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È più importante

la ridistribuzione delle opportunità che quella della ricchezza Arthur Vandenberg

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 9 APRILE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

La cerimonia di Praga per lo Start 2 ha rilanciato i rapporti tra Usa e Russia. Ora il Senato e la Duma devono ratificarlo

La prima vittoria di Obama Molti dubbi negli Usa,ma l’intesa con Medvedev è finora l’unico grande successo internazionale della nuova Casa Bianca.Eppure l’Onu non sa ancora decidersi sulle sanzioni contro Teheran L’OPINIONE DI JOHN R. BOLTON

di Luisa Arezzo

I dati Istat sulla crisi: «Abbiamo il 2,8 di ricchezza in meno»

L’Italia è una Repubblica fondata sulle famiglie povere

«Ma io vi dico: siamo più deboli»

L’obiettivo dell’opzione zero è ancora lontano, ma ieri Barack Obama e Dimitri Medvedev hanno firmato a Praga il nuovo Trattato per il disarmo nucleare. Si tratta di una svolta storica per varie ragioni: per l’accordo su una nuova riduzione del 30% degli armamenti nucleari, per l’introduzione di nuovi meccanismi di verifica e per il nuovo dialogo fra Mosca e Washington. Adesso lo dovranno ratificare i rispettivi Parlamenti. a pagina 2

di Pierre Chiartano «Non sono convinto che la politica Usa voglia seguire Obama sulla strada del disarmo»: è scettico l’ex ambasciatore Usa all’Onu John R. Bolton. a pagina 6

L’OPINIONE DI SERGIO ROMANO

«Finalmente Mosca si è schierata»

Il discorso del presidente Usa

Il discorso del presidente russo

Il mondo è davvero più sicuro I beni privati sono sempre più minacciati. Mentre il governo sbaglia i conti e prepara una manovra correttiva da cinque miliardi di Gianfranco Polillo li ultimi dati Istat sullo stato di salute delle famiglie italiane mostrano una brusca virata. Tutti gli indici sono in negativo: cala il reddito lordo disponibile, il loro potere di acquisto, i consumi e la propensione al risparmio, vale a dire la quota di reddito, ogni anno messa da parte per far fronte alle incertezze del futuro. Le variazioni sono ancora contenute, ma se non vi sarà ripresa – e tutti gli osservatori internazionali, dall’Fmi all’Ocse, sono pessimisti – le perdite potranno risultare ancora più consistenti. Le prime avvisaglie si erano avute alla fine dello scorso anno, che segna anche il punto di massima espansione del reddito disponibile.

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Per l’ambasciatore Sergio Romano, le tensioni internazionali non cambieranno dopo la firma del trattato. «Ma almeno Mosca ha fatto una scelta di campo». a pagina 3

Un passo avanti nella Storia

CONFRONTO CON LA STORIA

di Barack Obama

di Dmitri Medvedev

ono onorato di essere tornato nella Repubblica ceca insieme al presidente Medvedev per sottolineare il compimento di questa missione storica, la firma del nuovo Start. Voglio ringraziare tutti quelli che sono stati coinvolti in questo processo. Ora il mondo è più sicuro. a pagina 4

ono d’accordo con le valutazioni espresse dal mio collega, il presidente Obama: si è verificato un avvenimento di portata storica. È stato firmato un nuovo accordo russoamericano per le misure ulteriori di riduzione e limitazione delle armi offensive. Un passo nella Storia. a pagina 5

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di Franco Insardà

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Vent’anni dopo Reagan e Gorbaciov di Mario Arpino La cerimonia el Castello di Praga mette i due giovani leader di oggi a confronto con con Reagan e Gorbaciov, che nel 1991 firmarono lo Start 1. a pagina 2

L’ex leader di An dice sì alla proposta della Lega: «Ma decidiamo tutti insieme»

Fini rilancia: «Riforma elettorale» «Semipresidenzialismo alla francese per difendere il Parlamento» di Riccardo Paradisi

«Serve un testo condiviso e più ponderato»

Intanto Alfano frena sulla “nuova” giustizia

Gianfranco Fini strizza un occhio alla Lega e l’altro all’opposizione: sì al modello semipresidenziale alla francese (come proposto dagli uomini di Bossi), ma prima occorre cambiare la legge elettorale (come chiesto da Bersani e i suoi). Insomma, il presidente della Camera prova a uscire dall’angolo nel quale è finito dopo le elezioni e l’accordo Berlusconi-Bossi.

La riforma delle giustizia ieri ha segnato una battuta d’arresto, stando a quando dichiarato da Alfano: «Non c’è ancora un testo da presentare alle Camere. Stiamo lavorando all’interno della Costituzione con grande misura e ponderatezza».

a pagina 10

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segue a pagina 8 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

di Errico Novi

NUMERO

67 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


speciale disarmo

pagina 2 • 9 aprile 2010

Firme storiche. Lo Start 2 guarda al futuro: i due leader puntano su un mondo denuclearizzato e multipolare

La scommessa di Praga Obama e Medvedev si impegnano a ridurre le testate (1550) e i vettori (700). Ora lo scoglio è la ratifica dei rispettivi Parlamenti di Luisa Arezzo obiettivo dell’opzione zero è ancora lontano, ma ieri Barack Obama e Dimitri Medvedev hanno firmato a Praga il trattato per il disarmo nucleare che sostituisce lo Start, scaduto nel dicembre del 2009. Si tratta di una svolta storica per varie ragioni: per l’accordo su una nuova riduzione del 30% degli armamenti nucleari strategici, per l’introduzione di meccanismi di verifica che non erano contemplati nei precedenti trattati Start e per il nuovo dialogo fra Mosca e Washington, che chiude formalmente le tensioni successive all’invasione della Georgia da parte della Russia nel 2008. Fragoroso e lunghissimo l’applauso che ha avvolto il salone spagnolo del magnifico Castello praghese - quel Prazsky Hrad già sede del Sacro Romano Impero sotto Carlo IV - subito dopo la firma dei due presidenti. E mentre, forse troppo ottimisticamente, molti hanno cominciato a gridare all’avvio di una nuova era, ieri se ne sono comunque chiuse altre due. Più personali ma - vista l’occasione - altamente simboliche: sono morti Morris Richard Jeppson, l’ex ufficiale dell’Army Air Forces degli Stati Uniti che armò la bomba atomica sul volo dell’Enola Gay che bombardò Hiroshima il 6 agosto 1945, e Anatoly Dobrynin, il leggendario diplomatico sovietico che da ambasciatore a Washington gestì la crisi dei missili a Cuba nel 1962. La realtà, come sempre, ama stupirci con degli imprevisti perfetti.

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Dopo lunghi mesi di negoziato ieri a Praga si è dunque concluso un lavoro diplomatico di cesello: «Un avvenimento storico che rende il mondo più sicuro» per Barack Obama, «L’apertura di una nuova pagina» per il presidente russo Medvedev, che ha comunque colto l’occasione per fare delle importanti precisazioni: in una dichiarazione unilaterale della Russia, infatti, si legge che il Trattato sulla limitazione delle armi strategiche offensive sarà in vigore fino a quando il rafforzamento delle capacità di difesa missilistica degli Stati Uniti (il

cosiddetto scudo) non creerà una potenziale minaccia di forze nucleari strategiche della Russia. Ma su questo punto il presidente Obama ha mostrato grande apertura, dicendosi pronto «a discussioni significative sulla difesa missilistica». La palla adesso passa ai parlamenti nazionali: quest’ultimi dovranno infatti ratificare il documento che, una volta entrato in vigore, avrà una durata di dieci anni. Ma nonostante i due presidenti si dicano convinti dell’approvazione del testo entro la fine dell’anno, non sono poche le nubi che si addensano all’orizzonte. Soprattutto sul cielo Usa, perché è evidente che se il Cremlino sostiene il Trattato la sua approvazione è una semplice formalità. Ad oggi, le chance che il Senato americano lo approvi sono piuttosto scarse. Obama avrà bisogno di 67 voti - due terzi dell’assemblea - e dovrà per forza di cose ottenere il sì di un numero consistente di repubblicani. Difficile che questi ultimi si prestino ad avallarlo facilmente (nonostante l’inclinazione Usa di lavorare in maniera bipartisan su questioni di diplomazia internazionale). In

più, repubblicani come Newt Gingrich e lo stesso Bush junior e la destra religiosa continuano a osteggiare il controllo degli armamenti, di cui pure furono convinte sostenitrici e artefici le amministrazioni repubblicane di Nixon, Reagan e Bush senior. Senza il voto dei repubblicani su un trattato ancora da chiudere, l’amministrazione Obama non avrà il capitale politico necessario a promuovere un’ambiziosa agenda di non-proliferazione. E senza un impegno forte da parte americana, il regime di non-pro-

Il trattato arriva 19 anni dopo il sì allo Start 1

Sullo sfondo c’è il confronto con Reagan e Gorbaciov di Mario Arpino on vi è dubbio che con la firma di ieri il libro sulla storia del disarmo acquisti un nuovo capitolo. L’agenzia moscovita Interfax, che alla fine dello scorso mese di marzo aveva annunciato l’evento, lo titolava come Corsa al disarmo. È certo in quel libro, i nomi dei due giovani presidenti - Obama ha 48 anni e Medvedev 45 - troveranno un posto d’onore. Se per Medvedev questa può essere considerata la prima occasione visibile per uscire dal cono d’ombra dell’ingombrante figura di Putin, Obama può vantare il suo secondo successo - il primo è la legge sul servizio sanitario - dopo sedici mesi di mani tese che nessuno ha ancora saputo o voluto stringere. Questa firma, in apparenza scontata, ma alla fine così travagliata per le modifiche “di scambio” che le parti politiche hanno imposto ai tecnici dei due schieramenti, non può non riportare alla mente le vicissitudini cui, quasi vent’anni prima, era stato sottoposto l’accordo per lo Start 1, progenitore di tutti i seguenti trattati di riduzione e delle numerose modifiche. Il tutto era cominciato in piena guerra fredda, nel 1982, quando lo scudo spaziale di Reagan aveva costretto l’anziano Breznev a seguirlo su una strada che si è subito rivelata insostenibile sul piano economico e tecnologico. Cosa immediatamente compresa dal giovane Mikhail Gorbaciov, che già nel suo primo incontro con con Ronald Reagan a Ginevra nel 1985 - dimostrava di volersi disfare quanto prima del pesante fardello. Possibilmente senza perdere la faccia o irritare troppo i “duri e puri” del Partito, caldeggiando vantaggi reciproci.

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Mentre per l’ultima revisione era stato Obama, nel luglio scorso, a rispolverare l’iniziativa, allora era stato Gorbaciov a lanciare l’idea di una riduzione nucleare, proposta che Reagan aveva accolto con entusiasmo. La prima trattativa diplomatica aveva preso sei anni, o nove se vogliamo conteggiare anche gli approcci del 1982, interrotti nel 1983 per l’installazione degli “euromissili” in Italia e Germania. Sei anni contro i sei mesi di oggi: nessuno può negare che i Rapporti tra Usa e Russia, pur sempre altalenanti, abbiano fatto un notevole salto di qualità. Se Gorbaciov e Reagan avevano posto tutte le basi per l’accordo, l’onore della firma toccò a George Bush il vecchio il 31 luglio 1991. Schermaglie diplomatiche e intoppi di percorso a parte, le dichiarazioni espresse dalla coppia Gorbaciov- Reagan a seguito del memorandum di base siglato a Reykjavik nell’ottobre 1986 non sono poi troppo differenti da quelle di Medvedev e Obama. Il tormentone dei due leader di allora era che «…una guerra nucleare non poteva essere vinta, e pertanto non doveva essere mai combattuta». Oggi, che una guerra tra i due è comunque scongiurata, si preferisce dire che il nuovo accordo «…riafferma la leadership dell’America e della Russia per la sicurezza e la non proliferazione». Chi ha orecchie per intendere, intenda.

liferazione non può che continuare a deteriorarsi. Dal sogno dell’opzione zero alla realtà delle zero opzioni, il passo potrebbe dunque essere breve.

Ma l’accordo di ieri, colma comunque una lacuna importante e manda un segnale distensivo, anche se rimane ancora un vuoto significativo sugli accordi di disarmo nucleare di natura multilaterale: l’ultimo, il Trattato sulla messa al bando degli esperimenti nucleari (Ctbt), risale al 1996 e non è ancora entrato in vigore. Il “nuovo Start” prevede anzitutto una riduzione delle testate nucleari. Il trattato fissa un

Mosca si è detta pronta a sospendere l’accordo qualora Washington decidesse di rafforzare il suo scudo missilistico limite a 1.550 per ciascun paese. Il limite precedente, previsto dal trattato Sort di Mosca del 2002, è tra 1.700 e 2.200. Nessuno dei due paesi ha reso noto quante testate ha ancora, ma gli Usa dovrebbero averne tra 2.100 e 2.200, i russi circa 2.600. Significativo è però il fatto che l’accordo preveda anche una forte riduzione dei vettori (missili intercontinentali e bombardieri strategici): il loro numero sarà quasi dimezzato, passando da 1.600 a circa 800 per ciascuna delle due superpotenze. Ma i conteggi risultano comunque imperfetti, tanto che alcuni analisti stanno già gridando alla truffa.

Molti hanno puntato il dito sull’importanza dell’accordo per il consolidamento politico interno dei due protagonisti, il presidente americano Obama e quello russo Medvedev. L’accordo li rafforza anche sul piano internazionale poiché avviene a poche settimane dalla grande Conferenza che si terrà a New York sul riesame del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp). Si tratta di un progresso importante in uno dei tre pilastri del Tnp, quello del disarmo. Il prossimo maggio, infatti, le delegazioni di 189 paesi si riuni-


speciale disarmo

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L’opinione dell’ambasciatore Sergio Romano sugli effetti dell’accordo

«Il nucleare resterà l’arma di Iran e Corea»

«La bomba è un deterrente difensivo a disposizione delle potenze minori. Ma almeno Mosca si è schierata» di Franco Insardà

In alto e sotto: i presidenti Obama e Medvedev al Castello di Praga, dove si è svolta la firma del Trattato; a sinistra, Gorbaciov e Reagan nel 1987 siglano l’accordo Inf; a destra, Sergio Romano

ranno a New York per tastare il polso al regime di non-proliferazione nucleare. L’occasione è la quinquennale Conferenza di riesame (Review Conference) del Tnp, uno dei perni del sistema di sicurezza internazionale. Negli ambienti diplomatici si respira un certo ottimismo sull’esito della conferenza. Pochi credono - o forse dicono apertamente - che possa ripetersi il disastro del 2005, quando la conferenza si concluse con un nulla di fatto in mezzo a polemiche e accuse reciproche. Eppure, guardando le cose più da vicino, il rischio di un nuovo fallimento è tutt’altro che trascurabile. Il fatto è che gli stati non nucleari sono sempre più frustrati: non solo quelli nucleari non hanno adempiuto alla promessa di disarmo - uno dei pilastri su cui si regge il Tnp - ma nessun obbligo grava sulle tre potenze atomiche che non fanno parte del Tnp: India, Pakistan e Israele. Ma cos’è ragionevole aspettarsi dagli stati nucleari? In realtà,

ben poco. Difficilmente le ansie degli stati non nucleari verrebbero placate dal ridimensionamento del ruolo delle armi nucleari nelle politiche di difesa Usa o degli altri stati nucleari (sempre che tale ridimensionamento abbia luogo). Dopotutto una scelta politica resta sempre reversibile. La ratifica del Ctbt sarebbe invece uno sviluppo molto significativo. Perché il trattato entri in vigore, sono necessarie ancora le ratifiche di Usa, Cina, Iran, Pakistan, Israele, Corea del Nord, più due stati non nucleari: Indonesia ed Egitto. Per quanto importante, insomma, la ratifica americana non è decisiva. Nonostante tutto, se la delegazione Usa si presentasse a NewYork con il Trattato Start firmato, la conferenza potrebbe ancora chiudersi con un (moderato) successo. Se questo non avverrà, il cammino verso un mondo denuclearizzato sarà ancora lungo e pieno di incognite. Ma ieri, un passo in quella direzione, è stato fatto.

ROMA. «Dopo la firma dello Start2 non cambierà nulla. In pratica i Paesi che dispongono delle armi nucleari si sono messi d’accordo per ridurre i loro arsenali e per renderli meno inutilmente costosi». L’ambasciatore Sergio Romano liquida così la firma del trattato che Stati Uniti e Russia hanno firmato proprio ieri a Praga. L’augurio di Barack Obama di avere un pianeta senza armi nucleari è realizzabile? È un bel sogno nel quale sarebbe bello credere. Bisognerebbe chiedersi se sia sincero, ma dovremmo essere nella testa del presidente degli Stati Uniti. Purtroppo non ho avuto notizia che una qualsiasi invenzione sia mai stata distrutta. Come giudica la dichiarazione unilaterale della Russia, inserita nell’accordo, nella quale si sottolinea il suo diritto a ritirarsi dallo Start2, se circostanze esclusive dovessero minacciare i suoi interessi? È comprensibile perché, in un certo senso, la questione nucleare è legata al clima dei rapporti tra Usa e Russia. Parliamo di due Paesi che hanno sistemato il loro contenzioso e che vanno d’accordo sul piano dell’affidabilità e della fiducia. Dopo l’elezione di Obama la situazione è sensibilmente migliorata, soprattutto perché gli Stati Uniti hanno rinunciato alla creazioni di basi antimissilistiche ai confini della Russia: in Polonia e nella Repubblica Ceca. E questo ha creato il terreno giusto per la ratifica dell’accordo Start2. Ma? I russi temono che Obama possa subire l’influenza degli establishment militari americani i quali ritengono che, contro le minacce provenienti soprattutto dall’Iran, si possa far fronte con sistemi missilistici a corto raggio, collocati in altri Paesi: quelli meridionali della penisola balcanica. Parliamo quindi dello scudo. Infatti alla Russia non fa certamente piacere avere queste basi militari non molto lontano dai suoi confini, anche se saranno più modeste sul piano degli armamenti. E quindi si è in qualche modo cautelata inserendo quella clausola nell’accordo di Praga. Non va però sottovalutata la valenza positiva della firma. Quali ricadute avrà lo Start2 sulle ambizioni nucleari di altri Paesi? Probabilmente altri Stati vorranno avere l’arma nucleare perché la riterranno utile per la loro sicurezza.

In che senso? L’arma nucleare non è uno strumento di attacco e di conquista, ma di difesa. È un deterrente che incute nell’altro maggiore prudenza e per certi aspetti è persino più utile alle piccole e medie potenze di quanto non lo sia per le grandi. In altre parole mentre una grande potenza dispone di molti altri mezzi e strumenti di potere, i piccoli, possedendo un’arma nucleare, diventano meno vulnerabili. Esistono già delle situazioni del genere? Direi senza dubbio la Corea del Nord che avendo l’arma nucleare, o facendo supporre di averla, finora non è stata ricattabile. Infatti quando George W. Bush ha dovuto dichiarare guerra non l’ha fatta a chi l’arma nucleare probabilmente l’aveva già, cioè proprio la Corea del Nord, ma a chi, secondo lui, avrebbe potuto averla: vale a dire l’Iraq di Saddam Hussein. Quindi, secondo lei, è inevitabile il ricorso agli armamenti nucleari. È così perché in questo modo i Paesi si sentono più garantiti. Il pensiero corre all’Iran di Mahmoud Ahmadinejad. Ai fini della politica iraniana l’accordo firmato ieri a Praga non cambia molto, dal momento che serve solamente a razionalizzare gli arsenali militari di due Paesi che l’arma ce l’hanno e hanno tutta l’intenzione di continuare a tenersela. Casomai la posizione iraniana è direttamente interessata dalla nuova strategia, annunciata in questi giorni, del presidente Obama secondo la quale gli Stati Uniti non useranno l’arma nucleare contro quegli Stati che rinunceranno a questo tipo di armamenti. Stando così le cose l’Iran andrà avanti per la sua strada? Certamente Teheran vedrà questa posizione statunitense come una minaccia. Anche se gli iraniani hanno sempre sostenuto che il loro programma nucleare è pacifico e non è diretto alla realizzazione di armamenti. E la cosa in parte è anche vera. Cioè? Non sono del tutto convinto che il loro programma nucleare sia finalizzato alla costruzione dell’ordigno. Gli iraniani vogliono fare come il Giappone: avere la possibilità di arricchire l’uranio in casa e possedere tutta la tecnologia per realizzare l’arma, nel caso in cui ve ne sia la necessità. In pratica avere la disponibilità del percorso completo senza necessariamente dover giungere alla costruzione dell’ordigno.

