeus, un presentatore dalla faccia pulita e onesta, il programma Cuore di mamma (Rai 2). La cornice scenografica e cromatica è ovviamente il cuore. Ospiti sono tre mamme di altrettante ragazze, che stanno sullo sfondo, invisibili o perlomeno non individuabili se non per un’idea, assai vaga, di sagoma. Dinanzi a future suocere sfilano tre pretendenti. I giovanotti. Attraverso un congegno semplice e moderatamente divertente uno dei tre diventerà il principe azzurro. Mater docet et imperat, però. Alla prossima

I

puntata l’incontro ravvicinato tra coetanei. Si presentano Gabriele, laureando in medicina, napoletano con gli occhi blu, Andrea, aria furbetta da torinese che vuol piacere a tutti e aspirante capo del personale, e Mimmo, meccanico «orgoglioso e testardo», dolce, timido. Raffica di domande da parte delle mamme. Ci sono intermezzi affidati a un osservatore ospite, Renato Balestra, stilista biondo di mezz’età che gioca sulla battuta sferzante senza preoccuparsi di offendere. Torna la pacata tenzone con le mamme che, alla voce «approfondimento», vanno a ispezionare il grado di pulizia dei concorrenti. Balestra se la ride sotto i baffi che non ha, ben sapendo che «qui si giudica la scorza». Al capitolo «intelligenza» casca un po’ l’asino che sorregge la trasmissione. Viene presentato un filmato e… Manco a farlo apposta c’è una prosperosa ragazza che si sfila, una dopo l’altra, magliette di vari colori. Sullo sfondo un uomo grassoccio e sudato che passeggia con fare curioso, con lieve accenno alla libidine del voyeur. Le domande quiz vertono sul colore delle magliette e sui tic del guardone.Vince il torinese. Ma Gabriele il napoletano rimonta. Una mamma, dando l’impressione di un formidabile intuito, gli riconosce

games

una certa profondità di pensiero e di sentimenti malgrado l’aspetto «da ragazzino». Lui si frega con le proprie mani dando l’impressione di frivolezza: quando gli passa davanti la formosa valletta - la stessa che ha simulato lo spogliarello del filmato - tende la mano e si presenta. Non si sa mai. La trasmissione presentata da Amedeus è anche una segnaletica sociologica, per dirla con parole gravi. Il termine più usato è «solare». È l’equivalente di «allucinante» degli anni Settanta e Ottanta. Che vorrà mai dire, non so. Forse che non vanno di moda

web

la malinconia, il ripiegamento su se stessi, la riflessione prolungata. Si deve ridere, si deve essere fortemente ottimisti, e magari senza l’odioso sfioramento del dubbio: questo l’imperativo dell’epoca «del fare», dell’«intraprendere», della società intesa come azienda. Quel che è certo è che tutti coloro che compaiono in tv si divertono come matti. Noi un po’meno. Ma il tasso medio di giocosità è ormai questo. Inutile avanzare le solite proteste o lamentele «da intellettuale con la giacca di velluto» (frase superbamente attuale di Antonio Albanese).

dvd

IO, NAPOLEONE

TEORIA E TECNICA DEL GOSSIP

DA BETLEMME A EMMAUS

S

e la lettura del Cinque maggio vi insinua profonda malinconia, l’isola d’Elba tanta inquietudine, e la Corsica un’incontenibile entusiasmo, è arrivato il momento di mettere le mani su Napoleon-Total war, secondo capitolo di una serie fortunata, che ha raccolto più bonapartisti oggi che al tempo del Grande Corso. Anche in questa nuova avventura, la sostanza non cam-

L’

impatto dei social network sulla cultura contemporanea, non è affare da rubricare a noterella di costume. Per conferma, bussare al dipartimento di Informatica dell’Università La Sapienza di Roma, dove insigni studiosi hanno messo a punto una formula matematica in grado di calcolare la velocità di propagazione del gossip all’interno di piattaforme come Facebook

er quanti sognano da tempo di trascorrere il periodo pasquale a Gerusalemme, o hanno avuto la fortuna di farlo in passato e hanno il desiderio di rievocarne il ricordo, Pellegrinaggio in Terra Santa - Una guida alla scoperta dei luoghi della fede, è un ottimo supporto. Appartenente alla collana divulgativa Cinehollywood, il documentario ripercorre settantuno luoghi della fede

Arriva su console il secondo capitolo dedicato alle gesta del Grande Corso: “Total war”

Alla Sapienza di Roma uno studio in grado di calcolare la velocità del pettegolezzo sul web

Cinehollywood presenta “Pellegrinaggio in Terra Santa”, un viaggio nei luoghi della fede

bia. C’è da liberare la propria sindrome napoleonica, mettersi alla testa delle truppe francesi alla conquista del Vecchio Continente, e sperare in un meteo più clemente al momento decisivo. Non provate nemmeno a godere di un dorato buen retiro, perché in men che non si dica sarete deposti: il gioco prevede infatti drastici provvedimenti per quanti temporeggiano. A livello tattico, arriva inoltre una gustosa novità, rispetto a Empire: battaglie navali di un certo interesse innestate su un motore grafico decisamente più reattivo che nel primo episodio. Un consiglio spassionato: evitate trasferte invernali nei dintorni di Mosca.

e Twitter. Il complicato studio, coordinato dal professor Alessandro Panconesi insieme ai dottorandi Flavio Cherichetti e Silvio Lattanzi, si chiama in termini più esatti Teorema della diffusione del gossip e conduttanza del grafo, impervia formula matematica grazie alla quale i ricercatori sono in grado di prevedere i tempi di diffusione di un dato pettegolezzo. Lavoro originale e creativo, che a Lattanzi ha fruttato la chiamata di Google, e a Chierichetti quella di Cornell. E poi non dite che status scorrevoli e chiacchericcio virtuale non servono a nulla.

cristiana lungo gli snodi cronologici fissati dai Vangeli. Si parte dalla Basilica dell’Annunciazione, costruita nel punto in cui Maria fu visitata dall’angelo, e si prosegue poi con Betlemme e la Basilica della Natività, Nazareth, il fiume Giordano, Gerico, il Monte delle Tentazioni e quello degli Ulivi, il Getsemani, e ancora il Golgota, la stanza dell’Ultima Cena, la Cripta della Dormizione ed Emmaus. Narrazione puntuale, informazioni storico-geografiche rapide ma efficaci, buona qualità di riprese e inquadrature, creano un suggestivo intinerario nella storia terrena del Cristo, che corrobora lo spirito dei credenti, e riesce ad affascinare gli scettici.

a cura di Francesco Lo Dico

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cinema Steve, Simon MobyDICK

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di Anselma Dell’Olio

olpo di fulmine (il mago della truffa) è un film che sfugge alle categorie note, tanto da costringerlo a un percorso festivaliero di qualità, come Cannes e Sundance. Jim Carrey e Ewan McGregor sono i protagonisti di una storia troppo bizzarra per non essere vera; è l’avventurosa, estrema e rara storia d’amore omosessuale che non perora la causa con ricatti e piagnistei. Steve Russel (Carrey) è un bambino adottato che sa da sempre di essere gay. Tra la voglia di compiacere propria dei bambini salvati, la famiglia cristiana evangelica e l’ambiente conservatore texano, il ragazzo sceglie di fingersi «normale». Diventa poliziotto, sposa una donna dolce e devota (Leslie Mann), fa un paio di figli e suona l’organo in chiesa; fino a quando un grave incidente quasi mortale gli dà la scossa che lo convince a uscire allo scoperto. Pianta lavoro, famiglia e tradizioni e assume lo stile esibizionista ed euforico di chi si sente «liberato» da una vita di menzogne. Cerca la madre naturale ma lei non solo non ne vuole sapere del figlio respinto, è pure legata ad altri due figli che si è tenuta e goduta. Steve (Carrey) si dà a una vita trasgressiva spinta e s’innamora di un bel ragazzo che copre di regali costosi; per poterlo coccolare meglio, sfrutta le sue esperienze da sbirro per sfidare il codice penale: imbroglia, truffa e ruba per finanziare un grandioso, scintillante stile di vita, sfoderando uno straordinario talento da magliaro. Finisce in galera, e padroneggia subito la vita penitenziaria con la sua strabiliante capacità di manipolare le regole a suo favore. Un giorno arriva Phillip (McGregor), un nuovo detenuto: biondo, dolce, con gli occhi azzurri. Per Steve è il colpo di fulmine del titolo (in originale è I Love You Phillip Morris) e il delicato, pauroso biondino contraccambia subito. È il classico rapporto «co-dipendente», nel linguaggio psicoanalitico: Phillip è in cerca di protezione e Steve gliela offre su un piatto di finto argento. Con la sua trascinante, impressionante abilità nell’arte d’arrangiarsi pure al gabbio, Steve riesce a condividere una cella con il suo amato e a dargli ogni sorta di beneficio normalmente vietato in carcere, salvo per chi sa «gestire» il sistema. Le spavalde operazioni mariuolesche che mette a segno per uscire di prigione (e non una volta), liberare Phillip in anticipo e mantenere un tenore di vita consono con il suo titanismo sarebbero incredibili se non fossero documentate. Gli attori sono bravi ma manca la «chimica» tra due interpreti eterosessuali per rendere convincente la loro passione. Il film ha ritmo ed è molto divertente; non rovineremo il piacere di scoprire le svariate, rocambolesche pazzie di un personaggio alla disperata ricerca d’amore ma privo della capacità di conservarlo. La sola nota insulsa è la scritta finale, in cui s’incolpa George W. Bush, allora governatore del Texas, per la resa dei conti di un simpatico e incorreggibile bidonaro che se la tira addosso con tutte e due le mani, in perenne coazione a ripetere. Da vedere.

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e noi italiani

“Colpo di fulmine” è un’avventurosa storia d’amore gay che ha il pregio, oltre che divertire, di non perorare la causa con ricatti e piagnistei. Una chicca il “road movie” di Wald, mentre la “comédie humaine” tricolore dei Vanzina non si adatta ai dipietristi. Ma c’è altro ancora… Simon Konianski era una delle chicche dell’ora ridimensionata sezione Extra - l’altro cinema di Mario Sesti, al Festival del cinema di Roma. Ridotta da una quarantina d’opere miste a una decina di soli documentari, non vedremo più all’Auditorium piccole gemme narrative come questa, senza star e già passate ad altri festival, che rischiano di non trovare distribuzione in Italia. In questo onthe-road di formazione, il regista belga Micha Wald racconta l’evoluzione di Simon (Jonathan Zaccaï), un bamboccione di 35 anni, laureato in filo-

sofia, disoccupato, svogliato, depresso e cacciato dalla moglie, una focosa ballerina cubana molto goy. Il padre malato Ernest, un sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, accoglie in casa il figlio a pezzi che rifiuta l’identità ebraica, al punto di portare una felpa con una scritta filoaraba. I due zii Konianski, Maurice (Abraham Leber) e Mala (Iréne Herz), impiccioni e prodighi di consigli, desiderano solo che trovi una brava moglie ebrea e metta la testa a posto. Ernest (Popek) muore, lasciando al figlio l’obbligo di seppellirlo in Polonia, dove è

nato. Con pochi soldi, il viaggio si fa in auto, con gli zii chiacchieroni, il bimbo, un coniglio, il cadavere di Ernst e il suo fantasma parlante. Ci sono rimandi a metà tra il Woody Allen di Edipo relitto, episodio del film omnibus New York Stories, in cui la mamma appare in cielo e continua a vessare il figlio, e Little Miss Sunshine, un altro divertentissimo road movie famigliare con cadavere del papànonno a bordo. Il film di Wald, però, è più vicino allo spirito scanzonato di Sunshine, che allo sfiduciato nichilismo di Woody. Da vedere.

