2010_04_07

Page 1

di e h c a n cro

00407

L’educazione consiste nel darci

delle idee, la buona educazione nel metterle in proporzione Charles De Montesquieu

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 7 APRILE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Maroni fissa i paletti leghisti per il semipresidenzialismo, mentre i due leader della maggioranza si vedono per un accordo

Qua ci vuole un Parlamento

Bossi e Berlusconi riportano di moda le riforme: ma la più urgente è rifondare il ruolo delle Camere.La soluzione è dare veri poteri a un’Assemblea eletta separatamente dall’esecutivo Baldassarre: «Cominciate dalla legge elettorale»

di Riccardo Paradisi

ROMA. Vanno di moda le grandi riforme. A cena, a colazione, come aperitivo e come dopopranzo. L’unica certezza è che tutto ruota intorno a Umberto Bossi che ieri sera ha cenato con Berlusconi ponendo sul tavolo i paletti già anticipati da Maroni in un intervista al Corriere: semipresidenzialismo, diminuzione dei parlamentari e fine dell’obbligatorietà dell’azione legale. E se Berlusconi s’affida mani e piedi Bossi, anche nel Pd circola la voce che stavolta il grande mediatore sarà proprio lui, il Senatùr. Già, ma che ne pensa Fini? Il convegno di Fare futuro sul semipresidenzialismo – «La Quinta Repubblica un modello per l’Italia?» – che si terrà domani a Roma e che vedrà la partecipazione del presidente della Camera viene a cadere nel momento più opportuno. Proprio perché il semipresidenzialismo francese è diventato la pietra di paragone del dibattito politico italiano. Certo, a questa accelerazione riformista verso il modello presidenziale la Lega, vittoriosa alle ultime elezioni regionali, chiede una pari accelerazione verso un più compiuto federalismo e ancora maggior peso nell’esecutivo.

Per il costituzionalista Antonio Baldassarre questa è l’ultima vera occasione per fare le riforme, che devono garantire nuovi equilibri tra potere esecutivo e potere legislativo. «Ma questo è l’ultimissimo treno anche per Pd e Udc». L’importante è partire dalla riforma della legge elettorale. FRANCESCO CAPOZZA a pagina 3

Capotosti: «Non date troppi poteri al presidente» Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale, non ha dubbi: «È molto difficile conciliare l’esigenza di un Parlamento forte con le prerogative proprie del sistema presidenziale. Soprattutto entro i confini della nostra Carta Costituzionale». FRANCESCO LO DICO a pagina 4

Il primo anniversario del terremoto

L’Aquila, una città senza centro Ora anche Bertolaso lo ammette: «Ci vorranno otto anni per la completa ricostruzione della zona storica» Franco Insardà • pagina 6

Ainis: «La vera rivoluzione cominci dai partiti» Michele Ainis non vede scorciatoie per ovviare alla principale emergenza del nostro sistema, «la sempre più chiara sottrazione di sovranità nei confronti dei cittadini, deprivati degli strumenti di democrazia diretta e mortificati dalla crescente debolezza degli strumenti indiretti».

a pagina 2

ERRICO NOVI a pagina 4

Fissato lo scioglimento dei Comuni: elezioni il 6 maggio

Il premier turco a Parigi in cerca di una patente europea

Era labour, addio: Londra va al voto

Erdogan e il nuovo impero ottomano

di Lorenzo Biondi

di Alexandre del Valle

Ha atteso il momento più propizio per un annuncio che era nell’aria già da mesi. Ieri mattina Gordon Brown ha incontrato la regina per chiederle di sciogliere la Camera dei Comuni e convocare nuove elezioni per il 6 maggio: un giovedì, come da tradizione. Già a settembre, al congresso del Labour, era circolata quella data. a pagina 17

Chi crede che la prospettiva europea di Ankara sia una garanzia di “occidentalizzazione” e di rifiuto dell’islamismo radicale, commettono un grave errore. Perché la diplomazia turca è sempre stata complessa: non meno asiatica, araba, persiana di quanto sia europea o occidentale, e oggi sopratutto panislamica o “neo-ottomana”. a pagina 8

seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

65 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Dal rito pagano dell’ampolla al cattolicesimo militante

Ecco come (dieci anni fa) ho convertito la Lega di Giuseppe Baiocchi n principio c’era un «extracomunitario che non aveva diritto di parola (Papa Giovanni Paolo II)» e una manica di «vescovoni con i crocioni d’oro» dediti al denaro e al potere, e il lascito avvelenato della «peste democristiana». E, di contro, un mito dei Celti fieri e invitti - sconfitti solo dalle loro divisioni - una società all’insegna della natura incontaminata, il nome antico del fiume all’ultimo figlio nato e il rito dell’ampolla dalle sorgenti alla foce del Po, con il contorno chiassoso degli sponsali celtici dell’esuberante Calderoli tra riti druidici e bevute di sidro. E semmai, se proprio si doveva cercar radici nell’epopea criLa storia stiana, era sempre tra le eresie: inedita quelle medievali del cambio dei Patari mila- di strategia nesi o di Fra’ del Dolcino, le più recenti dei giu- Carroccio sdavidici del nel 2000 monte Amiata o i più estremisti tra i lefebvriani. E veniva a fagiolo, in tutti i sensi compreso quello politico, quel “Los von Rom” (“Via da Roma”) che segnava da secoli l’invettiva luterana. La stagione secessionista del Carroccio (seguita alle politiche del ’96, dove la Lega da sola aveva toccato il massimo tutt’ora ineguagliato dei consensi, quasi quattro milioni di voti) si era altresì contraddistinta per la polemica furibonda contro la Chiesa.

I

IN REDAZIONE ALLE ORE

segue a pagina 12

19.30


prima pagina

pagina 2 • 7 aprile 2010

Bossi gioca su tutti i fronti, prima di dettare le condizioni al premier

Ma sotto sotto tra Fini e la Lega è scoppiata la pace di Riccardo Paradisi l convegno di Fare futuro sul semipresidenzialismo –“La Quinta Repubblica un modello per l’Italia?”– che si terrà domani a Roma e che vedrà la partecipazione del presidente della Camera Gianfranco Fini viene a cadere nel momento più opportuno. Proprio mentre il semipresidenzialismo francese diventa cioè la pietra di paragone del dibattito politico italiano e mentre su questa formula sembrano convergere Lega e pezzi considerevoli del Pdl, in primis il premier Silvio Berlusconi. Certo, a questa accelerazione riformista verso il modello presidenziale la Lega, vittoriosa alle ultime elezioni regionali, chiede una pari accelerazione verso un più compiuto federalismo e ancora maggior peso nell’esecutivo. Nell’incontro di ieri ad Arcore tra il leader della Lega e Berlusconi, colloquio a cui seguirà quello del premier con Fini, la materia del discorso è stata proprio la piattaforma riformista e il metodo – pesi e contrappesi politici – con cui avviare il percorso che dovrebbe portare alla riforma dello Stato e della giustizia. Un gioco a tre in cui alcuni osservatori individuano in Fini il vaso di coccio tra Bossi e Berlusconi, entrambi rafforzati dalle ultime amministrative.

I

Tanto più che malgrado il convegno di domani suonano ancora fresche le parole di Fini di nemmeno un mese fa sulla riforma presidenzialista proposta da Berlusconi: «Sarà un po’ complessa da portare avanti con l’attuale scenario politico e l’attuale opposizione», diceva il presidente della Camera. Come suonano ancora fresche le dure critiche di Fini alla Lega. Solo che all’ex leader di An non manca la comprensione dei nuovi rapporti di forza e l’elasticità di aeguarvisi. Ecco allora che il convegno di Farefuturo si trasforma nell’«occasione di alzare la posta e portare allo scoperto quelli che parlano di riforme», come dice un finiano di prima linea a liberalDall’analisi del risultato del 29 marzo Fini si sarebbe infatti convinto che ora il governo ha più forza per fare le riforme, che la Lega è il migliore degli interlocutori per farle perché è un partito che non ha il costume degli strappi istituzionali. «Anche oggi Calderoli e Maroni – dice ancora l’interlocutore finiano – ripetono che occorre fare le riforme con l’opposizione». Si tratterebbe secondo i finiani di «fare una proposta chiara sia all’opposizione sia al Paese, chiarezza che ancora non pare esserci nel Pdl berlusconiano, dove si oscilla tra premierato e presidenzialismo. Già una volta per una riforma costituzionale abborracciata e non con divisa si è andati allo scontro frontale e si è stati bocciati». Ma quale potrebbe essere la proposta di Fini sul semipresidenzialismo? A illustrare quella che potrebbe essere la posizione del presidente della Camera è il vice capogruppo del Pdl alla Camera Italo Bocchino. Eccola in sintesi: «dopo la sconfitta alle regionali il Pd non può sottrarsi al confronto se la maggioranza saprà proporgli soluzioni già discusse e votate assieme». In particolare «Basterebbe riprendere il semipresidenzialismo coniugato al federalismo già votato nella bicamerale D’Alema e aggiungervi il superamento del bicameralismo perfetto e la riduzione del numero dei parlamentari già approvati nella cosiddetta bozza Violante. Dinanzi a queste quattro proposte l’opposizione non avrebbe scampo e se decidesse di chiamarsi fuori legittimerebbe la maggioranza a procedere comunque sottoponendosi poi al referendum confermativo». Di questa operazione Fini dovrebbe poi essere – sempre secondo il finiano Bocchino – il naturale mattattore: «Il presidente della Camera, è il più deciso sostenitore del presidenzialismo e se si avvierà una fase di riforme potrà esercitare il ruolo di pivot, aiutando la maggioranza nel dialogo con l’opposizione e nell’interlocuzione con il Quirinale». Sembrerebbe regnare dunque una grande armonia nel centrodestra dopo i temporali invernali. Se non fosse che c’è chi vede arrivare anche i problemi. Come il web magazine finiano Farefuturo. La lega sta passando all’incasso – ammonisce l’editoriale del webmagazine – Il Pdl invece è al palo rispetto a «Un alleato che, è sotto gli occhi d tutti, non ci mette nulla a diventare concorrente e, addirittura, “sfidante”. E allora non si capisce chi, nel Pdl, continua a non preoccuparsi dell’iperattivismo del Carroccio, come se i due partiti coincidessero in strutture, ideali, programmi». Una nota stonata, bacchetta il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, in un momento in cui servirebbe unità d’intenti. Ma stonata soprattutto rispetto a Fini visto che il presidente della Camera sembra in questi giorni il più attivo a sedare ogni motivo di frizione con la lega. Un difetto di comunicazione tra Fini e il suo web magazine, un gioco delle parti o il primo dissenso tra il presidente della Camera e settori del suo pensatoio?

«Il Carroccio è alleato infido», denuncia il webmagazine Farefuturo. Ma il primo a trattare con i lumbàrd è Fini

Inchiesta. Rispondono Ainis, Baldassarre e Capotosti

Camera con veto

Passate le Regionali, tutti parlano di riforme. Tre costituzionalisti ci spiegano che cosa occorre cambiare per bilanciare i poteri Passate le elezioni Regionali che di fatto hanno segnato il largo successo della Lega «di lotta e di governo», è scoppiata la pace sulle grandi riforme. Tra rinnovo delle istituzioni, del sistema elettorale e della giustizia, il futuro ormai è sulla bocca di tutti i politici. Ieri, un’intervista di Roberto Maroni al Corriere della Sera, oltre a rilanciare il ruolo di «uomo di Stato» per il ministro leghista, poneva il timbro del Carroccio sulla strada da prendere. Modello semipresidenziale alla francese, diminuzione del numero dei parlamenti e abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale: questi i paletti di Maroni, che pure ha auspicato un confronto fattivo con tutte le forze. Resta il

fatto che il nodo centrale della politica italiana e della sua paralisi riguarda il ruolo del Parlamento e il ritorno alla sua centralità. Perché un potere esecutivo più forte deve essere controbilanciato da un potere legislativo ancora più forte e capace farsi garante effettivo e autorevole di tutti io cittadini. Qualcosa di molto diverso dal «Parlamento di nominati» di oggi, insomma. Ecco perché andrebbe immaginata l’elezione separata del presidente e del Parlamento, proprio come succede già in Francia. Su questo tema, liberal ha interpellato tre eminente costituzionalisti: Michele Ainis, Antonio Baldassarre e Piero Alberto Capotosti


prima pagina

7 aprile 2010 • pagina 3

ANTONIO BALDASSARRE

«Ma io dico: cominciate dalla legge elettorale» «Se il dialogo con le opposizioni non è solo di facciata, dovranno essere i centristi a dettare le loro condizioni» di Francesco Capozza

ROMA. L’innegabile vittoria alle regionali, il probabile riavvicinamento con Fini e la garanzia di un «patto rafforzato dalle urne» con la Lega – stando alle parole del ministro Roberto Maroni apparse ieri sul Corriere - non lasciano più alibi a Berlusconi per rinviare le tanto sbandierate riforme istituzionali. L’orientamento della maggioranza secondo Cicchitto è di preparare «testi aperti», dato che l’intento è di aprire il gioco all’opposizione, ma «ovviamente si andrà oltre la bozza Violante nel quadro di un sistema bilanciato che contempla anche il federalismo». E anche per Antonio Baldassarre, presidente emerito della Corte costituzionale, «la soluzione che si va profilando pare aver superato, e non poco, la cosiddetta “bozza Violante”». Per il costituzionalista «un sistema che preveda il bilanciamento tra il federalismo fiscale voluto dalla Lega e un semipresidenzialismo ispirato alla Francia voluto, pare, sia da Berlusconi che da Fini», sarebbe la «più grande riforma dall’entrata in vigore della carta costituzionale e responsabilizzerebbe, finalmente, le amministrazioni regionali, specie quelle del meridione d’Italia». Per Baldassarre, che pure rivendica con orgoglio di essere «al 50% meridionale», esistono due Italie diverse ed è innegabile che un certo «malcostume politico dilagante al Sud freni la ripresa dell’intera nazione». Il Cavaliere si dice pronto e «se così non fosse – dice Badassarre – perderebbe forse l’ultima occasione per fare quelle riforme di cui si sente parlare da oltre trent’anni». Insomma, sembra quasi che il presidente emerito della consulta suggerisca al premier di farle davvero queste riforme se tanto ci tiene ad entrare nei libri di storia. Pronto il premier, dunque, ma secondo il finiano Bocchino «lo è anche il presidente della Camera. Lui vuole il presidenzialismo, l’otto aprile ne parlerà al convegno organizzato da FareFuturo sul sistema francese». Proprio il modello su cui sta lavorando il ministro leghista Calderoli. In-

somma, l’intesa sembrerebbe – il condizionale è d’obbligo - possibile, se è vero che lo stesso Bocchino ha aggiunto che «Berlusconi dovrà far poggiare la trave del nuovo ordinamento costituzionale sui due pilastri cari alla Lega e alla destra». Ma se il ministro Maroni (che alla cena di ieri ad Arcore ha partecipato) è pronto a scommettere che questa volta le riforme si faranno con un consenso ampissimo (il titolare del Viminale punta a quei 2/3 del parlamento che scaccerebbero per sempre l’ipotesi di un ripensamento tramite referendum), è vero pure che mettere da parte una riforma costituzionale a colpi di maggioranza vuol dire coinvolgere le opposizioni, quanto meno Pd e Udc.

«Questo è l’ultimissimo treno anche per Pd e Udc, sia chiaro» afferma Baldassarre, «da un lato, se il Pd non fosse della partita sarebbe suicida, dall’altro, per l’Udc, sarebbe l’occasione di far finalmente pesare la sua parola e avere quella forza contrattuale per cui due anni fa ha deciso di rimanere fuori dalla maggioranza di governo». Più nello specifico il presidente emerito della Consulta “suggerisce” al partito di Pier Ferdinando Casini di mettere sul piatto, come contropartita alla sua partecipazione al tavolo delle riforme, «la riforma del sistema elettorale: un’operazione che senza dubbio piacerebbe all’elettorato centrista e non solo». Il confronto con l’opposizione, stando sempre ai rumors di palazzo, dovrebbe avvenire sul disegno di legge messo in cantiere da Calderoli di concerto con i capigruppo del Pdl e sarebbe frutto di una vera e propria operazione d’ingegneria legislativa. La maggioranza avrebbe infatti

recuperato dai lavori della Bicamerale guidata da D’Alema il testo su presidenzialismo e federalismo, unendolo agli articoli sulla riduzione del numero dei parlamentari e sul superamento del bicameralismo inseriti nella «bozza Violante». «Sono progetti che il centrosinistra ha già votato», ha dichiarato Bocchino: «Se cambiasse posizione, allora saremmo legittimati ad andare avanti da soli». La prima fase di questo complesso risiko è però il compromesso tra i due co-fondatori, perché se più volte l’ex leader di An ha detto di essere «un convinto presidenzialista», nulla è dato sapere di cosa pensi di quello che si prospetta essere un «semipresidenzialismo in salsa federalista».


prima pagina

pagina 4 • 7 aprile 2010

PIERO ALBERTO CAPOTOSTI

«Attenti a dare troppi poteri al governo del presidente» «L’elezione diretta del premier non è la soluzione più adeguata a un sistema fatto di partiti leaderistici come i nostri» di Francesco Lo Dico

ROMA. «È molto difficile conciliare l’esigenza di un Parlamento forte con le prerogative proprie del sistema presidenziale. E ancora più complesso risulterebbe collocare il presidenzialismo entro i confini della nostra Carta Costituzionale, che pone al centro la rappresentanza parlamentare ed è fondata sull’equilibrio dei poteri. Il presidenzialismo, viceversa, introdurrebbe il predominio di un potere sugli altri. L’elezione popolare consegnerebbe al Presidente una legittimazione enorme, tale da sovrastare gli altri poteri come accade in Francia». Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale, analizza così la possibile riforma presidenziale che sta facendo discutere la nostra classe dirigente. Presidente, si parla molto di semopresidenzialismo alla francese. Un modello che può trovare realizzazione nel nostro Paese? «Continuo a ritenere che il semipresidenzialismo alla francese presenti una serie di incompatibilità tali da richiedere un grande rimaneggiamento della nostra Costituzione. Al Presidente francese, ad esempio, è consentito lo scioglimento delle Camere. La scelta di questo modello comporterebbe una rottura costituzionale e imporrebbe un referendum costituente. La sua eventuale applicazione rappresenterebbe cioè l’autentica nascita della Secon-

da Repubblica, fondata su una Costituzione differente da quella del 1948» Presidente, il presidenzialismo è una via percorribile per l’Italia? Al momento è difficile fare valutazioni nello specifico. Innanzitutto perché non è stato ancora sciolto un primo dilemma, ovvero se l’elezione popolare dovrà riguardare il Capo dello Stato o il Primo Ministro. E in secondo luogo non è ancora chiaro quale modello si intenda assumere come riferimento. Esistono numerose varianti di presidenzialismo, e ciascuna possiede peculiarità legate al ruolo che i partiti rivestono in ciascun sistema : vi sono modelli improntati sul carisma del leader, come nel Venezuela di Chavez, e altri che poggiano su sistemi partitici agili, come negli Stati Uniti. E che cosa pensa a riguardo della “via americana”? Il presidenzialismo statunitense si articola su una netta separazione dei poteri. Innanzitutto tra il Congresso e il Presidente, al quale non è dato il potere di sciogliere le Camere. Il sistema vigente è calato in una cornice ideologica labile, in cui partiti hanno strutture leggere che li rendono molto simili a comitati elettorali. Non così in Italia, dove il Presidente avrebbe il diritto di nomina diretta, producendo un forte grado di attenuazione degli organismi di controllo.

Esistono modelli di riferimento europei ai quali l’Italia potrebbe guardare con minori difficoltà? Il sistema tedesco o quello inglese sono molto equilibrati. Il cancelliere e il premier non hanno l’enorme potere derivante dall’elezione popolare. Ma il vero problema è un altro. Dica pure. In Italia si è sempre partiti dalla coda. Non abbiamo mai avuto il coraggio di modificare la forma di governo, prima di quello elettorale. Per un sistema presidenziale, il modello più efficiente è quello che prevede il collegio uninominale, mentre la storia italiana è segnata dal sistema proporzionale e dalle preferenze. Il rischio di un cambiamento di sistema elettorale è che si accentui ancora di più l’astensionismo. Più che del sistema di governo, i cittadini sarebbero interessati al sistema per arrivare a fine mese.