Le cose sono migliorate quando Obama ha rinunciato a installare le basi militari al confine con la Russia


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IL PRESIDENTE AMERICANO

«Ora il mondo è più sicuro» di Barack Obama ono onorato di essere tornato nella Repubblica ceca insieme al presidente Medvedev e ai nostri ospiti cechi per sottolineare il compimento di questa missione storica, la firma del nuovo Trattato Start. Da presidente, voglio ringraziare il presidente ceco e tutti quelli che sono stati coinvolti in questo processo. Voglio anche ringraziare il mio amico e partner Dmitri Medvedev, per gli sforzi personali e la sua forte leadership. Abbiamo, sviluppato un’amicizia solida che si basa sul rispetto reciproco e su fondamenta solide. Lo scorso anno in questo stesso periodo sono venuto qui a Praga e ho parlato durante il mio discorso di una nuova visione del mondo, cercando di arrivare all’obiettivo finale: un mondo senza armi nucleari. È un obiettivo a lungo termine, un obiettivo che non può essere raggiunto probabilmente nel corso della vita di una singola persona ma credo - allora come adesso - che raggiungere quell’obiettivo potrà portarci oltre la Guerra fredda, potrà portarci ad un regime di non proliferazione e rendere gli Stati Uniti d’America e il mondo un posto più sicuro per tutti. Ci siamo anche impegnati nel creare nuove relazioni tra l’Europa e la Russia e so che il presidente Medvedev condivide questo obiettivo. Senza la Russia, gli Stati Uniti non sarebbero in grado di affrontare le sfide più importanti e questa relazione è un bene per i nostri Paesi, ma anche per il mondo intero. Insieme abbiamo potuto beneficiare della cooperazione e oggi gettiamo le fondamenta per un mondo senza armi nucleari e per nuove relazioni tra la Russia e gli Stati Uniti e questo nuovo Trattato sulla riduzione delle armi strategiche include una significativa riduzione dell’uso delle armi nucleari in futuro e dimezza gli arsenali nucleari e include un regime di verifica esaustiva che servono a costruire la fiducia, la flessibilità di proteggere la nostra sicurezza e anche la determinazione americana a cooperare con tutti gli alleati europei. Io sono impaziente di lavorare con il Senato americano affinché si possa ratificare il più presto possibile -comunque entro quest’anno - questo Trattato. Queste giornate dimostrano la determinazione sia degli Stati Uniti che della Russia, due Paesi che posseggono il 90 per cento delle armi nucleari di tutto il mondo e che hanno dimostrato una leadership responsabile. Oggi dimostriamo il nostro impegno ad aderire al Trattato di non proliferazione nucleare per

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una non proliferazione globale. Il nuovo Trattato Start è un passo avanti importante ed è un passo in un percorso più lungo che andrà avanti anche in futuro: questo Trattato getterà le basi per ulteriori riduzioni e continueremo i nostri contatti con la Russia per ridurre le armi strategiche e tattiche, anche quelle che non vengono dispiegate sui campi militari. Io e il presidente Medvedev abbiamo esteso la di-

La diffusione di armi nucleari in altri Stati è una minaccia inaccettabile per tutti, incoraggia la corsa agli armamenti in Asia e Medioriente. Va fermata prima che sia tardi

scussione anche allo scudo antimissile e c’è stato lo scambio di informazioni di valutazioni, di verifiche e anche il completamento di altre missioni. Sono impaziente di lanciare un serio dialogo riguardo la cooperazione russo-americana sulla difesa missilistica ma le armi nucleari non sono solo una questione per gli Stati Uniti e la Russia: sono una minaccia per la sicurezza di tutti i Paesi e le armi nucleari nelle mani dei terroristi sono un pericolo per tutto il mondo, da Mosca a NewYork, dalle città europee al sud est asiatico. La prossima settimana incontrerò i leader di 47 Paesi a Washington per discutere fatti concreti per proteggere tutti i materiali nucleari vulnerabili nel mondo nel giro di quattro anni, anche la diffusione di armi nucleari in altri Stati è una minaccia inaccettabile per tutti i Paesi del mondo, incoraggia la corsa agli armamenti sia in Medioriente che in Asia.

Nel corso della settimana abbiamo reso chiaro con una nuova strategia nucleare che tutte quelle armi che non ottemperano alle regole del Trattato di non proliferazione nucleare non verranno tollerate dagli Stati Uniti. Questo dimostra ancora una volta l’impegno dell’America a tenere fede al Trattato di non proliferazione che è una pietra angolare delle strategie. Quelle nazioni che seguono le regole troveranno maggiori opportunità e maggiore sicurezza; quelle che invece rifiutano di tenere fede ai loro impegni verranno isolate e non riceveranno il riconoscimento della comunità internazionale. Questo in-

clude anche la responsabilità di coloro che infrangono le regole, altrimenti il Trattato di non proliferazione sarebbe solo lettera morta: è per questo che la Russia e gli Stati Uniti fanno parte di una coalizione che insiste che la Repubblica islamica dell’Iran debba affrontare le conseguenze dei suoi gesti perché continuamente continua a infrangere le regole e a non tenere fede agli impegni presi. Noi lavoreremo insieme al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per imporre nuove sanzioni all’Iran e non tollereremo nuove violazioni delle regole del Trattato di non proliferazione, che mina la credibilità della comunità internazionale e la nostra sicurezza collettiva.

Queste questioni sono tutte della massima priorità ma sono solo una minima parte delle relazioni tra Stati Uniti e Russia. Voglio esprimere le mie condoglianze per la perdita di cittadini russi nel corso degli ultimi attacchi terroristici di cui tutti sappiamo e voglio condannare ancora una volta l’estremismo violento. Abbiamo discusso del potenziale per estendere le nostre relazioni commerciali, gli investimenti così come scambiarci innovazioni tecnologiche e continueremo a parlarne quando il presidente Medvedev visiterà gli Stati Uniti nel corso dell’anno perché c’è molto che possiamo fare per la prosperità e la sicurezza dei nostri Paesi se continuiamo a collaborare. Queste sono alcune delle sfide che dobbiamo affrontare il tutto il mondo perché è facile riposare sugli allori oppure possiamo scegliere di condividere i progressi fatti. Voglio ripetere quello che ho già detto l’anno scorso a Praga: quando le nazioni si lasciano definire dalle loro differenze allora il divario che le separa aumenta, mentre la pace non sarà mai alla nostra portata. La città di Praga per molti aspetti è un monumento alla pace umana, ed è solo una dimostrazione di come quelli che erano prima nemici e avversari possono trovare una nuova conciliazione. All’età di novantadue anni, dopo aver visto gli orrori delle Guerre mondiali e della Guerra fredda, una persona ha detto: «Spero che l’umanità raggiunga il punto in cui non ci sarà bisogno delle armi nucleari, quando ci sarà la pace e la serenità in tutto il mondo». È facile non tenere conto delle voci di queste persone che hanno vissuto questi orrori e gli orrori del passato possono ripetersi senza tenere conto dei progressi della storia umana. Ma la ricerca della pace, della serenità, della cooperazione tra i Paesi devono essere la priorità dei leader dei popoli del XXI secolo. Dobbiamo essere determinati, tutti insieme.

Una firma sul futuro


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IL PRESIDENTE RUSSO

«È un passo nella Storia» di Dmitri Medvedev ono d’accordo con le valutazioni espresse dal mio collega, il presidente Obama: si è verificato un avvenimento di portata storica. È stato firmato un nuovo accordo russo-americano per le misure ulteriori di riduzione e limitazione delle armi offensive, firmato per i prossimi dieci anni, sostituisce il trattato scaduto ed anche un trattato russo-americano in vigore sulla riduzione di armi offensive. Innanzitutto vorrei ringraziare il collega presidente degli Stati Uniti d’America per una cooperazione con successo in questa faccenda molto delicata e complicata, con quei compromessi ragionevoli che siamo riusciti a raggiungere nel corso di cooperazione fra le nostre squadre che abbiamo ringraziato già in presenza dei mass media per l’ottimo lavoro. Vorrei anche ringraziare la leadership della repubblica ceca e il presidente ceco per l’invito di firmare qui a Praga il trattato in questa città meravigliosa, in questo meraviglioso periodo di primavera creando gli umori adatti per il futuro sperando che la firma odierna aprirà una nuova pagina nei rapporti fra i due paesi creando le condizioni più sicure per tutto il mondo. Mentre lavoravamo, noi eravamo orientati soprattutto sulla qualità dell’accordo, non è stato facile perché noi abbiamo lavorato in un regime di ventiquattro ore al giorno e questo ha permesso a noi di raggiungere l’obiettivo che fino a pochi mesi fa sembrava irraggiungibile - persino a qualcuno della nostra delegazione - nei tempi brevi di preparare un accordo e arrivare alla sua firma. In fin dei conti siamo riusciti a raggiungere un documento che mantiene la bilancia degli interessi della Russia e degli Stati Uniti, la cosa principale è che non ci sono qui i perdenti e i vincitori, qui ognuno vince e ciò caratterizza quanto era stato fatto.Tutte e due le parti hanno vinto rafforzando la propria difesa e grazie alla nostra vittoria ha vinto tutta la comunità internazionale e il rafforzamento della stabilità e sicurezza globale porta al livello superiore dei nostri rapporti fra i due paesi. Anche se il contenuto dell’accordo è praticamente noto, io vorrei sottolineare ancora una volta i nostri successi perché ciò è molto importante. 1550 missili dispiegati e riduzione a livelli mai visti prima. 700 reattori su bombardieri strategici che corrisponde alla metà rispetto al livello precedente. 800 rampe di lancio dispiegate e non dispiegate, e anche questo corrisponde alla metà rispetto a prima della firma del trattato. Ognuna delle parti definisce

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per conto proprio la composizione delle forze, il trattato fissa anche lo scambio di dati. Noi abbiamo parlato per filo e per segno, abbiamo parlato per telefono dettagliatamente e forse adesso siamo diventati gli specialisti più importanti in questo campo e ciò che riguarda anche il riequipaggiamento, le stazioni di verifica e di notifica e certamente le misure per rafforzare la fiducia fra i due paesi. Il meccanismo di verifica è diventato più snello, più semplice e meno costoso ma nello stesso tempo garantisce il controllo dovuto, la trasparenza della riduzione degli armamenti. Noi riteniamo - così come i nostri partner americani - che è una posizione aperta, che il trattato può essere vitale e può funzionare solo in assenza di aumento qualitativo e quantitativo degli elementi della difesa che in fin dei conti potrebbero far scattare la denuncia per le mosse strategiche russe. Questa è la sostanza della dichiarazione dei nostri paesi che sarà pubblicato

Non possiamo più chiudere gli occhi davanti all’atteggiamento del regime di Teheran. E anche il Consiglio di Sicurezza dell’Onu cambierà modo di fare

direttamente dopo la firma del trattato. Noi vi diamo ratifica del trattato. Il presidente degli Stati Uniti ha detto poco fa una cosa importante: è importante non solo firmare ma anche sintonizzare il processo di ratifica. I nostri partner vogliono portare la ratifica al Senato il più presto possibile.

Anche noi lavoreremo con l’Assemblea russa in modo da mantenere la dinamica necessaria del processo di ratifica. Noi siamo complessivamente soddisfatti del lavoro fatto, i risultati sono buoni ma oggi abbiamo discusso non solo il fatto stesso della firma dei documenti, perché i documenti erano stati preparati in anteprima, noi abbiamo discusso anche i nostri problemi chiave che riguardano molti paesi. Certamente non potevamo scartare il programma nucleare iraniano, purtroppo Teheran non reagisce a una serie di compromessi costruttivi proposti e noi non possiamo chiudere gli occhi su ciò. Perciò il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sarà costretto un’altra volta a rivedere questa po-

sizione. La vostra posizione è chiara, potrei chiaramente esprimerla in questo modo: raramente le posizioni portano a un risultato sperato ma anche se sono indispensabili e sono puntate solo alla limitazione di proliferazione.

Seguiremo con attenzione i passi dei nostri partner ma in ogni caso noi agiremo in modo politico diplomatico. Certamente la discussione di questi punti dell’agenda continuerà. Un punto molto importante la qualità dei rapporti con gli Stati Uniti che prende in considerazione i nostri interessi reciproci che si basano su prevedibilità, certamente e con il trattato firmato oggi aiuta a imboccare una nuova strada. Certamente è anche molto importante la chimica dei rapporti personali tra i due presidenti ma che non devono essere sviluppati soltanto dai presidenti perché i presidenti non possono risolvere tutte le questioni di competenza di esecutivo. Perciò i contatti di lavoro devono essere stabiliti fra le due strutture del potere esecutivo e governativo. La commissione russa e americana, i Segretari di Stato degli Stati Uniti e il ministro degli esteri russo hanno presentato i risultati del loro lavoro e abbiamo stabilito le teorie per il prossimo anno, ciò che ci rende molto più vicini. Noi abbiamo affrontato anche dell’economia. Questa è una questione antica nei rapporti russostatunitensi con Israele perché per quanto riguarda la sicurezza noi andiamo avanti a passi giganti. Però noi siamo convinti che bisognerebbe anche affrontare le altre tecnologie, creazione di una nuova economia intelligente ad una data tecnologia, ciò che sarebbe possibile solo nelle condizioni di cooperazione. Innanzitutto abbiamo tenuto dei buoni contatti e dobbiamo realizzare questi accordi. Vorrei che ciò accada nel corso della mia visita negli Stati Uniti l’estate prossima. Io sono convinto che ciò che è stato fatto finora è solo l’inizio di un lungo cammino e non vorrei che i rapporti fra la Russia e gli Stati Uniti d’America siano ridotti soltanto alla limitazione di armi strategiche e offensive, anche se su di noi c’è una responsabilità particolare. E noi non vogliamo chiudere questa responsabilità ma vogliamo continuare su questo cammino, ma dobbiamo lavorare anche in altre sfere ciò che è molto importante sia per i nostri popoli, sia per la situazione nel mondo. E oggi, per come la vedo io, è stato fatto un passo molto importante perché ha rafforzato la fiducia e la comprensione fra i nostri Paesi. Vorrei ringraziare ancora una volta il presidente Obama per l’ottima cooperazione in questa sfera.


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speciale disarmo

Diplomazie. Per l’ex-ambasciatore Usa all’Onu il Senato farà molta resistenza prima di ratificare il trattato firmato ieri

«Ma ora siamo più deboli» «L’ombrello nucleare garantisce equilibrio strategico. Cambiare significa produrre situazioni pericolose»: parla John R. Bolton di Pierre Chiartano ndebolire l’ombrello nucleare globale a marchio Usa non sembra essere per tutti un’idea molto saggia, nonostante l’accattivante prospettiva di avere meno ordigni atomici pronti all’uso. Intanto il premier turco Recep Tayyp Erdogan definisce Israele come la «vera minaccia per la pace» in Medioriente. E ribadirà nell’incontro di oggi con il presidente francese Sarkozy, il suo «no» a nuove sanzioni contro il regime sciita. Questo accade mentre Obama lancia la nuova dottrina strategica Usa. Lo Strategic arms reduction treaty (Start) è un primo passo del nuovo approccio che, in teoria, vorrebbe spostare l’asse della politica estera statunitense. Ma rischia di creare problemi soprattutto laddove sta salendo la temperatura della crisi. Obama vorrebbe dare l’immagine di un America non più impegnata solo nella lotta al terrorismo, ma coinvolta a livello economico e sociale con l’Islam. Però proprio questa nuova stance obamiana non viene percepita da tutti come un elemento che produrrà maggiore stabilità nel mondo. Specialmente in una delle regioni di crisi più calde del pianeta: il Medioriente.Tra i critici figura l’ex ambasciatore all’Onu durante l’amministrazione di Gorge W. Bush, John R. Bolton. Repubblicano e conservatore, ha ricoperto l’incarico al Palazzo di Vetro tra il 2005 e il 2006. Oggi è membro del think tank, American enterprise institute e commentatore su Fox News, oltre a essere coinvolto in decine di iniziative accademiche e politiche. Raggiunto telefonicamente a Hong Kong dove si trova per un giro di conferenze, ha risposto ad alcune domande di liberal. Il presidente Barack Obama è arrivato a Praga per firmare con Mosca il nuovo trattato Start sulla riduzione delle testate nucleari. Che genere di cambiamenti porterà nella politica estera di Washington? Il nuovo trattato Start sostanzialmente ridurrà il numero di testate atomiche in dotazione negli arsenali di Russia e Stati Uniti. Penso che l’accordo inte-

John R. Bolton, uomo di punta dell’entourage di George W. Bush, nonché ex ambasciatore Usa presso l’Onu, è naturalmente molto critico nei confronti della politica estera obamiana. «L’ombrello nucleare garantiva equilibrio strategico. A che serve asesso indebolirlo?»