I fratelli Vanzina tornano con La vita è una cosa meravigliosa, commedia di costume che osserva vizi e vezzi degli italiani. Gigi Proietti è chirurgo in una clinica il cui proprietario finisce sotto inchiesta per i soliti impicci che riguardano la sanità. La moglie svampita del chirurgo (Nancy Brilli) lo convince a rivolgersi a un collega professore universitario, perché dia un aiutino all’esame di anatomia del figlio somaro. Vincenzo Salemme è il presidente di una banca, sotto pressione perché foraggi di fondi neri i soliti politici trafficoni. Enrico Brignano è un poliziotto addetto alle intercettazioni che cerca di incastrare i suddetti, e finisce fregato quando scopre che la fidanzata arrotonda facendo la squillo. Lungi dai due fratelli la voglia di denunciare e indignarsi; sono piuttosto osservatori divertiti e ottimisti della Comédie humaine in versione italica. Ironici e consapevoli, presentano gli italiani così come sono, come siamo tutti più o meno, figli di una cultura allergica al merito e all’olio di gomito, cultori della dea Raccomandazione, un po’ imbroglioni, furbetti, sempre a caccia di una scorciatoia. I Vanzina, schizzati dagli snob e amati dal pubblico, scelgono di lasciarci con un sorriso sulle labbra, anziché con la morte nel cuore. Si astengano i dipietristi. Gamer è un violento, trucido thriller avveniristico, in cui c’è un gioco seguito in tutto il mondo, in cui condannati a morte telecomandati da giocatori a distanza lottano per la sopravvivenza. Gerard Butler è un gladiatore incastrato da uno scienziato miliardario: deve salvare se stesso, la moglie schiava-prostituta (Amber Valletta) e la figlia rapita. Rumoroso, sboccato, ipercinetico. Il piccolo Nicolas e i suoi genitori è l’adattamento di un celebre romanzo francese per bambini di René Goscinny e Jean-Jacques Sempé. Racconta le avventure di un gruppo di compagni di scuola e del loro piano per scongiurare il paventato arrivo di un nuovo fratellino di Nicolas. Campione d’incassi in Francia, adatto a tutti i bambini. Nat e il Segreto di Eleonora è un’animazione europea sulle avventure di Nathaniel, la biblioteca piena di favole che eredita, e la combriccola di personaggi quali Alice, Peter Pan, Capuccetto Rosso e compagnia, che escono dalle pagine per aiutare Nat a imparare a leggere e salvare le favole dall’estinzione. Per bimbi piccoli. Evviva la Pasqua di resurrezione!


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poesia

L’Eternità svelata da Emily Dickinson di Roberto Mussapi na poesia visionaria e trasparente, quella di Emily Dickinson, americana (Amherst 10 dicembre 183015 maggio 1886), una delle voci più alte della lirica moderna. Quella che proponiamo qui si presta a una riflessione legata all’occasione che stiamo vivendo, tra Passione e Resurrezione. Non appare Cristo, in questi versi, l’incrocio delle due realtà, Passione e Resurrezione, si profila immediato al nostro mondo di uomini, come se la vicenda di Cristo fosse già accaduta, metamorfosandosi nell’uomo, o presentita, profetizzata prima della sua venuta nel tempo. Un caso straordinario di facoltà vaticinante della poesia: non predice il futuro, ma svela la verità in ogni tempo, passato, presente e futuro, svela nel senso letterale di togliere il velo, rivelare alla luce ciò che si presentava confuso o nascosto. La poesia, insomma, non riguarda essenzialmente il mondo del visibile, da cui parte e a cui molto attinge, pertiene essenzialmente l’invisibile, la parte invisibile del visibile, come a dire l’anima che crea la forma, e senza la quale la forma quindi non esisterebbe.

U

Era molto inoltrato il nostro viaggio: i nostri piedi erano quasi giunti a quella strana svolta sulla strada dell’essere che ha nome Eternità. Il nostro passo di colpo divenne timido, i piedi procedevano riluttanti. Davanti a noi c’erano città, ma nel mezzo la foresta dei morti. Nessuna speranza di tornare, dietro, una via sigillata. Davanti, il bianco vessillo dell’Eternità. E Dio a ogni porta.

Emily Dickinson (Traduzione di Roberto Mussapi)

Prima di entrare nel limpido enigma di questi versi è opportuna una rapida considerazione sul concetto di poesia visionaria: credo che, come diceva Socrate, quello del poeta non sia un vero mestiere ma un mestiere, o arte (il termine greco tekne li include entrambi) sui generis: la poesia accade quando un dio entra nel poeta e lo illumina. È evidente che l’uomo deve essere preparato a questa visita, abituato all’ascolto e alla traduzione della visione in immagini leggibili. La disciplina è insomma fondamentale, affinché non sfugga nella sua pienezza la visione. In questo senso ogni vero poeta è comunque visionario: anche l’irruzione di scene quotidiane di angoscia nel laico Montale (il cavallo stramazzato sul selciato, il muro d’orto che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia), sono vere e proprie visioni: la scena quotidiana si stacca dal tempo quotidiano e assume un valore immediato e universale. In alcuni poeti, diversi da Montale, come il grande Dino Campana, che guarda caso Montale amava molto, la visione è quasi necessaria, quotidiana. I poeti consapevolmente visionari, quelli che cioè accettano questa condizione come in qualche misura naturale o fatale, sviluppano un atteggiamento più teso e attento alla visione stessa, si abituano a conviverci, traducendola con sicurezza in immagini e storie che l’uomo possa comprendere per vie sensibili. È evidente, ad esempio, che senza un rapporto fraterno con la visione Dante non avrebbe mai potuto nemmeno concepire un’opera come la Divina Commedia, un viaggio agli inferi con la lunga risalita fino alla luce e al fuoco di Dio: è evidente che un’impresa simile non nasce dall’idea di un trastullo letterario. Dante, il più grande di tutti, manifesta una visionarietà piena, plastica, carnale e spirituale ai massimi livelli delle due realtà: le sue visioni si realizzano in quadri simili alla pittura di Caravaggio e al teatro di Shakespeare, basati sulla

straripante evidenza della rappresentazione. Molti poeti visionari, alle soglie dell’età moderna, coltivano la visione come possibilità di dilatazione, perdita e arricchimento dell’io: è il caso di Rimbaud. In Emily Dickinson la visione non è moltiplicatoria, ma verticale e trasparente: non brillano colori, immagini in movimento, non c’è la vertigine della visione vorticosa, piena di vento e turbini di acqua e luce di Dylan Thomas: la visone qui pare di stampo platonico, l’accesso alle alte sfere, la contemplazione di un paesaggio siderale pitagorico, astratto. Sentiamo come in questi versi domini un silenzio stellare, quando spesso il visionario, da Giovanni dell’Apocalisse a Dylan Thomas, è poeta del fragore, di un superiore ordine sinfonico. Qui pare di sentire l’ombra dai passi impercettibili che sentì l’uomo di Emmaus, la scena vede l’umanità in viaggio, (i nostri passi), tutta l’umanità, ma come rappresentata da una sola figura, quasi un’ombra. Quell’uomo, che tutti li rappresenta, aveva compiuto la sua strada per giungere non a una piazza, a una meta finale, ma a un’altra strada, detta Eternità. Un’eternità che non è chiusa, ma è un’altra strada, sconosciuta. Inebriante: il viaggio non ha fine, ma crescita infinita, per quanto misteriosa. E poi, nella strada dell’eternità, una città, che immagino la città celeste. E la foresta dei morti: nessun vivente può escludere la presenza della morte dal proprio orizzonte. E non si può tornare indietro, la strada alle spalle è sigillata. Davanti il bianco vessillo dell’eternità e Dio a ogni porta, pienezza assoluta. La foresta dei morti, la presenza incancellabile della Passione. Il bianco vessillo e Dio a ogni porta: il superamento di quella foresta grazie alla Resurrezione.

Il sogno della poetessa americana pare raffigurare il senso di vuoto, di vuoto sgomento che è inscindibile dalla Passione: noi non pensiamo solo al calvario, alle ferite, al sangue, alla corona di spine, agli sputi, alla spugna d’aceto, al grido di dolore. In noi è incancellabile l’immagine del giorno successivo: le donne si trovano davanti a un sepolcro vuoto. Quel vuoto è la chiave del mistero: la scomparsa del corpo, anche del corpo, delle vestigia di Cristo crea angoscia, l’angoscia del vuoto, dell’assenza. Ma subito l’angelo conferma la realtà di quel vuoto: è stato svuotato il sepolcro, è stata svuotata la morte. «Dio a ogni finestra» sembra ricollegarsi a quell’evento: oltrepassata la foresta dei morti è la morte stessa a svuotarsi, nel pieno rinato di una nuova vita. Qui la Dickinson scrive versi magistrali sul valore salvifico del vuoto e del silenzio, che divengono momenti di passaggio a una nuova pienezza. Penso ai versi finali di un famoso sonetto di Shakespeare «e morta la morte non c’è più il morire». O alla versione moderna di Dylan Thomas «and death shall have no dominion», «E la morte non avrà dominio». Che poi, il superamento della morte, vale a dire il significato della Resurrezione, è la spinta che muove ogni preghiera e ogni poesia, e anche solo ogni speranza sillabata in silenzio da labbra umane.


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il club di calliope

UN POPOLO DI POETI

SERA DI PASQUA

Come una falce La luna tagliente Recise fiori di stelle E le regalò alla terra Ma queste caddero E divennero pioggia Svanendo Nella notte di San Lorenzo

Ma se un Cristo discende su pareti di sangue, in croce, tra lumi indiscreti, il mio tempo è un’esanime pietà, la mia bellezza assunta a vanità.

San Lorenzo Alberto La Femina

Oh nei cancelli rosa della sera dove un’ala languente peccaminosa apre le fonti della notte, il barbaglio avviticchiato che crescere non osa!

Un tuffo al cuore. Lo schianto è in diretta sul terzo binario. Al ritmo di un’Ave inchiodi la testa sul finestrino. Arriva l’inverno e tu stai lì a prendertelo tutto in faccia senza tremare dal freddo e sapevi che non avrebbe fatto ritardo.

Il cavallo inaridito e leggero trascina la carrozza silenziosa dove una fronte adombra vaporosa al mondo rinunciato il suo splendore.

Laura Vallieri

Piero Bigongiari «Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma

IL DIFFICILE COMPITO DI ATTRAVERSARE CONTROCORRENTE in libreria

orrei che questo libro fosse letto come un racconto dell’attenzione e della cura, non come un saggio letterario. Non si discute alcuna teoria. Si indica, piuttosto un compito: il racconto dei libri, degli incontri che li hanno preceduti e accompagnati, come si cercano e si accompagnano le presenze nel corso dei nostri anni». Così scrive Sebastiano Aglieco, poeta che ama soprattutto la poesia degli altri, nella premessa a Radici delle isole (La Vita Felice, 203 pagine, 16,00 euro). Per Aglieco la poesia è compito e offerta. Compito di dare forma e senso; offerta del mettere le parole da qualche parte; lasciarle lì, malgrado noi, perché qualcuno le accolga. Aglieco con questo spirito entra nella poesia autentica redigendo un diario dei libri. Il bisogno di conoscere da vicino l’autore delle parole spinge Aglieco a inventare un modo originale di fare critica letteraria sulla poesia contemporanea. Nel mettere insieme i poeti e le loro storie, fatte di versi e soprattutto di esperienza, Aglieco preserva la scrittura per interessarsi della poesia che egli intende come cura dovuta a chi vuole parlare delle cose, fe-

«V

di Nicola Vacca

rendosi in esse. Nasce da quest’esigenza tutta interiore l’idea dell’autore di mettere insieme i nomi delle persone che ha incontrato nei loro libri. Senza mai smettere di essere nel tempo, Aglieco incanta il lettore con una prosa suggestiva sulla poe-

parole e delle cose, essa deve prima attraversare l’umanità tutta, non c’è scampo. Forse è in questo attraversamento che si logora e nello stesso tempo si rende necessaria. Da questo punto di vista, dunque, non si scrive per narcisismo - è pura illu-

Aglieco redige un diario dei libri, dove rivisita i poeti contemporanei incontrati nelle loro opere. Un modo originale di fare critica ma anche qualcosa di più... sia. Questo diario dei libri è un libro necessario, perché chi lo stila continua a credere con grande entusiasmo che ha ancora senso testimoniare la poesia. I poeti che Sebastiano Aglieco predilige sono quelli che considerano il fare poesia un atto collettivo del percepire e dell’essere percepiti, del chiedere e del dare conto. Insomma i poeti che sanno rendere conto del loro attraversamento, che sanno guardare le cose sporcandosi le mani con la vita. «Se la poesia è, in fondo, - scrive Aglieco - un dialogo col Nulla, con la natura deperibile delle

sione - ma per attraversarsi». Le dichiarazioni di poetica che piacciono a Sebastiano Aglieco sono quelle che remano controcorrente, che cercano nella parola non il compiacimento del canone, ma la ragione per testimoniare il passaggio del nostro essere qui e ora, perché «scrivere poesie è un gesto che ci lascia soli, nudi di fronte alle cose, agli altri, a noi stessi». Oggi che anche la letteratura è in pericolo l’esperienza di scrittura di Aglieco, che nasce dai gesti e dagli incontri che solo in seguito diventano libri, va preservata perché ripor-

ta all’attenzione soprattutto quella naturalezza del poeta che si avvale del linguaggio delle parole per affermare lo sporgersi dell’essere nel mondo senza maschera e soprattutto evitando di parlare al mondo sotto le mentite spoglie dell’affabulazione. Il poeta cui guarda Sebastiano Aglieco è colui che ha cuore la condizione della parola e che scrive perché sa di trovare nella corrispondenza misteriosa tra le parole e il proprio sentire la giusta via per agire mettendosi sempre in cammino verso l’altro, senza il quale non potrà portare a termine l’esperienza dell’ascolto da cui passa inevitabilmente la salvezza che ogni giorno sembra a tutti noi un traguardo irraggiungibile. Recentemente Adonis ha scritto: «La poesia è sempre contro: anzitutto contro il poeta, intendo contro la sua debolezza, sottomissione e arrendevolezza. Contro la macchina dello schiavismo nella società, che è una macchina infernale, contro la bassezza del mondo». Di questo è convinto anche Sebastiano Aglieco, quando in assoluta libertà scrive che se la parola si fa luogo di un «corteggiamento da puttane», meglio un poeta in meno se egli si fa servo del mondo.