MICHELE AINIS

«Ci vorrebbe una rivoluzione per far decidere i cittadini» «Sempre più deboli gli strumenti sia diretti sia indiretti della democrazia. La via francese non rafforza le Camere» di Errico Novi

ROMA. Come in tutte le mani di poker la sfida è tra chi vorrebbe stringere il risultato sicuro e chi invece punta a un piatto sostanzioso. Anche in questo turno dell’eterna partita per il riassetto delle istituzioni, in Italia si fronteggiano due scuole: una semi-rivoluzionaria (o semi-presidenzialista, secondo l’ultima versione), l’altra pragmatica, se non minimalista. Nella seconda schiera si ritrova l’intestatario dell’unica bozza approvata finora, Luciano Violante, ma anche un costituzionalista con la vocazione all’impegno civile come Michele Ainis. Il quale peraltro non vede scorciatoie per ovviare alla principale emergenza del nostro sistema, «la sempre più chiara sottrazione di sovranità nei confronti dei cittadini, de-

privati degli strumenti di democrazia diretta e mortificati dalla crescente debolezza degli strumenti indiretti, delle funzioni delegate». Il motivo di tanta disillusione, per Ainis, è semplice: «Le nuove costituzioni sono sempre figlie della storia, di fatti traumatici». Che in questi tre anni si possa dunque creare un’impalcatura completamente rinnovata e forte è dunque piuttosto improbabile, per il professore di Diritto pubblico dell’università di Teramo. Non è un’occasione da poco, però: tre anni di relativa tranquillità, senza scadenze elettorali di rilievo

nazionale e con un governo stabile. Se si tratta di aggiustamenti alla macchina, di introdurre correttivi con lo spirito dell’intervento chirurgico, allora sì, c’è tempo sufficiente. Ma se invece si pensa di cambiare il mondo allora non ci siamo. Eppure è dagli anni Settanta che in Italia si discute di riforme costituzionali. Perché possa nascere una nuova Costituzione servono fatti traumatici che suscitano un afflato, una sensibilità comune e quindi una apertura generale al cambiamento. È quello che si è verificato negli Stati Uniti e, nel ’58, in Francia. D’altronde a me


prima pagina

7 aprile 2010 • pagina 5

Ancora una volta si ripropone la vecchia diarchia tra D’Alema e Veltroni

Francese o tedesco? Il Pd litiga sui modelli

Solo su un tema tutti i democratici sono d’accordo: stavolta il mediatore cui aggrapparsi è Umberto Bossi di Marco Palombi

sembra che in questo momento sfugga la vera questione. Quale sarebbe? Non credo che in Italia il problema principale riguardi la consistenza dei poteri del premier o del presidente del Consiglio. La vera emergenza è restituire il potere ai cittadini, che si sono disaffezionati perché verificano che la politica non è in grado di realizzare la loro volontà. I cittadini sono privi di strumenti di intervento diretti e indiretti. È l’articolo 49 della Costituzione che andrebbe attuato, allora. Anche. La mancanza di democrazia nella vita dei partiti è un problema. Adesso sono svincolati da regole, dai loro stessi statuti: se per esempio c’è la previsione di ricorrere alle primarie, la si fa valere a seconda delle convenienze, come si è visto. Manca una legge che dia attuazione all’articolo 49, gli iscritti hanno pochissima voce in capitolo. E poi c’è il nodo del Parlamento, che è luogo naturale della rappresentanza: una riforma che lo rafforzi non sanerebbe il vulnus di cui lei parla? Chiariamo: che il Parlamento sia stato svilito è sotto gli occhi di tutti. Ma non basterebbero nuove disposizioni costituzionali: anche in questo caso una

legge ordinaria sarebbe altrettanto importante, e ovviamente parlo della legge elettorale. Certo, se gli strumenti di democrazia diretta, come il referendum, si sono praticamente dissolti, quelli indiretti si sono ammalati. Cosa pensa di queste ipotesi sul presidenzialismo? Se collochiamo storicamente il sistema francese ci accorgiamo che è nato proprio a partire dalla volontà di De Gaulle di tagliare la testa ai partiti. Non voglio dire che sono queste le intenzioni della Lega, ma se vogliamo essere esterofili dobbiamo assumere un modello in modo integrale. A cosa si riferisce in particolare? Al fatto che in Francia c’è un sistema super-centralista con una legge elettorale a doppio turno: Bossi vuole questo? Non è che si può cucire un vestito di Arlecchino, prendendo una toppa di qua e una di là. Chi sostiene la via presidenziale controreplica: è proprio il rafforzamento dell’esecutivo che implica un legislativo più autorevole. E allora l’esempio giusto è quello americano. Ma anche qui dobbiamo prenderci tutto: una separazione di poteri nettissima e un presidente che non mette piede al Congresso. Siamo sicuri che a noi andrebbe bene?

ROMA. Il Partito democratico è riuscito almeno in una specie di miracolo: pur esistendo da un paio d’anni riesce a vivere esclusivamente negli anni Novanta, a un dipresso in quei bei pomeriggi romani in cui falliva la Bicamerale. Veltroniani e dalemiani – categorie grossier, s’intende - imperversano ancora sui media battagliando in politichese sull’atteggiamento da tenere riguardo alle riforme istituzionali e sul grado di apertura da riservare al centrodestra, essendo però solamente interessati a fottersi vicendevolmente nella guerriglia interna (volendo dirla più nobilmente tornano in gioco, su questo tema, l’idea di partito e di coalizione da costruire, notoriamente diverse). Adesso, visto che la maggioranza bersaniana s’arrocca in un timido «prima vediamo che cosa propone il governo», i seguaci dell’ex sindaco di Roma aprono la porta al confronto su semipresidenzialismo e legge elettorale. Giorgio Tonini, ad esempio, ricorda gli amorosi sensi bipartisan del dibattito sulla legge delega sul federalismo fiscale (segretario Veltroni) e invita il suo Pd a non «ritirarsi sull’Aventino»: confronto su tutto, «anche sul semipresidenzialismo», a patto che si vada verso un sistema elettorale maggioritario. «Se c’è questo – aggiunge il costituzionalista veltroniano Stefano Ceccanti – possiamo ragionare senza pregiudiziali».

no al presidenzialismo e che l’unico campo da gioco per chi guida il Pd è la bozza Violante: la segreteria democrats pensa di opporre mediaticamente alla furia costituente del centrodestra la sua proposta di occuparsi prima delle questioni sociali.

«Solo dopo si parla del resto», dice pure Beppe Fioroni, teoricamente della minoranza franceschiniana: «Per dialogare bisogna prima costruire un’agenda che metta le cose giuste al momento giusto. Noi dobbiamo dare delle risposte innanzitutto alle famiglie italiane su tasse, assegni familiari, cassa integrazione, occupazione, smantellamento di scuola e università. Non credo che, rispetto a questi problemi, ci sia un uomo o una donna in Italia che si sente appagato dal sapere che faremo subito il Senato federale». Non ne vuole nemmeno parlare Nicola Latorre, storicamente considerato una sorta di portavoce di D’Alema: «Si sta sviluppando una discussione del tutto priva di senso perché finora sono stati enunciati solo dei titoli». Il senatore del Pd lo definisce «lo schema Medusa», nel senso che «il produttore è Berlusconi, la regia la fa la Lega e Medusa distribuisce…». Mettersi d’accordo, insomma, all’interno del partito nato nel 2008 ma che vive dieci anni prima non sarà affatto facile. L’unico fatto nuovo, all’interno del Pd, è che tutti pare si siano convinti che l’interlocutore, l’unico possibile mediatore, non è Gianfranco Fini, uscito ridimensionato dalle regionali, ma Umberto Bossi. A regalare a tutti una via d’uscita comunque sarà, come al solito, Berlusconi: il Cavaliere, infatti, quando dice riforme pensa soprattutto ai magistrati e, in particolare, a quelli che si occupano di lui. Il ddl Alfano con la separazione delle carriere, il doppio Csm e l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale è in arrivo a giorni. A quel punto l’obbligo di dialogo sarà un lontano ricordo per tutti.

C’è anche chi teme che quando sul tavolo arriverà la bozza-Alfano sulla giustizia, il clima di generale «concordia» sarà solo un ricordo per tutti

La vecchia cara vocazione maggioritaria, scomparsa per consunzione, riapparirebbe così con un prezioso aiutino legislativo (ai piccoli partiti e ad un eventuale terzo polo resterebbe praticamente solo il diritto di tribuna). Il fatto è che il semipresidenzialismo alla francese col doppio turno di collegio era esattamente la proposta cavalcata da Massimo D’Alema quando assaggiava le crostate della signora Letta. Era, si diceva, perché il leader Maximo ha cambiato prospettiva: la priorità è costruire una coalizione che batta la destra e per farlo serve la sinistra ma pure il centro. Tradotto: ora si “porta” il modello tedesco. Niente di anormale per Achille Occhetto, secondo cui «D’Alema in tutte le sue scelte è stato fondamentalmente politicista, favorevole ai vecchi partiti, contrario al maggioritario». Al di là delle schermaglie, però, la divisione tra i due fronti non riguarda tanto l’assetto istituzionale quanto la legge elettorale: il centrosinistra è quasi tutto allergico all’elezione diretta del capo dello Stato o del governo. Lo stesso Tonini, in un’intervista, ha significativamente parlato quasi solo di premierato, cioè di un ampliamento dei poteri del presidente del Consiglio che però a Silvio Berlusconi interessa ormai davvero pochino. Nel frattempo, Pierluigi Bersani non sa bene dove buttarsi. Il suo vicesegretario Enrico Letta ha ribadito il


diario

pagina 6 • 7 aprile 2010

Cantieri. Dopo un anno la “zona rossa” è ancora chiusa e quasi cinquemila aquilani vivono negli alberghi della costa

L’Aquila, una città senza centro Berlusconi ammette: «Ci vorranno anni per la completa ricostruzione» ROMA. «L’Aquila tornerà a volare», c’era scritto – quasi per farsi coraggio – sui cartelli sparsi per la città dagli abruzzesi a pochi giorni dal sisma. «Ci vorranno anni per giungere al restauro e alla completa ricostruzione», ha ammesso ieri Silvio Berlusconi in un’intervista al Centro. In questi due messaggi c’è una corsa contro il tempo durata un anno per far riemergere L’Aquila dalle macerie, la sofferenze di chi non sa se tornerà mai a casa propria, l’attivismo della politica e l’affarismo di personaggi senza scrupoli come i cognati Pierfrancesco Gagliardi e Francesco De Vito Piscicelli quello che, come risulta dalle intercettazioni, il 6 aprile 2009 dice «alle 3 di notte ridevo nel letto». E che il 9 aprile aggiungeva: « ”Mo’ c’è il terremoto da seguire... lì c’è da ricostruire per dieci anni». È per tutto questo che l’altra notte la città si è unita in una fiaccolata silenziosa per ricordare i loro morti. Ed è soprattutto per questo che un gruppo di aquiliani ha contestato il Consiglio comunale in piazza e chiesto conto dei tanti pezzi dell’Aquila, degradati a città fantasma. Chi ha raggiunto il capoluogo abruzzese subito dopo il terremoto ha dovuto fare i conti con la speranza che si leggeva a negli occhi dei sopravvissuti: disperati, scossi, attoniti, ma che volevano rialzarsi. Forse non avevano realizzato che avrebbero dovuto sopportare un anno terribile. Si sentivano coccolati, non facevano in tempo a chieder qualcosa che immediatamente gli uomini della Prote-

di Franco Insardà

A settembre la consegna delle prime case ha ridato la speranza di un ritorno alla normalità, ma lo spettro del centro storico dell’Aquila incombe su tutti. E così a un anno da quella terribile notte del 6 aprile i bilanci sono tristi e ancora più drammatici. Le oltre venticinquemila persone che hanno

E Guido Bertolaso conferma: «Ci vorranno almeno 7-8 anni per sistemare uno dei venti centri storici più importanti d’Italia» zione civile intervenivano per alleviare le loro sofferenze. Poi con il passare dei giorni hanno cominciato a rendersi conto della gravità della tragedia che li aveva colpiti. La passerella mediatica del G8, le promesse dei potenti della terra hanno fatto sperare che si potesse velocemente uscire da quella situazione. Le tende che erano prima fredde sono diventate calde e afose. Tutto è diventato più difficile e nell’animo degli abruzzesi pazienti e laboriosi, qualcosa ha iniziato a scricchiolare.

preso parte alla fiaccolata, organizzata dai comitati per commemorare le 308 vittime e per non far dimenticare quanti stanno soffrendo ancora: le 4300 persone ancora ospitate negli alberghi e le altre 622 negli appartamenti del G8 della caserma di Coppito. I terremotati in questi mesi hanno dovuto fare i conti non soltanto con la mancanza di un tetto, ma anche con la difficoltà di riprendere le loro attività, di ritrovarsi nelle new town, costruite in fretta, senza più riferimenti. E se da una parte c’è da registra-

La denuncia del sindaco Massimo Cialente

«Soldi con il contagocce» ROMA. «I soldi del governo attualmente stanno arrivando con il contagocce». Il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente con la consueta franchezza non fa sconti a nessuno e, come è già successo in questi dodici mesi, così come riconosce i meriti dell’esecutivo allo stesso tempo ne critica le mancanze. «In questo momento - ha aggiunto Cialente - la mia preoccupazione non è non legata ai soldi che attualmente ci sono per la ricostruzione delle case quanto alla certezza di un flusso che consenta una programmazione rapida. Inoltre manca uno stanziamento per la ricostruzione dei beni architettonici e monumentali, per i quali la valutazione del danno è di 3 miliardi e mezzo di euro». E Cialente ha ripreso e rilanciato una proposta di parecchi mesi fa: «La zona franca non è ancora arrivata e comunque, se e quando arriverà,

non sarà sufficiente a dare una risposta a tutti. Una quota di quei 4 miliardi di euro che il Cipe aveva deliberato nel mese di luglio, pari a 250 milioni, doveva arrivare subito ed invece non si è visto niente. Il vero fallimento resta il rilancio delle attività economiche e produttive». Secondo quanto denuncia la Confcommercio alla rimodulazione del Por Fesr sono stati destinati 45 milioni di euro per i danni subiti dalle imprese a causa del sisma e 11 per l’attrazione di nuove imprese o per la loro delocalizzazione, ma si è ancora nella fase dei bandi. Intanto molte famiglie si sono ritrovate senza stipendio e come ha denunciato anche il responsabile della Mensa di Celestino, inaugurata ieri alla presenza del sottosegretario Gianni Letta: «È una nuova povertà quella che sta nascendo e il problema va affrontato con risposte idonee».

re un intervento record, come ha tenuto a sottolineare Il capo della Protezione Civile Guido Bertolaso: «Oltre 25mila persone che hanno avuto la casa distrutta, oggi vivono in abitazioni antisismiche e case di legno. Poi c’è una significativa quota, di 20-30mila cui lo Stato sta dando una mano nella ricostruzione delle case danneggiate». Dall’altra ci sono ci sono i milioni di metri cubi di macerie ancora presenti nel centro storico dell’Aquila e che il “popolo delle carriole” con la sua protesta ha portato a conoscenza dell’opinione pubblica. E su questo Bertolaso in linea con il premier ha detto: «Le macerie dell’Aquila riguardano non solo il centro storico della città. In mezzo a queste macerie vi sono anche dei preziosi reperti artistici che non possono essere portati via con una carriola, ma devono essere selezionati e distinti. Credo sia corretta l’impostazione di avere una squadra del ministero dell’Ambiente, dei Beni culturali, del Comune, della Provincia e della Regione che lavori in modo coordinato per definire un piano di intervento. Ci vorranno diversi mesi, se non anche qualche anno. La sfida è quella di sistemare il cuore dell’Aquila, che è uno dei 20 centri storici più importanti d’Italia come realtà urbanistica e culturale».

Ieri a L’Aquila era giornata di lutto cittadino, ma anche di bilanci. Secondo i dati forniti da Confartigianato Abruzzo tra gennaio e dicembre si è registrato un decremento, tra iscrizioni e cancellazioni, di 134 imprese (-0,37 per cento), con la sola eccezione della crescita di nuove imprese artigiane, soprattutto nel settore delle costruzioni. Secondo la Confartigianato le principali imprese localizzate nelle aree industriali del capoluogo abruzzese hanno riavviato l’attività, mentre solo una modesta parte dei circa 800 esercizi commerciali della “zona rossa” ha riaperto fuori dal centro storico. Il turismo è, invece, passato dalle circa 100mila presenze annue a poco più di 30mila. Ma secondo Anna Maria Reggiani, direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici d’Abruzzo, bisognerebbe «cominciare a dare un volto nuovo al turismo aquilano e abruzzese in genere, seguendo il modello di albergo diffuso proposto a Santo Stefano di Sessanio».


diario

7 aprile 2010 • pagina 7

Il segretario di Stato vaticano in viaggio ufficiale in Cile

L’ex Guardasigilli depone al processo di Palermo

Bertone: «La Chiesa è tutta con il Papa»

Martelli parla dei rapporti tra i Ros e Ciancimino

CITTÀ DEL VATICANO. «Benedetto XVI è un Papa forte, il Papa del terzo millennio, lo sostiene tutta la Chiesa, così come Piazza San Pietro che il giorno di Pasqua era colma di molti giovani». Lo ha detto ai giornalisti il segretario di Stato Tarcisio Bertone, arrivato ieri a Santiago del Cile per una visita ufficiale. «Dopo essersi recato nel 2007 in Perù e in Argentina, nel 2008 a Cuba e nel 2009 in Messico, il cardinale Bertone - scrive l’Osservatore Romano - torna nel continente ibero-americano, a poco più di un mese dal devastante terremoto che il 27 febbraio scorso ha sconvolto il Cile. La capitale Santiago, Punta Arenas, Concepcion, nella zona dell’epicentro del terribile sisma, Talcahuano e Maipù, sono le tappe del viaggio che si protrarrà fino al 14 aprile». Oggi è previsto l’incontro con il nuovo capo dello Stato, Sebastián Pinera.

PALERMO. «Se solo avessi avuto

Sul tema della pedofilia, è intervenuto anche il cardinale Sodano sempre sull’Osservatore Romano: «Le mancanze e gli errori di sacerdoti sono usate come armi contro la Chiesa. Dietro gli ingiusti attacchi al Papa ci sono visioni della famiglia e della vita contrarie al Vangelo. È ormai un contrasto culturale il Papa incarna verità morali che non sono accettate». Così Sodano rilancia la tesi dall’attacco contro la Chiesa. E paragona le accuse sulla pedofilia agli attacchi che la Chiesa ha ricevuto in passato: «Prima ci sono state le battaglie del modernismo contro Pio X, poi l’offensiva contro Pio XII per il suo comportamento durante l’ultimo conflitto mondiale e infine quella contro Paolo VI per l’Humanae vitae». Secondo Sodano, la comunità cristiana «si sente giustamente ferita quando si tenta di coinvolgerla in blocco nelle vicende tanto gravi quanto dolorose di qualche sacerdote, trasformando colpe e responsabilità individuali in colpa collettiva con una forzatura incomprensibile».

La paura greca affonda le borse europee Nuove voci (smentite) di un incremento del debito di Alessandro D’Amato

ROMA. Una notizia subito smentita, eppure sufficiente per far crollare la Borsa di Atene. E un rischio-paese che continua a crescere nei mercati internazionali. La Grecia è sull’orlo di una crisi di nervi e la notizia che, secondo alcuni media greci, Eurostat era giunto alla conclusione che il deficit per il 2009 fosse maggiore del 12,7% del Pil, limite “garantito” invece dal governo, ha causato un crollo di quasi il 2% nella Piazza Affari ateniese. Scriveva ieri il quotidiano finanziario Naftemporiki che il disavanzo era superiore al 14%, mentre il canale tv Skai, riportando la stessa notizia, riferiva da parte sua che il governo di Giorgio Papandreou stava cercando di convincere i funzionari europei, giunti a tale conclusione dopo una recente visita ad Atene, della correttezza dei propri calcoli. La notizia, che non ha trovato conferme da parte ufficiale, sembra aver spaventato la Borsa di Atene che, dopo la pausa festiva, a metà giornata perdeva il 3%, trascinando al ribasso i listini europei. Secondo il quotidiano online Ta Nea, la discrepanza tra i calcoli di Eurostat e quelli del governo i riguardavano deficit degli ospedali pubblici: se i calcoli europei fossero stati esatti il disavanzo sarebbe cresciuto al 14,2% del Pil. Il Ministero greco delle Finanze ha invece smentito tutto: «Le informazioni in tal senso sono prive di fondamento», ha detto all’Ansa un portavoce del Ministero, precisando che Atene ha consegnato alla delegazione di Eurostat tutte le informazioni richieste e non ha ricevuto nessuna indicazione su presunte discrepanze sul calcolo del deficit. Sui mercati, Cds e bond greci hanno perso punti (uno e mezzo l’obbligazione settennale), ulteriore testimonianza della poca fiducia che intercorre nei mercati nei confronti del piano europeo per l’eventuale salvataggio della Grecia, che vedrà in prima battuta l’intervento del Fondo Monetario Internazionale, e in seconda quello delle nazioni del Vecchio Continente. Intanto, il differenziale di rendimento fra i titoli di Stato decennali greci e i corrispondenti bund tedeschi è salito sopra i 400 punti base, raggiungendo un record. Lo ’spread’ fra i due

tassi è salito fino a 402,5 punti, un livello mai raggiunto dall’introduzione del’euro nel 1999. Con questi risultati già sul groppone, la Grecia prepara però un nuovo sbarco in America per raccogliere tra i 5 e 10 miliardi di dollari entro maggio. Secondo quanto scrive il Financial Times, dopo due anni Atene si appresta a collocare sul mercato statunitense un mega-bond da miliardi di dollari e per la prima volta si presenterà sotto le spoglie di paese emergente. Il quotidiano economico londinese aggiunge che «dopo il 20 aprile» il ministro delle Finanze ellenico, George Papaconstantinou, inizierà un tour degli Stati Uniti per convincere gli americani ad investire nei titoli di stato greci. Morgan Stanley, conclude il giornale, dovrebbe assistere Atene nell’operazione di collocamento dei bond greci sull’altra sponda dell’Atlantico.

