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he di cronac

Lo sanno tutti

che razza di egoisti sono i morti Curzio Malaparte

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 15 APRILE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Continua il tira e molla sul nuovo ordinamento dello Stato. E Schifani promette: «Decideremo in Parlamento con tutti»

No al sistema Frankenstein Sulle riforme la confusione regna sovrana.Si può scegliere l’esempio tedesco o puntare su quello francese: ma non si può unire a caso “pezzi”di modelli diversi.Invece nel Pdl la tentazione è forte TRE ANNI DECISIVI

I COSTITUZIONALISTI

Attenti, questa è l’ultima occasione. Non perdiamola

CASAVOLA: «LA CARTA NON È UN IMPORT- Francesco Paolo Casavola è EXPORT» contrario all’importazione di

modelli stranieri: «Premierato forte e Camera unica»

MIRABELLI: «CANCELLIERATO, LA SCELTA «Occorre rafforzare i poteri dell’esecutivo: con il GIUSTA»

di Marco Respinti ra o mai più. Tardi (pur concedendo attenuanti oggettive) è tardi, ma se Silvio Berlusconi è intenzionato davvero (e non è giusto mettere in dubbio la buonafede delle intenzioni di chicchessia) a riformare l’assetto istituzionale di questo Paese deve farlo presto e bene. I tempi supplementari sono scaduti da un pezzo e i recuperi ce li siamo già mangiati tutti. Adesso il Cavaliere ha di fronte tre anni pieni e piuttosto lisci di legislatura senza che all’orizzonte si profilino intoppi, elezioni (a parte quelle municipali di Milano, Torino e NapoDopo li, il prossimo anno), inciam15 anni, pi, giudici e vinon ci coli bui. Tre ansaranno ni benedetti da altre un mandato possibilità popolare forte per rifare e inequivocabile che già così davvero era dopo le ull’Italia time elezioni politiche e che ora, dopo la tornata delle amministrative e dei doppi turni di domenica scorsa, si staglia più robusto che mai. Tre anni rotondi in cui la sinistra può solo pensare di dare il suo contributo, o se non altro di non mettere troppi bastoni tra le ruote, pena la sua sconfitta totale. Tre anni cioè netti e puliti per passare dalle parole ai fatti, per lasciare il segno, per fare ciò che in Italia non si è mai fatto, per dare al Paese una svolta decisiva che benefichi tutti e ognuno. Il problema è che se stavolta fallirà, la colpa sarà tutta solo sua, di Silvio Berlusconi. segue a pagina 4

O

Ieri sera la cena con il premier

cancellierato alla tedesca, per esempio...» dice Cesare Mirabelli.

Bossi pigliatutto «A noi le banche del Nord e poi Palazzo Chigi»

ONIDA: «VOGLIONO SOLTANTO LIBERARSI Se l’obiettivo, dice Valerio DEL COLLE» Onida, è «abolire gli orga-

Precisazione di Bertone: «Parlavo solo della Chiesa»

Omosessuali e pedofilia: la Francia attacca, il Vaticano chiarisce

ni di garanzia» si finirà per stravolgere un modello preesistente.

POMBENI: «NON TRASFORMATE L’ITALIA IN Il politilogo Paolo PombeUNA CAVIA» ni lancia l’allarme: «Non

La Lega alza il tiro e cerca di non cedere neanche il ministro dell’Agricoltura

è più tempo di esperimenti. E il sistema francese è il più adatto». alle pagine 2 e 3

QUANDO IL BIPOLARISMO FUNZIONA

Marco Palombi • pagina 4

Berlusconi e Bersani, imparate da Cameron

di Osvaldo Baldacci

ROMA. Sembra non venir mai

e azioni di Letizia Moratti sembrano in ribasso. Bossi provoca candidandosi (per scherzo?) a Palazzo Marino... Insomma, la battaglia di Milano è cominciata con un anno d’anticipo. In realtà, dietro alla sfida per il Comune c’è lo scontro finale per il controllo di politica e affari al Nord.

eri liberal ha dedicato ampio spazio alla figura del probabile vincitore delle elezioni politiche in Gran Bretagna, David Cameron. Del leader conservatore si parlerà sempre di più avvicinandosi il 6 maggio che potrebbe terremotare il quadro politico la Gran Bretagna dopo la lunga stagione di dominio laburista prima di Tony Blair e poi di Gordon Brown. Quest’ultimo, per anni antagonista-collaboratore del primo, sa che la partita è assai difficile, ma sa che anche Cameron non ignora le proprie difficoltà di superare un test dalle molte insidie. Il leader dei Tories potrebbe infatti numericamente prevalere, ma non ottenere il numero sufficiente di deputati per poter governare da solo.

meno la benzina gettata continuamente sul fuoco della polemica che riguarda la Chiesa cattolica. Le recenti affermazioni del cardinal Bertone su pedofilia e omosessualità hanno suscitato anche la reazione del ministero degli Esteri francese, mentre la Sala Stampa del Vaticano pre- Parigi cisava il senso difende di quelle affermazioni. E i gay: sembra che «Nessuna una vicenda allusione tanto delicata su sia stata trasformata an- identità che in uno e genere» scontro tra Stati. E non è la prima volta. Una presa di posizione ufficiale contro il Vaticano in occasione di affermazioni controverse ma non relative ai rapporti tra Stati ha almeno un precedente in Belgio: quello in occasione del viaggio di Papa Benedetto XVI in Africa.

a pagina 8

segue a pagina 16

segue a pagina 14

di Gennaro Malgieri

I

Traballa la poltrona di Letizia Moratti

Intanto a Milano è cominciata la guerra del futuro di Giancarlo Galli

L

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I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

71 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 15 aprile 2010

Inchiesta. La politica continua a interrogarsi sulla possibile modifica dell’ordinamento dello Stato. Tra polemiche e confusioni

La riforma patchwork

Tutti sembravano d’accordo sul semipresidenzialismo ma poi sono arrivate mille varianti. Tre costituzionalisti cercano le soluzioni La settimana scorsa, la politica italiana sembrava aver trovato miracolosamente un accordo per le grandi riforme che va inseguendo da decenni: modello francese, hanno tuonato i leghisti. Sì, hanno risposto tutti: semipresidenzialismo e quindi capo dello Stato eletto direttamente dal popolo. Ma con una fitta serie di contrappesi (così è in Francia, almeno): elezione disgiunta di Parlamento e Presidente, diritto di veto del Parlamento, diritto alla coabitazione. Tutto risolto, insomma? Neanche per sogno. Ha cominciato il premier a suggerire che - forse - eleggere presidente e Parlamento poteva essere meglio... una

italianizzazione del modello francese, insomma. Ma Fini lì per lì ha detto no, non se ne parla: bisogna difendere le prerogative (e l’autorevolezza) del Parlamento. Ben detto. Salvo che qualche giorno ha parlato di una non meglio definita «via italiana alle riforme» che ieri l’altro Schifani ha spiegato: elezione contestuale di presidente e Parlamento. Insomma: modello Frankenstein. Ma, si può fare davvero? Liberal lo ha chiesto a tre illustri costituzionalisti: Francesco Paolo Casavola, Cesare Mirabelli e Valerio Onida. Che su una cosa sono d’accordo: di modelli ne esistono tanti che inventarne uno nuovo è impossibile.

Esistono tanti sistemi istituzionali: basta scegliere il più adatto

Non è tempo di fare pasticci all’italiana di Giancristiano Desiderio

FRANCESCO PAOLO CASAVOLA

1 «Le Costituzioni non sono modelli da esportazione»

«La soluzione c’è: premierato forte ma bilanciato da una Camera unica di deputati scelti davvero dai cittadini» di Franco Insardà

ROMA. «Ognuno adatta i vari modelli e le formule costituzionali straniere ai propri bisogni di potere. Ma è un errore. I modelli costituzionali non sono una merce da import,-export, perché sono frutto di un processo politico legato alla storia di un popolo. È assurdo pensare che in un ipotetico laboratorio di ingegneria istituzionale si possa scegliere il prodotto della tecnologia più avanzata. Sarebbe una cosa comica. Al massimo ci si può ispirare alla ratio dei sistemi stranieri, ma i modelli sono difficilmente innestabili in Italia». Il presidente emerito della Corte costituzionale Francesco Paolo Casavola analizza l’attuale situazione e individua quelle che potrebbero essere le modifiche da apportare al sistema: «Il punto di partenza dovrebbe essere quello di capire perché e come è stata fatta la Costituzione, che voleva essere una risposta, all’interno della storia italiana, alla conclusione di un ventennio di dittatura. Si pensò a un equilibrio tra le nuove istituzioni della Repubblica per evitare di il rischio di ricadere di nuovo in un regime

autoritario. E per questo si costituì una figura dell’Esecutivo con a capo un primo ministro che, usando la metafora dei tempi della Costituente, fu definito un “direttore d’orchestra” e non capo del governo, secondo la terminologia del fascismo. Era scelto dalle segreterie dei partiti, che sono organi extracostituzionali, per sostenere il governo ed era una figura delegata». Per Casavola questo meccanismo è debole e va riformato considerando il governo «un organo coeso, nel quale i ministri godono della fiducia del primo ministro, sono scelti da lui e possono essere dimissionati». In sostanza un premier forte, responsabile di tutto il governo, che deve essere «l’espressione non di decisioni di organi extracostituzionali come le segreterie dei partiti, ma della volontà politica del Parlamento. La nostra forma parlamentare è la migliore al mondo, perché garantisce la democrazia rappresentativa». Il premierato presuppone un Parlamento rappresentativo che l’attuale legge elettorale non garantisce. Secondo il presidente Casavola è giusto che l’investitura del premier av-

venga direttamente, ma la legge elettorale deve essere «proporzionale e congegnata in modo che i cittadini possano esprimere delle indicazioni personali sul consenso del corpo elettorale. L’attuale legge, invece, con la quale gli elettori nominano quelli che sono stati scelti dai partiti, fa sparire la delega della rappresentanza. Tra l’altro la legge elettorale dovrebbe essere una legge costituzionale e non ordinaria per evitare i pasticci ai quali abbiamo spesso assistito».

L’altra vicenda riguarda il bicameralismo che per il presidente Casavola va abolito, una questione che risale ai tempi della Costituente quando «le sinistre volevano un Parlamento monocamerale, contro la parte più conservatrice dell’Assemblea con la motivazione che il Senato sarebbe stato una Camera di “ripensamento”, sul modello francese. È assurdo pensare oggi a un Senato federale, considerati i poteri legislativi che il Titolo V ha delegato alle Regioni». Ma Casavola, parlando di riforme, ci tiene anche ricordare quella della giustizia che «non si può ridurre alla separazione delle carriere tra inquirenti e giudicanti, ma deve unificare tutte le giurisdizioni, come proponeva già la Costituente».

otto il sole del costituzionalismo ci sono tutti i modelli possibili di buona e sana costituzione con relative forme di Stato e governo, fatta eccezione per il modello Frankenstein. Una classe dirigente che si accinge a riformare le proprie istituzioni non ha altro da fare che scegliere: ci si può orientare per il“modello tedesco”- cancellierato - o per il“modello francese” - semipresidenzialismo - o anche per il “modello americano”- presidenzialismo - e fare qualche piccola ancorché irrilevante modifica. Nel passato della storia europea, ad esempio, le costituzioni venivano regolarmente copiate e adattate. Insomma, la cosa più semplice e saggia che una buona classe dirigente deve fare è quella di riprendere modelli istituzionali già esistenti e operanti. In questo modo una buona riforma istituzionale e costituzionale si può fare - come una volta disse esagerando, ma solo per mostrare la concretezza delle sue ragioni, Giovanni Sartori - in tre giorni. Ma siamo in Italia e le cose semplici e sagge alla classe dirigente in carica non piacciono e così non si sceglie un modello tra quelli indicati, ma si lavora per il quarto modello (im)possibile: il modello Frankenstein. Come mai?

S

Il motivo è abbastanza semplice: perché si scrive riforma istituzionale ma si legge riforma elettorale. I partiti, in questo caso il Pdl berlusconiano, pensano la riforma non a partire dall’Italia ma a partire da se stessi e quindi si preoccupano principalmente di costruire un modello istituzionale che stia loro indosso come se fosse il vestito della domenica. Il caso della storpiatura del “modello francese”è più che indicativo: in Francia c’è una legge elettorale a doppio turno, ma una volta che il modello transalpino varca le Alpi e arriva a Roma ecco che il doppio turno diventa turno unico e - ciliegina sulla torta berlusconiana - Parlamento, presidenza della Repubblica e governo sono eletti tutti insieme appassionatamente. Una regola a dir poco mostruosa perché stravolge il sistema francese e, ciò che realmente conta, sfregia fino a vanificarla la regola costituzionale di Montesquieu inscritta in quel modello: ossia la divisione dei poteri per poterli così limitare. Vanamente Rocco Buttiglione fa presente: «Sento parlare di tornate elettorali uniche, plebiscitarie, in cui si eleggano insieme tutti gli organi politici e istituzionali. Questo non è possibile perché l’equilibrio dei poteri in democrazia è fondamentale». E qui nasce il secondo problema: il governo Berlusconi, cioè Berlusconi, vuole o no le riforme istituzionali? Riformare il sistema istituzionale con i voti della sola maggioranza di governo è una strada tecnicamente possibile ma politicamente sconsigliabile. Le riforme, infatti, servirebbero per risolvere problemi politici e ridare al Paese istituzioni più moderne, ma se dovessero invece generare un clima politico e sociale non sereno sarebbe meglio lasciar perdere. La maggioranza di governo, che pure a volte si dice pronta a fare da sé, lo sa bene e ciò che le interessa è semplicemente far apparire che la minoranza esercitando il suo potere di veto rende impossibile le riforme. Su questo tasto il Paese è fermo ormai da quindici anni e passa e non è un caso se l’unica riforma fatta è quella della legge elettorale a cui si dovette metter mano necessariamente dopo il referendum Segni, prima con il Mattarellum e poi con il Porcellum. Che, come si sa, riguardano sempre il modello Frankenstein come espressione dell’antico male partitocratico.


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VALERIO ONIDA

3 «Vogliono solo sbarazzarsi del Quirinale»

«Il disegno è chiaro: lasciare un unico potere senza contrappesi. Confido nel referendum» di Errico Novi

ROMA. Certo che si corre il ri-

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CESARE MIRABELLI

«Il modello francese non è a turno unico» «L’obiettivo resta quello di rafforzare i poteri del capo dell’esecutivo. Per esempio, con il Cancellierato...» di Francesco Capozza

ROMA. Modello tedesco o modello francese? A sparigliare le carte a chi è impegnato in questo dibattito è stato ancora una volta Gianfranco Fini. «Non è detto che l’Italia debba per forza ispirarsi a un modello istituzionale straniero, ma potrebbe inventarne uno tutto proprio» ha detto ipotizzando di fatto una strada in salsa tricolore. «Non so se il modello francese sia il migliore per il nostro Paese, potremmo anche dar vita a un sistema tutto italiano. Al di là delle scelte, dobbiamo stare attenti al principio che dobbiamo garantire, perché una democrazia risponde a due fattori, quello rappresentativo e quello governante». In parte d’accordo con la terza carica dello Stato si dice il presidente emerito della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli, ma con qualche significativo distinguo. «Di riforme costituzionali si parla da trent’anni nel nostro Paese - ci dice Mirabelli - tuttavia, se questa fosse la volta buona, direi che non si potrebbe prescindere da un obiettivo: un rafforzamento significativo dei poteri del capo del governo bilanciato da una maggiore funzionalità del parlamento». Di “modello italiano”, comunque, Mirabelli non si sen-

te di parlare, «bisogna vedere cosa si intende per “sistema italiano”. A mio avviso ci sono peculiarità nel sistema tedesco che si attagliano perfettamente anche al nostro Paese, tanto più da quando la riforma del titolo V della Costituzione ha rafforzato i poteri delle Regioni». E alla Germania guarda con interesse anche rispetto alla figura del cancelliere, «che ha poteri nettamente superiori a quelli del nostro presidente del Consiglio» ma che è comunque vincolato ad una «sostanziale designazione parlamentare». Al costituzionalista non sfugge infatti che l’obiettivo principale di Berlusconi è quello di aumentare i poteri del capo dell’esecutivo, che sia il premier o il presidente della Repubblica. «Che si pensi al semipresidenzialismo alla francese, al presidenzialismo all’americana, al premierato britannico o al cancellierato tedesco poco importa» la cosa fondamentale, precisa, è che ci si impegni tutti a sedersi a un tavolo aperto per «cancellare molte cose dalla lavagna». Insomma, se si chiede a Mirabelli quale potrebbero essere le originalità di un “sistema italiano” non esita ad elencare ciò che ritiene indispen-

sabile: «Favorire un maggiore raccordo tra Stato e Regioni; un più efficiente funzionamento del Parlamento; un rafforzamento dei poteri del capo dell’esecutivo e una forma più tempestiva per la ricezione delle normative comunitarie».

Tutto questo senza dimenticare di mettere mano anche ai regolamenti parlamentari «per migliorare e velocizzare il lavoro d’aula e di commissione» e alla legge elettorale «che con le liste bloccate crea di fatto un potere legislativo in mano a dei nominati». In merito poi al dibattito sul semipresidenzialismo che accende gli animi dei due fondatori del Pdl, l’uno - Berlusconi favorevole al turno unico, l’altro - Fini - strenuo sostenitore del doppio turno, Mirabelli ha le idee chiare: «Mi risulta difficile pensare a un modello “alla francese”portato in Italia come tale e poi depauperato del doppio turno». Oltre ad essere elemento ondamentale del “modello francese”il doppio turno si basa «sul fattore scelta personale al primo turno e scelta ideale al secondo, agevolando nella seconda chiamata alle urne un fenomeno aggregativo del tutto peculiare». Su un altro punto Mirabelli è chiaro: «Le riforme istituzionali non si fanno contro qualcosa, ma per qualcosa. Quel qualcosa è rendere più moderno il Paese».

schio di produrre un sistema deforme: se l’obiettivo, dice Valerio Onida, è «abolire semplicemente il Capo dello Stato e gli altri organi di garanzia» si finirà sicuramente per prendere qualche preesistente modello e stravolgerlo. Magari si metterà mano proprio al sistema francese stralciandone il “dettaglio”del doppio turno: «Che non è un dettaglio», puntualizza il presidente emerito della Consulta e professore di Giustizia costituzionale dell’università di Milano. Il pericolo di partorire una riforma-frankestein dunque esiste davvero? Mi chiedo se sia il caso di chiamarla riforma. A me pare che ci si ponga solo un obiettivo: eliminare il Quirinale. Tutte le informazioni che abbiamo portano a questa conclusione: si vuole abolire il Capo dello Stato nel senso che si intende cancellare il rappresentante dell’unità del sistema. È una stroncatura senza appello. Ma i fatti sono quelli: se si procedesse lungo la strada tracciata in questi giorni resterebbe un unico potere, che non avrebbe più accanto a sé il presidente della Repubblica e che sarebbe il dominus di tutto: dell’Esecutivo, del Parlamento, della maggioranza. Forse il “vizio”principale è nella proiezione delle attese della maggioranza su un sistema preesistente, quello francese, da cui però si eliminano le parti sgradite. Il doppio turno non è un dettaglio: chi è eletto al ballottaggio deve avere una maggioranza del 50 per cento più uno, con il turno unico basta il 35 per cento dei consensi. Vero: si fa confusione tra il premio di maggioranza parlamentare, che almeno si spalma su una coalizione, e quello “presidenziale”, che attribuisce a una minoranza l’unico “seggio”in palio. E poi la storia francese è diver-

sa: c’è un’altro modello di pubblica amministrazione, c’è un Consiglio di Stato più potente del nostro. L’attuale maggioranza non può certo lamentare un deficit di strumenti per l’Esecutivo: pensiamo alla decretazione d’urgenza, alle leggi delega. Semplicemente vuole eliminare la coabitazione con un altro organo che ha funzione di garanzia. Che la coabitazione sia un problema da scongiurare lo dice in modo esplicito, per esempio, il presidente del Senato. Ecco, appunto: si vuole un solo potere, stringi stringi è quello. Troppo tempo disponibile può indurre la tentazione di sperimentare soluzioni ingarbugliate? Certo, è già avvenuto nel 2005. Mi auguro che il Paese sia sensibile alla questione e faccia una scelta chiara all’eventuale referendum, in difesa di un sistema equilibrato. È la storia stessa delle costituzioni a privilegiare il principio dei poteri contrapposti: il potere arresta il potere, spiega Montesquieu. Qui invece si vuole indebolire anche la Corte costituzionale, considerata un impaccio al pari del Quirinale. Spero che gli elettori abbiano chiara la posta in gioco. Si potrebbe obiettare: anziché pensare già al referendum, l’opposizione dovrebbe fare una sua proposta di riforma del sistema. È chiaro che ci sono interventi praticabili: ma quelli sono già nella bozza Violante, o nelle 44 proposte elaborate dal gruppo di studio di Astrid guidato da Manzella. Bisogna capire se ci sono motivi reali di modifica della Costituzione attuale: possono esserlo i malfunzionamenti nel sistema dei decreti, i regolamenti parlamentari, anche la diversa funzione del Senato, che può diventare effettivamente il luogo dove le autonomie vengono portare al “centro”. Ma qui si vuole semplicemente ridisegnare un sistema senza contrappesi e, soprattutto, senza la garanzia che oggi il presidente della Repubblica assicura.


