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Questa è la regola negli affari: «Fatela agli altri, perché loro la farebbero a voi» Charles Dickens

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 24 APRILE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Umberto: «Fini è rancoroso, cacciatelo». Silvio: «Un altro predellino non serve». E così si torna a parlare di elezioni anticipate

La maggioranza va in tilt Bossi minaccia: «A rischio l’alleanza Pdl-Lega, il Nord è stufo»

È stato sufficiente un normale discorso politico di Fini a far perdere la testa a tutti i capi del centrodestra. Anche il Carroccio evoca la crisi di governo: ma che c’entra con le cose dette dal presidente della Camera? Ora il voto anticipato diventa più probabile

Il leader leghista vuole le mani libere

La Seconda Repubblica può finire in due modi

Ora il Senatur ha paura (del dopo Berlusconi)

di Enrico Cisnetto

di Giuseppe Baiocchi

Se un’espressione di dissenso, per quanto forte, come quella di Fini verso Berlusconi, scatena una reazione tale da far evocare una crisi di governo, vuol dire che la crisi d’astinenza di “politica”aveva raggiunto livelli davvero impensabili, qui da noi.

L’attacco è durissimo, nello stile del leader leghista, che pure carica la sua rabbia attribuendola alla spinta di protesta che arriva dalla base imbufalita per il pessimo spettacolo della direzione Pdl. In realtà, dierto le parole forti c’è dell’altro: c’è la paura di non raccogliere nulla.

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I retropensieri e il disagio del premier

Dietro le critiche mosse dall’ex leader di An

Il carisma spezzato e l’esorcismo delle elezioni

Populismo o democrazia: ecco il nodo da sciogliere

di Giancristiano Desiderio

di Francesco D’Onofrio

Berlusconi e Bossi, impauriti dalla politica, agitano insieme lo spettro delle elezioni. Ma, a pensarci bene, si potrebbe chiedere loro: come è possibile che il governo con la più vasta maggioranza di sempre sia già in crisi? Possibile che tutto dipenda da un’ora di politica?

La rottura tra Fini e Berlusconi ha avuto per oggetto tre questioni sostanzialmente politiche: il lavoro, le conseguenti forme di “welfare” possibili, l’organizzazione dello Stato. Ma il vero problema posto da Gianfranco Fini è quello del rapporto tra potere e popolo.

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Due giorni di visita privata da Berlusconi

Una denuncia di Médecins Sans Frontierès

La contraddizione del capitalismo sostenibile

Putin ad Arcore: le vacanze d’affari dell’amico Vladimir

Accordo sottobanco tra Europa e India contro i Paesi poveri

Il sogno dell’auto elettrica e gli incubi dell’Occidente

Da domenica, il premier russo sarà ospite del Cavaliere. Tema del lungo incontro non è una questione tra Stati, ma una complessa trattativa economica tra businessmen del gas e della benzina, che coinvolge anche la Libia

Gianfranco De Maio, direttore italiano della ong francese, lancia l’allarme: nell’aria c’è un «patto bilaterale» che rallenterebbe la produzione dei farmaci generici che salvano dall’Aids le zone più sottosviluppate

La benzina costa molto e sporca l’ambiente ma ancora non abbiamo inventato un sistema per consumare e progredire senza aggravi per l’economia e il territorio. È un problema di strategia politica più che di programmazione urbanistica

Luisa Arezzo • pagina 8

Carlo Lottieri • pagina 24

Enrico Singer • pagina 28 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

78 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Minacce. Per il leghista «il Nord è stufo» e il Cavaliere accarezza il sogno delle urne. Da addebitare al nemico interno

Mamma, ho perso la testa Umberto: «Fini è rancoroso, cacciatelo». Silvio: «Un altro predellino non serve». Adesso pensano alle elezioni, pur di evitare la politica di Errico Novi

ROMA. Profonda, roca, netta: è la voce del padrone. Inconfondibile. E il padrone si chiama Umberto Bossi. Molto deluso dalla direzione del Pdl. «Fini è contro il popolo del Nord, a favore di quello meridionale: Berlusconi avrebbe dovuto sbatterlo fuori subito, senza tentennamenti, invece di portarlo in tv, dandogli voce e rilievo», dice il Senatùr in un’intervista alla Padania. Cavaliere bocciato. Ben al di sotto della sufficienza. «Siamo davanti a un crollo verticale del governo e probabilmente della fine di un’alleanza, quella tra Pdl e Lega». È un colpo di una durezza impressionante, affidato alla penna di Leonardo Boriani, direttore dell’organo ufficiale lumbàrd. Ne arriva l’eco in Consiglio dei ministri. Berlusconi prova a riprendere il controllo della situazione. Al termine della riunione di governo, dedicata soprattutto al tema dell’energia, si apparta con Bossi in una sala di Palazzo Chigi. Assistono al faccia a faccia Calderoli e Maroni. Passa qualche minuto e il leader del Carroccio è raggiunto dall’Ansa. Concede una rettifica solo parziale: «Diciamo che il meccanismo del federalismo resta in piedi, ma deve essere fatto subito: non posso andare di fronte alla mia gente e dire che non stiamo realizzando quel cammino che avevamo intrapreso. Quello che sta accadendo frena le riforme, la gente del Nord è stufa e l’ho fatto capire chiaramente».

Caso solo apparentemente rientrato. Resta in piedi una delle bordate scagliate dalle colonne della Padania: quel passaggio sulla «stagione del federalismo» che «è finita», «un concetto abbandonato», addirittura: «Dobbiamo iniziare una nuova fase, un nuovo cammino del popolo padano». E ancora: «Oggi non ha più senso parlare di federalismo alla nostra gente che potrebbe sentirsi tradita da ciò che non

siamo in grado di fare». Sembrerebbe un mezzo annuncio di secessione: «Una strada nuova ci aspetta e sarà una strada stretta, faticosa, difficile, ma che potrebbe regalarci enormi soddisfazioni», continua infatti il Senatùr nel colloquio con il suo giornale. Fino a ribadire il concetto della separazione da Silvio: «Saremo soli, senza Berlusconi. La nostra gente non digerirà la mancata conquista del federalismo e noi della Lega dovremo comportarci di conseguenza».

Cosa può aver indotto il leader del Carroccio a un fendente così affilato? C’è una risposta semplice: alla direzione di due giorni fa Berlusconi ha aperto senza

Il partito che ha paura della libertà di parola

Il carisma spezzato e l’esorcismo delle elezioni di Giancristiano Desiderio l Pdl è il berlusconiano popolo della libertà che ha paura della libertà di parola. Ha quindi ragione Berlusconi a non volere alcun tipo di visibile dissenso nel partito se i risultati tragicomici sono quelli che l’Italia ha visto all’Auditorium della Conciliazione: in pratica, basta un’ora di libera discussione politica per mandare in crisi il maggior partito di governo e per far dire a Bossi che «l’alleanza è a rischio» e c’è un «crollo verticale del governo». Al di là di tutte le interpretazioni che si sono lette e di tutte le strategie di comunicazione e propaganda per dire chi ha vinto e chi ha perso, i fatti sono questi: è bastata un’ora di libero pensiero politico per mandare in crisi il Pdl e far traballare il governo. Il leader carismatico non tollera di essere contraddetto in pubblico. Anzi, sa che il Pdl può essere un (finto) partito fatto a sua immagine e somiglianza fino a quando non c’è libertà di critica. Una volta che il metodo della critica entra nel corpo del partito del leader, il corpo comincia a cambiare pelle e il leader carismatico perde lo scettro. Tuttavia, non è stata sempre questa la vera questione del centrodestra fin da quando esisteva la Casa delle libertà: ossia passare dal partito carismatico al partito istituzionale? Silvio Berlusconi l’ha voluta negare e ora comincia pagarne le conseguenze. E tra queste conseguenze ci sono anche le elezioni anticipate che Bossi e Berlusconi vedono proprio come la mossa più scaltra per, appunto, anticipare il logoramento del governo e, soprattutto, la crescita di un’opposizione moderata. Naturalmente, la responsabilità del voto anticipato verrebbe scaricata su Fini, mentre in realtà sarebbe solo un’uscita di sicurezza di Berlusconi. Gli si può dire: come è possibile che il governo con la più vasta maggioranza di sempre è già in crisi? Perché non è riuscito a fare della libertà il suo metodo di governo.

I

Questa fasulla democrazia dell’alternanza ha il suo fondamento sulla militarizzazione delle coscienze. Il Pdl sta in piedi fino a quando nessuno alza il dito per rivendicare il diritto alla civile discussione. Berlusconi è al governo dell’Italia ormai da molto tempo e possiamo dire che quella che doveva essere la sua missione e che lui stesso ha più volte indicato come la sua stella polare è invece il suo fallimento: la diffusione della sensibilità della libertà. Dovendo dire il perché lo si può fare in due parole: ha scambiato il fine con il mezzo. Per Berlusconi lo strumento del partito del leader è tutto. Invece, nel percorso della nascita di un centrodestra istituzionale il partito carismatico doveva essere solo una tappa per costruire il più liberale e duraturo partito istituzionale che avrebbe allargato di fatto i confini etico-politici della Costituzione e realizzato come sua naturale conseguenza le riforme. Se c’è una cosa che l’altro giorno Fini avrebbe dovuto dire e, purtroppo, non ha detto è proprio questa.

battere ciglio sulla “commissione del Pdl per il federalismo” proposta da Fini. È paradossale senza dubbio, ma una delle pochissime cose su cui i due fondatori si sono ritrovati è la necessità di «coinvolgere i nostri governatori, del Nord e del Sud, per elaborare un’autonoma proposta del Pdl sui decreti attuativi». Nonostante lo sforzo dialettico dell’ex leader di An sembri soccombere davanti all’asse del Nord, Berlusconi non ha potuto fare a meno di riconoscere l’inerzia del suo partito sulla riforma Calderoli. Non c’è dubbio: è questa la scintilla che ha rinfocolato l’irritazione padana. Ma sembra esserci dell’altro. Quasi

Dal Senatùr sferzata al presidente del Consiglio: «Troppo spazio al cofondatore, noi lumbàrd andremo al voto da soli, senza Pdl» una sfiducia nella capacità del Cavaliere di imporre comunque la linea concordata con la Lega. Colpisce il rapido accorrere dei colonnelli di Bossi: da Matteo Salvini a Luca Zaia, da Roberto Castelli al segretario della Liga Veneta Giampaolo Gobbo, è tutto un fiorire di dichiarazioni sulle «riforme a rischio».

È la gente della Lega a chiederlo, d’altra parte. Da giorni su Radio Padania va in onda una continua sventagliata di dichiarazioni contro il presidente della Camera. E il Senatùr se ne fa scudo: «Noi non vogliamo gettare benzina sul fuoco», dice dopo il Consiglio dei ministri, «io sono per la mediazione, certo, ma la gente del Nord, i leghisti, sono arrabbiatissimi, è un vero bombardamento di persone che non ne possono più di sceneggiate, rinvi, tentennamenti». Il minimo che possa venir fuori è dunque una definizione come quella di un Fini «rancoroso gattopardo democristiano» consegnata al direttore della Padania. Nel gioco dell’urlo più forte finiscono anche i messaggi lasciati in rete dal sito del Pdl, in cui gli elettori inneggiano alla conversione al leghismo: «E ora tutti con il Carroccio che farà un pienone», si legge in una delle mail. E in un’altra, indirizzata esplici-


prima pagina tamente al Cavaliere: «Bossi non tollera lo scempio di Fini, lei come può consentirlo? Lo deve cacciare a calci nel sedere».

Il clima suggerisce a Silvio i confronti all’americana della mattinata: a Palazzo Chigi si intrattiene soprattutto con i ministri ex An, da La Russa alla Meloni. Tema all’ordine del giorno: le elezioni anticipate, la cui responsabilità sarebbe facilmente addebitabile a Fini. Poi, mentre anche Castelli prefigura il ritorno alle urne, scende nel cortile e presenta alla stampa un nuovo modello di fuoristrada russo, “Uaz”: un omaggio a distanza a Putin, con cui Silvio si era impegnato a promuovere l’ultima “meraviglia” della sua industria meccanica: «Il primo esemplare lo regalo a La Russa», dice il premier. Il destinatario dell’omaggio mostra imbarazzo: «Devolverò il costo dell’automobile in beneficenza». Stranezze del day after. Ma dal siparietto salta fuori anche l’occasione, per un cronista, di invitare il Cavaliere a balzare di nuovo sul predellino, come ai tempi di piazza San Babila: «E no, certe cose non si ripetono. Basta la prima». Non è aria di un nuovo colpo di reni, in effetti. E Bossi deve aver avuto proprio questa sensazione: deve aver colto, nella scena madre di giovedì, la «ferita inflitta al corpo mistico del leader», per dirla alla Ezio Mauro. Soprattutto, deve essersi reso conto che, consumato ormai il delitto di lesa maestà, il Pdl non è più un alleato affidabile. Ha perso la sua forza principale: l’inavvicinabilità del leader. E così, il Senatùr, pensa bene di aprirsi la via di fuga. Pronta a essere imboccata non appena qualche inciampo sul federalismo dovesse confermare la fragilità della maggioranza. Oltretutto Fini dà l’impressione di voler normalizzare lo strappo, ossia di avvalorarne la legittimità: da Firenze si concede persino il lusso di compiacersi per «l’apertura di Berlusconi a riforme condivise». Su alcuni temi, dice, «c’è la possibilità di un’ampia convergenza, ad esempio sulla fine del bicameralismo perfetto e la riduzione del numero dei parlamentari». Così il leader di An reindossa la sicura veste istituzionale. Al massimo si spinge a dichiarare la sua preferenza per l’uninominale: «Nei collegi si confronta anche la credibilità delle persone, meglio che con le preferenze, rischiose nelle aree a forte densità criminale». Contegno disteso, dunque, per l’ex leader di An. Mentre deflagrano le bordate di Bossi e quelle dei suoi parlamentari, rapidi nell’assecondare il richiamo della foresta anche con un emendamento al decreto incentivi che introduce «il test di italiano per gli extracomunitari che aprono negozi». Altro che trappola fatale per i finiani: è di nuovo Berlusconi ad essere soffocato tra due fuochi.

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LA STRATEGIA DEI FINIANI

Il partito guerriglia del presidente I di Riccardo Paradisi

l day after dello scontro all’auditorium della conciliazione tra Berlusconi e Fini è quello del grande freddo. Lo stato maggiore berlusconiano alterna messaggi di distensione – «Speriamo nella calma dopo la tempesta»(Schifani), «Nessuna espulsione all’ordine del giorno» (Bonaiuti) – a messaggi intimidatori: «Se fini vuol fare politica lasci la presidenza della Camera» (Verdini). Nei ranghi finiani i toni sono battaglieri: «Fini avrà un futuro come leader di una minoranza a patto che questa sarà trattata con rispetto, senza liste di epurazioni ed editti» – dice il vicecapogruppo del Pdl alla Camera Italo Bocchino, uno dei maggiori orditori del sollevamento finiano, che definisce lo scossone della direzione nazionale «utile a far nascere veramente il partito Pdl. Una novità per alcuni.