Nella giornata delle smentite, intanto, anche l’Fmi ne ha fatto le spese: «Non c’è nessuna richiesta del governo greco per un nuovo accordo con il Fondo Monetario Internazionale, per rinegoziare le condizioni per gli aiuti», ha detto una fonte vicina al Ministro delle Finanze George Papaconstantinou, commentando le ipotesi su una richiesta di Atene di rivedere il meccanismo definito nel Consiglio Europeo dello scorso 25 marzo, considerato troppo rigido e oneroso. La fonte sottolinea invece che «l’Unione europea ha preso una decisione che non riguarda solo la Grecia, ma tutti i paesi attaccati dalla speculazione, ed è una decisione che il governo greco sostiene, senza cercare nessuna nuova intesa». La missione in programma oggi ad Atene della delegazione dell’Fmi sarà invece incentrata sull’esame del sistema fiscale del Paese, secondo il portavoce del governo George Petalotis in una intervista all’emittente radio Flash, secondo quanto riporta l’agenzia Bloomberg. «La delegazione compirà una normale visita di controllo e verifica - ha spiegato Petalotis - e il team esaminerà il sistema fiscale, l’andamento del Patto di stabilità e crescita e forse il sistema di sicurezza sociale».

sentore di una trattativa di un pezzo dello Stato con un pezzo della mafia avrei fatto l’inferno e l’avrei denunciato pubblicamente». Lo ha detto l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli deponendo a Palermo al processo a carico del generale Mario Mori, ex vice comandate del Ros, e del colonnello Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss mafioso Bernardo Provenzano. Martelli ha raccontato in aula, davanti ai giudici della quarta sezione del Tribunale quanto dichiarato ai magistrati nell’interrogatorio dell’ottobre 2009, in seguito all’intervista rilasciata ad «Annozero». In quell’occasione Martelli disse, per la prima volta pubblicamente, a 17 anni dalla strage di via D’Amelio, che il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato informato da Liliana Ferraro, collaboratrice di Martelli al ministero della Giustizia, dei colloqui tra i carabinieri del Ros e l’ex sindaco di Ciancimino. Palermo Vito «Avemmo la sensazione che tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino ci fossero rapporti stretti», ha detto Martelli. L’ex Guardasigilli ha raccontato in aula che, alla fine di giugno del ’92, l’allora direttore degli Affari penali del Ministero, Liliana Ferra-

Adesso Atene vuole collocare sul mercato statunitense un mega-bond da miliardi di dollari, secondo il “Financial Times”

ro, gli disse che aveva incontrato il capitano Giuseppe De Donno, allora braccio destro di Mori, e che l’ufficiale le aveva riferito di avere preso contatti con il figlio di Ciancimino, Massimo, con lo scopo di incontrare il padre «per fermare le stragi».

Martelli ha poi raccontato che nell’estate del’92, cioè dopo le stragi mafiose in cui morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e ben prima dell’arresto del capo mafia Totò Riina, il generale dei carabinieri Francesco Delfino avrebbe annunciato al ministro della Giustizia di allora, Claudio Martelli, che il boss mafioso sarebbe stato arrestato da lì a poco.


mondo

pagina 8 • 7 aprile 2010

Turchia. Come cambia la politica estera di Ankara, sempre più filo-islamica, e qual è il disegno strategico del Partito Giustizia e Sviluppo

Nuovo impero Ottomano Erdogan, il post kemalista schierato contro i Paesi occidentali che guarda all’Europa solo per interesse di Alexandre del Valle

Q

uelli che credono che la prospettiva europea di Ankara sia una garanzia di “occidentalizzazione” e di rifiuto dell’islamismo radicale, commettono un grave errore. Perchè la diplomazia turca è sempre stata a vasto raggio e complessa: non meno asiatica, araba, persiana di quanto non sia europea o occidentale (quando non va contro i suoi interessi), e oggi sopratutto panislamica o “neo-ottomana”. Paradossalmente, i turchi più laici ed europeizzati dell’Ovest (Istanbul, Smirne), ultimi difensori del modello secolarista kemalista ideato da Ataturk, minoritari, rappresentati sopratutto dal partito kemalista republicano del Popolo (Prp) e vicini al potere militare, sono spesso contrari all’adesione della Turchia all’Unione europea. Mentre il partito islamico Akp, che rappresenta le nuove élite economico-politiche reislamizzate dell’est anatolico, è il più grande sostenitore dell’adesione all’Ue. E non lo è diventato perché sostiene i valori

filosofici dell’Occidente e condivide la storia e la cultura giudaico-cristiana e umanista della Vecchia Europa, ma perché la strumentalizzazione delle regole europee permettono di smantellare progressivamente il sistema militare-kemalista laico in nome della democrazia. Molti sostenitori della candidatura turca all’Ue affermano che questa sarebbe una “prova” di occidentalizzazione e che “garantirebbe” l’attacamento della Turchia all’Ovest e l’allontanamento dai paesi dell’islamismo radicale antioccidentale.

I fatti dimostrano proprio il contrario: nel 2005, appena cominciati i negoziati per l’adesione, il Consiglio Nazionale di sicurezza turco (Mgk), controllato dai militari, che poteva legalmente ostacolare le leggi anti-laiche, fu trasformato in un organo consultivo come esigeva il “quinto pacchetto di riforme”di Bruxelles.Venne così smantellata la più importante istituzione (dopo la presiden-

za della Repubblica, oggi in mano all’islamico Abdullah Gül) a garanzia del laicismo. Seguendo la stessa logica, in questi giorni, l’Akp si appresta a modificare la carta costituzionale, in vigore dall’inizio degli anni Ottanta e basata sulla laicità kemalista. Il vice-premier Cicek giustifica i cambiamenti in nome dei negoziati con Bruxelles. Nell’ambito del processo-scandalo nazionale Ernegekon, il governo filo-islamico si appoggia anche sull’Ue per deleggitimare gli ufficiali anti-islamici (ma anche gli in-

israelo-americana, ecc). Ciò non toglie che i diregenti Akp abbiano sempre denunciato questa alleanza per non perdere il loro elettorato islamico pro-palestinese. La nuova strategia nazionale, regionale e internazionale della Turchia è quindi basata sulla necessità di “riconciliare” Ankara con il suo vicinato islamico per: 1) favorire gli scambi economici; 2) presentare la Turchia come un “ponte” fra l’Occidente e il mondo islamico; 3) fare perdonare il “peccato originale” dell’alleanza con Israele. Questa nuova strategia panisla-

Il partito del Premier è il più grande sostenitore dell’adesione all’Ue. Non perché ne condivide i valori, ma perché le regole europee consentono di smantellare il sistema militare tellettuali kemalisti laici membri della rete) accusandoli di preparare un golpe per ostacolare l’islamizzazione. Anche se la rete Ernegekon è effettivamente esistita, rappresentava una tendenza minoritaria dell’esercito ed era composta essenzialmente da ex-ufficiali pensionati e ideologi d’estrema destra anti-Nato ostili al vertice dell’esercito turco.

Con gli incoraggiamenti di Bruxelles, il governo islamico di Erdogan ha approfittato dello scandalo Ernegekon per screditare globalmente i kemalisti e nazionalisti turchi ostili all’islamizzazione. D’altronde, a livello internazionale, i leader dell’Akp vedono nell’adesione alla Ue l’occasione di sostituire la compromettente alleanza israeloamericana con quella, più filomusulmana, dell’Unione. I dirigenti di Ankara vogliono infatti dimostrare alla loro base filopalestinese che aderendo ai Ventisette (e riavvicinandosi all’Arabia Saudita, all’Oci e alla Siria) saranno meno dipendenti dai Satana “americano-sionisti”. Per l’Akp, l’alleanza con la Nato e Israele è stata imposta dalla guerra fredda e dai militari kemalisti. Ed Erdogan non può opporvisi troppo per non provocare l’ira dei militari che ne traggono un vantaggio strategico (scambi di spazi aerei, importazione di alta tecnologia militare

mica è stata concepita da Ahmet Devatoglu, il ministro turco degli Esteri. Per Devatoglu, che è nato a Konya (Anatolia centrale), la Turchia deve aumentare la sua “profondità strategica”, titolo di un suo libro. Una profondità che impone di bilanciare l’alleanza israeliana maledetta con un’alleanza “fraterna” con i vicini islamici, specialmente l’Iran o la Siria. Per Devatoglu, la Turchia, la Siria e l’Iran gettano le basi per un fronte unito dall’Asia ai confini della Cina (turcofona) che potrebbe modificare l’ordine regionale. Quindi, lungi dall’allontanarsi dai paesi islamici più pericolosi, la scelta europea di Ankara ha piuttosto accelerato l’avvicinamento ai peggior nemici dell’Occidente e di Israele. E questo non dovrebbe sorprendere, perché i dirigenti turchi non hanno mai nascosto la loro politica panislamica inaugurata sin dagli anni Ottanta dal premier nazional-islamista Ozal e poi negli anni Novanta dal premier islamico Erbakan, l’ex-maestro di Erdogan. Conosciamo tutti i leit motiv dei sostenitori della candidatura turca come ad esempio: «l’Europa deve provare di non essere un club cristiano» oppure: «è meglio averla con noi che contro di noi». La povertà di questi argomenti retorici risiede nel fatto che non tocca all’Europa scristianizzata (che accoglie milioni di musulmani e

migliaia di moschee) dimostrare di non essere un club cristiano, ma alla Turchia reislamizzata (dove cristiani ed ebrei sono in pericolo) provare di non essere un club islamico. La Turchia di oggi è infatti membro di un club esclusivamente musulmano: l’Organizzazione della Conferenza Islamica (Oci), associazione degli Stati islamici con sede in Arabia Saudita e la cui presidenza è stata affidata a un turco: Ekmeleddin Ihsanoglu. Lo stesso che pretese da Javier Solana e dal Vaticano scuse ufficiali in merito - rispettivamente - al caso delle vignette blasfeme danesi e alle dichiarazioni di Papa Benedetto XVI sull’Islam all’Università de Ratisbona (Regenburg) che provacorono la furia del mondo musulmano (settembre 2006). Contestualmente, Erdogan suggerì all’Europa, secondo lui troppo anti-clericale, di «limitare la libertà d’espressione in materia religiosa».

Ricordo inoltre che alla 36esima sessione dei ministri degli Esteri dell’Oci, riunitasi di recente a Damasco per discutere di “promozione della solidarietà islamica”, si è parlato di: “solidarietà” incondizionata ai palestinesi; condanna delle “aggressioni” del regime israeliano; lotta all’islamofobia e anche all’iranofobia, riguardo il dossier nucleare iraniano e il tentativo occidentale di “isolare” e “umiliare” Teheran. Una delle proposte è stata quella di creare dei caschi verdi, composti da truppe dei 57 Paesi dell’Oci, che appoggia l’applicazione della legge islamica e la condanna dell’islamofobia in


mondo

7 aprile 2010 • pagina 9

Israele. Ricordiamo ciò che ha rivelato il quotidiano Hurriyet: nel 1974, all’interno delle attività culturali del partito islamico Msp di Necmettin Erbakan, Erdogan, che era responsabile della Commissione per la gioventù, scrisse e mise in scena in tutto il paese un opera teatrale chiamata Maskomya che stigmatizzava «il complotto degli ebrei, creatori delle lobby massoniche e del comunismo». Nel dicembre 1996, durante il suo mandato a sindaco di Istanbul, e dopo aver fatto visita alla grande sinagoga della città, Erdogan dichiarò che «un complotto mondiale ordito da ebrei sionisti minacciava di prendere il controllo del pianeta». Oggi in Turchia, la recrudescenza dell’odio antigiudaico (legato alla sovraesposizione mediatica del conflitto israeliano-palestinese), ha dato una nuova popolarità alle tesi sul complotto giudeo-massonico e sulla negazione della Shoah.

seno alle Nazioni Unite, dove Ankara esercita, assieme al Pakistan, alla Lega Araba e all’Arabia Saudita, una efficace lobby pro-islamica.

Ankara è diventata l’alleata strategica delle dittature islamiche come l’Iran o il Sudan, degli Stati dittatoriali alleati a Teheran e anti-occidentali come la Siria, il Sudan, il Venezuela e la Bolivia. Con la Siria degli Assad, che appoggiano Hamas ed Hezbollah, Ankara ha firmato tre accordi di cooperazione dal 2005. È inoltre diventata un alleato diplomatico del regime militar-islamista del Sudan del generale Al-Bashir, condannato dall’Onu e dalla Corte penale internazionale per genocidio. Dagli anni Novanta, Ankara si è molto avvicinata all’Arabia Saudita. Lo stesso presidente turco Abdullah Gul ha lavorato 8 anni come consulente presso la Banca Islamica dello Sviluppo (Bis) che finanzia organizzazioni islamiche radicali col denaro della Zakat. Parallelmente, la Turchia si è avvicinata all’Iran. Quando nel giugno 2009, i giovani manifestanti democratici iraniani contestavano la legittimità della rielezione di Ahmadinejad, i dirigenti turchi furono tra i primi al mondo a congratu-

larsi con Ahmadinejad. I motivi profondi della nuova alleanza geopolitica Iran-Turchia sono: 1) gli interessi geopolitici comuni. Ankara ha bisogno dell’energia (petrolio e gas) iraniana per il proprio consumo. Le pipeline e i gasdotti attraverseranno sia il territorio turco sia quello degli altri paesi membri dei paesi turcofoni (i cosiddetti T6: Azerbaigian, Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan, Kirgikistan e Tur-

queste armi. Il governo neo-islamico non ha mai accettato l’alleanza con Israele imposta dai militari kemalisti. Dall’operazione Piombo Fuso a Gaza in poi, Erdogan ha regolarmente criticato Israele. Fino a chiedere il suo bando dall’Onu.

Il raffreddamento nei suoi confronti si è manifestato anche con il recente rifiuto a farsi aiutare dopo il recente terre-

Non tocca all’Europa scristianizzata (che accoglie milioni di musulmani) dimostrare di non essere un club cristiano, ma alla Turchia provare di non essere un club islamico chia). 2) Gli scambi commerciali, che si calcola supereranno a breve i sei miliardi di euro all’anno. 3) L’antikemalismo: benchè l’Iran sia sciita e la Turchia sunnita, e benchè la costituzione turca si riferisca al kemalismo laico di Ataturk, i due governi sono ugualmente contrari al kemalismo “anti-islamico” inaugurato da Ataturk, visto come un apostata. 4) Il nucleare iraniano: secondo Erdogan, è ingiusto fare pressioni sull’Iran per il suo programma atomico, visto che nella regione “qualcun altro”- ovvero Israele - possiede

moto nella provincia di Elazig (Turchia orientale, 41 morti). A giudizio del governo a guida Akp accettare tale offerta d’aiuto sarebbe stato mal percepito dalla popolazione turca sempre più fanatizzata contro Israele. Un diniego arrivato poco tempo dopo la grave crisi turco-israeliana scoppiata a causa di una serie televisiva turca antisemita molto popolare in Turchia, La Valle dei Lupi. Il background ideologico antisemita e anti-israeliano di Erdogan e dell’Akp spiega gli eccessi verbali contro gli ebrei e

La lista dei best seller in Turchia include il Mein Kampf di Adolf Hitler, pubblicato 45 volte, l’edizione del Testamento politico di Hitler e del celebre pseudo giudeofobico I Protocolli dei Saggi di Sion, pubblicato più di cento volte tra il 1943 e il 2009.Tra le opere antisemite di gran successo troviamo quelle di Adnan Hoca, alias Harun Yahya, che denuncia il «giogo giudaico-massonico» e «l’alleanza tra nazismo e sionismo» e quelle di Aydogan Vatandas, autore di best seller incendiari tra cui Haarp e Agharta, che denunciano i progetti di dominazione planetaria degli Stati Uniti, delle forze occulte giudaico-massoniche e l’alleanza turco-israeliana. In cima agli scaffali il romanzo fantapolitico più venduto di questi ultimi anni è Metal Firtina (Tempesta di metallo), il solo ad aver tenuto testa al Codice da Vinci. Racconta l’occupazione della Turchia da parte degli Usa e termina con un “happy end”: la vittoria del piccolo Davide turco sul Golia imperialista americano. Nella Turchia candidata ad entrare nella Ue, si osserva una deriva autoritaria preoccupante del governo Akp. Tutto è cominciato quando Erdogan ha intentato un’azione giudiziaria contro il caricaturista Musa Kart, che l’aveva dipinto come un gatto arrotolato in un gomitolo di lana. Kart fu condannato ad un’ammenda di 3mila euro. Da quando è primo ministro, Erdogan ha intentato 130

processi, quasi tutti per degli articoli e delle caricature a suo giudizio lesive. Queste azioni giudiziarie si sono quasi sempre concluse con delle gravi multe per gli autori. Da qualche anno, però, il premier ha deciso di eliminare anche la stampa anti-islamica e i gruppi finanziari che appoggiano i movimenti aleviti laici o le personalità kemaliste anti-islamiche. Come il gruppo Suzer, dell’alevita Mustafa Suzer, finanziere dell’organizzazione alevita di Izzedin Dogan. Erdogan ha fatto proibire le attività bancarie del gruppo Suzer (processo in corso alla corte di Strasburgo) e lo ha fatto condannare a versare millioni di euro per aver appoggiato il capo degli aleviti, accusato di essere vicino a Israele e all’esercito. Poi ha attacato Cem Uzan (ora rifugiato in Francia, anch’egli alevita), proprietario della televisione e dei media del gruppo Star, al quale non ha mai perdonato di aver pubblicato una foto che lo ritraeva inginocchiato (in segno di rispetto) davanti al pericoloso terrorista afgano Gubuldin Hekmatyar, che accolse nel 1998 quando era sindaco di Istanbul.

Ultima delle grandi famiglie alevite perseguitate per aver denunciato «l’agenda nascosta» di Erdogan, è quella del magnate dei media Aydin Dogan, condannato a una multa di 2 milliardi di euro. Il gruppo Dogan Yayin Holdings, con 7 quotidiani (fra cui Milliyet e Hurriyet), 28 riviste e 3 Tv, era l’unico impero mediatico capace di sfidare la potenza crescente dell’Akp. Stranamente in Occidente, dove le limitazioni alla libertà di stampa in Russia suscitano sempre, e a ragione, l’indignazione di tutti, l’episodio non ha provocato la stessa reazione. Delle due l’una: o i turchi islamici si possono perdonare, oppure fanno semplicemnte più paura.


pagina 10 • 7 aprile 2010

panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Chi ha ucciso (davvero) Pier Paolo Pasolini? l cuore di Petrolio è tutto qui. Nella denuncia della ramificazione criminale del potere economico in Italia. Nella scoperta delle origini della strategia della tensione, orchestrata e finanziata dai potentati economici, con un gioco perverso tollerato dai più alti rappresentanti delle istituzioni. Nella consapevolezza della totale manipolazione degli organi di informazione in un Paese che non ha mai conosciuto, e forse non conoscerà mai, una vera libertà di stampa. Nella individuazione di un progetto eversivo, che corre parallelo alla storia repubblicana degli anni Settanta, e che funziona come perenne arma di ricatto, di corruzione, di potere». Il passo qui riportato è preso da Profondo Nero, edito da Chiarelettere e scritto a quattro mani da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza.