I

ressi molto di più i russi di quanto non sia importante per gli americani e i suoi alleati. C’è una differente situazione strategica per i due Paesi. Mosca non ha alcun alleato importante in questo campo sulla scena internazionale. Gli Usa possiedono un ombrello nucleare globale, grazie alla Nato e ai suoi alleati asiatici, come Corea del Sud e Australia. Una riduzione paritetica delle testate inciderà più sulle capacità strategiche americane che su quelle russe. In secondo luogo non sappiamo ancora come i termini del nuovo trattato incideranno sulle capacità di difesa antimissile. Il Cremlino ha una sua idea su come affrontare il problema dell’ombrello contro i vettori missilistici, l’amministrazione Obama ne ha un’altra. Ambasciatore, non è dunque ancora possibile fare un’analisi precisa? Finché non riusciremo a leggere attentamente tutti i passaggi del documento, non potremo fare valutazioni definitive sull’argomento. Se e come le capacità americane di difesa antimissilistica saranno ridimensionate dal nuovo accordo. È un punto molto importante

che solo con un’attenta verifica dei termini del trattato potrà essere valutato. Penso che ci vorrà molto tempo prima che il Senato possa soppesare i contenuti e ratificare questo accordo. Crede che il trattato cambierà la dottrina strategica americana? E ciò potrebbe mutare non solo i rapporti tra Russia e America? Sì, in termini di capacità e di responsabilità e credo che,

Casa Bianca, che genere d’influenza avrà sugli alleati di Washington in Medioriente? Nel momento in cui gli Usa riducono il numero di testate nucleari belliche, è chiaro che Obama abbia la convinzione che questo genere di scelta possa incoraggiare un certo tipo di collaborazione con molti Paesi che hanno sempre visto la potenza strategica Usa come una minaccia. Sono invece convinto che si potrà produrre l’effet-

la possibilità che possa attaccare il regime sciita, sentendosi minacciata da un Iran nucleare. Ma c’è da sottolineare che la crisi dei rapporti tra Turchia e Israele sia anche la conseguenza del declino del kemalismo in quel Paese. Ankara siede nel consiglio di sicurezza dell’Onu e creerà dei problemi a Obama per una nuova richiesta di sanzioni contro l’Iran. Quale parte giocherà la Turchia in Medioriente? Il ruolo di una Turchia, come democrazia secolare, potrebbe essere di estrema importanza per tutta la regione. Ma il rischio, ora, è che Ankara stia perdendo le sue caratteristiche di Stato laico per assumere i tratti di un Paese sempre più islamico. Questo potrebbe costituire un pericolo per il futuro del Paese, per la sua sicurezza e per la stabilità in Medioriente. E potrebbe costituire un rischio potenziale anche per la Nato. Ankara non sarebbe più l’alleato fedele di un tempo? C’è il timore che possa diventare meno affidabile, visto che tutti i membri dell’Alleanza Atlantica sono dei Paesi retti dal principio secolarista dello Stato laico. Quando hanno ade-

Io credo che questo accordo interessi molto di più i russi che gli americani e l’Occidente: perché Mosca non ha alcun alleato importante in questo campo sulla scena internazionale alla fine, non farà che aumentare l’instabilità globale. Penso che l’ombrello nucleare abbia sempre garantito un certo equilibrio a livello strategico. Ridurre le dimensioni di questo sistema rischia di produrre situazioni pericolose. Il nuovo approccio strategico della

to opposto. Le ridotte capacità americane non faranno che incoraggiare la proliferazione in Paesi come Iran e Corea del Nord, che si sentiranno più sicuri nel perseguire i loro progetti atomici. I continui attacchi di Erdogan contro Israele non potrebbero significare che la Turchia teme di finire come il vaso di coccio, tra una Gerusalemme senza più un forte legame con Washington e un Iran con l’atomica? I rapporti tra Israele e gli Stati Uniti stanno subendo una forte pressione. Oggi Israele si sente sicuramente più isolata che in passato e questa situazione aumenta

rito al trattato anche i turchi lo erano, oggi si stanno trasformando e il cammino verso la democrazia non è così diretto, mentre la deriva islamica è percepibile. Se dovesse diventare un Paese islamista e meno democratico sarebbe un problema. È una situazione da monitorare con grande attenzione. La situazione turca non potrebbe trasformarsi in una via di mezzo? Uno Stato meno kemalista, ma non islamista e perciò giocare un ruolo di stabilizzazione in quell’area? Tutto è possibile. Possiamo solo registrare ogni variazione. Al momento non sappiamo quali saranno gli sbocchi finali della situazione politica turca. Tutti i Paesi occidentali dovrebbero guardare ai cambiamenti che avvengono laggiù. Oggi (ieri per chi legge,


speciale disarmo

9 aprile 2010 • pagina 7

I gruppo 5+1 (Usa, Cina, GB, Russia, Francia e Germania) riunito all’Onu

Mosca, sì alle sanzioni Ma che dirà Pechino? Settimana di fuoco per il regime di Teheran: la coalizione punta a indebolire Ahmadinejad di Emanuele Ottolenghi on è dato di stabilire, al momento in cui questa pagina chiude, se i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la Germania, i cui ambasciatori si sono incontrati ieri a New York per discutere di sanzioni contro l’Iran, hanno raggiunto un consenso. È difficile immaginarsi un simile repentino cambio di direzione da parte della Cina, dopo che per mesi Pechino ha cercato in tutti i modi di ostacolare e impedire nuove sanzioni. Il viaggio di Saeed Jalili a Pechino, del resto, era chiaramente mirato a convincere l’alleato cinese a non abbandonare l’Iran o almeno a non esporlo troppo.Va da sé che la Cina non ama trovarsi da sola in questi contesti diplomatici. Finché la Russia non era dell’idea di passar sanzioni, la Cina poteva convenientemente nascondersi dietro a Mosca. Ora rischia di rimanere isolata. Non solo, un veto cinese potrebbe finire con l’accelerare il passaggio di sanzioni unilaterali americane ed europee, che potrebbero essere molto più dure e incisive. La Cina quindi giocherà ad annacquare il testo proposto da americani ed europei e ad allungare i tempi di approvazione - l’Iran non è nemmeno sull’agenda del Consiglio di Sicurezza per il mese d’aprile - contando poi che, una volta approvata tra maggio e giugno, la prossima risoluzione sanzionatoria sia l’ultima della serie - per un bel po’ almeno. Del resto, anche in Europa l’entusiasmo per misure serie rimane blando. E l’Amministrazione americana preferisce ottenere una risoluzione debole ma sostenuta ampiamente dal Consiglio di Sicurezza (quindi, eventualmente, anche con i voti per ora tutt’altro che garantiti di Brasile e Tur-

N

ndr) ci sarà una riunione del gruppo dei cosiddetti 5+1 (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia più Germania) in seno al consiglio di sicurezza Onu. Pensa che verranno varate nuove sanzioni

contro Teheran? No, non penso che avverrà nulla d’ importante in quella riunione. Sono ancora nella fase iniziale della trattativa. Può darsi che si produca una nuova risoluzione Onu, ma non credo che ci sarà un inasprimento

chia) piuttosto che avere misure robuste ma non condivise e quindi non applicate dalla comunità internazionale. L’America sceglie la strada dell’ONU e del multilateralismo a oltranza perché crede ancora che nuove sanzioni servano a premere su Teheran per tornare al negoziato. L’Europa lo fa un po’ per principio – gli europei non credono alle “coalizioni dei volenterosi” e un po’ per tornaconto - gli europei non vogliono danneggiare l’economia iraniana nella quale hanno tanti investimenti, ma semplicemente trovare strade più efficaci per bloccare il flusso tecnologico proibito a Teheran e per colpire nelle tasche quegli elementi del regime che sono direttamente coinvolti nel processo decisionale sul nucleare e sul programma missilistico. Il risultato sarà dunque abbastanza scontato. La quarta risoluzione dell’Onu a introdurre sanzioni contro l’Iran allungherà la lista di in-

Gli Usa mirano a una risoluzione debole sostenuta da larga parte dal Consiglio, piuttosto che a misure robuste ma non condivise dividui i cui conti in banca esteri sono da congelare, il cui diritto a viaggiare all’estero sarà negato e le cui attività saranno monitorate più attentamente.

Ci saranno nuove imprese e compagnie iraniane, sia in Iran che all’estero, che saranno colpite da misure punitive per il loro ruolo nell’acquisto di tecnologia proibita. Ci saranno forse nuove banche e nuove misure mirate contro il settore finanziario iraniano. Ma quanto speravano i sostenitori di un regime di sanzioni più duro mancherà. Intanto, probabilmente, non ci sarà un embargo sulle armi, a causa dell’ovvia opposizione di russi e cinesi, i principali venditori di armamenti all’Iran. Poi non ci saranno misure destinate a colpire il settore petrolifero o a imporre un embargo sulle esporta-

dell’embargo. Penso che sia ormai troppo tardi per le sanzioni economiche, perché abbiano un effetto nell’impedire all’Iran di raggiungere una capacità nucleare. Anche la partecipazione della Cina, pur importante per rendere efficaci le con-

zioni di derivati raffinati del petrolio di cui l’Iran ha ancora molto bisogno – gli europei sono contrari e temono la concorrenza cinese. E infine c’è forte opposizione alla richiesta di colpire le guardie rivoluzionarie tout court, anche dall’Europa. Rimangono interrogativi sulla possibilità di colpire il settore assicurativo in modo da aumentare il costo di ogni investimento in Iran e il costo di trasporto (sia import che export) per gli spedizionieri iraniani. Ma si tratta di inezie, rispetto alle sanzioni “che mordono” promesse dal presidente Obama, o le sanzioni “paralizzanti” minacciate dal segretario di Stato Clinton. A Teheran, gli unici a essere morsi e paralizzati saranno gli oppositori del regime – e non a causa delle sanzioni. Cosa succederà dopo l’approvazione di questa risoluzione? Vista l’ottica in cui viene approvata, l’Amministrazione Obama vorrà con tutta probabilità dare tempo al tempo per vedere se ne viene fuori qualcosa di buono. Gli europei, per parte loro, apriranno un dibattito sull’opportunità di ampliare le misure sanzionatorie passate dall’Onu come già era avvenuto a seguito dell’approvazione della risoluzione 1803. Tuttavia, tale dibattito richiederà tempo e difficilmente l’Europa introdurrà misure più ampie prima dell’autunno. Insomma, l’anno che doveva essere risolutivo e prevedere una svolta nella compattezza e determinazione della comunità internazionale a fermare la corsa iraniana alla bomba atomica, sarà ancora una volta un nulla di fatto, con un leggerissimo aumento della pressione su Teheran ma sostanzialmente con le solite esitazioni e temporeggiamenti che hanno caratterizzato la diplomazia degli ultimi sette anni. L’Iran dunque ringrazia, perché anche se le sanzioni nuove non faranno di certo piacere, la difficoltà con cui saranno approvate dimostra sempre che Teheran, in diplomazia, rimane più brava di noi.

tromisure, non so quanto potrà incidere. Se si atterrà solo al rispetto di procedure formali, intendo. Non sono convinto che Pechino entrerà nel merito delle risoluzioni punitive contro Teheran. Ricordo che sia Cina che Russia hanno più volte sol-

Senior Fellow presso la Foundation for Defense of Democracies di Washington

lecitato una soluzione diplomatica della vicenda. E hanno entrambe potere di veto in seno al consiglio di sicurezza. E il regime sciita ha più volte dichiarato che non farà passi indietro rispetto al suo progetto nucleare per le pressioni occidentali.


diario

pagina 8 • 9 aprile 2010

Conti. Per l’Istat nel 2009, l’anno della crisi, la ricchezza privata è scesa del 2,8%: è il dato peggiore dagli anni Novanta

Addio ai gioielli di famiglia

E intanto il governo prepara una manovra correttiva da 5 miliardi di Gianfranco Polillo segue dalla prima Il reddito, infatti, è cresciuto da una media di 800 miliardi, nel 2000, a circa 1.600 miliardi, con una progressione complessiva del 32 per cento. Frutto soprattutto della crescita occupazionale, rispetto a un più limitato aumento dei salari pro – capite. Una crescita comunque faticosa, date le condizioni del mercato del lavoro e le sue asimmetrie: da un lato gli intoccabili – lavoratori anziani protetti fino all’inverosimile – dall’altro il precariato: migliaia di giovani costretti ad accettare di vivere alla giornata, in mancanza d’altro.

Poi un ribaltamento della tendenza. Dall’ultimo trimestre del 2009, mentre la crisi si manifestava in tutta la sua virulenza, il reddito disponibile ha subito una flessione complessiva del 3 per cento. Dovrebbe essere – almeno così si spera – il dato peggiore. Proprio in questi giorni l’Ocse ha previsto per l’Italia una crescita del Pil, per il primo trimestre del 2009, pari all’1,2 per cento, cui dovrebbe seguire una piccola battuta d’arresto (0,5 per cento). Per il resto dell’anno, invece, si vedrà. Troppe nubi si addensano all’orizzonte per spingersi oltre la lunga nottata. Senza contare che ieri si sono rincorse in Parlamento voci che parlavano di un buco di 4-5 nei conti pubblici (in

grandi numeri è ancora in grado di incidere. In dieci anni si è mangiata quasi il 25 per cento del maggior reddito a disposizione.

Infine il risparmio: il grande salvagente che ha finora ridotto i morsi della crisi. Come in un perverso gioco dell’oca, siamo ritornati alla metà degli anni 2000. Allora la quota risparmiata del reddito era pari al 13,9 per cento. Il 2009 si è chiuso con una

Tutti gli indici ci dicono che è un momento molto delicato per la nostra economia: ma comunque l’Italia resta tra i paesi europei meno esposti corso di revisione): la cifra sarebbe necessaria per coprire spese correnti imprescindibili tra cui il rifinanziamento delle missioni militari all’estero per il secondo semestre 2010. Ma, insomma, in termini di potere di acquisto, le cose sono andate meno bene. Nei dieci anni considerati, l’aumento è stato solo dell’8 per cento. A cui ha fatto seguito una caduta – nell’ultimo anno e mezzo – di quasi il 3,5 per cento. L’inflazione, come si vede, benché domata nei

percentuale pari al 14 per cento. In questo lungo intervallo, delle vere e proprie montagne russe, con una crescita che ha raggiunto la punta massima (17 per cento) alla fine del 2001 – anno di massima espansione relativa del PIL – per poi regredire lentamente fino ai valori attuali. Il risparmio, per le famiglie italiane, è stato una sorta di mutua, che ha stabilizzato i consumi nel tempo, consentendo loro di crescere di circa il 5 per cento in più rispetto al reddito e diminui-

re meno - 1,8 contro il 3 per cento del reddito - durante la crisi. Segnale inequivocabile. Esistono abitudini consolidate difficili da rimuovere. Si taglia il superfluo, e se non basta, si attinge al gruzzolo accumulato negli anni migliori. Ma quali consumi si tagliano? Soprattutto gli investimenti, che rimangono comunque alti, rispetto al risparmio. L’italiano, in tutti questi anni, non ha rinunciato al sogno della casa. Per acquistarla ha investito una quota crescente dei propri risparmi (dal 52 per cento del 2002, al 66 del 2007) poi questa propensione, complice anche la bolla speculativa sugli immobili, è in parte venuta meno: con un calo che ha raggiunto la punta massima – nel 2007 – di circa 4 punti. Da allora un andamento a zig – zag, dalle incerte prospettive.

E le imprese? Nel lungo periodo cadono innanzitutto le quote dei profitti. Dagli anni d’oro, si fa per dire, (il 2001) in cui essi erano pari al 47 per cento del valore aggiunto prodotto, si sono persi circa 7 punti, in una progressione continua, interrotta solo da brevi schiarite. La con-

La Bce lascia i tassi invariati FRANCOFORTE. La Banca centrale europea ha lasciato invariato all’1% il tasso di riferimento principale in Eurolandia, come ampiamente previsto dal mercato. Lo ha deciso ieri il Consiglio direttivo. La Bce ha lasciato invariati anche il tasso sui depositi allo 0,25% e quello marginale all’1,75%. Il costo del denaro in Eurolandia resta quindi al minimo storico. La conferma dei livelli attuali è in linea con le attese di mercati e analisti. A dispetto dei recenti segnali di miglioramento dell’attività delle imprese, e di rafforzamento dell’inflazione che all’1,5 per cento resta comunque inferiore ai livelli obiettivo della Bce - permangono tuttavia elementi di fragilità nella fase di ripresa. A cominciare dalla disoccupazione, che secondo i dati Eurostat ha appena superato la soglia simbolica del 10 per cento nell’Unione monetaria. Un fattore che pesa al ribasso sulle prospettive di consumo, e in questo modo di inflazione, su cui il costo del danaro è il principale strumento di contenimento nell’armamentario delle banche centrali.

correnza internazionale, resa più stringente dall’esistenza dell’euro, ha costretto le aziende ad una politica di forte contenimento dei prezzi di vendita. Sono, di conseguenza, diminuiti i margini e con essi i profitti. Questo è un po’ il limite dell’industria italiana. Troppo presente – checché se ne dica – nei settori tradizionali, è costretta a subire in forma forse maggiore il condizionamento dei mercati. Un cappio che può essere allentato solo compiendo un salto di qualità – investimenti, innovazione e ricerca – nella sua specializzazione produttiva. Gli sforzi, per la verità, non sono mancati. Nelle aziende sono state reinvestite quote crescenti di utili. Dal 2000, quando la percentuale era solo del 49 per cento, si è passati nel 2008 ad oltre il 59 per cento: con un salto di ben 10 punti ed una progressione costante, che si è interrotta solo con lo scoppio della crisi. Nel breve volgere di un anno, infatti, la caduta è stata di ben 5 punti. È il segno evidente, da un lato delle incertezze circa le prospettive future; dall’altro del credit crunch. Le banche hanno stretto i cordoni del finanziamento, costringendo le aziende a rientrare dai fidi concessi o a ristrutturare il debito accumulato negli anni precedenti.

Che lezione trarre da quest’insieme di dati? La prima è segnalare il comportamento razionale delle famiglie. Di fronte ad una caduta del Pil di oltre 5 punti, hanno agito sia sui consumi – riducendoli – sia sul risparmio – utilizzando parte delle riserve accumulate – il che ha consentito di contenere le perdite complessive del “sistema Paese”. Se si fosse ceduto allo smarrimento, le perdite, in termini di Pil, sarebbero state maggiori. La seconda è meno rassicurante. Finora le famiglie sono state il più grande ammortizzatore sociale dell’economia italiana. Ma i tempi stanno cambiando. Se non riprenderemo rapidamente il sentiero dello sviluppo, quel salvagente non sarà più sufficiente. È un segnale rivolto, soprattutto, alla politica. Non è più tempo di baruffe. Ma occorre agire.


diario

9 aprile 2010 • pagina 9

Intanto, boom di telefonate al Policlinico di Bari

I consulenti nominati dalla Procura: «Al Pertini assistenza inadeguata»

Ru486, Fazio: «Sul farmaco occorre subito abbassare i toni»

Caso Cucchi, i medici legali: «Poteva essere salvato»

ROMA. Il ministro della Salute

ROMA. «La vita di Stefano Cucchi, se si fosse agito diversamente, poteva essere salvata». Lo ha detto ieri il direttore dell’Istituto di medicina legale, Paolo Arbarello, uno dei consulenti nominati dalla Procura per far luce sulla morte del giovane deceduto il 22 ottobre scorso nel reparto protetto dell’ospedale Pertini. «L’assistenza - ha proseguito il medico legale - non è stata adeguata. Invece le indicazioni del Fatebenefratelli e di Regina Coeli erano corrette». «Cucchi presentava una lesione vertebrale antica e una lesione vertebrale recente. Queste lesioni - ha spiegato Arbarello - sono tipiche della caduta podalica, e comunque erano lesioni indifferenti ai fini della morte. Inoltre

Ferruccio Fazio ha lanciato ieri un appello ad «abbassare i toni» sulla pillola abortiva Ru486, prendendo lo spunto dal caso della donna di Bari che per prima ha ottenuto il farmaco. «Io quando penso a questa donna penso a cosa sta provando perché ha perso il bambino, quindi credo che bisognerebbe abbassare i toni. Quando c’è la gente di mezzo forse troppe polemiche sono anche sbagliate».

E «un mare di telefonate» sta arrivando al Policlinico di Bari per la pillola abortiva. Lo riferisce all’agenzia di stampa AdnKronos Nicola Blasi, responsabile delle interruzioni di gravidanza della I Clinica ostetrica del Policlinico barese, proprio due giorni fa è avvenuta la prima somministrazione del farmaco. «Ho parlato con l’assessore Fiore che mi ha garantito un aiuto dal punto di vista pratico - spiega il primario Abbiamo bisogno di organizzare un servizio, serve una linea dedicata con un orario in cui chiamare e un’ostetrica che risponde. Già tra ieri e oggi siamo stati sommersi dalle telefonate». «C’è anche un altro problema», aggiunge. «Mi ha chiamato un uomo interessato alla Ru486 per la moglie, era molto informato, aveva fatto un’indagine dalla quale è emerso che da Roma in giù non c’è nessuno che usa la pillola tranne me. Questa è una cosa stranissima dice il ginecologo -. Io sono partito quando mi hanno dato indicazioni. Non capisco perché gli altri Consigli regionali stiano bloccando le cose, non capisco cosa sta succedendo. A me ha meravigliato il fatto che sono stato io il primo a partire», ripete. Per quanto riguarda i dati diffusi in questi giorni sulla donna che ha assunto la Ru486, Blasi confessa che il rischio sarebbe stato una “rottura”d’utero». La scelta di abortire, quindi, è stata praticamente obbligata.