La normalità per tutti i grandi partiti politici europei». Sta di fatto che il triumviro Verdini pensa anche al licenziamento di Bocchino: «Il vicecapogruppo deve godere della fiducia della maggioranza dei parlamentari in base a un programma preciso. Ovvio che, ove mai questo programma venisse messo sistematicamente in discussio-

ne, un problema di compatibilità si porrebbe da se». E se non dovesse bastare l’evidenza c’è sempre il documento approvato alla fine della direzione del Pdl dove si dice chiaramente che chiunque assuma pubblicamente posizioni di minoranza nel partito è suscettibile di iniziative disciplinari anche definitive. Il documento dice anche altro naturalmente, dice che il Pdl non è un popolo ma un partito che le “correnti” negano la natura stessa del Popolo della Libertà». Un documento politico che Carmelo Briguglio, finiano di prima linea, definisce pericoloso perchè vi si teorizza una deriva plebiscitaria dove il partito e i suoi organi non hanno alcuna funzione, dove non ci sono regole nè organismi, dove viene teorizzata la dittatura della maggioranza». La domanda del giorno però è cosa farà ora la minoranza interna, che linea di condotta adotteranno i finiani. «Saremo minoranza interna organizzata», rispondono gli amici di Fini, restare cioè nel Pdl e dare battaglia culturale e politica. Non perchè ci sia la possibilità di una riconciliazione – i primi a non crederci sono gli stessi finiani – ma perchè è la strategia che a Berlusconi reca oggi il maggior fastidio. Non a caso il presidente del Consiglio, prima della fatidica direzione nazionale di giovedì, aveva fatto trape-

lare l’indiscrezione secondo cui non gli sarebbe dispiaciuta la soluzione della creazione di gruppi separati che avrebbero almeno impedito lo stillicidio di dibattito interno, verso il quale è nota la sua impazienza.

Certo è che se i finiani resteranno e riusciranno a farsi accettare come opposizione interna saranno comunque vincolati dal documento ad attenersi alle decisioni della maggioranza del partito. Impegno che i finiani continuano ad assumersi: «Certo che ci atterremo alle decisioni. Ma se qualche passaggio legislativo impatterà con le coscienze individuali beh ci regoleremo di conseguneza». Che è la prefigurazione neppur troppo velata della guerriglia parlamentare temutissima dal premier. Un altro fronte che potrebbe aprirsi nei prossimi giorni è quello della campagna acquisti. I finiani mettono in conto di perdere qualche deputato recuperato dalle seduzioni berlusconiane, ma lanciano a loro volta il guanto di sfida: «Ci sono anche molti berlusconiani ed ex forzisti a disagio nel Pdl». La corrente minoritaria potrebbe diventare un bacino di raccolta del loro disagio. Con questi chiari di luna il sindaco di Roma Gianni Alemanno e il ministro Altero Matteoli, ex finiani, tentano ancora di mediare. ”La cattiva coscienza” insinua qualche amico del presidente della Camera.

LA STRATEGIA DEI LEGHISTI

Bossi ha paura (di Berlusconi) L’ di Giuseppe Baiocchi

attacco è durissimo, nello stile del leader leghista, che pure carica la sua rabbia attribuendola all’impetuosa spinta di protesta che arriva dalla base, dalla gente del Nord, imbufalita per lo spettacolo non commendevole andato in scena in diretta televisiva dalla direzione del Pdl.

E tuttavia tradisce il timore più profondo: che cioè il conflitto così esplicito ed esibito tra Fini e Berlusconi (con accenti di quell’acrimonia incattivita che è protagonista in tribunale delle cause di divorzio) faccia crollare l’assetto della maggioranza, gli equilibri che apparivano solidi dell’alleanza di governo e in sostanza produca lo stop definitivo al processo riformatore. D’altra parte è ben comprensibile lo sfogo di un’ira finora repressa. L’onorevole Bossi è il vincitore sostanziale dell’ultimo round elettorale e la prospettiva di tre anni senza elezioni lasciava presagire un’accelerata sugli atti concreti di reale cambiamento, a cominciare da quel federalismo fiscale che, almeno a parole, non trovava più opposizione neppure culturale. Non a caso fino all’altro ieri proprio Bossi appariva come

il politico più moderato e più comprensivo, e che non perdeva occasione per auspicare una chiarificazione incruenta e un rattoppo efficace all’interno del Popolo della libertà. Ed ora si vede svanire dalle mani, quasi per un malvagio gioco di prestigio, il frutto di una vittoria politica ed elettorale a lungo perseguita. Da politico abituato a guardare in avanti, intravede l’apertura di una fase di fibrillazione permanente dalle conseguenze paralizzanti. E il ricordo non può non andare al quinquennio di governo precedente, quando le sollecitazioni di Follini e la cacciata (e poi il ritorno) di Tremonti alla guida dell’Economia frustrarono in gran parte le ambizioni riformatrici. Con questi precedenti alle spalle, subentra l’angoscia di non potere impaniarsi un’altra volta nella medesima palude, con la consapevolezza che l’elettorato non potrebbe digerire altri infiniti tempi di attesa. Di qui il rude richiamo al premier ad evitare tentennamenti e a procedere sulla via concordata (a costo anche di “sbattere fuori” il presidente della Camera) e ad evitare la frantumazione progressiva del Pdl. E lo

sguardo lungo finisce per cogliere all’orizzonte la prospettiva sempre meno nebbiosa di elezioni anticipate (magari in seguito ad imboscate parlamentari su temi particolarmente “sensibili”), elezioni difficili, quasi un “salto nel buio”, nonostante lo stato comatoso della sinistra.

Bossi, che ha una sperimentata capacità manovriera e conosce l’importanza talvolta decisiva delle “sponde esterne”, in realtà ha lanciato il suo “grido di dolore” rivolto a tutti, perché la maggioranza ha di fatto perduto, con il brutale smarcamento di Fini, la sua autosufficienza politica. Il “blocco sociale” del quale è da tempo espressione e interprete politico per sua natura moderato e “centrista”: e forse il messaggio ha destinatari privilegiati, se sono in grado di raccoglierlo e di saper chiedere al leader leghista quali prezzi sia disposto a pagare per mantenere fede ai suoi obiettivi. Una sfida in più, e questa volta del tutto inedita.


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l’approfondimento

Paure. Non è passato neanche un mese dalle elezioni che hanno rafforzato la maggioranza e già tutto torna in alto mare

L’exit strategy del Cavaliere

Tutti dicevano: ora ci sono tre anni per fare le riforme. Ma la paura della politica è talmente forte che, alla prima occasione, il centrodestra non vede l’ora di tornare a votare. Ecco i due modi in cui può finire la Seconda Repubblica di Enrico Cisnetto e un’espressione di dissenso, per quanto forte, come quella di Fini verso Berlusconi, scatena una reazione tale da far evocare una crisi di governo, vuol dire che la crisi d’astinenza di “politica” – perché con questa definizione va inquadrata la vicenda che tiene banco nei palazzi romani – aveva raggiunto livelli impensabili. D’altra parte, dal 1994 abbiamo costruito, o consentito che si costruisse, un sistema politico non solo di tipo leaderistico – questa è cosa accaduta in molti paesi occidentali, nei quali ha prevalso l’americanizzazione della politica – ma per di più, caratteristica tutta italiana, imperniato su una persona, la quale è “padrona” di una coalizione nonché unico collante che tiene assieme (finché ha retto) quella avversa.

S

Ecco, se mai il bipolarismo italico doveva ancora mostrare la sua vera cifra, lo scontro Fini-Berlusconi e il rapido tentativo di Bossi di sfruttarlo per fare il “pieno” si spera servano ad aprire gli occhi a chi si è attardato a credere alle magiche virtù del maggioritario e ai nefandi vizi dei partiti (magari come qualche professore pervicacemente intestardito a confonde-

re il bipolarismo realizzato con quello teorico). Detto questo, il vero tema è il seguente: può la vicenda in corso far esplodere le contraddizioni del sistema fino al punto di mettere in tempi brevi la parola fine all’esperienza della Seconda Repubblica? Un conto è sperarlo – e io lo spero ardentemente – un altro valutarne le razionalmente probabilità. Risposta difficile. Diciamo che di una cosa sono certo: è molto improbabile che la legislatura duri i famosi «tre anni senza elezioni» che al termine delle Regionali sono stati trasformati in una sorta di mantra della maggioranza di governo per assicurare al Paese – magicamente – tutte quelle riforme strutturali, istituzionali ed economiche, che fin qui, pur promesse, non sono state realizzate. No, a quello slogan su questo giornale erano già state esposte tutte le ragioni

di fondato scetticismo che rendevano impossibile quell’ipotesi così virtuosa. Ora si aggiunge l’altrettanto fondata sensazione che sia altamente improbabile anche lo scenario che in altre circostanze ho titolato di “trascinamento”, cioè quello in cui la legislatura arriva fino in fondo ma in una condizione di stanco passare del tempo senza alcuna realizzazione significativa, senza però che una seria alternativa la metta in mora e senza che le forze centrifughe interne alla maggioranza producano un’implosione.

No, ora si ha la netta sensazione che la legislatura sia presto destinata a finire, perché la forza d’urto dello scontro – ripeto, quello scontro che ci appare così duro e decisivo solo perché siamo disabituati, ma che nella Prima Repubblica sarebbe stato assorbito con

relativa facilità – provoca conseguenze politiche e istituzionali inimmaginabili. Tuttavia, c’è modo e modo di finire la legislatura. In particolare, ci sono due opposte modalità – capaci di produrre due opposte conseguenze – che vanno prese seriamente in considerazione. La prima riguarda la possibilità che sia Berlusconi, o Bossi per conto del premier, a portare il Paese alle elezioni anticipate. È lo scenario di cui abbiamo lungamente parlato l’anno scorso, quando il Cavaliere, sottoposto ad un attacco mediatico senza precedenti sul terreno della sua vita privata e famigliare, prese prima ad accarezzare l’idea e poi a fortissimamente volere il voto per regolare i conti. Fu fermato dalla prudenza di Fini – che allora ci fu, dopo alcune sortite che parevano spingerlo fino agli estremi toccati in questa circostanza – dalla chiara anche se pubblicamente taciuta posizione del Quirinale e anche dall’incertezza mostrata da alcuni dei suoi sodali, preoccupati di un clima intorno a Berlusconi che avrebbe potuto anche giocare brutti scherzi in cabina elettorale. Ora il primo e l’ultimo di quei freni è venuto meno, resta solo l’ostacolo del Presidente della Repubblica. Cosa non di poco conto, visto


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La rottura nel Pdl chiama in causa l’intero sistema degli ultimi quindici anni

Populismo o democrazia? È questo il nodo da sciogliere Il presidente della Camera ha posto un problema cruciale: quello del rapporto tra potere e popolo. E su questo non ha avuto risposte di Francesco D’Onofrio a rottura intervenuta tra Fini e Berlusconi può certamente essere considerata da molteplici punti di vista, perché si è trattato di uno scontro che ha avuto ad oggetto anche tre sostanziali questioni politico-culturali: il lavoro e le conseguenti forme di “welfare” possibili; l’organizzazione dello Stato, con particolare riferimento ai rapporti complessivi con la Lega Nord; il principio di legalità, con particolare riferimento al rapporto tra eguaglianza e immunità.

L

di Forza Italia nel 1993, è stata infatti una vicenda ritenuta “anomala” e quindi “demonizzata”, con la conseguenza di ignorare il fatto che anche l’Italia stava vivendo una stagione leaderistica, tipica anche di altre forme democratiche occidentali; e che anche in Italia savano prendendo corpo forme nuove di populismo. Per qualche anno si è vissuti in una sorta di guerra civile e culturale tra i soste-

Non vi è alcun dubbio che su ciascuno di questi argomenti si giocherà una fondamentale vicenda concernente ciascuno di questi problemi, con conseguenze istituzionali evidenti, sia per quel che concerne la Camera dei deputati in quanto tale, sia per quel che concerne la durata stessa della legislatura. Non sorprende, pertanto, che molta attenzione sia stata dedicata a caldo a ciascuno di questi problemi, perché si tratta di questioni essenziali e non di pettegolezzi. Ma vi è una questione di fondo che sembra ricomprenderle tutte: il Pdl è un soggetto prevalentemente elettorale fino al punto da considerare decisivi i sondaggi e non gli iscritti al Popolo medesimo? Allorché prese corpo la proposta berlusconiana del Popolo delle libertà, fu posta la domanda di fondo: si tratta di uno strumento tipico di una “democrazia elettorale”, e quindi siamo in presenza di una istituzione destinata ad essere determinate anche in un possibile esito populistico dell’intera vicenda istituzionale italiana? Si è infatti parlato di evoluzione tipica delle democrazie occidentali in senso, di volta in volta, leaderistico, carismatico, populistico.

Anche il nodo mai sciolto del bipolarismo potrà essere affrontato solo quando sarà risolta la questione posta in questi giorni

La vicenda politico-istituzionale, che ha preso corpo in Italia con la nascita

nitori dell’anomalia politico-istituzionale berlusconiana e i sostenitori della avvenuta trasformazione italiana in senso elettorale ed anti-partitico, ritenendosi per partiti i soggetti politici che avevano caratterizzato anche l’Italia del Novecento.

La rottura intervenuta tra Fini e Berlusconi non è pertanto nuova in assoluto, per quel che concerne il rapporto tra popolo e partiti: vi è chi ritiene che ormai si vive in una stagione definitiva di “democrazia elettorale”, e vi sono al contrario tutti coloro i quali ritengono che tra gli elettori e le istituzioni non vi siano soltanto comitati elettorali ma anche soggetti politici dotati di identità propria, e capaci di formulare programmi capaci di essere composti in uno schieramento politico

che si candida a governare il Paese. La questione del rapporto tra popolo e partiti è, dunque, una questione di fondo che, in rapporto al soggetto nuovo denominato Forza Italia, era stata posta da tutti gli altri soggetti politici, alleati o meno che essi fossero con Forza Italia. Le questioni poste oggi da Fini nel Popolo delle libertà sono pertanto questioni che aderiscono alla struttura stessa del sistema politico-istituzionale italiano, prima ancora che questioni di questo o quell’aspetto specifico di programma. Su questa vicenda sono pertanto chiamati a discutere a fondo sia tutti coloro che operano nel Popolo delle libertà, provenendo da soggetti politici che erano stati veri e propri partiti politici negli anni precedenti al 1993, sia coloro che operano al di fuori del Pdl nella ricerca ancora non soddisfatta di regole costituzionali comuni, al di là dei programmi di governo proposti al voto degli italiani.

La distinzione tra dimensione costituzionale-politica del problema e dimensione politico-programmatica del problema medesimo è dunque una questione di fondo che l’iniziativa assunta dall’onorevole Fini pone all’attenzione dentro e fuori il Pdl: si può convergere sulla questione costituzionale di fondo, ritenendo che partiti politici debbano sussistere nel rapporto tra popolo e istituzioni, e si può dissentire sulle questioni di programma riassumibili in questioni di governo. Anche la questione mai sufficientemente chiarita del bipolarismo potrà essere seriamente affrontata soltanto al termine dello scioglimento del nodo del rapporto tra popolo e partiti: si può essere contrari ad un bipolarismo populistico senza necessariamente rimpiangere il bipolarismo partitocratrico. Non si può infatti essere ideologicamente favorevoli o contrari al bipolarismo senza aver prima sciolto il nodo del rapporto tra popolo e partiti.

che è il Colle che deve sciogliere le Camere e indire le elezioni. Ed è certo che Napolitano farà fino all’ultimo ogni tentativo in suo potere per verificare se in parlamento può esserci una maggioranza alternativa.