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mostre

a vita nomade d’un recensore conosce strane connessioni, se non proprio coincidenze o contraddizioni. Ci è capitato, a poche ore di distanza, nella stessa giornata, di frequentare due episodi parelleli e apparentemente slegati. Eppure curiose connessioni-divergenze ce li hanno fatti accostare.Alla Scala è capitato di vedere, e di uscirne non irritati, ma infastiditi, la proprio stupida e gratuita non-regia spettacolare, anzi musical, del pochissimo, per nulla wagneriano Tannhauser del Fura del Baus. Che è stato un gruppo teatrale di grande genialità radicale, negli anni giusti, e ora è uno scadente epigono di sé, come ha già dimostrato l’infelice e inconsistente Ring «science-fiction» del Maggio Musicale. Ma qui va anche peggio: che senso ha voltare, senza nessun senso, l’ambiente gotico-medieval-Minnesänger in un Bollywood davvero ri-bollito e sciocchino, solo per far piacere all’indiano Zubin Mehta? Il quale supporta questi oltraggiatori d’ogni senso registico, con complice, stolta furbizeria, e accetta incomprensibilmente l’insulsaggine musicale di trapiantare il Venusberg sul Gange, di travestire i pellegrini che vanno a Roma da sgallentanti Hare Krishna e di fare del vecchio Maestro Cantore alto-tedesco Wolfram (l’autore di Parsifal!) un bonzo hindi, che non capisci più niente dell’opera. Attenzione, non è che siamo dei bigotti della regia, o «isottiamo» per abitudine, strepitando per gli aggiornamenti che posson pur esser sensati, come quelli che riesce a tramare, per esempio, un Ronconi, perché lì c’è l’intelligenza dell’opera e non poca fantasia. Ma allora, uno si chiede, perché alla ricca e rappresentativa mostra sul volto di Gesù (che si è aperta alla Venaria Reale di Torino, in concomitanza con l’ostensione della Sindone) se noi vediamo una serie ripetitiva di Cristi belli, biondi, zeffirelleschi, azzimati e occidentalizzati, invece del tipo bassotto e semita quale Cristo doveva esser probabilmente, perché non protestiamo contro il Mantegna o il Giambellino, contro Luca della Robbia o Rubens, contro Memling o Michelangelo? Che sono tra i molti protagonisti di questa regale mostra, curata da un intelligente sacerdote-storico dell’arte qualeTimothyVerdon, e che mai si sono posti il problema filologico di dipingere un Cristo geograficamente verosimile e «palestinese»? Certo, sino alla modernità, influenzata anche dal cinema (e c’è voluto un Pasolini per tentare una bellezza nuova e inedita, di compromesso, come quella assai intrigante del suo Gesù-Enrique Irazoqui, a confronto con quelli più edulcorati di Robert Powell, di Max Von Sydow o Jim Caviezel per Mel Gibson), nessuno si è posto davvero il problema d’esser fedele alla verità storica-geografica dei fatti

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Viaggio nel volto e nel corpo di Cristo di Marco Vallora

arti

raccontati dai pur reticentiVangeli. (Con l’eccezione forse di qualche fiammingo o di Antonello da Messina, anche se curiosamente il fratello di Giambellino, Gentile Bellini, a Costantinopoli ci è stato davvero, per dipingere il ritratto del sultano Maometto II, e i luoghi «veri» in fondo li ha conosciuti). Ma nondimeno nessuno ha sentito il dovere di rendere pittoricamente il Golgota credibile, o l’Egitto della fuga minimamente verosimile (palme sì, ma di oasi tra verde rigoglioso e datteri generosi) e una Galilea, che non fosse venetizzata, d’impianto leonardesco o duereriano. Per Barocci, per esempio, l’incontro-Noli me tangere con la Maddalena non avviene su uno sfondo di duro deserto, o al massimo di disorientate piramidi egizie, ma al cospetto del Palazzo Ducale di Urbino, progettato dal Laurana, nel Quattrocento umanista di Monsignor della Casa e Piero della Francesca! Rimosso questo problema anche un po’ superfluo (ma è interessantissima la tavola votiva a due scomparti di Anonimo Olandese, in cui al profilo affilato e barbato, stranito e medaglistico del Cristo benedicente, si affianca, in caratteri gotici, la trascritta, leggendaria Lettera di Lentulo. In cui si descrive dettagliatamente la fisionomia e la statura del Cristo: «i capelli color nocciola avellana non matura, lisci quasi sino alle orecchie, dalle orecchie crespi di riccioli»), ebbene la mostra di oltre 150 capolavori si propone come un interessantissimo viaggio dentro il corpo di Gesù (piagato, offeso, seppellito, risorto, ricoperto di unguenti, nell’insuperabile cimasa della Pala di Pesaro di Giovanni Bellini). Dentro il suo volto comunicativo e tormentato («sorridente, però non perde mai la sua gravità» suggerisce ancora Lentulo: «non è stato mai visto da alcuno ridere, ma piangere sì») e intorno al suo sacro «trasformismo» di personaggio imprendibile e «scandaloso». Lo vediamo così bambino benedicente o dormiente, tra le braccia pietose della Madonna, che «sa» e che nelle più diverse Annunciazioni accetta, con un «sì», suggeritole divinamente dalla Bibbia (che sta appunto leggendo, mentre plana l’Arcangelo Michele), questo concepimento, impensabile e decisivo, per la storia della fede. Riscattando il suo ruolo peccaminoso e subalterno di Eva. Così, filtrando da bassorilievi antichi ad arazzi rarissimi, da affreschi a codici miniati, da olii, sculture e oreficeria, ci inseguono gli occhi, ispirati e teneri, di colui che rappresenta per l’arte il più versatile «eroe» dall’iconografia mutevole.

Gesù. Il corpo, il volto nell’arte, Reggia di Venaria Reale, Torino, fino al 1 agosto. Catalogo Silvana

autostorie

Comincia dall’anima l’educazione alla guida di Paolo Malagodi dispetto di nome e cognome prettamente teutonici, Siegfried Sthor è tanto italiano da parlare con schietto accento romagnolo. Nato a Rimini nel 1952 da padre tedesco e madre emiliana, la sua carriera agonistica è iniziata a 14 anni con i kart, dove eccelse partecipando anche a diverse edizioni del campionato europeo e di quello mondiale. Per passare nel 1976 alle competizioni automobilistiche su pista e dopo che, nel 1975, il pilota riminese si è laureato con lode in psicologia a Padova. Segue l’esercizio, per cinque anni, della professione nei servizi sanitari mentre continua l’attività sportiva e con il predominio, tra l’altro, nel campionato italiano di Formula 3 nel 1978. Sino ad approdare, nel 1981, ai vertici della Formula 1 come compagno di Riccardo

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Patrese nella scuderia Arrows, con la quale disputerà 14 Gran Premi di quella stagione. Mentre è del 1982 la scelta di abbandonare le corse, ma senza appendere del tutto il casco al chiodo e per dedicarsi, primo in Italia, a tenere corsi per la guida sicura. Con la creazione di una propria azienda, denominata «GuidarePilotare», che in oltre ventisette anni e sull’autodromo di Misano Adriatico ha interessato più di 130 mila allievi, con lezioni mirate a condurre meglio l’auto sia in velocità sia in sicurezza. Secondo un metodo originale, non limitato a insegnare tecniche di guida riguardanti il comportamento del veicolo nei diversi frangenti, quanto piuttosto teso a far emergere le capacità mentali di previsione e autocontrollo più adatte a scongiurare incidenti. Caratteristiche che rendono unici i corsi del pilota riminese, come esperienza di guida

sportiva che porta a conoscere e dominare, nel contempo, le proprie emozioni in situazioni al limite o di emergenza, cui far fronte con reazioni e manovre appropriate. Sulla scorta di una metodologia che Siegfried Sthor ha progressivamente affinato, sommando alle esperienze agonistiche le proprie competenze psicologiche, affiancate dall’approfondimento degli studi di psicoanalisi e psicoterapia. In un curriculum di tutto rispetto, per di più affiancato da una vasta produzione pubblicistica che oggi si arricchisce di un manuale (La guida sicura: tecnica, psicologia e filosofia della guida, Fucina editore, 288 pagine, 19,00 euro), capace di affrontare in maniera completa e chiara le questioni che possono presentarsi quando ci si siede al volante, per suggerire anche il modo di affrontarle con il giusto equilibrio

mentale. «Perché la guida di un veicolo è spesso inquinata da esigenze irrazionali: fretta, competizione, scarso rispetto verso gli altri e infine non il vero piacere della velocità, ma la condanna moderna del nostro tempo alla velocità perenne. Tuttavia i manuali di guida, quei pochi che esistono, sembrano spesso lontani da una simile realtà - osserva Sthor - ed è in questo campo che si inserisce il mio contributo, che cerca di non essere arido e freddamente tecnico ma legato alla vita quotidiana, al nostro vissuto personale, al nostro modo di pensare; perché ho una conoscenza diretta delle cose della guida, aiutato anche dalla mia esperienza di psicologo. Ho imparato sbagliando, correggendo, dubitando e facendo. Ed ora che so quanto c’è da sapere mi stupisco ancora di fronte alla complessità dell’animo umano al volante di un’automobile».


MobyDICK

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architettura

Così si proteggono gli Uffizi dal rischio sismico a qualità e la dimensione del patrimonio architettonico disseminato sull’intero territorio nazionale richiedono un’azione costante di monitoraggio per verificarne lo stato di conservazione e per garantirne, con adeguata prevenzione, la salvaguardia. È un’azione conoscitiva onerosa, che richiede la presenza permanente di periti sul territorio, la conoscenza degli edifici, sia sotto il profilo tecnico costruttivo che storico. Una vigilanza che è necessaria, ma la cui efficacia riposa sulla capacità di interazione attiva tra discipline e ambiti conoscitivi diversi. Il terremoto del 6 aprile 2009 all’Aquila ha mostrato ancora una volta la fragilità delle architetture e delle opere

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La Torre di Piazza San Marco a Venezia. A destra, un corridoio degli Uffizi a Firenze fotografato da Candida Höfer

danza

di Marzia Marandola d’arte, danneggiate quando non distrutte dalla scossa. I danni, se in alcuni casi sono da attribuire a un’insufficiente manutenzione, in genere sono da imputare a interventi impropri, che hanno aggravato la condizione statica del monumento. Si è verificato infatti che, soprattutto nelle cupole, l’inserimento di cordoli di irrigidimento in calcestruzzo in opere murarie o la sostituzione dei tradizionali tetti a orditura lignea, con tetti laterocementizi, più pesanti e rigidi, hanno determinato uno stato di discontinuità materica tale da compromettere la statica, fino al crollo del manufatto. A questo nevralgico tema è rivolta la direttiva ministeriale del 2007 per la valutazione e la riduzione del rischio sismico, della specifica Direzione Generale del Ministero dei beni artistici e culturali (Mibac), allora diretta da Roberto Cecchi, che predispone linee guida di intervento sugli edifici storici. I risultati dello studio sperimentale che, approntato dal Ministero con il coordinamento di Laura Moro, ha visto la collaborazione di specialisti di tre università italiane - Roma Tor Vergata (Claudia Conforti), Iuav Venezia (Paolo Faccio, Anna Saetta), e Genova (Sergio Lagomarsino, Stefano Podestà) - sono stati discussi in un convegno a Venezia il 19 marzo. Sono stati presentati gli esiti di due importantissimi progetti pilota: quello sugli Uffizi di Firenze e quello sugli antichi campanili di Venezia. Le indagini conoscitive iniziate nel 2008 (2013 termine previsto) hanno intrecciato fecondamente professionalità e co-