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Trionfalismi. È sempre guerra di posizione tra il Carroccio e il resto della maggioranza: in gioco c’è anche l’Agricoltura

Torna il Bossi pigliatutto «Vogliamo Palazzo Chigi e le banche del Nord»: la Lega alza la posta. E Schifani promette: le riforme le faremo solo in Parlamento di Marco Palombi

ROMA. Al primo piano di Montecitorio le tre più alte cariche dello Stato discutevano della“Giovane Costituzione”, al piano terra – chiacchierando informalmente coi giornalisti – Umberto Bossi all’ingrosso la riformava dalle fondamenta e, già che c’era, rivendicava pure la proprietà di quel che resta della Repubblica. Una sorta di fotografia della realtà. Secondo i principali Tg e buona parte della stampa, infatti, le elezioni le ha vinte Silvio Berlusconi, nella realtà invece le regionali le ha vinte la Lega che infatti adesso presenta il conto. Ieri sera, per dire, mentre Gianfranco Fini ancora aspetta una telefonata dal premier, s’è tenuta l’ennesima cena a casa del premier per tentare di convincere i lumbard almeno a rinunciare al ministero dell’Agricoltura. Bossi, comunque, in mattinata non era stato avaro di parole e ha così delineato il futuro prossimo venturo: semipresidenziali-

Occorre cogliere l’occasione di tre anni senza sfide elettorali e (forse) senza scontri frontali

È l’ultimo treno per il futuro. Non bisogna perderlo di Marco Respinti Le riforme istituzionali andranno del resto fatte con il consenso più ampio possibiSe Berlusconi si lascia scappare questo le: non per uno stucchevole buonismo di ritreno, un secondo non ve ne sarà. Infatti torno, né in omaggio a uno spirito bipartialle prossime elezioni politiche Berlusco- san solo teorico, ma perché è così che si ni potrebbe anche politicamente non es- rende migliore un Paese, è così che semserci, nel qual caso pure il Popolo della li- mai si passa pure alla storia. Le riforme col colonCavalierevanno al Quirinale e fatte presto, bene e con il maggior bertà non vi sarà più, dilaniato smo tra nelli, successori solo aspiranti, correntiaepalazzo un leghista Chigi, feconsenso possibile d’italiani e di forze poquei malanni che esse provocano, rivalse, deralismo spinto,litiche consenso che delli rappresentano poiché, nonopiccolasolostante vendette e interessi di bottega l’opposizione a partire quel da che molti pensano, il concetto sogno comune piccola. In quella situazione, delche governo, niente cam- ancora esiste: non è solo la di bene uniltesto fu del 1994 con la “mitica” sua “discesa in legge somma aritmetica dei beni dei singoli, ma biamenti della elettorale, campo”verrebbe definitivamente sepolto, nemmeno giammai la federazione col può Pdl prescindere dalla realtà delpolitiche e culturali esistenti nel morto di morte seconda. e, dulcis in fundo,leleforze banche. «È Paese. chiaro – ha spiegato il Senatùr A quella “spche intale ” hanno banche più grosse del Certonostri , scapad pa un po’ il sorriso a vedere il creduto in tanti, Nord anzitutto avranno uomini politico attuale fare a gara a chi per le milioni d’italiani, e fra es-La ceto ogni livello. gente ci dice riforme venture non solo proposi anche alcuni che pure prossime noi lo “prendetevi le banche” troppo sono stati per- ne questo o quel modello istituzionale strasi per strada. Per tar- niero, ma anzitutto l’ibrido, il compromesdi che sia, se Ber- so, il pateracchio. Ecco, Berlusconi faccia lusconi vuol di- tutto ciò che è in suo potere fare affinché la grande stagione riformatrice dei prossimi tre anni non si trasformi nell’ennesima italianata di aggiustamenti, correzioni, passi indietro, mezze misure. Faccia in modo che si parli meno di modelli esteri da imitare (laddove pochi probabilmente ne capiscomostrare di no davvero, mene che meno comprendono non avere la questione gl’italiani che ascoltano) e che mai mentito si pensi invece di più a cosa è davvero utiad alcuno né le all’Italia storica e concreta, la quale, coalcuno preso in me ogni altro Paese del mondo, non assogiro, ivi compresi miglia ad alcun altro Paese del mondo. quelli che nel frattempo si sono in- Faccia insomma di tutto Berlusconi afcamminati per strade di- finché si cheti il furore un po’ talebano verse, l’occasione è d’oro, con cui si agitano ora smozzichi e sediceoltre che unica. Operi affin- simi di modelli altrui, smorzando quella ché le istituzioni riformate passione dogmatica (degna davvero di modernizzino un Paese tal- ben altre cause di cui la politica dovrebbe, volta imbarazzante, agendo come invece non fa, vivere) con cui ci si sempre dentro l’unico quadro accapiglia a litigare di turni, doppi turni, di riferimento che può battere mezzi turni e turni di riposo. Faccia qualil malaffare, il malcostu- cosa, cioè Berlusconi, ma anzitutto e some e il malgoverno: prattutto faccia le riforme. Tre anni bastaStato più leggero, fisco no, basta volerlo. Potrebbe infatti essere meno contundente, bu- persino l’inizio dell’agognata riconciliarocrazia potata, libertà zione, vera, nazionale, da troppo tempo vestita dei panni di Godot. d’intrapresa. segue dalla prima

Quindici anni fa Berlusconi scese in politica per cambiare il Paese: fin qui ha fallito e dopo questa non ci saranno altre possibilità

faremo». Adesso non è chiaro che tipo di gente dica al Carroccio di prendersi gli istituti di credito – certi appetiti portarono già una discreta jella alla sinistra pro-Unipol – comunque la Lega ha già cominciato a portarsi avanti piazzando i suoi uomini un po’ dappertutto attraverso le nomine spettanti agli enti locali o appropriandosi di quelli che ci sono già ma hanno bisogno di nuovi padrini politici: si va da quelli nominati nella fondazione Crt, tra i maggiori azionisti di Unicredit (e il cui presidente, Fabrizio Palenzona, è da tempo in marcia d’avvicinamento al Carroccio) ai vertici di Cariverona e della Popolare di Milano. Ne manca qualcuna, certo, ma buone notizie arriveranno a breve: le banche di credito cooperativo veneto, la Popolare di Vicenza e Veneto Banca già nel mirino del nuovo doge Luca Zaia e poi, ovviamente, Intesa San Paolo, al cui assalto si andrà – forti della vittoria di Roberto Cota – attraverso i nuovi assetti della Compagnia di San Paolo e pure della lombarda Cariplo, che conta di per sé e pure in quanto azionista di Sant’Intesa.Vecchia politica, fatta da gente che non ha paura del potere e dei soldi, anche se le precedenti esperienze finanziarie dei leghisti non è che inducano all’ottimismo: ci si riferisce a Credieuronord, la banca leghista fallita miseramente dopo un tentativo di salvataggio del vituperato Gianpiero Fiorani, che tentò di inglobarne i debiti nella pancia della Popolare di Lodi.

Quanto alle riforme la faccenda appare ancora in alto mare, nonostante la girandola di incontri di Roberto Calderoli, proseguita ieri sottoponendo la sua famigerata bozza alla trimurti del Pdl. La parte del poliziotto buono, invece, è toccata a Renato Schifani: «Le riforme devono essere supportate da un’azione politica autorevole, credibile e devono essere connotate dal raggiungimento di una larga maggioranza che non può e non deve essere soltanto quella delle forze politiche che sono attualmente al governo», pena il loro «naufragio». Il presidente del Senato ha sostenuto che palazzo Madama non può diventare una «Camera di serie B»: «Il Senato potrà essere federale, ma il governo deve essere condizionato dalle sue decisioni» e la maggioranza che lo guiderà «dovrà essere una maggioranza politica». Nel centrodestra, insomma, la situazione è confusa assai e questo senza contare che non è ancora chiaro quale sia il ruolo di Gianfranco Fini: il presidente della Camera è stato finora emarginato da Berlusconi e la sua


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«L’Italia non è una cavia»

Pombeni: «Non si può procedere per espedienti. Ispiriamoci davvero al modello francese» di Franco Insardà

ROMA. «Quando si tratta di materie delicate, fossero la salute dell’uomo o Costituzioni, si devono evitare gli esperimenti se si fanno soltanto per vedere gli effetti che producono». Di fronte agli apprendisti stregoni del Palazzo il politologo Paolo Pombeni appare a dir poco scettico. Perché teme gli esperimenti? Gli esperimenti possono essere di due tipi. In medicina, per esempio, ci sono quelli che si fanno con tutte le cautele necessarie per il progresso e il benessere reale degli ammalati e quelli che fanno gli scienziati pazzi, a cominciare da quelli che lavoravano nei campi di concentramento, tanto per vedere come va a finire. Invece? Bisogna spiegare perché si fa una determinata cosa e che cosa si vuole ottenere in concreto. Tenendo conto delle condizioni e commisurando, come per le cure mediche, l’intervento allo stato di salute del paziente. Ciò che fa bene a un soggetto potrebbe essere fatale per un altro. Abbandonando le metafore mediche che cosa bisogna fare? Delle proposte che tengano conto della nazione italiana e non di quello che in qualsiasi irritazione continua a crescere come pure gli attacchi – diretti o per interposta persona – di cui è fatto oggetto dai berluscones in Parlamento o nella stampa. L’ex leader di An dovrebbe incontrare il Cavaliere oggi o domani ed è intenzionato a chiedere un ruolo politico adeguato a quello che ritiene essere il suo status: il premier, d’altronde, oscilla tra la volontà di blandire il

stato del mondo potrebbe funzionare. Abbiamo una storia, dei condizionamenti e delle realtà: tutti elementi da tenere presenti. Siamo un Paese a bassa coesione civile, nel quale facciamo fatica a dialogare, che ha bisogno di poter competere in Europa e di una classe politica che sia portata più alla costruzione che al confronto-scontro. Questo momento storico rappresenta un’occasione da non perdere per riformare le istituzioni? Non dovrebbe essere persa quest’occasione perché il Paese ha assolutamente bisogno di riforme. Per farle, però, c’è bisogno di una dose di idealismo e qui vedo delle difficoltà. Non c’è il rischio che si faccia un pasticcio all’italiana? Questo è il rischio che hanno corso tutti i tentativi di riformare le istituzioni fatti finora e che, purtroppo, non hanno portato a nulla. Perché? Per un approccio sbagliato, nel senso che ci si mette di traverso quando la riforma è proposta da una parte politica avversa. Che cosa propone?

Ho una mia idea molto chiara che supera questo impasse dovuto alla contrapposizione sterile tra le parti. È sbagliato pensare di arrivare alle riforme istituzionali partendo da un dibattito parlamentare e di tipo politico. Allora chi dovrebbe fare le riforme? Bisognerebbe copiare in positivo un modello straniero che è quello della riforma della Quinta Repubblica francese. Si metta cioè insieme una commissione seria, formata da cinque-sette persone auto-

credibili. Non si può pensare di approvare un progetto di riforma a maggioranza nel quale il perdente pensi di essere stato imbrogliato, senza poi sottovalutare il passaggio referendario. Con quali conseguenze? Si rischierebbe di scardinare definitivamente la convivenza civile in questo Paese, perché inevitabilmente si arriverebbe a una battaglia tra il bene e il male. La non condivisione delle riforme è una scelta molto irresponsabile. L’accordo sulle riforme è molto importante non soltanto per farle passare, ma per farle diventare operative. In che senso? Non è sufficiente scrivere le leggi, occorre che in qualche misura entrino nel vissuto della gente. Vorrei ricordare che l’attuale Costituzione ha impiegato una decina d’anni per diventare materia condivisa. È sufficiente guardare alla storia italiana dal 1948 al 1956, quando ci fu il famoso disgelo costituzionale e l’elezione di Gronchi, per rendersi conto di questa cosa. Prima pezzi dello Stato non avevano in alcuna considerazione il nuovo clima politico e come dovesse essere applicata la Costituzione. E in al-

Le riforme devono essere condivise altrimenti si rischia di scardinare la convivenza civile del Paese

revoli, riconosciute dall’opinione pubblica al di sopra delle beghe di partito e competenti per la materia. Questa commissione dovrà avere il compito di elaborare una bozza di riforma sulla quale svolgere un dibattito politico. Potrebbe funzionare? In questo modo non ci sarebbe il sospetto che un partito voglia fregare il suo avversario. Le riforme bisogna condividerle, altrimenti non sono

cofondatore e quella di cancellarlo dalla geografia politica. Al momento se vincerà il diavoletto buono o quello cattivo lo sa solo Dio.

Quanto all’opposizione, vista la situazione, non ha granché da fare. Pierluigi Bersani ha ribadito ancora ieri che la bozza Calderoli «è impotabile» e che «è curioso che Bossi voglia mantenere una legge eletto-

Ieri sera Bossi e Berlusconi hanno cenato insieme per discutere di riforme e del ministro dell’Agricoltura. Sopra, il politologo Paolo Pombeni. Nella pagina a fianco, Bersani

rale definita “porcata”dal suo stesso estensore». Il segretario del Pd, però, ha i suoi problemi anche in casa: la minoranza franceschiniana spinge perché il partito faccia una sua proposta ufficiale, con delle aperture, sulle riforme istituzionali, mentre i vincitori del congresso sono arroccati attorno alla bozza Violante (poteri del premier, Senato federale, diminuzione dei parlamentari). Anche

cuni settori minori questo atteggiamento è continuato per molto tempo. Tutto questo va tenuto in considerazione. In queste ore, però, c’è la corsa a chi la spara più grossa. Tutti questi annunci sono indice della cultura della classe politica che fa fatica a distinguere tra proposte serie e boutade elettorali. Il rischio vero è che si producano dei pastrocchi e dei colpi di mano soprattutto su un terreno come quello della riforma elettorale, che non è materia costituzionale, e che potrebbe essere approvata, come è già successo per il passato a colpi di maggioranza. È un terreno molto scivoloso sul quale inviterei ad andare cauti. Da più parti si sottolinea l’importanza del momento, vista la tregua elettorale fino al 2013. A questa tregua credo poco visto soprattutto i proclami della Lega di voler conquistare Torino, Milano e Bologna, senza dimenticare il problema di Napoli. Quando si apre una battaglia simbolica di questo tipo pensare di essere in un periodo di tregua elettorale è come credere alle fate. Il timore è che tutto venga macinato in questo terrificante teatrino, se dovesse accadere le conseguenze non saranno liete.

sulla giustizia è maretta, ma a parti invertite: il responsabile giustizia Andrea Orlando ha avanzato cinque proposte per una riforma alla maggioranza, finendo nel mirino di veltroniani e “partito dei giudici”. Ieri, ennesima puntata. Oltre cento deputati hanno firmato un documento a sostegno di Orlando: le sue posizioni sono condivise nel partito e meritano rispetto, scrivono.


diario

pagina 6 • 15 aprile 2010

Afghanistan. Il ministro Franco Frattini interviene sulla vicenda Emergency davanti alle comissioni Esteri

Presto libero uno dei medici?

Berlusconi scrive a Karzai: «Ora vogliamo delle risposte concrete» entre cresce la solidarietà verso i tre arrestati di Emergency, la diplomazia italiana si muove e il ministro Frattini ha risposto davanti al Parlamento. Le accuse stanno perdendo consistenza, come aveva già anticipato liberal. Ma resta la questione politica, cioè su come un’organizzazione umanitaria possa e debba muoversi in teatri di guerra. E su quanto sia utile per la meritoria attività d’intervento sanitario, la “battaglia” politica che Gino Strada non ha mai nascosto di voler condurre. In luoghi dove il bene è il “meno peggio”, gridare il “re è nudo” può diventare tanto inutile quanto pericoloso. I tre membri dell’ong Emergency, arrestati sabato scorso, nell’ospedale di Lashkar Gah sono ancora nella provincia di Helmand e potrebbero essere trasferiti a Kabul all’inizio della prossima settimana.

M

Lo ha riferito il ministro degli Esteri Franco Frattini nella sua audizione di ieri alle commissioni Esteri riunite di Camera e Senato, in cui ha anche precisato che uno dei tre potrebbe essere rilasciato a breve se non emergessero prove a suo carico. «La prima fase della vicenda – ha affermato Frattini - si potrebbe concludere questa settimana e i tre potrebbero essere trasferiti a Kabul all’inizio della prossima settimana». Inoltre, ha precisato il ministro, «qualora non risultassero elementi di prova sul suo conto, uno dei tre potrebbe essere rimesso in libertà». Il ministro ha anche

di Pierre Chiartano

sto, in una prima fase, l’esecuzione di un attentato contro civili, e in una seconda un attentato suicida contro il governatore provinciale di Helmand, durante una visita organizzata nell’ospedale di Emergency. I tre non sono stati comunque «incriminati», ha precisato il ministro. Ieri è stata anche recapitata una lettera del premier Silvio Berlusconi al presidente dell’Afghanistan Hamid Karzai. L’inviato del ministro degli Esteri Frattini, Attilio Iannucci, in arrivo a Kabul, ha conse-

Il titolare delle Farnesina cambia stretagia e attacca: «Non sono soddisfatto della risposta che abbiamo ricevuto dalle autorità afghane» espresso disappunto per la scarsa collaborazione che verrebbe dal governo di Kabul. «Non sono soddisfatto della risposta che abbiamo ricevuto finora dalle autorità afghane». «Noi vogliamo conoscere la configurazione dell’accusa che viene mossa ai nostri connazionali», ha concluso Frattini. I tre italiani sono stati «accusati di detenzione consapevole di esplosivi e di armi da guerra», e di «essere coinvolti in un complotto in due fasi», ha spiegato Frattini. Una cospirazione che avrebbe previ-

gnato – riferiscono fonti diplomatiche italiane – una missiva del presidente del Consiglio italiano, insieme ad un «messaggio personale» del ministro Frattini. Non sono stati resi noti i dettagli del messaggio.

Intanto Emergency ha designato l’avvocato Afzal Nooristani, come difensore dei tre italiani. Nooristani, che è molto conosciuto negli ambienti delle organizzazioni di difesa dei diritti umani, si è riservato di accettare, volendo prima

Le accuse del giornalista di Peacereporter

Garatti il mediatore C’è un elemento che accomuna l’arresto dei tre operatori sanitari ancora prigionieri in Afghanistan e il sequestro di Gabriele Torsello avvenuto nell’ottobre 2006. Marco Garatti, il medico detenuto insieme a Matteo Dell’Aira e Matteo Pagani, aveva avuto infatti un ruolo di mediazione nella trattativa che portò quattro anni fa alla liberazione del fotoreporter italiano dopo ventitrè giorni di prigionia. L’azione del chirurgo di si Emergency, delinea con chiarezza da una relazione allegata al fascicolo che é stato aperto due giorni fa dalla procura di Roma. I tabulati telefonici stilati dai carabinieri del Ros nel corso delle indagini di allora, rivelano che fu proprio Garatti il destinatario delle chiamate effettuate da Rahmatullah Hanefi, e che lo stesso medico di Emergency si faceva carico di gi-

rare le informazioni a Gino Strada e al sito internet di Peacereporter. Intanto Gabriele Torsello lancia pesanti insinuazioni sulla partita afghana: «Se veramente avessero voluto eliminare Emergency avrebbero bombardato l’ospedale – ha fatto sapere il reporter –, magari per sbaglio, come è successo in tanti altri casi. Il punto è che c’è qualcosa che non va a Lashkar Gah. C’è qualcosa che non va nel personale, afgano o pakistano, che lavora in Emergency. E lo ha detto anche lo stesso Strada, le armi può messe averle qualcuno che lavora lì. È necessario che si facciano delle indagini per capire chi è questa persona che ha messo le armi nell’ospedale, chi manovra lì dentro». Dichiarazioni che da oggi, potrebbero rendere il negoziato tra Roma e Kabul più arduo e lungo del previsto.

parlare con le persone coinvolte. Il legale incontrerà i responsabili della diplomazia italiana che seguono il caso a Kabul, compreso il consigliere giuridico del ministro degli Esteri Frattini, Rosario Aitala. Buone notizie arrivano sulle condizioni dei tre medici arrestati. Lo hanno reso noto fonti della Farnesina dopo che l’ambasciatore a Kabul, Claudio Glaentzer, ha potuto incontrarli ieri mattina. «Li ha trovati in buono stato di salute» ha affermato una fonte della Farnesina, che ha poi precisata che «attualmente si trovano in stato di fermo presso una struttura del ministero degli Interni afgano». Gli accertamenti sono tuttora in corso, ma «l’ambasciatore ha avuto precise rassicurazioni sul fatto che le indagini possano svolgersi nella maniera più rapida e rigorosa possibile». L’ambasciata a Kabul, ha aggiunto «è in stretto contatto con la ong italiana. Lo stesso ministro Frattini segue con particolare attenzione gli sviluppi della vicenda anche attraverso contatti diretti con le più alte autorità afgane».