Di quanti voti disporrebbe Fini in una circostanza come quella, che palesemente è assai diversa da quella della votazione nella pletorica direzione nazionale del Pdl (172 persone) per di più convocata insieme ad altre centinaia di non aventi diritto al voto e gestita con logica e piglio padronali? Sarebbero sufficienti, sommati insieme alle attuali opposizioni, per evitare le urne? Difficile dirlo. Ma è chiaro che per Berlusconi, cui spetterebbe comunque l’onere delle dimissioni con richiesta ai suoi di votargli la sfiducia, il rischio sarebbe davvero molto alto. E una riflessione su questo potrebbe indurlo, al di là delle sparate propagandistiche, a più miti consigli. Ma è chiaro che se l’operazione elezioni anticipate fosse davvero tentata e dovesse davvero riuscire, allora si aprirebbe uno scenario conseguente molto favorevole a Berlusconi e di fatto al prolungamento della vita della Seconda Repubblica. Infatti, quelle elezioni il duo Berlusconi-Bossi le vincerebbe a mani basse, ponendo le basi per un dopo che il leader della Lega non a caso ha già evocato nei giorni scorsi quando ha parlato di Berlusconi al Quirinale e un leghista a palazzo Chigi. L’altra circostanza in cui l’attuale legislatura potrebbe prematuramente finire è invece legata alla possibilità che Bossi decida davvero di porre fine all’alleanza con il Pdl come ha detto in un’intervista alla Padania che ieri ha fatto fibrillare i palazzi romani. In questo caso non rompendo conto terzi, ma per il suo di tornaconto: capisce che la gente è stufa di una politica squinternata, perché Fini potrà anche essere additato come traditore ma Berlusconi si becca la sua parte di responsabilità per essere arrivato a consumare l’ennesima rottura con gli alleati, e teme che la crisi economica – per nulla conclusa, come peraltro ripete lo stesso ministro Tremonti – producendo i maggiori danni al Nord esponga la Lega alla critica di essere al governo e non di aver fatto abbastanza per fermarla; così, torna a fare il “partito di lotta” a Roma, facendo il “partito di governo” nelle amministrazioni regionali appena conquistate e in quelle locali. Insomma, in questo scenario è lui che rompe, e rompe anche con Berlusconi (come nel 1994). Conseguenze? Berlusconi cade rovinosamente, il Pdl si disintegra, ma siccome il Pd non è nelle condizioni di approfittarne si apre uno scenario simil 1992, con vuoti da riempire e la Terza Repubblica da edificare. In questo caso non è detto che le elezioni siano dietro l’angolo, in mezzo per prepararle potrebbe esserci un governo o tecnico o di salute pubblica che procrastina di un anno il voto. Come si vede, in tutti questi scenari l’Udc non è evocata. Se posso dare un consiglio non richiesto, sarebbe bene che uscisse dal torpore post-elettorale e decidesse che partita vuol fare e come. Non sempre giocare di rimessa paga. (www.enricocisnetto.it)


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pagina 6 • 24 aprile 2010

Crisi. Dopo il giovedì nero delle Borse, Papandreou lancia un appello all’Europa per avere subito i fondi previsti

Atene in rosso: aiutateci

Il governo chiede un prestito immediato. Merkel: «Prima il rigore» ROMA. «Il paese è nel bel mez-

vazione degli aiuti. Anche le borse europee hanno mantenuto i guadagni. Lo spread del rendimento tra i titoli di stato decennali greci e tedeschi si è stretto a 530 punti base da 609 punti base della chiusura del giorno prima.

di Alessandro D’Amato

zo di una nuova Odissea». Non poteva scegliere una metafora migliore il premier greco George Papandreou nel discorso televisivo in cui ha deciso di annunciare che chiederà ad Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale di far scattare il meccanismo di prestiti approntato dalle due istituzioni per un totale di 45 miliardi di euro. All’Italia il computo totale degli aiuti costerà 3,7 miliardi. Probabilmente il piano sarà anticipato da un prestito ponte, una treasury facility, una anticipazione di cassa della Bce o dell’Fmi che avranno come garanzia i prestiti bilaterali dei 15 paesi dell’eurozona che ora devono essere approvati dai rispettivi parlamenti. La somma serve a fronteggiare la scadenza immdiata del 19 maggio e dovrebbe ammontare a 11,3 miliardi di euro come anticipazione d’emergenza. Successivamente non è comunque ancora esclusa una ristrutturazione del debito ordinata e volontaria e gestita dalle banche.

La mossa era obbligata. Ieri sulla Grecia si erano nuovamente esacerbate le tensioni di mercato, dopo che Eurostat ha rivisto in peggio i dati sul deficit di bilancio del 2009 mentre l’agenzia Moody’s ha abbassato di un gradino il rating che assegna ai suoi titoli di Stato. E soprattutto, l’istituto di statistiche europeo aveva scritto nel suo bollettino che continuava ad esprimere riserve «sulla qualità dei dati riportati dalla Grecia, a causa di incertezze sul surplus della Sicurezza sociale, alla classificazione di al-

Tuttavia, a stretto giro di posta dalla Ue è arrivato il sì. La Ue e l’Fmi «agiranno in maniera rapida ed efficace», ha detto il portavoce del commissario Ue agli Affari Economici e monetari, Olli Rehn, commentando la richiesta. Il portavoce ha spiegato che saranno presto avviate le varie tappe della procedura, precisando però che al momento però non ci sono scadenze o date fisse. «Se necessario siamo pronti ad intervenire» in soccorso di Atene, aveva già annunciato invece da parte sua il portavo-

Ancora una volta la Ue sembra spaccate sui tempi dell’operazione: per la Francia, ci sono i margini per avviare subito il salvataggio cune entità pubbliche ed alla registrazione contabile degli swap fuori mercato. A seguito del completamento dell’investigazione che Eurostat sta conducendo su questi aspetti, in collaborazione con le autorità statistiche greche, ciò potrebbe condurre ad una revisione per l’anno 2009 dell’ordine di 0,3-0,5 punti percentuali di Pil per il deficit e di 5-7 punti percentuali di Pil per il debito». Insomma, traducendo brutalmente: se ci saranno sorprese dai conti del paese ellenico, saranno soltanto negative.

ce del ministero delle Finanze tedesco. «La Germania mostrerà la sua solidarietà con la Grecia». E l’effetto sui mercati non ha tardato ad arrivare. L’annuncio di Atene ha fatto scendere il costo per assicurare il debito greco dal default: il cds a cinque anni è scivolato a 584,9 puti base da 634 punti, secondo CMA DataVision. Dopo l’annuncio i futures bund hanno esteso il calo toccando i minimi di seduta. L’euro non ha mostrato particolari reazioni contro il dollaro, essendo già rimbalzato sulle voci di un’atti-

I grandi si impegnano a «riequilibrare la crescita»

G20: allarme sulla ripresa ROMA. La richiesta d’intervento del governo greco ha finito per modificare anche l’agenda del G20 che ha avuto ieri pomeriggio l’avvio a Washington. I ministri delle Finanze e i banchieri delle principali potenze, infatti, hanno iniziato i lavori interrogandosi sulle soluzioni messe in campo evitare che la crisi di Atene possa diffondersi. Appoggio anche dagli Usa. I grandi della Terra hanno concordato che la ripresa economica è partita, sebbene in modo non omogeneo tra i diversi Paesi. Tanto che sarebbe stato condiviso un impegno – nulla più – a riequilibrare la crescita. Ma il vertice di ieri passerà alla storia soprattutto perché mai come ieri sono state così plateali le divisioni tra le maggiori potenze. Innanzitutto sulla proposta del Fondo monetario di tas-

sare le banche e recuperare risorse destinate a un apposito fondo contro nuove tempeste finanziare.

Più in generale le proposte dell’organismo guidato da Domenique Strauss-Kahn, dopo aver ottenuto il placet di Stati Uniti e alcuni Paesi europei come la Germania, hanno visto una sonora bocdalla ciatura parte del Canada e delle economie emergenti, secondo i quali si rischia «una regolamentazione eccessiva». A rendere il quadro ancora più teso le incognite sulla ripresa economica, sottolineate dal Fmi mercoledì scorso. L’organismo ha sottolineato la necessità di piani credibili per sistemare i conti pubblici.Tema al quale si è legato anche l’amministrazione americana per chiedere maggiore trasparenza sul versante finanziario.

Francia e Germania hanno atteso il pomeriggio per commentare: «A questo punto ognuno dovrà fare i propri compiti», ha annunciato Christine Lagarde, ministro delle finanze francese. Ma il cancelliere tedesco Angela Merkel ha frenato tutti dicendo che il piano di aiuti alla Grecia sarà attivato «solo se la stabilità dell’euro dovesse essere minacciata nel suo complesso» e se il governo greco presenterà «un progetto economico credibile». La Merkel ha spiegato che «quando la Grecia avrà presentato un piano, la Commissione Ue, la Bce e Il Fondo Monetario dovranno determinare se si è in presenza di una situazione che, per la stabilità dell’euro, impone di accordare gli aiuti alla Grecia». Il cancelliere tedesco ha insistito sul fatto che il governo di Atene deve sottostare a «condizioni rigide» sotto forma di un programma economico credibile per intervenire sul deficit pubblico, aggiungendo che al momento attuale «non è possibile dare informazioni sulla natura e sull’ammontare degli aiuti». Anche se a guardare lungo, non c’è nulla di cui essere così tranquilli. Se i prestiti dell’Eurogruppo e del Fondo monetario verranno utilizzati a pieno già nel primo anno, la Grecia è già quasi certa di evitare il default nel 2010. Con 40 miliardi di euro a disposizione su 53 miliardi di bond in scadenza, i problemi sono rimandati al 2011, quando la disponibilità dei vicini, visto lo sforzo già compiuto, sarà proporzionale al miglioramento dei conti pubblici. Ma con una congiuntura internazionale depressa, una bilancia commerciale strutturalmente debole (specie sul fronte delle esportazioni) e un contesto sociale molto conflittuale, sarà difficile. Il responso è che quindi, nonostante tutti gli sforzi, il default arriverà probabilmente l’anno prossimo. Senza contare che il Portogallo, nel frattempo, continua pericolosamente a scricchiolare. L’Odissea è appena all’inizio, tanto per restare nella metafora.


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24 aprile 2010 • pagina 7

Dal Consiglio dei ministri via libera alla riforma del settore

«Ho abusato di un ragazzo», ammette Roger Vangheluwe

Scajola: «L’Italia sarà l’hub europeo del gas»

Pedofilia: si dimette il vescovo di Bruges

ROMA. Claudio Scajola è con-

CITTÀ DEL VATICANO. Si è dimesso il vescovo di Bruges, monsignor Roger Vangheluwe, che ha ammesso di aver abusato sessualmente di un giovane e di averlo fatto per di più dopo la sua nomina a vescovo avvenuta nel 1984. La Sala Stampa della Santa Sede ha diffuso la notizia dell’accettazione delle dimissioni da parte del Papa insieme al testo di una dichiarazione del vescovo. Le dimissioni sono state immediatamente accettate dal Papa. «Quando ero ancora un semplice sacerdote e per un certo tempo all’inizio del mio episcopato - ha confessato il presule - ho abusato sessualmente di un giovane dell’ambiente a me vicino. La vittima ne è ancora segnata. Nel corso

vinto che da ieri l’Italia è sempre più vicina a diventare il principale hub del gas in Europa. Ieri il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al decreto legislativo per ampliare la concorrenza nel settore e trasferire i benefici ai clienti. Tra le misure incentivi e facilitazioni per potenziare le infrastrutture di adduzione e rinforzare gli stoccaggi, l’obbligo per chi immette gas in rete per una quota superiore al 40 per cento del mercato di cedere le percentuali in eccedenza o di accollarsi l’ampliamento dello stoccaggio esistente, l’impegno a trasferire i risparmi ai consumatori.

Ha spiegato il ministro dello Sviluppo: «I benefici sottesi alla realizzazione delle infrastrutture di stoccaggio ricadranno su tutti i consumatori. Il Paese potrà così essere in grado di sfruttare al meglio gli eccessi di offerta di gas a prezzi vantaggiosi». In questo processo non mancheranno la realizzazione mirata di nuove infrastrutture di importazione, gasdotti e rigassificatori. Alla loro realizzazione parteciperanno clienti finali industriali, selezionati in base a gare, e Pmi aggregati in consorzi. Il pacchetto ha ottenuto un primo placet da Confindustria e

Generali, Bolloré e le azioni dei francesi Oggi l’assemblea di Trieste incorona Cesare Geronzi di Francesco Pacifico

ROMA Soddisfatte tutte le richieste dei soci italiani, ora in Generali tocca ai soci francesi ottenere il giusto riconoscimento per aver ceduto la poltrona di Antoine Bernheim. E che non può essere limitato soltanto alla presidenza onoraria ambita dal banchiere o alla vicepresidenza già assegnata a Vincent Bolloré. Ieri mattina Repubblica ha annunciato che «la Banca d’Italia guidata da Mario Draghi ha chiesto a Mediobanca di ridurre la sua quota di partecipazione nel Leone di Trieste al 10 per cento dall’attuale 13,5», con l’obbligo di diluire la quota nel prossimo biennio.

Piazzetta Cuccia ha smentito la cosa, ma più che la notizia in sé, è apparsa interessante la conclusione alla quale arriva il quotidiano di Ezio Mauro: «A comprare queste azioni Generali potrebbe essere Vincent Bolloré, che ventila questa ipotesi su Les Echo». È da giorni che il mercato s’interroga su come il finanziere bretone vorrà realizzare il suo intento di «acquistare azioni del Leone per mostrare di essere fiducioso e interessato» alla società. Ma molti escludono un acquisto diretto e guardano a quei pacchetti di voti di Generali e di Mediobanca che rumors mai smentiti vogliono custoditi in mani amiche dei francesi. E si parla di quote consistenti, in grado di incedere sul controllo. Già all’assemblea di questa mattina a Trieste – quella che saluterà l’inizio del nuovo corso di Cesare Geronzi – si capiranno gli accordi stretti per mantenere un equilibrio strategico non soltanto per i soci di Mediobanca. Che il clima sia svelenito, lo si comprende anche leggendo le ultime dichiarazioni dei protagonisti. Intervistato dal Corriere della Sera Antoine Bernheim sembra aver dimenticato il tradimento del figlioccio Vincent Bolloré – «A volte si risponde con la pancia e non con la testa» – preferendo rivendicare «la forte amicizia» con il suo successore, Cesare Geronzi. «Devo anche lui», dice l’ottuangenario banchiere, «il mio ritorno in Generali».

Non va poi tralasciata la tregua che il Financial Times sembra aver concesso a Geronzi. Certo, c’è l’ennesimo riferimento alle sue disavvanture giudiziare, ma il quotidiano finanziario della City per la prima volta ammette che lo sbarco a Trieste del ragioniere di Marino non va incasellato soltanto in un’operazione politica, con il Leone più organico al sistema finanziario italiano, quanto piuttosto nel tentativo di «spezzare le catene» tra Mediobanca e il Leone, con quello che comporta in termini di rendimento del maggiore assicuratore italiano e del risiko del settore. Ci sarebbe un patto non scritto che vorrebbe le Generali contraddistinte da un azionariato frastagliato e da una capitalizzazione minore alle sue potenzialità – quindi più debole rispetto ai diretti concorrenti – come prezzo per preservare la sua italianità. Una regola implicitamente confermata dallo stesso Bernheim, che non perdeva occasione di ricordare che con lui alla tolda del Leone mai e poi colossi come i francesi di Axa e i tedeschi di Allianz avrebbero scalato la società. Tema sul quale è tornato nell’intervista al Corriere, spiegando che «un presidente italiano come Geronzi riuscirà nell’intento molto più facilmente di me».

Il mercato s’interroga sui pacchetti di titoli del Leone che sarebbero in mani amiche del finanziere bretone

da Federconsumatori. Intanto, sul versante dell’energia elettrica, si registra la risposta di Terna alle accuse di E.On. Italia sui limiti della rete calabrese che non permetterebbero il pieno utilizzo della nuova centrale Ergosud di Scandale. «La rete di trasmissione», ha spiegato Gianni Armani, il direttore Operations Italia, «non e\\u0300 responsabile di limitazioni alla produzione della centrale», che «potrebbero derivare dalle condizioni del mercato». Terna ha anche ricordato che in Calabria ha realizzato in tempi record l’elettrodotto “Rizziconi Laino” e di aver in corso investimenti pari a circa 930 milioni di euro.