I sindaci in piazza Ma manca la Moratti In Lombardia Lega e sinistra uniti contro il governo di Francesco Capozza

MILANO. Appuntamento in piazza San Babila a Milano: un territorio si ritrova per alzare la voce, farsi sentire e ottenere dal governo più soldi. Quattrocento sindaci della Lombardia hanno deciso di mettersi insieme, incontrarsi in strada e marciare verso la Prefettura per rimettere simbolicamente la fascia tricolore al rappresentante del Governo, perché «non si può più andare avanti». «Mancano le risorse», i comuni sono strangolati, «non possiamo tappare le buche»; c’e’anche chi giura di aver sforato il patto di stabilità per ristrutturare le scuole dell’obbligo che «ci pioveva non si sa quanto». Il patto di stabilità, appunto, ovvero il sistema di norme che vincolano la spesa degli Enti locali e che i primi cittadini lombardi, sotto l’egida dell’Anci regionale, hanno denunciato ancora una volta a gran voce ieri mattina. L’accento batte sulla meritocrazia, il «virtuosismo» dei comuni, aspetto che a Roma dovrebbero considerare per rivedere le norme e concedere, almento per chi ha sempre dimostrato di sapersi amministrare, la facoltà di investire i soldi dei cittadini per i cittadini. «Non siamo più in grado di svolgere il nostro lavoro, non possiamo più dare servizi ai cittadini. È ora di dire basta», ha tagliato corto Attilio Fontana parlando da presidente dell’Anci Lombardia, ma che è pure sindaco di Varese e, soprattutto, uomo leghista. Aspetto quest’ultimo che gli ha fatto precisare come la protesta non sia politica, ma «di un territorio che soffre. Questa manifestazione - ha chiarito - serva a dare uno stimolo a quella parte di Governo che vorrebbe fare queste riforme».

i ministeri le hanno aumentate in modo consistente». «Le regole del patto di stabilità - ha aggiunto Roberto Cornelli, sindaco di Cormano - devono essere modificate per fare in modo che i comuni virtuosi - che sono spesso i lombardi, abbiano agevolazioni. Dobbiamo poter rilanciare l’economia locale investendo i soldi pubblici». Pensiero comune nei circa 400 sindaci che hanno risposto all’appello dell’Anci. C’erano quasi tutti i primi cittadini dei capoluoghi lombardi (tranne Sondrio, Mantova e Cremona), non c’era il rappresentante del capoluogo: Letizia Moratti aveva anticipato di non condividere la forma della protesta. Ma più di qualche collega però ha mostrato di non gradire la defezione: «Il sindaco - ha detto il primo cittadino di Cormano, Roberto Cornelli - dovrà spiegare questa assenza ai milanesi perchè i 36 milioni di euro che sono la parte di Milano che è venuta a mancare nel rimborso dell’Ici, non sono soldi della Moratti ma dei cittadini».

Nella mattinata, tuttavia, è arrivata la conferma che per un’altra strada la Moratti ha forse centrato un obiettivo: «Ho sentito il sindaco - ha detto Fontana - e mi ha di confermato aver ottenuto un incontro con Tremonti per discutere questo pacchetto che presenteremo». Non è l’unica telefonata che ha unito Milano a Roma,Tremonti al partito dei sindaci del Nord: il prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi, infatti, avrebe loro riportato di una telefonata ricevuta dal ministro e una del sottosegretario Gianni Letta. «Il prefetto - ha spiegato Giulio Gallera, vicepresidente Anci Lombardia e capogruppo Pdl in consiglio comunale a Milano - ci ha detto di aver ricevuto una telefonata dal ministro Tremonti e dal sottosegretario Letta che hanno garantito un incontro ma anche un intervento efficace». Una notizia che a Fontana ha fatto dire: «Il messaggio è arrivato molto forte. Per la prima volta una parte del territorio si è messa insieme e non si potrà non tenerne conto nelle stanze dove si prendono le decisioni».

In quattrocento sfilano alla protesta bipartisan contro il patto di stabilità. «Perché il sindaco di Milano non c’è?»

Che la protesta sia bipartisan, sciolta dalle divisioni politiche, lo dimostra anche il commento all’unisono di un vicepresendete dell’Anci, sindaco anch’esso ma stavolta di Sesto San Giovanni, ovvero di quel comune che ha meritato un tempo l’appellativo di Stalingrado d’Italia: «Siamo pronti a trattare col Governo ha detto Giorgio Oldrini - perché non siamo qui su posizioni ideologiche. Noi facciamo la nostra parte. I comuni hanno ridotto le spese,

Cucchi presentava lesioni recenti al viso ed escoriazioni a livello delle gambe. Ma non si sono rilevati segni di bruciature. In ogni caso non è nostro compito entrare nelle modalità secondo le quali sono state provocate questo tipo di lesioni. L’accertamento di eventuali responsabilità - ha proseguito - non spettano a noi. Cucchi presentava una cachessia, condizione di peso bassissimo, una disfunzione epato-pancreatica, un ipoglicemia grave e uno squilibrio elettrolitico e una bradicardia: non è stata colta quindi la gravità della situazione».

Arbarello ha poi spiegato che «attribuire a noi la possibilità di fare delle sentenze non è giusto: con le perizie medico-legali non si fanno le sentenze». Inoltre, «Cucchi non è morto per disidratazione. Il giorno precedente alla morte aveva assunto tre bicchieri d’acqua e c’era funzionalità renale perché la vescica era piena». Quindi «c’è stata omissione e negligenza. Cucchi andava trattato diversamente. Non gli sono state attuate terapie che potevano evitare la morte. Rimane il dubbio sul perché sia stato avviato a quel reparto: il reparto di medicina protetta non era idoneo alla sua condizione».


politica

pagina 10 • 9 aprile 2010

Precedenze. Berlusconi vuole liberare il campo dai conflitti prima di cambiare tutto. E Mancino: «No al doppio Csm»

Alfano firma la tregua

Mentre il premier e la Lega cercano sponde su riforme e federalismo, il ministro congela il pacchetto giustizia: «Serve un testo più equilibrato» di Errico Novi

ROMA. Se finora Silvio Berlusconi e la Lega si erano mossi come un sol uomo, adesso giocano la stessa partita distinguendo per bene i ruoli. Da una parte c’è il premier che insegue con determinazione la grande riforma, soprattutto l’introduzione del sistema presidenziale alla francese. Dall’altra il partito di Umberto Bossi si pone l’obiettivo di sempre, la realizzazione del modello federale. Entrambi hanno bisogno di sponde, di molte sponde. Anche se le traiettorie differiscono e, nelle intenzioni, sono destinate a incrociarsi solo alla fine.

Da ieri però emerge una novità tattica che, questa sì, riallinea i due pilastri della maggioranza: anche Berlusconi si è persuaso alla dottrina leghista secondo cui le riforme si fanno solo se si sgombra il campo dai conflitti. Così il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha mosso il primo passo sulla linea della distensione con un chiarimento sulla giustizia: tema che farà parte sì della riforma costituzionale ma sul quale «non c’è ancora un testo da presentare alle Camere perché stiamo lavorando all’interno della Costituzione con grande misura e ponderatezza». Non è una smentita

ma una puntualizzazione sulle notizie circolate mercoledì sera, secondo cui all’ufficio di presidenza del Pdl riunito dal Cavaliere si era già discusso di una bozza su separazione delle carriere e doppio Csm. Il disegno c’è ma è suscettibile di riletture, anche di confronti con l’opposizione e con la stessa magistratura, disponibilità che Alfano peraltro lascia implicita. Quella del Guardasigilli è anche una rassicurazione rivolta a Nicola Mancino, che dice di «non vedere l’utilità di due Csm». Uno sdoppiamento, con la creazione di un organo autonomo di autogoverno per i soli magistrati inquirenti «accentuerebbe l’isolamento del pub-

il percorso delle riforme. Non lo dice ma è questo il senso della strategia adottata dal governo e dal suo vertice. È casomai Roberto Maroni a ipotizzare «un confronto con i magistrati» sulle modifiche costituzionali. In ogni caso, poche ore dopo la promulgazione della legge sul legittimo impedimento da parte di Giorgio Napolitano traspare con chiarezza l’ottimismo di Berlusconi. Non dovrebbero esserci più incidenti giudiziari, visto lo scudo di 18 mesi appena entrato in vigore (e subito utilizzato dai suoi avvocati in vista di lunedì prossimo, giorno in cui riparte il processo sui diritti Mediaset), e non resta che disinnescare residue tensio-

Spiega un berlusconiano di rango: «A questo punto il presidente è interessato solo a una cosa: mettere un sigillo che gli assicuri un posto nella storia. Con la riforma presidenziale Berlusconi avrebbe il grande merito di suggellare la propria vicenda politica con una storica riforma delle istituzioni». Sulla ripartizione dei meriti per la verità la gara è aperta, al punto da giustificare un dubbio: le due strategie parallele del premer e del Carroccio avranno davvero un punto di convergenza? Maroni torna a girare il coltello nella piaga appena medicata dal vertice di

Arcore di martedì sera: «La Lega è il motore delle riforme», dice. Gli fa eco Calderoli secondo il quale «bisogna applicare il criterio del Parlamento: quando si discute una legge c’è sempre un relatore e nel caso delle riforme il ruolo non può che competere a Bossi», osserva, giusto due giorni dopo le rimostranze di Gasparri e di mezzo Pdl contro la regià lumbard invocata da Maroni. Lo stesso Calderoli oltretutto ha generato ulteriori e non

«Positiva la ricerca del confronto», dice Cesa, «di fronte a provvedimenti concreti non ci sottrarremo al dialogo». Il presidente del Consiglio, spiegano i suoi, «è determinato, vuole lasciare un sigillo nella storia» blico ministero», secondo il vicepresidente del Csm, né sarebbe indispensabile in caso di separazione delle carriere.

Alfano non dice esplicitamente che la mossa punta a distendere gli animi ed evitare che nuove tensioni con i giudici ostacolino

ni con le Procure (quella di Milano innanzitutto, che ha già in serbo il ricorso alla Consulta). La mossa di Alfano punta proprio allo sminamento, e una conferma indiretta arriva da Roberto Calderoli: «La riforma della giustizia potrebbe essere separata dal resto».

Oggi a Parma Confindustria fa l’esame al governo. Marcegaglia: «Non c’è tempo da perdere»

Il grido di Emma, strozzato dalla crisi di Francesco Pacifico

ROMA. «Il governo deve utilizzare i prossimi tre anni senza elezioni per mettere in pratica le riforme. Non ha più scuse per non farle». E nell’agenda di Confindustria ci sono il costo del lavoro, la riduzione fiscale, un altro alleggerimento dei costi della burocrazia, non certo la giustizia. I toni usati da Emma Marcegaglia sembrano ancora più duri se collegati alla tribuna usata (il Financial Times). Ma oggi a Parma, al tradizionale “Forum biennale su libertà e benessere”, sciorinerà tutte le misure che servono al Paese soprattutto per dare il suo appoggio all’accelerata riformista di Berlusconi. Il Cavaliere, prevede qualcuno, ringrazierà, trasformerà l’ennesima apertura di credito in un endorsement, ma è il primo a sapere che vale poco l’appoggio di una Confindustria così poco rappresentativa in questa fase del sentiment dei suoi iscritti. Certo, è difficile andare d’accordo con la base se la crisi falcidia le imprese e rende difficile (pare per almeno il 50 per cento delle associate) il pagamento delle quote dovute. Ma sembrano lontani i tempi nei quali l’imprenditrice mantovana conquistava i suoi colleghi con la centralità del manifatturiero, la richie-

sta di non concedere soltanto all’auto gli incentivi, la guerra alle banche e alle utilities ree rispettivamente di non erogare credito e di alzare le tariffe. Oppure avocava a sé un canale diretto con Tremonti perché non aveva senso perdere tempo con gli altri ministri, visto che soltanto uno ha i cordoni della borsa.

Invece è passato meno di un anno e da allora il quadro registra un rapporto statico se non conflittuale con le maggiori territoriali, stanziamenti sempre più pingui per le imprese da parte del governo e una guerra sempre più esplicita che si legge in certe mosse del mondo imprenditoriale legato a Montezemolo. Cioè i salotti buoni che controllano i giornali e hanno un filo diretto con i banchieri. In Veneto la nuova leadership confindustriale che si è lasciata strappare la presidenza della Piccola e media industria (andata al salernitano Vincenzo Boccia e non al vicentino Paolo Bastianello) si sente tradita anche perché la Marcegaglia ha tolto la delega nazionale sull’Energia al vicepresidente Antonio Costato, perché inviso a Eni e a Enel.


politica

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Intanto tra i finiani c’è ancora tensione tra normalizzatori e antileghisti

Fini rilancia: «Subito la riforma elettorale»

«Sì al semipresidenzialismo ma sul modello francese, però il vero problema è difendere il Parlamento» di Riccardo Paradisi on si può importare il sistema istituzionale francese, semi-presidenzialista, senza una riforma della legge elettorale». Il presidente della Camera Gianfranco Fini, al convegno di Farefuturo, dà la sua versione del semipresidenzialismo: «È un errore ragionare del modello francese prescindendo dalla legge elettorale. Ho l’impressione che da noi si parli sovente in modo troppo superficiale della vicenda francese».

«N

indifferenti tensioni con la salita al Colle di mercoledì sera, nel corso della quale ha illustrato al presidente della Repubblica la prima bozza sulla riforma che, oltre al federalismo, prevede una completa trasformazione delle prerogative del Quirinale.

Ai leghisti d’altra parte non manca il senso strategico della prudenza: è ancora il ministro dell’Interno a definire «indispensabile il dialogo con l’opposizione» se si vogliono evitare «le conseguenze negative delle riforme tentate e mai approvate». Nel radar del Carroccio c’è un Pd ancora indeciso e aggiornato al briefing di sabato 17 sulla linea da seguire. L’Udc inve-

ce, dopo le proposte di ritorno all’alleanza avanzate da Berlusconi, chiede di vedere in concreto quale disegno riformatore ha in mente la maggioranza: «Che il presidente Berlusconi, dopo una campagna elettorale fatta di duri attacchi nei nostri confronti, cerchi ora un dialogo con l’Udc non possiamo che ritenerlo un fatto positivo», dice Lorenzo Cesa. Che aggiunge: «Le intese non si costruiscono a parole ma sulle questioni concrete e nei luoghi opportuni: se il governo porterà in Parlamento provvedimenti efficaci per affrontare i nodi economici, sociali e istituzionali del Paese, troverà nell’Udc un interlocutore attento e pronto al dialogo».

In stato comatoso i rapporti con la Lombardia, con in testa la milanese Assolombarda, la prima territoriale italiana. Dove il presidente Alberto Meomartini si sarà anche conquistato un canale privilegiato con Giulio Tremonti, ma finora non è andato oltre richiamare nuove regole associative. E proprio per ricreare un rapporto virtuoso tra Roma e Milano, è stato letto lo sbarco del patron di Mapei, il bergamasco Giorgio Squinzi, nel comitato di presidenza nazionale. Va da sé che è difficile smuovere le coscienze (soprattutto quella di Tremonti) se non si ha il territorio a fare da megafono alle proprie battaglie. Ma su questo fronte, a peggiorare le cose, c’è una certa insofferenza della grande industria dopo la plateale decisione della presidente di portare in giunta Sergio Marchionne e nel comitato John Elkann e, soprattutto, di togliere a Luca Cordero di Montezemolo. In verità la Marcegaglia, creandosi un rapporto diretto con la Fiat, voleva soltanto presentare a esecutivo e sindacati un pacchetto di mischia più coeso, ma l’effetto è stato acuire certe inimicizie con l’aristocrazia delle imprese e di accumulare tensioni con la base delle Pmi. Se nell’angusto perimetro della Confindustria tutto questo si riduce a giochi di corrente per lanciare e silurare candidati al dopo Marcegaglia (ultime vittime Montante, Lo Bello, Moltrasio, forse lo stesso Squinzi), a livello istituzionale ne esce massacrata la moral suasion verso il governo. Ed è anche per questo se l’ultimo decreto incentivi, quello che non riguarda la Fiat, non supera i 300 milioni e se persino Giulio Tremonti sembra aver riposto l’ascia nella sua guerra contro le banche.

Fini dunque tenta di approfondire e si distende in una lunga dissertazione sul modello francese analizzandolo dalle origini, ovvero dalla riforma costituzionale del 1958 fino all’ultima revisione avvenuta nel 2008. Poi un riferimento all’Italia: «Anche da noi si avverte l’esigenza di un miglior equilibrio istituzionale tra il potere esecutivo e quello legislativo. Dobbiamo riequilibrare il ruolo del Parlamento rispetto al governo, garantendo un equilibrio armonico tra la rappresentanza del Parlamento e la leadership. Il confronto tra la nostra realtà e quella francese è proficuo solo se condotto in modo scientifico, cioè sulla base dello sviluppo storico e della realtà costituzionale dei due Paesi e attraverso una seria comparazione dell’organizzazione dei poteri dello Stato e degli equilibri che devono intercorrere tra di essi. Se il federalismo rappresenta una risposta adeguata al crescente processo di internazionalizzazione, il principio di unità nazionale – attorno al quale si costruisce l’idea stessa di stato moderno – richiede un potere esecutivo in grado di assicurare la piena coesione interna del Paese e dare una adeguata rappresentanza della Repubblica sulla scena internazionale». Discorso molto istituzionale, al limite del professorale e nessuna polemica diretta contro la Lega (il passaggio su federalismo e unità nazionale è una carezza rispetto alle bordate pre-regionali). È questa la prima uscita pubblica del presidente della Camera dopo le elezioni e la linea scelta da Fini sembra quella morbida, la stessa anticipata da Adolfo Urso nelle interviste di questi giorni e dal vicecapogruppo alla Camera del Pdl Italo Bocchino. Linea che smentisce le attese e le richieste dell’ala finiana più movimentista che chiedevano al Pdl e allo stesso Fini uno scatto deciso nei confronti della Lega. Fini sembra avere scelto per ora invece un profilo attendista, da ritirata strategica; interessato a ricavarsi un ruolo da mediatore nel centrodestra e da protagonista istituzionale nelle riforme, rivendicando in questa partita la primogenitura del semipresidenzialismo, vecchio cavallo di battaglia del Msi almirantiano. Nulla di meno e nulla di più, con buona pace dei finia-

ni più coerenti e conseguenti come Fabio Granata che ancora ieri su questo giornale chiedeva al presidente della Camera di portare fino in fondo le battaglie condotte sin qui in nome di una certa idea del Pdl.Tanto più che è interesse anche di Berlusconi non avere fratture nei prossimi anni con Fini e attenuare la linea di tensione avuta fino ad oggi con lui. Ora che Fini infatti è stato oggettivamente ridimensionato nelle sue velleità di oppositore interno dalle regionali la preoccupazione del Cavaliere è adesso quella di gestire la linea di tensione con l’apparato interno del Pdl, insofferente per il profilarsi dell’egemonia leghista nell’azione riformista. A Berlusconi insomma è utile giocare di sponda

Sceglie un profilo attendista, da ritirata strategica; interessato a ricavarsi un ruolo da mediatore nel centrodestra e da protagonista istituzionale nella partita delle riforme con Fini il quale resta in partita nel ruolo di mediatore in attesa che magari gli scontenti berlusconiani – quelli appunto rimasti esclusi dal nuovo asse tra Bossi e il Cavaliere – convergano nel suo alveo ora messo in sonno.

Una fase di studio quindi: che incoraggia anche analisi ardite tra i berlusconiani che replicano così a chi ricorda loro che la Lega ha soffiato al Pdl almeno venti seggi al nord: «Lo zoccolo duro leghista è solo del 5% il resto sono voti fluttuanti del Pdl». Per non sbagliare però prima il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi e poi lo stesso premier reiterano il loro invito all’Udc a tornare nel seno del centrodestra. Col proprio simbolo. Per bilanciare evidentemente il sovrappeso leghista nell’alleanza. «L’Udc deve essere coinvolta al tavolo delle riforme dove si costruirà la prossima legislatura – dice il deputato del Pdl, ex Udc, Mario Baccini – secondo cui il progetto di Bossi che inquadra il presidenzialismo insieme con il federalismo fiscale può coinvolgere tutte le forze centriste» Quanto al Pdl, per Baccini «serve una nuova struttura perché, anzichè essere un motore del governo, è un freno. A volte pare una somma di rissosi potentati locali composti da vecchi quadri di partito della prima Repubblica».