«È ora che chi di dovere si dia una mossa. L’Italia ha tutti i mezzi per poter dire semplicemente “consegnateci i nostri tre connazionali subito e in ottime condizioni”». Lo ha affermato ieri a Sky Tg24 il fondatore di Emergency, Gino Strada. «Questa è chiaramente una manovra politica per screditare il lavoro di Emergency. Da cittadino italiano e non da membro di Emergency – ha aggiunto il chirurgo – ritengo questa cosa molto offensiva per l’Italia. Chi dal nostro Paese riceve due milioni di euro al giorno, anche se sotto forma sbagliata, non può permettersi di trattare cittadini italiani in questo modo» ha continuato Strada, confermando poi la tendenza a far prevalere le considerazioni politiche sopra quelle umanitarie: «vogliamo renderci conto che è la prima volta che c’è una guerra internazionale e non c’è un giornalista che possa dire ai cittadini del mondo cosa sta succedendo? In qualche modo l’ospedale di Emergency funzionava come punto di osservazione». Ma agli afgani curati in quella struttura forse importava di più avere buoni medici che acuti «osservatori».


diario

15 aprile 2010 • pagina 7

La Corte respinge i ricorsi e rinvia al legislatore

Bonus per case e cucine fino a esaurimento scorte

La Consulta dice no alle coppie omosessuali

Più sconti per tutti, arrivano gli incentivi

ROMA. La Corte costituzionale

ROMA. Parte oggi l’operazione “incentivi agli acquisti” varata dal Governo. Un pacchetto di bonus da trecento milioni di euro messi sul piatto fino a esaurimento scorte per contrastare la recessione dei consumi. Nel carnet di sconti messi a disposizione dei cittadini, da consumarsi entro il 31 dicembre, beni di vario genere: motorini, elettrodomestici, cucine componibili, ma anche abbonamenti adsl. E non mancano, com’era logico attendersi in tempi di crisi, i motori da diporto. In particolare, per i motocicli ecologici euro 3 con potenza del motore sino a 70 kw, sarà possibile usufruire di un incentivo pari al 10 per cento del prezzo di acquisto, previa

ha respinto come inammissibili e infondati i ricorsi sui matrimoni tra persone dello stesso sesso. Nelle motivazioni, la Consulta fa riferimento alla discrezionalità del legislatore: i giudici fanno intendere che non è loro competenza regolamentare la questione e affermano che la trattazione della materia spetta soltanto al Parlamento. Resta da vedere - quando ci saranno le motivazioni della sentenza - se la Corte coglierà l’occasione o meno per sollecitare il legislatore a provvedere. A sollevare il caso davanti alla Consulta erano stati il tribunale di Venezia e la Corte d’appello di Trento nell’ambito di distinte cause intraprese da tre coppie omosessuali contro il rifiuto loro opposto dall’ufficiale di Stato civile dei comuni di residenza di fare le pubblicazioni matrimoniali da loro richieste. La Corte aveva iniziato ad esaminare il caso nell’udienza pubblica del 23 marzo scorso, ma aveva rinviato la decisione a dopo le festività pasquali.

I ricorsi ipotizzavano in particolare l’ingiustificata compromissione degli articoli 2 (diritti inviolabili dell’uomo), 3 (uguaglianza dei cittadini), 29 (diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio) e 117 primo comma (ordinamento comunitario e obblighi internazionali) della Costituzione. I ricorrenti, in sostanza, affermavano la non esistenza nell’ordinamento di un espresso divieto al matrimonio tra persone dello stesso sesso e lamentavano l’ingiustificata compromissione di un diritto fondamentale (quello di contrarre matrimonio) oltre che la lesione di una serie di diritti sanciti a livello comunitario. Per non parlare poi veniva fatto notare - della disparità di trattamento tra omosessuali e transessuali, visto che a questi ultimi, dopo il cambiamento di sesso, è consentito il matrimonio tra persone del loro sesso originario.

I sindaci pronti a restituire le fasce a Napolitano Protesta il 2 giugno se non s’interverrà sul patto di stabilità di Francesco Pacifico

ROMA. I sindaci sono pronti a riporre i loro tricolori nelle mani di Giorgio Napolitano. A ripetere alle celebrazioni del 2 giugno, e davanti al Quirinale per giunta, la stessa protesta contro i vincoli del patto di stabilità, iscenata una settimana fa da 500 primi cittadini della Lombardia. I quali, a onor del vero cronaca, non andarono oltre il restituire le fasce al prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi. L’idea è venuta al presidente dell’Anci, e sindaco di Torino, Sergio Chiamparino. E l’avrebbe già comunicata, sotto forma di ultimatum, a Giulio Tremonti. Se entro il 28 aprile – giorno nel quale si tiene la conferenza nazionale dell’associazione – il Tesoro non avrà aperto un tavolo sui residui in bilancio degli enti virtuosi, scatterà una protesta che più plateale non potrebbe essere. Soprattutto in una fase nella quale i rapporti tra il governo e il Colle non sono certi idilliaci. Al ministero di via XX settembre si susseguono le riunioni tra gli uffici per superare un patto di stabilità che – chiedendo agli enti di recuperare oltre 4 miliardi in questo triennio – finisce per essere molto rigido soltanto sulla parte degli investimenti e non sulla spesa corrente. Non a caso l’Anci da tempo ripete che con un atteggiamento diverso verso i comuni virtuosi si potrebbero liberare risorse pari a 11 miliardi di euro per la costruzione di scuola o di strade. Piccole opere che non a caso il settore delle costruzioni ha chiesto anche ieri per uscire dalla crisi in atto da un triennio. Dopo la manifestazione di Milano, lo stesso Tremonti si era detto disponibile a trovare una soluzione. E se in questo cambiamento non si può non notare lo zampino della Lega: Attilio Fontana, il sindaco di Varese e leader dei sindaci lombardi infatti è del Carroccio. Ma gli intenti del ministro si scontrano con i funzionari di via XX settembre, secondo i quali un alleggerimento agli enti virtuosi può essere fatto a saldo zero.

Di conseguenza l’unica soluzione è una stretta verso gli enti meno rigorosi. Minaccia che avrebbe portato alla creazione di un fronte trasversale dei sindaci del Sud, contrari alla protesta lanciata da Chiamparino. A dare l’idea di quando il problema sia sentito a livello territoriale un editoriale di Angelo Rughetti, il direttore generale dell’Anci, sul sito dell’associazione. E nel quale si legge: «Le attuali regole del patto di stabilità stanno modificando il rapporto tra spesa corrente e spesa per investimenti in peggio. La spesa per investimenti sta costantemente diminuendo. Tradotto nella vita reale dei cittadini questo vuole dire meno opere e infrastrutture, meno investimenti in mobilità, ambiente, sport, scuola, palestre, asili, scuole materne, piscine, teatri, campi di calcetto, biblioteche». Se i sindaci sono pronti a presentare il loro conto a Tremonti, ieri gli ha riservato un durissimo attacco il suo predecessore alle Finanze, Vincenzo Visco. Il quale, in qualità di presidente del centro studi Nens, non soltanto ha sottostimato allo 0,7 per cento la crescita del Pil che secondo il governo sarà nel 2010 dell’1,1, ma ha ipotizzato che il ministro sarà costretto a fare una «manovra correttiva: e se non lo farà non potrà che fare un altro condono, edilizio o un altro concordato, oppure intervenire sulla spesa sociale».

L’idea è di Chiamparino, che attende una risposta da Tremonti entro fine mese. Intanto Visco accusa: buco da dieci miliardi

È lunga la lista di errori che Visco imputa al suo successore: un aumento indebitamento netto nel 2009 di dieci miliardi rispetto alle previsioni, una crescita dell’evasione che è pari al 60 per cento di questa cifra, un crollo delle entrate di 7 miliardi nonostante condoni e una tantum. Se non bastasse lo accusa di aver presentato a Bruxelles, con la nota di aggiornamento al patto di stabilità, «dati non veri». Ma guai a parlare di pregiudizi. «Rispetto ad altri suoi colleghi ministri», ha detto Visco, «Tremonti si è comportato meglio. Ma questo non è bastato a ottenere grandi risultati e a portare l’Italia fuori dalla zona pericolo».

rottamazione di un veicolo euro 0. Per le moto elettriche o ibride il bonus sale al venti per cento (massimo di 1500 euro), e senza vincoli di rottamazione. Per gli elettrodomestici ad alta efficienza (forni, piani cottura, cucine) il contributo copre il 20 per cento del prezzo. Per le prime case ecologiche, 7mila euro per gli immobili di classe A e 5mila per quelli di classe B. In attesa di lavoro e tutele, c’è anche un premio di consolazione per gli under 30: su ogni abbonamento internet, sconto di cinquanta euro fino a fine scorte.

Golose offerte anche per chi cerca scampo dalla crisi al largo delle coste: contributo massimo di 1000 euro per gli amanti della nautica da diporto. Adiconsum avverte intanto che «nei primi giorni si concentreranno migliaia di domande di bonus. È prevedibile che i commercianti utilizzeranno gli incentivi in modo pubblicitario. Il rischio è che si acquisti il bene con la promessa del bonus, per poi scoprire, ad acquisto effettuato, che non si rientra nei benefici». Suggerita la conferma dell’acquisto, dopo aver accertato l’accoglimento della domanda di sconto da parte di Poste Italiane.


politica

pagina 8 • 15 aprile 2010

Capitali. Nel centrodestra la partita per il controllo della Capitale del Nord è ancora in alto mare. In attesa di sorprese...

La battaglia di Milano

Vacillano le azioni di Letizia Moratti e Bossi insiste: «Per il Comune, ci sono io»: la sfida per Palazzo Marino è iniziata con un anno d’anticipo di Giancarlo Galli on spiaccia ai romani, ma Milano sembra sul punto di assurgere a Capitale delle “Grandi manovre”, politiche e finanziarie, delle prossime stagioni. Le ragioni ci sono, eccome! Perché quel che accade a Milano, ammoniva il grande storico meridionale Gaetano Salvemini, finisce spesso con avere ripercussioni nazionali. Cominciamo dalla politica. Dopo l’indiscutibile successo del centrosinistra alle “regionali” (e soprattutto dell’ondata leghista al Nord), il circuito mediatico berlusconiano va sottolineando con interessato vigore un triennio di sostanziale pax elettorale, senza “chiamate alle urne”. Il che è vero solo in parte: avremo infatti il rinnovo di alcune amministrazioni fra le quali Milano; con quest’ultima destinata, a seconda dell’esito, ad assumere un particolare, e fors’anche dirompente, significato.

Letizia Moratti, Umberto Bossi e Silvio Berlusconi: tra loro si sta giocando una difficile partita a scacchi per la conquista di Palazzo Marino (in alto), luogo simbolico del grande potere milanese. Fra loro, il ruolo di guastatore potrebbe averlo Ferruccio De Bortoli, direttore del “Corriere”. A destra, Filippo Penati

N

Il “cuore politico” di Milano è Palazzo Marino, che fronteggia la Scala, universale tempio della lirica. A partire dal Dopoguerra, Milano ebbe sempre sindaci socialisti. Ultimi, Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, azzoppati dal ciclone di Manipulite, alias tangentopoli. Inaspettatamente, trascinato da un voto più emotivo che motivato, nel giu-

gno del 1993 a Palazzo Marino giunse il leghista Marco Formentini. Già socialista, brillante funzionario alla Comunità europea, s’era lasciato incantare dal “bossismo”. Più che un vero amore, un’infatuazione seguita dal disincanto: l’addio alla Lega, dopo la sconfitta patita nel 1997 col trionfo del berlusconiano Gabriele Albertini (ora eurodeputato). Un ripassino di storia può essere utile. Albertini fu eletto in contrapposizione alla

Lega, che non gli risparmiò pesanti bordate (rimasto nella memoria dei cronisti l’epiteto di “Albertina”, in quanto il neo-sindaco è uno scapolone). Poi, la riappacificazione, allorché Bossi ritrovò il feeling con il Cavaliere di Arcore, Berlusconi. Gabriele regnò per due mandati, e se le leggi l’avessero consentito, sarebbe rimasto. Entrò allora in scena donna Letizia Moratti, borghesia imprenditoriale: petrolio (la Saras), calcio (l’Inter).

Un “cambio della guardia”, maturato in Forza Italia, con bizzarri risvolti polemici. Infatti la Moratti definì «amministratore di condominio», ed il predecessore se la legò al dito. Con qualche ragione, avendo cercato di mettere ordine della civica amministrazione, strigliando i funzionari e mettendo in riga le aziende municipalizzate. Donna Letizia (eletta con una lista indipendente di centrodestra), chiarì subito che intendeva “vo-

lare alto”, ridando alla metropoli del Nord slancio e respiro internazionali. A lei, l’indubbio merito di avere propiziato la candidatura di Milano & Lombardia ad ospitare l’Expo 2015.

Senonché un sindaco, oltre a disegnare il futuro (peraltro incerto, considerato che le Esposizioni Universali si sono spesso rivelate un flop), ha da gestire il quotidiano e saper egemonizzare con maestria i vieppiù complicati equilibri partitici. Su questi terreni, Donna Letizia ha evidenziato i suoi limiti. Milano ha visto regredire la “qualità della vita”, l’efficienza dei servizi pubblici. Lo stesso Expo non incanta più, per il moltiplicarsi delle beghe sulle poltrone, il timore di gigantesche speculazioni edilizie a vantaggio dei “soliti noti” (immobiliaristi e commerciantialbergatori); le incomprensioni fra la Moratti e il potentissimo ministro Giulio Tremonti che lesina i finanziamenti. Risultato: la popolarità di Donna Letizia è in caduta verticale. Nel 2009, al ballottaggio per le provinciali, Giulio Podestà del Pdl rischiò grosso contro Filippo Penati del Pd, poiché nei collegi cittadini vi fu il sorpasso. Molti commentatori interpretarono: un segnale (negativo) lanciato alla Moratti. Due settimane fa, quasi un bis. Per le regionali, il Pdl s’è ferma-


politica

15 aprile 2010 • pagina 9

Per ora l’ex presidente della Provincia è l’unico che accetterebbe la sfida

A sinistra torna a circolare il nome di De Bortoli L’opposizione è ancora molto indietro nella scelta del suo candidato: pesano le troppe anime del Pd di Antonio Funiciello

to al 36 per cento, mentre la Lega raddoppiava, dal 7 al 14 per cento. Per Donna Letizia è suonata la campana?

Martini, apprezzato dall’attuale cardinale arcivescovo Dionigi Tettamanzi. Accadesse, Donna letizia rischierebbe grosso.

Umberto Bossi, gran teatrante, butta là: nel 2011 potrei correre per Palazzo Marino… È una battuta, ma i media ci inzuppano; la sindachessa prende cappello, mobilitando fuori stagione sondaggisti che annunciano: il 55 per cento dei milanesi è “ancora con lei”. C’è da credervi? Bossi se la ride. Fa sapere che il Carroccio s’accontenta, si fa per dire, dello scranno di

C’è di più, così passando al secondo pentolone che ribolle. Banche & Finanza. In attesa di approfondire, annotiamo. Fra le boiserie dei templi del dio Danaro, sembra essere “scoppiata la pace”. Il dominus di Banca Intesa-San Paolo, il bresciano Giovanni “Nanni” Bazoli, sino a qualche stagione fa prodiano doc, s’è rappacificato col ministro Giulio Tremonti. Idem per il

Alle provinciali, in città ci fu il sorpasso del centrosinistra: molti parlano di un avvertimento. Ma il vero problema resta la difficile scelta del candidato. E vale per entrambi gli schieramenti vicesindaco. Togliendolo a Riccardo De Corato, ex missino ed An. Lui, da anni, tira il carretto a Palazzo Marino, ma ormai nel gran calderone del Pdl lombardo, i suoi contano come il due di picche a briscola. Per un bis di Donna Letizia, Silvio Berlusconi trancia: «Ghe pensi mi». Sui carboni ardenti la sindachessa, chi sa o dice di sapere, aggiunge: «Il centrodestra non può permettersi di perdere Milano». La riconferma o meno della Moratti è egata alla statura dell’uomo che le verrà contrapposto dal Pd. E se non sarà una scartina…». Voci. Ancora Filippo Penati, bastonato sia alle provinciali che alle regionali, o una grande sorpresa? Viene sussurrato il nome di Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera, progressista, riformista, stimato per professionalità ed onestà. Piacerebbe a molti, in entrambi gli schieramenti, soprattutto nella borghesia imprenditoriale (ha magistralmente diretto anche il Sole 24Ore), e gode della stima degli ambienti cattolici. È vicino all’indimenticabile cardinal Carlo Maria

potentissimo Giuseppe Guazzetti, comasco, padre-padrone delle Fondazioni bancarie. Gli smaliziati sostengono la tesi di “alleanze di comodo”. Nel senso che, scontato un triennio di berlusconismo, con Tremonti ci si dovrà intendere. (Essendo i banchieri “governativi per definizione”, come sostenevano Raffaele Mattioli in epoca fascista ed Enrico Cuccia in era democristiana). Tanto più se, con Berlusconi al Quirinale, Tremonti dovesse andare a Palazzo Chigi, godendo pure dell’appoggio della lega. Poiché Giulio da Sondrio, è oltretutto l’anello di congiunzione fra Silvio ed Umberto. Fra il dire e il fare, vi son di mezzo molte cose. Restando coi piedi per terra (ed i lumbard sono estremamente pragmatici), il primo scoglio da superare sono le elezioni per il comune di Milano della primavera 2011. E se qui si verificassero “convergenze”su un candidato in qualche misura super partes? Sonni tutt’altro che tranquilli, dunque, per Donna Letizia, che rischia di aver ballato una sola stagione.

ROMA. I numeri con cui fa i conti il Pd milanese in vista delle comunali del prossimo anno sono chiari. Alle regionali del 2005 tra Formigoni (candidato del centrodestra) e Sarfatti (candidato del centrosinistra) il distacco era stato di soli 14mila voti nel voto in città. Alle comunali del 2006 s’era passati (Letizia Moratti contro il prefetto di centrosinistra Ferrante) a 35mila voti di scarto. Alle provinciali dell’anno scorso in città Penati aveva scontato un ritardo di 47mila voti su Podestà; ritardo rimasto sostanzialmente invariato, a danno del coordinatore della segreteria di Bersani, alle ultime regionali. Morale della favola: malgrado Penati voglia candidarsi per fare il sindaco della città, i dati segnalano che o il Pd è capace di guardare fuori di sé o per le prossime comunali non c’è partita. Malgrado la Moratti goda di un diffuso malcontento dentro e fuori i confini del centrodestra, come segnala l’intemerata leghista che vagheggia la candidatura sindacale di Umberto Bossi, il centrosinistra non è in grado da solo di riuscire competitivo. Già nel 2006, quando Ds e Margherita finirono per orientarsi sul prefetto meneghino, la situazione che fotografano i numeri appena riportati era ben nota. Si cominciò così a parlare dell’outsider di lusso Ferruccio De Bortoli, milanese doc e all’epoca direttore del Sole24Ore, ma ex Corriere della Sera dimessosi dopo lunghe pressioni sul gruppo Rcs dell’allora premier Berlusconi. Un nome che unisse la città intorno a un progetto di rilancio della stessa, dopo l’opaca gestione Albertini, all’insegna della milanesità e oltre gli steccati dei due logori vecchi partiti. Fassino e Rutelli puntarono, però, sul leccese Ferrante e le cose andarono come andarono. Ma in città restò forte la percezione che Letizia Moratti fosse un candidato battibile per un centrosinistra capace di depoliticizzare la corsa a Palazzo Marino e rimescolarsi abbracciando la candidatura De Bortoli. E, difatti, in vista del voto comunale dell’anno prossimo, a Milano non si fa che parlare d’altro, producendo più di un malumore dentro il Pd. Le possibilità che la candidatura De Bortoli vada in porto restano poche. Anzitutto perché, malgrado una malcelata disponibilità del direttore del Corsera, non è ancora chiaro se quel pezzo significativo di borghesia milanese, stanca del centrosinistra ma critica verso la Moratti, sia disponibile o meno a prendere in mano le redini del gioco. In uno slancio di protagonismo che, per altro,

difficilmente potrebbe rimanere relegato al solo capoluogo lombardo. Soprattutto nel caso in cui dovesse poi riuscire vincente. Le difficoltà dell’operazione aumentano se commisurate al livello di litigiosità interna al Pd, dopo l’ennesima sconfitta elettorale accorsa alle regionali e inacidita dalla storica disfatta in quel di Mantova. Penati vuole candidarsi e considera la recente missione impossibile contro Formigoni un sacrificio compiuto per il bene del

Molti continuano a sognare la discesa in campo del direttore del “Corriere della Sera”. Ma c’è anche chi punta tutto sul ricambio generazionale e indica il giovane Giuseppe Civati partito, in cambio dell’unità dello stesso nella corsa per il comune. Bersani è d’accordo (mentre D’Alema non vede l’automatismo), ma i problemi per Penati vengono dal vertice cittadino del Pd, per lo più scettico nei confronti di questa ipotesi.

Non che il Pd abbia molte cartucce da sparare. Il nome del capogruppo comunale Pierfrancesco Majorino, nipote del poeta e scrittore lui stesso, pare avere poche chance. Le stesse velleità dell’altro giovane di cui si vocifera, il consigliere regionale Civati, sono destinate a restare insoddisfatte. Civati è poi di Monza e Milano non è Roma, dove il Pd può candidare presidente della regione una piemontese di Bra (Cuneo) come se niente fosse. Altra storia per il nome di Barbara Pollastrini, dirigente storica della sinistra milanese e moglie di Pietro Modiano, che fu tra i pochi ministri del secondo governo Prodi a mettersi in mostra. La strada è tutta in salita. E visto il trattamento che riserva il giornale di via Solferino al Pd e al suo segretario negli ultimi tempi, promette di aumentare la sua percentuale di ripidezza.


panorama

pagina 10 • 15 aprile 2010

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Gianni Brera, il giardiniere della lingua uando si introduce l’argomento “letteratura e sport”salta fuori inevitabilmente il nome di Gianni Brera. Solitamente si sente dire che il Gioann Brera non è stato solo un grande giornalista, ma anche uno scrittore e, soprattutto, ha inventato un genere con una serie non piccola di neologismi e di definizioni, la più famosa di tutte è quella di Gianni Rivera detto l’Abatino. Più o meno, son cose tutte vere. Pare che Indro Montanelli disse di lui e della sua lingua: «Piegava alle sue esigenze la lingua italiana come fa un giardiniere con i cespugli di rose» (ricavo questa osservazione di Montanelli dalla biografia di Gianni Brera scritta da Paolo Brera e Claudio Rinaldi, Gioann Brera, pubblicata nel 2004 da Boroli). Ma non voglio invitarvi a leggere questo libro, quanto a leggere proprio i libri di lui, del Gran Lombardo. Già, ma come si può fare? Dove pescarli?