«I

Dunque, la domanda: perché fu ucciso Pier Paolo Pasolini? Per quanto scrisse nel suo romanzo politico e non romanzo letterario Petrolio che denunciava il potere occulto e stragista dell’Italia repubblicana. La conclusione degli autori è definitiva anche se lo dicono con un punto di domanda retorico: «È possibile continuare a credere che sia stato ucciso al culmine di una stupida lite tra “froci”»? Qualche giorno fa Veltroni ha scritto un lungo articolo sul Corriere della Sera e rivolgendosi direttamente al ministro della Giustizia chiedeva la riapertura delle indagini sull’omicidio di Pasolini. Il giorno dopo Alfano annunciava la riapertura del “caso Pasolini”. Dunque, ci saranno altre indagini, anche se non si riesce a immaginare cosa significhi indagare su un delitto compiuto il 1° novembre 1975 e per il quale c’è già da tempo un condannato che ha scontato la sua pena carceraria: Giuseppe Pelosi detto Pino la Rana ma chiamato in gioventù il Pelosino «perché ero un ragazzino, e non c’avevo un pelo di barba». Pelosi ha concesso un’intervista agli autori di Profondo Nero e ha ricordato, anche se non proprio bene, quella sera del novembre ’75: «Ancora oggi non so nemmeno se sono stato io a schiacciarlo sotto le ruote, o se l’avevano schiacciato prima quegli altri con la loro macchina». Pasolini e Giuseppe erano in auto, poi c’è l’assalto di cinque uomini, Giuseppe riceve un cazzotto, scappa, e quando ritorna Pasolini è riverso a terra, monta sull’auto e forse passa sul corpo di Pasolini non si sa se vivo o morto. Chi erano i cinque aggressori. Pelosi fa i nomi di due: Franco e Giuseppe Borsellino che, però, oggi sono morti. Gli altri tre? «Poi c’era questo che mi ha colpito, questo con la barba: non lo conoscevo, ma l’ho visto da vicino che aveva una quarantina d’anni. Gli altri due non so proprio chi fossero». Quale novità potranno portare le nuove indagini? È evidente che non si cerca chi uccise materialmente Pasolini, bensì i presunti mandanti. PPP scrisse sul Corriere: «Io so» chi sono i golpisti e gli stragisti. «Io so perché sono un intellettuale». È molto probabile che le nuove indagini porteranno prove intellettuali ma non giudiziarie.

Benzina, quanti ricatti ai danni degli automobilisti Si paga la presenza di troppe pompe sul territorio nazionale di Francesco Pacifico

ROMA. Se mai c’è stata pax al distributore, questa è durata poco. Di fronte all’ultima fiammata del greggio – 86 dollari al barile – le compagnie petrolifere si sono mosse di conseguenza. E in risposta allo sdegno di automobilisti, governo e consumatori per aver tenuto alle stelle il prezzo della benzina a Pasqua, ieri hanno deciso di portare la verde da 1,40 a 1,42 euro al litro e il gasolio a 1,244 euro. Il leader del Codacons, Carlo Rienzi, dice che al ritorno dalle vacanze gli italiani faranno i conti con una «stangata da 19 milioni di euro». In realtà – se c’è qualcosa di diverso rispetto agli anni scorsi – è che le compagnie non hanno applicato una consolidata strategia di marketing: limare le quotazioni in occasione della festività, dopo aver fatto lievitare il prezzo nei giorni precedenti. Invece a Pasqua il costo per un litro di verde o di diesel è rimasto stabile, mentre nelle settimane precedenti è cresciuto tra i 4 e i 5 centesimi.

me lande desolate, cosa che comporta altissimi costi per la logistica. A tenere in piedi un sistema così pesante e oneroso c’è proprio il prezzo consigliato: livellare verso l’alto l’offerta consente margini stabili a tutti gli attori della filiera. Va da sé, a scapito della clientela e grazie alle strozzature a valle, a livello di distribuzione. Rispetto agli altri Paesi l’Italia paga una certa ritrosia a fare rifornimento ai self service – che pure comporterebbe un risparmio tra i 4 e i 5 centesimi al litro – e la scarsa presenza di distributori presso i centri commerciali. Eppure la Gdo – vuoi per attirare nuovi clienti, vuoi per l’altà possibilità di strappare prezzi migliori all’ingrosso – non farebbe fatica a garantire un pieno con sconto superiore ai 10 centesimi al litro, come avviene all’estero. Ma, come segnala Carlo Stagnaro, «la lobby dei benzinai riesce a fare pesare i suoi voleri sull’agone politico e nelle regioni rette dal centrodestra come dal centrosinistra sbarra la strada ai colossi della grande distribuzione». Da almeno cinque ani a questa parte l’Antitrust non manca di inviare segnalazioni al Parlamento per intervenire su una materia che non fa fatica a definire anticoncorrenziale. Nel mirino dell’authority un sistema di leggi – nazionali e regionali – che impedisce l’ingresso di nuovi soggetti nel mercato. Innanzitutto ci sono le norme che limitano il mix merceologico: dal benzinaio, accanto ai carburanti o ai pezzi di ricambio si possono vendere gli snack, ma non le sigarette o i giornali, quando l’esperienza internazionale ha dimostrato che le abitudini dei consumatori vanno in direzione opposta.

La vendita dei carburanti sconta strozzature a monte (il prezzo consigliato) e a valle (le restrizioni all’ingresso dei supermercati)

Di fronte a certi atteggiamenti sarà difficile per il governo trovare una soluzione. Anche perché, nota Carlo Stagnaro, economista e responsabile Energia dell’Istituto Bruno Leoni, «la figura del benzinaio è abbastanza sui generis. Di fatto dovrebbe essere un piccolo imprenditore, invece si comporta come un dipendente.Tant’è che non esiste nessuna categoria di autonomi che possa vantare una apposita sigla di rappresentanza tra i sindacati confederali». Ma soprattutto la benzina è l’esempio lampante di come si fanno le liberalizzazioni in Italia: infatti registra strozzature dell’offerta in fase di produzione e di distribuzione finale, a monte come a valle. Guardando a monte della filiera, un ostacolo insormontabile diventa il prezzo consigliato dal produttore, che nella prassi finisce per avere gli stessi effetti di quello regolamentato. Da alcuni anni molte compagnie (Eni e Shell su tutte) hanno persino deciso di modulare questi prezzi a livello regionale, eppure è difficile trovare distributori che si fanno concorrenza a colpi di promozioni. In Italia ci sono 24mila impianti, il doppio di quelli esistenti in Germania, Gran Bretagna Francia. Di questi 14mila sono di proprietà delle stesse compagnie e in almeno due terzi dei casi sono piccoli chioschi o strutture di piccole dimensioni. Per non parlare del fatto che sono ubicati in centri cittadini co-

A livello regionale poi si deve fare i conti con una giungla di prescrizioni per i new comers, che mettono a dura prova lo spirito imprenditoriale. I nuovi impianti infatti devono garantire la presenza di una pompa ecocompatibile, di un distributore di gpl o di metano, che però comporta grandissimi costi di manutenzione e di una certa distanza dai centri abitati. Il che diventa un problema insormontabile in un Paese densamente popolato come il nostro. Va da sé, che senza prezzi consigliati e vincoli merceologici, avremmo meno pompe di benzina ma prezzi dei carburanti più convenienti.


panorama

7 aprile 2010 • pagina 11

Chiedono al Papa di scusarsi e aprire gli archivi. Ma nella lettera ai vescovi irlandesi Benedetto XVI lo ha già fatto

La strategia dell’assalto mediatico Dietro l’onda “anomala” che sta flagellando la Chiesa ci sono grandi interessi di Luigi Accattoli giorni di Pasqua hanno visto un rilancio dell’onda anomala mediatica che sta flagellando la Chiesa Cattolica come se si trattasse di un covo di pedofili e che prende di mira il Papa indicandolo come corifeo degli insabbiatori, che è l’esatto contrario della verità. Ma forse proprio in questi giorni è iniziata la reazione del mondo ecclesiastico e cattolico a questa voga persecutoria: era ora e conviene dare un’occhiata panoramica a quanto è avvenuto e a come pare stia per svilupparsi la reazione, di cui si è fatto portavoce in primis il cardinale decano Angelo Sodano negli “auguri”al Papa letti in mondovisione domenica prima della celebrazione in piazza San Pietro.

I

L’attacco ha avuto la sua punta nei commenti immediati dei siti informativi e dei quotidiani on line, tra domenica e lunedì, incentrati sul fatto che il Papa il giorno di Pasqua aveva “taciuto” sulla pedofilia: come se fosse quello il momento giusto per una risposta ai media che lo stanno attaccando in gran parte del Nord del mondo. Si tratta di una campagna che svolge un teorema accusatorio a senso unico, rivangando il rivangabile e incolonnando uno sull’altro casi avvenuti in paesi diversi e in più decenni. Ognuno di essi ha un suo inquadramento e una sua risposta che viene data in tempi relativamente rapidi: la comunicazione va-

ticana e delle conferenze episcopali sta migliorando a vista.

Ma le testate coinvolte non si curano di alcuna risposta e quasi ogni giorno tirano fuori un’altra storia. Dietro ci sono grandi interessi: di studi legali - specie negli Usa - che chiedono risarcimenti per conto dei “molestati”, di ambienti a orientamento laico e laicista, dei media stessi alla ricerca di un’audience sensibile alla denuncia scandalistica. «Come mai il Papa ha taciuto?» Si risponde che ha parlato il cardinale Sodano e allora

parte l’accusa al “decano”che ha assicurato il Papa sul fatto che «il popolo di Dio non si lascia impressionare dal chiacchiericcio»: non si vergogna a definire lo scandalo come un “chiacchiericcio”? In verità il cardinale faceva eco a un’espressione usata dal Papa stesso la domenica delle Palme, quando aveva invocato da Cristo «il coraggio che non si lascia intimidire dal chiacchiericcio delle opinioni dominanti». Ma chi svolge una campagna non bada alla fonte di un’espressione e va avanti con la sua impresa. A ogni momento reclama che il Papa “chieda scusa” e “apra gli archivi”. Nella lettera agli irlandesi - che è del 20 marzo Benedetto XVI si era detto «scandalizzato e ferito» per le colpe dei sacerdoti «traditori» della loro missione, aveva indetto un anno penitenziale e una «visita apostolica» per fare pulizia, aveva riconosciuto gli «errori» compiuti dai vescovi e «con umiltà» aveva parlato alle vittime esprimendo «vergogna e rimorso».

Un teorema accusatorio a senso unico, che mette insieme casi molto diversi e vecchi di decenni

Dunque le sue scuse le ha presentate e ha indicato la via per rimediare al malfatto. C’è da salutare con totale adesione la sua volontà di fare chiarezza: dopo tanti decenni di nascondimento dei fatti, finalmente si dà la priorità alla tutela dei bambini e dei ragazzi, non si insabbiano le denuncie, si favoriscono le inchieste dei tribunali civili, si dialoga

con le vittime per aiutarle a imboccare un cammino di guarigione.

Per intendere la strategia dell’assalto mediatico va posta attenzione alla dimensione del fenomeno. Secondo indagini citate ultimamente dallo scrittore cattolico statunitense George Weigel, il 2 per cento dei molestatori sessuali accertati per gli anni che vanno dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta erano - negli Usa - preti cattolici. È un fatto orribile ma il due per cento vuol dire un’entità statisticamente minima, eppure di loro si è parlato più di tutti gli altri sommati insieme. Quella percentuale si è poi molto ridotta, stante l’opera di repressione e prevenzione attuata dalla stessa Chiesa, tant’è che nel “rapporto”dei vescovi statunitensi per il 2009 sono stati segnalati sei casi certi di abuso sessuale. E stiamo parlando di una comunità che conta sessantacinque milioni di battezzati. Anche per merito di Benedetto XVI che più di tutti ha contribuito all’adozione di una linea severa e trasparente oggi gli ambienti della Chiesa Cattolica sono tra i luoghi più sicuri per i bambini e i ragazzi. Nessuno sta facendo quanto la Chiesa di Roma per correggere gli errori compiuti in questo campo. Errori che fino a ieri erano di tutti, a cominciare dalle famiglie che anche quando sapevano evitavano le denunce. www.luigiaccattoli.it

Sconti. Pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il decreto: da ieri aperto il registro per i commercianti

Al via le procedure per gli incentivi di Gualtiero Lami

ROMA. Ieri si è messa in moto la complessa macchina organizzativa dei nuovi incentivi promessi dal governo a una serie di ambiti industriali dopo la decvisione di non prolungare quelli alle automobili. Stavolta di stratta di un bonus totale di 300 milioni di euro che riguarda ciclomotori, cucine, elettrodomestici, abbonamenti a internet veloce, case ecologiche, motori marini e prodotti industriali, che produrrà - secondo le rosee previsioni del governo - benefici per un milione di famiglie. La prima fase, tuttavia, è riservata ai venditori. Dal 15 aprile, invece, partiranno gli acquisti «con lo sconto» da parte di consumatori e imprese. Ieri, dunque, con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, è entrato in vigore il decreto attuativo: i venditori avranno a disposizione una decina di giorni per registrarsi in un apposito elenco prima di poter attivare l’effettiva erogazione degli incentivi ai consumatori. Una scelta - quella di dividere la procedura in due fasi - che ha lo scopo di garantire la massima trasparenza e andare incontro alle richieste delle prin-

cipali associazioni della distribuzione e dei diversi operatori delle telecomunicazioni, per evitare rischi di congestione.

Poi, come s’è detto, da giovedì 15 aprile consumatori e imprese potranno cominciare ad acquistare i prodotti con gli incentivi, di cui si potrà beneficiare sino alla fi-

zate, pompe di calore per acqua calda), 20 milioni alle nuove attivazioni di linee telefoniche a banda larga per i giovani fra i 18 e i 30 anni (ciascuno avrà un bonus da 50 euro). Otto milioni andranno per l’acquisto di nuovi rimorchi e semirimorchi, 20 per le macchine agricole e movimento terra, 20 milioni per motori fuoribordo e stampi per scafi da diporto. Quaranta per le gru a torre per l’edilizia. Dieci per l’acquisto di inverter, motori ad alta efficienza energetica, Ups e batterie di condensatori. Il problema, con tutta evidenza, è capire come accedere ai finanziamenti (o agli sconti) e soprattutto verificare chi ne ha diritto (nel caso degli «immobili ad alta efficienza energetica, per esempio).

Dal prossimo 15 aprile, i cittadini potranno rivolgersi ai negozi e ai rivenditori per comprare i motorini ecologici o le cucine con il bonus ne dell’anno, salvo che i fondi non vengano esauriti prima. In particolare, per i motocicli il bonus totale è di 12 milioni di euro, per le cucine componibili 60 milioni e stesso importo per le agevolazioni agli immobili ad alta efficienza energetica. Cinquanta milioni sono destinati agli elettrodomestici (lavastoviglie, forni elettrici e piani cottura, cucine a gas, cappe climatiz-


il paginone

pagina 12 • 7 aprile 2010

Bisognava aprire linee di comunicazione, costruire un ponte

Come ho conv L’ex direttore della “Padania” racconta in prima persona il triennio che ha traghettato il Carroccio dai riti druidici dei Celti alle radici cristiane “bianche” e moderate di Giuseppe Baiocchi segue dalla prima Ma anche nella chiamata ad una nuova religiosità alternativa e popolare, tale da mescolare credenze e superstizioni cristiane insieme a derive ecologiste neopagane. Restava è vero la “costola” robusta dei “Cattolici Padani”, fedeli all’ortodossia e alla liturgia ecclesiale (oltretutto guidati dal patriarca Giuseppe Leoni che era l’altro indiscusso fondatore del movimento leghista) ma appariva certamente sussidiaria, se non marginale.

Anche perché dalla parte di una gerarchia episcopale ancora nostalgica della Dc, e in particolare dalla Chiesa ambrosiana (arcidiocesi che comprende anche il Varesotto), veniva il leit motiv secondo il quale per i fedeli «...votare la Lega non era certo un peccato, ma sicuramente un errore...». Eppure il nuovo partito sfondava nelle valli e nelle Prealpi, nella ricca fascia pedemontana tradizionalmente “bianca”. Ma il dialogo sul territorio (a parte sporadici casi di basso clero) era interrotto, se non addirittura inesi-

stente. «Non si parlano, non si conoscono...» era il preoccupato richiamo dello storico Giorgio Rumi che invece sentiva quanto la buona gente delle valli avesse fondati motivi nel lasciarsi sedurre da un messaggio di protesta, impreciso nei valori e tuttavia suscettibile di derive alla lunga pericolose.Serviva dunque aprire linee di comunicazione, costruire un ponte di dialogo che, senza anatemi e nella nuova libertà delle scelte politiche, non facesse perdere a quell’elettorato tradizionalmente “bianco”e moderato il legame forte con le radici cristiane.Toccò allora a chi qui scrive (che per il Corriere della Sera aveva seguito la Lega fin dai suoi esordi) vivere la sfida, accettando per un triennio tra il 1999 e il 2002 la direzione del quotidiano La Padania.

Nella fase di fine Millennio si compiva una globalizzazione accelerata che appariva trionfante e invincibile: e, più da vicino, il Carroccio chiudeva, con i viaggi da Milosevic nella Serbia in guerra, la stagione della secessione gridata e solitaria. L’organo quotidiano divenne allora il luogo deputato a un inedito “annusarsi” con tutte le altre forze politiche (e nella paziente tessitura di quella che poi sarebbe diventata la “Casa delle Libertà”), nel confronto con intellettuali disposti a ragionare sui temi della società e del territorio (a cominciare da Giuseppe De Rita e Piero Bassetti), nella raccolta nella storia delle voci e delle esperienze culturali e politiche che avevano combattuto la forze dello statalismo centralista. Non solo: su quella Padania comparvero contributi e commenti di voci di area cattolica di per sé estranee al pensiero federalista e tuttavia capaci di stimolare il dibattito culturale in dialettica con quel “pensiero unico” che aveva monopolizzato di fatto tutta la stampa nazionale. Come la storica Angela Pellicciari che faceva notare, con incontestabili appoggi documentali, il peso massonico e anticristiano della vicenda del Risorgimento. O, sull’economia, gli acuti esordi nella pubblicistica del banchiere Ettore Gotti Tedeschi, poi arrivato a scrivere su L’Osservatore Romano e, di recente, assurto

Bossi confessava spesso di ritrovare più consonanza con il solido autonomismo di Luigi Sturzo che con l’architettura di pensiero di Carlo Cattaneo a guidare lo Ior, la banca vaticana. E sul terreno riformatore più specificatamente istituzionale, non mancavano, per logica natura delle cose, i riferimenti corposi a una cultura di origine cristiana. Più volte, quando ogni sera passava a colloquio con il direttore del giornale (e senza dare neppure un occhio alla prima pagina da pubblicare), l’onorevole Bossi confessava di ritrovare più consonanza rispetto alla sua azione politica con il solido autonomismo di Luigi Sturzo più che con l’architettura di pensiero di Carlo Cattaneo, anche se in pubblico non poteva certo ammetterlo. Apparendo comunque (e non solo sul terreno federalista) insieme attirato e respinto dal mistero della fede cristiana - che disconosceva solo per se stesso - e dai suoi influssi innegabili sedimentati nella storia e nella società. Semmai dal suo bagaglio di letture amplissimo nel corso degli anni e tuttavia affastellato e privo di un ordine gerarchico emergevano in conti-


il paginone

7 aprile 2010 • pagina 13

e di dialogo senza anatemi nel nuovo quadro politico

vertito la Lega

Sul giornale ebbero spazio contributi e commenti di voci di area cattolica di per sé estranee al pensiero federalista e tuttavia capaci di stimolare il dibattito

nuazione interrogativi da affrontare e stereotipi da smentire. Così non fu impossibile far notare la fragilità dell’edificazione padana di una narrazione religiosa alternativa: disseppellire i Celti morti da tempo e privi di tracce visibili era un’impresa sovrumana, soprattutto se i voti andavano cercati tra i vivi. A cominciare proprio da quei cristiani che sul territorio del Nord restavano comunque affezionati a quegli evidentissimi e ineliminabili campanili. Cristiani con tutte le loro debolezze. E quando partivano le non infrequenti invettive contro le gerarchie ecclesiastiche e i loro traffici di potere, diventava quasi appassionante la sfida a chi più sapeva citare nel passato e nel presente le porcherie commesse da uomini della Chiesa.

Lasciando sospesa comunque la domanda ultima: se con tutta quella sporcizia compiuta dai preti, la Chiesa aveva resistito e resisteva vitale da duemila anni, (ben più di ogni altra umana istituzione) allora voleva dire che, nel suo ruolo nel mondo, si manifestava misteriosamente una strana presenza divina. D’altronde quella era la stagione politica appena successiva all’introduzione dell’Euro. E la retorica sui trionfi della moneta unica si accompagnava alla spinta fortissima all’omologazione culturale. È passata si e no una manciata d’anni, eppure sembra oggi archeologia ricordare quanto pesante fosse l’influsso a delega-

re all’Europa non solo la moneta e il protettorato giurisdizionale (a cominciare dal“mandato di cattura europeo”) ma altresì l’intera cornice del diritto che, per via giuridica, disegnasse un intero e “corretto”modello di vita per tutte le popolazioni del continente. Dal riconoscimento della “famiglia trasversale” al diritto dell’adozione per gli omosessuali alle sanzioni per presunte omofobìe e xenofobìe fino alle pratiche indirizzate all’eutanasia, il clima culturale era improntato ad una egemonia che criminalizzava ogni dissenso. E qui il vitalismo della Lega, magari rozzo e poco “rispettabile”, veniva ad alzare un argine popolare e anti-elitario che aveva un suo peso al di là dei confini e che portava il giornale ad essere il più letto nelle ambasciate e nei consolati stranieri. Colpì allora un’intervista alla Padania di Otto d’Absburgo, erede non solo di una grande civiltà mitteleuropea ma anche esponente di assoluto prestigio del Ppe: la consonanza sui valori antropologici e la resistenza alla cultura dominante ristabiliva un’identità di vedute proprio sulla dimensione fondativa delle radici cristiane.