Bernheim ha difeso l’italianità anche con una gestione molto prudente, che ha tenuto il Leone lontano dal consolidamento del settore. Una scelta che non è mai piaciuta al mercato e ad alcuni soci forti italiani. Tanto che si scommette che, dopo la creazione di nascita di un nocciolo forte di azionisti (Caltagirone, Del Vecchio, Ferak, De Agostini e Crt) con una quota non lontana da quella di Mediobanca, Generali possa partecipare allo spezzatino di Ing o ambire agli asset liberati da Aig in Asia. E per blindare un Leone così aggressivo cosa c’è di meglio che far pesare pacchetti azionari direttamente in mano ai francesi? Un percorso del quale dovrà farsi garante in prima istanza proprio Cesare Geronzi.

degli ultimi decenni, ho più volte riconosciuto la mia colpa nei suoi confronti, come nei confronti della sua famiglia, e ho domandato perdono. Ma questo non lo ha pacificato. E neppure io lo sono». Il presule ha aggiunto nella sua dichiarazione che «la tempesta mediatica di queste ultime settimane ha rafforzato il trauma. Non è più possibile continuare in questa situazione. Sono profondamente dispiaciuto - ha concluso per ciò che ho fatto e presento le mie scuse più sincere alla vittima, alla sua famiglia, a tutta la comunità cattolica e alla società in genere. Ho presentato le mie dimissioni come vescovo di Bruges al Papa Benedetto XVI. Sono state accettate venerdì. Perciò mi ritiro».

Ma intanto il Vaticano contesta una denuncia presentata negli Stati Uniti, a nome di una vittima di un prete pedofilo del Wisconsin, contro Papa Benedetto XVI e i cardinali Angelo Sodano e Tarcisio Bertone. Jeffrey Lena, l’avvocato americano del Vaticano, ha detto che la denuncia «rappresenta un tentativo di usare tragici eventi come piattaforma per un attacco più ampio ricaratterizzando la Chiesa Cattolica come una “impresa mondiale di affari”».


mondo

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Medicina. Gianfranco De Maio, direttore della filiale italiana di Médecins Sans Frontières, commenta l’allarme lanciato dall’organizzazione

La presa della pastiglia «Un accordo bilaterale tra Ue e India rischia di rallentare la produzione di farmaci di qualità» di Luisa Arezzo a mannaia di Bruxelles potrebbe calare sui malati dei paesi in via di sviluppo entro la prossima settimana. A lanciare l’allarme è Médecins sans Frontières, la più grande organizzazione umanitaria indipendente di soccorso medico, già investita del premio Nobel per la pace nel 1999. Un accordo bilaterale in atto fra Unione Europea e India, infatti, rischia di rallentare enormemente la produzione di farmaci generici di qualità indiani (quelli con il bollino blu dell’Oms, per intenderci) che oggi sono in prima linea, per i costi ridotti, nelle terapie di cura dell’Aids e di altre patologie. Ne abbiamo parlato con Gianfranco De Maio, 50 anni e da oltre dieci direttore medico della “filiale” italiana dell’organizzazione. Dottore, ci spieghi in dettaglio il colpo di mano in atto... Lunedì comincia la trattativa sul libero scambio - dunque di natura commerciale - tra l’India e la Ue. Si tratta di un accordo bilaterale. Dopo essere entrata nel 2005 nell’Organizzazione mondiale per il Commercio (Wto), atto che ha implicato la sottoscrizione di alcuni punti generali, Nuova Delhi sta intraprendendo accordi bilaterali. Perché è prassi che i singoli paesi si mettano d’accordo fra loro, apportando così modifiche (certo non in contraddizione) agli accordi generali. Un comportamento assolutamente legittimo.

L

E allora? Il Wto ha però riconosciuto per i farmaci una sorta di eccezione sanitaria, in virtù del fatto che le medicine non sono un prodotto come tutti gli altri, non sono come l’hi-fi, ma salvavita. E dunque il rispetto per la salute deve prevalere sull’intesa commerciale. Un aspetto che in qualunque sede plenaria viene sempre, retoricamente, ribadito. Ma nei fatti regolarmente disatteso. L’India è una potenza commer-

prodotto per vent’anni. Il giorno dopo tale scadenza il suo farmaco può essere copiato. Fino ad oggi le industrie chiedevano le posologie prima della scadenza per poter avviare la produzione ed essere così in grado di raggiungere il mercato dopo i famosi vent’anni e un giorno. L’accordo bilaterale in atto dice invece che nessuna informazione può essere “girata” prima di vent’anni e un giorno, e questo significa: 1) che a scadenza po-

I prodotti generici di Nuova Delhi sono in prima linea, per i loro costi ridotti, nelle terapie di cura dell’Aids e di altre gravissime patologie. Ma adesso tutto rischia di saltare a causa di un colpo di mano ciale sotto tanti punti di vista, ed è formidabile nella produzione di farmaci generici di qualità. Che usiamo tutti, non solo noi di Msf, una realtà tutto sommato “piccolina”. Li compra il Global Fund, quindi il G8, per finanziare i suoi progetti. L’Unione Europea, però, sta chiedendo all’India di rispettare delle norme relative alla proprietà intellettuale che penalizzeranno la sua industria farmaeceutica, e di conseguenza i pazienti che benificiano dei farmaci a basso costo da questa prodotti. Con quali cavilli giuridici? Sono due: il primo è l’estensione della durata del brevetto. Mi spiego. La casa farmaceutica dispone completamente del suo

trà uscire solo la formula; 2) che prima che possa entrare in produzione occorrerano fra i 2 e i 5 anni. Insomma, il farmaco non generico non sarà immediatamente disponibile. Un’estensione del brevetto di fatto? Esattamente. Significa protrarre un monopolio (e le tariffe di vendita) andando contro le regole del libero mercato. La cosa più perniciosa dal nostro punto di vista è che il produttore di generici per uscire sul mercato dovrà non solo dimostrare che nella compressa c’è la stessa concentrazione di principio attivo, qualità, assenza di impurità quella che viene chiamata bioequivalenza - ma anche, con que-

sto accordo, dimostrare di aver effettuato gli stessi test clinici (sulle cavie, sui pazienti umani etc.) delle case madri. Un’indagine che richiede anni. È come se uno che volesse “fotocopiare” l’aspirina fosse costretto ad effettuare tutti i test compiuti dalla Bayer quarant’anni fa. Non ha il minimo senso, se non quello di rallentare o indebolire il più possibile la produzione di farmaci generici. Quanto può incidere questo sui malati? Enormemente. Perché io devo avere accesso a farmaci che mi permettano di curare pazienti in sistemi sanitari dove non c’è un accesso gratuito alla salute. Un esempio: oggi In Sudafrica è possibile curare un paziente affetto di Aids con 80 dollari l’anno. In Italia ce ne vogliono 10mila. Va benissimo, è chiaro che si tratta di una scelta politica, ma il nostro Paese se la può permettere, ha pochi pazienti e un sistema garantito. Ma se par-

liamo di Paesi con un tasso di Aids del 15%, non è sostenibile una simile spesa. Noi non siamo no global, ma su questo argomento diventiamo aggressivi. Ma come, ogni anno si proclamano i passi avanti nell’accesso alle cure di Hiv e poi, per un accordo meramente commerciale, buttiamo tutto all’aria? Entro quando verrà presa la decisione? Il tavolo si apre lunedì 26 ed entro il 28 si decide. L’India avrà certo delle contropartite commerciali, però a noi non interssa l’aspetto politico economico dell’accordo, ma la sua ricaduta sui pazienti. I farmaci sono esportati altrove? Prima di entrare nel Wto Nuova Delhi ha fatto prosperare la sua industria farmaceutica, così come la Cina. Ma la ricerca che si fa in India è molto più simile a quella inglese e visto cha la bioequivalenza indiana era molto alta, il suo mercato, quan-


mondo

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Gianfranco De Maio, da oltre dieci anni direttore medico della filiale italiana di Médecins Sans Frontières

do si poteva scegliere, diventava un punto di riferimento.Tutti abbiamo comprato. E poi? Quando nel 2005 Nuova Delhi ha dovuto recepire le regole del Wto, lo ha fatto attraverso una normativa molto farraginossa che concedeva delle “libertà” certamente arbitrarie - alla sua industria farmaceutica. Le multinazionali hanno allora tentato la via giudiziaria, coinvolgendo le Corti di Stato e la Corte costituzionale indiana per dimostrare che le sue normative sfavorivano il libero commercio. Le hanno perse tutte. E così si sono

rivolte a“mamma e papà”: Giappone ed Ue (gli Usa oggi sono più tolleranti che in passato). Questi farmaci non hanno nulla a che spartire con quelli contraffatti? No. Non stiamo parlando del borotalco venduto come antibiotico, ma di medicinali generici di qualità e di licenza obbligatoria. Cosa significa? Che se ho un’emergenza sanitaria e il farmaco costa troppo, posso produrmelo da solo o farlo fare da qualcun altro. Lo fece Bush quando ci fu l’allarme carbonchio (le lettere con l’antrace, ndr.). Solo la Bayer produceva la

ciclofoxacina, ma i prezzi erano altissimi. Il presidente Usa minacciò di fare una licenza obbligatoria e la Bayer abbassò il prezzo di vendita. Ora se lo fanno gli Usa va bene, se lo fanno altri no. Ma non funziona così, non possono farne le spese i pazienti. Non è vero che tutto quello che si chiama farmaco contraffatto lo sia. Spesso si tratta solo di farmaci non prodotti dalla multinazionali. Da chi sono controllati? Dall’Oms, perché non è sufficiente che l’ok venga dato da un’agenzia interna (fanno eccezione gli Usa con la Fda). Per noi è quello il bollino di qualità. Che giro d’affari si consuma dietro questo accordo? Non lo so perché i bilanci delle industrie farmaceutiche non sono né disponibili né trasparenti. Che percentuale di malati resterà senza cure? L’80 per cento dei pazienti di Hiv sono curati con farmaci generici. Diciamo almeno 9 milioni di persone a livello mondo. Ma sono solo il 30 per cento della cifra totale. Altri 6 milioni di persone sono senza cura. E io parlo solo dell’Aids e non di altre patologie come il cancro o una vera influenza pandemica.

Il pericolo mortale delle “false medicine” Molte arrivano dalla Cina. E uccidono 300mila persone ogni anno in tutto il mondo econdo l’Organizzazione mondiale della sanità, il 25 per cento delle medicine presenti sul mercato dei Paesi meno sviluppati sono contraffatte. E in alcuni Paesi questa percentuale è ancora più alta. La maggior parte delle medicine contraffatte sono originarie proprio dei Paesi meno sviluppati, incluse le “bogus drugs” che poi finiscono per essere rivendute anche nei mercati europei e nordamericani. L’Oms ha pubblicato dati e numeri davvero sconcertanti, che evidenziano la gravità del problema. Le medicine contraffatte costituiscono tra il 40 e il 50 per cento dell’interno mercato in Nigeria e Pakistan. Alcuni prodotti, nella Repubblica popolare cinese, hanno un tasso di contraffazione che va dal 50 all’85 per cento.

S

Il 37 per cento degli antibiotici e dei prodotti antimalaria che si trovano nella lista dei farmaci essenziali stilata dall’Oms per Nigeria e Thailandia sono “sotto-standard”. In uno studio recente dell’Organizzazione mondiale della sanità, tra il 20 e il 90 per cento dei farmaci anti-malaria presenti in sette Paesi africani hanno fallito i test di qualità. «È chiaro - dicono i ricercatori dell’Oms Julian Morris e Philip Stevens che le medicine contraffatte non sono confinate ad una minoranza di prodotti

di Gaia Miani specifici, ma attraversano uno spettro ampio di trattamenti». Nella tristissima “Top 5” delle Filippine, per esempio, ci sono pillole per la pressione, medicine anti-asma, analgesici, trattamenti antidiarrea e vitamine.

Secondo Morris e Stevens, la maggior parte delle medicine contraffatte in circolazione arrivano dall’Asia, con la Ci-

ro d’affari che si avvicina ai sessanta milioni di dollari. Circa 15mila fabbriche di medicinali generici, invece, operano nel sub-continente indiano. E mentre, nella maggior parte dei casi, si tratta di operazioni perfettamente legali, c’è anche un numero non indifferente di «operazioni illegittime che non rispondono agli standard imposti dalle regole internazionali». La maggioranza delle “false medicine” presenti sul mercato nigeriano, per esempio, arriva direttamente dall’India; una circostanza che ha spinto le autorità nigeriane, nel 2003, a bloccare del tutto l’importazione di medicinali dall’India. Il mercato nero della falsificazione è particolarmente attivo anche in America Latina e in alcuni Paesi dei Caraibi come Antigua e Bahamas.

I prodotti tossici possono provocare la morte. E quelli con pochi principi attivi danno vita a generazioni di virus e batteri più resistenti na in testa alla classifica della falsificazione. Secondo il quotidiano statunitense San Francisco Examiner, nel 2001 le autorità cinesi hanno chiuso oltre mille fabbriche di “false medicine”, durante un’inchiesta che ha coinvolto 48mila casi di contraffazione per un gi-

Martins e Stevens affermano che i danni provocati dalle medicine contraffatte possono essere moltissimi. Prodotti chimici tossici possono provocare malattie gravissime e morte, mentre l’assenza (o la presenza inadeguata) di sostanze attive possono impedire al medicinale di funzionare, provocando un peggioramento sensibile della patologia originaria. Caso,

quest’ultimo, frequente soprattutto nei malari di Aids e malaria. Il South China Business Journal, nel 2002, ha pubblicato un’inchiesta in cui veniva svelato che 200-300mila persone perdono la vita, ogni anno, a casa di medicine contraffatte o che non rispondono perfettamente agli standard. «Forse, una delle implicazioni più preoccupanti dell’attuale boom globale di falsificazioni - dicono Martin e Stevens, è il fatto che accelerano la presemza di nuovi ceppi di virus, parassiti e batteri in grado di resistere maggioramente all’azione dei medicinali: «Se il farmato contiene una quantità troppo ristretta di principio attivo, non tutti virus vengono distrutti. E il ceppo più resistente ha più probabilità di moltiplicarsi e diffondersi».

Un esempio è quello dell’artemisinin. Utilizzando Il farmaco, disponibile dalla fine degli anni Novanta, gli scienziati si sono resi conto che - proprio a causa della scarsità di principi attivi - gli effetti del medicinale sono già diventati molto meno efficaci. «Il problema delle medicine contraffatte è un problema globale che va risolto a livello globale spiegano Morris e Stevens - con la collaborazione di tutti i Paesi. La maggior parte arriva da Paesi in via di sviluppo e, se vogliamo fare progressi, è necessario un forte lavoro di riforma proprio in questi Paesi. Stato di diritto, definizione ed enforcement dei contratti e dei diritti di proprietà. Questa è la strada da percorrere se non vogliamo che centinaia di migliaia di persone continuino a morire ogni anno».


società

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Informazione. Tecnici, operatori e politici a confronto in un convegno organizzato dalla Federazione italiana liberi editori

Editoria, ecco gli stati generali Il sottosegretario Bonaiuti promette la convocazione entro giugno chiacchiera ad iniziative concrete sull’editoria. Finora, infatti, abbiamo assistito a tagli da macelleria coperti dal maquillage del sottosegretario. Il fondo per l’editoria è in scadenza ed è esangue, i giornali per gli italiani all’estero sono stati taglieggiati, la radio e le tv locali pure».

di Guglielmo Malagodi

ROMA. Una prima fase di dibattito tra tutte le parti interessate e poi - a giugno - gli stati generali dell’editoria. È questo schema che ha in mente il sottosegretario con delega all’editoria Paolo Bonaiuti e che ha illustrato oggi intervenendo a un convegno promosso dalla File (“Federazione italiana liberi editori”). Bonaiuti ha spiegato che la fase di dibattito è prevedibile che parta a maggio, con una durata di una quindicina di giorni, con l’obiettivo realizzare una fotografia reale della situazione. Il sottosegretario ha definito questo periodo una sorta di “porte aperte” a ogni idea e proposta. Poi gli stati generali saranno l’occasione per trovare soluzioni: «speriamo di concludere entro quel mese, altrimenti ci aggiorneremo a settembre o ai primi dell’autunno così da avere finalmente una sorta di mappa, una carta della situazione, quindi nel 2011 sapere come operare». Bonaiuti ha anche sottolineato che il rilancio «può partire solo da un dato concreto: questo non può essere il paese di Bengodi, del contributo indiscriminato. Non ci può essere più un sistema di contributi a pioggia. Bisogna salvare il salvabile, c’è bisogno di una rimescolata di carte da cui esca fuori una soluzione».