Q

La casa editrice Book Time sta ripubblicando l’opera di Brera e leggerla o rileggerla - perché se non avete mai letto un libro del direttore della Gazzetta dello Sport avrete senz’altro letto qualche articolo o lo avrete ascoltato in tivù, anche se è passato ormai tanto di quel tempo - è un vero piacere oltre che un esercizio interessante per conoscere il nostro Paese e come è cambiato o è rimasto sempre lo stesso. Ad oggi sono disponibili sette testi: Coppi e il diavolo; Il mestiere del calciatore, I campioni vi insegnano il calcio; La ballata del pugile suonato; Il mio vescovo e le animalesse; Il corpo della ragassa; L’abatino Berruti. Scritti sull’atletica leggera. La lettura della pagina breriana è agevole. Forse il Gran Lombardo non dà il meglio di sé nel romanzo - la ballata, il vescovo, la ragassa sono una trilogia letteraria - ma Il corpo della ragassa, il primo romanzo scritto da Brera, è certamente un buon libro, anche se il giornalista di San Zenone Po dà il meglio di sé con la scusa del “racconto sportivo”. Il libro Coppi e il diavolo, ad esempio, inizia così: «Quando spunta il sole dietro il costone di Sant’Alosio, i pochi sparuti abitanti di Castellania vedono illuminarsi prima i torrioni sbrecciati del castello, poi, quasi di botto, la piccola valle divisa dal Rio. La terra è taccagna di argille che il sole estivo dissemina di crepe e le piogge invernali ammollano in fango spesso e tenace. Il Rio è uno stento fossatello che arriva serpeggiando alla Scrivia: il suo letto angusto e ineguale è cosparso di massi erratici levigati dai millenni. Le rive sono popolate di roveri, olmi e ontani che formano duplice filare a dividere la valle». Gianni Brera scrisse un libro su Coppi parlando del Campionissimo con realismo e al contempo poesia epica, ma soprattutto vide in Coppi una sorta di “suo doppio” o il suo avatar. Il libro, infatti, uscì nel 1981 ma era il rifacimento di un altro testi di Brera, Io, Coppi, che aveva scritto intervistando il grande ciclista nei posti più disparati: in villa da Coppi, in automobile, nel suo appartamento di Milano.

Il “dottorino delle Acli” compie novant’anni Gli auguri del presidente della Repubblica a Emilio Colombo di Gabriella Mecucci l “dottorino”delle Acli entrò per la prima volta alla Camera a 26 anni nel 1946: Emilio Colombo, giovanissimo, faccia un po’ sperduta, gli eterni occhiali con montatura di metallo, «dritto come un manico d’ombrello, la voce tersa come la brina» diventò parlamentare democristiano con una inaspettata valanga di preferenze: più di 26mila nella piccola Potenza. Inziarono così i suoi 64 anni di vita politica ad altissimo livello.

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Era un uomo del Sud che amava il Sud, quel giovanotto religiosissimo e impegnato nel sociale che sbarcò a Roma dalla poverissima Lucania. E alla sua terra è rimasto sempre molto legato: non ha mai smesso di farsi eleggere lì e di ritornarvi tutte le volte che poteva, anche quando era diventato uno dei politici più importanti d’Italia. Di questa passione per il Mezzogiorno si sono ricordati tutti, a partire dal Presidente della Repubblica, nel fargli i loro auguri per il novantesimo compleanno. Sulle sue capacità avevano scommesso in molti a partire da Pio XII. Colombo, che era il leader della Gioventù italiana di Azione Cattolica, voleva lasciare quell’incarico, ma fu il Papa in persona a chiedergli di restare. E al Pontefice un cattolico convinto come lui non poteva dire di no. Restò, dunque, e proseguì anche il cursus honorum politico. Un’investitura papale non è poco, ma anche sul fronte laico, il giovane Emilio trovò chi lo apprezzava: «Quel Colombo volerà», disse di lui Vittorio Emanuele Orlando. Spinto da cotanti incoraggiamenti, il “professorino” decollò. Prima giovanissimo Costituente, poi sottosegretario e ministro dell’Agricoltura, la sua carriera arrivò ad una ulteriore, importante svolta con l’elezione di Antonio Segni alla Presidenza della Repubblica nel 1960. Fu lui infatti uno degli artefici di quel risultato. Del resto con il neo inquilino del Quirinale aveva avuto un importante rapporto in passato: era stato uno dei suoi principali collaboratori in occasione della riforma agraria, probabilmente l’innovazione più importante e coraggiosa che la Dc introdusse nell’Italia del dopoguerra. Ormai Colombo è diventato un uomo - cardine dello scudocrociato: fra il 1963 e il 1968 fa il ministro del Tesoro, mentre al Bilancio “regna” un altro grande: Antonio Giolitti. Entrambi personaggi di gran stile, i due sono profondamente diversi: socialista di sinistra il secondo, democristiano centrista, doroteo,

amico di Forlani, di Rumor e di Piccoli il primo. Coabitazione difficile? Forse sì, anche se - a giudicare dai risultati - non si direbbe. Era quella l’epoca in cui il Financial Times ci dette «l’oscar per la moneta più forte». Al Tesoro del resto Colombo era in accoppiata con il terzo grande del momento: Guido Carli. Subito dopo Emilio Colombo diventò Presidente del Consiglio e in quella veste dovette affrontare uno dei momenti più delicati della storia italiana: la rivolta dei“boia chi molla”. Il governo aveva deciso di togliere il centro amministrativo regionale da Reggio Calabria e di assegnarlo a Catanzaro. Scoppiarono scontri violenti, e Colombo prese subito molto a cuore la vicenda. Riportò la situazione alla normalità quando annunciò che nei pressi di Reggio sarebbe stato costruito un grande centro siderurgico che avrebbe dato lavoro a 10mila persone. Dopo queste difficili ed anche esaltanti esperienze, Colombo si dedicò alle grandi questioni internazionali e in particolare all’Europa: fu più volte ministro degli Esteri e parlamentare a Strasburgo, dove per due anni, fra il 1977 e il’79, ha presieduto l’Assemblea.

È stato ministro del Tesoro dal 1963 al 1968 e presidente del Consiglio dal 1970 al 1972. Poi la svolta europeista

In politica estera è stato sempre chiaro e inequivocabile il suo orientamento filoatlantico, ma il suo impegno più generoso l’ha profuso nella costruzione dell’unità europea: è infatti uno dei politici italiani di più antica e fervida fede europeista. Ha vissuto con stupore ed amarezza la vicenda di Mani Pulite, tenendo fermo però il suo understatement: non facendo mai polemiche sopra le righe, ma pensando, come ha di recente dichiarato,che «la storia, quella vera, renderà merito alla Dc, capace di traghettare l’Italia oltre la catastrofe del dopoguerra e del fascismo, con il più forte partito comunista dell’Occidente, rimanendo sempre una democrazia piena e libera». Nel 2003 è stato nominato senatore a vita e nel novembre di quell’anno fu coinvolto in un’indagine sul traffico di cocaina a Roma. Ammise di aver fatto uso della sostanza per “ragioni terapeutiche”. Oggi dice: «Per quell’episodio sento di dover chiedere scusa al Paese. Sì, chiedere scusa». Una lezione di stile. Ma Colombo dà - aderisce come senatore a vita al gruppo dell’Udc - anche lezioni politiche: «La democrazia italiana corre pericoli. Vedo tendenze plebiscitarie, autoritarie e una forte accentuazione personalistica. I partiti, quelli veri sono indispensabili». Non si potrebbe dire meglio. Auguri senatore.


panorama

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Una rivista del settore rivela una “strana” abitudine: automobili vendute a marzo con contratti firmati a dicembre

Il grande affare degli incentivi Così molti venditori hanno approfittato degli aiuti di Stato anche a termini scaduti di Paolo Malagodi a voce circolava da tempo: quella di un uso quantomeno disinvolto del termine per la raccolta degli ordini di auto assistite da ecoincentivi. Nella possibilità, a termini di legge, di venire immatricolate sino a marzo di quest’anno, purché l’acquisto fosse concluso entro il 31 dicembre scorso, ma con procedure di chiusura degli elenchi limitate al rapporto tra concessionari e Case automobilistiche. Lasciando, pertanto, spazio all’eventuale introduzione di ordini raccolti anche dopo la scadenza di legge, ma comunque inseriti negli elenchi di richiesta dei bonus governativi, grazie all’apposizione sui contratti stesi in ritardo di una data formalmente inclusa nel 2009.

L

Questione sulla quale alza il velo l’ultimo numero di Interauto News - mensile specialistico diffuso tra gli operatori del settore - con la lettera di un venditore auto che, dopo un dicembre 2009 concluso da una buona raccolta di contratti con ecoincentivi, dichiara di avere inviato «nei primi giorni di gennaio la lista con i nominativi degli acquirenti alla Casa mandante». Salvo lamentare come «da due mesi a questa parte per qualcuno c’è, diciamo così, una deroga che, oltre a penalizzare le vendite mie e dei miei colleghi, può essere interpretata come frode allo Stato; con preventivi e contratti contenenti gli incentivi statali, tutti retrodatati al 31 dicembre.

Stupisce il fatto che sembra che tutti sappiano, anche i dirigenti delle Case non coinvolte, ma che nessuno abbia fatto qualcosa per fermare questo abuso». Una denuncia che porta il direttore di Interauto News a rilevare che «la legge sugli incentivi e sui bonus ha una assoluta carenza per quanto riguarda la verifica e l’accertamento del rispetto delle scadenze».

Data la rilevanza del tema, può essere interessante analizzare quanto abbiano inciso, in questo primo trimestre,

le immatricolazioni assistite da ecoincentivi e se il loro livello sia compatibile, o meno, con un «portafoglio ordini di tutte le marche automobilistiche, che - secondo Federaicpa, la federazione dei concessionari - era di 350.000 unità; riserva a cui hanno attinto le immatricolazioni di gennaio, febbraio e marzo 2010». Arrivate oltre quota 666mila e con l’apporto di ben 347.771 vetture beneficiarie di contributi governativi, sia per rottamazione sia per l’acquisto di auto a basso impatto ambientale e secondo quanto rilevato dall’ufficio studi dell’Aci, sulla scorta delle «formalità di prima iscrizione al Pubblico Registro Automobilistico». Operazioni che pesano, nel primo trimestre 2010, per il 52,2% sull’immatricolato del periodo e su livelli, non a caso, in linea con il 52,9% fatto registrare nel 2009 dall’oltre milione (1.059.504) di auto acquistate con ecoincentivi nel periodo, da febbraio a dicembre, di applicazione della normativa. Al contrario, risulta strano che i 350mila inevasi di fine 2009 possano essere costituiti, pressoché per intero, dalle quasi 348mila consegne che si sono valse a tutto marzo delle particolari provvidenze. Considerando, invece, un reale peso del fenomeno anche intor-

In mancanza di controlli, il peso finanziario del contributo al settore è risultato molto gravoso

no al 60% dell’intero portafoglio, ne deriva un’attendibile stima che stenta a traguardare in 210mila gli inevasi ancora suscettibili di ecoincentivi. Invece lievitati, secondo la rilevazione Aci, di circa 140mila unità e con un danno erariale non inferiore a 300 milioni di euro.

Dato che - secondo le valutazioni del Centro Studi «Fleet&Mobility» - l’importo medio per ogni immatricolazione del nuovo sorretta da ecoincentivi ha superato di poco i 2.152 euro. Con un esborso statale che, complessivamente nel 2009, è stato di 2.280 milioni di euro, soltanto in parte compensati dalle vendite ecoincentivate, che risultano concentrate per oltre l’80% nei segmenti A e B, delle auto più piccole, e che hanno determinato un 1 miliardo e 84 milioni di euro di Iva aggiuntiva. «In sintesi – secondo lo stesso Centro Studi “Fleet&Mobility” - ne consegue che lo Stato ha erogato 2,3 miliardi di ecoincentivi, che hanno prodotto Iva extra per 1,1 miliardi». Generando così un onere, per la finanza pubblica nello scorso anno, di 1,2 miliardi di euro cui vanno ad aggiungersi, nel primo trimestre del 2010, i costi per le restanti immatricolazioni assistite da ecoincentivi e con l’indebita inclusione, come si è potuto rilevare, di ulteriori circa 140mila ordini di auto nuove: per un conseguente danno erariale nell’ordine, quanto meno, dei 300 milioni di euro.

Realismo. La Regione Friuli innalza a oltre trent’anni l’età massima dei figli che dà diritto a canoni agevolati per le case popolari

Affitti scontati a chi mantiene i bamboccioni di Angela Rossi

ROMA. L’iniziativa parte da Trieste ma fotografa una realtà che coinvolge tutto il Paese: quella dei cosiddetti “bamboccioni”, dei trentenni che vivono ancora con i genitori, fenomeno non edificante ma con il quale bisogna pur fare i conti. Questa la novità messa a punto dalla Regione FriuliVenezia Giulia: alle famiglie con figli accampati in casa nonostante abbiano persino superato la soglia dei trent’anni sarà riconosciuto comunque il diritto allo sconto sul canone di affitto. Cosa che fino ad oggi avveniva solo per chi aveva a carico ragazzi fino ai diciotto anni. La possibilità è prevista nelle linee di indirizzo che la Regione sta preparando per rivedere, entro maggio, i criteri adottati dalle singole Ater provinciali (Aziende territoriali per l’edilizia residenziale) nelle determinazioni dei canoni di affitto. In più si andrà, come previsto e già annunciato, a rivedere anche i limiti minimi regionali e a creare così

nuove classi di canoni di locazione di fascia intermedia.

Fino ad oggi per la legge regionale allo scadere della maggiore età il figlio veniva considerato autonomo e quindi

questi tempi è assurdo considerare un giovane economicamente autonomo solo perché compie diciotto anni, perciò elimineremo la vecchia imposizione», spiega il direttore delle Politiche abitative Luciano Pozzecco. Finora il calcolo era stimato intorno al 20 per cento di sconto sul canone per la presenza di un figlio; sconto che spariva al compimento dei 18 anni del ragazzo: adesso la soglia verrà innalzata fino ad oltre trent’anni. Si cercherà anche di giungere a un livellamento tra i diversi canoni regionali, giacché

Finora i benefici si perdevano al compimento dei 18 anni. «Oggi non ha senso presumere che un maggiorenne sia autonomo», spiegano dall’assessorato ritenuto teoricamente in grado di contribuire. Come conseguenza alla famiglia non veniva più riconosciuto il diritto allo sconto sul canone di affitto. Nel futuro, a partire da quello immediato, non dovrebbe essere più così: fino a che, anche oltre il compimento dei trent’anni, i figli resteranno nella stessa abitazione con i propri genitori le famiglie avranno diritto all’abbattimento dell’affitto. «Sappiamo che di

finora alle singole Ater provinciali veniva lasciata grande discrezionalità. La filosofia con cui ci si sta muovendo è quella di tenere conto, per il calcolo dei limiti di canone, della pensione minima Inps. Anche questi interventi sembrano peraltro riflettere il livellamento verso il basso dei redditi del ceto medio. Così come l’estensione dei benefici tariffari ai bamboccioni fotografa gli effetti della crisi generale, a cominciare dalle ricadute occupazionali, che anche nel ricco Triveneto si fanno sentire.


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è chi pensa ad un film, chi ad una ficton televisiva a puntate e chi già sta realizzando un documentario: nei prossimi anni andrà di scena la saga degli Agnelli con al centro l’Avvocato. È lui il personaggio più letterario della famiglia, il Re di una monarchia, ormai tramontata, ma che ha continuato a regnare anche durante la Repubblica. Gianni, intelligente trasgressivo cinico irrequieto, ha tenuto banco per tutta la vita. La sua eredità è stata oggetto di scempio: una figlia che ha trascinato la madre in tribunale,un nipote che ne ha combinate di cotte e di crude. Roba da riuscire a stracciare qualsiasi mito. Ma l’Avvocato sembra avercela fatta e ora ci sarà la sua rentrée post mortem: diventerà più che mai un’icona mediatica. Chi è quest’ uomo su cui sono stati scritti fiumi d’inchiostro? La sua vita nonostante sia stata molto indagata, continua ad avere qualche importante anfratto poco illuminato. O peggio, volutamente occultato. Come e dove è nato l’Agnelli style di cui lui è stato l’interprete più illustre? Raccontano che nelle pareti della sua camera da letto campeggiasse un solo quadro: un bel dipinto di Leonor Fini. In un’atmosfera rarefatta, quasi onirica, si erge una figura di donna: i tratti del viso belli e un po’ severi, i riccioli rossi a guisa di corona e una malinconia profetica.

C’

È il ritratto di Virginia Bourbon del Monte, principessa di Faustino, la madre di Gianni Agnelli. Di giorno l’Avvocato non parlava mai di lei, ma nelle solitudini notturne aveva bisogno della sua compagnia più di ogni altra. Più che del padre, morto quando Gianni era ancora un ragazzo, più che del nonno che lo aveva reso “monarca” in Fiat provocando drammatiche nevrosi in famiglia.Virginia era per metà americana, amica della jet society d’oltreoceano, da Gary Cooper ad Elsa Maxwell, e per metà aristocratica italiana: nobiltà nera, legata al soglio pontificio. Era un personaggio fitzegeraldiano, una farfalla leggera e colorata come Zelda. Adorava i suoi figli e amava la vita, la libertà, la trasgressione. Dopo la morte del marito ebbe una lunga e appassionata storia d’amore con Malaparte. La sua esuberante sensualità colpì personaggi come Moravia e Prezzolini che cercarono di proteggerla dalle stravaganze del loro amico Curzio. Era bellissima, molto corteggiata («Tutti gli uomini s’innamoravano di lei», scrive la figlia Susanna) e la sua vita era popolata di flirt. Virginia fu la prima artefice dell’Agnelli style, che è alla base del successo dell’Avvocato: un mix di cosmopolitismo e di libertinaggio, di mondanità e di aristocrazia. Il nonno, che aveva scelto Gianni, sin da piccolo, come l’erede al trono Fiat, cercò di strappare i figli a cotanta madre, di cui non accettava l’anticonformismo vitalistico. Mise in campo tribunali e poliziotti, ma alla fine i ragazzi scelsero lei.Virginia, insieme al marito Edoardo, costruì anche i luoghi del glamour Agnelli: dalla splendida villa di Forte dei Marmi, a quella strana ed elegante di Roma; dalla passione per la neve e le vacanze a Saint Moritz, alla Juventus, squadra forte e signorile, capace di vincere con grinta, ma anche di perdere con stile. Ce n’è abbastanza insomma per sostenere che l’icona dell’Avvocato ha le sue radici nella personalità materna e in parte in quella paterna. I sette ragazzi Agnelli vissero una vita difficile e lussuosa: da piccoli frequentarono Umberto e Maria Josè di Savoia, che spesso andavano a cena dai genitori nella casa di via Oporto, nonché la nobiltà della capitale: i Caetani, i Colonna, i Torlonia. Respirarono l’aria dell’antifascismo romano e torinese. Furono colpiti da laceranti tragedie (la morte prematura del padre, le aggressioni del nonno alla madre), ma anche

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Sulla sua storia sono stati scritti fiumi d’inchiostro. Ora sta per prender

La saga dell’Imp

La vita di Gianni Agnelli si prepara a invadere le tv italiane: un documentario, una fiction e un film sul leader di una dinastia capace di regnare anche negli anni della Repubblica di Gabriella Mecucci

gratificati dal caldo affetto di Virginia: un misto di allegra complicità, di giocosa tenerezza, di fisicità dirompente. Anche lei morì presto, aveva solo 46 anni quando, nel 1945, la sua auto andò a piantarsi contro un camion dell’esercito americano. Gianni aveva allora 24 anni e già era iniziata la sua luminosa carriera da playboy. La Costa Azzurra è il teatro delle sue migliori gesta. I compagni di avventura sono Gunther Sachs, Porfirio Rubirosa, Baby Pignatari, che sposerà sua nipote Ira Fustemberg, Errol Flynn, Dado Ruspoli. Tante donne, tutte bellissime e “cotte”di quel giovin signore ricco e sessualmente rapace, bello, frenetico e con alcune ramate di follia (la moglie Marella lo definiva scherzando “Agostino ‘o pazzo”). L’unica di cui si innamorò veramente – questa la convinzione diffusa fra i migliori amici – fu Pamela Churchill, nuora del grande statista inglese, donna intelligente, colta, sofisticata, bellissima. Tutto finì perchè lei lo sorprese nel 1952 con una ragazza molto giovane. Seguì lite e fuga di Gianni. E proprio mentre scappava a tutta velocità con accanto la sua ultima conquista, sbandò, uscì di strada e si maciullò la gamba: un handicap che lo accompagnò per tutta la vita. Ma la teoria delle donne importanti e delle stelline non finì lì. Si racconta di Rita Hayworth e Anita Ekberg. Si sussurra di Jaqueline Kennedy. Nel 1953 sposa Marella Caracciolo di Castagneto. L’ha conosciuta subito dopo l’incidente che gli ha pregiudicato la gamba. È amica di sua sorella Maria Sole. È molto bella, elegante con quellungo collo da cigno e le fa compagnia nella convalescenza: alla fine nasce l’amore.

to Carlo Caracciolo, anche lui affascinante, bellissimo, editore di professione e grande tombeur de femme: tra i due si sviluppa una sorta di gara su chi conquista le più belle su piazza. Il mito dell’Avvocato affonda le sue radici anche in questa vita da playboy di successo, a cui si affianca però la scelta di frequentare il mondo delle teste d’uovo americane: dai Kennedy a Kissinger e quello dei grandi calciatori superpopolari alla Platini.