D’altronde il reticolo del millenario vissuto cristiano conduceva, ben oltre i confini nazionali, a collegamenti storici e culturali più ampi e inattesi, finendo per il Carroccio proprio in quel di Pontida. Certo,ci sono le zolle fangose del “sa-

cro pratone” dove il partito ormai più vecchio del panorama politico celebra la sua auto identificazione. Ma, da un po’di tempo, spingendosi più in là: fino alla storica abbazia di San Giacomo, dove avvenne il giuramento dei Liberi Comuni nel 1167, e che tutt’ora abitata da una fiorente comunità di monaci benedettini cluniacensi, venera da un millennio la sacra reliquia portata dalla lontana Compostela, del braccio combattente di Santiago “Matamoros”...

In questa temperie il terribile attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 penetra nel profondo della coscienza collettiva: e mettendo a nudo la fragilità delle opulente società occidentali richiama con straordinaria durezza a interrogarsi sul significato ultimo del proprio vivere associati. Non è soltanto la sfida dell’Islam radicale e rivoluzionario a inquietare, quanto piuttosto il“bisogno di senso” e la natura della propria identità, costretta comunque a rivelarsi di fronte alla minaccia che viene dall’ignoto e dal lontano. Le risposte relativistiche delle logica multiculturale appaiono insoddisfacenti e ingannatrici: e allora il radicamento cristiano si configura come l’unica autentica alternativa, pur se ambiguamente declinato in misura ossessiva sul versante complesso e drammatico dell’immigrazione. Con le sue risposte provocatorie e sopra le righe, la Lega intercetta pressocchè da sola il disagio e il malessere dei “penultimi”, ovvero i ceti popolari che si incrociano ogni giorno nelle periferie delle metropoli con le realtà più sgradevoli e criminali del di-

sordinato fenomeno immigratorio. Dove cioè non si nota il contributo al lavoro e alla produzione, dove non fiorisce l’incontro tra diversi, ma dove si soffre la sopraffazione, i traffici illeciti, la perdita di sicurezza sociale dovuta alla diffusa microcriminalità. E sulla regolazione dei migranti resta aperto l’unico motivo di conflitto tra la politica della Lega e la linea di accoglienza cristiana della Chiesa universale. In tutti gli altri ambiti, e in particolare sui valori “non negoziabili”, la convergenza è ormai naturale, lungo il cammino partito dalla svolta di un decennio fa. I contatti sono diventati frequenti e non più necessariamente riservati. Quei ponti che apparivano impossibili sono di fatto una gettata robusta: semmai, con la brutalità dell’immediato interesse politico, si sono eliminati i “pontieri”, nell’illusione che, nella loro inquietudine e autonomia intellettuale, siano fastidiosi e non servano più. Ma è anche attraverso quei ponti che valorizzavano l’empirica e sensata “cultura dal basso” (così omogenea a quella “Chiesa di popolo” che costituisce la vera eccezione italiana) che si è diffusa quell’abitudine amministrativa al buon senso, che consente oggi al ministro Maroni di proclamare la Lega come l’erede reale di quella “Dc buona” così importante e positiva per le realtà locali. E di cui le prime uscite dei neo governatori sulla pillola abortiva sono solo la logica conseguenza.

Piuttosto il nuovo feeling con la Chiesa (non tutta) appare il punto d’arrivo obbligato per un movimento politico che, strutturandosi come “sindacato del territorio”, incontra per forza il paesaggio sociale dei campanili, dove pesca nuovi consensi. Ma, al culmine della sua parabola, sembra esaurire il serbatoio culturale accumulato in passato. Anche perché manca, al di là dell’esercito di buoni amministratori, il luogo di elezione per sviluppare nel tempo l’elaborazione di pensiero che presiede e precede l’azione politica sui temi qualificanti: ne è prova il lungo silenzio, ad esempio, sulla collocazione internazionale. Sotto la cenere cova, proprio nella Lega, un filone laicista, se non pannelliano, che spesso ha condizionato diverse scelte del movimento. E che qua e là riemerge, toccando lo stesso leader. Basta accorgersi di quanto contiene il Barbarossa, il film di Renzo Martinelli ma con evidente mano bossiana, dove spunti addirittura anticlericali se non paramassonici sono sparsi a piene mani in una distorsione stupidamente antistorica. E dentro queste ambiguità la stessa Chiesa (come sa bene mons. Fisichella fin dalle antiche interviste a La Padania) ha sagge carte da giocare: cogliendo le opportunità, ma con un salutare distacco.


mondo

pagina 14 • 7 aprile 2010

Diplomazie. Il governo invia i suoi dottori all’estero e questi sono costretti a rimanerci. Oppure a fuggire per sempre

Cuba? Esporta medici E a L’Havana crolla la qualità degli ospedali, un tempo fiore all’occhiello di Francesco Guarascio

L’HAVANA. Guillermo Farinas non è solo il Gandhi cubano, come è stato ribattezzato negli ultimi tempi, ma anche un ostinato giornalista che ha raccontato per anni i paradossi del regime, sfatando i miti che la propaganda di stato ha saputo far circolare nel mondo intero. Il suo punto forte è sempre stata la sanità, essendo medico psicologo per formazione. Incontrandolo nella sua casa di Santa Clara qualche tempo fa, aveva lucidamente svelato la finzione propagandistica delle cosiddette missioni umanitarie inviate da Cuba in decine di Paesi sotto-sviluppati. Il regime si fregia di offrire aiuti umanitari a comunità prive di supporto medico nel continente latinoamericano, ma di fatto si serve di medici inviati all’estero in condizioni di semi-schiavitù. I dottori cubani sono privati dei passaporti, costretti all’estero per diversi anni senza possibilità di rientro a casa, pagati due soldi che a volte non sono neanche sufficienti per la sussistenza nei Paesi di destinazione. Il regime non ha difficoltà a reclutare medici per queste missioni visto che a Cuba lo stipendio medio di un dottore è di

una ventina di dollari al mese, con i quali non si riesce a comprare neanche un paio di scarpe. Attirati da paghe di poco superiori a quelle percepite a Cuba e soprattutto dalla promessa di migliori condizioni economiche al rientro nell’isola, molti medici sottoscrivono pur sapendo di andare incontro ad anni lontani dalla propria famiglia. Farinas raccontava di dottori partiti per due anni, ma il

in Paesi con economie spesso di tipo capitalista, i dottori cubani realizzano presto che la paga che ricevono, seppure superiore a quella percepita nell’isola, è però insufficiente per vivere in modo decente negli stati di destinazione. A volte si verifica dunque il paradosso che invece di mandare soldi alle famiglie rimaste a Cuba, i medici in missione devono fare affidamento sulle somme invia-

Il regime si fregia di offrire aiuti umanitari a comunità prive di supporto medico nel continente latinoamericano, ma di fatto si serve di medici inviati all’estero in condizioni di semi-schiavitù cui rientro viene regolarmente posticipato dalle autorità. «Molti medici hanno da tempo maturato il diritto di rientrare spiegava Farinas - ma il governo dice loro di attendere, e i mesi scorrono senza contatti con la famiglia». Prigionieri all’estero, dunque. Nei Paesi di destinazione i medici vivono in stabilimenti comuni, come soldati in caserma. Sono costantemente sorvegliati e i contatti con la popolazione locale vengono ridotti al minimo. Giunti

te loro dai familiari. Non c’è da stupirsi se molti dottori, una volta all’estero, colgono l’occasione per tagliare la corda. Molti si rifugiano a Miami. È per questo che le autorità selezionano appositamente medici sposati, proprio per limitare il rischio di fuga. Ma invece di limitare le diserzioni, la strategia governativa non ha ottenuto altro se non l’aumento dei divorzi nell’isola. Senza nessun contatto per anni, le donne rimaste a Cuba si consolano trovando

nuovi partner. Le ricadute sulla popolazione cubana non si calcolano soltanto con l’aumento dei divorzi, ma anche con un rapido deterioramento dei servizi sanitari nazionali. Ancora considerati all’estero come uno dei vanti del sistema comunista, gli ospedali cubani sono di fatto privi di strutture, farmaci e sempre più spesso di dottori. Al calo del personale qualificato, le autorità ovviano usando i giovani che dall’estero vengono a studiare medicina a Cuba.

«Mi piace perché qui faccio esperienze dirette», confidava con candore una studentessa ventenne proveniente dall’Honduras. E infatti questi giovani inesperti arrivano spesso a dare manforte direttamente in sala operatoria, con buona pace dei pazienti cubani, ancora una volta sacrificati sull’altare dell’autopromozione del regime. Nuove sfornate di dottori provengono inoltre dalle università cubane, i cui programmi di medicina sono stati am-

Il fascino sottile di una dittatura I Castro non usano i metodi dei totalitarismi europei: ne hanno sviluppato di nuovi a dittatura castrista raramente uccide i suoi oppositori, non li fa scomparire come in Cile o in Argentina, quasi mai li deporta in campi di lavori forzati. Evita azioni plateali: chi può ricordare una Tiananmen cubana? Punta a formare l’uomo nuovo, ma rifugge dagli estremismi ideologici che dalla Cambogia di Pol Pot alla Korea di Kim Jong-il hanno generato e generano massacri e distruzioni unanimemente condannati. È molto più sottile. Qui l’ideologia è rivestita di pragmatismo. Non ci si sporca le mani col sangue di chi non ci sta. Ma lo si spia costantemente. Lo si arresta e lo si scarcera dopo poche ore. O viceversa, lo si ferma per un piccolo crimine e poi gli si aumenta la pena fino quasi all’ergastolo, senza processo. Solo in casi estremi si ricorre alla pena capitale. Si genera tensione, paura, un terrore psicologico che risulta di fatto estremamente efficace per fiaccare i barlumi di rivolta. E a differenza che in altri regimi, questo sistema riesce a non insozzare l’immagine internazionale dell’isola della Revolucion. Castro non è Stalin, ammettono an-

L

che gli anticastristi. «A Cuba ci sarà pure una dittatura, ma in salsa caraibica. Senza libertà ma con tanto sole e mojito», ripetono i turisti occidentali di ritorno dall’isola. Il dissidente che si immola per la libertà morendo dopo settimane di sciopero della fame è un intoppo nell’ingranaggio perfetto messo a punto da Fidel e portato avanti senza sbavature dal fratello Raul.

Orlando Zapata Tamayo, morto a fine febbraio dopo 82 giorni di protesta, è un pericolo per il regime, è un martire che grida giustizia e che impedisce al mondo di girare ancora una volta la testa. Orlando Zapata è un esempio che altri vogliono seguire. Una spina nel fianco del regime anche da morto. Guillermo Farinas ha raccolto il suo tragico testimone. È in sciopero della fame da metà marzo. Un’altra volta. Incontrandolo a fine 2007 nella sua casa di Santa Clara, mostrava sul collo e sulle braccia i segni dell’alimentazione via flebo. Dopo l’ennesimo arresto per non meglio specificata attività sovversiva, decise già

qualche anno fa di avviare la protesta estrema. Durò 17 mesi senza toccare cibo. Poi l’attività giornalistica clandestina per Radio Martì e gli altri mezzi di informazione banditi lo spinsero ad abbandonare la protesta. Comunicare al mondo i paradossi del regime ritornò ad essere più importante di uno scontro frontale potenzialmente fatale. Farinas è un medico psicologo prestato al giornalismo. Come medico non aveva futuro in un sistema che obbliga alla completa sottomissione. Le sue attività sindacaliste nell’ospedale di L’Avana negli anni ’90 gli fruttarono il primo arresto e 11 mesi di carcere. Seguirono altri arresti. Ma Farinas non ha mai mollato. C’è da chiedersi quanto durerà questa volta. Un altro medico potrebbe imitarlo. Darsi Ferrer ha già fatto uno sciopero della fame per protesta contro un fermo di 80 giorni per il sospetto acquisto di materiali per rinnovare la sua abitazione. In un Paese dove lo stato controlla ogni attività, aggiustarsi la casa è un reato.Visitando l’abitazione di Ferrer nell’aprile 2007 e notando le terribili condizioni igieniche


mondo tratta di una tremenda pratica dettata dalle esigenze della propaganda castrista. Il tasso di mortalità infantile è infatti uno dei principali indicatori mondiali per stabilire il grado di sviluppo di uno stato. Dire al mondo, e soprattutto ai Paesi meno sviluppati, che a Cuba muoiono meno neonati che negli Stati Uniti, è la priorità per un regime che fa della battaglia ideologica la sua ragione di esistere. Una priorità da raggiungere a qualunque costo. E in questo caso il costo si misura in vite, strozzate prima di poter alimentare statistiche sgradite.

putati per soddisfare la crescente domanda di lavoratori. I tempi della formazione di base sono stati dimezzati. E per alcune specializzazioni bastano appena sei mesi, rispetto ai tre anni necessari in passato. «I medici migliori sono all’estero e i cubani li curano gli apprendisti», rivelava sconfortato Farinas. Ma la schiavizzazione dei medici è nulla al confronto della terribile pratica degli aborti d’ufficio, che un altro medico cubano Darsi Ferrer

spiegava in occasione di una passata visita, precedente al suo arresto per attività sovversive. La morte di un neonato in effetti non è solo una tragedia per la famiglia coinvolta ma è anche una grave sconfitta per qualunque sistema sanitario. Le autorità cubane lo sanno bene e proprio per evitare che queste tragedie si verifichino intervengono a monte facendo pressioni sui medici perché effettuino aborti d’ufficio in tutti i casi di potenziale rischio. Si

in cui era costretto a far vivere la giovane moglie e il suo bambino, non ci si stupisce che abbia voluto apportare qualche miglioramento.

Tanto è bastato per arrestarlo e detenerlo in carcere senza giustificazione per tre mesi. La vera ragione dell’arresto erano in effetti le sue attività da dissidente che squarciarono il velo dell’ipocrisia sulla sanità cubana. Le sue dichiarazioni sono state spesso riprese dai media internazionali. Ed è per questo che il suo fermo è stato trasformato in arresto. Darsi è ancora in carcere. Continua a raccontare, tramite la moglie o altri prigionieri, le terribili condizioni delle carceri cubane, dove nessuna ong è mai riuscita a mettere piede. Ferrer si era da tempo abituato alla durezza del regime. Da libero, era infatti uno delle vittime preferite dei cosiddetti “actos de ripudio”, con cui la scaltrezza del regime nell’imporre il pugno duro pur preservando il mito di uno stato paternalista, trova la sua sintesi più raffinata. «Un atto di ripudio a Cuba è la forma light di un linciamento, la tropicalizzazione del pogrom europeo, la sublimazione dei soprusi nazisti con maracas e bongo»: raccontava Juan González Febles, giornalista indipendente cubano, più volte vittima di questi atti. Per dissuadere qualche personaggio scomodo dal portare avanti iniziative percepite come anti-governative, il regime si serve solo successivamente di ar-

Le autorità li chiamano “casi incompatibili con la vita”, come raccontava Ilda Molina, famosa neurochirurga cubana, parlamentare e fondatrice alla fine degli anni ’80 di un centro chirurgico all’avanguardia, ma poi estromessa dalle sue cariche perché in contrasto con le scelte del governo di riservare la clinica ai clienti stranieri con valuta pregiata. I casi incompatibili con la vita sono quelli di feti che presentano minimi segni di patologie o deformazioni. A volte non dipende neanche dai feti, ma dalle madri. «Se risultano avere problemi di natura mentale, vengono automaticamente classificate come a rischio» e il loro bambino viene eliminato d’ufficio, senza a volte neanche consultarle, raccontava Darsi Ferrer. Le statistiche ufficiali parlano chiaro. Dopo dieci anni dall’in-

7 aprile 2010 • pagina 15

sediamento nel 1959 del regime comunista, il tasso di mortalità infantile a Cuba ha incominciato a scendere in modo costante. Da 46,7 decessi ogni 1.000 parti nel 1969 si è passati a 21,9 alla fine degli anni ’80. A metà anni ’90 il regime poteva vantare solo 9,9 neonati perduti su 1.000 nati. Nel 2000 con il nuovo secolo il tasso è calato a 7,2. Quindi 6,2 nei cinque anni successivi, fino ad uno degli ultimi roboanti annunci del Granma, il quotidiano di partito: nel 2006 a Cuba si sono registrati 5,3 decessi ogni 1.000 parti. Negli Stati Uniti il rapporto è di circa 6 su 1.000. Conquiste scientifiche e di efficienza sanitaria che mal si coniugano tut-

tavia con la vista degli ospedali fatiscenti che ospitano i malcapitati pazienti cubani.

Spesso mancano i beni e gli strumenti di prima necessità, come le medicine più elementari o i bisturi. A Santa Clara, la città liberata dal dottor Che Guevara, e dove le sue spoglie sono conservate in un enorme mausoleo in stile comunista, la tac non ha funzionato per anni, rivelava Farinas, che risiede nella città. L’incredibile successo cubano nella lotta alla mortalità infantile - raccontava Ferrer - «non si spiega dunque altrimenti che con la tremenda pratica degli aborti d’ufficio, praticati da medici impauriti e

Sotto accusa anche le statistiche di mortalità infantile: il governo impone l’aborto per quelle gravidanze a rischio che potrebbero peggiorare i dati e rivelare la verità

resti e condanne. In genere comincia proprio con gli atti di ripudio. Una tipica sequenza vede decine di persone radunarsi davanti la casa della vittima. L’occupazione della zona può durare molte ore, durante le quali la folla si tiene impegnata gridando insulti e lanciando pietre contro l’abitazione presa di mira. I malcapitati hanno spesso famiglia, proprio come Darsi Ferrer. Coniugi e bambini sono testimoni inerti, vittime anche loro di un terrore piombato dal nulla fin dentro casa. È raro che qualcuno si azzardi ad uscire. A compiere questi atti non sono le forze di sicurezza o i militari, ma

minacciati. Gli obiettivi propagandistici delle autorità prevedono inoltre una protezione rafforzata per i bambini fino al primo anno di età, quando raggiungono cioè la fase in cui non possono più essere considerati neonati». A quel punto il supporto sanitario diventa meno importante. I medici, costretti a carichi di lavoro sempre più massacranti per coprire i colleghi in missione all’estero, regolano il loro grado di concentrazione all’età del paziente. E se un bambino fuori dalla fascia protetta o un anziano muoiono per una disattenzione o un’attesa troppo lunga, le autorità sono pronte a chiudere un occhio.

medici che rifiutano le pratiche disumane imposte dal regime, leader di movimenti di opposizione appena sbocciati, professionisti stufi della corruzione dilagante, o semplicemente donne che protestanp per l’arresto dei mariti o dei padri.

«Prima mi sentii profondamente indifesa. Quindi provai grande indignazione. Quel giorno eravamo sole a casa, mia figlia e io. Hector, mio marito, era in carcere a scontare una condanna di 25 anni. Una folla si raccolse di fronte casa. Gridavano insulti di ogni genere, pieni di volgarità. Incominciarono a tirare cose contro l’appartamento, pietre, rifiuti. Che pena! Si prova un senso di debolezza assoluta, una paura atroce. Di ogni esperienza però si può fare tesoro. Un giorno, attaccata in strada non sentii paura. Riuscì a scappare dalla folla, arrivai a casa e presi una macchina fotografica. Quando uscì per fotografarli, si dispersero». È il racconto di Gisela Delgado Sablón, una delle “Damas de Blanco”, l’unico movimento che osa sfilare contro il regime. Dopo la messa la domenica escono insieme, tutte vestite di bianco con le foto dei cari attaccate ai vestiti. Camminano silenziosamente per un po’, finché qualche membro del partito non le attacca disperdendole, come successo qualche giorno fa dopo il mini-corteo per celebrare la morte di Zapata. (f. g.)