Un inno alla vita nel nome di Pina Bausch di Diana Del Monte

a dodicesima edizione del festival Prospettiva Danza Teatro si è aperta mercoledì sera sul palcoscenico del Teatro Comunale di Padova Giuseppe Verdi con la Scuola di Ballo del Teatro alla Scala. In scena, un programma in tre parti che accostava Who Cares di George Balanchine, su musiche di Gershwin, all’ironico Synphony in D di Jirí Kylián, su musiche di Haydn. Fra i due mostri sacri della danza novecentesca, l’ensemble formato dagli allievi della scuola ha presentato Selene da Luminare Minus di Emanuela Tagliavia, insegnante di danza contemporanea dell’istituto scaligero dal 1999, su musiche originali di Giampaolo Testoni, suo collaboratore dal 2004. Dopo la serata inaugurale, gli appuntamenti del festival padovano andranno avanti fino al 25 maggio, ospitati, oltre che dal Teatro Verdi, anche dalTeatro alle Maddalene e nel Bastione Alicorno. Durante questo periodo, Prospettiva Danza Teatro si propone di aprire un’ampia vetrina sul mondo della danza, accostando agli spettacoli dal vivo, work-

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shops, letture, proiezioni e invasioni danzate all’interno della scuola secondaria. Così, accanto agli spettacoli della BeijingDance/ LDTX, primo esempio di formazione indipendente del mondo della danza professionale cinese; dell’Aterballetto, che metterà in scena il popolare Certe notti, produzione del 2009 su musiche di Luciano Ligabue; della compagnia Kaos Balletto di Firenze, con Corpi celesti, sono in programma un workshop di Danceability, punto d’incontro tra danzatori abili e diversamente abili, la proiezione di Scarpette Rosse di Michael Powell e Emeric Pressburger del 1948 e di La danse - Le Ballet de l’Opéra de Paris, documentario di Frederick Wiseman del 2009, una masterclass con i danzatori dell’Arsenale della Danza diretta da Ismael Ivo, direttore della Biennale Danza di Venezia, e un incontro con Simona Bucci, coreografa ed ex danzatrice della compagnia di Alwin Nikolais, che proporrà alcune letture per ricordare il lavoro del suo maestro.Tra gli appuntamenti più interessanti, Hello Pina!, una

parentesi interamente dedicata a Pina Bausch, coreografa scomparsa improvvisamente l’anno scorso per un tumore fulminante. Il cuore del progetto si svolgerà tra l’8 e il 9 maggio con un workshop di improvvisazione coreografica tenuto da Malou Airaudo, storica interprete del Wuppertal Tanztheater, e un incontro curato da Eugenia Casini Ropa, una delle voci italiane più autorevoli nell’ambito della storia della danza. «Come suggerisce il titolo - spiega Eugenia Casini Ropa - con questo progetto ci proponiamo di festeggiare Pina in modo un po’ diverso dal solito, ovvero mostrando di questa grande artista il lato più ironico, il suo amore per la vita». L’incontro, dunque, intitolato Un brindisi con Pina, sarà una serata all’insegna delle testimonianze e dei ricordi inerenti agli aspetti più teneri e positivi di questa artista, che evoca anche immagini angosciose. Per tutto il mese di maggio, poi, sarà possibile visitare la mostra di Francesco Carbone, fotografo ufficiale dell’artista, che esporrà alcune immagini inedite.

noscenze scientifiche diverse, alle quali hanno dato un contributo fondamentale le competenze degli organi di soprintendenza locali e centrali che hanno guidato, nei cantieri e nei sopralluoghi, il contatto diretto con la materia costruttiva degli edifici. L’approfondimento più ampio e articolato ha interessato il grande complesso cinquecentesco degli Uffizi fiorentini opera di Giorgio Vasari. Attraverso gli strumenti della ricerca storica, del restauro e della tecnica, unendo le diverse compe-

tenze e professionalità, sono state ricostruite con inedita precisione le fasi costruttive, dagli sterri di fondazione del 1560 alle opere di restauro seguite alla bomba mafiosa del 1993. Le tracce fisiche e le potenziali conseguenze in caso di catastrofe di queste fasi storico costruttive, accertate attraverso accuratissimi rilievi critici e modelli statici, costituiscono la premessa conoscitiva di una salvaguardia proiettata nel futuro.


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fantascienza

di Gianfranco de Turris i sarebbe da chiedersi, approfondendo il tema dal punto di vista sociologico e psicologico ma anche simbolico, il motivo per cui, a partire soprattutto da Il Signore degli Anelli (2001), sia così straordinariamente cresciuto il numero di film più o meno spettacolari, e non solo hollywoodiani, che potremmo definire non-realistici, e quindi di science fiction, fantasy, horror, ma anche di pura avventura con componenti decisamente fantastiche. Sembrerebbe che il XXI secolo sia partito all’insegna di quella famosa «fuga dalla realtà» che tanto faceva inorridire i critici impegnatissimi dell’epoca infausta dell’«egemonia culturale del Pci» (una definizione che - ormai nessuno se lo ricorda più - venne coniata all’inizio degli anni Novanta dal politologo liberale Nicola Matteucci, tra i fondatori de Il Mulino). «Fuggendo dalla realtà» - era la tesi si diceva addio alle proprie responsabilità ideologico-politiche nel presente per cercare un Altrove disimpegnato. Tesi vecchissima, risalente addirittura agli anni Trenta, se è vero come è vero che di questo venne accusato nientemeno che Tolkien quando pubblicò Lo Hobbit (1937). La sua risposta fu la conferenza, poi saggio, Sulle fiabe (1939) dove invece teorizzò l’«evasione del prigioniero» dalla prigione della Realtà grazie alla fantasia. L’«evasione», spiegò, non è la «fuga del disertore» dal campo di battaglia, ma la legittima ricerca di libertà al di là delle sbarre del carcere.

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Infatti, i mondi sub-creati dallo scrittore sono alternativi e autoconsistenti e in essi vigono valori fondanti diversi da quelli del mondo in cui si vive. Potrebbe essere questa la spiegazione del fatto che continuano ad apparire pellicole di questo tipo? La ricerca di Realtà Alternative più soddisfacenti rispetto alla quotidianità? Potrebbe essere, se intendiamo questo scopo esplicito o implicito, cercato volontariamente oppure esposto inconsapevolmente, valido anche per i film di tipo catastrofico e apocalittico: un memento per il futuro, una messa in guardia rispetto agli errori dell’oggi. Non solo, ma anche l’esposizione di una «visione del mondo» diversa. Spesso, a dire il vero, questa traccia si muove lungo strade scontate, ovvie e prevedibili, sovente «politicamente corrette», che strizzano l’occhio a movimenti di opinione diventati molto conformisti (ecologismo di maniera e radicale, spiritualismo alla New Age, buonismo stucchevole e scontato, ecc.), però, al di là di questo, ci sono film che meritano un approfondimento per capire quali siano le loro origini intellettuali e che cosa ci vogliono dire. Un caso esemplare è una pellicola recente circa la quale ci si può chiedere: fuga o evasione? E per rispondere occorre andare alle sue radici ispirative. Di solito, anche se non manca qualche eccezione, i film di science fiction, fantasy e horror hanno alle loro spalle delle fonti letterarie in genere esplicite ma assai più spesso implicite, non dichiarate. Ciò avviene non tanto per nasconderle (gli appassionati le scoprono subito) quanto semplicemente perché sono date per scontate: soggettisti e sceneggiatori angloamericani, influenzati inconsciamente da romanzi o racconti letti per anni frullano il tutto e ne traggo-

ai confini della realtà Fuga o evasione? MobyDICK

Il caso di “Codice Genesi” no qualcosa di nuovo. È successo con Avatar e succede con Codice Genesi di Albert e Allen Hughes, uno di quei film che conviene, appunto, approfondire dal punto di vista delle «fonti». Qui l’idea di base non è tanto la descrizione del dopo-catastrofe (qualunque sia stata la sua origine), quanto la trasmissione di cultura e religione attraverso un

Bradbury nell’immortale Fahrenheit 451: in una società del futuro, che odia i libri e che quindi li brucia perché essi non contengono la verità ma soltanto fantasie, fandonie e falsità, un gruppo di persone si ribella a tanta follia. Alla fine il protagonista Montag raggiungerà una isolata comunità di «uomini libro»: ognuno di essi è un libro perché se lo è imparato a

Non è un Altrove disimpegnato quello evocato dalla letteratura fantastica che è all’origine anche del film di Albert e Allen Hughes. Dove si racconta di un uomo-libro, che alla maniera di Ray Bradbury impara la Bibbia a memoria per poterla trasmettere a un’umanità post-apocalittica. Indicando così una via d’uscita mezzo che potrebbe sembrare desueto. Ma fra i resti di una civiltà che non può più disporre del medium cibernetico, telematico, informatico e digitale, resta solo… il libro, lo snobbato «supporto cartaceo». Sic-

ché, Eli, il personaggio principale, non è altro che uno degli «uomini libro» di cui ci ha parlato ormai sessant’anni fa Ray

memoria. Proprio come Eli, il quale, pur essendo stato privato del suo prezioso volume, è la «Bibbia di re Giacomo» (e come tale si presenta nella cittadella dei sopravvissuti), perché l’ha imparata a memoria, e quando l’avrà dettata integralmente potrà morire in pace. E infatti il titolo originale del film, The Book of Eli, non si deve tradurre Il libro di Eli, ma più esattamente La Bibbia di Eli, in quanto in lingua inglese il the Book per eccellenza e con la maiuscola è, appunto, la Bibbia. Egli è una specie di Messia che porta un Verbo dimenticato che, materialmente, ha ritrovato sotto un cumulo di macerie perché una Voce gli ha detto di cercarlo proprio lì. L’altro

punto di riferimento del film è Un cantico per Leibowitz di Walter Miller jr. (1959), un bellissimo romanzo, di recente ristampato nella collana Urania Biblioteca.Anche qui lo scenario è da dopo-bomba: la civiltà è stata distrutta e a mantenere viva la conoscenza ci pensano dei frati dell’Ordine Albertiano di San Leibowitz che nei loro monasteri sparsi negli ex Stati Uniti, proprio come durante il Medio Evo, trascrivono pazientemente i libri che rintracciano provvedendo a stamparli. Compito difficile perché cultura e scienza, considerate responsabili della catastrofe atomica, sono state bandite.

Lo stesso avviene nel mondo di Codice Genesi dove tutte le copie della Bibbia sono state distrutte (eccetto quella trovata da Eli) in quanto considerata fonte «ideologica» della misteriosa catastrofe. E così come nel romanzo, anche nel film le copie sono trascritte e stampate per preservare la conoscenza, grazie agli antichi torchi e alle vecchie linotype. La civiltà avrà così qualche speranza per poter riprendere il proprio cammino. Evasione dalla realtà, dunque, in un mondo postapocalittico dove, più che denunciare le cause di essa, se ne propone una via d’uscita culturale/spirituale indicando un mondo alternativo basato su valori diversi rispetto a quelli che hanno provocato la catastrofe. Sopra e a sinistra, Denzel Washington in “Codice Genesi”. Al centro, il fumetto originale


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Oggi la pratica dell’interruzione di gravidanza è troppo abusata Ogni tanto ritorna la diatriba sull’aborto e si rimpallano le solite conclusioni e riparazioni dialettiche. Pur essendo fermamente contrario all’aborto, debbo sottolineare che quando nacque il referendum sull’aborto e la successiva legge, le condizioni della società erano ben differenti. In sintesi molte giovani donne, ricorrevano all’aborto clandestino o a soluzioni peggiori, perché indipendentemente dalle scelte proprie, una gravidanza fuori dal matrimonio era difficilmente gestibile. Ora le cose sono totalmente cambiate, e si è arrivati alla pratica dell’interruzione della gravidanza forse troppo massiccia. Si dovrebbe ritenere che molte leggi di quegli anni sono state fatte in difesa della donna, e senza pensare che dopo 40 anni si sarebbe arrivato ad uno stato di confusione e una società che è cambiata di 360 gradi. Ricordo solo quei cartelli degli anni ’70, dove si citava la frase “meglio non nascere, che nascere indesiderati”: molti si sono scordati che dietro il problema dell’aborto c’era una condizione giovanile, che risentiva di cogenti scontri generazionali all’interno della famiglia. Per fortuna oggi non succede più perchè, nonostante le crisi, il livello tecnologico e il processo informatico e informativo della vita è migliorato, lasciando nel baule dei ricordi la sostanza vera dei problemi.