Il sottosegretario boccia l’idea di una mini-tassa sul web per consultare i contenuti di informazione, lanciata giovedì dal presidente Fieg, Carlo Malinconico (anche lui ieri presente al convegno): «Non è più il tempo di tassare, ma è venuto il momento di incentivare, facendo posto al nuovo e salvando quello che c’è da salvare del vecchio». Contrario alla minitassa anche l’ex ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni (Pd): «C’è il problema che le news in rete non possono essere gratuite, ma la soluzione va ricercata nel mercato, non imponendo una tassa ai cittadini che accedono al web. Una tassa per l’accesso a internet è il famoso rimedio peggiore del male, noi dobbiamo aiutare l’accesso a internet, non scoraggiarlo. C’è il problema del copyright e di come far fruttare le news in rete, ma si risolve nel mercato non a scapito degli utenti». Il senatore del Pd Vincenzo Vita, invece, commenta l’annuncio di Bonaiuti sugli“stati generali”: «Si passi dalla pura

Un j’accuse agli editori tacciati di «sfruttamento» della manodopera giornalistica con contratti a termine o con colla-

Calabrò (Agcom): «Superare la logica delle sovvenzioni pubbliche e puntare sulle potenzialità economiche dell’online»

L’intervento del presidente della File

Ma il pluralismo non può dipendere dal Tesoro di Enzo Ghionni o Stato ha investito, fino ad oggi, diverse centinaia di milioni di euro nel settore dell’editoria. Con quali risultati? Si è trattato, infatti, di modifiche disorganiche, dettate da ragioni di bilancio e affidate, quasi sempre, a decreti legge sui quali i vari governi hanno posto la questione di fiducia. Eppure il sostegno al pluralismo è un argomento che, per definizione, non può essere mai delegato agli esecutivi. L’industria editoriale andrebbe trattata come un’industria e, come tale, dovrebbe trovare le proprie misure di sostegno con fondi dedicati gestiti dalle competenti istituzioni: il ministero delle Attività produttive e quello dell’Innovazione tecnologica. Con stanziamenti adeguati che consentano, in pratica, alle maggiori imprese di competere a livello internazionale.

L

Gli altri Paesi dell’Unione europea sostengono ampiamente il settore in oggetto. Per fare un esempio, le imprese editrici di mag-

giori dimensioni hanno dovuto affrontare, in questi anni, importanti investimenti per adeguare gli impianti di stampa alle nuove esigenze tipografiche. Il costo per l’ingresso in Internet è, invece, di gran lunga inferiore, eppure il livello di contribuzione, a carico dello Stato, è stato praticamente inesistente. A differenza, per dirne una, del sostegno che è stato dato, in questi anni, all’emittenza radiotelevisiva per la migrazione al sistema digitale terrestre.

Una riflessione sul recupero di risorse attraverso un passaggio al calcolo dell’Iva in base alle effettive copie vendute, in assenza di risorse, forse andrebbe fatta. Perché anche l’attuale sistema di determinazione dell’imposta distorce i meccanismi di mercato. A favore delle imprese di maggiori dimensioni. Ma anche di questo non si parla mai. L’obiettivo è semplice, ma ambizioso. Una disciplina organica, che consenta a chi opera nel settore, a differenza di quanto accaduto negli ultimi anni, di poter assumere le decisioni in un quadro legislativo stabile e chiaro. Evitando che gli esecutivi, attraverso le direttive dei titolari del ministero dell’Economia, possano condizionare l’informazione.

borazioni lo lancia invece il presidente della Federazione nazionale della stampa, Roberto Natale. Secondo il rappresentante Fnsi, «gli editori oggi vanno a raccattare i precari come se si trattasse delle braccia degli immigrati» quando vengono caricati sui camion dai “caporali” «alle 6-7 mattino» per portarli nei campi o nei cantieri a lavorare in nero o sottopagati. In mattinata, invece, il presidente dell’Agcom, Corrado Calabrò, era intervenuto al convegno affermando che l’intervento pubblico nel settore dell’editoria «mai come ora deve superare la logica della sovvenzione e deve guardare in prospettiva», ridisegnandolo lungo le coordinate dell’investimento e dell’innovazione, «in particolar modo quando prevede l’erogazione di denaro pubblico, un bene sempre più raro». «Ma - ha aggiunto Calabrò - se è vero l’intervento pubblico va ricalibrato, è altrettanto vero che l’intervento privato nell’editoria tradizionale e oggi anche elettronica va promosso e incentivato, anche attraverso nuovi meccanismi finanziari, in grado di richiamare investitori e donatori». Calabrò ha parlato diffusamente del web, sottolineando che così come la rete offre nuove opportunità organizzative, distributive e di miglioramento del prodotto, dallo stesso web vengono anche nuove strade di finanziamento di mercato, come la pubblicità on-line e le nuove forme di abbonamento.


mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

“Misure straordinarie” di Tom Vaughan

L’AMORE PATERNO

di Anselma Dell’Olio

n che cosa consiste l’amore dei genitori per i figli? Misure straordinarie, un una patologia neuromuscolare che danneggia progressivamente i muscoli di film appena uscito di Tom Vaughan, lo fa capire meglio di una bibliotegambe, braccia e torace. Oltre all’ipotonia muscolare, causa l’ingrossamenca intera di tomi filosofici, antropologici o psicologici. Partendo da to del cuore e di altri organi, e comunemente si muore in pochi anni per Coinvolgente una disgrazia tra le più tremende che possono capitare - non insufficienza cardiaca. Poteva essere il solito film strappalacrime, il thriller medico su uno, ma due figli piccoli colpiti da una rarissima malattia gedi cui se ne sono visti anche troppi; ma non è così. Ci sono aluna famiglia alle prese con due netica che provoca la morte in breve tempo, e per la meno tre temi principali che s’intrecciano con efficacia quale non esiste cura - l’essenziale sul significato e che impediscono di subire la sensazione del «già bambini affetti dal morbo di Pompe. profondo di «amore paterno» è illuminato senvisto». Il primo è l’ordinaria-straordinaria quoTratto da una storia vera, dice moltissimo sul za sbavature sentimentali. La nuova società Cbs tidianità famigliare, composta di un adolescenrapporto genitori-figli. Bravo Harrison films debutta nella produzione cinematografica con te sano, due bambini su sedie a rotelle e intubati per un coinvolgente thriller medico: le avventure di una famirespirare, infermiere che s’avvicendano costantemente Ford nei panni inusuali di uno glia vera alle prese con la lotta per la sopravvivenza di due di per le cure, e la determinazione di John e Aileen (Brendan Frastrambo scienziato loro. John e Aileen Crowley sono una giovane coppia con tre figli. ser, perfetto, e l’incantevole, bravissima Keri Russell) di dare ai figli John, il più grande, è sano. A Megan e Patrick, nove e otto anni è stata diauna vita normale, organizzando feste di compleanno al bowling, con palgnosticata il morbo di Pompe (glicogenosi di tipo II) poco dopo la nascita. È loncini e torta, e gite campestre e al mare.

I

Parola chiave Sapere di Sergio Valzania Potenza di “Raw Power” quasi 40 anni dopo di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Cesare Pavese e la metrica della solitudine di Francesco Napoli

Lewis Carroll riabilitato di Mario Bernardi Guardi Il tascapane dell’«uomo di pena» di Pasquale Di Palmo

Senza Morandi non è Novecento di Marco Vallora


l’amore

pagina 12 • 24 aprile 2010

Premio Pulitzer del Wall Street Journal Geeta Anand, scrittrice del libro dal quale il film è tratto. Harrison Ford si è innamorato di The Cure, il cui sottotitolo è Come un padre raccolse cento milioni di dollari, lottando contro l’establishment medico per salvare i suoi figli. Ford avrebbe voluto fare Crowley, ma era troppo anziano per la parte, e s’è tuffato nel ruolo del burbero scienziato, in realtà una figura composita. Erano tre i principali ricercatori che hanno lavorato per trovare la cura. Il caratteraccio di Stonehill appartiene a Bill Canfield, dell’Università dell’Oklahoma, lo scienziato con cui Crowley decise di fondare un’azienda di biotecnologia. Si diverte moltissimo, Indiana Jones, a calarsi nella parte di un uomo assai spigoloso e pieno di fisime.

John Crowley è un dirigente in ascesa alla Bristol Meyers. Da radici operaie è riuscito a conquistare prima la laurea a Harvard, e poi un’ottima carriera in una delle aziende farmaceutiche internazionali più rinomate. Aileen si dedica a tempo pieno a rendere la vita di tutti la più armoniosa e serena possibile. Quando gli altri dormono, John s’immerge in letture scientifiche sui libri e navigando in Internet fino alle ore piccole. È così che scopre l’esistenza di uno scienziato, il dottor Robert Stonehill (Harrison Ford), ricercatore all’università del Nebraska, che sta facendo grandi passi avanti verso la produzione di una terapia enzimatica sostitutiva che possa, se non guarire, almeno allungare la prospettiva di vita dei colpiti dalla malattia di Pompe. Il secondo tema del film è il buddy movie: la strana coppia composta da un padre altruista, emotivo, motivato, solido negli affetti e perseverante, e da un misantropo solitario, malfidato, bisbetico, insofferente e scostumato. John prova a contattare Stonehill ma raggiungerlo con i mezzi di comunicazione moderni è impossibile. Il ricercatore ascolta musica rock a tutto volume mentre lavora, non sente il telefono e se risponde lascia cadere la linea per distrazione, senza accorgersene. Disperato e determinato, John lo bombarda di messaggi per posta elettronica ma il caratteriale scienziato è talmente solipsista e monomaniacale che non se ne cura e non risponde. Il suo mondo è il suo ombelico: divorziato due volte da donne che lo trovavano insopportabile, ama pescare, bere la birra direttamente dalla bottiglia in demotici locali della prateria, e barricarsi in laboratorio. D’impulso, John lascia una riunione e vola a stanarlo di persona, mettendo a rischio il suo posto (e l’assicurazione medica che garantisce per i figli) perché non sopporta d’accettare la propria impotenza. Il terzo tema è il thriller medico che illumina un pubblico non specializzalo, sui meccanismi intricati della ricerca medica.

Il tema del padre di famiglia che incassa il colpo, si rimbocca le maniche e rischia tutto perché i figli abbiano un futuro, entra sotto pelle, senza l’aiutino di scene e colonna sonora strazianti, con i soliti primi piani di bimbi sofferenti. Una scena madre tra le mura domestiche c’è: Megan (Meredith Droeger) è colpita da una polmonite violenta che rischia di portarla via definitivamente, inserita al momento giusto per ricordarci che la vita dei bambini è fragilissima. La piccola Droeger, attrice dall’età di sei anni, ha già un folto curriculum che include cinema, serie e spot tv e perfino Shakespeare a teatro. È perfettamente credibile come la piccina delicata ma spavalda e combattiva, che sfida il fratello sano a corse a piedi contro la sua carrozzella. John Junior è Sam M. Hall; è un peccato che non si è potuto sviluppare il suo personaggio. In una situazione del genere, il figlio sano ha un peso enorme da sopportare - essere trascurato come l’ultima ruota del carro. Il fatto che dipenda da una buona causa è di magrissima consolazione. Chi è passato per quella particolare discriminazione affettiva a favore di un fratello sofferente, ne sa qualcosa. È una condizione poco trattata al cinema: sarà per un’altra volta. La sceneggiatura, però, ha il compito di semplificare una vicenda complessa, e anche se sarebbe stata affascinante una radiografia più completa e penetrante delle dinamiche famigliari, non è poco averci fatto capire meglio come gira il mondo della ricerca scientifica e l’intreccio d’interessi in ballo. Il merito va diviso tra lo sceneggiatore Robert Nelson Jacobs e la reporter anno III - numero 16 - pagina II

paterno

Sopra, alcune immagini del film. A sinistra, la famiglia dalla cui storia è tratto il soggetto della pellicola di Vaughan

MISURE STRAORDINARIE GENERE DRAMMATICO DURATA 110 MINUTI PRODUZIONE USA 2010 DISTRIBUZIONE SONY PICTURES

REGIA TOM VAUGHAN INTERPRETI BRENDAN FRASER, HARRISON FORD, KERI RUSSELL, JARED HARRIS, COURTNEY B.VANCE

Gli scontri tra l’egocentrico scienziato e il generoso papà sono epici e molto divertenti. Un altro cambiamento rispetto al libro è l’età dei ragazzi e quella del padre all’epoca del racconto. Crowley era un trentenne con i due figli più piccoli ancora in fasce quando ha iniziato la sua lunga, difficile impresa. Creare una sola controparte a Crowley è stata una scelta obbligata dall’economia drammaturgica, e alzare di qualche anno l’età dei bambini malati ha permesso di rendere la storia parecchio più urgente e tesa, una corsa contro il tempo: raramente i colpiti da Pompe superano gli 8-9 anni. Fraser, noto per film avventurosi come La mummia 1 e 2, Giorgio della giungla e Viaggio al centro della terra, si è fatto apprezzare anche in film drammatici come Demoni e dei (era il giardiniere concupito dal regista di Frankenstein) e The Quiet American (era il misterioso, idealista operativo della Cia, contrapposto al cinico giornalista inglese di Michael Caine). Se prima era uno statuario oggetto del desiderio, un fusto pauroso, ora che ha superato i quaranta e messo su un po’ di peso, gli calzano bene ruoli di bonaccioni facili da sottovalutare, perfetti per un carattere forgiato da un’infanzia sradicata a seguito del padre giornalista, che spostava spesso la famiglia da una città e da un paese all’altro. Forma una coppia credibile con l’adorabile Keri Russell. L’attrice californiana ha avuto successo in televisione, iniziando con Il club di Topolino della Disney e vincendo un’Emmy come migliore attrice per la serie Felicity, di cui era protagonista. Per ora l’unico ruolo in un film degno del suo talento è l’indimenticabile Jenna di Waitress - Ricette d’amore, della sfortunata Adrienne Shelley, regista e sceneggiatrice tragicamente uccisa da un operaio impazzito alla vigilia dell’uscita del film, un successo a Sundance assai meritato. È probabilmente non casuale che il primo cineasta che ha saputo mettere in risalto le complesse sfaccettature drammatiche e brillanti della Russell sia stata una donna. La carriera di Harrison Ford era talmente deludente nei primi anni che si è messo a fare il falegname e l’ebanista per mantenere la famiglia. Mentre lavorava a una ristrutturazione in casa di George Lucas, è stato scelto per un piccolo ruolo in American Graffiti, seguito da un altro in La conversazione di Francis Ford Coppola; con la parte di Han Solo nel successo planetario Guerre stellari, è «arrivato». Con Indiana Jones, la sua consacrazione a icona di sexy-burbero è completa. Blade Runner lo colloca tra gli artisti di culto, mentre l’ispettore di Witness - Il testimone di Peter Weir gli porta la prima, e per ora unica, candidatura all’Oscar. Certo che Ford avrebbe preferito avere il ruolo del nobile papà Crowley, ma vederlo tagliarsi addosso i panni dell’impossibile, maleducato e geniale Stonehill è uno spasso. Da vedere.