La strategia impone di generare tensione, paura, un terrore psicologico che risulta di fatto estremamente efficace per fiaccare i barlumi di rivolta nella popolazione. E così un furtarello può essere punito con l’ergastolo i membri del partito comunista, civili che abbandonano il camice da medico o da ricercatore per trasformarsi in ultrà della dittatura. È una delle tante astuzie del regime. I rari osservatori neutrali rimarranno spiazzati. Chi è il colpevole? Il regime che nell’ombra organizza questi atti senza di fatto apparire, o forse veramente il “mostro”che si cela dietro l’abitazione presa a bersaglio? I presunti mostri sono però giornalisti colpevoli di articoli non in linea con il pensiero unico castrista,


quadrante

pagina 16 • 7 aprile 2010

India. Il governo centrale condanna l’imboscata, avvenuta a Dantewada DELHI. Ha esiti sanguinosi la risposta dei guerriglieri maoisti all’imponente offensiva lanciata contro di loro dal governo centrale indiano. Ieri più di settanta paramiliari indiani sono stati massacrati in un’imboscata portata a termine all’alba dai ribelli nella regione di Dantewada, in una sperduta giungla in un distretto di Chhattisgarh, una regione forestale diventata una roccaforte maoista. La zona di Dantewada, circa 450 chilometri a sud del capoluogo Raipur, è remota e inaccessibile. La zona è ricompresa nell’area di Bastar che comprende cinque distretti di circa 40mila chilometri quadrati ed è considerata il fulcro attorno a cui ruota l’attività della guerriglia. Qui il governo di Nuova Delhi dalla fine dello scorso anno aveva lanciato una massiccia offensiva, l’Operazione Greenhunt, per la quale sono stati impiegati 56 mila militari in aggiunta alle forze di polizia locali e dopo la quale i guerriglieri maoisti hanno intensificato gli attacchi. Ieri nella giungla nello Stato del Chhattisgarh, nella zona centrale dell’India, si è trattato di una vera e propria trappola ai danni della Central Reserve Police Force (Crpf), le unità delle forze di sicurezza paramilitari. Le forze dell’ordine rientravano al campo dopo un’operazione di ricognizione compiuta nella regione di Dantewada, cui avevano partecipato 120 uomini. Il convoglio della polizia si era fermato per la notte in un villaggio e i ribelli lo hanno attaccato non appena gli agenti si sono messi in viaggio all’alba. Centinaia di ribelli avrebbero preso di sorpresa i rinforzi di polizia spediti sul posto e i veicoli di soccorso giunti sul luogo in seguito all’esplosione di una mina. Nella zona

I maoisti all’attacco, strage di militari Oltre 70 vittime, colpite durante un raid E nello Stato divampa la violenza etnica di Osvaldo Baldacci

dici poliziotti erano stati uccisi in un attacco degli estremisti comunisti nel vicino Stato di Orissa, mentre episodi di violenza minori si verificano quasi tutte le settimane, contro le forze di sicurezza, le scuole, gli uffici del governo e le stazioni di polizia. Proprio nel Chhattisgarh in passato si era già verificato un attacco tra i più sanguinosi: nel

Il sottosuolo dell’area è ricco di ferro, bauxite e altri minerali preziosi che fanno gola alle multinazionali, locali e straniere sono scoppiati violenti scontri. Alcune strade di accesso sono state bloccate dai guerriglieri, che sembrano aver meticolosamente pianificato l’attacco. Gli scontri nella zona sono andati avanti a lungo e il bilancio di 75 militari uccisi, falciati da raffiche di armi automatiche e da mine sul terreno, è considerato provvisorio, con una decina di feriti gravi trasferiti in ospedale in elicottero. È stato l’attacco più sanguinoso dei guerriglieri maoisti nella storia indiana. Già domenica altri un-

marzo del 2007 erano stati uccisi 55 agenti. Il ministro degli interni P.K. Chidambaram si è detto “scioccato”dall’alto numero delle vittime nella «trappola tesa dai naxaliti che mostra tutta la loro brutalità e crudeltà». Per il primo ministro Manmohan Singh già dal 2006 i ribelli maoisti rappresentano la principale minaccia interna alla sicurezza indiana, superiore persino ai terroristi islamici. L’offensiva lanciata dal governo, secondo i funzionari, per la prima volta ha inde-

Nel 2009 hanno ucciso oltre 1.200 persone

La genesi dei Naxaliti È un grande esercito, quello dei ribelli maoisti indiani, ed è in grado di tenere in scacco da decenni il gigante asiatico. Si tratta in realtà di una galassia di gruppi armati comunisti operante nei diversi Stati indiani, specie nel nord-est e nel Chiamati anche centro. “Naxaliti” perché il movimento è stato fondato nella zona di Naxalbari nel Bengala Occidentale, si ispirano alle teorie del presidente cinese Mao e all’esempio dell’analoga formazione attiva in Nepal e ora in Parlamento. Operano dal 1967 in almeno 20 dei 28 Stati della federazione indiana, e annoverano tra le loro fila circa 10.000 combattenti. La loro ideologia è di ispirazione comunista e di chiara derivazione dal maoismo cinese, con cui forse ebbero rapporti strategici. Però hanno anche risvolti nazionalisti legati agli interessi regionali contrapposti al governo centrale di New Delhi, difandono i gruppi tribali locali, e contestano so-

prattutto lo sfruttamento delle risorse naturali locali a vantaggio delle autorità centrale e delle elite locali senza reali ricadute sullo sviluppo dei territori, e senza compensare le popolazioni dei luoghi. Infatti le zone tribali e rurali dell’India non hanno beneficiato dello sviluppo economi-

co, e la povertà e il malcontento finiscono con il fornire supporto ai ribelli. Secondo dati ufficiali, il gruppo armato è attivo in 200 dei 626 distretti indiani controllandone circa 34, tra cui il Chhattisgarh. Nel 2009 per gli attacchi dei maoisti hanno perso la vita 1.200 persone. (O.Ba.)

bolito il movimento attivo dagli anni 60. Il leader dei ribelli, Koteshwar Rao, alias Kishanji, ha offerto una tregua, respinta da New Delhi. Allo stesso tempo però, oltre alle violente reazioni immediate, i maoisti, che dicono di combattere per i diritti dei poveri contadini e dei manovali senza terra, stanno aumentando la loro influenza nelle zone centro-orientali dell’India. Occupano un “corridoio rosso” che s’estende dallo Stato meridionale dell’Andhra Pradesh, attraversa il Chhattisgarh fino al West Bengala e al Nepal. Nel 2009 i ribelli hanno lanciato oltre mille attacchi a obiettivi governativi.

A Radio Vaticana Michelguglielmo Torri, professore di Storia dell’Asia all’Università di Torino e presidente dell’Osservatorio “Asia Maior”, ha spiegato che la guerriglia maoista o naxalita è un fenomeno diventato sempre più importante negli ultimi 10 anni. Nel 2004 i due principali gruppi rivoluzionari maoisti si riunirono e diedero vita al “Communist Party of India Maoist”, che dimostrò un’efficienza sempre maggiore nel portare attacchi contro le forze dell’ordine indiane, ma anche contro proprietari terrieri e rappresentanti dello Stato. «La guerriglia maoista - spiega Torri - è riuscita a prendere quota anche perché si è fatta interprete delle doglianze delle popolazioni tribali indiane sparse in zone dove ci sono i resti di quella che una volta era una grande foresta. Un decennio fa ci si rese all’improvviso conto che in queste aree considerate povere esistevano enormi giacimenti di ferro, bauxite ed altri minerali preziosi ed una serie di multinazionali sia indiane, sia straniere incominciarono ad operare per impadronirsi dello sfruttamento di queste zone. I gruppi maoisti, che fino a 15 anni fa sembravano essere banditi alla Robin Hood, all’improvviso hanno cominciato a diventare un pericolo sempre maggiore perché hanno avuto questa capacità di trovare un seguito soprattutto fra le popolazioni tribali indiane. Secondo la Costituzione, i gruppi tribali hanno diritto a mantenere il controllo delle aree in cui abitano: ma queste tutele sono state aggirate sul terreno, da parte di rappresentanti dello Stato in accordo con le grandi multinazionali». Non va comunque dimenticato che i sanguinosi attentati, le estorsioni e i rapimenti per finanziarsi hanno alienato ai ribelli le simpatie dell’opinione pubblica.


quadrante

7 aprile 2010 • pagina 17

Le autorità puntano il dito contro al Qaeda e il Baath

Rimane in piedi la possibilità di usarle contro Iran e Corea

Baghdad, otto attacchi contro i civili: più di 30 vittime

Obama: meno atomiche, solo per la difesa degli alleati

BAGHDAD. Dopo le sedi della ambasciate, il terrorismo è tornato a colpire ieri a Baghdad con ben otto diversi attentati nei cuori residenziali della capitale irachena, uccidendo circa 30 persone e ferendone un centinaio, mentre le autorità irachene continuano a puntare il dito contro cellule di al Qaeda e del disciolto partito Baath. La maggior parte delle vittime sarebbe rimasta vittima delle sette forti esplosioni, causate da autobombe che hanno colpito i quartieri di Shula e Shukuk, nel nord- ovest della città, di Shurta Rabaa e Alawi al centro, dei sobborghi meridionali di Illam e Amil e Dora.

WASHINGTON. Meno bombe atomiche ma, soprattutto, impiego delle armi nucleari limitato e mai contro quei Paesi che rispettano gli impegni per la non proliferazione. La nuova strategia Usa, che lascia comunque aperta la possibilità dell’autodifesa dalle minacce nucleari rappresentate da Iran o Corea del Nord, è stata annunciata questa sera dal presidente Barack Obama. Un annuncio che arriva a 48 ore prima della firma a Praga del nuovo trattato Start Usa-Russia sul disarmo e a una settimana dalla Conferenza sulla non proliferazione di Washington, a cui parteciperanno 50 Paesi. Obama ha illustrato il rapporto noto come Revisione della Posizione Nucleare, diffuso du-

Due, ma forse quattro palazzi sono crollati in seguito alle deflagrazioni, e le tv panarabe e locali mostrano a ripetizione le immagini dei soccorritori che scavano tra le macerie alla ricerca di qualche superstite. Un ottavo attentato è stato compiuto da un kamikaze di fronte la vecchia sede dell’ambasciata britannica, nel centro cittadino, poco lontano da dove domenica mattina erano stati eseguiti altri simili attacchi contro le ambasciate tedesca e iraniana e contro il consolato egiziano, provocando la morte di oltre 40 persone e il ferimento di altre 200. «Stiamo combattendo una guerra contro i terroristi di al Qaeda e le scorie del partito Baath, che stanno tentando di influenzare il processo politico», ha detto il generale Qassem Atta, portavoce delle operazioni di sicurezza della capitale. Dopo la diffusione dei risultati delle recenti elezioni legislative, nei giorni scorsi si è aperta una incerta e delicata fase politica in Iraq. Da una settimana sono iniziati intensi i contatti tra le principali forze del Paese per trovare un “accordo di equilibrio” in vista della formazione del governo di partecipazione nazionale. «Ogni volta che l’Iraq ottiene un successo - ha aggiunto Atta - i terroristi colpiscono i civili».

Inghilterra al voto, i partiti in crisi Brown in leggera risalita, Cameron alle corde di Lorenzo Biondi

LONDRA. Ha atteso il momento più propizio per un annuncio che era nell’aria già da mesi. Ieri mattina il premier britannico Gordon Brown ha incontrato la regina a Buckingham Palace, per chiederle di sciogliere la Camera dei Comuni e convocare nuove elezioni per il 6 di maggio: un giovedì, come da tradizione. Già a settembre, al congresso del Labour, era circolato un foglio con quella data; ma l’ufficialità arriva proprio nel momento in cui alcuni sondaggi segnalano una forte ripresa del partito di maggioranza. Saranno quattro settimane di passione per Brown e per il conservatore David Cameron, che sta faticando più del previsto ad ottenere una vittoria che sulla carta appariva scontata. È stato un sondaggio di ICM per il Guardian a far tremare tutta la dirigenza tory: conservatori al 37 per cento, Labour al 33 ma con una piccola maggioranza a Westminster per effetto dei collegi uninominali. E i liberaldemocratici, col 21, a fare da ago della bilancia in Parlamento. Percentuali sballate secondo il Sun di Rupert Murdoch, apertamente schierato coi Tories, che dà Cameron in vantaggio del 10 per cento. Sondaggisti faziosi? Forse, o forse il segnale che tanti inglesi ancora non hanno deciso per chi votare. Certo è che questa campagna elettorale infinita si sta volgendo tutta a favore del premier laburista. A Londra è il governo a scegliere la data di scioglimento delle camere, entro il limite di cinque anni fissato dalla legge. Gordon Brown ha atteso fino all’ultimo, e sa di aver fatto bene. Dall’autunno in poi il Labour ha lentamente recuperato consensi, puntando su una strategia poco fantasiosa ma molto solida. Spesa pubblica e ripresa economica, l’esperienza laburista contro l’avventurismo dei Tories. L’alternativa (Cameron) è «un rischio troppo grosso, un pericolo troppo grande, una minaccia troppo grave», ha detto Brown. Dopo le ribellioni dei

mesi scorsi, poi, il Labour ha fatto quadrato intorno al suo leader mettendo da parte le rivalità interne. Si va avanti sulla linea di rigore del cancelliere Alistair Darling, l’uomo delle tasse, ma tornano a Downing street anche gli spin doctors dei tempi di Blair. In realtà il Labour si accontenterebbe se i conservatori ottenessero la maggioranza relativa ma non la metà più uno dei seggi in parlamento. Se però i laburisti possono continuare a sperare, è soprattutto per l’oscillante campagna elettorale dei Tories. Doveva essere una marcia trionfale fino al giorno delle elezioni, e si è trasformata in una sequenza di annunci shock abbandonati nel giro di poche settimane. Cameron ha provato a sfondare con la linea dura sull’immigrazione, per scontrarsi contro un’inaspettata freddezza. Ha annunciato di voler prendere le distanze dall’Unione europea, ma ha smesso di parlarne dopo le proteste di Francia e Germania. In campo economico, ha ripreso alcune ipotesi interessanti che insistevano sulla sussidiarietà e sul ruolo dei cittadini nella gestione dei servizi pubblici; negli ultimi tempi però è tornato a porre l’accento sul taglio delle tasse, come gli chiedeva l’ala thatcheriana del partito. Un dettaglio che la propaganda laburista non si è lasciata scappare: ecco i Tories, meno tasse (ai ricchi) e meno servizi (ai poveri). Più che dalle critiche laburiste, Cameron è preoccupato dalle tensioni nel partito e nell’opinione pubblica. Sul sito Conservativehome.com, espressione di una buona fetta della base conservatrice, molti scrivono: con un altro leader sarebbe stato tutto più facile. A sorpresa il Times di Londra, di proprietà dello stesso Murdoch, ha attaccato l’idea di Cameron di contrapporre al «Big State» laburista una «Big Society»: bello slogan, scriveva il quotidiano pochi giorni fa, ma «come si traduce in pratica»? A rincarare la dose è arrivato il Financial Times, che ha colpito Cameron sul piano del «rinnovamento» del partito. L’organo della City ha chiesto al candidato premier di licenziare il ministro-ombra degli Interni, accusato di omofobia: è un’occasione per cancellare «la cattiva immagine» dei conservatori. Sarebbe l’ennesimo passo indietro, per un partito che avrebbe dovuto semplicemente amministrare il vantaggio. Possono ancora farlo: bastano quattro settimane.

rante ogni nuovo mandato presidenziale per ordine del Congresso statunitense (l’ultimo risaliva al 2002, durante la presidenza di George W. Bush).

L’Nrp di Obama era atteso inizialmente per il dicembre scorso, ma la sua pubblicazione è slittata varie volte per le divergenze in seno all’Amministrazione. Nel rapporto l’amministrazione sottolinea che gli Stati Uniti potranno fare ricorso alle armi atomiche “solo in circostanze estreme” e “per difendere l’interesse vitale degli Usa o dei suoi alleati o dei suoi partner”. Il rapporto descrive anche il “terrorismo nucleare” come la più immediata ed estrema minaccia. Washington ha anche sollecitato Pechino a uscire dall’ambiguità in tema di armi nucleari. La mancanza di trasparenza cinese sul proprio programma nucleare - afferma lo studio - solleva interrogativi sui suoi “propositi strategici futuri”. In un’intervista al New York Times, Obama ha spiegato l’importanza di eliminare le ambiguità della Guerra Fredda, quando il ricorso all’atomica era considerato un potere discrezionale delle superpotenze. Ma soprattutto rendere queste armi obsolete.


cultura

pagina 18 • 7 aprile 2010

Riletture. Fiero oppositore dei regimi totalitari, il grande critico si conferma a cinquant’anni dalla morte tra i più lucidi interpreti della cultura del ’900

La rivolta di Giacomo L’incubo dell’oppressione e il sogno di un’Italia nuova: memorie di Noventa, maestro di cattolicesimo liberale di Matteo Marchesini icordare degnamente l’opera di Giacomo Noventa a 50 anni dalla scomparsa, analizzandola in poco spazio e senza quella «viltà verso i morti» che lui rimproverava ai suoi contemporanei inclini a mitizzare Gramsci o Gobetti, è impresa quasi impossibile. Perché Noventa (pseudonimo di Giacomo Ca’ Zorzi, nato appunto a Noventa di Piave nel 1898 e morto nel 1960 a Milano) non è uno di quegli scrittori “dimenticati” che ogni tanto i mutamenti di clima e l’abilità degli editori rimettono in circolo, proponendone profili simili a loghi pubblicitari e permettendo quindi al lettore di adattarsi subito alla loro eccentricità.

R

mo. Non si tratta insomma di uno scrittore che in mezzo alle tragedie del ’900 sia andato a caccia di farfalle. Solo, ha cercato le cause di queste tragedie nella cultura del suo tempo con un così inaudito miscuglio di apertura al dialogo e perentorietà polemica, da far balzare ancor oggi il lettore sulla sedia. Proprio l’onore delle armi che concede sempre agli avversari, il suo modo commovente di prenderli in parola e di criticarne il meglio senza mai cautelarsi davanti ai rapporti impari di forza, ha permesso a molti di questi avversari di approfittare del loro potere per non rendere alla sua voce isolata lo stesso onore, e di lasciare che le sue parole – così spesso composte

Noventa pone ai posteri problemi troppo ardui per poter essere aggirati in questa maniera: perché immergersi nelle sue pagine di saggista e di poeta non significa chiudersi in un microcosmo esotico, bensì ripercorrere alcune strade maestre della storia culturale e politica novecentesca con gli occhi di un testimone vicinissimo e appassionato, ma tutto teso a restituirci di ogni tema familiare un’immagine così radicalmente diversa da apparire o troppo esile e anacronistica, o troppo intricata e quasi delirante. A prima vista, la sua sagoma sembra riassumere i caratteri di alcuni tipi intellettuali ben noti: Ca’ Zorzi viene dalla nobiltà agraria veneta, partecipa giovanissimo alla Grande Guerra con l’entusiasmo di certi fratelli maggiori vociani, e sogna una società aristocratico-popolare da cui sia esclusa la “gretta”borghesia giolittiana. Dopo l’esperienza bellica, su cui proietterà sempre l’ideale di una comunione tra gli italiani migliori, Giacomo attraversa sia la Torino gobettiana che la Firenze ermetica; e tra le soste, con furia ossessiva, si costruisce una cultura di autodidatta a Parigi e a Londra, in Spagna e nell’amata Germania. Nel secondo dopoguerra lo ritroviamo poi al centro dei dibattiti su comunismo, socialdemocrazia e cattolicesi-

«Non vi può essere libertà in nessuna società di uomini che sia guidata da un simbolo o da un mito, quando questo mito è un uomo» in forma di “lettera”– cadessero in un silenzio senza replica. Noventa trova se stesso a metà anni ’30, abbandonando i poemi eroicomici e i progetti filmici elaborati con l’antipodo Soldati, nonché il giovanile pseudonimo di Emilio Sarpi. Mentre i suoi versi veneti, trasmessi oralmente a una cerchia di sodali, stanno già diventando celebri, inizia a lavorare a un libro intitolato nientemeno che

Principio di una scienza nuova. I primi capitoli appaiono su Solaria nel ’35, e l’anno dopo l’opera continua a uscire sulle pagine della rivista che Giacomo ha fondato a Firenze con Carocci: quella Riforma letteraria, poi soppressa nel ’39 dal regime, intorno alla quale cresceranno giovani dalle sorti così diverse come Fortini e Pampaloni. A questa altezza, nei Manifesti del classicismo, i motivi dominanti della Weltanschauung noventiana sono già fissati: e così il suo stile iterativo e indugiante, dialogico e cifrato. Lo scontro frontale con l’ermetismo, ma anche il severo giudizio critico e in parte autocritico sulla “scuola torinese” che più tardi darà vita al Partito d’Azione, si articolano in un discorso in cui filosofia, poesia, politica e religione formano un organismo indivisibile. Noventa le vuole «classiche: cioè nemiche di ogni individualismo», «cattoliche: cioè nemiche di ogni particolarismo», e «antivirtuistiche», cioè nemiche di ogni concezione che anziché dividere il bene dal male nel cuore dell’uomo e della società concreta tenda a divinizzare o a demonizzare rousseauianamente gli stati di purezza e vizio, rimpiangendo paradisi perduti o promettendo mondi perfetti per l’avvenire. Lo scrittore si oppone alla «sconcia ipotesi della perfezione di quello che si chiama comunemente il genere umano, e cioè l’ipotesi d’un Dio che tanto si radicasse in un corpo da non potersene sciogliere».