Bruno Russo

GRASSI. SONO TUTTI DANNOSI? I grassi son tutti dannosi per la salute? O meglio, gli acidi grassi, che sono i componenti fondamentali dei grassi (lipidi), hanno qualche ruolo nelle malattie cardiovascolari, nel diabete, nell’obesità e in certi tipi di cancri? L’Agenzia francese di sicurezza alimentare (Afssa) ha pubblicato un parere sull’apporto nutrizionale di questi acidi. Oggi non si dispone di dati scientifici soddisfacenti per affermare quale quantità e quale tipo di acidi grassi dobbiamo assumere al giorno per vivere in buona salute, spiega in sostanza Eric Bruckert, esperto nella prevenzione di malattie cardiovascolari. Secondo Bruckert servirebbero sperimentazioni di un’ampiezza tale che la tecnologia disponibile non consente. Quello che si può dire è che una particolare tipologia di acidi grassi, “i trans”, presenti nella margarina e nei dolci di pasticceria, sono gli unici grassi il cui effetto è d’aumentare il colesterolo cattivo e di ridurre quello buono. Anche le patate fritte (fast food) contengono una elevata percentuale di “trans”. Allo stesso modo è vivamente sconsigliato il consumo di olio di palma e olio di copra (cocco). Tale tipologia di grassi rende più rigide le membrane cellulari, può alterare il lume dei vasi e provocare malattie croniche o degenerative. Per il resto, l’Afssa ritiene che i grassi acidi tanto vilipesi possano essere assunti, ancorché in quantità ragionevole.

Primo Mastrantoni

TAXI, SI APPLICA ANCORA IL SOVRAPPREZZO A ROMA Il Tar l’aveva abolita ma si continua ad applicare. Ci riferiamo al sovrapprezzo di due euro, oltre la tariffa ordinaria, dovuta da coloro che salgono sui taxi in servizio alla stazione Termini. L’insegna con l’indi-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

LE VERITÀ NASCOSTE

Il Sol Levante invaso dai bamboccioni TOKYO. Il ministro italiano Renato Brunetta, reduce dalla battaglia persa in laguna, avrà di che consolarsi: i bamboccioni da lui scoperti hanno invaso l’estremo Oriente. La scarsità di nuove offerte di lavoro conseguenti alla crisi economica rischia di creare in Giappone una nuova e inedita generazione di studenti universitari fuoricorso, con un numero sempre maggiore di facoltà che offre ai propri iscritti di ripetere l’ultimo anno con una retta dimezzata. L’ultimo ateneo ad approvare ufficialmente la nuova opzione è l’università Aoyama Gakuin, nel cuore di Tokyo, che darà il permesso agli studenti in procinto di terminare gli studi il prossimo 31 marzo di restare in “stand-by” per un anno, pagando la metà delle tasse scolastiche, e rimandare al 2011 la laurea sperando in tempi migliori. «Se gli studenti hanno motivi legittimi per ritardare la laurea, come la ricerca del posto di lavoro - ha spiegato un portavoce dell’istituto - possono usufruire di questo sistema inteso come un periodo di preparazione». La tendenza sta prendendo forma come misura tampone per fronteggiare l’attuale congiuntura economica negativa. Ogni bamboccione ha il suo Paese.

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

Bangalore Hip Hop Le band hip hop locali sono un fenomeno in crescita a Bangalore, in India. I “Low Rhyderz” (nella foto) sono il primo gruppo che fonde elementi sonori indiani con i ritmi hip hop. Il risultato è qualcosa di mai ascoltato prima

cazione del costo aggiuntivo troneggia ancora sul marciapiede della maggiore stazione della capitale. La novità, si fa per dire, è che dal mese scorso il Tar del Lazio aveva annullato l’ordinanza con la quale si disponeva l’addizionale di 2 euro. Il supplemento era legato all’obbligo di turni fissi che imponevano, a rotazione, la presenza di un certo numero di taxi presso la stazione Termini. Non ci risulta che i turni fissi ci siano ancora, motivo ulteriore di eliminazione del sovrapprezzo. In attesa che si faccia una nuova ordinanza sulle tariffe, sollecitiamo il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, a ordinare la dovuta vigilanza affinché la decisione del Tar sia rispettata, e a disporre la rimozione del cartello con le vecchie tariffe aggiuntive.

Lettera firmata

ORDINE DEI GIORNALISTI: OSTACOLO PER LIBERTÀ ESPRESSIONE E INFORMAZIONE L’Ordine dei giornalisti ha sospeso per due mesi Claudio Brachino, direttore responsabile di Videonews, in relazione al servizio trasmesso sul magistrato Raimondo Mesiano. Quel video, frutto di un vero e proprio pedinamento del magistrato responsabile di una decisione sfavorevole al proprietario dell’emittente Silvio Berlusconi, era un goffo e quasi comico esercizio di ritorsione mediatica. Il dibattito politico che si sta sviluppando intorno alla decisione dell’Ordine sembra disquisire

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Collaboratori

Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,

Roberto Mussapi, Francesco Napoli,

Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

Mario Arpino, Bruno Babando,

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

John R. Bolton, Mauro Canali,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

Franco Cardini, Carlo G. Cereti,

Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,

Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,

Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,

solo sulla sanzione. Un dibattito sterile e inutile, perché l’Ordine dei giornalisti esercita le funzioni dettate dalla legge. Difficile stupirsi quando poi punisce qualche giornalista, magari della propria parte politica. La domanda che invece si dovrebbero porre politici, e soprattutto giornalisti, è sull’opportunità che debba esistere un Ordine dei giornalisti. Grazie alla legge corporativa che ha istituito l’Ordine, ci ritroviamo un’altrettanta corporazione che emette verdetti e sanzioni in merito alla qualità dell’informazione prodotta dai suoi accorpati. Un ruolo pericoloso che, in una democrazia che vorrebbe garantire il diritto costituzionale alla libertà di espressione, dovrebbe essere lasciato in mano ai singoli lettori e spettatori. Se quel giornalista ha realizzato un servizio di infima qualità o addirittura maliziosamente strumentale, il telespettatore perderà ogni rispetto verso di lui e cambierà canale. Se poi quel giornalista ha commesso qualche illegalità, saranno le autorità amministrative o giudiziarie a farsene carico. Davvero la corporazione, ovvero una “categoria professionale caratterizzata da una forte difesa dei propri interessi anche in contrasto con quelli della collettività”, é uno strumento utile a difendere la libertà di espressione di tutti quei cittadini, iscritti o meno all’Ordine, che vogliono esercitare il loro sacrosanto diritto di informazione?

Pietro Yates Moretti

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mondo

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Diplomazia. Trovato il punto di intesa comune fra le potenze del “cinque più uno”, Washington parla apertamente delle mire belliche degli ayatollah

Teheran, ultimo avviso Obama scioglie le riserve e annuncia al mondo “maggiori pressioni” contro l’atomica iraniana di Antonio Picasso er la crisi nucleare iraniana questa è stata una settimana di passione. Per chi è convinto che Teheran punti a un arsenale atomico, la speranza è che dai negoziati appena conclusi si arrivi a risultati capaci di contrastare le ambizioni del regime. Ieri il presidente Usa Barack Obama, intervistato dalla Cbs, si è dichiarato sicuro delle mire belliciste iraniane e che per questo “aumenterà le pressioni” in sede internazionale per bloccare un progetto che rischia di destabilizzare un’area mediorientale-centroasiatica già fonte di crisi. La fermezza di Obama ha costituito l’ultimo atto di una sequenza di confronti produttivi che si sono avuti appunto di in questi ultimi cinque giorni. Il summit franco-statunitense a Washington, al quale ha preso parte il presidente francese François Sarkozy, ne è stato l’inizio. Dal vertice è emersa una visione di intenti comune, tale per cui il cammino nucleare iraniano deve essere fermato il più in fretta possibile.

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La Francia, a suo tempo, si era esposta con un’offerta a Teheran di importare una parte dell’uranio iraniano nelle proprie centrali nucleari e di arricchirlo al 20 per cento, in modo che potesse essere utilizzato per esclusive finalità mediche. Si era tratta-

Una telefonata fra il presidente Usa e Hu Jintao apre il conto alla rovescia

Ma la decisione finale passa da Pechino di Pierre Chiartano n tempo c’era il telefono rosso, quello tra la Casa Bianca e il Cremlino. Oggi andrebbe bene comunque, per il colore e anche per la natura delle conversazioni – sempre di problemi nucleari si tratta – quando è Obama a chiamare il leader cinese Hu Jintao. Perché se di embargo si deve parlare per il dossier iraniano, il «buco» provocato dagli intensi rapporti commerciali tra Teheran e Pechino, andrebbe rattoppato. Per questo l’inquilino della Casa Bianca ha avuto una conversazione telefonica con il leader cinese, proprio nelle stesse ore in cui il capo dei negoziatori iraniani si trovava a Pechino per perorare la causa di Teheran. Dopo la telefonata, l’agenzia ufficiale Nuova Cina si è limitata a riferire laconicamente che «rapporti economici e commerciali sani e stabili tra la Cina e gli Stati Uniti sono nell’interesse dei due Paesi». Non una parola sul problema iraniano. La soluzione del dossier nucleare iraniano ruota sempre più intorno alle posizioni cinesi. Perché, mentre nelle ultime settimane gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali hanno spinto sempre più per nuove sanzioni Onu contro Teheran, Pechino, tradizionalmente contraria, prende tempo, nella speranza di rilanciare un negoziato mai decollato. E non si sbilancia troppo nemmeno davanti all’impegno personale di Barack Obama, che giovedì sera aveva chiesto al suo omologo Hu Jintao di lavorare assieme sulla questione nucleare del regime sciita. Eppure, qualcosa si muove. La Cina ha annunciato la sua presenza al vertice sulla si-

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curezza nucleare, il prossimo 12 e 13 aprile a Washington. E appena giovedì l’ambasciatrice americana all’Onu, Susan Rice, aveva confermato che Pechino aveva accettato di impegnarsi «in negoziati seri» alle Nazioni Unite sul dossier nucleare iraniano. È l’obiettivo finale su cui occorre concordare. Perché, se le sanzioni contro Teheran rappresentano il fine ultimo della comunità internazionale, «la soluzione pacifica» del contenzioso è invece lo scopo principale di Pechino. «Per l’Iran, la Cina continuerà ad operare per una soluzione pacifica», ha dichiarato il portavoce del ministero degli Affari esteri cinese, Qin Gang.