E poi c’erano gli exploit mediatici. Le sue celebri battute, di cui la più citata è snob, libertina e un po’ cinica: «Si innamorano solo le cameriere». E poi c’è il modo di abbigliarsi, l’eleganza rotta dalla stravaganza: la cravatta sopra il golf, l’orologio sul posino della camicia. Tutte scelte che servono a creare il personaggio, l’icona mediatica. Non c’è nessuno che non ricordi l’Avvocato in uscita dallo stadio. Jeans, maglioni, scarponcini e una gran voglia di parlare. I giornalisti lo circondavano e lui concedeva le sue perle calcistiche e non: Baggio diventava il Raffaello del pallone o un coniglio bagnato, Del Piero era Pinturicchio. E che dire delle sue leggendarie telefonate alle 6 di mattina con le quali svegliava politici e giornalisti per iniziare la giornata ben informato? Ma la tesi più originale sulla costruzione del personaggio dell’Avvocato è quella esposta da Cesare Garboli, che conosceva gli Agnelli sin da quando, ancora ragazzi, inziarono a frequentare la Versilia. Secondo il grande critico letterario la personalità di Gianni nasceva dalla cancellazione della sua persona: «Aveva cancellato se stesso, il proprio “io”, a vantaggio esclusivo dell’istituzione, della “forma”. Tutto ciò che il nome proprio comporta era stato tolto dalla realtà con un colpo di spugna; e una totale adesione, al contrario, era stata concessa al cognome, sposato fino

La madre Virginia fu la prima artefice dell’Agnelli-style che è alla base del suo successo: una miscela di cosmopolitismo e di libertinaggio, di mondanità e di aristocrazia. Il nonno cercò di strapparle i figli, ma alla fine i ragazzi scelsero lei

Il matrimonio non placa il desiderio di avventure. Quando viene a Roma Gianni non manca d’informarsi sui nuovi flirt del cogna-

alle estreme conseguenze nel bene e nel male, senza riserve e ripensamenti, senza orgoglio e senza pudori.

Tutto ciò che appartiene al singolo, all’individuo, ai sentimenti e ai valori dell’individuo era non solo cancellato ma, secondo coerenza, svilito, svalutato: l’individuo non esiste, l’accettazione del privilegio esigeva un sacrificio esistenziale». Insomma l’istituzione Agnelli annulla l’io. Gianni è un’icona priva del sé. Essere moglie e figli di un simile uomo doveva essere difficilissimo. Dicono che Don-


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re il via una maxi-gara sul piccolo schermo

peratore

Gianni Agnelli con Alex Del Piero; da giovanissimo (qui sotto); insieme a Gianni Letta (nella foto in basso) i tempi eroici del nonno-senatore e di Valletta erano sepolti per sempre: «A me - diceva il giovin signore ormai bianco e rugoso - è toccato di tirare avanti la baracca». E questo è riuscito a farlo. Ma ha fatto anche molto di più. L’Avvocato ha un bilancio complesso: accanto ai cedimenti nei confronti del sindacato sulla contingenza, quando era presidente di Confindustria, non si può non mettere la grande vittoria che rappresenta per la Fiat e per gli imprenditori italiani la marcia dei 40mila a Torino: si chiuse così un periodo di quasi totale dominio di Cgil, Cisl e Uil e venne aperta la strada ad una nuova leva di industriali.

Gianni Agnelli è stato inoltre il leader di una generazioni di capitalisti che ha progettato se stessa e difeso i propri affari, guardando anche agli interessi nazionali. Un’ispirazione questa da recuperare, proprio oggi che tutto sembra frantumarsi. Ma il vero capolavoro dell’Avvocato è stata la costruzione di un’immagine straordinaria, seducente, vincente. Non c’è dubbio che il suo look, il suo modo di esprimersi e di abbigliarsi hanno conquistato l’Italia e il mondo. È come se il fascino dirompente di quella madre, di cui preferiva non parlare, si fosse concentrato su di lui per diventare la base su cui poggiava lo stile dell’ultimo Re d’Italia. La magia degli tragedie. Alcune volutamente cancellate da Gianni. È la storia del fratello Giorgio di 8 anni più giovane di lui. Era alto, biondo e con le efelidi, tutto il ritratto della madre. Il suo malessere esistenziale iniziò che era ancora un ragazzo. Raccontano che una volta sparò a Gianni, verso il quale nutriva un conflitto insanabile per quel ruolo superiore che il nonno gli aveva assegnato. E poi l’incontro con gli allucinogeni che fiaccarono ulteriormente il suo fisico e la sua mente.

na Marella non abbia mai imparato a convivere con quel tourbillon di donne che circondava il marito. E che per anni e anni lo abbia inseguito ovunque. Un clima famigliare che non mancò di avere effetti sui due figli: in particolare su Edoardo, ragazzo fragile e sempre alla ricerca di conferme e di affetto. La sua difficile vita terminò con un volo da uno squallido ponte dell’autostrada. Quanto a Margherita, la sua rottura con la madre per l’eredità paterna è storia recentissima. Gli Agnelli somigliano vagamente ai Kennedy: belli, di successo, ma colpiti da immani

Morì in una clinica nei pressi di Ginevra. Qualcuno racconta che si gettò dalla finestra. Ogni volta che si parla di lui, occorre sempre anticipare un forse: i fratelli infatti hanno occultato tutto e hanno voluto che fosse completamente cancellato. Hanno “sbianchettato” persino le fotografie Gianni dunque ha vissuto fra drammi e amori, vacanze e bravate sino al 1966. Solo in quella data infatti Valletta abbandonò il timone della Fiat. A quel punto toccò al giovin signore, che il nonno aveva dotato di una doppia quota nell’accomandita di famiglia (i fratelli e le sorelle possedevano la metà), venire allo scoperto e mostrare davvero cosa sapeva fare. Il regno dell’Avvocato sarà lunghissimo. Quando assume la guida della Fiat eredita una situazione formidabile. L’azienda è il quinto produttore mondiale di auto, dietro so-

lo ai colossi americani e a ridosso della Wolkswagen. Quando Gianni muore, lascia invece un gruppo in grandissima difficoltà. Tanto è vero che il fratello Umberto, suo successore, sarà costretto a fare subito un aumento di capitale. Bilancio negativo dunque? L’Avvocato come capitano d’industria è stato un perdente? Sarebbe questo un giudizio ingeneroso. La Fiat all’epoca di Gianni ha passato infatti periodi difficilissimi, causati da drammatiche congiunture nazionali e internazionali. Certo,

Agnelli, infatti, è stata quella di essere una monarchia con tutti i suoi riti e persino i suoi tic quando il paese si era da tempo convertita alla Repubblica. Nessuna famiglia del capitalismo italiano ha avuto tanto potere e tanta presa popolare. Nessuna ha rappresentato una leggenda. Adesso il suo profeta finirà nel piccolo schermo proprio mentre gli Agnelli sono in pieno declino: fra crisi della Fiat, risse intestine e cadute di stile alla Lapo.


mondo

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Scontri. Il Segretario di Stato vaticano collega omosessualità e pedofilia. Ma si riferisce a una statistica relativa ai sacerdoti

Lo schiaffo di Parigi Il ministro francese degli Esteri all’attacco, ma Bertone precisa: «Parlavo della Chiesa» di Osvaldo Baldacci segue dalla prima In quell’occasione la polemica era a proposito di preservativi e Aids. Ieri le parole del Segretario di Stato Vaticano (il primo ministro della Santa Sede) sono state definite “un accostamento inaccettabile” dal governo francese tramite una nota ufficiale di condanna del ministero degli Affari esteri. «Si tratta di un amalgama inaccettabile che condanniamo», ha detto il portavoce del ministero degli Esteri francese, Bernard Valero, in riferimento alle parole di Bertone. «La Francia ha aggiunto Valero durante una conferenza stampa a Parigi - ricorda il suo impegno nella lotta alle discriminazioni ed ai pregiudizi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere». Con un po’ di malizia il bravo vaticanista del Giornale Andrea Tornielli accenna a una notazione: «Vale la pena di ricordare che il segretario generale

aggiunto del ministero è JeanLoup Kuhn-Delforge, attivista gay, che venne proposto dal governo francese quale ambasciatore presso la Santa Sede ma che l’anno nel 2008 non ottenne il gradimento vaticano. Ora Delforge è in predicato di diventare ambasciatore a Washington». Certo è difficile districarsi in terreni dove si mischiano istituzioni statali, tematiche religiose, inchieste giudiziarie, lobby di vario genere. Parlando in Cile al termine di un lungo viaggio, il cardinal Tarcisio Bertone aveva risposto a una domanda sul’accosta-

Il capo della diplomazia vaticana si riferiva, in una conversazione informale, al risultato di alcuni studi effettuati sui membri del clero cattolico. Non al mondo intero o alla galassia omosessuale mento tra il celibato dei preti e la pedofilia, tema spesso impropriamente agitato da molti in questi ultimi tempi. Dopo aver ribadito che «il comportamento dei preti colpevoli in questo caso, il comportamento negativo, è molto grave, è scandaloso», il segretario di Stato aveva respinto l’accostamento col celibato, aggiungendo l’altro ele-

mento controverso: «Molti sociologi, molti psichiatri hanno dimostrato che non c’è relazione tra celibato e pedofilia, e invece molti altri hanno dimostrato, e mi è stato confermato anche recentemente, che c’è una relazione tra omosessualità e pedofilia. Si tratta di una patologia che interessa tutte le categorie sociali, e preti in minor

«Frasi frutto della pressione» L’opinione del vaticanista Andrea Tornielli sullo scontro mediatico in corso di Vincenzo Faccioli Pintozzi

ROMA. Vaticanista di grande prestigio, Andrea Tornielli conosce molto bene la realtà dei sacri palazzi. Nei suoi articoli sul Giornale e sul suo blog - Sacri Palazzi, appunto - si sforza di raccontare la Chiesa con obiettività e fede. A liberal spiega quale sia la realtà dei fatti dietro la campagna mediatica in corso in questi giorni e quale sia stato il ruolo dell’allora cardinale Ratzinger nel modificare in senso più duro le norme contro gli abusi sui minori. E sulla Francia ricorda... Come si può spiegare questo aumento di toni, negli ultimi giorni, e le uscite poco felici di alcuni membri della gerarchia cattolica sullo scandalo pedofilia e l’attacco al Papa? Credo che ci sia certamente un problema di

comunicazione, dovuto credo a un certo disorientamento che nasce dalla pressione mediatici. Un disorientamento che a volte porta a delle uscite infelici, come dimostrano le notizie vaticane degli ultimi dieci giorni: a partire dal passaggio dell’omelia di padre Cantalamessa, passando per l’intervista all’Osservatore Romano del cardinale Sodano per finire con l’esemplificazione delle parole pronunciate ieri in Cile dal Segretario di Stato vaticano. Parole che il cardinale Bertone ha pronunciato riferendosi ai sacerdoti, un attimo prima aveva parlato del celibato, ma che ha provocato questa bufera perché è stata riportata in quel modo, senza spiegazioni. È chiaro che l’effetto mediatico poi è quello che è. Molto meglio sarebbe se queste cose

non venissero proprio dette, e soprattutto non venissero dette così. Ricordo anche che c’è stato un editoriale del direttore dell’Osservatore Romano, Gian Maria Vian, pubblicato il giorno in cui uscì il caso Murphy, molto netto contro il modo in cui i media presentano questi casi. Dando però l’idea che nelle ultime settimane si sia alzato il livello dello scontro. Io non credo che questo stia avvenendo, però mi sembra che purtroppo l’esito di queste uscite sia questo. La Sala Stampa vaticana ha cambiato direttore negli ultimi anni: ci sono responsabilità da parte loro per questo stato di cose? Io credo che il direttore, padre Federico Lombardi, si stia difendendo bene. Con i suoi

grado in termini percentuali». La frase è subito entrata nel mirino delle associazioni gay. La Sala Stampa vaticana ha poi chiarito: «Il cardinal Bertone si riferiva evidentemente alla problematica degli abusi all’interno della Chiesa e non nella popolazione mondiale». «Le autorità ecclesiastiche - ha precisato padre Federico Lombardi - non ritengono di loro competenza fare affermazioni generali di carattere specificamente psicologico o medico, per le quali rimandano naturalmente agli studi degli specialisti e alle ricerche in corso sulla materia».


mondo Benedetto XVI insieme al Segretario di Stato vaticano, cardinale Tarcisio Bertone, nel corso della visita pastorale del pontefice a Genova. In basso, padre Federico Lombardi sj. Il gesuita è il direttore della Sala Stampa vaticana e della Radio Vaticana. Nella pagina a fianco, in alto: il ministro francese degli Esteri Bernard Kouchner; ieri ha risposto alle dichiarazioni di Bertone sull’omosessualità e sulla pedofilia definendole «inaccettabili». In basso, il vaticanista del quotidiano Il Giornale, Andrea Tornielli

Lombardi ha citato questi dati, poco tempo fa presentati su Avvenire dal promotore di Giustizia della Congregazione della Dottrina della Fede monsignor Charles Scicluna, parlando di un «10 per cento di casi di pedofilia in senso stretto, e di un 90 per cento di casi da definire piuttosto di efebofilia (cioè nei confronti di adolescenti), dei quali circa il 60 per cento riferito a individui dello stesso sesso e il 30 per cento di carattere eterosessuale». Tra i primi a precisare le parole di Bertone era stato il professor Tonino Cantelmi, presidente

degli psicologi e psichiatri cattolici: «Non risulta un legame tra pedofilia e omosessualità in generale. Ma diverso è il discorso riguardo all’universo degli abusi commessi da sacerdoti, dove gli abusatori sono per la stragrande maggioranza omosessuali e le vittime sono minori non bambini».

Sullo stesso terreno è intervenuto anche il Centro Studi sulle Nuove Religioni diretto dal prof. Massimo Introvigne: «Per quanto sia poco politicamente corretto dirlo, in questo sottogruppo oltre l’80 per cento

editoriali del venerdì su Radio Vaticana, molto sensati e in totale sintonia anche con lo stile di Benedetto XVI, fa un ottimo lavoro. Io sono d’accordo con la linea adottata dalla Sala Stampa, che pubblica comunicati tempestivi per spiegare e puntualizzare quanto avviene. Gli avvocati che vogliono portare il Papa in tribunale fanno il loro mestiere. Non fanno invece lo stesso coloro che prendono i documenti destinati ai tribunali e li pubblicano in pagina, senza spiegare e contestualizzare quanto c’è scritto sopra. La realtà che viene presentata è spesso deformata. L’attacco del governo francese in risposta alle frasi del cardinale Bertone è stato tempestivo e inconsueto. Siamo davanti a uno scontro fra Stati? Bisogna ricordare, secondo me, una cosa che non mi sembra secondaria. Il Segretario generale del ministero degli Esteri francese è quel Jean-Loup Kuhn-Delforge, noto attivista del movimento gay, che venne rifiutato dal Vaticano nel 2008 quando venne proposto dal governo francese come ambasciatore

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Justice della City University of New York: dal 1950 al 2002, 4.392 sacerdoti americani (su oltre 109.000) sono stati accusati di relazioni sessuali con minorenni. Ma le accuse di effettiva pedofilia riguardavano 958 di loro in 42 anni, 18 all’anno. Le condanne poi sono state 54. Ma forse il tema di tutta questa polemica non è solo incentrato sui numeri e sui dati medici e/o statistici. D’altro canto, ricorda sempre Tornielli, proprio Papa Benedetto XVI già in passato è sembrato escludere un nesso tra pedofilia ed omosessualità: il 15 aprile 2008, nel corso della conferenza stampa sull’aereo che lo stava portando a Washington, rispondendo in inglese a una domanda sugli abusi sui minori, disse: «Sto parlando ora della pedofilia, non dell’omosessualità, che è un’altra cosa (this is another thing)».

Ma il punto è che da un lato la campagna mediatica contro la Chiesa è in pieno svolgimento, spesso incurante di ogni elemento di verità accertata, e a questa campagna sembrano pronti ad accodarsi sempre più soggetti, anche diversi fra loro e con obbiettivi differenti, ma comunque attratti dalla popolarità che sembra portare ogni at-

Nel frattempo la Consulta nazionale delle aggregazioni laicali, organismo che raduna 67 associazioni e movimenti ecclesiali, ha invitato i suoi membri a riunirsi il 16 maggio a s. Pietro dei pedofili sono omosessuali». Da dati statistici della Chiesa risulta che il 60 per cento degli abusi su minori è compiuto da preti omosessuali. I dati più completi su questo tema sono stati raccolti negli Stati Uniti, dove nel 2004 la Conferenza episcopale ha commissionato uno studio indipendente al John Jay College of Criminal

di Parigi presso la Santa Sede. Ora in predicato di partire per Washington, quel diplomatico non venne gradito in Vaticano per la sua militanza: io non vorrei che, dietro alle frasi del ministro Kouchner, ci siano anche delle ruggini pregresse. Tanto che c’è stato anche un ritardo del gradimento francese al nuovo Nunzio in Francia. Probabilmente le

quello della realtà dei fatti. Nonostante ci fossero delle norme canoniche che spiegavano come trattare questi casi, per decenni si è verificata una sottovalutazione del fenomeno che ha investito i vescovi e i sacerdoti delle varie diocesi. Ci sono stati casi di carenze totali della capacità di governo da parte di alcuni presuli, che non hanno tutelato le vittime. E, per decenni, le hanno considerate come dei nemici. Ma tutto questo è cambiato da almeno dieci anni, e l’allora cardinale Ratzinger è stato il protagonista di questo cambiamento. C’è poi una realtà mediatica, interessata, che presenta le cose a modo suo: dietro ci sono ambienti di diversa estrazione, che comprendono anche ambienti vaticani che non hanno perdonato molte cose al Papa. Viene indotta un’idea nell’opinione pubblica che non sempre corrisponde ai fatti. Io mi chiedo se sia giusta la strategia di alzare la posta e i toni, o se non serva un cambio di passo totale che si concentri invece sul fare emergere l’esperienza umana positiva che la Chiesa offre. Ma questo è un serio dilemma.

Forse ci sarebbe bisogno di un cambio di passo completo, che ponga l’attenzione anche sugli aspetti positivi della Chiesa nel mondo. Ma comunque bisogna calibrare bene le uscite proteste ci sarebbero state comunque, ma la tempestività e quel pizzico di astio in più forse derivano da questo. Lo scandalo della pedofilia ha provocato dolore e rabbia nei confronti della Chiesa. In Europa i fedeli arrivano quasi a vergognarsi nel proclamare la propria fede cattolica… Bisogna distinguere due piani, e il primo è

tacco al Papa e al mondo cattolico. Nella lista si è voluto iscrivere anche il governo francese, primo Stato in questo caso, nonostante forse quantomeno la forma dei rapporti diplomatici avrebbe consigliato un approccio più rispettoso verso il segretario di Stato vaticano che si era limitato a delle affermazioni durante una conversazione,

affermazioni peraltro fraintese. La cancelleria francese non sembra altrettanto sollecita nel condannare formalmente tutte le dichiarazioni controverse e più spesso le azioni dei vari membri di governo dei Paesi di mezzo mondo, non tutti propriamente democratici, e a volte non lontani dall’amicizia e dagli interessi di Parigi. D’altro canto però non si può negare che la reazione della Chiesa cattolica all’assedio cui in questi giorni è sottoposta non sembra certo improntata a quella prudenza cui i secoli ci avevano abituati. Sembra procedere un po’ in ordine sparso, un po’ all’impronta, finendo per suscitare vespai più che circoscrivendo le problematiche. È vero che ci sono realtà ipersensibili sempre pronte a scagliarsi contro ogni presunto passo falso della Chiesa, ma è altrettanto evidente che non è questo il momento di provocare o cadere in provocazioni, quando la semplice evidenza dei fatti può bastare a dimostrare quanto sia in gran parte calunniosa e infondata l’attuale campagna di orientamento dell’opinione pubblica.

Intanto a sostegno di Papa Benedetto XVI si muove il mondo cattolico italiano. La Consulta nazionale delle aggregazioni laicali, organismo che raduna 67 associazioni e movimenti ecclesiali italiani, ha invitato «quanti appartengono e si riconoscono nel mondo dell’associazionismo cattolico a partecipare a Roma alla recita del Regina Coeli, domenica 16 maggio 2010, in Piazza San Pietro». «Vogliamo in questo modo - spiega una nota stringerci visibilmente intorno a Benedetto XVI come figli col padre, desiderosi di sostenerlo nel suo impegnativo ministero, esprimendogli affetto e gratitudine per la sua passione per Cristo e per l’umanità intera».


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Riflessioni. La lezione del manifesto presentato dai tories segue dalla prima Si aprirebbe, in tal caso, fatto più unico che raro in Gran Bretagna, la prospettiva della coabitazione con i liberaldemocratici accreditati di un successo inseguito da decenni e che oggi sembra alla portata del “terzo incomodo”. Se dovessero andare così le cose, tramonterebbe forse il bipolarismo nella terra dove è stato inventato? Neppure per sogno. Un partito che si allea, sul piano di programmi e valori condivisi, con un altro non mina uno schema che ha funzionato per secoli e continua a funzionare. Naturalmente il vincolo di coalizione (sia pure limitato a due sole forze politiche) non significa l’assorbimento, fino alla riduzione all’irrilevanza, della seconda nella prima. Il bipolarismo se dovesse prevalere sul classico bipartitismo che ha connotato la politica britannica nella nostra epoca, risulterebbe maggiormente arricchito, e questo lo sa Cameron come Brown ai quali, peraltro, non verrebbe ami in mente di aggregare forze disomogenee pur di governare: ognuno gioca il proprio ruolo e l’uninominale secco, come sistema elettorale tanto “crudele” quanto esplicito nel decretare la vittoria di questo o di quello, garantisce tanto il bipolarismo che il bipartitismo.