E allora «si potrà parlare del progresso di un individuo, di una famiglia, di uno stato, d’una provincia, d’una nazione, d’una chiesa, d’una civiltà, d’una razza, o dell’intero genere umano, ma a questo progresso si vedrà sempre corrispondere il regresso di un altro individuo, di una altra famiglia, di un altro stato, di un’altra provincia, di un’altra nazione, di un’altra chiesa, di un’altra società, di un’altra razza, e di un’altra intera schiatta di animali», e viceversa; ma «non ci sarà neanche allora progresso

Nella foto grande, un’illustrazione di Michelangelo Pace. In basso, a sinistra, un ritratto di Giacomo Noventa, saggista e poeta nato a Noventa di Piave nel 1898. Polemista arguto, criticò le teorie letterarie di Croce e De Sanctis né regresso possibile per lo spirito divino e demoniaco “dell’uomo”: questo spirito divino e demoniaco ospiterà semplicemente quella nuova schiatta d’animali». Questa critica tocca sia le storie del genere umano concepite da Marx o Gobineau, sia le storie che raccontano la vicenda dell’individuo singolo come la parabola «di un’anima la quale progredisce o degenera»: mentre per Noventa l’anima soltanto trasmigra o combatte con un’altra per il possesso di un corpo (e Fortini nota come una tale idea s’incarni nella bellissima lirica Un giorno o l’altro). Dopo la seconda guerra, negli scritti poi riuniti in Caffè Greco, Noventa ribadisce che «ogni anima è qualità: ogni differenza delle anime fra loro non può essere che quantitativa. Se si affermasse che la diversità di un’anima da un’altra è di specie qualitativa, si sarebbe infatti trascinati a concludere che la diversità delle anime fra loro è della stessa specie che la diversità delle anime rispetto ai corpi e alle cose. Non essendoci altra distinzione qualitativa, se non quella fra spirito e materia». In queste riflessioni, che molto devono a Maritain, la letteratura è il punto di partenza e a volte d’arrivo: ma il suo ruolo resta incomprensibile se non s’attraversano, per lampi e parabole, i massimi problemi metafisici. Problemi che vengono magnetizzati da due nomi con cui l’autore ingaggia un’amorosa lotta corpo a corpo: quello di Croce (alle cui spalle si disegna l’ombra di De Sanctis) e quello

di Gentile (su cui incombe il profilo di Spaventa).

Secondo Noventa, gli intellettuali italiani che hanno preteso di superarli, di criticarne i vizi o di usarne le formule senza pagare il dazio del pensiero, non sono che epigoni di un errore annidato proprio nelle virtù dei due sistemi egemonici. L’idealismo di Croce, più duttile ma meno conseguente, e l’idealismo di Gentile, che alle teorie dell’avversario aggiunge un «punto esclamativo», tendono rispettivamente a svilire pezzi di anima (che una facoltà tratta di volta in volta come corpi) o ad annientare le altre anime nell’autocoscienza. Questo annientamento dell’altro, a dosi più o meno omeopatiche, non è che la conseguenza del «dogma francese dell’89»: dogma che se applicato all’individuo singolo porta all’arbitrio personale, se all’uomo genericamente inteso alla statolatria. Gli idealismi elevano il loro canto vittorioso su un fondo scettico. Ed è proprio davanti alla valutazione della letteratura, o meglio del suo rapporto con la storia, che la pecca si fa evidente. Nell’hegeliano De Sanctis si avverte ancora la contraddizione che nasce dalla volontà di conciliare l’idea del progresso nazionale con una letteratura che sembra in regresso rispetto alle sue origini. Secondo Noventa, De Sanctis rifiuta di vedere il legame che sussiste tra la fede universale di Dante e la sua grandezza poetica insuperata; anzi rifiuta di capire che dove quella fede


cultura

7 aprile 2010 • pagina 19

sare per il poeta imbecille, non compreso e non comprensibile in quanto al di qua della logica, e in un lasciapassare per il teorico imbecille, capace di pensare soltanto agitandosi. Tra le pieghe del discorso, che lo scrittore riprende dalla Riforma e rifonde poi nel secondo dopoguerra in altri periodici scritti quasi interamente da lui (La Gazzetta del Nord a Venezia, Il Socialismo moderno e Il Giornale dei Socialisti a Torino), il lettore avvertito sentirà riecheggiare alcuni motivi che lungo gli stessi anni ’30 e ’40 occupavano la riflessione dei più acuti pensatori europei: ma li sentirà come straniati o deformati da un pensiero ottenuto con la mescolanza di ingredienti antropologici tra i più bizzarri.

manca non si può far appello agli «italici cuor» senza il virtuismo di Machiavelli, cioè senza deplorare una stirpe decadente proprio mentre si pretende da essa una vigorosa rifioritura umana.

Croce risolve la contraddizione di De Sanctis aggravando l’errore, cioè isolando la poesia dalla storia e facendo di ogni poeta un mondo chiuso e incomparabile con gli altri, col pensiero e la società circostante: ma così i poeti diventano pretesti (Gentile, dal canto suo, quasi non li legge); e quando il problema della rappresentatività epocale o delle sorti progressive rientra dalla finestra, questi pretesti si rivelano inade-

guati come il Carducci. Noventa, invece, tiene al suo organismo indivisibile, dantesco; e al tempo stesso crede lui pure al progresso civile, spirituale e perfino poetico dell’Italia moderna da Leopardi in qua. Solo, non crede «che questo progresso poetico si sia realizzato in coloro che furono detti e sono detti poeti», poiché anzi al progresso anche poetico della nazione corrisponde la loro decadenza. Ciò non è affatto paradossale, come non lo è «dire che una nazione può agire e pensare più aristocraticamente proprio mentre la classe di coloro che sono detti aristocratici, invillanisce e degenera». In questo caso i degenerati sono gli adepti della «letteratura di

casta», coloro che «non credono che un’opera di genio possa essere creata senza firma» e che «non credono sia possibile che un uomo di genio sorga nella folla, si esprima perfettamente in mezzo alla folla, ma si confonda alla folla e muoia senza rivelarci il suo nome». Ergo: «nel periodo “prosaico” della nostra storia conviene cercare le opere di genio dappertutto, fuorché nel mondo delle grandi firme». Invece la casta usa la formula crociana dell’inconfrontabilità dei poeti e quella gentiliana dell’unità dello spirito per assicurarsi una base corporativa, ovvero per intonare un’apologia del successo privato: trasformando le due formule rispettivamente in un lasciapas-

Si pensi alle analisi di Adorno sugli idealismi che tendono a eliminare l’altro da sé; si ricordino le pagine di Benjamin e Gramsci sull’arte anonima e popolare; o si rintraccino i passi in cui Chiaromonte e la Arendt insistono sulla hybris dell’uomo che si fa misura unica del cosmo.Tra l’altro, Noventa si avvale spesso di una distinzione tra popolo e volgo che quasi coincide con quella arendtiana tra popolo e plebe. Come s’è detto all’inizio, dal ’45 in poi la sua Weltanschauung si colora di tinte più immediatamente politiche, in cui però mai si lascia esaurire. Si chiede e chiede ai suoi interlocutori (Saragat, Nenni, Garosci) se possa esserci un liberalismo cattolico, e in cosa il socialismo si distingua dal comunismo. Spera per qualche anno che il Psli incarni questa domanda, ossia l’urgenza di una democrazia e chiarezza intellettuale interna a tutti i partiti. Intanto oppone a quello tridentino della Dc un cattolicismo dantesco e giobertiano, capace di superare la falsa alternativa tra tradizionalismo e modernismo e di farsi anticlericale: poiché il clericalismo obbliga il clero a «essere religioso anche per noi» e a tiranneggiare delle coscienze inerti. Solo questo cattolicismo sconfiggerà gli stati-chiese e gli stati-etici fondati sull’uomo come mito. Infatti «non vi può essere libertà (...) in nessuna società di uomini che sia guidata da un simbolo o da un mito, quando questo mito è un uomo». Tentazione forte, giacché «noi non vogliamo parlare a nessuno, non vogliamo ascoltare nessuno, e di ognuno che incontriamo facciamo (...) un mito perché vogliamo chiedergli proprio quello che i tiranni chiedono ai popoli e i popoli ai tiranni: l’impossibile. Per riacquistare continuamente il dirit-

to di disprezzarlo e di essere soli». Che è, sotto altra forma, la stessa critica mossa da Noventa al sogno vittoriniano del «grande amore», «portatrice di tutti i simboli, quella a cui si domanda tutto e si chiede tutto perché non deve essere in grado di rispondere niente né di darci niente e tantomeno l’amore». Ma la Berta di Uomini e no, come le donne dei saggi di Noventa o di certe sue poesie, non vuol essere trattata come un simbolo. È il momento di concludere accennando a come questo saggista si specchi nei suoi versi. Fortini osserva che il maestro usa la canzonetta settecentesca o heiniana come base di supporto su cui dispiegare il suo raziocinio ironico. Lo stesso avviene col linguaggio veneto, velo trasparente e utilizzato dunque in senso opposto a quello degli squisiti decadenti regionali che tanta fortuna ebbero presso i filologi. Anche qui, potremmo dire che gli esperimenti dell’autore trovano sintomatiche “convergenze parallele” con altre esperienze coeve europee e antisimboliste: vedi i rifacimenti di Brecht. Ci sono poi le poesie in cui la lieve patina dialettale, come mostrò l’amico di gioventù Debenedetti, serve a render dicibile un pathos che suonerebbe intollerabile in lingua. La più bella di queste poesie “patetiche” fu pubblicata sulla Riforma nell’anno delle leggi razziali col titolo A un’ebrea; e nel volume del ’56 dei Versi e poesie, in cui le Edizioni di Comunità raccolsero un canzoniere trasmesso quasi solo oralmente per vent’anni, spicca ancora come un capolavoro assoluto: «Gh’è nei to grandi – Oci de ebrea/Come una luse – Che me consuma;/No’ ti-ssì bèla – Manei to oci/Mi me vergogno – De aver vardà...». Ma insieme a questo Noventa struggente va ricordato il feroce epigrammista. Di Cecchi: «uomo intelligentissimo, e quasi geniale, all’estero»; di Ungaretti: «uomo di penna/ti basta un’accademia/per farti coraggio»; di Pasolini: «Dalla cintola in giù tutto il vedrai».

Chi ha letto Fortini sa bene quanto l’«ospite ingrato» debba a questo fiero autodidatta, che sceglieva con rigore bizzoso gli interlocutori, ritenendo che parlare a tutti equivalesse a parlare a nessuno. Noventa era stato il solo, in quella Firenze ermetica degli anni ’30, a insegnargli «che la poesia non ha tutti i diritti». Certo: onore, uomini semplici, eroi, e molte delle parole che indicavano gli altri diritti suonano ormai inutilizzabili. Ma appunto la lontananza del suo sogno d’integrità intellettuale e umana oggi ci strazia. Lui, il sognatore, è morto proprio nel momento in cui l’industria culturale si apprestava a trasformare ogni tentativo di discussione tra compagni di strada in una lotta coi mulini a vento.


cultura

pagina 20 • 7 aprile 2010

Sopra, Piero Dorfles e il suo “Il ritorno del dinosauro”. A fianco, un disegno di Michelangelo Pace

Tra gli scaffali. Da Garzanti arriva “Il ritorno del dinosauro”, il nuovo saggio su libertà e comunicazione di Piero Dorfles

Quello che i media non fanno di Sergio Valzania el suo Il ritorno del dinosauro, una difesa della cultura, appena edito per i tipi della Garzanti, Piero Dorfles affronta il problema attorno al quale ci affanniamo tutti noi che a diverso titolo ci occupiamo di comunicazione. L’autore affronta un’indagine che ha i toni di una moderna ricerca del Santo Graal, ossia l’analisi di quel delta, di quello scarto di libertà che pure deve esserci fra le necessità del mercato, l’insieme dei condizionamenti imposti da un sistema ben più rigoroso di quanto si crede, e il compito etico, quasi una missione, affidato a quanti si occupano di scambiare informazioni e saperi lavorando alla grande macchina massmediatica che descrive l’immaginario collettivo della nostra società.

N

cerca, non la sconsolata tappa di arrivo per la rassegnazione all’esistente. Il problema è grave e diffuso, avverte. Il nostro livello di alfabetizzazione è basso e rischia di calare ancora, la nostra scuola è in affanno, il mondo del lavoro ha gli accessi bloccati e non sembra selezionare i migliori per i ruoli di maggior prestigio. La politica si fonda sulla cooptazione dei più servili nella scelta delle nuove leve. La questione trascende l’etica e la cultura per intaccare la soglia sensibile dell’economia. Il nostro Paese rimane indietro non solo rispetto ai determinati competitor rappresentati dai Paesi emergenti (Cina, India e Brasile), ma pure nei confronti dei nostri partner europei diamo segni evidenti di stanchezza

una divisione rigida fra chi detiene e difende le posizioni privilegiate e chi si vede relegato nelle condizioni marginali. Anche la legalità tende a ritrarsi da una società nella quale le regole formali vengono disattese a favore di meccanismi basati su privilegio e raccomandazione. A questo punto il dinosauro invoca una rinascita culturale, intendendo la cultura nel senso più profondo di valore condiviso, strettamente collegato al sentire comune. La conoscenza e l’apprezzamento per le sue modalità, anche faticose, di acquisizione rappresentano il cuore di una comunità, a partire dalla conservazione e rivisitazione continua della propria memoria collettiva, la storia. In questo, immagina Dorfles, i media potrebbero

so, che travalica le volontà, le intenzioni e anche le qualità dei singoli. I sistemi di comunicazioni, persino quelli scolari, scambiano quello che c’è, non lo modificano. Quelli che chiamiamo valori non si producono senza lavoro, studio, sacrificio. Il senso della democrazia è anche l’impedire che il tono complessivo di una società dipenda da una minoranza, per qualificata che essa possa essere. La cultura è un bene condiviso, non penso esista a parte e al di fuori di una comunità, dentro la quale possa essere iniettato a scopo terapeutico. Piuttosto è vero che comunità vitali sanno produrre nello stesso tempo ricchezze materiali e spirituali, posto che esista una radicale differenza fra i due campi. La questione credo

dono il presente fiduciosi in un domani che non li deluderà. Somigliamo piuttosto alla cicala della favola di Esopo, che crede di vivere in un mondo immobile e si rifiuta di costruire, non si diverte a creare.

Non guardiamo ai giovani come a degli eroi che stanno per cimentarsi con la vita e godere di questo incontro, piuttosto cerchiamo i modi per proteggerli, nel migliore dei casi, o per escluderli dalla competizione, nel peggiore. Alla radice della cultura non sta il sapere per il sapere, il nozionismo criticato negli anni del Sessantotto, quanto il desiderio di padroneggiare degli strumenti in vista di obbiettivi da raggiungere. Lo studio e la formazione scolastica non sono una tortura imposta ai giovani, o almeno non dovrebbero esserlo. La loro natura vera è più amorevole, consiste nella trasmissione da una generazione all’altra di una tradizione vitale e condivisa, nel desiderio comune di una crescita ulteriore. In quest’ottica si può chiedere poco alla televisione, alla radio e ai giornali, che appunto sono mezzi di comunicazione, cinghie di trasmissione di elementi e sensibilità nati altrove. Ancora una volta il riscatto nasce solo dalla politica, non intesa come mestiere, quanto come capacità di coordinare e indirizzare le spinte positive presenti in una comunità verso quelle trasformazioni, di necessità lente, che portano a una ripresa di fiducia nel futuro. Un passaggio necessario di questo progetto consiste nel ridare spazio alle energie dei giovani, una ricchezza che anche quantitativamente in Italia si va riducendo.

Nel libro viene indagato il rapporto tra le necessità del mercato, l’insieme dei condizionamenti imposti da un sistema rigoroso e il compito etico affidato a chi si occupa di scambiare i saperi lavorando alla grande macchina dell’informazione

Piero Dorfles è ben consapevole di quanto sia importante il rapporto con il pubblico, il rispetto dei suoi desideri e degli umori che lo attraversano. È quasi irridente quando rigetta gli attacchi un po’ ingenui che vengono rivolti all’Auditel e agli altri strumenti di misurazione degli ascolti radiotelevisivi. La sua conclusione è drastica: «Senza rilevazioni sull’ascolto la tv muore e un canale del quale non si conosca la quantità di ascoltatori diventerebbe una mortale sequenza di marchette, magari anche culturali, ma senza pubblico né qualità». Secondo il dinosauro, nella metafora dell’autore l’uomo che ricorda il passato ma ambisce a raggiungere il futuro, questa considerazione deve essere il punto di partenza per un viaggio di ri-

rallentamento. Le retribuzioni medie dei lavoratori italiani non stanno al passo con quelle degli altri Paesi della Ue, scivolano sempre più in basso nelle graduatorie, insieme agli indicatori del nostro sviluppo. Cultura ed economia vanno a braccetto, ricorda Dorfles. Le società contemporanee più sviluppate richiedono personale dotato di saperi, conoscenze e capacità analitiche per procedere nella loro crescita. Se questo manca entrano in crisi: prima arriva la stagnazione, poi la recessione. Persino l’assetto democratico rischia di indebolirsi. Il riconoscimento del merito produce la mobilità sociale, che sta alla base di un sistema aperto nel quale non esiste

giocare un ruolo di stimolo e attivare un circolo virtuoso, se chi ci lavora accettasse piccoli sacrifici, in termini di rigore intellettuale e di fatica nell’approfondimento, in vista di grandi risultati. Se l’analisi è in buona parte condivisibile, la terapia non appare disegnata con nettezza. Dorfles invoca una ripresa di dignità, anche professionale, da parte di tutti e in particolare di quelli che lavorano nei settori più prossimi alla formazione e alla trasmissione del sentire comune. Non so se questo, anche quando si verificasse, potrebbe bastare. O se potrebbe avvenire senza qualche mutamento del contesto. La crisi di una società è sempre un fenomeno comples-

vada posta nell’esistenza o meno di una positiva propensione verso il futuro, una realtà impalpabile ma determinante. Il fare non è mai legato al presente. Oggi si consuma quello che si è prodotto ieri, mentre si lavora e si studia in vista di un domani verso il quale si rivolge un’attesa fiduciosa. Per questo la speranza è una virtù, è lei che spinge ad agire. Il problema dell’Italia consiste nell’essere passata da una fase di speranza a una di timore. Dal futuro ci aspettiamo solo guai, e ce ne ritraiamo. Ci nascondiamo nel presente augurandoci che duri il più a lungo possibile. Il nostro oggi non è quello dei gigli dei campi e degli uccelli del cielo, che si go-


spettacoli Cinema. Roberto Merlino allestisce un set dedicato al periodo pisano del poeta di Recanati

Il Leopardi solitario e la torre pendente di Matteo Orsucci oco sotto la targa che ne ricorda il soggiorno, qui in via della Faggiola, c’è una scritta fatta con uno spray nero: «Curva Nord sempre presente». Siamo a circa un centinaio di metri dalla Scuola Normale, a Pisa, nel centro storico e in teoria cuore culturale della città. La casa che Giacomo Leopardi prese in affitto nell’inverno del 1827 per risiedervi fino a metà dell’anno successivo ha appunto una lapide che ne tributa il passaggio; poi i muri sono lì in bella mostra e qualche ultrà nerazzurro, fregandosene della memoria del recanatese, ha voluto far sapere che i tifosi continuano ad appoggiare il Pisa Calcio, nonostante gli scarsi risultati. E forse anche questo è un segno dei tempi...