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parola chiave

apere costituisce sia un’ambizione che una pretesa. Tutte le discipline ideate dall’uomo sono rivolte al sapere: filosofia, astronomia, teologia, matematica, fisica, chimica. Anche la storia, la medicina, la sociologia, le arti, come la poesia e la musica, vanno in cerca della conoscenza e della sua trasmissione, con ambizioni oggi più sfumate, senza dimenticare che per Aristotele era proprio la poesia l’espressione umana più adatta ad attingere il vero. Il grande filosofo toccava così il nervo dolente, sempre lo stesso e dai suoi tempi immutato, della tensione a conoscere, dove lo sforzo di sapere si scontra con il limite proprio di questa attività ossia di non essere mai sicuri, certi, di quello che si sa. Si è soliti contrapporre il credere al sapere, senza riflettere sul fatto che al fondo ci troviamo di fronte a due sinonimi impropri, nel senso che la diversità che riconosciamo nei loro significati è del tutto psicologica. È una questione di approccio, o di percorso intellettuale, di strumentazione messa in campo, più che di risultati. Da un certo punto di vista il credere appare persino più potente del sapere. La locuzione «credo in Dio» rimanda a una certezza e nello stesso tempo a uno sforzo di volontà. Sottintende una decisione consapevole, non l’abbandono all’evidenza, peraltro spesso ingannevole.

S

24 aprile 2010 • pagina 13

SAPERE Per definizione richiede completezza e perfezione. Il senso del limite lo mina alle radici. Così mentre aumentano le conoscenze parziali cresce il numero delle domande alle quali mancano le risposte

Il motore del dubbio di Sergio Valzania

Credere, come sapere, comporta in questo caso un’elaborazione, lo sviluppo di un’intuizione, l’accettazione di una tradizione alla quale si intende conservare e confermare la propria appartenenza. Nei suoi passaggi il processo non è diverso da quello elaborato dal sapere scientifico moderno, anche nelle sue forme più rigorose. Si tratta sempre dell’accettazione di paradigmi costruiti nel tempo attraverso continue correzioni e qualche strappo, nell’accoglimento di concetti legati a un percorso che si è sviluppato nella storia. L’idea stessa di verità scientifica rimanda al fatto che questa verità non si propone come assoluta, ma ha bisogno di una specificazione per poter essere accettata come tale. Allora la locuzione «so che esiste l’attrazione terrestre» si trasforma in una formula più complessa, attraverso la quale si dichiara l’appartenenza a una cultura più che la certezza di un sapere. Al fondo di tutta la nostra conoscenza non si trova una spiegazione in termini di evidenza, e condivisione, per il funzionamento della gravità, dell’attrazione fra i corpi. La teoria unificata della quale si va in cerca da decenni non è stata trovata, mentre l’aumento delle conoscenze parziali fa crescere il numero delle domande alle quali mancano le risposte. Per definizione il sapere richiede completezza, perfezione, il limite lo mina alla radici, riconduce al motto di Socrate, scritto sull’architrave del tempio di Apollo a Delfi: So di non sapere. De Crescenzo

L’approccio al mondo fondato sul credere piuttosto che sul conoscere è confortante. Perché basato sulla consapevolezza della nostra responsabilità nell’elaborazione dell’insieme delle ipotesi sulle quali centriamo il nostro agire. Con il dono della libertà creatrice di mettere in discussione le certezze ironizzava sullo studente che si presenta all’esame forte solo di questa innegabile verità. Nella storia dell’uomo si sono succedute molte stagioni nelle quali la pretesa di una compiutezza prossima della conoscenza si era presentata. In questo gli alchimisti sono simili ai positivisti dell’Ottocento, nelle ultime vibrazioni del cui pensiero ci troviamo ancora a vivere. Cartesio aveva tentato la costruzione di un sistema chiuso e coerente per la descrizione del mondo, fondato su una verità che gli sembrava indubitabile. Prima di lui lo aveva fatto Aristotele, per non dire di Platone, geniale costruttore di un sistema di pensiero che si ripropone di continuo. In fondo il modello astratto dello scienti-

smo moderno è platonico e prevede un percorso di avvicinamento continuo e sempre più prossimo ai fondamenti certi della realtà. Eppure questo processo, nonostante i suoi innegabili successi, solleva critiche sempre più motivate e precise, che colpiscono il sistema nel suo complesso più che i suoi risultati. Le obbiezioni si rivolgono all’insieme di credenze che lo scientismo comporta e non il sapere che esprime. Siamo ancora alle contestazioni che si rivolgevano Galileo e i suoi accusatori, relative appunto alle forme nelle quali il sapere si manifesta. Riconoscendo alle scritture sacre la loro verità, Galileo ricordava che la loro interpretazione rimaneva interna all’esperienza umana e avvertiva che

un loro contrasto con le manifestazioni sensibili va ricondotto a una scarsa comprensione delle scritture e non di necessità a errori compiuti nell’osservazione dei fatti. La questione si allarga quando ci rendiamo conto, come ci viene ricordato in fisica dalla teoria dei quanti, che i fatti e la loro osservazione non sono per nulla distinti. Alla base di ogni sapere certo si trova in sostanza una convinzione, una credenza, quella cioè che esso sia raggiungibile, disponibile per l’uomo e che la sua dimensione non sia quella della chiamata per fede. «Beati quelli che crederanno senza aver visto» dice il Cristo a San Tommaso, dopo avergli mostrato le piaghe della crocifissione. L’alternativa è decidere, scegliere, credere che sia possibile e lecito considerare certo un sapere parziale, provvisorio, storico, legato a una dimensione circoscritta dell’esistenza. Il percorso individuato per realizzare un tale progetto è consistito nell’esclusione dalla zona di indagine di ciò che non era comprensibile sulla base degli strumenti tecnici disponibili e dell’ideologia alla quale si faceva riferimento. Questo sta alla base dell’esperimento scientifico moderno: circoscrivere i fenomeni in un ambito nel quale siano riproducibili senza contaminazioni esterne. Il prezzo da pagare è l’esclusione dall’ambiente di indagine, sia fisico che concettuale, di tutto ciò che non è adatto a queste modalità di riduzione. E non è poco, visto che tutto quello che rientra negli ambiti dell’etica, dell’estetica, della memoria storica, dell’affettività rimane tagliato fuori senza rimedio.

Risulta difficile parlare di arte o di amore in termini di neurobiologia, di misurazione delle onde elettriche che attraversano il nostro cervello, eppure ciascuno sa quanto sono importanti le emozioni nella vita e questa esperienza risulta fondante riguardo alle molte decisioni che prendiamo, la cui natura razionale è di solito discutibile. Perciò accettiamo la prevalenza linguistica della formula «credo di fare la cosa giusta» rispetto al drastico «so di fare la cosa giusta». Fra i due termini quasi sinonimi il credere rimane più umano, lo sentiamo prossimo, coerente con la nostra quotidianità. Questo ci conforta in un approccio al mondo fondato sul credere piuttosto che sul sapere, nella consapevolezza della nostra responsabilità nell’elaborazione dell’insieme di ipotesi sulle quali basiamo il nostro agire. Non siamo esseri angelici, ai quali la verità è rivelata in modo immediato. Il dono della libertà passa attraverso il dubbio e la possibilità offerta a ciascuno di elaborare il proprio sistema di consapevolezze, nel quale proprio il dubbio ha una parte importante e creatrice, dato che rappresenta il motore di ogni possibile crescita. Alla fine, o all’inizio, dobbiamo sostenere di sapere di credere e quindi di essere responsabili di quello che crediamo.


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Pop

musica

I Baustelle? Niente di più CHE TROTTOLINI AMOROSI di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi erano anche John Lydon e Mick Jones, nella bolgia infernale del 15 luglio 1972 al Kings Cross Cinema di Londra. Entrambi, cinque anni dopo, daranno il via all’uragano punk: il primo, trasformatosi in Johnny Rotten, coi Sex Pistols; il secondo coi Clash. Jones dichiarerà: «La qualità che gli Stooges riuscirono a sprigionare quella sera da quel palcoscenico fu enorme. Un lanciafiamme». Steve Jones, il chitarrista dei Sex Pistols, dirà invece di aver imparato a suonare lo strumento ascoltando Raw Power; Kurt Cobain dei Nirvana ammetterà di amare quel disco più d’ogni altro; Henry Rollins si farà tatuare da una spalla all’altra il titolo del pezzo più incendiario in scaletta: Search And Destroy. Potenza di Raw Power, l’album che nel ’73 anticipò il punk e adesso rivede la (rimasterizzata) luce per la gioia di tutti gli adrenalinici del rock con l’aggiunta di un secondo cd dal vivo e due composizioni inedite: la tribale, parossistica Doojiman e Head On, in equilibrio precario fra rock e honky tonk. Sgusciava come un’iguana James Jewel Osterberg, in arte Iggy Pop, nato nel Michigan. Il palco, per lui, equivaleva a un bordello dove torturarsi l’anima. Al microfono, con la sua voce appuntita e ferrosa, urlava storie autolesioniste cospargendosi il torace di burro d’arachidi per poi tagliuzzarselo con una lametta da barba. Dopo aver formato gli Iguanas (’64) ed essere entrato nei Prime Movers (’65), s’inventa gli Psy-

C’

chedelic Stooges che abbrevia in Stooges come il titolo dell’ellepì del ’69, seguito nel ’70 da Fun House. Dischi di musiche blasfeme, urticanti, sepolcrali. Improvvise scariche rock che sbeffeggiano il Flower Power promuovendo il nichilismo di pezzi come I Wanna Be Your Dog, No Fun e We Will Fall. Iggy, però, evapora. Non ce la fa a reggere il gioco fino in fondo. L’eroina stoppa lui e la sua band. Ma nel ’72, è David Bowie ad afferrare per la coda l’Iguana in frantumi. Ha già salvato/rilanciato Lou Reed e i Mott The Hoople, gli fa incidere Raw Power ai Cbs Studios londinesi marchiandolo Iggy & The Stooges e facendogli ritrovare l’antico furore belluino. Resuscita, l’Iguana dei più oltraggiosi sogni d’America, e con lui James Williamson (chitarra) e i fratelli Ron e Scott Asheton (basso e batteria). Macché datato: a riascoltarlo, Raw Power è follemente rivoluzionario come allora. Ultrasonico e deviante, ti sbatte sul muso il proto-punk di Search And De-

stroy, della title track e di Shake Appeal; rumina un isterico blues con Penetration e I Need Somebody; snocciola turgido rock & roll con Your Pretty Face Is Going To Hell e Death Trip; ti ipnotizza con una velenosa ballata come Gimme Danger. Ben venga, poi, la registrazione intitolata Georgia Peaches che documenta l’ora di concerto degli Stooges al Richards di Atlanta, ottobre ’73, con l’aggiunta di Scott Thurston al pianoforte. Catturate dal vivo, Raw Power, Gimme Danger, Search And Destroy e I Need Somebody sono se possibile ancor più intossicate; i sette minuti e passa di Heavy Liquid sono un continuo stop & go elettrico; i dieci di Open Up And Bleed inanellano il suono di un’armonica blues e una polpa melodica e poi rock che ricorda i Rolling Stones; Cock In My Pocket coglie la mela avvelenata del rock e la calpesta per poi trasformarla in un qualcosa che ha già l’odore acidulo del punk. C’era l’Iguana dalle innumerevoli vite, su quel palcoscenico. A detergersi il sudore dopo l’ennesima performance da infarto. Iggy & The Stooges, Raw Power, Columbia/Legacy, 23,90 euro

L’idea di Dio che aveva Duke Ellington

on largo anticipo, battendo sul tempo tutte le altre manifestazioni estive, Gianni Borgna e Carlo Fuortes, presidente e amministratore delegato di Musica per Roma, hanno annunciato il cartellone di Luglio suona bene, l’ormai collaudata manifestazione che da otto anni il Parco della Musica organizza in Cavea. Saranno trenta i concerti, rock, pop e jazz, a cui sarà possibile assistere fra il 29 giugno e il 31 luglio. Nella speranza che l’estate sia clemente - la «nube» islandese, dicono gli esperti porterà un’estate particolarmente piovosa -, sul palco della Cavea giungeranno alcune fra le maggiori star del jazz ancora in attività, Herbie Hancock, Chick Corea, Pat Metheny e Keith Jarrett, con i suoi abituali accompagnatori, a cui si aggiungeranno Stefano Bollani in un, speriamo, appassionante duo con Corea e infine

C

on l’ho letto e non mi piace» diceva Giorgio Manganelli (o Vanni Scheiwiller, non ci ricordiamo bene), una frase meravigliosa, un elogio del naso e dell’oblio, una dichiarazione d’amore per la vita (e l’arte). Anche logico il ragionamento: se non l’hai letto è perché non ti piace. Non hai mai assaggiato lo sformato di assafetida perché non ti piace, non hai mai fatto l’amore con un appartenente all’ordine degli anuri perché non ti piace, non hai ascoltato I Mistici dell’Occidente, il nuovo disco dei Baustelle, perché non ti piace. Il critico musicale (che da qualche parte si agita, certo non dentro di te) non è d’accordo. Forse perché gli piace lo sformato di assafetida e/o l’amore con gli anuri. Il critico musicale, lui, dice che bisognerebbe provare prima di giudicare, dice che questo Mistici dell’Occidente te lo dovresti sentire tutto più di una volta. Ma tu qualche pezzettino l’hai annusato. Lo sai. Sai che i Baustelle inventano bei titoli e qualche bel testo (nel caso da leggere a parte). Sai che i loro pezzi evocano in ogni giuntura armonica, nei tappetoni d’archi, nella voce bassa del maschio e in quella incolore della femmina il duo del trottolino amoroso ddu ddu dda dda dda, sai che i loro concerti sono la fiera della moscerìa. Eppure a molta gente i Baustelle piacciono, come la mettiamo? Saranno tutti anurofili? Forse, oppure hanno nostalgia del trottolino amoroso, tutto qui. E poi c’è un fatto. I Baustelle li trovi citati dappertutto a marchio di un pop italiano che è finalmente maturo. Li trovi pure su Nazione Indiana, il blog di critici e intellettuali civili. Vuol dire che non i Baustelle ma il duo del trottolino amoroso è stato seminale (aggettivo da critici musicali) per la cultura anurofila.