Il tutto può non piacere in un Paese come il nostro dove la politica, per ragioni storiche e culturali, è molto più complessa. Ma a nessuno può sfuggire che se dovesse prevalere Cameron, nei limiti e nelle forme appena ricordate, nessuno in Gran Bretagna si stupirebbe di un allargamento al “terzo incomodo” della formazione del governo ribadendo che ognuno resta autonomo politicamente e culturalmente. In Italia, purtroppo, accade il contrario: il bipolarismo è gladiatorio, quando per definizione dovrebbe essere caratterizzato da un’intrinseca “mitezza” tale da predisporre vincitori e vinti ad una sorta di attesa della rivincita senza dover delegittimare in alcun modo l’antagonista. Quando questa mentalità politica si farà strada in Italia, forse potremmo dire di essere pervenuti alla realizzazione di un sistema bipolare degno di questo nome. Fino ad allora teniamoci le tifoserie che si adattano ad un sistema populista che non interpreta davvero lo “spirito del popolo”che è un’altra cosa. Cameron e Brown (ma sarebbe stato lo stesso se al posto di questi si fosse presentato il più giovane Miliband, ritenuto il vero delfino di Blair), insomma, incarnano il bipolarismo che cerchiamo, ma che nelle nostre contrade difficilmente troveremo, almeno in tempi ragionevolmente brevi. Non sono dei distrutto-

Cara Italia bipolare, impara da Cameron Conservatori e laburisti sono paradigmi di un sistema compiuto e condiviso di Gennaro Malgieri

Le elezioni in Gb avranno grandi conseguenze in tutta Europa. Londra dovrebbe insegnarci il primato della politica e della capacità di guardare avanti. Qualcuno da noi pensa che conservatore sia sinonimo di statico o reazionario ri, ma degli innovatori, il primo più del secondo, ma questi ha dato una mano non indifferente alla costruzione del New Labour sotto la sapiente guida, tutt’altro che intellettualistica, di Antony Giddens.

Il capo dei tories, nelle prime importanti uscite pubbliche, ha fatto appello all’antica tradizione conservatrice di radicale riforma sociale il cui più eminente esempio resta Disraeli; il capo dei laburisti ossessivamente richiama i suoi a “scoprire” le virtù di un laburismo dinamico e, dunque, non ingessato. Nessuno li considera“eretici”.Tuttalpiù gli volta le spalle ed offre il proprio consenso ad altre formazioni. Qualcuno da noi pensa

che conservatore sia sinonimo di“statico”o, peggio, di reazionario. Cameron, qualche tempo fa, ad un intervistatore che gli chiedeva chi fosse il suo filosofo preferito, rispose di essere scettico rispetto ai grandi schemi utopici e ai grandi piani e di considerarsi totalmente d’accordo con Disraeli quando diceva: “Il partito conservatore dovrebbe essere il partito del cambiamento, ma un cambiamento che segua le maniere, le tradizioni, i sentimenti del popolo piuttosto che un cambiamento secondo un grande piano stabilito a priori”. Questo è realismo. E giustifica il successo che nel corso degli anni, sia pure con pause più o meno lunghe, hanno avuto i conservatori in Gran Bretagna.

Alla luce di queste sintetiche note, non possiamo fare a meno di considerare come il bipolarismo che i due partiti maggiori britannici (ma anche i liberaldemocratici sono del medesimo avviso) incarnano non sia soltanto una sovrastruttura politica, ma un “sentimento” penetrante e diffuso che vale a caratterizzare una democrazia matura la cui essenza non è affidata alle alchimie (come in Italia) ma alla “costruzione” di uomini, mentalità, stili di vita, visioni del mondo. Cameron e Brown non hanno paragoni da noi perché la loro formazione è diversissima da quella dei leader in circolazione dalle nostre parti.E le scelte politiche che hanno effettuato sono filiazioni di maturazioni avvenute a cavallo tra la società civile che si sono preparati a servire comunque e la società politica quando ne hanno avvertito l’irresistibile richiamo fino ad abbracciare la “politica come professione” in senso weberiano. L’occasionalismo, insomma, che determina il più delle volte le carriere politiche nelle democrazie mediterranee, non s’addice a Paesi dove vige il sistema dell’alternanza, nei quali l’individuazione del leader, e dunque della classe dirigente della quale è espressione, è determinata dalla sua biografia e dai meriti che è in grado di esprimere. I politici, insomma, in un contesto come quello britannico (ma la considerazione vale anche altrove), non si “reinventano”, ma si “sviluppano”. Non a caso Cameron sostiene che “la cosa migliore sia avere un bagaglio di principi e convinzioni che ti spingono, ma è necessario continuare a pensare, svilupparsi, discutere e non rimanere bloccati in una tale fossilizzazione da non poter sviluppare il tuo pensiero”. Insomma, i migliori politici sono quelli dotati di valori chiari, ma capaci di pragmatismo. La Thatcher forse è stata l’esempio migliore al riguardo, e non soltanto per i conservatori. Poi c’è la questione dello schieramento e del partito che non va sottovalutata. A Cameron e a Brown non verrebbe mai in mente di stravolgere le loro for-

mazioni sull’onda emotiva di un possibile o più o meno opportunistico “rinnovamento”. Certo, i conservatori e i laburisti di oggi non assomigliano in niente, a parte i principi tenuti per fermi dai primi soprattutto, a quelli di venti o trent’anni fa. Non soltanto perché la società in cui operano è cambiata profondamente, ma in ragione delle mutate esigenze della politica stessa che si è fatta planetaria avendo a che fare con problemi che superano gli ambiti nazionali. Perciò chi si meraviglia di un conservatore ambientalista ha capito poco o niente del mondo in cui vive; alla stessa maniera di chi prova un certo stupore di fronte ad un laburista che ha messo in soffitta l’armamentario assistenzialistico. I cambiamenti necessari, pur legati a valori di riferimento, presuppongono però un’elaborazione culturale ed una continua riflessione, oltre ad un indispensabile confronto con le tematiche più ardue della modernità, al fine di rivitalizzare continuamente partiti che diversamente si cristallizzerebbero in una forma poco attraente fino a respingere i consensi. E nemmeno può essere data l’improvvisazione nel costituire soggetti politici nei quali o vige l’imperialismo carismatico o il rogo su cui far finire i dannati che li hanno guidati per brevi stagioni.

I tories ed il New Labour sono i paradigmi di un bipolarismo compiuto. Leader, classe dirigente, struttura partitica, dispiegamento sul territorio, meritocrazia sono “valori” condivisi da entrambi. In Gran Bretagna “sconci”all’italiana non sono immaginabili. Neppure quando uno dei due partiti finisce sotto l’occhio spietato degli stessi supporter che si sentono magari traditi, non avendo digerito innovazioni che se suffragate dal successo elettorale devono necessariamente essere accettate. Accadde a Tony Blair quando la componente radical-marxista lo dipinse come un liberale continuatore inconsapevole del tatcherismo, tranne poi ricredersi. E’accaduto a Cameron quando, circa un anno fa, la rivista conservatrice “Spectator” gli ha dedicato una copertina sulla quale il leader veniva ritratto alla Che Guevara, con tanto di basco e stella blu, il colore dei tories. Il settimanale si chiedeva se Cameron fosse il rivoluzionario tanto atteso dai tempi dellaThatcher. Nel numero dell’ottobre scorso, lo“Spectator”non ha esitato ad ipotizzare una “nuova era”che si starebbe aprendo, l’era di Cameron appunto. Il bipolarismo è per sua natura dinamico. Declinato all’italiana è l’alibi del confusionismo politico, la sola ideologia accettata (e praticata) bipartisan nella nostra terra infelice. Sarebbe doveroso quanto meno ridiscuterlo.


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15 aprile 2010 • pagina 17

Ma la Cina risponde come al solito: è un affare interno

Il leader russo avverte il mondo sulla crisi in corso in Kirghizistan

Obama: «Pechino deve rivalutare lo yuan»

Medvedev: «Bishkek è un nuovo Afghanistan»

WASHINGTON. La Cina «deve ancora fissare una tabella di marcia per la rivalutazione della propria moneta, ma insieme al presidente Hu Jintao abbiamo convenuto che questa è una priorità, interna al Paese, da risolvere al più presto». Lo ha dichiarato ieri il presidente americano Barack Obama a margine del Summit internazionale per il disarmo nucleare. I due leader hanno avuto due incontri privati, che secondo Obama sono stati “franchi e cordiali”.Tuttavia, un portavoce del governo di Pechino ha risposto indirettamente alle aperture americane dichiarando, sempre ieri, che la Cina «non intende inchinarsi alle pressioni esterne sulla questione della rivalutazione dello yuan. Si tratta di una questione interna: è come se un malato di influenza costringesse un’altra persona a prendere le medicine al posto suo». Obama, in ogni caso, non sembra voler cedere: «Sono stato molto chiaro nel sottolineare che lo yuan è sottostimato. Però ho lodato la decisione interna di muoversi verso un approccio più orientato al mercato, che considero giusta. Non ho una tabella di marcia, ma spero che la Cina arrivi al più presto a questo risultato: è soprattutto nel loro interesse». Da parte sua, Hu Jintao non ha rilasciato dichiarazione. Ma il vice ministro degli Esteri Cui Tiankai, al summit, ha detto ai giornalisti che la decisione sarà presa «sulla base della situazione economica interna».

BISHKEK. Il Kirghizistan è

Al momento, Pechino scambia 1 dollaro con 6,83 yuan: si tratta di un cambio deciso nel luglio 2008 e da allora mantenuto bloccato. Secondo economisti occidentali, la scelta di non rivalutare la moneta mantiene di fatto la Cina ai primi posti per competitività economica. Inoltre, l’enorme riserva di debito pubblico nelle casse cinesi continua a crescere di valore proprio perché a cambio fisso: rivalutando lo yuan calerebbe di un terzo la cifra totale.

Scossa nel Qinghai, oltre 400 le vittime Molti i bambini deceduti nell’altopiano del Tibet

«sull’orlo della guerra civile e può diventare un secondo Afghanistan». Il presidente russo Dmitri Medvedev in visita negli Usa lancia il suo allarme a un convegno di esperti a Washington. Fonti locali indicano che Mosca sta offendo aiuto al governo provvisorio guidato da Roza Otunbayeva. Il timore di molti è che il povero Paese dell’Asia Centrale sia vulnerabile all’estremismo islamico. Medvedev ha per la prima volta suggerito che il presidente kirghiso Kurmanebk Bakiyev dovrebbe “prendere decisioni responsabili” e dimettersi. Da parte sua Bakiyev, rifugiatosi nel meridione del Paese a lui fedele, da Jalalabad si è detto di-

di Aldo Bacci a terra trema ancora in Cina e anche questa volta lascia profonde ferite. Oltre 400 morti e almeno 10 mila ferite sono il primo bilancio del sisma che ha colpito la provincia montuosa del Qinghai, nel nord ovest della Cina. Il potente sisma avrebbe raggiunto magnitudo 6,9 sulla scala Richter, ma addirittura 7,1 secondo l’istituto di geofisica cinese. Secondo le autorità locali, molte persone si trovano ancora sotto le macerie, ed è stato inviato l’esercito per tentare di salvare le persone rimaste sotto le case crollate. Ma sono state seriamente danneggiate anche le strade, in gran parte investite da frane, e quindi i soccorsi sono difficili e vanno a rilento, con problemi gravi anche nelle comunicazioni. «Non abbiamo macchinari e scaviamo soprattutto con le mani» ha raccontato un funzionario locale, «finora siamo riusciti ad estrarre dalle macerie 900 persone, 700 soldati sono ora impegnati nell’opera di soccorso». L’85% degli edifici delle zone più vicine all’epicentro è crollato, praticamente tutte le case ad un solo piano, mentre le più alte hanno retto ma hanno riportato profonde crepe che le rendono inagibili. L’Istituto di geofisica americano ha individuato l’epicentro a circa 380 chilometri a sud/sudest della città di Golmud, a una profondità di 46 chilometri. Il terremoto è stato registrato alle 7.49 di mattina ed è stato seguito da tre forti repliche. un responsabile del governo locale citato dall’agenzia Nuova Cina ha descritto scene apocalittiche: «I feriti sono ovunque nelle vie, molta gente è ricoperta di sangue». Una scuola professionale si è sgretolata e «molto studenti sono stati sepolti dalle macerie».

L

contadini e nomadi di etnia mongola e tibetana e dispone di importanti riserve di carbone e piombo. Le autorità provinciali hanno inviato 5 mila tende e decine di migliaia di capi d’abbigliamento, ha detto il ministero degli Affari civili in un comunicato. Nella zona la temperatura può raggiungere livelli molto bassi, in qualunque stagione dell’anno.

Il presidente della Commissione Europea, Jose Manuel Durao Barroso, ha offerto alla Cina l’assistenza dell’esecutivo Ue. Un appello alla solidarietà per le popolazioni colpite dal terremoto in Cina è stato lanciato dal Papa al termine dell’udienza generale in Piazza San Pietro. La tragedia riporta alla mente l’ancor più disastroso terremoto del Sichuan, le cui ferite sono ancora aperte: in quell’occasione crollarono molte scuole e i genitori misero in piedi un movimento per verificare i fondati sospetti che gli edifici scolastici siano stati costruiti con criteri inadeguati per superficialità e sete di guadagno. E attendono ancora risposta. Il presidente della Commissione Europea, Jose Manuel Durao Barroso, ha offerto alla Cina ”l’assistenza” dell’esecutivo Ue. Un appello alla solidarietà per le popolazioni colpite dal terremoto in Cina è stato lanciato dal Papa al termine dell’udienza generale in Piazza San Pietro. Il Qinghai è una regione abitata da circa ottocentomila persone, in gran parte agricoltori e pastori mongoli e tibetani di etnia hui, oltre che da cinesi dell’etnia a maggioritaria han. L’area è una delle zone già devastate dal terremoto che, nel maggio 2008, distrusse il nord del vicino Sichuan, provocando appunto 87.000 morti, secondo fonti ufficiali. Quel terremoto, che fu di 7,9 gradi Richter e che fu avvertito fino a Pechino e Shangai, ma anche in Pakistan,Thailandia e Vietnam, fu il più devastante avvenuto in Cina dal 1976, l’anno in cui un sisma a Tangshan uccise circa 250.000 persone. Secondo la tradizione cinese, i terremoti indicano la caduta di una dinastia imperiale.

Secondo la tradizione cinese, i terremoti e le altre calamità naturali indicano la caduta della dinastia che sta regnando

Tra le vittime ci sono molti bambini delle scuole elementari che, quando si è verificato il sisma, erano da poco entrati nelle aule o stavano nel dormitorio. La zona colpita dal terremoto, non lontana dalla regione autonoma del Tibet, accoglie circa 80.000 persone ed è ad alto rischio sismico. È abitata soprattutto da

sponibile all’esilio se gli verranno date garanzie di poter lasciare il Paese con la sua famiglia. Offerta che molti vedono come un tentativo di aprire un dialogo col governo provvisorio, che la scorsa settimana si è installato a Bishkek e che controllo il nord del Paese.

L’Otunbayeva - verso la quale aumentano di continuo le attestazioni di sostegno da parte di leader locali - ha già risposto che la loro offerta di immunità riguarda il solo Bakiyev e che non la manterranno ancora a lungo. Vari parenti di Bakiyev, tra cui il figlio e il fratello già insediati in incarichi chiave del governo, sono accusati di gravi reati. Ieri il governo provvisorio ha annunciato di avere sciolto la Corte costituzionale. Il Paese è diviso in due, al punto che la televisione statale nemmeno riporta notizie sul meridione, dove a Jalalabad in oltre 5mila si sono riuniti per manifestare sostegno a Bakiyev. Il Kirghizistan, tra i Paesi più poveri dell’Asia centrale e privo di fonti d’energia, è in una posizione chiave, tra Afghanistan, Cina e Kazakistan, ed è l’unico Paese della zona ad avere una base aerea sia russa che Usa (per le operazioni in Afghanistan).


cultura

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Dossier. I “treasure haunters” si sono resi protagonisti di eccezionali ritrovamenti: dalle navi fenicie al Titanic

Predatori di arche perdute Un po’ scienziati, un po’ pirati: ecco l’ identikit dei “cacciatori degli abissi” di Marco Ferrari iù di 5mila miliardi di euro stanno sommersi sott’acqua. Giacciono là, tra correnti e alghe, coccolati da granchi giganti e calamari, sfiorati da mante e squali, acquattati tra scogli aguzzi e secche di sabbia.

P

Un’immensa fortuna che potrebbe di colpo cancellare i debiti dei paesi poveri oppure risolvere i problemi della sanità in Africa. Ma solo in pochi vanno a caccia di questo patrimonio: si chiamano cacciatori di tesori, treasure hunters, viaggiano nel tempo e nello spazio, si lanciano nel blu profondo con piccoli sommergibili o scafandri, studiano le carte e le mappe di reami perduti, seguono l’odore delle rotte dell’argento e dell’oro. Il 70 per cento delle navi spagnole e portoghesi impegnate sulle vie marittime delle spezie, infatti, non tornò mai in patria in un arco temporale durato dal Cinquecento all’Ottocento, prima dell’indipendenza dei Paesi latino-americani di cui, appunto, si celebra in questo periodo il bicentenario. In quegli scheletri di navi, oltre ai tesori degli imperi, si celano storie di conquiste e rapine, sfruttamenti e massacri, equipaggi in rivolta, tecniche sconsiderate di naufragio, avarie di timoni e pennoni, oltre a inevitabile battaglie navali e guerre tra popoli. Ma ai treasure hunters poco importa dei fantasmi dei naufraghi e dei loro angoscianti sospiri, loro puntano al contenuto dei trasbordi mischiando pirateria e intuito, raggirando leggi e decreti, utilizzando tutte le novità dell’informatica e del sistema satellitare, studiando negli archivi e nelle biblioteche, interpretando leggende di mare ma soprattutto sfidando la più inviolabile delle casseforti del pianeta, gli oceani. L’ultimo colpo lo ha realizzato un anonimo signor Nathan Smith, il quale ha scovato un te-

soro con Google Earth rintracciando un vascello nella zona del Refugio in Taxas. Pare si tratti di una nave inabissatasi tra i flutti nel 1822 in una zona ora non più marina. Infatti il relitto, secondo Smith, giace sotto un mare di fango e terra all’interno di un ranch, ma i proprietari non ci pensano proprio a scavare. Il contenzioso giuridico va ancora avanti.Non tutti, però, sono singoli e casuali ricercatori come il signor Smith. La maggior parte dei treasure hunters, infatti, ha una vera e propria patente, come i corsari, possiedono prestigiosi sedi,

corazzata tedesca Bismarck affondata nel 1941, del transatlantico Lusitania silurato nel 1915 e ha individuato al largo di Israele due navi fenicie vecchie di 2.500 anni.

E l’Italia cosa fa? Il patrimonio sommerso nelle nostre acque territoriali ammonterebbe, secondo le stime degli esperti, a più di 2mila tonnellate di metalli preziosi, un bene che risanerebbe di colpo le casse dello Stato. Non a caso nel 1998 è stata firmata un programma di sicurezza tra ministero della Difesa e ministero per i Beni culturali: più una cautelativa tutela che un progetto di recupero. Ma si sa che le acque mediterranee sono ben ambite dai cacciatori poiché, oltre alle 800 imbarcazioni ufficialmente affondate tra il 1400 e l’800, c’è una mappa infinita di navi greche e romane in fondo al mare. I luoghi della caccia nel profondo del mare? Le coste siciliane, lo stretto di Bonifacio, l’arcipelago toscano, le baie occidentali della Sardegna, il levante ligure. Un mondo sommerso che luccica d’oro al pari di altre zone marine a rischio naufragio: Capo de Santa Maria, capo de Sao Vicente e Peniche sulle coste portoghesi, le Baleari, le foci del Guadalquivil, la Manica, le coste meridionali dell’Irlanda. Ma le strette leggi di difesa del patrimonio artistico hanno scoraggiato molti treasure hunters

In quegli scheletri di navi si celano storie di conquiste e rapine, sfruttamenti e massacri, rivolte e guerre tra popoli strumenti, uffici legali che contrattano con i singoli stati, centri di qualificazione dei personale subacqueo. I più noti cacciatori di tesori sommersi sono il francese Franck Goddio, che ha riportato alla luce la nave ammiraglia Orient su cui veleggiava Napoleone, ha recuperato al largo di Alessandria d’Egitto statue monumentali, monete e oggetti artistici del VII secolo avanti Cristo; gli americani Mel Fisher e Robert Ballard, autentico anticipatore di tecnologie modernissime e dai costi miliardari. Ballard, dopo aver localizzato il Titanic nel 1985 a 3.500 metri di profondità, 422 miglia a sud di Terranova, ha esplorato anche il relitto della

a gettarsi sul fondo delle acque europee. Meglio cimentarsi in avventurose ricerche in acque internazionali o in stati che garantiscono una bella percentuale sul ricavato dei recuperi.