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il paginone Il ruolo degli Usa nell’epoca del multilateralismo obamiano dietro lo

Bisanzio non

uò darsi che il libro di Edward N. Luttwak La grande strategia dell’impero bizantino, pubblicato qualche tempo fa da Rizzoli (540 pagine, 25,00 euro), procuri meraviglia in qualche rappresentante di un ceto da noi purtroppo ristretto, cioè quello delle persone abbastanza colte che non sono però specialiste di niente in particolare e che, in quanto tali, tendono a sapere un po’ di tutto ma a ragionare per compartimenti stagni. Molti di loro saranno abituati a considerare un personaggio come Edward N. Luttwak - al pari di uno come ad esempio Michael Ledeen, che con lui ha qualche somiglianza - come un politico e un opinion maker. Ma, se di Ledeen sono piuttosto noti gli studi sul fascismo italiano, di Luttwak anche il pubblico “colto”, oltre agli specialisti, conosce almeno un “grande classico”, La grande strategia dell’impero romano, dell’81. Che circa un trentennio dopo il medesimo studioso si presenti con un libro come questo dedicato all’impero bizantino è molto significativo: ed è prova di una profonda fedeltà ai temi geostorici, geopolitici e strategici, che un trentennio fa erano considerati con sospetto in quanto legati a una scienza - la geopolitica - ancor in sulfureo odore di “nazismo” (per quanto uno dei suoi “fondatori”, Karl Haushofer, propriamente nazista non fu mai). In realtà la geopolitica si sviluppò anche in Italia - è un peccato che oggi nessuno ricordi più la figura di Ernesto Massi -, ma si è affermata soprattutto nell’ultimo mezzo secolo come una scienza molto curata negli Stati Uniti d’America: è abbastanza noto che Luttwak, al pari di Jeremy Rifkin - anche se con argomentazioni di altro tipo -, ha ripreso alcune tesi del Mackinder per affermare la probabilità del “crollo”statunitense di fronte alla sfida economica eurogiapponese, che ormai è divenuta piuttosto eurasiatico-sino-latinoamericana (Cina, India, Brasile, con Russia e perfino Iran sullo sfondo).

P

A me personalmente, la poliedrica attività di Edward N. Luttwak - studioso, opinion maker, criptodiplomatico o matematico ufficioso, forse “uomo dei servizi” e comunque molto attento all’intelligence, frequentatore di salotti e di reti televisive - ricorda da vicino il profilo di alcuni personaggi del Settecento europeo e al tempo stesso mediterraneo e orientale, tipo quel marchese di Bonneval, francese, amico di Giacomo Casanova, che in pieno Settecento si stabilì in Istanbul, divenne ascoltato consigliere di vizir e di sultani, si convertì o finse di convertirsi all’islam divenendo “Bonneval Pasha” e impiantò nella capitale ottomana una scuola cantieristica e una stamperia. Caustico, ironico, ambiguo, preparatissimo e imprevedibile, Luttwak gode fama di incutere più paura ai suoi al-

leati ed estimatori che non ai suoi avversari, quanto meno ai pochi che prende in considerazione. Di lui si racconta un aneddoto rivelatore, testimoniato da persone fededegne. Nel periodo “caldo” della crisi irachena, alla fine di un dibattito televisivo italiano, pare che Luttwak si sia avvicinato a uno studioso del nostro paese molto più giovane di lui e che gli aveva duramente e costantemente tenuto testa sostenendo dure tesi antiamericane per cui gli altri interlocutori, in ossequio al Maestro, gli avevano fatto il

Tanto il libro su Roma, del 1981, si adattava all’epoca di Reagan, tanto il senso di quello attuale si confà alle nuove necessità che deve affrontare Obama: l’impasse in Iraq e in Afghanistan e lo spaventoso debito pubblico. Anche “l’impero del Centro” era impossibilitato a difendersi su troppe frontiere vuoto intorno -; e che gli abbia detto col suo italiano quasi perfetto: «Tu sì che mi piaci, sei un avversario intelligente: che noia, tutti questi idioti. Vieni, t’invito a cena». Quel giovane studioso italiano - a sua volta ormai non più giovanissimo - è nientemeno che Marco Tarchi: che giovanissimo fu sul punto di soffiare a Gianfranco Fini la futura leadership del Msi, quindi se ne staccò per entrar in contatto con Alain De Benoist e sviluppare a metà degli anni Settanta le tesi della “Nuova Destra”; e che oggi, cattedratico nell’Università di Firenze, è uno dei più autorevoli e apprezzati “scienziati della politica” europei. Luttwak queste cose non le sapeva, o non del tutto: ma aveva buon fiuto ed era abbastanza spregiudicato da voler stupire e umiliare i suoi estimatori con un gesto cavalleresco nei confronti di un avversario. Forse il Luttwak più autentico è proprio questo. Un uomo fine, affascinante, pericoloso. Alla luce di tutto questo, il trentennale iter di Edward Luttwak da Roma a Bisanzio, intrapreso nell’età di Ronald Raegan e giunto in quella di Obama, ha forse un senso profondo che va molto al di là dello studio di una strategia imperiale, nel suo connotato di fondo della continuità tra Roma e Bisanzio e nel sostanziale spostamento verso Est. Nella Prefazione l’autore sostiene di aver cominciato a raccogliere documentazione in vista di questo libro già dall’indomani

La diplomazia come modello. Ecco l’indicazione utile, mutuata dalla storia, in termini di “politica di potenza”. Una tesi che mostra le corde... di Franco Cardini del successo della sua grande opera su Roma, cioè nel 1982, a ciò incoraggiato anche dal fatto che un altro studioso illustre, il gesuita Gorge Dennis, gli fece dono di una copia dello Strategikon attribuito all’imperatore Maurizio (582-602), un’opera ben superiore per qualità a quella di tema analogo del romano Vegezio, ma a lungo perduta e riemersa appena all’inizio del XX secolo. La lettura di questo secondo “grande” libro del Luttwak obbliga per forza di cose a tornare al primo: perché il tema della continuità tra Roma e Bisanzio è sempre presente an-

che se forse non se ne traggono tutte le conseguenze; ma, insieme, è il tema del confronto a imporsi.

Se Roma era il campo privilegiato delle ricerche di un tempo - gli anni Ottanta - nel quale gli Usa sembravano aver metabolizzato la sconfitta del Vietnam e l’umiliazione imposta loro dall’Iran khomeinista e presentarsi come la forza che stava progressivamente obbligando l’Unione Sovietica a cedere, oggi il multilateralismo obamiano, in gran parte emerso come scelta obbligata dopo la débacle della “politica di potenza”


il paginone

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studio di Edward Luttwak dedicato alla strategia imperiale bizantina

on è Washington tare forza militare e intelligence come strumenti analoghi per tempi e contesti differenti. Bisanzio, circondata da formidabili nemici e da infidi alleati (persiani prima, musulmani poi, ma anche popoli “barbarici” dagli scandinavi agli slavi e ai tartari; per non parlare dei normanni e degli altri rozzi, infidi ed eretici keltoi, gli europei occidentali), era “impero del Centro”, certo, ma impossibilitato a difendersi efficacemente su troppe frontiere: non poteva quindi che giocare d’astuzia, di diplomazia, proponendo il fascino e la sacralità della sua immagine imperiale e al tempo stesso mobilitando di continuo ingenti forze navali e guerriere salvo poi l’utilizzarle in aperti conflitti il minimo indispensabile. Un bluff, allora, la sua potenza? Al contrario. La forza di Bisanzio stava nella sua maestà, nel suo prestigio, nella sua capacità d’integra-

Il dato obiettivo che noi occidentali non cogliamo, e che il saggio dell’analista statunitense non indica, è che l’impero romano d’Occidente nel 476 in effetti non cadde affatto. Semplicemente modificò le sue istituzioni adattandole allo spostamento del proprio asse in Oriente La corte di Giustiniano come viene rappresentata nel mosaico ravennate di San Vitale. A destra, in alto, l’imperatore bizantino Alessio I Commeno, protagonista della I Crociata neoconservatrice di Bush, obbliga a cercare modelli di vittoria diplomatica e politica, ottenuta attraverso il mantenimento dell’equilibrio, piuttosto che non di vittoria diplomatica.

Qui, l’assunto luttwakiano sul rapporto tra la “forza” (non assoluta) di Roma e la “debolezza”(molto relativa) di Bisanzio mostra le corde: ed è in fondo, concettualmente, il punto debole e al tempo stesso il connotato rivelatore d’un pensiero profondo. È evidente che l’i-

dentificazione tra Roma e gli Usa, correlativa a quella tra l’antica Grecia e l’Europa (ricordate la famosa tesi di Robert Kagan?), gioca ancora il suo ruolo: e in questa ricerca di un «surrogato della potenza», la forza dell’intelligence emerge come l’indicazione in termini di lezione storica, il suggerimento dato all’America dell’impasse in Iraq e in Afghanistan e dello spaventoso debito pubblico. Se è cosa vera che la diplomazia è la guerra continuata con altri mezzi, è non meno vero il reciproco: il che equivale a valu-

zione fra le sue parti differenti, di metabolismo socioeconomico e tecnologico, di patrimoni condiviso di culture differenti: il “Commonwealth bizantino”, come lo ha appunto felicemente definito Dimitri Obolenski, forse pensando a un suo non casuale omologo, l’impero staliniano. Il paragone non deve sembrare azzardato, e tantomeno blasfemo. Al contrario. In una sua memorabile lezione, tra le sue ultime, il grande Federico Zeri tracciò un ineccepibile e impressionante (quasi commovente) parallelo tra due fonti iconiche: la corte di Giustiniano come viene rappresentata nel mosaico ravennate di San Vitale e le sequenze cinematografiche del solenne funerale del generalissimo Jozip Stalin, l’“Ultimo Czar”. Stessa atemporale ieraticità, medesima frontalità, identica teofania del potere, immota e intangibile teologia politica. In effetti, dicevamo poc’anzi, quel che forse Luttwak avrebbe dovuto avere l’energia d’indicare con un taglio più coraggiosamente diacronico e per così dire “macrotemporale” à la Braudel, è proprio il dato obiettivo che oggi manca a noialtri occidentali e in special modo alle giovani generazioni. La co-

scienza precisa che quella celebre definizione del Momigliano, secondo la quale l’impero romano d’Occidente, nel 476, sarebbe caduto “senza rumore”, è qualcosa di più di una constatazione: perché in effetti nel 476 non accadde proprio nulla. L’impero romano, nella sua pars Orientis, rimase intatto e modificò le sue istituzioni e le sue strutture nel tempo adattandole allo spostamento del proprio asse a Oriente che le vicende dei secoli II-IV e l’intelligenza strategico-politica di Teodosio gli avevano imposto.

L’impero bizantino non è la continuazione o l’imitazione dell’impero romano: è l’impero romano tout court, nato dal sogno mediterraneo e universalistico che Giulio Cesare concepì tenendo presente il modello di Alessandro e che attraversò i secoli entrando in crisi solo fra XIII e XV secolo. Ma le due conquiste di Costantinopoli, quella crociata del 1204 e quella ottomana del 1453, ne segnarono davvero la fine? Qui la domanda si fa urgente e la risposta problematica. Almeno due grandi forze imperiali, tra XV-XVI e XX secolo, ne rivendicarono con forza l’eredità: l’impero ottomano, nel nome del “diritto di conquista”; e quello della “Terza Roma”, lo czarista, nel nome della filiazione spirituale e della cristianità ortodossa. Furono due imperi, l’ottomano e lo czarista, per molti versi usciti da una medesima radice legittimante e al tempo stesso geopoliticamente feroci nemici tra loro. È una verità geopolitica ineludibile che chi governa a Istanbul e chi governa a Mosca (e/o a Teheran) siano nemici tra loro? Alla luce del 1917 e del 1918, della Rivoluzione d’ottobre e degli infami trattati di Versailles, questa domanda diventa drammatica. Essa trasforma la prima guerra mondiale in una sorta di “guerra fraterna-civile”tra i due eredi dell’impero romano, e fa del biennio ’17-’18 l’infausto biennio non solo della finis Europae, bensì anche dell’autentica e definitiva finis Romanorum imperii, o di quel che nonostante tutto ancora ne rimaneva. Ma se è così, piaccia o no a Luttwak - e molto probabilmente non gli piace -, quella dell’impero romano è storia bimillenaria che arriva a lambire i giorni nostri, ma ormai è definitivamente spezzata. Finita. Mosca è stata la Terza Roma e non ve ne sarà una Quarta. Washington, nonostante i suoi sforzi e i suoi sfarzi urbanistici fatti di marmorea simbolica esoterica, non lo è. Pechino, nonostante la sua tradizione imperiale e il suo presente rampante, non lo sarà.


mondo

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Ex Urss. Grande come due terzi dell’Italia, ha meno di 5 milioni di abitanti e 10 milioni di pecore. Ma è uno stato strategico

I miti del Kirghizistan Una principessa, 40 vergini e un cane rosso: così comincia l’epopea di un popolo di Maurizio Stefanini a leggenda parla di un Khan di nome Kyzyl Taigan, ovvero “Cane Rosso”, la cui figlia amava andare a spasso in compagna di quaranta vergini sue amiche. Un giorno, di ritorno da una di queste passeggiate ritrovarono l’accampamento devstatato, e solo un sopravvissuto alla strage: un cane rosso. Da lui la principessa e le “quaranta vergini”, “Kyr-Gyz”, ebbero i figli da cui ebbero origine le tribù del popolo kirghizo, e la cui divinità totemica fu infatti a lungo il “cane del Cielo”. Un mito tuttora adombrato dai quaranta raggi della bandiera kirghiza. L’archeologia ci dice invece che i kirghizi esistono almeno dal 201 a.C.: solo che allora vivevano nella Siberia Centrale, lungo la Valle dello Yenisey. E, stando a testimonianze cinesi e islamiche, ancora tra ilVI e il XII secolo avevano i capelli rossi e gli occhi azzurri. La mongolizzazione e la migrazione nelle attuali sedi si devono presumibilmente all’invasione dei mongoli di Gengis Khan, che distrusse il regno creato dai kirghizi nell’840, dopo aver distrutto l’impero uighur. La conversione all’Islam è immediatamente successiva. Nell’attuale locazione il Kirghizistan ha 198.500 Km2, cioè i due terzi scarsi dell’Italia. Ma appena 4,8 milioni di abitanti: neanche un decimo della nostra popolazione. Circondato dalle catene del Tien Shan e del Pamir, le montagne coprono infatti il 93% della

L

sua superfice. I suoi ghiacciai sono così estesi che se si sciogliessero tutti l’intero Paese si troverebbe sotto due metri e mezzo d’acqua. Attività tradizionalmente dominante è l’allevamento: 10 milioni di pecore e capre, 2 milioni di cavalli e yak, mezzo milione di maiali. E il 52% della popolazione è infatti composto da kirghizi: tradizionalmente pastori nomadi di lingua turca, e discendenti appunto dall’incrocio tra i turchi dai capelli rossi e dagli occhi azzurri e i mongoli dalla pelle gialla e gli occhi a mandorla di Gengis Khan. Dai mongoli i kirghizi hanno ereditato le yurte, tende mobili su cui ancora gran parte della popolazione continua a

Un altro 20% della popolazione è costituito da russi, discendenti da coloni che iniziarono a venire fin dalla conquista zarista del 1830-1876. Pure di lingua turca e nomadi, ma di bovini e in pianura, sono i kazaki, con cui in passato i russi li confondevano. Il popolo dei kazaki, da una parola russa che sta per “nomadi”, “vagabondi”e che è anche all’origine della parola italiana “cosacchi”, emerse nel XVI secolo, dalla fusione tra genti turche e mongole. Diviso dal XVIII secolo in tre “orde”indipendenti e rivali, il suo territorio fu conquistato dai russi tra 1822 e 1873. Pure allevatori nomadi di ovini, ma di origine turca più pura, erano i turkmeni, temuti razzia-

del regno dell’Afghanistan. L’invasione russa, tra 1860 e 1870, incorporò il Kokand al governatorato del Turkestan, mentre Bukhara e Khiva vennero ridotti a protettorati.

La politica di russificazione, con l’arrivo di migliaia di coloni, portò ad una prima rivolta uzbeka nel 1898, che nel 1916 si estese a tutta l’Asia Centrale,

Dalle Kyr-Gyz nacquero i figli da cui ebbero origine le tribù del Paese, e stando alle testimonianze cinesi e islamiche le genti avevano gli occhi azzurri vagare appresso a greggi e mandrie.

Il nomadismo tradizionale distingue i kirghizi dagli uzbeki, che rappresentano il 13% della popolazione, ma sono maggioranza nelle regioni del Sud da cui iniziò la rivolta del 2005. Gli uzbeki sono infatti anch’essi di lingua turca, ma agricoltori stanziali e meticciati coi persiani, e all’inizio del XIX secolo i nomadi kirghizi erano sudditi del khanato uzbeko di Kohand.

tori tra l’XI e il XV secolo, e conquistati dai russi tra il 1869 e il 1885. Come gli uzbeki, un popolo stanziale erano i tagiki: di lingua persiana, divisi però dai persiani veri e propri per l’adesione alla corrente sunnita dell’Islam, invece della sciita. Risale al XVIII secolo la costituzione dei khanati uzbeki, poi divenuti emirati, di Kokond, Khiva e Bukhara. In quest’ultimo, il più grande, erano compresi anche i tagiki del nord, mentre i tagiki del sud erano entrati nell’orbita

come risposta al tentativo delle autorità zariste di introdurre la coscrizione obbligatoria tra i musulmani, per rimpolpare le truppe impegnate sui fronti della Grande Guerra. Divenuto di fatto indipendente, il Turkestan resistette alla successiva invasione sovietica fino al 1920. A quel punto, però, domata l’ultima resistenza dei guerriglieri basmachi, i due emirati di Bukhara e Khiva vennero trasformati in repubbliche sovietiche, mentre l’ex-governatorato

del Turkestan diveniva una repubblica autonoma. Nel 1924 si ebbe una riorganizzazione generale e vennero costituite: le repubbliche del Turkmenistan; dell’Uzbekistan (con al suo interno la Repubblica autonoma Tagika); quella Kirgiza, all’interno della Russia, con al suo interno la regione autonoma KaraKirgiza, divenuta nel 1926 Repubblica autonoma dei Kirgizi. Nel 1929 anche la RaT fu promossa a Repubblica del Tagikistan, e nel 1936 furono promosse a repubbliche anche il Kazakhstan e il Kirgizistan. Teoricamente, queste misure dovevano servire a tutelare le singole culture dei popoli dell’Asia Centrale. In effetti, però, i confini furono stabiliti apposta in modo da non dare alle varie repubbliche una vera omogeneità etnica, e creando liti a non finire sui confini. La logica fu dunque soprattutto di divide et impera, per spezzare l’unità panislamica che si era creata nel 1916, e prevenire un contagio panturco dalla nuova Turchia di Atatürk. Nello stesso senso andò anche la scelta di puntare non su un ”turco comune” o sul persiano standard, ma su forme dialettali appositamente coltivaA lato: Bishkek, capitale del Kirghizistan; sopra la leader dell’opposizione Rosa Otunbayeva e il presidente Bakiev, che non si dimette. A destra una yurta, tipica abitazione rurale. In apertura, varie immagini della rivolta


mondo

te, e imponendo l’alfabeto cirillico al posto del tradizionale alfabeto arabo o del più funzionale alfabeto latino. Ovviamente, poi, l’ateismo di regime impoverì fortemente le radici culturali e la collettivizzazione forzata pose termine al tradizionale nomadismo. Inoltre continuò l’arrivo di coloni russi più o meno volontari, e l’Asia Centrale fu anche meta della deportazione di massa di tutte le etnie entrate nei sospetti di Stalin, dai tartari di Crimea ai tedeschi del Volga, ai greci del Mar d’Azov, ai coreani del Pacifico, ai ceceni del Caucaso... In Kazakhstan, addirittura, i kazaki divennero minoranza rispetto ai russi.

La situazione demografica è stata in parte ristabilita, dopo che la politica staliniana delle deportazioni fu abbandonata. Poi, dopo che nel 1991 l’Urss si è dissolta e le cinque repubbliche dell’Asia Centrale sono divenute stati indipendenti, molti russi sono tornati in Russia. Nel 1990 presidente del Kirghizistan era divenuto Askar Akaev, solo leader dell’Asia Centrale ad appoggiare Eltsin durante il golpe dell’agosto 1991, che a partire dal 2001 fu protagonista dell’involuzione autoritaria da cui scaturì la “Rivoluzione dei Tulipani”. E il 24 marzo 2005 è così diventato Presidente Kurmanbek Bakiyev. Rieletto nel 2009 presidente con un 76,12% di voti che l’Ocse aveva denunciato come «brogli». Lo scorso 24 marzo, dopo aver chiuso stazioni radio, siti web e quotidiani per prevenire la protesta annunciata nel quinto anniversario della Rivoluzione, era arrivato a dire che per il Kighizistan non va bene «una democrazia stile occidentale basata su elezioni e rispetto dei diritti umani». Dopo l’aumento dei prezzi del carburante la rabbia popolare è infine esplosa con l’assalto alla sede del governo regionale di Talas.