P

Leopardi e Pisa, un amore sbocciato e bruciato nell’arco breve di pochi mesi. Un amore vero, comunque, poiché il poeta di Recanati era stato rapito «dagli stucchi dei palazzi e dei caffè, dalle carrozze sui Lungarni, dalla gente sempre in giro...». Erano quattro anni che Leopardi non riusciva a buttare giù un verso, la pagina bianca e l’ossessione, la mania insana del tormento. Proprio in quella casa, in quell’appartamento di via della Faggiola, Leopardi tornò con la mente agli anni marchigiani: Teresa Fattorini era la figlia del cocchiere di famiglia, morta prematuramente all’età di 21 anni; o magari si trattava di Teresa Lucignani cognata di Giuseppe Soderini, ovvero il proprietario della pensione di via della Faggiola che gli aveva dato l’appartamento in affitto… E quindi e insomma: «Silvia rimembri ancora il tempo della tua vita mortale quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi e tu lieta e pensosa il limitar di gioventù salivi?». Non è importante l’identità dell’idealizzazione a margine della figura di Silvia, quanto piuttosto il fatto che è proprio a Pisa che nacque, in quelle stanze, uno dei più celebri componimenti poetici di Leopardi. A Silvia fu scritta così infatti. Leopardi quasi mosso da un’ispirazione che respirava andando in giro per le strade della città, diventando intimo di un humus culturale che onestamente oggi non ha lasciato traccia. Nacquero così, come da atti, i Canti Pisano-Recanatesi, e non si starà qui a tirarla lunga. Anche perché la notizia non è tanto il menefreghismo della città della Torre pendente per il poeta,

bensì il fatto che il regista Roberto Merlino, direttore artistico dell’associazione culturale pisana “Corte Tripoli Cinematografica”, collaborando con la scrittrice Paola Pisani Paganelli, ha allestito un set per iniziare proprio a Pisa le riprese di un film su Giacomo Leopardi. O meglio, sul suo “periodo pisano”. Della Paganelli è la sceneggiatura del soggetto, Merlino sta tentando di ricostruire l’ambiente, il back stage per così dire di un posto che non esiste più, se non in qualche ristampa o in qualche volume anastatico... Nella sceneggiatura «spiccano personalità di primo piano dell’Ottocento pisano – ha dichiarato la Paganelli – e una particolare attenzione è stata data alle nobildonne che accolsero il poeta nei rispettivi salotti, impregnati di cultura e di politica risorgimentale. Ma ci sono soprattutto personaggi “reali”, dei nostri giorni, che si misurano con un copione aperto ed intrecciano il loro vissuto con quello di personaggi storici». E quindi passato e presente. Palazzo Lanfranchi, tutti i Lungarni,

una donna, Virginia, deceduta in seguito ad un aborto, Leopardi affronti con afflato il tema della condizione delle femmine calate all’interno della sua epoca. Ne risulta una forte influenza di chiaro stampo risorgimentale, dunque libertario, per le sorti delle donne. Le quali vengono viste da Leopardi stesso come tenutarie di una grande potenziale di libertà. Insomma, un proto-femminismo ottocentesco che proprio grazie alle frequentazioni dei salotti pisani si radicò bene nelle convinzioni del giovane Giacomo fin quando non fu costretto a ripartire alla volta di Firenze.

Se il Leopardi dei testi di scuola è un poeta di fatto lacerato tra l’esistenzialismo e il romanticismo, tra l’idealizzazione dell’amore che vorrebbe ma non può, lui “passero solitario” dei suoi giorni, lui che prova a distruggere il senso stesso dell’amore togliendo ogni senso alla vita («È funesto a chi nasce il dì natale»), quella del Leopardi “femminista” è senza dubbio la novità più interessante che sarà contenuta all’interno di questa pellicola. Il furore giovanile, il tutto sommato buono stato di salute – o almeno le condizioni fisiche generali meno precarie del solito – faranno sì che in un contesto di vita e vivacità culturale persino un incupito cantore del disincanto e della mancanza di senso al tutto, sia arrivato addirittura a incoraggiare il gentil sesso a respirare quell’aria di rinnovamento, a partecipare a quel gran carnevale di idee nuove cui lui stesso si sentiva invitato speciale... C’è un po’ di tutto dentro questo film e alla fine sarà una pellicola che racconta appena otto, nove mesi di vita cittadina del poeta. Era già stato a Firenze, ci tornerà in seguito. E poi sarà di nuovo a Recanati, a casa, a prendere qualche soldo, ché tutto ciò che aveva guadagnato e che il conte Monaldo gli aveva prestato era già finito… Gli occhi ormai erano andati, il ciclo di Aspasia completato, i Pensieri affollavano più la testa che i fogli, il colera partenopeo fu più di un semplice presagio in quel 1837. Ci sono vite che sono vissute così, senza saperlo, secondo tracce impalpabili di sceneggiature nascoste. Lasciano testimonianze in giro, poesie, canzoni, targhe, roba che puntualmente ignoriamo. La necessità di riportarlo in vita su celluloide è solo dei posteri.Vite così ne farebbero volentieri a meno.

C’è come uno scaramantico riserbo, sia sul titolo sia sull’eventuale contatto di volti noti. Per adesso si sa solamente che chi vedrà il film avrà la possibilità di gustarsi la genesi di “A Silvia”, ma soprattutto di conoscere un lato del tutto inedito dell’autore il caffè dell’Ussero, fino alla ricostruzione del ballo in maschera che si tenne a Palazzo Maschiani Brunacci di Corso Italia, ballo cui Leopardi partecipò. «È una città in cui si respira sempre un’aria di primavera», era solito dire Leopardi. Aveva percorsi fissi anche negli spostamenti.

Come ogni metodico, usciva di casa nel quartiere Santa Maria e percorreva sempre e solo quelle strada, incontrava gente, la osservava, si soffermava sulle spallette dell’Arno... Il film che lo riguarda sarà destinato alle prestigiose rassegne nazionali ed internazionali. C’è come uno scaramantico riserbo, sia sul titolo sia sull’eventuale contatto di volti noti. Per adesso si sa solamente che chi vedrà il film avrà la possibilità di gustarsi la genesi di A Silvia, appunto, ma soprattutto di conoscere un lato del tutto inedito del poeta. Secondo recenti testi di critica del centro studi leopardiani infatti è emerso come nella stesura di una canzone “in morte” di

7 aprile 2010 • pagina 21


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

L’ideologia comunista di tipo capitalista non ammette avversari In occasione del cinquantunesimo anniversario della reazione tibetana alla repressione cinese del 1959, occorre sottolineare che essa è partita con il pacifismo e la moderazione, che da sempre ha contraddistinto tale popolo. Nonostante ciò l’azione cinese si è fatta sempre più dura, sapendo bene che la lotta pacifica vince alla lunga rispetto a quella fatta con le armi. Tale azione oppressiva pare sia arrivata anche al monitoraggio disparato dei siti internet per impedire la libera comunicazione. Ecco perché se uno applica un motore informatico, che analizza gli ingressi ai propri blog o siti web, si renderà conto che la maggior parte di visite avvengono da parte di Paesi in cui la libertà non esiste, e si compone di persone che “spiano” i nostri siti e di altri ancora che, impediti alla libera informazione, adoperano internet per comunicare e conoscere. Il dato che però resta triste e preoccupante, e che nella società del duemila, dove molti imperi sono tramontati, permane un’ideologia comunista di tipo capitalista, che non ammette avversari, e li distrugge.

Stefania Colli

BERLUSCONI COME SARKÒ La sinistra approfitta della sconfitta francese di Sarko, per creare degli analogismi astrali con il futuro del nostro presidente del Consiglio. Darsi la zappa sui piedi significa non ritenere che il premier francese è nato con una favola e una principessa bellissima orchestrata ad arte, come il successivo ritorno alla realtà dei tradimenti, mentre il nostro Silvio è nato da uno sforzo dei cittadini che riconfermano l’unica persona che è riuscita a resistere per più di 5 anni. La nostra realtà è diversa dalle favole, specialmente se raccontate da chi professa la concretezza e attua la fantasia.

Gennaro Napoli

DONNE, VERE LEADER Dalle donne del Pdl viene la vera novità di queste elezioni. Vere leader delle liste locali, passionali e sensibili, nonché qualificate imprenditrici. Ascoltandole, risulta toccante l’immediatezza con la quale

riescono a ribadire, che in Italia solo il Pdl può mettere in pratica dei progetti, perché rispondenti al carico di valori e dinamicità che può trasformare la politica in fatti positivi.

Br

TANTI, TROPPI CAPETTI Ricordo mio nonno che lanciava la sua pantofola verso il televisore, quando andava in onda più di 35 anni fa Tribuna Politica, ripetendo all’infinito: «sono tutte bugie, solo Mussolini sapeva metterle a posto». Da protagonista di una guerra terribile, egli sapeva che un popolo spesso si affida a un uomo solo; mentre oggi ciascuno di noi si deve mettere nelle mani di tanti “capetti”.

Lettera firmata

LA GIOSTRA DEL PITU Centopercentoanimalisti si è battuta con determinazione negli ultimi due anni, con-

Un cuore, due aironi Durante gli ultimi mesi dell’anno, il sud della Florida è invaso da ogni specie di uccello migratore. I due aironi blu, nella foto, danno vita alla loro suggestiva danza d’accoppiamento

tro l’usanza di appendere un vero tacchino (morto) come bersaglio nella giostra del Pitu di Tonco (Asti). L’anno scorso il pupazzo raffigurante il Pitu, offerto da noi in dono al Comune di Tonco, venne rifiutato dai borghigiani in nome della “tradizione”. Seguì un combattivo presidio alla giostra, che di fatto rovinò la “festa”macabra. Il sindaco, quindi, per la successiva edizione, emise un’ordinanza che vieta ogni manifestazione nei giorni di “feste po-

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

polari”. 100% ha continuato la sua pressione, sia con azioni sul campo sia con trattative. Ecco il risultato: il sindaco ha comunicato quanto segue: quest’anno il tacchino vero verrà sostituito con un simulacro creato dalla nostra attivista Luisa De Santi di Trieste. Riteniamo questo passo verso l’evoluzione, una vittoria non solo di 100%animalisti, ma dell’intero paese di Tonco e dei suoi abitanti.

100%animalisti

da ”The Indipendent” del 06/04/10

Spazzini in cima al mondo a montagna e l’alpinismo producono i propri eroi, con riti e liturgie che spesso ricalcano i meccanismi psicologici che spingono gli uomini alla sfida con la natura. Superare la soglia dei propri limiti, mettersi alla prova, sublimare il pericolo della morte per combatterne la sua paura. Tra i più grandi protagonisti delle imprese alpinistiche e delle scalate che hanno lasciato un segno nella storia, un posto particolare lo merita sir Edmund Hillary, il primo uomo ad aver raggiunto il tetto del mondo: il monte Everest. Ben poco di queste imprese sarebbe stato possibile senza il supporto indispensabile degli sherpa, popolazione delle alte quote, spesso dimenticata dalle cronache. E in più, il «fardello dell’uomo bianco», ma non solo perchè anche i giapponesi non sono stati da meno con numerose spedizioni, ha inciso sull’equilibrio ambientale di quelle cime ”inviolate”. Il «fardello» è stato scaricato, lasciato nei campi base e in quelli in quota. Scatolame, corde, bombole d’ossigeno, tende, bottiglie hanno, negli anni, formato delle piccole discariche himalayane.

L

Questa volta però ci potrebbe essere una rivincita. Proprio ieri uno sherpa che ha già raggiunto molti record dell’alpinismo mondiale è tornato sulle pendici dell’Everest. Sta preparando una nuova scalata che avrà una missione particolare: spargere le ceneri rimaste del famoso scalatore Hillary, liberandole ai forti venti in quota che soffiano sulla vetta del Karakoroum. Parte erano già state disperse in mare, al largo della Nuova Zelanda, per volontà dei familiari, l’anno della morte dell’alpinista inglese, nel 2008. Si chiama Apa e ha 49 anni. «Ho tre obiettivi da raggiungere durante la mia ventesima

scalata dell’Everest. Primo, spargere le ceneri di Hillary. Secondo, pulire la vetta dai residui lasciati da altre scalate. Poi promuovere la montagna più alta del mondo come meta turistica».

Apa e il suo gruppo di scalatori ecologisti hanno in mente di raccogliere qualcosa come 7 tonnellate di “immondizia” lasciata in mezzo secolo di spedizioni alpinistiche. La squadra di “spazzini” d’alta quota sarà formata da 17 sherpa e 12 occidentali che sperano di poter risolvere un problema che sta diventando impellente in quella zona, trasformata in una specie di discarica. Pagheranno altri portatori per farsi dare una mano nelle operazioni di pulizia. Apa aveva conquistato per la prima volta nel 1989 gli 8.850 metri dell’Everest ed è attualmente colui che lo ha scalato più volte. Il suo più diretto inseguitore in questa speciale classifica è un’altra guida sherpa, Chhewang Nima, con 15 arrampicate sopra gli ottomila. Il progetto dovrebbe andare in porto per il prossimo maggio. È il mese dove le condizioni meteo sono più favorevoli per un’ascesa. In genere la finestra per lanciare la conquista finale della vetta dura solo poco giorni, prima che il tempo diventi di nuovo minaccioso. Ragion per cui la scelta del periodo giusto diventa fondamentale.Visto anche che questa volta non si tratterà solo di piantare una bandiera sulla cima, ma di smantellare e ripulire tutto il materiale abbandonato dalle migliaia di alpinisti nel corso dei decenni. L’obiettivo principale è riuscire a portare mezzo milione di turisti in Nepal, nel 2011, in un Paese devastato da anni di guerriglia dei gruppi comunisti. Apa è nato e cresciuto sulle pendici dell’Everest e ha cominciato l’attività a soli dodici anni, portando

materiale ed equipaggiamento di tutte le spedizioni che osavano avventurarsi in quell’impresa.

Poi nel 2006 si è trasferito negli Usa, dove oggi vive nel quartiere Drape di Salt Lake city. Gli sherpa fino al 1950, quando il Nepal aprì le sue frontiere al turismo, non erano altro che allevatori di yak e commercianti e la loro incredibile conoscenza di quelle montagne li trasformò in porteur e guide. Ora hanno deciso di fare un po’ di manutenzione al bene più prezioso che hanno: l’ambiente sulla cima del mondo. Una vera e propria raccolta differenziata d’alta quota.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog

dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Tu sei colei che dispensa la vita, Mary

OER BARLETTA, LEGA PER LA DIFESA DEL CANE DI CANOSA E LEGAMBIENTE TRANI Messaggi di “vicinanza umana”alle realtà associative del nostro territorio vittime di episodi brutali e beceri.

Tu hai il grande dono di comprendere, mia adorata Mary. Tu sei colei che dispensa la vita, Mary. Sei come il Grande Spirito, che favorisce l’uomo non soltanto per condividerne l’esistenza ma per accrescerla. Conoscerti è la cosa più meravigliosa dei miei giorni e delle mie notti, un miracolo al di fuori dell’ordine naturale degli eventi. Ho sempre sostenuto, con il mio Folle, che tutti coloro che ci capiscono in un certo senso rendono schiavo qualcosa in noi. Non è così con te. La tua comprensione di me è la più serena libertà che abbia conosciuto. E nelle ultime due ore della tua ultima visita, hai preso il mio cuore fra le tue mani e ne hai trovato un punto oscuro. Ma appena l’hai fatto, è stato cancellato per sempre. E ora non ho più alcuna catena. E ora tu sei una eremita su una montagna. Nulla è per me delizioso quanto il romitaggio in una zona “piena di bei luoghi nascosti”. Ma ti prego, mia adorata, non rischiare. Essere eremita per una volta non soddisferà la tua anima affamata, e devi star bene ed essere forte per poter tornare a fare l’eremita. Le foglie del lauro e del balsamo riempiono questo posto di incantevoli aromi. Con amore Kahlil Gibran a Mary Haskell

LE VERITÀ NASCOSTE

GB: il telefono? «L’ha creato la Regina» LONDRA. Il telefono? Lo ha inventato la Regina, naturalmente. È questa la risposta, molto patriottica ma poco storica, che danno i bambini inglesi a un sondaggio condotto dalla Bbc. E se Sua Maestà è considerata la “mamma”dell’apparecchio telefonico da un bambino su dieci, rientrano nel novero degli indiziati dell’invenzione di Meucci anche Charles Darwin e Noel Edmonds, il primo già noto (ad alcuni) per la teoria dell’evoluzionismo, il secondo per essere un famoso presentatore televisivo britannico. Alla domanda su chi invece sia stato il primo uomo a sbarcare sulla Luna, ecco che in pole position troviamo Luke Skywalker, eroe della saga di “Guerre Stellari” e Richard Branson, uno dei più vulcanici uomini d’affari americani, creatore di numerosi marchi tra cui il gruppo Virgin.Va detto che entrambi sono giustificati: il cognome del primo significa “Camminatore nel cielo”, mentre il secondo ha lanciato i viaggi commerciali nello spazio. La scoperta del fuoco, poi, è riservata a Isaac Newton, padre della gravitazione universale: a dare questa risposta sono ben sei bambini su 10, tra i 9 e i 10 anni. Commentando i risultati del sondaggio Pam Waddell, della Birmingham Science City, organizzazione che ha realizzato la ricerca ha spiegato: «Alcune risposte possono far sorridere, ma in realtà ci rivelano come la scienza sia lontana dal mondo dei bambini. Che invece già sanno tutto di sport e musica». Ma la risposta più sorprendente pare essere un’altra. Alla domanda: “Vorreste vincere il premio Nobel o arrivare primi ad X-Factor?”, la maggioranza dei giovanissimi intervistati ha fatto sapere di preferire il riconoscimento dell’Accademia svedese al trionfo nel talent show televisivo. Preoccupante segno dei tempi.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

BARLETTA Da membro uscente della commissione affari sociali e sanità, mi sono spesso trovato a affrontare emergenze e situazioni incresciose relative alla materia sanitaria in Terra di Bat, ma ciò che è avvenuto ai danni della sede dell’Oer di Barletta costituisce qualcosa di deplorevole e di deprecabile sotto il profilo umano. Al commissario dell’Oer barlettana e agli operatori tutti , desidero esprimere la mia personale solidarietà per quanto avvenuto, invitando tutto lo staff a proseguire lungo il percorso di volontariato e spirito di servizio in favore dei più deboli e del territorio barlettano.

BUONI VACANZA. SOLO A VANTAGGIO DELL’INDUSTRIA TURISTICA? Già dallo scorso novembre si possono utilizzare i cosiddetti buoni vacanza, un aiuto del nostro governo all’industria turistica e ai cittadini con basso reddito. Il criterio per usufruirne è il reddito della famiglia, che riceve un bonus da integrare a proprie spese per fruire della vacanza. Per “nucleo familiare”, ovviamente, si intendono i soggetti componenti la famiglia anagrafica così come risulta in comune, per cui si ha un paradosso che contraddice lo spirito della legge: non possono utilizzare i bonus quei minori in stato di abbandono che, per tutelarne il benessere psico-fisico, vengono affidati dallo Stato alle cure di case famiglia o di terzi affidatari. Sorge, quindi, un dubbio: se i bonus sono stati fatti per aiutare l’industria del turismo e le fasce deboli, perché proprio i più deboli tra questi ultimi ne sono esclusi? Vorrei sapere dal ministro del Turismo se intende con urgenza rimodulare l’iniziativa dei buoni vacanza, in modo tale da eliminare le discriminazioni di fatto vigenti nei confronti dei minori abbandonati, e permettendo alle strutture che li ospitano di fruire di tali opportunità.

TRANI Credo sia lodevole l’operato della sezione tranese di Legambiente e della scuola media “Giustina Rocca”, nell’ottica della sensibilizzazione ambientale e paesaggistica della comunità cittadina. Tranesi e istituzioni locali sappiano recepire le istanze del nostro territorio dal punto di vista ecologico, ambientale, naturalistico. Carlo Laurora

Donatella

APPUNTAMENTI APRILE 2010

DOVE ANDREMO A FINIRE? La distruzione della nostra industria è inevitabile, a causa di troppe importazioni asiatiche di prodotti a vil prezzo, che stanno facendo chiudere le nostre fabbriche. Cosa aspettiamo a prendere delle precauzioni?

VENERDÌ 23 ORE 11, ROMA, PALAZZO FERRAJOLI-PIAZZA COLONNA

Consiglio Nazionale Circoli liberal SEGRETARIO

R. Lombardi

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Collaboratori

Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,

Roberto Mussapi, Francesco Napoli,

Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

CANOSA DI PUGLIA Ho letto con profondo dolore le vicende riguardanti i cuccioli e i cani abbandonati o, ancora peggio, buttati in un pozzo a Canosa di Puglia. Leggo altresì con soddisfazione che la Lega per la difesa del cane di Canosa ha saputo reagire e operare, salvando numerosi cani in stato di abbandono, così come hanno fatto vigili del fuoco e polizia municipale. A questa realtà operosa e dinamica esprimo la mia gratitudine in qualità di presidente della commissione regionale d’indagine sul fenomeno del randagismo.

Mario Arpino, Bruno Babando,

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

John R. Bolton, Mauro Canali,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

Franco Cardini, Carlo G. Cereti,

Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,

Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,

Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,

VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

Amministratore Unico Ferdinando Adornato

Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118

Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747

Angelo Crespi, Renato Cristin,

Katrin Schirner, Emilio Spedicato,

Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano

Francesco D’Agostino, Reginald Dale

Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”

Abbonamenti

06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro

Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

e di cronach

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.