«Abbiamo sempre spinto per una soluzione pacifica e continueremo a spingere in questo senso», ha aggiunto il funzionario di Pechino. Una posizione interlocutoria che, secondo alcuni funzionari di Washington, citati dal New York Times, punterebbe a limitare al massimo le conseguenze di eventuali sanzioni internazionali contro Teheran. Sanzioni alle quali, in linea di massima, Pechino resta contraria. E non è un caso che la Cina abbia tenuto un atteggiamento morbido nell’incontro con il capo dei negoziatori iraniani, Saad Jalili, in missione nel Paese orientale. «Abbiamo sottolineato insieme in occasione delle nostre discussioni che quest’arma delle sanzioni ha perso la sua efficacia», ha potuto così dichiarare Jalili. Ma questa è una partita ancora tutta da giocare. La telofonata di Obama al leader cinese è avvenuta a bordo dell’Air Force One di ritorno da Boston. I due leader hanno parlato anche degli impegni del G20 per garantire la ripresa economica, delle relazioni bilaterali, messe in crisi di recente dalla decisione di Washington procedere alla vendita di armi statunitensi a Taiwan e dalla scelta di Obama di ricevere alla Casa Bianca il Dalai Lama.

to della “proposta di Vienna”, presentata congiuntamente da Parigi e Mosca, in occasione del vertice di novembre nella capitale austriaca presso la sede dell’Aiea, alla quale avevano preso parte anche i rappresentanti del “5+1”(i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu affiancati dal rappresentante del Governo tedesco). La disponibilità francese non era stata accettata da Teheran. Ne era conseguita una presa di posizione totalmente contraria, impostata sulla fermezza, da parte del Governo di Parigi. Oggi quest’ultimo si è allineato a Washington e ha esplicitamente dato il suo nulla osta per una nuova risoluzione sanzionatoria da parte dell’Onu contro l’Iran. Restando nell’ambito del Consiglio di Sicurezza, merita una sottolineatura il totale silenzio della Gran Bretagna. Londra si sta dimostrando evanescente in merito alla questione. Da una parte non può permettersi di andare contro gli Usa. Dall’altra teme, senza ammetterlo, che le nuove sanzioni incidano negativamente sugli interessi della British Petroleum (Bp). Quest’ultima è stata sempre iperattiva nella regione, in particolare nel confinante

Mosca ha ceduto alla Cina una partita militare che sembrava destinata ad Ahmadinejad. Per sottolineare che il Cremlino non vuole proteggere il regime Iraq. Secondo gli osservatori del settore però, tra il 2009 e quest’anno l’output della Bp ha subito una flessione dell’1 per cento, proprio a causa dell’instabilità del quadrante mediorientale e che solo su una proiezione quinquennale se ne può prevedere un recupero. Il settore petrolifero britannico quindi - che resta comunque protetto grazie alle sue riserve del Mare del Nord - paga lo scotto dell’allineamento diplomatico del Governo Brown. Il pieno consenso alle sanzioni è giunto anche dalla Russia. Mosca si è sentita dileggiata da Teheran quando quest’ultima ha rigettato la “proposta di Vienna”. Fino ad allora il Cremlino - sponsor politico nonché fornitore tecnico e materiale del nucleare iraniano - aveva spinto affinché venissero tenuti aperti i negoziati. Poi il cambio di rotta. È anche vero che stiamo attraversando


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Dopo il nucleare, anche la trivellazione al largo delle coste per cercare nuovo petrolio

E ora la Casa Bianca copia il piano di McCain di Alessandro Tapparini così l’America di Obama trivellerà i propri fondali marini alla ricerca di petrolio. Non lungo la costa pacifica, ma lungo buona parte di quella atlantica, e nel Golfo del Messico. La speranza, solo parzialmente confessata, è di aumentare l’offerta di petrolio facendone scendere il prezzo, per una volta senza dover comprare la collaborazione di qualche discutibile regime mediorientale. E magari anche di darsi una mossa a fronte dell’attivismo degli altri protagonisti della scacchiera mondiale (basti pensare agli accordi della Cina con il Venezuela di Chavez e il regime cubano di Castro). Le associazioni ambientaliste, l’hanno naturalmente, presa malissimo. Per la seconda volta, Obama ha tradito le aspettative dei “verdi” ed ha sposato la politica energetica dei repubblicani. Durante la campagna elettorale del 2008, era stato il suo avversario John McCain a proporre di por fine alla moratoria che dal 1982 vietava di trivellare i fondali al largo delle coste statunitensi per sfruttare nuovi giacimenti di petrolio. Fu il primo momento dall’inizio della campagna elettorale in cui McCain riuscì a “scaldare i cuori” dello zoccolo duro repubblicano, mentre Obama inizialmente sottovalutò la popolarità di una simile proposta, snobbandola apertamente. Ma anche tra gli elettori democratici la proposta di McCain risultò talmente popolare che pochi giorni dopo, all’inizio di agosto, Obama si vide costretto a stemperare la sua contrarietà, dicendosi disponibile ad un superamento della moratoria purché ben limitato e ricompreso in un più ampio piano energetico. Nel frattempo, però, la questione veniva messa ai voti al Congresso, ed il candidato democratico si trovò invischiato nella opposizione di gran parte dei parlamentari del suo partito; mentre i deputati repubblicani, per la prima volta galvanizzati da una sortita del loro candidato, occupavano fisicamente l’aula per protestare contro la decisione della Presidente della Camera Nancy Pelosi di rimandare a dopo la pausa estiva il voto sull’abrogazione della moratoria.

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una congiuntura positiva nelle relazioni bilaterali fra Mosca e Washington. Le due superpotenze nucleari stanno raggiungendo un nuovo accordo per un’ulteriore riduzione dei propri arsenali bellici. Si ipotizza la firma infatti di uno “Start III”. A questo vanno aggiunti la maggiore disponibilità degli Usa a rinunciare alle sue basi missilistiche in Europa orientale e la crescente necessità russa di una cooperazione internazionale per contrastare il terrorismo jihadista, soprattutto in Caucaso e Asia Centrale. Per il Cremlino quindi la rinuncia ad appoggiare Teheran val bene una nuova fase di distensione con l’Occidente.Infine si arriva all’incognita cinese. Finora Pechino ha rappresentato un ostacolo invalicabile, il cui potenziale veto ha impedito alla diplomazia Usa di arrivare al Palazzo di Vetro e presentare una mozione sanzionatoria contro l’Iran. Stando però ai recenti scambi di opinione tra i rispettivi leader dei due Paesi - in particolare la telefonata fra Obama e il suo omologo cinese Hu Jintao - anche quest’ultimo nodo si starebbe sciogliendo. Un ottimismo, questo, che è stato sottolineato dal Ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner. Ieri una nota del Quai d’Orsay parlava apertamente della disponibilità di Pechino a “discutere una bozza di un testo per il varo delle sanzioni”. A questo è seguito tuttavia un raffreddamento degli animi da parte del Governo cinese, il quale né ha smentito Kouchner né gli ha dato ragione. La sua linea quindi resta all’insegna del riserbo.

D’altra parte due elementi, completamente separati fra loro e altrettanto lontani dalla questione iraniana, potrebbero far ipotizzare che i calcoli attualmente in corso in Estremo Oriente propendano per un nulla osta alle sanzioni. Prima di tutto la più che consolidata partnership economica Usa-Cina non merita di essere messa in discussione a causa di una crisi regionale com’è quella iraniana. Inoltre è sempre di ieri la notizia della fornitura dalla Russia alla Cina di 15 divisioni di sistemi missilistici di difesa terra-aria “S-300PMU-2 Favorit”. Guarda caso gli stessi vettori che Mosca aveva promesso a Teheran, ma che a quest’ultima non sono mai arrivati, proprio per il suo rifiuto della “proposta di Vienna”. Possibile quindi che il via libera cinese desiderato da Washington passi attraverso un contratto di armamenti made in Russia?

annunciava di aver scelto come vice la giovane Sarah Palin, allora semisconosciuta, ma subito apprezzatissima dalla “base”, governatrice dell’Alaska che è uno degli stati che sarebbero stati maggiormente interessati dalle nuove trivellazioni.

Nel settembre del 2008, la maggioranza democratica alla Camera votò una (assai) parziale abrogazione della moratoria; ma appena una settimana più tardi i deputati democratici si arresero e annunciarono che la

le che la riforma venga subito abrogata, mentre solo il 42% si vede con sfavore questa ipotesi. Che la politica energetica rappresentasse il fronte sul quale Obama intendeva arginare la prevedibile emorragia di consensi al centro, lo si era capito a metà febbraio, quando il presidente aveva scioccato l’America e il mondo con l’annuncio di finanziamenti federali alla costruzione di nuove centrali nucleari, altra proposta che in campagna elettorale era stata sostenuta dal suo avversario, da lui snobbata. In un discorso tenuto in Missouri il 18 giugno 2008, soprannominato “dichiarazione d’indipendenza energetica”, John McCain aveva proposto la realizzazione di quarantacinque nuovi reattori nucleari entro il 2030 (attualmente negli Usa ce ne sono 104 e in Europa 197). Ora, dopo aver sposato il programma di McCain sul nucleare, Obama ha rincarato la dose rilanciando l’offsho-re drilling. Lo ha fatto sottolineando che si tratta di “una fase di sperimentazione”, che non risolve certo il problema ma serve solo a puntellare la transizione verso la terra promessa green economy della quale l’attuale inquilino della Casa Bianca non cessa di professarsi volonteroso costruttore. Ma nemmeno in questo il piano di Obama differisce granché dalla proposta che in campagna elettorale era sostenuta dall’avversario repubblicano.

La speranza è quella di ridurre la dipendenza dal greggio mediorientale. Ma gli ambientalisti gridano al tradimento delle promesse fatte in campagna elettorale

Nel frattempo, si teneva la convention repubblicana di St. Paul, dove McCain, tra i cori osannanti “drill, baby, drill” (trivella, ragazzo, trivella)

moratoria, in scadenza alla fine del mese, per la prima volta non sarebbe stata rinnovata, rimettendo ogni decisione nelle mani del prossimo presidente. Il quale ha ora preso posizione sposando definitivamente questo punto del programma repubblicano in ambito di energia. Le ragioni di questa sortita sono facilmente intuibili. Con l’approvazione della riforma del sistema sanitario, Obama ha conquistato un successo epocale, ma ha anche consumato una fatale rottura con l’opinione pubblica moderata. Il Presidente ha rivendicato di aver compiuto un passo avanti nella realizzazione dell’american dream paragonabile alle leggi che negli anni Sessanta posero fine alla segregazione razziale, ma le rilevazioni demoscopiche di questi giorni lasciano intendere che la maggioranza degli elettori non considera la riforma in questi termini. Secondo un recente sondaggio commissionato dalla Cnn, il 56% degli elettori è contrario all’ObamaCare e solo il 42% è favorevole; secondo la Gallup, i contrari sarebbero il 50%, ed i favorevoli il 47%. Per Rasmussen, il 54% degli elettori vuo-

Il principale consulente di McCain sulla politica energetica era James Woolsey, già direttore della Cia durante il primo mandato presidenziale di Bill Clinton, poi membro del Project for a New American Century, quindi animatore del think-tank Set America Free (“Liberiamo l’America”; dalla dipendenza dal petrolio, s’intende). In base ai consigli di Woolsey, il senatore dell’Arizona promise che se eletto alla Casa Bianca si sarebbe battuto per ridurre le emissioni inquinanti entro il 2012 anno in cui spirerà il Protocollo di Kyoto, ma anche il mandato del 44esimo presidente - al livello in cui si trovavano nel 2005, ed entro il 2020 a quello del 1990, il tutto con un programma di disincentivi all’utilizzo delle energie “tradizionali”, e di incentivi a quelle alternative, a cominciare proprio da quella nucleare. Per l’appunto.


cultura

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Approfondimenti. La Risurrezione tramandata dai Vangeli fu oggetto sin dall’inizio di dubbi e teorie strampalate: una tendenza che arriva immutata ai giorni nostri

Pasqua, i falsi testimoni Media e best seller propinano continue rivelazioni, ma l’archeologia conferma la veridicità delle scritture di Osvaldo Baldacci ltre tombe di Gesù, addirittura ossuari dei suoi resti, documenti veri e presunti che raccontano una Passione diversa, persino senza la morte, archeologi, registi e best seller che ci raccontano una loro verità alternativa. È Pasqua, e da due millenni esistono tentativi di dare spiegazioni diverse di quella notte di due millenni fa. Versioni non ortodosse che sembrano tornate di moda, almeno nei mass media. «Se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede», dice senza mezzi termini San Paolo nella prima lettera ai Corinzi, 15,17, «Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti».

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La Risurrezione di Gesù è il centro della fede cristiana. I quattro Vangeli sono incentrati sulla Pasqua e da essa derivano e traggono luce. Un quarto di ogni Vangelo si concentra sui tre giorni della Passione, cui tutto il resto è preparazione. E la Risurrezione è il cuore pulsante dell’annuncio, è ciò che illumina il resto, gli dà senso, speranza. È ciò che fonda la fede, quello che ha spinto i testimoni di quegli eventi misteriosi a raccontarli fino a dare la vita per non tradire quella verità. Senza l’alba della Risurrezione, le ore che precedono sono solo momenti di infinita sofferenza, di buio, di torture fisiche insopportabili, di disperazione, di fallimento. È la Pasqua di Risurrezione che fonda duemila anni di cristianesimo. Il kerygma, il primo annuncio essenziale della fede cristiana, il più antico, si incentra su Gesù risorto. Prima ancora della stesura dei Vangeli, il kerygma si ritrova in due passi fondamentali. Nel primo discorso dopo la Pentecoste, Pietro subito afferma: «Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e se-

gni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete – dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in

che si sono addensate le più dure opposizioni, la ricerca di elementi per smontare la ricostruzione evangelica, il tentativo di annullare tutto il centro della fede cristiana e della forza della Chiesa. Ma quel che colpisce è che non sono stati tutti attacchi venuti solo da fuori, dai nemici della Chiesa, ma spesso anche dall’interno del cristianesimo, da chi ha cercato vie personali per normalizzare gli eventi di quei giorni. E nei tempi recenti il tentativo di fare sensazionalismo attaccando la credibilità di quell’evento cruciale ha portato a molti titoli sui giornali e in televi-

che certo stride con altri dati, come quello che quegli stessi discepoli si sono fatti tutti uccidere per difendere quella che sarebbe stata una bugia da loro stessi creata. Analogamente poco fondate sono ritenute dagli scienziati le tesi che parlano di allucinazioni o di morte apparente, ma come dicevamo questi sono temi per un altro lavoro.