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Crisi alle stelle, il presidente resta Il Cremlino invia i parà e l’Onu manda un inviato speciale a Bishkek arlamento sciolto e nuove elezioni presidenziali entro sei mesi. L’opposizione ha preso il controllo del Kirghizistan ma assicura che rispetterà le regole e non abuserà della sua posizione di forza, dopo la fuga del presidente Bakiev. Nominato un nuovo governo ad interim guidato dall’ex ministro degli Esteri Rosa Otunbayeva, che ha subito comunicato di aver assunto il controllo di parlamento, polizia, esercito, guardie di frontiera, media e aeroporti. «Quattro regioni su sette - ha aggiunto - ora sono sotto il nostro controllo, ma stiamo ancora lavorando su Osh e Jalalabad». Il neo-ministro della Difesa Ismail Isakovha ha garantito che le forze armate non saranno usate contro la popolazione, come invece era successo l’altro ieri da parte del governo uscente nella repressione delle proteste che hanno causato almeno 68 morti e centinaia di feriti. Mentre il capo del partito di opposizione Keneshbek Duishebaiev si è subito insediato nella sede dell’ex Kgb e ha provveduto a formare unità speciali per «evitare ulteriori disordini». L’opposizione ha annunciato l’insediamento di un governo transitorio che ha promesso di lavorare ad una nuova costituzione da promulgare entro sei mesi. E ha detto che gli impegni internazionali saranno rispettati.Vale a dire che la base militare aerea di Kant, alla periferia della capitale kirghiza Bishkek continua a funzionare regolarmente (e il Cremlino ha deciso di inviarvi due plotoni con 150 paracadutisti), mentre la Nato ha sospeso i voli dalla base Usa di Manas destinata al supporto per le truppe in Afghanistan.

P

di Osvaldo Baldacci Base che il governo di Bakiev aveva rinnovato l’anno scorso seppur alzando l’affitto, dopo che per anni aveva fatto credere alla Russia che avrebbe espulso gli americani. Che il nuovo potere sia più vicino a Mosca non è un mistero, benché il Cremlino abbia smentito ogni forma di intervento. A parlare è stato Putin, non Medvedev, e sempre Putin ieri ha telefonato alla Otunbayeva per offrire aiuti umanitari, dando di fatto il placet di Mosca al nuovo governo. Medvedev invece del Kirghizistan ha parlato con Obama a Praga, ma già prima di incontrarlo ha dato un segnale: «La ribellione è un affare interno, ma è comunque un indice della crescente indignazione popolare verso il regime».

Intanto, il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha lanciato un appello urgente alla calma e al dialogo pacifico e annunciato che oggi invierà nel Paese un inviato speciale delle Nazioni Unite, il diplomatico slovacco Jan Kubis. La premier del “governo di fiducia popolare”ha voluto specificare: «È importante sottolineare che il popolo kirghiso vuole costruire la democrazia. Quello che abbiamo fatto ieri è stata la nostra risposta alla repressione e alla tirannia sul popolo messo in atto dal regime di Bakiev. La potete chiamare rivoluzione, oppure rivolta, in ogni caso è il nostro modo di dire che

vogliamo giustizia e democrazia». Poi ha ricordato che «l’opposizione insiste per la dimissioni di Bakiev», che in base ad informazioni in suo possesso starebbe cercando di riunire i suoi sostenitori nel sud del Paese, suo feudo elettorale. Il Paese è tradizionalmente diviso in due: il nord, più ricco e urbano, e il sud, più rurale e tradizionale. Bakiev era stato portato al potere dalla rivoluzione incruenta dei tulipani nel 2005, sotto l’occhio benevolo di Washington, ma negli anni successivi era stato accusato di deriva autoritaria, corruzione e nepotismo. Ad aumentare l’insofferenza della popolazione sono stati gli effetti della crisi economica. Intanto però nella capitale Bishkek e in altri distretti rimane alta la tensione. Migliaia di persone hanno occupato i centri nevralgici del potere e molti si sono lasciati andare a saccheggi e incendi. Ieri mattina la Casa Bianca, un tempo sede del governo kirghiso, è stata presa d’assalto e saccheggiata da sciacalli che hanno portato via, libri, condizionatori e persino piante da giardino. Nell’edificio presidenziale, in parte incendiato, tutte le finestre sono in frantumi. La folla ha buttato nei prati antistanti migliaia di documenti. Almeno 40 gli incendi scoppiati nella capitale dove sono stati dati alle fiamme veicoli e sedi governative. I media locali riferiscono di numerosi episodi di saccheggio nei negozi e anche nei musei. Secondo fonti dell’opposizione citate dalla Xinhua, il governatore dello stato di Osh è stato trascinato via mentre cercava di parlare con i manifestanti.


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Cantieri. La visita di Geithner non accelera le mosse di Pechino PECHINO. Non sempre le visite a sorpresa hanno l’esito sperato. E dalla sua missione lampo a Pechino di ieri Timothy Geithner è tornato a casa con una certezza in più: ogni buon proposito sulla rivalutazione dello yuan deve fare i conti con una realtà ben diversa da quella dipinta nelle dichiarazioni ufficiali.

L’America non incasserà a breve l’atteso apprezzamento della moneta cinese, ma dovrà “accontentarsi” di una maggiore elacisticità della divisa cinese rispetto alla quotazione del dollaro e ai flussi monetari. Quando e come, non è dato da sapere. In un colloquio durato poco più di un’ora il segretario al Tesoro americano, Geithner, e il vicepremier cinese con delega ai rapporti commerciali, Wang Qishan, hanno provato a riallacciare i fili del G2 economico-commerciale. Lo stesso asse che era evaporato malamente nei colloqui di novembre tra il presidente Usa Barack Obama e il primo ministro cinese Wen Jiabao. Ma di fronte a un dossier tanto ampio – e con così poco tempo a disposizione – i risultati non potevano che essere interlocutori. In una nota diffusa dal dipartimento del Tesoro americano, i due governi hanno fatto sapere che i loro ministri economici «hanno avuto uno scambio di vedute sui rapporti economici tra Stati Uniti e Cina e sulla situazione economica globale». Di conseguenza, tutto è rimandato allo “Us-China Strategic and Economic Dialogue”, il summit bilaterale che si terrà a Pechino alla fine di maggio. Ma tanto basta per capire che la notizia sta in quello che non c’è nel comunicato: manca alcun accenno a questioni valutarie. Una omissione che fa com-

Yuan, prove tecniche di rivalutazione I due governi smentiscono che si sia discusso di valute, ma il mercato scommette su un rialzo di Francesco Pacifico

cinese dal dollaro che sta studiando il governo. Xia Bin, membro del comitato di politica monetaria della banca centrale cinese, ha spiegato che un improvviso rafforzamento dello yuan danneggerebbe l’economia globale. Compresi i gracili consumi dell’America. «Non è nel principale interesse degli Stati Uniti», ha spiegato,

Xia Bin, membro della Banca centrale, avverte: «Un indebolimento del renminbi non aiuterà l’economia globale e i consumi americani» prendere quanto le parti siano lontane sull’argomento. In fondo l’esito della giornata, il segretario al Tesoro Usa, deve averlo capito da come l’ha accolto la Repubblica Popolare. Ed è stato un modo a dir poco tiepido. Prima le borse hanno chiuso in ribasso (Shanghai ha segnato un -0,94 per cento, Shenzen un -1,62). Quindi è arrivata la più chiara (e ufficiale) presa di distanza da quando è scattata la fase di confronto sulle ipotesi di sganciamento della moneta

«vedere un apprezzamento dello yuan». Lasciando però aperto uno spiraglio tanto da aggiungere che invece «la Cina deve collegare la sua divisa a un paniere di monete internazionali». Nonostante un clima che gioco forza deve essere collaborativo – ci sono le sanzioni da comminare all’Iran, l’accordo Start2 sulla riduzione degli armamenti – è difficile pensare che Geithner non abbia chiesto lumi sulle strategie monetarie della Cina. E che Wang

Gianni Letta striglia i vertici dell’Alitalia

«Tornate a volare in Cina» ROMA. Dopo tutto il lavoro per far ripartire la compagnia, alla Magliana qualcuno parlerà di fuoco amico. Infatti da ieri anche Gianni Letta va annoverato tra i critici della nuova Alitalia. Seppure con i toni felpati che lo contraddistinguono, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio si è rammaricato che la compagnia di bandiera non faccia voli diretti verso la più veloce economia del mondo: «Auguriamoci che dopo Shanghai 2010 Alitalia torni a volare in Cina». Queste parole Letta le ha pronunciate presentando ieri a Palazzo Chigi le iniziative italia per la rassegna che si aprirà il primo maggio, assieme con il ministro degli Esteri, Franco Frattini, e il com-

missario Generale del Governo per l’Expo di Shanghai 2010, Beniamino Quintieri.

Non a caso Letta ha definito «il padiglione delle eccellenze italiane una prova generale per Milano 2015. Aprirà una fase di partnership privilegiata. Sarà la più grande missione italiana in Cina dopo quella di Marco Polo». Gli fa eco Frattini: «L’obiettivo è di portare più Italia in Cina, iniziando dall’Expo, e più Cina in Italia, grazie all’Anno della Cina da inaugurare in autunno». La delegazione italiana avrà uno spazio di oltre 7mila metri quadri e ha già ottenuto il premio per la migliore struttura in acciaio costruita a Shangai nel 2009 e fatta, ha sottolineato Quintieri, «solo con materiali italiani».

Qishan non abbia anticipato nulla sui tempi e modi della stretta monetaria, che di fatto è già in atto con l’emissione di ieri di bond triennali per assorbire la troppa liquidità in circolazione nel Paese. Ieri mattina il New York Times spiegava che la Repubblica Popolare si appresta a lanciare «una piccola ma immediata» rivalutazione dello yuan. Invece che un apprezzamento secco come avvenne nel 2005, l’ipotesi prioritaria è quella di un allargamento della fascia di oscillazione della moneta cinese, che provocherebbe un aumento del valore dello yuan del 2,1 per cento. Di fatto il tasso di cambio, pressoche stabile dal 2008, porterebbe il concambio appena sotto i 6,70 renminbi per un dollaro. Troppo poco per Washington. Eppure ambienti finanziari di Wall Street come settori della politica meno sciovinisti sembrano ottimisti su una stretta. E per il semplice fatto che la cosa converrebbe innanzitutto a Pechino. Che entro l’anno prossimo avrà anche 150 milioni di utenti di telefonini 3G, ma che fa sempre più fatica a raffreddare le ondate inflazionistiche tipiche di un Paese che produce troppo, mette in circolazione eccessiva valuta, e consuma meno di quanto potrebbe.

Una moneta più forte – unita alla consapevolezza che le misure espansive non sono più necessarie in questa fase – aumenterebbe la propensione e il potere d’acquisto dei consumatori cinesi, alleggerendo la dipendenza dalle esportazioni. Soprattutto una nuova politica monetaria aiuterebbe permetterebbe all’America (della quale Pechino detiene una buona fetta del debito pubblico) di continuare ad assorbire almeno il 70 della produzione cinese, che ogni anno si fa sempre più tecnologica. Senza contare i vincoli che Washington sta via via inserendo sulle esportazioni di materiale high tech. Come ha spiegato il membro del comitato di politica monetaria della Banca centrale cinese, Xia Bin, Pechino non ha intenzione di fare grandi cambiamenti. Vuole governare questo processo, ma non sostituirà a un dirigismo sulla moneta verso il basso, uno verso l’alto. In fondo il vertice tra Geithner e Wang Qishan, se ha avuto un esito, è stato quello di mandare un messaggio ai mercati che nulla sarà lasciato al caso.


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9 aprile 2010 • pagina 17

La tredicenne ha subito lesioni gravissime all’apparato genitale

Scontata la vittoria di Rajapaksa, che ha incarcerato l’opposizione

Yemen, bimba sposa muore tre giorni dopo le nozze

Lo Sri Lanka rinnova il Parlamento nazionale

SANA’A. Una bambina yeme-

COLOMBO. Il popolo dello Sri Lanka ha cominciato ieri mattina a votare per il nuovo Parlamento. Per la prima volta si tengono elezioni in modo libero in tutta la nazione senza timori di attacchi terroristi, dopo la vittoria del presidente Mahinda Rajapaksa contro le Tigri Tamil nel maggio scorso. La coalizione del presidente pare non avere alcun concorrente di calibro. Ciò è dovuto anzitutto alla notorietà di Rajapaksa che vincitore delle Tigri, viene osannato come “il re” che ha salvato la nazione da trenta anni di guerra. Alle elezioni presidenziali dello scorso gennaio egli ha vinto con facilità. E proprio per cavalcare il suo successo egli ha

nita, data in sposa all’età di tredici anni, è morta ad Hajjah, città a nord di Sana’a, dopo soli tre giorni di matrimonio. Secondo quanto denuncia un’organizzazione yemenita per i diritti umani, citata dal giornale arabo al-Quds al-Arabi, dal referto medico si evince che la giovanissima sposa sia deceduta «per lesioni gravissime all’apparato genitale, che hanno portato ad emorragie fatali». Per i medici, Ilham Mahdi Shui al-Asi, è questo il nome della piccola, non era ancora pronta per il matrimonio e la violenza sessuale subita dal marito l’ha portata alla morte. In una nota diffusa dall’organizzazione umanitaria mediorientale Forum al-Shaqaiq, si legge che «la piccola è morta venerdì scorso dopo essere stata ricoverata all’ospedale al-Thawra, mentre solo il lunedì precedente, il 29 marzo, aveva partecipato alla sua festa di nozze».

La giovane Ilham ha subito quello che nei villaggi dello Yemen viene chiamato “matrimonio di scambio”. La tredicenne è stata data in sposa a un uomo che a sua volta ha dato in sposa la sorella a un uomo della famiglia di Ilham. Per questo l’ente umanitario definisce la piccola «martire dei matrimoni

Thailandia, la marcia delle Camicie Rosse Continua lo stato di emergenza, assenti le Forze Armate di Antonio Picasso

BANGKOK. Dopo gli scontri degli ultimi giorni a Bangkok, le “Camicie Rosse” - che sostengono l’ex premier Thaksin Shinawatra, deposto con un golpe nel 2006 - adesso stanno cercando di coinvolgere il resto della Thailandia nella loro protesta di piazza. Ieri il governo presieduto da Abhisit Vejjajiva ha dato la notizia di alcune manifestazioni organizzate nelle regioni settentrionali del Paese. La laconicità del comunicato governativo stride con il fatto che i disordini starebbero coinvolgendo ben 17 province. Qui i governatori avrebbero ricevuto l’ordine di ricorrere alla forza nel caso i cortei sfuggissero al controllo della Polizia. La consegna suona come un implicito nulla osta ad attuare misure drastiche a discrezione delle autorità locali. Non è chiaro se da ieri sera a Bangkok sia stato imposto il coprifuoco. Il governo inoltre ha criptato il canale televisivo dell’opposizione. Oggi comunque sono attesi altri dieci cortei nella sola capitale. I manifestanti hanno aspettato oltre un mese prima di scendere in piazza. Il 26 febbraio infatti, la Corte Suprema thailandese aveva sequestrato oltre la metà del patrimonio privato di Thaksin, 1 miliardo di euro, con l’accusa di appropriazione indebita di denaro pubblico. Il Colpo di Stato perpetrato nel settembre di quattro anni fa era nato dalla corruzione dilagante, dal clientelismo e dal conflitto di interessi che venivano attribuiti all’allora premier.Thaksin al momento si trova in esilio, ma i suoi sostenitori mirano a riportarlo in patria, per consegnargli nuovamente la leadership del potere. Questo attraverso lo scioglimento del Parlamento e le elezioni anticipate. In pratica si tratterebbe di un contro-golpe, a distanza di quattro anni, con l’obiettivo di ricostruire la democrazia nel Paese, ma attraverso metodi palesemente non democratici. Coinvolgendo le regioni settentrionali la tattica delle “Camicie Rosse” è far leva sulla popolazione rurale, per ingrossare le proprie fila e indebolire i centri di potere locali. In questo modo le istituzioni di Bangkok si ritroverebbero isolate. Il quadro attuale lascia spazio a dubbi e attese.

Thaksin era stato deposto perché aveva introdotto in Thailandia un governo personalistico, corrotto e facile nel ricorrere alla violenza. Come tycoon locale, era riuscito a controllare totalmente i media nazionali, impedendo il confronto con l’opposizione. Gli osservatori stranieri lo avevano accusato anche di mancato rispetto dei diritti umani, in seguito alle esecuzioni capitali sommariamente impartite verso alcuni sospetti narcotrafficanti. In sua alternativa però, nel 2006 si era creato un governo altrettanto poco trasparente, secondo gli standard democratici occidentali.

In tutto questo, la monarchia appare troppo silenziosa. In passato, il sovrano Rama IX, conosciuto come “il Grande”e venerato in patria quasi come una divinità, si era attivato per bloccare le derive al processo di modernizzazione politica del Regno. Questa volta il suo silenzio va in controtendenza con la sua fama. Vero è che la Costituzione non gli riserva un’influenza politica rilevante. Ciò non toglie che, di fronte al disordine diffuso nel Paese, il re non si sia ancora espresso. Né in favore delle autorità costituite né per trovare un compromesso con i rivoltosi. Lo stesso si può dire delle Forze Armate, delle quali si sospetta un appoggio celato alle“Camicie rosse”. La loro fama però è quella di un’assoluta fedeltà al sovrano. È possibile quindi che siano in attesa di una mossa di quest’ultimo. Una prima analisi dei fatti suggerisce che la Thailandia rischia di diventare un’ulteriore criticità nella regione. Bangkok è un partner strategico per gli Usa e un punto di riferimento nelle relazioni commerciali fra l’Estremo Oriente e l’Occidente. È una “tigre asiatica”che ha saputo, meglio delle altre, parare i colpi di due crack finanziari che si sono abbattuti sui mercati locali, rispettivamente alla fine degli anni Novanta e nel 2008. La ciclicità di queste crisi politiche però dimostra la debolezza del Regno dal punto di vista democratico. È un fianco scoperto che richiede maggiore attenzione da parte delle potenze mondiali.

Il governo ha criptato il canale televisivo dell’opposizione, ma non ha imposto il coprifuoco notturno nella capitale

combinati con minorenni, ancora in uso nel paese». Questo episodio potrebbe aiutare a far riaprire il dibattito sulla necessità di emanare una legge in Yemen che ponga un limite di età per il matrimonio. La proposta di legge presentata nelle scorse settimane si era infatti arenata nel dibattito in parlamento dopo una serie di manifestazioni organizzate dai gruppi islamici che la considerano contraria alla sharia. Recentemente un’altra bimba di 8 anni è salita alla ribalta delle cronache per aver chiesto (grazie a un’associazione umanitaria) il divorzio dal marito trentenne che la picchiava e la costringeva a rapporti sessuali.

dissolto il Parlamento e ha annunciato le elezioni anticipate. Un altro motivo di un sicuro successo della sua coalizione è che il suo principale sfidante, il gen. Sarath Fonseka è stato da lui messo in prigione, anche se il suo partito concorre alle elezioni. Fonseka è accusato di aver tentato un colpo di Stato e per questo sarà processato da una corte marziale. Il generale si difende dicendo che il processo contro di lui ha solo motivi “politici”. I Tamil, che alle elezioni presidenziali hanno sostenuto Fonseka, ora concorrono da soli. Rajapaksa mira alla conquista dei due terzi dei 225 seggi del parlamento.