Se sappiamo qual è il mestiere più antico del mondo, anche quello del cacciatore di tesori sommersi vanta una certa anzianità. A parte gli occasionali ricercatori locali, il primo tentativo ufficiale di recupero di carico di nave naufragata risale al 1623. Una lettera del marchese di Cadereita, in Messico, spedita il 10 gennaio di quell’anno a Filippo II di Spagna riferisce dei tentativi di recupero di due navi perdute, la Atocha e la Santa Margherita, colme di lingotti d’oro e d’argento, secondo il racconto di don Bernardino de Lugo, capitano delle truppe a bordi del secondo galeone. Per la cronaca, sfruttando quelle notizie fornite dal devoto e preoccupato suddito di Filippo II, Mel Fisher ha concluso il lavoro di recupero del carico della Atocha con più di trecento an-

ni di ritardo. Il primo treasure hunter professionale è stato invece William Phips, nato nel 1651 nel Maine, carpentiere navale a Boston, analfabeta sino all’età di 22 anni, andato sposo ad una ricca vedova, fatto che gli permise di comprare una nave per trafficare sulle vie delle Indie Occidentali. In una sosta in uno dei tanti porti del Caribe venne a scoprire che proprio là, di fronte alla costa nord dell’attuale Repubblica Dominicana, era affondata nel 1641 la nave Nuestra Senora de la Pura y Limpia Conception. Così, nel 1687,William e i suoi collaboratori rintracciarono i resti dell’imbarcazione costruita all’Avana e a portare in superficie 5 tonnellate d’argento. Sempre in termini di primati, il primo cacciatore di tesori di grande livello tecnologico fu l’inglese John Lethbridge (1675-1759), commerciante di lana a Newton Abbot, inventore della prima macchina subacquea da immersione per il recupero di relitti, una botte di rovere a chiusura ermetica con due buchi per le braccia, pompata da un mantice e utilizzata per esplorare il relitto della Vansittart da cui esportò 27 forzieri d’argento. Ma il suo colpo migliore gli riuscì all’isola di Madeira dove


cultura

15 aprile 2010 • pagina 19

Claudio Bonifacio dedica un saggio accurato ai tesori sommersi

Professione naufrago: istruzioni per l’uso P

rofessione naufrologo. Claudio Bonifacio, triestino di nascita, spagnolo di adozione, 63 anni, due figli, è l’unico studioso che sa destreggiarsi ad occhi chiusi tra gli immensi scaffali degli Archivi delle Indie, a Siviglia, sollevando polvere di storia, facendo respirare polene, sconfiggendo nemici invisibile e scoprendo le rotte dell’ignoto. I suoi committenti sono cercatori di tesori sommersi, geografi, musei, biblioteche e università. Nessuno come lui sa leggere antichi manoscritti in cui si sbriciolano parole d’inchiostro e si sprigionano lacrime di dolore.

scovò il relitto della nave olandese Slotter Hooge, da cui prelevò tre tonnellate d’argento. Nonostante si immergesse a profondità inaudita per l’epoca con il suo scafandro all’odore di whisky, Lethbridge resse l’usura degli anni e morì serenamente nel suo letto all’età di 83 anni ed è oggi sepolto nella chiesa di Wolborough nella città di Newton Abbot.

Nella foto grande, la riproduzione di un naufragio A destra, la copertina del libro di Claudio Bonifacio, “Galeoni e tesori sommersi”, appassionante saggio storico che ripercorre la storia delle più celebri navi fantasma

Ci sono poi casi in cui i superstiti di un naufragio si sono fatti promotori del recupero delle navi calate a picco. È il caso di Ensign G.A. Lucas, naufragato al largo di Ranger Point, 50 miglia a sud-est di Città del Capo, nel 1852 a bordo della HSM Birkenhead su cui perirono 445 persone. Nel 1986 Allen Kayne e la sua squadra sono riusciti a tirar via dello scafo 11 sovrane, solo una minima parte delle 240 mila sterline d’oro che si trovano nelle stive del piroscafo, adagiato a soli 35 metri di profondità. Gli oceani sono così diventati un Eldorado sommerso dove si muovono sommergibili e robot: dal Lusitania alla Bismark, dalla portaerei Yorktown all’Andrea Doria, dalla Grande Armata spagnola agli U-Boot che trasportavano in Sud America i tesori del Terzo Reich.

Il naufragio, infatti, sceglie accuratamente i metodi con i quali colpire le proprie vittime predestinate. Figuriamoci un tempo oramai lontani quando fragili caravelle, vascelli, fregate ed eleganti galeoni si avventuravano nelle acque atlantiche sul limite della conoscenza umana. Su quelle rotte la Spagna e il Portogallo hanno lasciato migliaia di relitti ed una incommensurabile fortuna composta da forzieri d’oro, argento, diamanti e pietre preziosi. Claudio Bonifacio ce ne fornisce un piccolo catalogo nel suo libro Galeoni e tesori sommersi (pagg. 415, euro 22, Mursia editore), minuziosa ricostruzione dei naufragi sulle via delle Indie Occidentali, una vera e propria mappa di un’ipotetica caccia al tesoro. Il ricercatore sceglie alcune storie emblematiche della Conquista, naufragi dovuti a motivi ambientali o incidenti marini, ad attacchi nemici o imperizia dei timonieri. Ci muoviamo sulle tracce di imbarcazioni perdute: la nave di Nicolas Castellon, naufragata nelle acque della secca dell’isola di Utila, in Honduras nel 1545; la San Salvador, andata a picco sulle spiagge di Buarcos in Portogallo; il galeone capitana della flotta della Nuova Spagna, persa alle Bahamas; la Nuestra Senora del Rosario, scomparsa di fronte alla spiaggia di Troya, sulle coste portoghesi; sino ai tesori sepolti in luoghi misteriose come le isole Desertas, in pieno Atlantico. Timonieri, nocchieri, licenciados, notai, responsabili della Casa di Contrattazione di Siviglia, scrivani del re, testimoni occasionali, sommozzatori, preti e capitani coraggiosi narrano le peripezie delle flotte tra le Canarie e Antigua, tra le coste spagnole e quelle dell’America Centrale oppure sulla lunghissima rotta tra le Filippine e Acapulco avviata dagli spagnoli nella seconda metà del secolo XVI. Di ogni caso Bonifacio, come un detective, rimette in piedi il puzzle del viaggio, voce per voce, dalla partenza alla relazione finale del naufragio, lettera dopo lettera, lamento dopo lamento, sospiro dopo sospiro. Gli ultimi casi analizzati da Bonifacio comprendono poi i tentativi di recupero dei

carichi delle nave affondate, attività che si sviluppa a partire dal diciassettesimo secolo. Ciò che sorprende è la cura con cui le autorità spagnole redigevano con penna, inchiostro e calamaio i verbali relativi ai viaggi, agli ammutinamenti, agli attacchi, alle perdite e ai naufragi. Prendendo il caso della nave San Francisco detta anche El Soberbio, calata a picco nel 1752 nella spiaggia de La Barrosa, in Spagna, scopriamo tutto il meccanismo legato ai trasporti: la pesa del carico agli ormeggi nel porto di Veracruz, la sosta a Cuba, la direzione Cadice, la vista del mitico capo di San Vicente, in Portogallo, il sopraggiungere della tempesta, il naufragio del 1 febbraio 1752 tra la torre del Puerco e la Bermela, nella giurisdizione della città di Chiclana. Tutto registrato con meticolosità, non dal comandante Juan Francisco del Pena, ma dal vice Diego de Bicheron, abile a far di conto e raffinato nella calligrafia. A dispetto del nome, Soberbio, che in spagnolo significa “superbo”, la nave sembra personificare la disgrazia con alberi che si troncano, l’ancora che si perde, una falla a poppa e le barche messe in acque che si rovesciano. Alla fine solo una cinquantina di marinai raggiunse l’agognata spiaggia a nuoto. Mancavano all’appello 180 tra ufficiali, marittimi, soldati e passeggeri oltre a un milione e quattrocento mila pesos d’argento, 7 casse d’argento lavorato, 40 casse di regali, 1.500 quintali di rame di proprietà della Corona e altre casse di vario contenuto. Il tutto sotto gli occhi di un attento testimone, don Juan Ignacio Piñero, caporale della regione, anche lui scrittore di un rendiconto dettagliato del naufragio. A quel punto intervengono altri scrivani, testimoni e autorità tra cui l’arguto deputato Andrés Francisco de Argomedo y Velasco presente alla localizzazione dello scafo. Il nuovo cronista annota tutti i tentativi di selvaggio del prezioso carico coadiuvato da autorità inviate sul posto finché non giunse un italiano, Antonio Marchetti, esperto di attività subacquea, per ordine del presidente della Casa di Contrattazione.

Ciò che sorprende è la cura con cui le autorità spagnole redigevano i verbali di viaggi, attacchi e perdite: documenti preziosi

I diari redatti sul ritrovamento di 183mila pesos e altri oggetti non è formato. Ma qualche tempo dopo, il 31 agosto 1752, un altro cronista anonimo ci informa che la raccolta di pesos fuertes di argento coniato è salita a 929.347. A dirigere le lunghe operazioni c’era il capitano Capolino e il sottocomandante Bicheron, rimasto a vegliare sul feretro della sua nave perduta. Ogni naufragio, un’indagine, pezzo per pezzo, lettera per lettera, tutti anonimi scrittori che, nelle ricostruzioni di Claudio Bonifacio, diventano protagonisti della grande (m.f.) impresa coloniale.


cultura

pagina 20 • 15 aprile 2010

riente e Diversità. Questi i punti fondanti della XIV edizione di Cartoons on the Bay, il Festival dell’animazione televisiva e cross-mediale promosso da Rai e organizzato da Rai Trade in associazione con Rai Fiction e Terre di Portofino. Da oggi al 18 aprile sarà ospitato tra Santa Margherita Ligure, Rapallo e Portofino. Dopo Cuba, Paese ospite nella scorsa edizione, si passa dall’altra parte del globo e la scelta cade sulla Cina che, nei quartier generali di Shangai e Pechino, sta conquistando sempre maggiori spazi produttivi. Una folta delegazione parteciperà alla tavola rotonda incentrata sulla Case History della prima coproduzione italo-cinese, la serie televisiva Marco Polo, prodotta dalla torinese Lastrego & Testa per Rai Fiction. Insieme ai cartoni con gli occhi a mandorla - già acclamatissimi l’anno scorso con il giapponese Yoshiyuki Tomino vincitore del Pulcinella Award alla carriera altro protagonista sarà il topogiornalista più amato dai bambini, Geronimo Stilton, che al Cartoons Village sul lungomare di Rapallo festeggerà i suoi primi dieci anni.

A fianco, un particolare del logo del Festival dell’animazione “Cartoons on the Bay”, al via in Liguria a partire da oggi e fino al 18 aprile. Qui sotto e in basso, alcune immagini dei diversi cartoni animati in concorso al “Cartoons on the Bay”

O

L’avventuroso, suo malgrado,

Festival. Da oggi al 18 aprile, al via la XIV edizione di “Cartoons on the Bay”

Geronimo, dallo scorso anno anche in versione cartone animato, accoglierà i piccoli fan nella sua redazione appositamente allestita per l’occasione dove, oltre alla proiezione della serie tv, una mostra ne ripercorrerà la storia, dai primi libri alla serie televisiva. Al Cartoons Village tanti gli appuntamenti: le riproposizione dei lungometraggi Anastasia e Fievel sbar-

Torna il villaggio dei cartoni animati

ca in America di Don Bluth, uno dei maestri dell’animazione mondiale, che verrà festeggiato con il Pulcinella Award alla carriera; un assaggio delle anteprime della prossima stagione animata della programmazione di Raidue, Cartoons Nickelodeon e Rai Sat Yo Yo. Il convegno Dalla pellicola al 3D, quando il cartoon lascia il fotogramma e diventa Live, affronterà il fenomeno Cosplay mentre i multiformi cloni dei personaggi usciti dal mondo della tv, nei panni dei più famosi protagonisti dei cartoni animati popoleranno le giornate della manifestazione. Tra sabato e domenica sfileranno per le strade

Ben 486 lavori provenienti da 46 Paesi, 200 opere in gara nella selezione ufficiale che premierà le serie tv per le diverse fasce di età, oltre ai prodotti educativi e sociali, l’animazione interattiva, progetti cross-mediali e cortometraggi

di Livia Belardelli

di Rapallo - ravvivate anch’esse con vetrine a tema - sfidandosi in un concorso all’ultimo costume. Domani, giornata dedicata alla diversità, il sito per bambini Dea Kids (sky canale 601) presenterà i risultati della ricerca su Diversità e cross-culturalità nei bambini e nei pre-adolescenti di oggi. «Vogliamo capire come i cartoni animati stanno proponendo ai nostri bambini un tema così importante e delicato come quello della diversità

con tutte le sue sfumature sociali e culturali» aggiunge Roberto Genovesi, direttore artistico di Cartoons on the Bay. Tra gli altri incontri anche la masterclass Il cartone animato e la comunicazione sociale che analizzerà con esperti dell’editoria per ragazzi e della comunicazione

le potenzialità espressive del mezzo tra i più giovani. A questo proposito sarà interessante visionare le opere in concorso nella sezione Prodotti educativi e sociali dove spicca un titolo quanto mai d’attualità, Hei, lo sai che hai dei diritti?, in cui Gino il Pollo, il

celebre personaggio di Andrea Zingoni e Joshua Held, illustra ai bambini il contenuto della convenzione Unicef sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Le contaminazioni tra videogiochi, fumetti, libri e cartoni animati saranno invece al centro del Crossmedia day (il 17 aprile) nell’incontro Scenari cross-mediali per l’Entertainment 3.0 che riprende il dialogo avviato nella precedente edizione approfondendo questo processo con Christy Dena, pioniera mondiale della cross-medialità e Max Giovagnoli, docente universitario e autore del libro Cross-media. In concorso, nella categoria dedicata, il maestro di tutti gli assassini nella Firenze dei Medici con Assassin’s Creed 2 sfiderà l’esercito di Guerre Stellari di Star Wars: The clone wars insieme ad altri temibili concorrenti. Complessivamente ben 486 i lavori presentati provenienti da 46 paesi, 200 le opere in gara nella selezione ufficiale che premierà le serie tv per le diverse fasce di età (dalla Preschool alla Young Adults) oltre ai prodotti educativi e sociali, l’animazione interattiva, progetti cross-mediali, piloti e cortometraggi.

Ai tradizionali Pulcinella Award si aggiunge in questa edizione l’Arlecchino Award riservato alla Miglior Opera d’Animazione tratta da un libro. Alla ribalta dello Studio dell’Anno la società Atlantyca che ha coprodotto la serie Geroni-

mo Stilton, in nomination nella categoria Kids, che si contenderà il titolo con produzioni internazionali di prestigio. Nella selezione ufficiale ancora Diabolik, Teen Days, The penguins of Madagascar e Pipì, Pupù e Rosmarina. Proprio il regista di quest’ultima, Enzo D’Alò, sarà tra i membri della giuria del concorso collaterale Pitch me! dedicato a tutti gli autori non ancora inseriti nel mercato professionale. Infine, tra una visione e l’altra, c’è tempo per una pedalata con Cartoons on the Bike, la gara ciclistica (17 aprile) da Portofino a Rapallo che impegnerà bambini, sportivi e manager.


spettacoli

15 aprile 2010 • pagina 21

Musica. È arrivato “Booker’s Guitar”, il nuovo album di Eric Bibb interamente eseguito con la chitarra di Booker White

Un flashback nel Delta blues di Valentina Gerace

Leon Bibb, personalità di rilievo del circuito folk, noto per le sue esperienze teatrali e televisive nel ’60. E nipote del pianista John Lewis, artefice del celebre Modern Jazz Quartet. Non ha scelta, Eric. A sette anni già imbraccia la sua chitarra, riproducendo la musica dei grandi Bob Dylan, Joan Baez, Pete Seeger, Odetta, Richie Havens, Judy Collins. Nel 1969 suona la chitarra con la Negro Ensemble Company, occasione che lo porta a trasferirsi prima a Parigi e poi in Svezia. Si inserisce nella scena musicale newyorkese come “spalla” di Sonny Terry, Brownie McGhee, Tania Maria, Etta James e dei Persuasions. Agli anni Novanta risalgono due album per l’etichetta svedese Opus 3, Good Stuff (1997) e Spirit & The Blues (1999). Seguono Painting Signs (2001) e Natural Light (2003). L’entrata nella scuderia Telarc avviene nel 2004 e segna un decisivo passo in avanti nella sua carriera. Non sono da meno A Ship Called Love (2005), altra gemma di sensibilità espressiva e Diamonds Days (2007).

uò una semplice chitarra ispirare un intero album? Certo, se lo strumento in questione è appartenuto a Booker White e se a suonarlo è un asso del blues acustico come Eric Bibb. Tutto nasce per uno strano incontro. Durante un tour a Londra, Bibb viene avvicinato da un fan con una custodia. All’interno c’è una Resophonic National degli anni Trenta appartenuta alla leggenda del Delta blues, Booker White. Una rivelazione per Bibb che con uno strumento simile tra le mani trova una nuova ispirazione. Un’occasione irrinunciabile per riaquistare consapevolezza delle proprie origini e riscoprire la tradizione blues da cui tutto è nato.

P

Quell’incontro londinese ispira una canzone, registrata proprio con la chitarra di Booker. E la stessa canzone diventa poi un album, Booker’s Guitar, disco prodotto dalla Telarc, disponibile da gennaio, che cattura lo spirito originario del Delta Blues e lo rilegge con gli occhi della modernità. Un invito a salire su un immaginario treno pronto a condurci su un percorso intriso di soul e gospel. Un vero e proprio viaggio a ritroso nel tempo alla riscoperta delle origini, sotto la guida attenta dell’anima del mitico “Bukka” White e della sua vita leggendaria. Cugino di B.B. King, Booker è stato uno dei giganti della chitarra slide. I più grandi hanno interpretato la sua musica, persino il re del blues Johnny Winter. Una vita dannata la sua, da vero blues man, con tanto di accusa di omicidio

versione di Nobody’s fault but mine di Blind Willie Johnson. Ci guida tra passato e presente con Sunrise blues e nei suoi ricordi con Turning pages. La sua voce calda ci accompagna in A good woman fino a guidarci lungo le highway d’America con A-Z blues. In ogni sin-

lorato da una ritmica grintosa, da un chiaro coro di matrice soul e dalla chitarra elettrica di Chuck Anthony che intesse preziosi ricami. Booker’s Guitar è un tributo denso e soffice, in grado di cullarci verso un mondo senza tempo, anzi fermandolo alle origini del blues, quello vero, autentico. Classe ’51. Newyorkese di origine, ormai stella di prima grandezza nel firmamento del folk blues acustico internazionale. Scrittore sensibile di testi significativi, dotato di un eccellente timbro vocale. Apparso in programmi televisivi come Later with Jools Holland e The Late Late Show, la sua musica è stata sfondo musicale di show come Eastenders, Casualty e The District. Si è esibito nei principali festival di tutto il mondo, dagli Usa al Canada, dall’Australia al Giappone. Vanta di una discografia ricchissima. Ben 5 album negli ultimi 5 anni e collaborazioni di eco storica (Robert Cray, John Mayall, Robben Ford, Ray Charles, Rory Block e Maria Muldaur). Bibb ha la fortuna di essere figlio d’arte. Figlio di

Tutto iniziò quando durante un tour a Londra, l’artista venne avvicinato da un fan con una custodia. All’interno, la Resophonic National anni Trenta di White. Una rivelazione... e due anni trascorsi nella nota prigione del Mississippi, Parchman Farm. La sua attività musicale si concentra tra il 1930 e il 1940 fino a rallentare drasticamente. Booker cade presto nel dimenticatoio. Viene riscoperto nel corso del folk-blues revival dei primi anni Sessanta. La sua anima e la sua musica rivive oggi in quella del grande Eric Bibb. Che non si ferma solo a Booker White. No, omaggia Howlin’ Wolf in Flood water, in cui racconta la catastrofica alluvione del Mississippi del 1926 e ripropone una meravigliosa

golo brano è riconoscibile il tocco maturo di un Bibb ispirato come non mai. Un timbro di voce inimitabile che sembra assumere le stesse sfumature, lo stesso timbro della chitarra stessa. Una chitarra personalizzata, impolverata e ricoperta di nastro adesivo qua e là. Strumento vecchio quasi 75 anni che il maestro del solo acustico venera, interpreta, esprimendosi con un folk-blues lento, che trascina, nota dopo nota. Un pizzico di boogie woogie suonato con stile, quasi con spiritualità. Co-

In questa pagina, alcune immagini dell’artista Eric Bibb, di nuovo sotto i riflettori grazie al nuovo album “Booker’s Guitar”. Il disco è stato interamente eseguito con la chiatarra di White, storica leggenda del Delta blues, regalata a Bibb da un fan durante un concerto a Londra

Eccellente il disco Get onboard con la partecipazione della cantante blues Bonnie Raitt, alla slide guitar e di Ruthie Foster, protagonista di un emozionante duetto vocale con lo stesso Bibb. E di altri illustri ospiti, il tastierista e produttore Glen Scott, il chitarrista e bassista Tommy Sims e il batterista Lemar Carter. Ancora un’altra perla intrisa dello spirito dei grandi bluesmen del Delta, insaporita dai deliziosi arpeggi della chitarra acustica di Bibb. Sensibilità esecutiva, delicatezza nel comporre e nell’interpretare grandi standard blues, essenzialita’ e raffinatezza degli arrangiamenti. Questi sono solo alcuni degli ingredienti che Eric Bibb utilizza intraprendendo i suoi tipici viaggi attraverso la musica nera. Percorsi musicali, tematici, sentimentali capaci di rendere ogni suo disco unico, innovativo. Incrocio sorprendente di svariati generi musicali.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Non ci sono più dubbi sulla necessità dell’abrogazione dell’Ordine dei giornalisti L’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha sospeso per sei mesi Vittorio Feltri dall’esercizio della sua professione, perché il direttore de Il Giornale ha scritto sul “caso Boffo”, sul presidente della Camera Gianfranco Fini e anche perché avrebbe fatto firmare articoli a Renato Farina, radiato dal medesimo albo professionale. A questo punto, c’è ancora qualche dubbio che l’ordine dei giornalisti debba essere soppresso? Ovviamente è una domanda che rivolgo non a chi è d’accordo o meno su quanto scritto da Vittorio Feltri, o a chi crede che per scrivere bisogna essere abilitati da una corporazione degli stessi giornalisti. La domanda la faccio a tutti coloro che, partendo dalla necessità di avere una stampa e una libera espressione per vivere in un Paese libero, credano che l’unico giudizio verso chi vuole e può scrivere, possa e debba essere espresso da chi legge, chi acquista per leggere, cioè da un mercato di libere idee ed espressioni. Le lacrime che cominciano già a circolare da parte di coloro che si sono sentiti toccati per questa sospensione, è possibile che non siano di coccodrillo, solo se si trasformeranno in gesti concreti per la soppressione della corporazione dei giornalisti.