Veniamo invece al discorso della tomba. Qualcuno è arrivato a sostenere che semplicemente gli apostoli sbagliarono tomba, e da questo derivò la loro eccitazione. Facile ribattere che una tale cantonata – se fosse minimamente verosimile in

Le antiche dietrologie non divergono da quelle moderne: il corpo fu trafugato, la tomba sbagliata, la morte apparente...

suo potere. ... Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni». ( Atti degli Apostoli 2,22.32.36). E il testo scritto più antico del Nuovo Testamento – secondo molti studiosi già entro dieci anni dall’evento – è quello di Paolo, che sintetizza il cristianesimo: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto» (Prima lettera di San Paolo ai Corinzi, 15, 3-8).Tutto si regge su quell’evento misterioso del mattino di Pasqua.

Eppure… Eppure fin dall’inizio è proprio su questo evento

sione, con presunti sensazionali scoop archeologici. Vediamo a che punto stanno le cose da questo punto di vista, lasciando ad altre sedi il compito di sviluppare le tematiche di fede e teologia. Se l’annuncio della risurrezione è stato fin da subito il centro del messaggio evangelico, l’altra faccia della medaglia – che in qualche modo è anche una conferma – è che da subito gli oppositori del cristianesimo e anche i“dissidenti”si sono impegnati nella negazione del ritorno alla vita di Gesù. Le tesi antiche non divergono poi tanto da quelle moderne: il corpo fu trafugato, la tomba sbagliata, si creò un mito posteriore, addirittura la morte fu solo apparente. Dall’antico sinedrio e dai primi gnostici ai moderni best seller e agli scoop archeologici, le linee essenziali sono sempre le stesse. Sono gli stessi Vangeli – quello di Matteo, 28, 11-15 – a raccontare che quando le guardie messe al sepolcro andarono a riferire ai sommi sacerdoti e agli anziani vennero corrotte: «Dite che di notte sono venuti i discepoli di lui e l’hanno portato via». A Nazareth è stato ritrovato un editto romano che minacciava punizioni a che avesse asportato corpi dalle tombe. Ancora oggi alcuni commentatori ipercritici difendono questa tesi,

un primo momento, cosa che non è – sarebbe stata immediatamente svelata e addirittura sbeffeggiata dai rivali dei primi cristiani, prima di tutto quel sinedrio che aveva voluto la morte del profeta scomodo, nonché gli stessi romani che non erano abituati a farsi prendere per il naso. Per altro il Vangelo è preciso nell’indicare

la tomba proprio di un membro del Sinedrio, Giuseppe di Arimatea, cosa che rende impossibile che il luogo non fosse noto e facilmente identificabile. E allora qual è il luogo della tomba vuota di Cristo? È proprio quello dove poi nel IV secolo è sorta la Basilica del Santo Sepolcro tutt’ora meta numero uno dei pellegrinaggi cristiani? Su questo gli studiosi degli ultimi due secoli si sono arrovellati, e la conclusione pare essere che sì, proprio quella è stata la tomba di Gesù. I cristiani che vogliono venerare quel luogo sono in debito non

In queste pagine, alcuni dei più celebri dipinti legati alla Passione e alla Risurrezione del Cristo


cultura

solo con l’imperatore “cristiano” Costantino, ma soprattutto con un imperatore pagano. Fu infatti Adriano a creare le condizioni perfette per conservare intatta la tradizione che i primissimi cristiani di Gerusalemme tramandavano. Quando infatti durante l’ennesima rivolta ebraica contro i romani Gerusalemme venne nuovamente distrutta nel 134 d.C. (dopo la prima celebre devastazione del 70 d.C.), Adriano si mise in testa di fare le cose per bene, e infatti a quell’evento si data la diaspora ebraica. L’imperatore rase al suolo la capitale e la rifondò come colonia romana, Aelia Capitolina. Il tempio stesso, saccheggiato da Tito 70 anni prima, venne distrutto e riconvertito a luogo sacro pagano. Lo stesso avvenne con altri luoghi di devozione a Gerusalemme, compresi i

luoghi venerati dai cristiani. Così Adriano segnò i luoghi della Crocifissione e del Santo Sepolcro (che inizialmente erano poco fuori la cinta muraria di Gerusalemme, mentre furono forse già Erode Agrippa, poi i crociati e i turchi a costruire le attuali mura che non a caso includono quell’area sacra) con il sacello e la statua di Venere, rimasti per più di un secolo a indicare i luoghi esatti della Passione di Gesù. I cristiani del posto non dimenticarono, e seppero indicare con precisione i luoghi santi a Costantino e sua madre Elena, che avviarono lavori che infatti riportarono esattamente alla luce il Golgota e lì vicino una tomba nuova e vuota. Intorno a questi elevarono la prima basilica del Santo Sepolcro. Un altro ritrovamento archeologico smentisce un’altra delle critiche che è stata elevata alla tradizione: un condannato crocifisso non poteva essere sepolto. Invece si sa che capitava che i corpi potessero essere restituiti ai parenti, ed infatti nel 1986 è stato ritrovato un altro uomo crocifisso – Jehohanan figlio di Hagakol – sepolto nel primo secolo a Giv’at ha-Mivtar, a nord-est di Gerusalemme. E allora cosa si può dire delle ipotesi alternative sulla tomba di Gesù? Partiamo dalla famosa “Tomba del Giardino”, scelta dal generale Gordon nel XIX secolo, che per alcuni sarebbe il vero luogo di sepoltura e dove ancora vengono portati in visita alcuni pellegrini. La tomba, come altre, è molto interessante e utile perché mostra come era una tomba dell’epoca, e probabilmente proprio quella di Simone passata a Gesù. Ma praticamente tutti gli studiosi sono d’accordo sul fatto che la topografia dei luoghi e la tradizione non lasciano

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per farli rientrare nel suo progetto di dimostrare che quella era la tomba di Gesù, un carismatico leader del tutto umano, morto ma non risorto. Cameron arriva a sostenere che in origine nella tomba di Talpiot era presente anche un altro ossario che aveva fatto notizia: quello di Giacomo figlio di Giuseppe fratello di Gesù, tirato fuori da un collezionista di oggetti antichi nel 2002. Ma qui si è andati troppo oltre. Quest’ossuario esiste dal 1976, prima dell’apertura della tomba di Talpiot, e soprattutto si è rivelato in parte un falso, proprio nella parte decisiva: la frase “fratello di Gesù” è stata aggiunta dal falsario. Ci sono poi altre tombe di Gesù che appartengono però più alla curiosità che alla storia. Il movimento islamico settario degli Ahmadis è uno di quelli che riprende il fatto che Gesù non sia morto in croce. Per loro ovviamente è un profeta ma non Dio. E dove sarebbe sepolto? Ovviamente a casa loro, in una moschea di Srinagar, in Kashmir, dove si sarebbe ritirato e sarebbe morto a 120 anni di età. Questa vicenda indiana interessa più che altro solo perché è una delle tante versioni che negano non solo la risurrezione ma anche la morte in croce di Gesù. Un filone che di recente, mescolandosi ad altri, ha fatto la fortuna di molti best seller, influenzando anche le fantasiose creazioni di Dan Brown e dei vari Baigent, Leigh e Lincoln e simili, che ad esempio tra le altre sostengono la tesi di un Gesù umano che con la Maddalena avrebbe dato vita a una dinastia reale trapiantata in Francia, i merovingi. Nel groviglio di queste teorie a volte Gesù è semplicemente morto sulla croce, altre volte vi è scampato. Peccato però che si tratta di fiction basata su documenti falsi (quelli di Plantard sul Priorato di Sion) e interpretazioni soggettive, senza nulla di documentabile. possibilità a questa tomba di essere quella vera. Ben più clamorosi e pubblicizzati alcuni ritrovamenti più recenti. Ritrovamenti che avrebbero non solo la pretesa di spostare la collocazione della sepoltura di Gesù, ma anche di negare la sua risurrezione, in quanto conterrebbero il suo ossuario. Grande clamore venne sollevato da una tomba di Talpiot scoperta nel 1980, pubblicata nel 1994 e “rilanciata” nel 1996 da un documentario della Bbc e di nuovo nel 2007 nientepopò di meno che da James Cameron, un sepolcro di famiglia con dieci ossuari di cui sei con nomi incisi: tra questi, Gesù figlio di Giuseppe, Maria, Giuseppe, Mattia, Giuda figlio di Gesù, Mariamene detta Mara.

Nomi suggestivi che hanno destato il clamore dei titoli dei mass media, ma che nessuno studioso serio ha preso in con-

siderazione: si tratta di nomi tra i più comuni della Giudea di quell’epoca (è stato calcolato che la probabilità di trovare un Gesù figlio di Giuseppe è di una su 240 circa), senza nessuna relazione con la famiglia di Gesù Cristo. Un’altra iscrizione funebre di un Gesù figlio di Giuseppe era già emersa nel 1931, senza tanto scalpore. Ciononostante la tomba di Talpiot ha avuto l’onore di essere pubblicizzata dal famosissimo regista James Cameron – quello di Titanic e Avatar – che nel 2007 si impegnò in un documentario per Discovery Channel che voleva essere rivoluzionario, The lost tomb of Jesus. Ma evidentemente è più fortunato con la fiction che con la storia. Cameron infatti oltre a forzare la mano con ricostruzioni considerate inattendibili da tutti gli esperti, si dà la zappa sui piedi quando modifica le informazioni su alcuni ossuari

Più interessante è invece un vero e clamoroso ritrovamento di questo decennio: quello del Vangelo di Giuda Iscariota. Documento autentico, che però non cambia la storia di Gesù come alcuni media hanno voluto dire. Bensì rivela il modo di pensare di alcuni gnostici. Per loro la materia è male e Gesù è solo vero spirito che vuole essere liberato del corpo. Giuda quindi è il vero discepolo di Gesù, perché facendolo crocifiggere lo libera, e la risurrezione non ha il senso che le dà il cristianesimo, ma quello di fuggire dal male della materia. Al contrario alcuni ritrovamenti archeologici meno pubblicizzati confermano i dati storici del Vangelo, come l’iscrizione che riporta il nome di Pilato a Cesarea emersa negli anni ’60 e la tomba, forse del gran sacerdote Caifa, ritrovata nel 1990 a Gerusalemme.


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il personaggio della settimana

Il Bin Laden ceceno che fa tremare Putin Per sopravvivere al rastrellamento di Mosca, ha ordinato al suo popolo di abbracciare il terrorismo islamico. Sperando in un Paradiso che i dotti musulmani stanno smantellando di Vincenzo Faccioli Pintozzi l leader della guerriglia cecena, il ribelle Doku (o Dokka) Umarov, è uno dei personaggi più interessanti e controversi del mondo contemporaneo. La sua battaglia per l’indipendenza territoriale del segmento caucasico noto come Cecenia ha infatti sposato nell’ultimo decennio l’islam radicale: forte dell’esempio dello “sceicco del terrore” yemenita, quell’Osama bin Laden ancora nascosto sulle montagne pakistane, Umarov ha mescolato jihad coranico e la propaganda di stile ottomano con il desiderio di staccarsi da Mosca e l’orgoglio nazionalista che caratterizza le etnie dell’area caucasica. Uno stratagemma abbastanza intelligente, per quanto oramai abusato, che consente a un ottimo leader militare di disporre di un pressoché sterminato esercito di invasati pronti a tutto. E le due vedove nere che si sono fatte esplodere nei sotterranei della capitale russa, di cui una pare diciassettenne, lo dimostrano senza ombra di dubbio. Il carisma di Umarov nasce dalla prima guerra della Cecenia in era post-sovietica, combattutasi al tramonto del 1994: uno fra i tanti feroci ufficiali di rango medio, il leader sopravvive alle rappresaglie moscovite e sparisce nel nulla per circa due anni.