Egli ha impostato la campagna elettorale dicendo che tale maggioranza schiacciante è necessaria per avviare riforme politiche e rilanciare l’economia del Paese. I suoi oppositori temono invece che tale margine aiuti il presidente ad allargare i suoi poteri e a soffocare le voci delle minoranze. Uno dei problemi più cocenti è la situazione di molti rifugiati ancora rinchiusi in campi profughi. I leader religiosi cristiani e buddisti hanno continuato a chiedere il dialogo fra le parti e l’esclusione della violenza dalle elezioni.


cultura

pagina 18 • 9 aprile 2010

Cinema. Attraversò tutto l’arco dei mestieri, iniziando coi disegni dei titoli di testa e approdando a sceneggiature, scenografie, montaggio e aiuto regia

L’uomo che visse due volte Viaggio nella straordinaria carriera di Hitchcock Dal periodo inglese a quello americano di Alessandro Boschi iciamo subito che per parlare di Alfred Hitchcock non useremo l’espressione “maestro del brivido”. Chiariamo. Al contrario di un giovane critico allora rampante che circa mezzo secolo fa definì Hitchcock “genio delle stronzate” (in una conversazione privata, ma l’esimio Ottavio Jemma lo giura nel suo splendido Sunset Boulevard), per noi Sir Alfred è sia genio che maestro. Per altro anche più recentemente un nostro attempatello regista di punta alla domanda «chi buttereste giù dalla torre tra Hitchcock e Wilder» ha risposto con una smorfia quasi sprezzante che non era interessato a nessuno dei due.

D

metteranno in luce oltre oceano. Qui lo noterà il leggendario produttore David O. Selznick che con Rebecca, la prima moglie, gli consentirà di vincere l’Oscar come miglior film nel 1941. Adesso ci toccherebbe parlare di tutti i suoi capolavori, esercizio invero piuttosto scontato. Preferiamo quindi dedicarci ad altro, seguendo altri criteri, inventandoci magari anche noi un Mac Guffin, quello che nel celebre libro intervista di François Truffaut viene così raccontato dallo stesso regista inglese: due viaggiatori si trovano in un treno in Inghil-

terra. L’uno dice all’altro: «Mi scusi signore, che cos’è quel bizzarro pacchetto che ha messo sul portabagagli? - Beh, è un MacGuffin. - E che cos’è un MacGuffin? - È un marchingegno che serve a catturare i leoni sulle montagne scozzesi. Ma sulle montagne scozzesi non ci sono leoni! -Allora non esiste neppure il MacGuffin!». A pensarci bene questa scenetta ce ne fa venire in mente un’altra, che sempre in treno si svolge. Protagonisti Walter Chiari e Carlo Campanini. Anche qui c’è un bizzarro pacchetto, che in realtà si rivelerà essere una gabbia. Il proprietario (Campanini) confida ad un curioso Walter Chiari che dentro c’è un esemplare di Sarchiapone. Il fatto che non esista un animale con questo nome non impedirà al passeggero di conoscerlo, con una prevedibile figuraccia finale. Nelle intenzioni degli autori è evidente la volontà di farsi beffe di tutti coloro che su qualsiasi cosa vogliono dire la propria opinione, perché non accettano di non sapere qualcosa che gli altri invece sanno. Il concetto di qualcosa che può essere o non può essere qualsiasi cosa è il dispositivo che innesca le reazioni. Se da una parte il Sarchiapone mette a nudo l’ignoranza e la stupidità umana, dall’altro il Mac Guffin ne sfrutta la curiosità. Ricordate la valigetta di Pulp Fiction? Quando veniva aperta si vedeva che qualcosa al suo interno riluceva, ma il contenuto non era mai svelato. È su questo punto che il cinema di Hitchcock innesca la sua forza. Sulle potenzialità di una situazione che presenta aspetti non condivisi da tutti. Ne La finestra sul cortile lo spettatore assiste ad alcune scene che il protagonista, costretto sulla sedia a rotelle, non può vedere. Il cinema di Hitchcock, perdonateci l’ardire, assomiglia ad un palloncino che vediamo gonfiarsi a dismisura. Da un momento all’altro sappiamo che potrebbe scoppiare. Ma non è lo scoppio in sé a essere importante, è l’attesa di quello scop-

A sinistra e a fianco, Alfred Hitchcock. Qui sotto, James Stewart, Grace Kelly e lo stesso regista nella pellicola “La finestra sul cortile”. Nella pagina a fianco, un fotogramma di “Notorius” e uno scatto della casa di “Psycho”

Il primo film da “director” è del 1925, “The Pleasure Garden”, ed era muto. Per arrivare al sonoro bisogna attendere il ’29 con “Ricatto”

Il cinema di questi due, a suo modo di vedere, era un cinema reazionario, in quanto di evasione, superficiale. Serve aggiungere che il nostro regista era ed è di sinistra? La sinistra dei salotti ovviamente, vale a dire la sinistra madre di tutte le disgrazie di chi di sinistra lo è davvero. Ringraziando quindi il grande regista di Leytonstone per questa opportunità cerchiamo di riassumerne la carriera nel modo più deferente e adorante possibile. Hitchcock è davvero l’uomo che nacque due volte, e la sua filmografia si divide in due periodi, quello inglese, il primo, e quello americano. Contrariamente a quanto il suo distinto aspetto farebbe supporre, prima di diventare regista Hitchcock ha attraversato tutto l’arco dei mestieri del cinema, partendo dai disegni dei titoli di testa per approdare, in virtù del suo ingaggio alla Gainsborough Pictures nel 1923, alla sceneggiatura, alla scenografia, al montaggio e all’aiuto regia. La sua prima pellicola da “director” è del 1925, The Pleasure Garden, in parte girata sul lago di Como (dove sarebbe ritornato molti anni dopo per una breve vacanza). Si trattava sempre di film muti e per arrivare al primo sonoro bisogna attendere il 1929 con Ricatto. Seguiranno altri film di grande successo che lo

pio. Che può anche non avvenire. Detto questo non dobbiamo dimenticarci che non esiste arte senza tecnica. Hitchcock usava sempre dei dettagliatissimi storyboard. Nulla è lasciato al caso nelle sue inquadrature. Ciononostante ha introdotto delle soluzioni visive audaci e sorprendentemente efficaci. Pensiamo a La donna che visse due volte, oppure a Io ti salverò, a Il sospetto. Che volutamente non vi descriviamo ma vi invitiamo a rivedere.

Leggendario anche il suo rapporto con gli attori, meglio se femmine. La famosa dichiarazione «gli attori sono bestie» in realtà, a causa delle proteste

che suscitò nella categoria, venne successivamente modificata: «Sono stato frainteso, disse, quello che realmente intendevo dire è che gli attori dovrebbero essere trattati come bestie». Un esempio, con una attrice che certo non doveva essere molto malleabile, Ingrid Bergman. Il regista, ricordiamo, la diresse in Notorious, l’amante perduta e Io ti salverò. Durante una scena la bella svedese si rivolse al regista confessando di essere in difficoltà: «Io penso di non poter girare questa scena con naturalezza». Bonario, Hitchcock prima la ascoltò e poi le rispose: «D’accordo, allora se non puoi usare la naturalezza falla recitando».


cultura

9 aprile 2010 • pagina 19

Costato 800mila dollari, il film ne fruttò ben presto quindici milioni

“Psycho”, la paura fa... cinquanta! Usciva nell’aprile del 1960 il capolavoro cinematografico che tenne col fiato sospeso intere generazioni di spettatori di Orio Caldiron tudi della Universal. Interno giorno. Aprile 1960. Alfred Hitchcock ha appena visto il montaggio provvisorio di Psycho e cammina nervosamente avanti e indietro. Il film gli sembra orrendo. Pensa di tagliarlo e di ricavarne un telefilm. È terrorizzato dall’idea di fare fiasco anche perché l’ha prodotto con i suoi soldi. Quando l’anno prima si era assicurato i diritti dell’horror di Robert Bloch, i dirigenti della Paramount - che non condividono il suo entusiasmo per la storia dell’albergatore fuori di testa - gli avevano negato il technicolor, i grandi budget e le star a cui era abituato. Ma Hitch aveva accettato la sfida decidendo di finanziarlo di tasca propria e di girarlo con la troupe televisiva con cui da cinque anni confeziona i telefilm della serie Alfred Hitchcock presenta. Nessuno poteva immaginarlo, ma gli ottocentomila dollari che vi impiega gli faranno incassare quindici milioni di dollari, rivelandosi il migliore investimento della sua vita. Il set del capolavoro hitchcockiano in cui si susseguono tutte le fasi del film dalle discussioni sulla sceneggiatura ai trentasei giorni di riprese, dagli stratagemmi per aggirare la censura alla realizzazione delle sequenze più complicate - non aggiunge nulla alle letture psicoanalitiche che hanno tentato invano di scalfire il cuore di tenebra di un film sconvolgente e fuori dalle regole, ma apre una sorta di fronte interno nella fabbrica del brivido, ci assicura un posto di prima fila nel mitico studio Phantom, in cui più di trent’anni prima era stato girato Il fantasma dell’opera con Lon Chaney. Sono decisamente diversi i fantasmi - i fantasmi dell’inconscio - che vi si aggirano ora sotto lo sguardo impassibile del regista. Abituato a nascondersi dietro alla silhouette ammiccante dell’iperprofessionista sicuro di sé, teme di essersi spinto troppo in là con questo piccolo film in bianco e nero in cui la protagonista femminile esce di scena a quaranta minuti dall’inizio.

S

ma» per la quale durante le riprese vuole sia tenuta bene in vista una sedia da protagonista con scritto «Mrs. Bates» sullo schienale, chiamando a impersonarla un paio di cascatrici e una nana poco più alta di un metro, mentre una gracchiante voce maschile fa il resto. Il maniacale perfezionismo del cineasta - che conosce macchine e obiettivi meglio di un operatore - si scatena nelle invenzioni tecniche. Il clima di pervasivo voyeurismo che contrassegna il film viene ottenuto usando quasi sempre l’obiettivo da cinquanta millimetri, il più vicino alla vista umana. Ma la scena più complessa è l’omicidio della doccia - sei giorni di riprese per quarantacinque secondi di suspense allo stato puro, scanditi in una settantina di inquadrature che viene predisposta in ogni minimo particolare per scioccare lo spettatore, nascondendo sia la nudità della vittima che l’identità dell’aggressore.

La modella scelta come controfigura è stata usata pochissimo perché il montaggio spezzettato non lascia vedere che frazioni infinitesimali di nudo, rendendo l’azione stilizzata e astratta, profondamente coinvolgente sul piano emotivo. Saul Bass, il geniale autore dei titoli, si vantò sempre di aver diretto personalmente la celebre sequenza dopo averne disegnato lo storyboard. Ma il regista non lo ammise mai, sostenendo che Saul aveva dato una mano soltanto nella scena dell’omicidio per le scale del detective Arbogast. Il grande Hitch - arrogante e insicuro, garbatissimo e indisponente - non capì cosa aveva in mano fino a che Bernard Herrmann non gli fece sentire la straordinaria partitura d’archi che aveva composto per la colonna sonora del film, una musica in bianco e nero dalle vibranti sonorità destinate a catturare per sempre gli spettatori. L’insolita campagna pubblicitaria fu l’ultimo tocco da maestro. Non contento di aver eliminato le proiezioni per i critici insistendo nella consegna della segretezza mantenuta per tutta la lavorazione, stabilì che nessuno sarebbe entrato in sala dopo l’inizio del film e tempestò gli esercenti di ordini di servizio. Il successo di Psycho fu travolgente, dimostrando che aveva fatto centro ancora una volta. Sulla soglia dei sessanta - i suoi e quelli del secolo - Hitchcock sembra guardare nello specchio oscuro in cui si intravedono i presentimenti di una minacciosa modernità.

La scena più intricata è l’omicidio della doccia: 6 giorni di riprese per 45 secondi di puro suspense, scanditi in 70 inquadrature

La Bergman, in seguito, affermò che fu il migliore consiglio mai ricevuto. Immaginiamo che il rapporto di Hitchcock con le donne fosse piuttosto complicato, anche in virtù della rigida educazione religiosa ricevuta. Egli, non va dimenticato, era nato nel 1899 in una famiglia cattolica, una delle poche nell’Inghilterra di quel periodo. Né doveva amare molto la polizia e il dramma dell’innocente perseguitato o dei temi portanti del suo cinema. Non è

un caso che da giovane, sebbene per un breve periodo, fosse stato rinchiuso in carcere.

Tornando al nostro regista che non tollera né Hitchcock ne Wilder, possiamo senza dubbio concordare che il cinema del nostro non è ascrivibile al neorealismo. «La verosimiglianza non m i interessa - affermava - è la cosa più facile da ottenere». L’arte, diceva Hitchcock, è più importante della democrazia.

Sempre pronto a diffidare degli attori, questa volta non può che esserne soddisfatto. Anthony Perkins si è rivelato uno strepitoso Norman Bates, Janet Leigh una perfetta Marion Crane. Soltanto John Gavin, il suo amante, è talmente inespressivo che Hitch in privato lo chiama «il cadavere». Il suo malizioso umorismo gli fa riservare però le maggiori attenzioni a «Mam-


spettacoli

pagina 20 • 9 aprile 2010

Cinema. Da oggi nelle sale “Departures”, pellicola giapponese vincitrice del premio Oscar come miglior film straniero 2009

L’amore che non muore

di Francesco Lo Dico fari di un’automobile baluginano nell’inverno, a fendere la fitta nebbia che avvolge la strada. A bordo c’è Daigo, riluttante becchino che avanza a tentoni verso un punto di non ritorno. Dietro le sue spalle, un difficile passato che non ha mai smesso di inseguirlo. Davanti a lui, nascosta da qualche parte, il destino ha piazzato la sua tagliola.

I

Yojiro Takita, acclamato regista nipponico della pellicola che si è aggiudicata il premio Oscar come miglior film straniero del 2009 (che in Italia vediamo inopinatamente dopo più di un anno, e nelle solite quattro sale d’essai) sceglie di aprire Departures a metà del guado. Oltre la metaforica nebbia, in quella strada che è la plastica rappresentazione di un uomo al momento di svolta, c’è l’evento che avviluppa per sempre il personaggio alla sua storia. Quella di Daigo Kobayashi (Masahiro Motoki, vincitore del premio come miglior attore agli Asia Pacific Screen Awards ), violoncellista di qualche fama costretto a tornare nel borgo natio dopo il brusco scioglimento della sua orchestra, è subito segnata da una tragica ironia. In cerca di un nuovo lavoro, il nostro si presenta a una misteriosa agenzia che “organizza partenze”. La viva voce del direttore Sasaki (il magnifico Tsutomu Yamazaki, che ai fan di Kurosawa dirà più di qualcosa), dissolve poco dopo in presenza del giovane, l’elegante litote che maschera la vera natura dell’offerta di lavoro : «Prepariamo i defunti all’ultimo viaggio». È l’iniziazione ai riti della negrocosmetica, la sacra liturgia nipponica che trasformerà l’ombroso Daigo in nokanshi, che inella lingua giapponese indica letteralmente “il maestro della deposizione nella bara”. C’è poco da stare allegri, la prudenza sollecita un rapido guizzo apotropaico. E invece Takita spezza un tabù, e tre quarti di canone aristotelico, grazie a un plot che irride la dicotomia tragicocomica, e colloca il tono del film in una nebulosa affettiva di rara delicatezza. Delle salme dalle gote cotonate, dei tamponi che drenano via le fatiche di una vita, dei congiunti che lasciano il rossetto sulla pelle vizza dell’estinto, si può anche sorridere. Perché nel lento commiato della vestizione, che non è ancora trapasso ma smanioso addio, fluiscono al rallenty vite integrali. È lo spazio bianco prima del punto, il posto

dove i muti colloqui tra cari ed estinti rimbombano come macigni. Accade in modo esemplare nel caso della giovane donna suicida che suscita in Kobayashi un esitante stupore («La salma ha il coso!», sussurra a Sasaki dopo averne asperso metà del corpo al riparo di un lenzuolo). E che spinge i familiari a una toccante pacificazione con il figlio che ha scelto di vivere da donna (sequenza da impacchettare e spedire alle giulive maitresse di alcuni recenti pomeriggi televisivi). Ma Daigo è pur sempre un praticante della morte, e il suo mestiere riserba insidie e riprovazione, nonostante nel Giappone di un tempo esso fosse svolto con foscoliana amorevolezza dai parenti del defunto. Il prota-

Nella foto grande, un fotogramma di “Departures”. Qui sopra, la locandina

complesso di mummificazione. Il cinema come terra di nokanshi, indulgenti tanato-esteti che sottraggono gli uomini alla morte. La poesia vola sulle ali di gabbiani, di salmoni che nuotano controcorrente per morire dove sono nati.

gonista occulta la luttuosa verità, racconta alla moglie che il suo lavoro consiste «nell’organizzare cerimonie ed eventi». Pietose bugie che non bastano a togliergli di dosso il tanfo della morte (memorabile la laconica scena a bordo dell’autobus). Lo strappo con la moglie (Ryoko Hirosue, troppo compresa in piagnucolosi birignao), è a questo punto inevitabile.

Takita spezza tre quarti di canone aristotelico, grazie a un plot che irride la diarchia tragicomica e crea una nebulosa affettiva indefinibile

Nonostante tutto, Kobayashi non ha la forza di lasciare la casa nella quale è cresciuto, la stessa dove la madre lo ha aspettato invano prima dell’ultimo respiro. C’è qualcosa che incombe nell’esistenza di Daigo. C’è un sasso misterioso che riaffora dal suo violoncello d’infanzia: è pronto a perdere ogni cosa, perché qualcosa preme dentro di lui. Ad alleviare la solitudine del protagonista, c’è ora il boss Sasaki, il maestro che di giorno in giorno lo adde-

stra alle ferree leggi dell’esistenza. Takita inanella un lento susseguirsi di inquadrature fisse, che disegnano un cinema dei padri, pronipote di Ozu che osserva la vita ad altezza tatami. La musica del maestro Joe Hisashi, fa da contrappunto al violoncello di Daigo. Scorrono le stagioni, e la vita si mischia alla morte. Illegittima ma suadente, si affaccia la sensazione di comprendere nella pellicola di Takita, la straordinaria intuizione di Bazin: il cinema come

A qualcuno spiacerà quel po’ di appretto didascalico e gli agili simbolismi di cui il regista trapunta il narrato, ma la verità è che la filmografia del Sol Calante non ha più il talento necessario per azzardare il semplice. È il momento di Okibito, straordinaria soundtrack del maestro Joe Hisaishi: l’emozione si inerpica fino in cielo per poi piovere a dirotto in note divine. Dritte verso un finale che mangia il cuore a morsi. Daigo ritrova in casa la moglie fuggiasca. Lei ritrova il bandolo di un marito perduto. Prima c’è un ultimo indugio, la voglia di evadere e di perdere la rotta. E invece la nebbia si rischiara, e un telegramma riporta l’eroe oltre la nebbia. All’origine di sé ci sono vetri in frantumi che prima o poi fanno inciampare nell’infanzia. Scatta la tagliola, è il momento che il cauterio bruci la ferita di Daigo. Viatico è la morte di cari e sconosciuti, l’ultima carezza in cui scrivere l’amore: come in un sasso da custodire per sempre nella tasca.


società iOk o iFlop. Dopo una presentazione roboante, il nuovo gioiellino della Apple comincia a presentare qualche perplessità, soprattutto fra gli utenti più esperti di tecnologia. Ma, a occhio, sembra essere l’ideale per gli acquirenti di status symbol moderni. Anche se quelli che lo acquistano pensando di star comprando un computer portatile finiranno per restarci un po’ delusi. Eppure l’iPad, così come è stato per l’iPod e l’iPhone, ha tutte le caratteristiche per superare ogni record di vendita e di apprezzamento, se non altro per il design così moderno e innovativo, e per il touch screen, la tecnologia che sarà su tutti i computer del futuro.