Vincenzo Donvito

BULLISMO: PIÙ ATTIVITÀ DI EDUCAZIONE E PREVENZIONE NELLE SCUOLE L’associazione Codici ha attivo uno sportello contro le vittime del bullismo e uno sportello on line al quale gli esperti dell’associazione rispondono alle richieste di aiuto dei genitori e degli educatori. Dall’esperienza maturata dall’associazione nel corso degli anni e dalle segnalazione pervenute, emerge che il 72% dei bulli prende di mira i soggetti che sono percepiti come “diversi”. Nel 28% dei casi ci troviamo di fronte a casi di razzismo, nel 23% ad essere presi di mira dai bulli sono i ragazzi percepiti diversi per orientamento sessuale, nel 33% dei casi sono presi di mira i ragazzi considerati secchioni e infine nel 16%, i timidi, i diversamente abili e gli introversi. Il comune di Roma sta spendendo 800mila euro per una campagna anti bullismo, il cui testimonial sarebbe

Gigi D’Alessio. Perché non investire parte di questi fondi nelle scuole, in attività di formazione e di educazione alla diversità, alla prevenzione al fenomeno del bullismo e all’uso consapevole dei nuovi media?

La piccola vedetta africana

Monia Napolitano

In Tanzania, la vegetazione secca della stagione estiva permette - alla giusta altezza - di vedere punti anche lontanissimi. Il nome ”Tanzania” fu creato dalla fusione di “Tanganica” e ”Zanzibar” nel 1964

PEDOFILIA, INFORMAZIONE, VATICANO Ha avuto molto clamore le informazioni e i commenti del The NewYork Times, sul coinvolgimento nello scandalo dei preti pedofili e anche dell’attuale Papa Ratzinger. Personalmente non entro nel merito: leggo come qualunque altro cittadino in qualunque altra parte del mondo e mi faccio un’idea, aspettando che le indagini arrivino a rendere queste informazioni più accettabili o meno. Mi interessa, invece, il metodo. Il presidente del Senato, nel prendere le difese del Papa ha anche detto: «Ecco perché non capisco e non capiamo il motivo di questi at-

tacchi, che avrebbero fatto bene a rimanere nell’ambito dei Paesi da cui sono provenuti». Un’affermazione significativa di come la nostra seconda carica dello Stato, intenda l’informazione, chi ne fruisce e chi è operatore del settore: stupidi sudditi i primi e strumenti proni al potere di turno i secondi. Perciò mi è venuto in mente il MinCulPop. Roba di più di sessanta anni fa. Ma, evidentemente, roba che ha segnato un metodo ancora oggi auspicato dal presidente del

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

Senato. Quando si interviene in questo modo, invece di auspicare che le notizie siano meglio approfondite per cercare di giungere ad una credibilità diffusa, si ha una concezione dello Stato e della società come campo di pascolo delle proprie falangi, piuttosto che libero luogo di convivenza di ognuno. Mi aspetto che il presidente Schifani chieda scusa a tutti i professionisti del settore e a tutti gli utenti dell’informazione.

V.C.

dal ”Washington Post” del 14/04/10

Missili Scud a Hezbollah? di Glenn Kessler e Greg Miller issili Scud forniti dalla Siria alle milizie di Hezbollah nel sud del Libano. È questa la pesante accusa formulata, martedì, dal presidente israeliano, Simon Peres. La dichiarazione ufficiale arriva dopo alcune settimane in cui stava montando la preoccupazione, alimentata da voci continue sull’arrivo in Libano di vettori missilistici provenienti da Damasco. Tutta un’altra cosa rispetto ai razzi Qassama corto raggio che pur avevano messo sotto pressione la parte settentrionale d’Israele per un lungo periodo. La Siria naturalmente respinge ogni accusa, affermando che si tratterebbe solo di un diversivo che lo Stato ebraico ha messo in campo per distrarre l’attenzione da ciò che sta facendo nei Territori. Un trasferimento di missili con un raggio d’azione di circa 600 chilometri, cambierebbe radicalmente gli equilibri militari della regione. Hezbollah che, fino ad ora, poteva colpire solo le città dell’alta Galilea a nord d’Israele, avrebbe così acquisito le capacità per raggiungere obiettivi come Tel Aviv e Gerusalemme.

M

Se dovessero rivelarsi vere queste notizie, complicherebbero non poco il nuovo approccio di Obama verso la Siria. Proprio dopo la riapertura della sede diplomatica americana a Damasco, e la recentissima nomina di un nuovo ambasciatore, per la prima volta dopo cinque anni. «La Siria dichiara di volere la pace, ma poi consegna dei missili Scud a Hezbollah, un’organizzazione che minaccia costantemente la sicurezza d’Israele» ha affermato il presidente Peres alla radio israeliana, prima della partenza del viaggio per la Francia. Anche durante l’incontro

con il primo ministro, Francois Fillon è ritornato sull’argomento. «La Siria sta facendo il doppio gioco. Da un lato parla di pace, dall’altro fornisce missili di precisione, come gli Scud, per poter minacciare Israele». Fonti ufficiali dell’amministrazione Usa si dicono preoccupate per le dichiarazioni di Peres, ma non hanno ancora informazioni sufficienti per avere un quadro chiaro della situazione nel Libano del sud.

Mike Hammer, membro del National security council ha affermato: «cresce la preoccupazione per gli armamenti sempre più sofisticati che stanno raggiungendo gli arsenali delle milizie sciite, stiamo reiterando le richieste affinché le autorità siriane e libanesi facciano dei passi significativi, per evitare che scoppi un altro conflitto nel sud del Libano e non per provocarne un altro». Anche dalla comunità dell’intelligence Usa non arrivano ancora notizie in proposito. «Non sappiamo se questo tipo di armi sia entrato o meno in territorio libanese» avrebbe affermato una fonte che ha voluto rimanere anonima. Ma c’è un diretto testimone della vicenda, il presidente della Commissione esteri del Senato, il democratico John F. Kerry, che un paio di settimane fa è rientrato da un viaggio che lo ha portato in Libano e Siria. Il suo portavoce, Frederck Jones ha dichiarato che ciò che il senatore ha appre-

so prima della sua partenza è ritenuto materiale classificato, ma «che si rende conto che il continuo flusso d’armamenti verso Hezbollah solleva delle legittime preoccupazioni da parte di Israele e di tutti gli attori che stanno lavorando per una pace nella regione». La commissione Esteri del Congresso, martedì, aveva approvato, con voto palese, la nomina del nuovo ambasciatore a Damasco, nella persona di Robert Ford, ma sono state sollevate delle obiezioni da tre membri repubblicani. È stato chiesto che vengano verificate le accuse israeliane, prima di procedere alla nomina del diplomatico.

Mentre l’ambasciatore siriano a Washington, Imad Moustapha, ha denunciato il rapporto come una «storia ridicola» creata ad arte da Israele nel tentativo di promuovere un riavvicinamento con gli Stati Uniti. Ha anche affermato che nessun rappresentate del governo americano avrebbe finora sollevato il problema dei missili.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

La mia sciarpa azzurra ti aiuta a portare i tuoi sogni? Perché non ho baciato le tue ginocchia? Avrei voluto fermare quell’automobile giù per la costa, tornare al Barco a piedi, nella notte, che c’è il tuo petto per questa bambina stanca. Tornare, come una bambina, questa del ritratto a dieci anni. Non quella che t’ha portato tanto peso di storie di memorie affannose, che t’ha parlato come se stesse ancora continuando il suo povero viaggio disperato, come se non ti vedesse, quasi, e non vedesse lo spazio intorno, le quercie, l’acqua, il regno mitico del vento e dell’anima... Tu che tacevi o soltanto dicevi la tua gioia. Sentivi che la visione di grandezza e di forza si sarebbe creata in me non appena io fossi partita? Nella tua luce d’oro. E non ho baciato le tue ginocchia. I nostri corpi su zolle dure, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupiscono il cielo. Non ho saputo che abbracciarti. Tu che m’avevi portata così lontano. Che il giorno innanzi ascoltavi soltanto l’acqua correr fra i sassi. Oh, tu non hai bisogno di me. È vero che vuoi ch’io ritorni? Come una bambina di dieci anni. È vero che mi aspetti? Rivedere la luce d’oro che ti ride sul volto. Tacere insieme, tanto, stesi al sole d’autunno. Io non posso più dormire, ma tu hai la mia sciarpa azzurra, ti aiuta a portare i tuoi sogni? Sibilla Aleramo a Dino Campana

LE VERITÀ NASCOSTE

Zimbabwe, nessuno vuole fare il boia JOHANNESBURG. Il boia diventa vittima anche dopo mezz’ora, ma la vittima diventa boia se non ha cultura. Questa vecchia massima sembra essere stata recepita dagli abitanti dello Zimbabwe, dove vige la pena di morte ma non ci sono più esecutori. Da cinque anni una cinquantina di detenuti condannati a morte languiscono nella prigione di massima sicurezza di Harare, in Zimbabwe, perché nessuno vuole fare il boia. Le ultime esecuzioni nella famigerata prigione di Chikurubi avvennero nel 2005, quando furono impiccati due uomini condannati per aver ucciso una guardia in un tentativo di evasione. Dopo di allora, il boia è andato in pensione e nessuno si è finora presentato per coprire il posto vacante, nonostante - come ha scritto il quotidiano di Johannesburg Mail & Guardian, la disoccupazione nel Paese abbia toccato il 94 per cento l’anno scorso. Queste, scrive il giornale, sono le caratteristiche richieste per fare il boia: «Procedure e tecniche si imparano facilmente. Al candidato non si richiedono nè precedenti esperienze nè di saper leggere e scrivere. È un lavoro solo per uomini, che richiede forza e risolutezza. Non è per cuori teneri». «Se si troverà un boia - ha aggiunto il giornale - il personale della prigione gli insegnerà come annodare il capestro e come mantenere la posizione corretta durante l’impiccagione, il che è vitale». Alcuni detenuti nel braccio della morte del carcere di Chikurubi, soprannominato “il gulag”, aspettano di salire sul patibolo anche da più di dieci anni. Dall’indipendenza nel 1980, circa 70 persone sono state messe a morte in Zimbabwe. Molte organizzazioni per i diritti umani da anni fanno pressioni sul Paese perché abolisca la pena di morte, finora ignorate dal regime del presidente Mugabe.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

FARMACO MEROPUR. SI GUARDI SOLO ALLA SALUTE DEI CONSUMATORI La vicenda delle presunte tangenti dell’azienda Ferring intascate dal sen. Cesare Cursi per favorire il prezzo alto di un farmaco per la fertilità, va oltre il mero prezzo. Sul Meropur è dal 2006 che si chiede maggiore rigore scientifico nelle informazioni sulla sua commercializzazione, perché l’uso in quel farmaco di gonadotropone derivate da urina umana presenta il rischio di contrarre patologie virali come il morbo di Creutzfeldt-Jacob (mucca pazza). Il governo Prodi allora fece sapere che l’Aifa aveva imposto alle aziende produttrici di integrare il foglietto illustrativo con le necessarie informazioni. Ma le informazioni continuarono a non esserci anche durante questa legislatura perché, come fu risposto, trattandosi di un farmaco inserito nella nostra farmacopea grazie al mutuo riconoscimento comunitario, era la ditta danese che lo produceva che avrebbe dovuto provvedere. È stato quindi richiesto il ritiro dal mercato di questo farmaco, ma il ministero non ha dato risposta. Alla luce delle vicende giudiziarie in corso, anche se riguardano un sottosegretario del governo Berlusconi del 2005, si capisce meglio il disinteresse, in questa legislatura, ad affrontare la questione sanitarioscientifica sollevata: in un contesto di farmaci che comunque devono essere sul mercato, con prezzi artatamente alti, quanto può interessare l’eventuale pericolosità degli stessi? Ancora una volta, la salute dei consumatori passa in secondo piano rispetto ai presunti lucri che il malaffare istituzionale combina sugli stessi.

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Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

APPUNTAMENTI APRILE 2010 VENERDÌ 23 ORE 11, ROMA, PALAZZO FERRAJOLI-PIAZZA COLONNA

Consiglio Nazionale Circoli liberal SEGRETARIO

Donatella Poretti

Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak

PRETI PEDOFILI E COMPLOTTO MASSONICO (II PARTE) Sembra che gli episodi che coinvolgono i sacerdoti in atti di pedofilia siano stati frequenti, come lo sono tra i non sacerdoti. La differenza sta nel fatto che mentre un cittadino subisce un processo e una condanna, la Chiesa, per tutelare la propria immagine, cerca di intervenire e di risarcire le vittime in qualche modo. Si può dire che la Chiesa ha cercato di lavare i panni sporchi in casa. Non vi fosse stato il problema di difendere l’istituzione ecclesiastica dalle conseguenze di immagine morale, ben volentieri per prima avrebbe affidato alla giustizia civile i colpevoli. Anche la morale per certi versi si evolve ed è relativa. E ciò che una volta era una cosa riprovevole ora è un reato. Così è nella società civile. Uno schiaffo violento punitivo a un figlio nel passato era segno di saggezza; ora è un reato di maltrattamento. Fino a pochi anni fa nel nostro Paese la giustizia penale dava forti attenuanti al marito che uccideva la moglie per tradimento. È sempre, nelle società libere, un lento avvicinarsi alla verità, a quelle legge naturale che abbiamo dentro di noi: “Conosci te stesso”. Ma senza la libertà di coscienza e la competizione tra le idee, e quindi la tolleranza, questo processo progressivo di ferma. Per questo, in tutti i vari aspetti di una società, dalle organizzazioni politiche a quelle religiose, assistiamo allo scontro tra due fronti: quello che non vuole lasciare un passato sicuro e collaudato ma ora ingiusto ed inaccettabile, e quello che vuole affrontare il futuro, cambiare, perché se non si perde di vista il fine e cioè il bene dell’uomo bisogna avere fede e cioè fiducia. La Chiesa, per la creazione almeno in Occidente di questa morale sempre più globale e universale, sta subendo forse l’attuale intransigenza del mondo laico nel potersi fare giustizia da sola. Ma proprio da questi processi, in passato la Chiesa ha saputo migliorarsi e generare un messaggio adeguato ai bisogni dell’epoca, riuscendo ad essere guida morale per centinaia di milioni di uomini e donne. In fatto di pedofilia i richiami sono sempre a episodi del passato. La Chiesa ora è orientata verso questa positiva evoluzione nei rapporti con la giustizia statuale. Ma forse non lo sono ancora tutti i suoi sacerdoti. Ed è naturale, ci vuole tempo, pazienza e fiducia nell’umanità. Questo volevo dire a un prete che stimo molto di Pordenone che si ostinava a dirmi che la Chiesa ha il diritto di lavare i panni sporchi in casa e che è tutto un complotto della massoneria americana e della chiesa anglicana in difficoltà per la continua perdita di fedeli. Leri Pegolo C I R C O L I LI B E R A L PO R D E N O N E

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ULTIMAPAGINA Personaggi. Arrivano in Italia le pagine di Arthur Schlesinger Jr. sul rapporto tra Usa e conflitti militari

Quando la guerra giusta di Pierre Chiartano rthur Schlesinger jr. è stato un uomo dell’altro secolo, uno di quelli vicino alla storia e al mito. Ha raccontato i mille giorni della presidenza di John Fitzgerald Kennedy, come solo un bostoniano dei giorni di Camelot avrebbe saputo fare. Classe 1917 e vincitore di un paio di premi Pulitzer, nasce come storico, figlio d’arte, poi prestato alla politica. Ora è uscito anche in Italia, a quasi tre anni dalla sua scomparsa, il suo War & the American Presidency («La Guerra e la presidenza americana») per i tipi di Treves editore.

A

«Adorava le frasi semplici» ricorda Giuliano Amato, in qualità di presidente del Centro studi americani, durante la presentazione dell’edizione italiana del suo libro, qualche tempo fa. Schlesinger amava rendere comprensibile la comunicazione con gli altri, figlio di quella tradizione che ha sempre mischiato empirismo ad accademia, esperienza a studio, e di cui fu buon esempio il genio poliedrico di Benjamin Franklin. Una delle sue frasi celebri, che è la cifra del suo valore intellettuale, è «la democrazia ha bisogno del mercato, ma il mercato non ha bisogno della democrazia». Volendo significare che il mercato attecchisce anche in assenza di democrazia. E ne abbiamo più di qualche esempio. «Oppure parlando di terrorismo – ha continuato Amato – diceva che “non esistono persone al mondo più pericolose di chi esegue la volontà dell’Onnipotente”. Da non prendere proprio alla lettera… Vuol dire che chi organizza conflitti in nome di Dio sfugge al confronto razionale. Il terrorismo religioso è più pericoloso di quello etnico o nazionalista». E in tempi di new age federalista, l’ex assistente di JFK aveva qualcosa da dire: «Amava l’ironia – ha detto ancora Amato –, una caratteristica riscontrabile in molti discorsi di John Fitzgerald Kennedy. È assai probabile che la fonte fosse proprio Arthur Schlesinger». Anche se JFK, ricordiamo, era piuttosto indipendente nell’elaborazione culturale della propria dottrina politica... Il filo principale del libro è «come e quando andare in guerra». «Schlesinger si chiede se la storia insegni attraverso l’accadimento di fatti specifici oppure attraverso tendenze generali che possono poi diventare una regola per comportamenti futuri. Pur non negando che la seconda ipotesi sia concreta, è convinto che a volte esperienze storiche ci appaiono come identiche, semplicemente perché non conosciamo le differenze che le caratterizzano. E potrebbero proprio questi fattori di diversità ad essere stati storicamente determinanti. Una riflessione legata alla delusione sulla guerra in Iraq» ha spiegato il presidente del Csa. Un conflitto che il democratico, nato a Boston, ha sempre criticato, pur non essendo alieno al concetto di intervento negli affari interni di un Paese. Era stato, a suo tempo, l’autore del famoso memorandum in cui suggeriva a Kennedy come muoversi nel tentativo di rovesciare il regime comunista di Fidel Castro e che

è DEMOCRAT Il politologo, consigliere di John Fitzgerald Kennedy parla di interventismo e dialogo: scegliere la democrazia non significa rinunciare alla forza portò alla fallita operazione di sbarco nella Baia dei Porci.

E un ammonimento viene anche da un troppo facile ottimismo «durante il discorso per il suo secondo insediamento, Bill Clinton disse che per la prima volta la maggioranza della popolazione del pianeta viveva sotto un governo democratico piuttosto che

sotto una dittatura» un dato certificato dal Congresso: tre miliardi a due a favore di un governo repubblicano. «Lo stesso ottimismo che permeava il passaggio di un altro secolo quella tra XIX e XX all’insegna di grandi speranze» ammonisce Schlesinger. Si vide poi con quali risultati. Due secoli fa – continua Schlesinger nel libro – Immanuel Kant sostenne nel suo Idea per una Storia Universale che la forma di governo repubblicana fosse destinata a prendere il posto di tutte le altre forme di governo. Una profezia che nonostante tutto sembra che si stia per realizzare, tanto che il New York Times aveva sentenziato «c’è più gente in questo pianeta che vive sotto una democrazia che sotto una dittatura». E Francis Fukuyama si era sbilanciato fino a pronosticare «la fine della storia». Ma nella testa degli storici – ricorda il bostoniano – questa euforia fa suonare un campanello d’allarme: «Questa speranza raggiante non accompagnò, forse, la transizione tra diciannovesimo e ventesimo secolo?». Dopo di che Schlesinger ricorda Winston Churchill. Lo statista britannico, che certo non temporeggiò contro il nazismo, si ammoniva: «Quante guerre sono state causate dall’interventismo!». E quante guerre si sarebbero potute evitare col dialogo. Ma le citazioni del politico britannico sono numerose e comprensibili, tanto da diventare una specie fil rouge tra due grandi epoche. Per uno dei protagonisti della Camelot americana, John Kennedy ne era quasi un erede, aveva la mente di uno «storico di prima classe, come Wiston Churchill».

In breve Schlesinger ammonisce i politici sulla complessità della storia e sulla sua apparente riproducibilità, dall’alto della sua lunghissima carriera di consigliere del principe, gesuita dei figli di Jefferson, passato anche per le stanze dell’Oss, l’antesignano della Cia. Dopo la morte di JFK scriverà i discorsi della campagna elettorale di Robert Kennedy nel 1968 e poi quelli di Ted nel 1980.


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