«N

Potenza di Raw Power quasi quarant’anni dopo

Jazz

zapping

di Adriano Mazzoletti Paolo Fresu in trio con il pianista Omar Sosa e il percussionista turco Trilok Gurtu. Una produzione originale di grande interesse, ma di notevoli difficoltà, sarà invece il concerto che la Jazz Orchestra del Parco della Musica dedicherà ai Concerti Sacri di Duke Ellington. Con l’orchestra parteciperanno a questa iniziativa la cantante Petra Magoni, il coro e le voci soliste dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Coproduzione a cui se ne potrebbero aggiungere molte altre, quali Treemonisha: a Guest of Honour, splendida opera in tre atti di Scott Jo-

plin rappresentata il 5 marzo 1908 a New York - anche se Joplin la depositò solo nel 1911 - riscoperta e nuovamente rappresentata e incisa nel 1973. Il concerto dedicato alle composizioni sacre di Ellington si baserà sulle partiture originali e saranno scelte pagine provenienti dalle tre opere. Il primo dei tre concerti venne rappresentato alla Grace Cathedral di San Francisco il 16 settembre 1965. Fu ripetuto integralmente alla Chiesa Presbiteriana della Quinta strada a New York e, nei mesi successivi, in Gran Bretagna alla Cat-

tedrale di Coventry. Anche se questo primo concerto venne commissionato a Ellington per la consacrazione della cattedrale di San Francisco, da tempo egli aveva l’idea di comporre un’opera a carattere religioso per la sua intima convinzione dell’esistenza di un amore universale identificabile con Dio. Per questa prima opera, Ellington si rifece a composizioni precedenti fra cui Come Sunday e Work Song tratte da Black Brown and Beige del 1943, ma anche New World A-Comin del 1962. Il brano più importante e significativo è In the Beginning God interpretato, nella registrazione realizzata alla Presbiterian Church, dal Mother A.M.E. Zion Cathedral Choir, uno dei più esaltanti cori gospel della musica nera. I concerti successivi del 1968 e del 1973, un anno prima della scomparsa di Duke Ellington, contengono invece pagine originali di grande suggestione.


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trane coincidenze tappezzano spesso la nostra vita. Mentre m’accingo a portare i miei studenti universitari a visitare (in corner, sta chiudendo) la mostra che ha il titolo ambizioso di Nove100 (ma scopro che verrà prorogata, quindi posso tornare in questo spazio a formulare quelle osservazioni che avevo promesso in un’altra puntata, dedicata soprattutto alla fotografia e al disegno d’architettura, di questa mostra parmigiana così faraonica e ramificata in varie sedi), ecco che ci occorre d’assistere a una bella-terribile lezione di vita, durante una prova generale del Werther di Massenet, sempre a Parma, al leggendario Regio. Ovazioni viscerali, durante un’aria singhiozzata del tenore, che non ha tempo nemmeno d’accasciarsi, secondo i dettami d’una regia finto-moderna e dissennata di sciocchezze pseudo-avanguardistiche. Ma soprattutto non ha tempo di concludersi la musica rotonda, sapientemente profumata di Massenet. E allora vedi l’umile e provato vecchio maestro della tradizione francese Michel Plasson, che in reazione a tanto strepito chiassoso e ferino d’entusiasmo scomposto e agonistico, si volge squassato e viperino al «suo» pubblico, e prorompe in una predica accorata e irritata, che non si può che condividere. «Sì, capisco, avrà anche cantato benissimo, lo riconosco» (parla del Werther della serata, l’idolo locale ottimo Francesco Meli), «capisco pure che siete abituati così», alludendo probabilmente e non offensivamente a un certo modo d’essere facinorosi-verdiani, «sono contento d’essere al Regio e capisco che dovete fare così», quasi fosse d’obbligo far per mestiere i loggionisti, «ma scusate, anche Massenet non è poi così male, ha scritto musica abbastanza buona»... e allora ascoltatelo Massenet, lasciatelo finire, non decapitate la sua melodia ben confezionata, per buttarvi, come tori meccanici, sull’acuto nazionale,

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Design

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Senza Morandi non è Novecento di Marco Vallora sul goal dell’ugola! Forse non tutta la musica è soltanto applausi sopra lo sfogato e animale do di petto. E riprende, legittimamente irato, dove è stato interrotto: a far ascoltare il tranciato via: non sarà «granché», pare dire, ma è la sapienza di Parigi, e ci vuole rispetto, non tracotanza di sé. Che bella lezione! Perché anche un applauso può essere protervo, volgare, gradasso e soprattutto auto-riferito, pasciuto di sé: io so e mi faccio valere, applaudo la mia capacità d’apprezzare. No, non sai niente, se non sai nemmeno attendere la chiusa melodica. Un applauso

dovrebbe esser manifestazione di capacità critica, non d’ignoranza tecnica. Né si dirà poi come la platea replicò, piccata: zittendo gli applausi, quando Plasson ridiscende in buca, al second’atto e qualche classico imbecille sentenzia: «era geloso perché s’applaudiva il tenore e non lui». Altri non han capito nulla del tutto, pensano non voglia applausi perché si è in prova o come si fosse a una sacra rappresentazione del Parsifal. Sto andando fuori tema? No, non credo: perché pantografato o trasposto, quest’applauso dell’ignoranza, della protervia, ebbene è lo stesso incompetente «ap-

plauso» che ritroviamo nel mondo dell’arte. Non solo di chi guarda le mostre, ma di chi le fa (non disturbiamo il termine termale «cura»), di chi le spiega (ci sono guide bravissime, ma altre dementi), talvolta perfino di chi le giudica (nulla di peggio dei critici saccenti, più ignoranti delle stesse mostre che stroncano). C’entra così Nove100? Ho sentito dire da una ragazzina adorante al suo fidanzato, perplesso, sul treno (sì, tutto nella stessa giornata): «No, dobbiamo assolutamente andarci, c’è dentro tutto il Novecento!». No, non c’è tutto il Novecento, se non ci sono né Boccioni né Morandi, né De Pisis o Carrà o Severini. Non c’è Casorati, ma magari il suo rivale Spazzapan. C’è Sironi ma non Balla, entrambi il Novecento. Certo, c’è molto, ma c’è solo il tardo Novecento di quegli artisti viventi, o disponibili, che Quintavalle, il «dispensiere’» dello Sacs, ha potuto contattare, sirenare e convogliare a giuste donazioni. Ma poi, si può riassumere, raccontare, sintetizzare un secolo complesso come il Novecento? Non è pensabile che una formula pubblicitaria, accalappiante , inganni così le attese e tradisca il senso del vero. Non ce l’abbiamo con questa mostra, ma con la maleducazione galoppante di simil mondo. Anche se lì troviamo un’altra bella morale. Si guardi Lo spirato di Luciano Fabro, 1963. Ma non è, esattamente la stessa opera, tanto ammirata, di Cattelan, alla Fondazione Pinault, tra l’omertà ignava della critica, che non lo sa - dice?

Nove100, Parma, Palazzo del Governatore, fino al 26 maggio

Quell’inatteso incontro tra Pollaiolo e Gaetano Pesce urante la settimana del Salone del Mobile, appena conclusa, Milano diventa città aperta: piazze, palazzi, cortili, botteghe, laboratori e spazi industriali accolgono generosamente il design di tutto il mondo e il fiume di visitatori che scorre incontenibile in ogni dove. Evento da non mancare, la mostra Ospiti inaspettati, organizzata dal Circuito delle quattro Case Museo di Milano (Museo Poldi Pezzoli, Museo Bagatti Valsecchi, Casa Museo Boschi Di Stefano,Villa Necchi Campiglio), aperta fino al 2 maggio. Un tempo preziose dimore private appartenute ad amanti e collezionisti delle arti decorative, oggi sono musei aperti al pubblico. Gli «ospiti inaspettati», oggetti di design contemporaneo, a volte estremo, entrano un po’ prepotenti a scuotere quell’atmosfera, nonostante tutto inevitabilmente museale, ma, dopo un primo momento di leggero imbarazzo, si inseriscono in modo sorprendentemente naturale, assolvendo più che altrove alla loro funzione di oggetti non solo belli ma anche utili. L’allestimento più efficace è al Museo Poldi Pezzoli, una volta residenza del nobile milanese Gian Giacomo, il quale, dal 1846 acquista e collezio-

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di Marina Pinzuti Ansolini na oggetti di tutte le epoche, armi, armature, smalti, vetri, ceramiche, oreficerie, tappeti, arazzi, mobili e dipinti. Nelle varie stanze si susseguivano diversi stili «neo»: il barroco, il rococò, il gotico, il rinascimentale, il mediovale. Dagli anni Cinquanta, un po’ meno casa e un po’ più museo, oltre ad aumentare vertiginosamente la collezione di circa 1200 oggetti a opera di importanti donazioni, è stata oggetto di trasformazioni architettoniche e decorative. In questo tempio del design ottocentesco, sono stati collocati 70 oggetti contemporanei: divani, sedute, lampade, apparecchiature per la tavola, specchi e tappeti selezionati in modo attento per le loro forme e funzioni, per i colori e i materiali. Le sorprese si susseguono stanza dopo stanza. Nel salone centrale, nello sguardo intenso di Gian Giacomo Poldi Pezzoli si scorge un lampo di curiosità indirizzato al centro della sala, dove è collocato il gigantesco Boa, divano dei fratelli Campana, eclettici designer brasiliani. È un invito a osservare, sulla parete, adagiati sul morbito intreccio di velluto am-

brato, le minuziose scene di caccia rappresentate nell’imponente tappeto persiano, tessuto nelle manifatture di Tabriz nel 1542. Nel Salone Dorato è irresistibile sedersi su una Michetta di velluto rosa per godere del Ritratto di Dama del Pollaiolo, forse uno dei ritratti femminili più famosi del Rinascimento italiano e simbolo stesso del museo. Le Michette, creazioni di Gaetano Pesce, sono divani modulari: colorati, ironici, forse scomodi altrove, qui perfetti per osservare in composto raccoglimento. Nelle vetrine dell’austero e intatto studiolo dantesco, sopravvissuto ai bombardamenti del 1943, bisquit, miniature e bruciaprofumo fanno spazio, senza sforzo apparente, al vaso Medusa di Andrea Branzi e al calice Grande brindisi di Alessandro Mendini. Nella sala dei trecenteschi, una delle apparizioni più felici della mostra: una nuvola sospesa, formata da moduli componibili di tessuto dai colori delicati, creazione dei fratelli Bouroullec, esalta la bellezza composta di una Madonna lignea toscana della fine del 1200. Il dialogo tra gli oggetti del passato, antichi padroni di casa e gli ospiti inaspettati del presente diventa vivace; il confronto efficace, il risultato vincente. L’intelligente inizitiva della mostra è destinata certamente a essere un «precedente» nella storia degli allestimenti.

Ospiti inaspettati, Circuito delle quattro Case Museo di Milano, fino al 2 maggio


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NÉ UN SANTO NÉ UN MOSTRO. È QUANTO EMERGE DALLO STUDIO CHE KAROLINE LEACH, LAVORANDO SU DOCUMENTI FINORA IGNORATI, HA DEDICATO ALL’AUTORE DI “ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE”. SMENTENDO IL RITRATTO AGIOGRAFICO CHE NE AVEVA FATTO IL NIPOTE NELL’UNICA BIOGRAFIA UFFICIALE E CHE HA OFFERTO IL DESTRO A INFINITE INTERPRETAZIONI PSICOANALITICHE SULLA SUA SESSUALITÀ MALATA

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il paginone

Lewis Carroll riabilitato

di Mario Bernardi Guardi na lontana, magica notte nell’Inghilterra vittoriana. Una deliziosa fanciullona, di nome Alice, che sogna. Ecco: se ne sta seduta insieme alla sorella nel folto di un bosco, in riva a un ruscello, e all’improvviso appare un coniglio bianco, vestito con grande eleganza, che estrae dal taschino del panciotto un orologio, lo controlla con una certa aria preoccupata, sbuffa «sono in ritardo», corre agitato verso un buco nel terreno e ci si infila agevolmente. Alice lo insegue e precipita fino al centro della terra. Da questo momento in poi, le accade di tutto. Ad esempio, di cambiare dimensioni con facilità sorprendente, a seconda di quel che mangia - una torta trovata per caso - o di quel che beve - un bicchierino di liquore nella casa del coniglio. Nel Paese delle Meraviglie, del resto, non bisogna meravigliarsi di nulla. Alice aprirà porticine con chiavette d’oro, scorgerà stupendi giardini, incontrerà il gatto del Cheshire che si offre e si sottrae alla sua vista, diciamo così, «a pezzetti», cominciando dal sorriso e finendo col sorriso. Memorabile il commento della ragazzina: «Mi è capitato

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Eletto, casto, ingenuo, affabulatore di angeliche bambine: ecco l’icona da tramandare. Nella realtà Charles L. Dodgson (questo il suo vero nome) era pieno di interessi per le idee nuove, appassionato dei Preraffaelliti e delle belle donne spesso di vedere un gatto senza sorriso, ma un sorriso senza gatto! È la cosa più curiosa che abbia mai visto in vita mia». Ma la curiosità non finisce mai di essere stimolata e appagata, in uno scialo di incontri sorprendenti: dal Cappellaio Matto, che la invita al tè della lepre marzolina, alla Regina di cuori, che, dopo una partita a criquet nel suo splendido giardino, la chiama a testimoniare nel processo a un Fante accusato per un furto di biscotti.

È un «volo fantastico» quello di Alice: è come se le storie che lei legge nella sua cameretta di beneducata pargola di agiata famiglia alto-borghese, uscissero dai libri, liberando i personaggi e moltiplicandone i tratti bizzarri, paradossali, surreali. E lei ovviamente si stupisce, ma non più di tanto. Infatti, nella vita tranquilla e ordinata che la famiglia le garantisce c’è spazio adeguato per il «bisogno di sogno» e nel sogno non si rispettano regole e convenzioni: ma poi ci si sveglia, si torna alla realtà e il Paese delle Meraviglie ritrova immagini più consuete: il bosco, il ruscello, la sorella. Di Alice, noi che abbiamo superato gli anta, conserviamo un’icona-ricordo: il film del 1951, col contrassegno d.o.c. Walt Disney, che comunque non ci incantò così come avevano fatto Biancaneve e Cenerentola. La spiegazione? Leggiamo sul Morandini (Zanichelli) il giudizio di O. De Fornari: «Non si può espungere la filosofia dell’assurdo di Carroll e, insieme, conservarne l’impianto narrativo bislacco che soltanto quella filosofia anno III - numero 16 - pagina VIII

avrebbe potuto giustificare». Già, ma la «filosofia dell’assurdo» è compatibile con un attestato e più volte riconfermato «capolavoro della letteratura infantile»? A meno che il racconto che il compassato (o complessato?) ma estroso (anche un po’ matto?) Lewis Carroll, al secolo Charles L. Dodgson, prete anglicano nonché professore di matematica, scrisse per le sorelline Liddell, dedicandolo a una di loro, la prediletta Alice; a meno che, dicevamo, Alice’s Adventures in Wonderland non fosse in realtà rivolto ai «grandi», con il nascosto, ma non troppo, intento di denunciare ipocrisie, censure e modelli virtuistici vittoriani, grazie a coloriti e impertinenti granelli di lucida follia, sparsi di pagina in pagina. Con soave-perfida ironia che ha ben poco di infantile. Chissà… Certo è che il geniale e sregolato Tim Burton, col geniale e sregolato Johnny Depp, e con un’Alice diciannovenne e antivittoriana che rammemora riti di passaggio e altri ne compie, esplicitamente si sono proposti di ritrovare il vero spirito del romanzo, ripercorrendone le sequenze incantate e/o allucinate e svelandone la trama simbolica, anzi sacrale. Ci sono riusciti? Come per l’Alice disneyana, critica e pubblico appaiono perplessi. Suggestioni a iosa, grandi, godibilissimi effetti speciali, ma…

Non sarà che, per comprendere le stramberie di Alice, abbiamo bisogno di comprenderne il «padre», e cioè Lewis Carroll? Ma com’era davvero? Un tipo strambo e un po’ inquietante? O addirittura un tipac-

cio, quasi un orco sotto le mentite spoglie di un dolcissimo, affettuoso affabulatore? Ebbene sì: amava le bambine.Trascorreva con loro gran parte del suo tempo, le coccolava, le vezzeggiava, inventava mille giochi per farle divertire. E le fotografava, cercando di cogliere nei loro sguardi quel misto di tenerezza, capriccio e ambiguità che le rendeva deliziose. Lewis Carroll amava le bambine, piccoli, enigmatici angeli, con addosso qualcosa di magico. Come, appunto, Alice Liddell che trasfigurò in Alice nel Paese delle Meraviglie. Amava le bambine il reverendo anglicano nonché prof. di matematica Charles Dodgson, in arte Lewis Carroll. E mentre il primo, come scrive Karoline Leach (La vita segreta del papà di Alice, Castelvecchi, 427 pagine, 22,00 euro), «nacque il 27 gennaio 1832, visse la sua vita e morì il 14 gennaio 1898», il secondo «nacque il primo marzo 1856 ed è ancora tra noi».