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Da allora, la sua fama inizia ad aumentare in tutta l’area del Caucaso settentrionale, da cui riuscirà a far partire un reclutamento selvaggio che lo pone a capo di un imprecisato, ma sembra enorme, numero di militanti. Alcune fonti sostengono che la milizia a disposizione del comandante non superi le tremila unità: altri, più credibili, parlano di circa diecimila uomini; lui si tiene sul vago, ma accenna ai centomila. Dalla causa primaria dell’indipendenza cecena, Umarov arriva a concepire negli anni della caduta dell’impero sovietico un piano molto più

ambizioso, che prevede uno Stato islamico indipendente - o per meglio dire un Emirato - che comprenda il Caucaso settentrionale, una grossa porzione della Russia meridionale e l’intera regione del Volga. Per questa ragione abbraccia il jihad, la “guerra santa” contro gli infedeli, e si auto-proclama “Emiro del Caucaso”. I suoi vaneggiamenti sono puntellati da esplosioni, per la maggior parte rivolte contro i civili: dopo aver ripudiato per anni il terrorismo, lo abbraccia definendolo «l’unica arma legittima contro l’indifferenza della popolazione russa davanti alla repressione russa in Cecenia. Una repressione che pagheranno con il sangue e con la sofferenza».

Doku Umarov nasce nell’aprile del 1964 nel villaggio di Kharsenoi, limbo della provincia meridionale cecena di Shatoi Raion, in una famiglia che lui stesso ha definito «borghese, composta da membri della cosiddetta intellighentsia». Si laurea presso la Facoltà di Ingegneria edile presso l’Istituto del petrolio di Grozny, una struttura accademica filosovietica. Quando esplode la prima guerra fra la Russia e la Cecenia, nel 1994, si trova a Mosca: secondo le sue stesse parole, «era un dovere patriottico e morale tornare a casa, per combattere contro i russi». Dalle fila degli ufficiali del medio rango in cui viene inserito, grazie al suo diploma universitario, Umarov emerge nel 1996: alla fine del primo conflitto caucasico, infatti, è già ritenuto un comandante capace e coraggioso, in grado di motivare gli uomini e continuare allo stesso tempo a pensare al nemico. Ferito in varie occasioni, è costretto a ricorrere a un imponente intervento di chirurgia plastica dopo che l’eplosione di un ordigno, che gli distrugge l’epidermide facciale e la mascella. L’incidente, ironia della sorte, non avviene in un campo di battaglia ma nella primavera del 2005, quando camminando in un sentiero mette il piede su una mina anti-uomo lasciata come ricordo dalle milizie russe che, nel 2000, si erano ritirate dalla zona. Secondo alcune fonti sarebbe stato ferito in maniera grave una seconda volta nel 2006, quando i media internazionali lo danno per morto.

Alla sua carriera militare si accompagna un’ascesa nel ripido sentiero della politica. Secondo gli accordi di Khasavyurt, che chiudono di fatto il primo conflitto ceceno nel 1996, viene infatti eletto presidente della Cecenia il colonnello Aslan Maskhadov, che lo impone a capo del Consiglio di Sicurezza interno. Grazie a questa rilevante carica, riesce a sedare un possibile golpe che si profila all’orizzonte nel luglio del 1998, quando all’interno del governo si apre uno scontro aperto fra i moderati e i fondamentalisti islamici. Questi ultimi chiedono un’azione decisa per riaprire il conflitto con Mosca e vogliono che il governo autorizzi l’utilizzo di kamikaze, attentatori suicidi, per convincere l’orso ex sovietico che fanno sul serio. Umarov, in quell’occasione, pronuncia un discorso che rimarrà negli annali della politica locale: analizza il terrorismo e lo allontana con decisione dall’islam, di cui è fedele seguace, arrivando ad affermare che sono antiislamiche tutte le bombe che uccidono in maniera indiscriminata. Le Torri Gemelle, e il loro nefasto desiderio di emulazione, devono ancora imporsi nel mondo. Nel corso del secondo conflitto fra Grosny e il Cremlino, al futuro Emiro spetta il comando del fronte sud-occidentale. E dopo la morte di Maskhadov, cui succede Abdul-Khakim Sadullayev, Umarov viene acclamato vice presidente e successore de facto. Alla morte del secondo presidente, sale al potere: il figlio di Maskhadov, Anzor, dichiara: «Per lui sono pronti a prendere le armi non soltanto i ceceni, ma anche gli uomini delle altre Repubbliche del Caucaso». La storia gli darà ragione.

Nel frattempo qualcosa, nel cuore del prode comandante, si è spezzato: all’inizio del 2005 suo padre, suo fratello, sua moglie e i suoi bambini vengono arrestati dalle forze di sicurezza cecene, che Umarov accusa di essere filo-russe: il padre muore in condizioni sospette. Un paio d’anni prima, inoltre, una parte dell’entourage di Bin Laden ha chiesto in maniera informale ospitalità al governo di Grosny: nel corso della permanenza, gli imam che hanno educato lo sceicco iniziano a educare il presidente, che ini-


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zia a perdere il proprio smalto laico.Un anno più tardi, nel 2007, Umarov rompe con l’ideologia dell’indipendenza della Cecenia e si proclama, sotto la crescente pressione dell’ala radicale del Paese, il leader di uno Stato islamico che attraversi l’intero settentrione del Caucaso. Nasce l’Emirato senza radici storiche, la pretesa di una terra che non è nei libri di storia e tanto meno nel Corano. Nasce il primo, vero marchio qaedista: Umarov, che da oggi inizierà a farsi chiamare Dokka Abu Usman, è la prova della pericolosità dell’estremismo radicale. Nel 2005, infatti, l’allora ancora semplice comandante aveva rilasciato un’intervista a Radio Free Europe per parlare del

za, deve pensare di avere in mano dei fiori. I russi vanno condannati per la loro rappresaglia, certo, ma il vero pazzo è chi ha pensato di poter tenere una scuola elementare come se fosse un obiettivo militare». Totalmente diverso il tono del discorso con cui Abu Usman parla ai suoi uomini in occasione del Capodanno 2010. Si tratta di un testo, che poi verrà pubblicato sui siti del jihad caucasico, che punta a descrivere il mondo contemporaneo e a giustificare chi combatte la guerra santa.Vale la pena riportarne un tratto: «La politica del mondo è costruita in modo molto semplice: ci sono padroni e ci sono schiavi. Il ruolo degli schiavi è stato imposto ai musulmani,

Convertito all’islam, assume il nome di Abu Usman e sceglie il terrore. È la fine per la causa della Cecenia terrorismo. I toni sono chiarissimi: «Il terrorismo non può e non deve essere mai considerato come una tattica. Se qualcuno si riduce a usare questi metodi, non è degno di essere sostenuto dalla popolazione. Se dovessimo farlo noi, non potremmo più guardarci in faccia».

Nel corso dello stesso intervento, l’eroe del Caucaso condanna con durezza l’attacco e la presa di ostaggi avvenuti in una scuola elementare di Beslan nel settembre precedente: «Chi tratta con dei bambini deve averne a cuore l’innocen-

che negli ultimi tre o quattro secoli sono stati costretti a dormire. I padroni sono gli apostati, peggiori addirittura degli infedeli. Il sonno dell’islam del Caucaso ha iniziato a terminare alcuni anni fa: oggi siamo completamente svegli». La propaganda è quella dei fondamentalisti arabi, il tono è messianico, la scrittura è infarcita di esclamazioni religiose: la mutazione del guerriero è totale, il suo non è più un impegno indipendentista ma un compito divino. Ma neanche il “risveglio” riesce a strapparlo del tutto da quelli che sono stati, evidente-

mente, anni felici per lui. Che ammette: «Quattro anni fa, quando era ancora in vita il presidente Maskhadov, i ceceni hanno iniziato un primo risveglio». Ma subito si riprende, per dimostrare che è Allah, e non un mortale, la luce da seguire: «Certo, il presidente non ha fatto quello che doveva. Anche perché non ne era in grado. Oggi però il processo è iniziato, e i mujahiddeen sanno che la spazzatura che arriva dagli infedeli va rigettata». Il gran finale è riservato alla solita esca che il jihad lascia penzolare davanti agli occhi di popolazioni spesso disperate: «Il Paradiso attende coloro che muoiono per colpire gli infedeli e gli apostati. Una vera vita di libertà attende chi si sacrifica contro il male. Molte persone muoiono ogni giorno nel mondo, ma non muoiono per Allah. Il Paradiso ci attende». La mutazione è completa, e Doku Umarov ha lasciato del tutto il posto ad Abu Usman. Questa seconda vita del ceceno, però, ha un serio problema: le fondamenta teologica su cui fondare il reclutamento dei suoi guerrieri.

Se moltissimi sono pronti a seguire l’eroe di guerra, il consigliere del presidente, l’uomo che ha dimostrato di poter tenere testa con onore a Mosca, sono pochi quelli che in prima istanza sono disposti a seguire una replica di Bin Laden con il colbacco. E la promessa delle 77 vergini è sotto schiaffo: sono sempre di più i teologi e i mullah islamici che contestano in tutto il mondo l’attribuzione di una vita in Paradiso per coloro che si fanno esplodere nei mercati o nelle metropolitane. Quelle azioni, sottolineano, non sono in linea con i dettami che il Corano impone al vero jihad: si tratta di gesti vigliacchi, non islamici e da condannare. E se al Qaeda e i suoi affiliati - Abu Sayyaf nelle Filippine, la Jemaa Islamiyah in Indonesia e tanti altri adepti - sono su campo da così tanto tempo da avere riserve di uomini già indottrinati, l’Emirato del Caucaso è ancora troppo giovane per essere penetrato con successo nella società cecena. A

L’escalation del terrore in Russia Il comandante in capo della resistenza cecena contro l’intrusione russa, Doku Umarov, ha iniziato la sua carriera militare al vertice di un esercito regolare. Ma dopo la sua conversione all’islam radicale, ha sdoganato il terrorismo contro la popolazione civile e ha dato il via a una vera e propria escalation del terrore che è culminata con gli attentati alla metropolitana di Mosca dei giorni scorsi. Attentato che hanno avuto una enorme eco non soltanto perché avvenuti all’interno della capitale russa, nel cuore stesso del potere, ma anche perché sono stati compiute da due donne, di cui una appena diciassettenne. Si tratta delle cosiddette “vedove nere”, mogli e figlie dei combattenti ceceni morti per mano dell’esercito russo, che hanno deciso di immolarsi nella causa. Ma Umarov, che vanta una tradizione militare di tutto rispetto, conosce bene le regole della guerra. Oltre alle postazioni civili - che prima del 2007 aveva dichiarato inviolabili - sa che per fiaccare il nemico vanno colpite le infrastrutture. Lo dimostra l’attacco al Nevsky Express.

questo punto, gli interrogativi per il futuro sono molti. Da una parte, l’emiro ha dimostrato di essere ancora pienamente in grado di gestire il personale militare e pianificare attacchi al cuore del potere nemico.

Aver fatto saltare in aria - con una simbologia degna del Kgb - le fermate della metropolitana del Cremlino e della sede dell’ex polizia segreta dimostrano che dentro Abu Usman vive ancora Doku Umarov, o quanto meno la sua conoscenza della guerra clandestina. Ora bisogna capire se, per uscire dall’impasse teologica, ricorrerà di nuovo al terrore e alla propaganda o sceglierà di cambiare di nuovo pelle. La mano dei sauditi non arriva ad artigliare con presa sicura anche il Caucaso, e i fondi che la comunità islamica meno accetta nei salotti buoni della diplomazia sono destinati a finire. La lotta della Cecenia è dunque, oggi molto più che nel 1994, a un punto di svolta. Chiamati a collaborare contro il terrorismo internazionale dall’allora presidente americano George W. Bush, i russi non si lasceranno sfuggire l’occasione di pretendere che il favore venga reso loro indietro nei confronti dei guerriglieri del Caucaso. E le follie del condottiero folgorato sulla via di Riyadh forniranno al Cremlino e ai suoi leader una strada privilegiata per sostenere con gli Stati Uniti che la “quinta colonna” di al Qaeda alle porte d’Europa si annidi proprio dalle parti di Grosny. E contro il mondo intero, neanche il genio militare di Umarov potrà fare molto. Ecco perché gli attentati di Mosca compiuti dalle due “vedove nere” segnano uno spartiacque per tutti noi. La lotta globale al terrorismo ci è arrivata nel cortile, e non è detto che potremo evitarla.



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