O

I prezzi dell’iPad con Wi-Fi sono quelli annunciati: 499 dollari per la versione con 16 Gbyte di memoria, 599 dollari e 699 dollari per quelle da 32 e 64 Gbyte. Chi vuole il supporto delle reti mobili 3G (disponibile da fine aprile anche in Italia a un prezzo da definire) dovrà sborsare 129 dollari in più per ogni modello. E cosa avrà in cambio? Uno strumento pensato in primo luogo per fare concorrenza al Kindle di Amazon, ovvero per permettere la lettura di libri digitalizzati: nella biblioteca di iTunes ci sono però solo 60mila titoli per ora, contro i 450mila dell’avversario. L’iPad offre un’esperienza diversa al lettore, cercando di imitare con ombre e animazioni l’esperienza visiva della carta. Ma pesa più del doppio del Kindle, e si sente. Permette l’ascolto di musica con la stessa grafica dell’iPod, così come le applicazioni per video e film sono gestibili soltanto attraverso il supporto software di Apple, incompatibile con quello di Windows: non è nemmeno possibile vedere file scaricati da internet, ma i film scaricabili (acquisto o noleggio) da iTunes sono di altissima qualità; però l’iPad non è widescreen, come gran parte dei monitor oggi sul mercato, e questo significa che, anche in modalità panoramica, il film è stretto tra due bande nere. Il gioiello non ha le porte Usb, forse per non far cadere in tentazione l’utente mediamente geek. Con l’iPad si può anche giocare: il parco di videogames è ancora povero, e la maneggevolezza è minore dei Nintendo e delle ma Playstation, anche qui il plus di Apple è fornire intrattenimento “dedicato” dalle prestazioni superiori, capace di far innamorare chi ama la raffinatez-

9 aprile 2010 • pagina 21

A fianco, il leader della Apple Steve Jobs durante la presentazione della sua nuova creazione: l’iPad. Sotto e in basso, alcuni (soddisfatti) acquirenti del nuovissimo prodotto e la schermata iniziale dell’iPad

della Apple molti si sono accorti che, lo spegnimento per protezione termica quando la temperatura supera una certa soglia è sui 22 gradi: una situazione piuttosto comune durante l’estate. La funzione “esporta come PDF” ha qualche problema di funzionamento. Dal punto di vista dell’hardware, sono interessanti le osservazioni di Tom’s Hardware e Ifixit.com: «Esaminato da un’azienda specializzata, il processore ha rivelato caratteristiche tutt’altro che rivoluzionarie. È infatti del tutto simile al processore Samsung presente sull’iPhone 3GS, e come questo è un processore a singolo core, da comparare al Cortex A8, più che al chiacchierato A9». È anche vero che esiste una versione a single-core dell’A9, e potrebbe trattarsi proprio di questo.

Con tutto questo,

Status symbol. Luci e ombre del nuovo “gioiellino” di casa Apple

La tecno-generazione si divide sull’iPad di Alessandro D’Amato za dei particolari. Il software che funziona sull’iPhone gira anche sull’iPad ma viene visualizzato in

dimensioni ridotte, al centro dello schermo. Compresi, per ora, anche Skype e Facebook. La suite iWork, compatibile con documenti “.doc” (Word) e “.xls” (Excel) permette di creare, modificare e salvare documenti di testo e fogli elettronici. Ma la pro-

Poi ci sono le critiche dei più “tecnologici”, e sono state subito molto ficcanti.

Sul sito Tomswh, su internet, si ricorda che l’iPad non è sempre in grado di trovare e collegarsi alle reti Wi-Fi disponibili, come confermano le discussioni sul forum ufficiale della Apple.

già ampiamente conosciuto prima della messa in commercio, di iPad se ne sono venduti ben 300mila il primo giorno nei negozi, e così si è battuto il record del primo iPhone: sempre nel primo giorno di commercializzazione gli utenti hanno scaricato un milione di applicazioni e ben 250mila ebooks. Facendo schizzare, in tempi di crisi, il prezzo obiettivo delle azioni Apple alla Borsa di New York. Si parla di 6 milioni di pezzi in vendita nel primo anno, per quella che gli esperti chiamano un «entertainment device che ti permette di essere produttivo», ed è previsto che superi i netbook (i mini-computer dalle funzioni limitate, non completamente notebook, e pensati per navigare su internet) nelle vendite in pochissimo tempo. Perché l’iPad, indiscutibilmente, piace. Anche ai più severi. Walter Mossberg, critico tecnologico del Wall Street Journal e “spauracchio” di molti produttori, ne ha parlato bene nella sua recensione: «Un bellissimo nuovo oggetto, di qualità differente. L’iPad ha il potenziale per cambiare profondamente il mondo dei computer portatili e minacciare la supremazia dei laptop. E con il suo schermo al tatto come interfaccia potrebbe mandare definitivamente in cantina il mouse». Ed è adatto soprattutto «se si appartiene alla categoria di chi naviga in rete, usa l’email, partecipa ai social network, consuma video o contenuti elettronici»: oggi, la generazione più numerosa tra chi acquista prodotti tecnologici, un tempo appannaggio di una “setta” di iniziati. Questo Jobs lo ha capito prima degli altri. È per ciò che anche stavolta ha fatto centro in pieno.

I più critici, soprattutto sui blog, lo hanno bocciato rilevandone gravi difetti di gestione. Per molti altri invece è la rivoluzione dei pc portatili cedura per trasferire file resta laboriosa. Pages, il word processor, non ha una funzione fondamentale per molti: il conta battute. L’iPad, in più, non può essere collegato a una stampante. Nota lietissima: la batteria dura tantissimo, rispetto agli altri apparecchi in commercio (compresi alcuni della Apple).

Spesso le reti sono del tutto invisibili, mentre altre volte il collegamento al router ha successo, ma poi è impossibile navigare. Chi ha un modello senza 3G, quindi, potrebbe trovarsi tra le mani un dispositivo del tutto isolato da internet. Apple ha riconosciuto il problema quasi immediatamente, ma soluzioni non se ne sono trovate. E non è detto che un aggiornamento software possa risolvere il “difetto”. Sempre sui forum


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Energia, cambiando operatore sono possibili risparmi di oltre il 10% La nuova tariffa elettrica regolata, quella usata dal 95% delle famiglie italiane, è diminuita dal 1 aprile del 3,1%. Le famiglie numerose non ne beneficeranno: vedranno la loro bolletta scendere solo dello 0,4%. È l’effetto dell’ultimo aggiornamento delle tariffe stabilite dall’Autorità prima del passaggio obbligatorio alla bioraria del prossimo 1 luglio. Scegliere un fornitore di energia, passando al mercato libero, consente di ottenere un risparmio in bolletta di più del 10%. Con la campagna Controcorrente, Altroconsumo offre strumenti pratici per risparmiare sull’energia domestica e compiere scelte per ridurre i consumi di energia e rispettare l’ambiente. Sul sito è disponibile nella sezione della campagna www.altroconsumo.it/controcorrente, il calcolatore per aiutare gli utenti a scegliere ciò che è meglio per sé secondo le proprie abitudini di consumo. I consumatori continuano a non capire le offerte proposte sul mercato libero e non si fidano a cambiare fornitore. Diversi i problemi, che vanno dall’attivazione non richiesta dei contratti da parte degli operatori alla scarsa leggibilità delle bollette, elementi sui quali l’Autorità di garanzia deve intervenire. Per far funzionare il mercato aperto alla concorrenza tra gli operatori le offerte devono essere chiare, comprensibili e confrontabili.

Altroconsumo

EVIDENZE POLITICHE La politica nel nostro Paese si è evoluta, nonostante tutto. Lo dimostra l’affezione ritrovata tra il popolo e l’esecutivo nazionale che non ha precedenti, tanto da sovvertire la regola che esisteva nei governi passati di centrosinistra, che vedeva nelle amministrazioni locali trionfare sempre le varie ammucchiate di sinistra. Man mano che si scende a livello della gente, si raggiungono quei mali sociali che la sinistra avrebbe dovuto per definizione sconfiggere. Invece essa ha agito proprio come in Russia il comunismo moderno, ovvero creando una ricchezza concentrata dove mangia chi accetta e zittisce, vince la concussione, vince la centralità dello Stato. Alla fine vince quel controllo sui cittadini che molti imputavano a Berlusconi, e che invece è stato ri-

Tutti pazzi per la cyber-spesa!

baltato dai fatti: le ultime elezioni regionali hanno dimostrato che la politica si sta riavvicinando alla gente, perchè i lamenti facili e le accuse gratuite non sono mai state segno delle evidenze sociali e umane.

Vi segue tra gli scaffali, conosce a memoria la lista della spesa e tiene il cestino per non farvi portare pesi. È un robottino in fase di sperimentazione presso un supermercato di Tokyo, saluta i clienti all’ingresso e li accompagna ripetendo ad alta voce l’elenco dei prodotti che gli utenti hanno in precedenza “caricato” sulla sua memoria

Bruno Russo

CONVINZIONE CRISTIANA Perché proprio adesso i dubbi e le remore si insinuano nella personalità di Papa Wojtyla, che proprio per la sua indiscussa santità e dedizione alla gente, non era mai stata oggetto di discussione o di mistero? Non si può rispondere a una domanda del genere, ma solo aggiungere che le sue opere si sono viste nei fatti, quando si quantizza il numero dei giovani che come quel gregge del buon pastore, hanno fino alla fine testimoniato la sua capacità di

ascetismo e di convinzione cristina inerente al vero cammino della fede.

Gennaro Napoli

SÌ AI PROGETTI DI CARCERI GALLEGGIANTI Sì ai progetti delle carceri galleggianti. Fincantieri rappresenta un’eccellenza da salvaguardare. In questo senso le politiche attuate per contenere gli effetti dell’attuale congiuntura vanno nella direzione auspicata. Si tratta di una fondamentale realtà economica che rappresenta un valore radicato nel nostro contesto. I progetti

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

della Fincantieri per la realizzazione delle carceri galleggianti sono una soluzione ideale per risolvere molte criticità che attualmente gravano sul sistema penitenziario. L’utilità di questi progetti mi sembra interessante anche per eventuali sviluppi futuri. È indubbio che il sistema carcerario necessita di riforme strutturali. Credo che le ipotesi studiate dalla Fincantieri su questo tema possano risultare di aiuto per programmare una nuova politica anche fondata su nuovi asset costruttivi.

Ferruccio Saro

da ”Asharq Alawsat” dell’08/04/10

Il caos nelle urne sudanesi di Osman Mirghani ancano pochi giorni alle elezioni in Sudan, ma il quadro della situazione non sembra essere ancora chiaro. Si tratta delle prime votazioni in venticinque anni che vedranno in lizza diversi partiti. Continuano le accuse reciproche di frodi elettorali progettate e le posizioni dei partiti in campo, anziché formare un quadro composito ma unito, sembrano voler far esplodere l’equilibrio che ha portato a questa tornata elettorale. L’opposizione è divisa sulla decisione di un totale o parziale ritiro delle proprie liste, boicottando così le votazioni. Il governo insiste perché le urne si aprano domenica prossima, senza alcun riguardo per le probabili conseguenze negative che questa decisione potrebbe causare, in un contesto ancora così confuso. Al momento non ci sono segnali che indichino una qualsiasi ricomposizione delle spaccature politiche. Però senza elezioni, non ci potrà essere un processo di riconciliazione. E sarà in forse anche il referendum sull’autodeterminazione del sud del Paese, che dovrebbe portare a uno statuto federale per evitare una definitiva spaccatura del Sudan.

M

Il problema di queste elezioni e che ogni parte in conflitto le vede come uno strumento per guadagnare un vantaggio sugli altri. Il governo le considera come una legittimazione popolare, dopo 21 anni di potere ”legittimato” da carri armati e da uno stato di polizia. Non è neanche presa in considerazione la possibilità di perdere le elezioni, contro un’opposizione considerata debole e divisa al suo interno. Per quest’ultima le urne sono viste come un’oc-

casione per abbattere il regime legalmente, dopo averci provato inutilmente per vent’anni con metodi cruenti e rivoluzionari. L’opposizione si è alleata con Splm (il movimento separatista del Sudan people’s liberation movement, ndr) pensando di attingere voti in un blocco di quattro milioni di sudanesi antigovernativi. Una maniera per impedire al candidato del National congress (il partito di governo, ndr) di essere eletto al primo turno. Ma lo stato maggiore del Splm considera che un referendum – che si dovrebbe tenere nel gennaio 2011 – per la secessione del sud sarebbe favorito, se al governo continuano ad esserci gli attuali e poco amati governanti.

Al Bashir al potere, con tutti i problemi che ha, non sarebbe in grado di impedire una secessione del sud del Paese, come invece potrebbe fare un governo con una diversa legittimazione. La verità è che l’attuale governo non è assolutamente pronto a mollare le redini del potere a nessuno. E pensa che le elezioni possano aver un solo esito: la vittoria. Ogni altro risultato sarebbe subito messo in dubbio e contestato e la più logica conseguenza sarebbe un ritorno alla guerra. È vero che l’Splm ha stretto alcuni patti d’alleanza in alcune regioni settentrionali contro il partito governativo, ma ogni calcolo politico sarà influenzato

dall’obiettivo principale: la secessione. Insomma ci potrebbe essere un interesse comune tra il politicamente claudicante Omar al Bashir e l’Splm. Si parla già di inviati del governo al sud che avrebbero proposto uno scambio. Se i separatisti dovessero boicottare le elezioni, favorendo così la vittoria del National congress party, il governo potrebbe facilitare il processo di autodeterminazione del Sudan meridionale. Per loro sarebbe più facile trattare con il partito di Bashir debole ma unito, che, un domani, con un’opposizione diventata maggioranza, disunita e rissosa. Si tratta di un puro calcolo politico.

Un clima che porterà alla frammentazione del Paese, alla secessione del sud, ma non alla sua sopravvivenza. In più ciò potrebbe scatenare altre future richieste d’indipendenza in altre regioni sudanesi. In questa situazione il ricorso alle urne sembra poter diventare più un danno che un vantaggio per il già martoriato Sudan.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Il cemento è la nostra campagna. Cemento e corpi umani

TRANI, IL DIRETTIVO UDC CHIEDE L’APERTURA POMERIDIANA DELL’UFFICIO POSTALE Il consiglio direttivo del partito dell’Unione di centro tranese ha diramato nei giorniscorsi una comunicazione in merito a vari disagi verificatisi a danno di larga parte dei cittadini tranesi presso l’ufficio postale Trani 1, nella zona sud della città co-capoluogo della sesta provincia pugliese. I cittadini della zona sud di Trani contestano l’esclusiva apertura antimeridiana dell’ufficio postale Trani 1 in corso Manzoni. Il numero di cittadini che si recano presso l’ufficio Trani 1 è divenuto sempre più elevato nel corso degli anni, dunque l’utenza reclama, a gran voce e a ragione, anche l’apertura pomeridiana dell’ufficio. D’altra parte stona enormemente il fatto che nella zona a nord di Trani esistano addirittura due uffici postali con il doppio turno, mentre a sud ce ne sia solo uno con un unico turno. Pertanto il direttivo dell’Unione di centro tranese sollecita l’amministrazione comunale a sottoporre questo problema all’attenzione di Poste Italiane, affinché venga valutato e risolto

Carissimo, un saluto per il divino settembre astigiano. Lì è stagione incomparabile. Qui è mediocre, meglio forse l’ottobre, ma quel che fa mediocre ogni stagione è la tenuta della campagna, che è come un bambino odiato dalla madre, preso a schiaffi, lasciato sporco, legato al letto a piangere. Non so se ancora qualcuno ami questi disgraziati ulivi, tutti in attesa delle ruspe, straziati dai rumori delle motociclette. Il cemento è la nostra campagna. Cemento e corpi umani, brutti, vestiti male. Una volta avevamo i pidocchi. L’unica differenza è questa. (Antiche terre del Papa, che corrompeva tutto con la sua malefica presenza, col suo odore micidiale). Ma sempre meglio qui, in questo brutto borgo, che a Roma. Abbiamo perfino trovato una contadina, o quasi, che ci procura uova vere. Il pane è buonissimo. Adesso abbondano pomodori e fichi. C’è la caccia aperta, purtroppo. Credo sparino agli ultimi grilli lasciati vivi dai pesticidi. Uccelli non se ne vedono più. Guido Ceronetti a Arturo Bersano

LE VERITÀ NASCOSTE

Parigi in ginocchio fra diete e sette PARIGI. Nuovi sciamani, sedicenti nutrizionisti e circa 14mila bambini che non vanno alla scuola elementare: è lo stato della Francia attuale, secondo il rapporto annuale della Commissione interministeriale di vigilanza e lotta contro le derive settarie francese (Miviludes) che punta il dito contro gli effetti “distruttivi” di queste pratiche che sono in pieno sviluppo. «I grandi movimenti settari sono sempre esistiti - spiega il presidente di Miviludes, Georges Fenech, intervistato dall’Ansa - ma oggi sono stati soppiantati in parte da piccole strutture che si sono riversate sul mercato delle psicoterapie alternative». Secondo il rapporto di Miviludes queste nuove “guide” prosperano puntando sulla attuale “decadenza spirituale”e promettono miglioramenti della persona e purificazione del corpo. L’uso scorretto delle tecniche di cura - ammonisce però lo studio - «può minare l’integrità fisica e psichica e condurre all’isolamento sociale, che sono due delle principali derive provocate dalle sette». Una delle pratiche nuove e più pericolose per gli adepti di questi gruppi settari è quella nutrizionista: Miviludes rileva rischi per la salute di giovani eccessivamente magri a causa di diete esclusivamente vegetariane, oltre all’abbandono della medicina tradizionale per altre tecniche alternative che si propongono di guarire tutti i mali, compreso il cancro. La Commissione propone di sviluppare un’analisi scientifica dei prodotti usati per la nutrizione, come gli integratori alimentari che rappresentano un mercato di circa un miliardo di euro l’anno, e di lottare contro le violazioni dell’esercizio illegale della medicina o della farmacia. In pratica, si tratta di mezzo milione di francesi in mano al primo che passa, quando si tratta di spiritualità e dieta.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

NASCE IL NUOVO SPAZIO WEB DI RAI VATICANO Finalmente on-line un patrimonio multimediale dal valore inestimabile a cominciare dalla lettura integrale della Bibbia. Dallo scorso 2 aprile, è on line su Rai.tv il nuovo spazio web di Rai Vaticano. Un’idea nata dall’esigenza di valorizzare e di rendere disponibile a tutti l’inestimabile patrimonio multimediale di questa importante struttura aziendale diretta da Giuseppe De Carli. L’obiettivo è quello di diventare il punto di riferimento dell’informazione religiosa prodotta dalle testate, dalle reti tv e dalla radiofonia Rai. I contenuti del sito internet saranno costantemente aggiornati dalla redazione di Rai Vaticano. Sul nuovo spazio web, all’indirizzo www.raivaticano.rai.it, sarà anzitutto pubblicata la storica e memorabile iniziativa “La Bibbia Giorno e Notte”, la lettura ininterrotta di Antico e Nuovo Testamento che si è svolta nell’ottobre del 2008 nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme in Roma. Primo lettore: Papa Benedetto XVI. Un’esperienza unica disponibile per tutti i navigatori. “La Bibbia Giorno e Notte” sarà, infatti, scaricabile in modalità podcast, ossia con la possibilità per gli utenti di salvarla e conservarla sul proprio computer. Si comincia dal libro della Genesi per poi proseguire, di settimana in settimana, con gli altri 72 libri del testo sacro. Suddivise in specifiche sezioni, verranno poi pubblicate immagini e interviste esclusive, relative anche ai pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, come l’ultima intervista rilasciata prima di diventare Papa dal cardinale Joseph Ratzinger.

APPUNTAMENTI APRILE 2010 VENERDÌ 23 ORE 11, ROMA, PALAZZO FERRAJOLI-PIAZZA COLONNA

Consiglio Nazionale Circoli liberal SEGRETARIO

Ufficio Stampa Rai Vaticano

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Collaboratori

Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,

Roberto Mussapi, Francesco Napoli,

Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

quanto prima questo fastidioso problema, che vede i cittadini della zona meridionale di Trani costretti a estenuanti file o addirittura a spostarsi presso un altro ufficio postale della zona. Francesco Brescia C O N S I G L I O DI R E T T I V O D E L L’ UD C - TR A N I

Mario Arpino, Bruno Babando,

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

John R. Bolton, Mauro Canali,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

Franco Cardini, Carlo G. Cereti,

Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,

Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,

Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,

VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

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Amministratore Unico Ferdinando Adornato

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Angelo Crespi, Renato Cristin,

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e di cronach

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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