Già, perché da cento anni ci si occupa soprattutto della seconda incarnazione. E cioè del mito di Lewis Carroll, piuttosto che della realtà di Charles Dodgson. Ora, come è noto, sul capo dello scrittore è da decenni sospesa una sinistra, sulfurea nuvoletta. Insomma - si dice - anche ammettendo che il Nostro amasse platonicamente le bambine prepuberi che circolavano per la sua casa, di fatto quei vagheggiamenti erano morbosi, frutto di una sessualità repressa, deviata, malata. Il povero Lewis viveva fuori dal mondo, non aveva contatti umani, trovava unico conforto nella compa-


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gnia delle pargolette non ancora sbocciate, si disinteressava delle sue amiche non appena diventavano grandi. O erano loro che, a un certo punto, si sottraevano all’atmosfera malsana di quella casa… Questa è la vulgata. Ed è ovvio che, trattandosi di un argomento pruriginoso, la letteratura in materia abbondi. Che storia eccitante quella del pretino solitario, complessato e pedofilo! Peccato che la verità sia un’altra. Come dimostra la Leach, a suon di documenti. Ne restano abbastanza, anche se gli eredi infierirono, tra roghi e aste, sulla sterminata quantità di carte che riempivano le stanze del defunto. Basta avere la voglia di consultarle, buttando via i pregiudizi. Ebbene, sostiene la Leach, carte alla mano, non è vero che Carroll concedesse amore e attenzione solo a bambine in età prepubere. È vero, invece, che gran parte delle frequentatrici di casa sua cominciarono come «amiche bambine», ma poi crebbero e restarono tali anche quando avevano venti, trent’anni. Lui continuò a chiamarle «piccole amiche», ma erano donne sposate, vedove, ragazze single, con molte delle quali ebbe relazioni più o meno intense. Insomma, primo, al suo amore per le bambine non si mescolavano fantasie morbose né tanto meno sotterranee vocazioni pedofile. Secondo, gli piacevano le ragazze e le donne. Come normalità comanda.

E allora com’è potuta nascere la leggenda e come mai su di essa sono prosperati tanti maliziosi malintesi? La colpa originaria sta nella prima e unica biografia «ufficiale» di Lewis Carroll, quella scritta, undici mesi dopo il suo decesso, dal nipote Stuart Dodgson Collingwood. Il quale, più che un attendibile profilo biografico, ne confezionò uno agiografico. In perfetta conformità allo spirito vittoriano incline ai santini. Ragion per cui la vita dello zio doveva essere l’immagine della virtù: duro lavoro, autodisciplina, rigido conservatorismo, genuina fede religiosa. E le bambine? Ma

Carroll, raccontavano, loro erano bambine, le bambine che lui purissimamente amava. E non, come sarebbe stato possibile verificare, le ragazze cui lui si interessava, ovviamente con minor purezza, ma in maniera perfettamente conforme agli istinti naturali. In questo modo si consolidò l’etereo ritratto che avrebbero offerto il destro a ben altre interpretazioni. Perché, diciamo la verità, uno che ama troppo le bambine, mica la racconta giusta. Quanto meno è un tipo ambiguo. Da studiare. E se ci pensa la psicoanalisi, il gioco è fatto. A tracciare il solco, racconta la Leach, fu un giovane studioso, Anthony Goldschmidt, che, a metà anni Trenta, cominciò a compulsare con crescente curiosità la biografie dedicate a Carroll. Quel tipo con le bambine piccole che lo contornavano estasiate, col suo isolamento sociale, con la sua apparente assenza di contatti col mondo degli adulti ecc. - non lo convinceva. O meglio gli faceva nascere il sospetto che di mezzo c’era una patologia. In poche parole, Carroll «non era né un santo né una creatura eterea coperta da un manto di carne e sangue, bensì un pedofilo represso». Goldschmidt pubblicò i risultati della sua ricerca in un articolo di quattro pagine sul New Oxford Outlook. Così parlò Goldschmidt: l’inizio di Alice è un messaggio in codice che viene dal subconscio di Lewis Carroll; segni e simboli possono essere decodificati alla luce della moderna psicoanalisi; l’intero svolgimento della storia può essere spiegato con il desiderio di raggiungere una virilità completa, in conflitto con il desiderio di una soddisfazione sessuale anomala. Ne deriva che la caduta nella tana del coniglio allude alla penetrazione sessuale, che le porte qua e là disseminate sono emblemi dei genitali femminili e che alla porta più piccola, e più «interessante», corrisponde una bambina. La desiata Alice. Ergo, Carroll era un pedofilo. Seguono decenni di saggi e biografie a conferma della sentenza. Inappellabile? No, perché Karo-

Pedofilo represso. Questa la vulgata che ha sempre circondato la figura dello scrittore vittoriano. Ma la sua era un’epoca in cui i bambini, spesso ritratti nella loro nudità, erano sinonimo di purezza. Un’inversione di tendenza rispetto a oggi... in età vittoriana «chi amava le bambine» era uno spirito superiore attratto dagli angeli, e davvero Collingwood mai e poi mai avrebbe immaginato di consegnare ai posteri un’immagine equivoca dell’amato zio. Il puro, l’eletto, il casto, l’ingenuo Lewis Carroll, meraviglioso affabulatore, con tante bambine intorno, amate con innocenza: ecco l’icona da tramandare. Via, dunque, in nome di un’immagine «sublime», ogni traccia di normali appetiti sessuali e di altri legami affettivi. E lievi, rapidi cenni al fatto che il Nostro a trent’anni aveva abbandonato la tonaca, era pieno di interessi per le idee nuove e coltivava una vera e propria passione per l’estetismo voluttuoso e vagamente eretico dei Preraffaelliti. Rapidissimi cenni, poi, agli affetti adulti, cioè alle donne che, bene o male, compaiono nella vita di Carroll, e che non possono essere ignorate. Ma che finiscono con l’avere una fisicità e un carattere indistinti, svaporando nel paesaggio meraviglioso dove l’Affabulatore, contornato da angeli, narra le sue storie, in un tripudio di creatività e affettività sublimemente avvinte. Così, per eccesso di benevolenza, Collingwood arò il terreno dove avrebbero operato i sostenitori di un Lewis, se non puro spirito alieno da umanissimi desideri, quanto meno meraviglioso maestro che, sospeso tra terra e cielo, affidava al suo genio l’invenzione di spazi incontaminati, alieni da ogni bassura e abitati solo da una fantasia che non conosce confini. E che è la migliore educatrice di ogni anima innocente. Il bello è che, a dare opportuni ritocchi a questa immagine di Lewis, concorsero non poche donne con cui il Nostro aveva avuto legami affettivi assolutamente normali, quando loro erano delle belle ragazze e lui un giovane uomo dall’indiscutibile fascino. Ma quel passato contrastava con il mito vittoriano di un Lewis asessuato e dunque su esso si doveva intervenire con qualche ritocco. Ed è così che le testimoni in questione si accorciarono l’età: ai tempi dell’amicizia con

line Leach, lavorando sui documenti, e rimproverando ai biografi di Carroll di non averlo fatto adeguatamente o di averne estrapolato quel che serviva a confermare inveterati pregiudizi, contesta la vulgata del «bambino invecchiato», sessuofobo e sessuomane a un tempo, dunque perverso anziché no, e ci dà il profilo di un uomo adulto, con un carnet fitto di relazioni, e con tutti i pregi e i difetti di uno che non era né un santo né un mostro.

Come la mettiamo, allora, con il grave indizio delle foto? Il fatto è che negli anni Settanta, alla collezione Rosenbach di Filadelfia, «furono rinvenute quattro immagini che rappresentavano i corpi piccoli, gli arti tondeggianti e l’indubbia nudità di quattro bambine prepuberi» e che a scattarle era stato Lewis Carroll. La scoperta sembra valere da conferma senza appello per chi da sempre sventolava il vessillo dell’Affabulatore pedofilo. E indubbiamente, rileva la Leach, soggetti infantili del genere ai nostri giorni sono unicamente disponibili in forma pornografica. Ai nostri giorni, però, e non in età vittoriana. Perché se allora, in un’epoca che adorava l’innocenza, l’amore per la compagnia «pura» dei bambini era sinonimo di integrità morale, l’essenza pittorica di tutto questo era la nudità. Insomma, «in un’inversione un po’ spiazzante della morale attuale, la rappresentazione di bambine nude non era un’espressione pornografica e un sintomo di sensualità deviata, bensì un’immagine artistica (…). L’immagine della bimba nuda veniva vista nel mondo dell’arte come una fonte di bellezza celeste, immune da qualsiasi cenno a un’identità sessuale manifesta. Quindi, bellezza allo stato puro». Così era nella moralissima età vittoriana, allorché la rispettabile borghesia «inviava cartoline natalizie recanti giovani Veneri che mostravano le loro pudende implumi». E allora? E allora forse bisogna riaprire il dibattito su Lewis Carroll. E su Alice, naturalmente.

Sopra, alcune illustrazioni (film, libri e fumetti) di “Alice nel Paese delle Meraviglie”. Nella pagina a fianco, Carroll e Alice Lidell in una foto dello scrittore


Religione

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ento pagine per raccontare la storia di un amore. Il suo verso la Chiesa. Così vero da non poterne parlare senza parlare della sua vita. Un saggio breve e irresistibile su ciò che accade a un uomo che si converte al cattolicesimo (nel 1922) è il libro La Chiesa cattolica di Gilbert K. Chesterton, battezzato anglicano e cresciuto in un mondo agnostico. Ci sono pagine memorabili sulla propaganda anti-cattolica, riferite all’Inghilterra di allora, ma perfette per oggi. Alla fine di una vita pienamente vissuta, Chesterton ha il cuore di un bambino e la mente di un gentiluomo. Con profetica ironia smaschera i falsi ragionamenti con cui si attacca la Chiesa: ma lui sa che «lei» «è molto più grande dentro che fuori». Così grande che due uomini non vi entreranno mai con la stessa angolazione. Così nuova, che vale «per il primo dei pastori e per l’ultimo dei convertiti». Una dichiarazione d’amore alla Chiesa dedicata a tutti, anche a chi già crede. Un invito a rimanere. Perché tutte le volte che le ragioni della Chiesa non si vedono, alla fine ha ragione lei. E l’uomo scopre la più grande verità. «Con il tempo», dice Chesterton. E «con l’arrivo della speranza». Il «Genio colossale», come l’amicorivale George Bernard Shaw definì Chesterton, aveva scoperto la speranza, che giorno dopo giorno comprese essere Dio, il Dio cristiano, cioè il Dio incarnato, e più avanti scoprì che Egli era il Dio della Chiesa cattolica romana, come si dice in Inghilterra con un’espressione che nasconde secoli di rancori e di rivendicazioni. Quando Chesterton parla di religione, ne parla sempre a partire dalla ragione e dalla vita. Non fa un discorso ecclesiastico o clericale. Può partire da un pezzo di gesso, un dente di leone o un tramonto per arrivare al rapporto di ciascuno di noi con il Mistero. Perché per lui fu così: il Mistero che fa tutte le cose si manifestò nella sua vita attraverso gli umili ma potenti segni dell’allegria familiare, del gusto del bello scorto nelle cose di tutti i giorni, come il vento che sconvolse la casa dove si svolge la vicenda di «Uomovivo».Tutto era per lui la conferma che la vita era degna di essere vissuta. Chesterton si scusa dicendo di aver dato «dispiacere a coloro che mi auguravano ogni bene, e a molte persone sagge e prudenti, per la mia condotta incauta nel diventare cristiano, cristiano ortodosso, e infine cattolico nel senso di cattolico romano», in un’adesione progressiva al nocciolo del Credo degli Apostoli, definito come la maggiore sorgente di energia e di sanità morale. In effetti, per qualcuno questo ingresso fu un vero trauma: c’era chi credeva che fosse già cattolico, chi invece non auspicava questo passaggio, ritenuto quasi fatale. Shaw stesso lo metterà in guardia in una lettera: «Gilbert, questo è andare troppo lontano...». Ma il punto è a che cosa un uomo non può fare a meno di credere. L’uomo non può

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libri

Gilbert K. Chesterton LA CHIESA CATTOLICA Lindau, 117 pagine, 13,00 euro

Chesterton cattolico con allegria

Tra paradosso e ironia la storia di una conversione nell’Inghilterra del XX secolo

Il bibliofilo

di Rossella Fabiani

dubitare dell’elefante dopo averne visto uno, e non può trattare come un bambino la Chiesa dopo avere scoperto di esserne figlio. La Chiesa è madre non per un’emozione, ma per un fatto storico. E quando l’uomo esige di avere la priorità sulla legge primitiva di tutta la terra, allora se la sarà cercata se ottiene come risposta la franchezza spiazzante del Libro di Giobbe: «Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra?». In modo sottile, brillante e appassionato, Chesterton, dunque, accompagna l’anima perennemente in bilico del convertito attraverso le tre fasi che precedono l’ingresso nella Chiesa di Roma: l’assunzione di un atteggiamento intellettualmente onesto nei confronti di essa, poi la sua progressiva e irresistibile scoperta e infine l’impossibilità di abbandonarla una volta entratovi. E al termine di questo pellegrinaggio interiore, la religione più antica si rivela sorprendentemente la più nuova, più nuova delle cosiddette religioni nuove, come protestantesimo, socialismo o spiritismo, perché, a differenze di esse, da duemila anni la tradizione e la verità cattoliche conservano intatta la propria validità. Ma come spiegare perché sia ancora tanto nuova oggi, per l’ultimo dei convertiti, quanto lo era per il primo dei pastori? C’è qualcosa di leggendario nel fatto che una religione vecchia di duemila anni sia considerata una rivale delle religioni nuove. Per Chesterton il fondamento di questa reale universalità, oltre a risiedere nell’azione della Grazia, mistero teologico della fede, risiede nella razionalità e nella libertà del cattolicesimo, come Benedetto XVI va instancabilmente ripetedendo agli uomini di oggi. Chesterton è convinto che l’uomo dovrebbe combinare ragione e immaginazione. Il pensatore costruttivo è come Neemia che difende le mura di Gerusalemme con una cazzuola in una mano e la spada nell’altra: la cazzuola rappresenta l’immaginazione, il potere costruttivo; la spada è la ragione, lo strumento difensivo.Tutto è ben riassunto nel consiglio che egli diede al giovane ragazzo al quale regalò un libro illustrato: «Così ti ricordi del tuo libro, mio piccolo uomo, e ascolti gli sproloqui e le critiche dei pedanti. Ma non credere in niente che non possa essere raccontato in immagini colorate». In occasione della sua conversione al cattolicesimo, disse: «I saggi hanno cento mappe che disegnano universi fitti come alberi, scuotono la ragione con mille setacci che accantonano la sabbia e lasciano filtrare l’oro: per me tutto ciò vale meno della polvere poiché il mio nome è Lazzaro e sono vivo».

Il tascapane dell’«uomo di pena»

ncomincio Il Porto Sepolto, dal primo giorno della mia vita in trincea, e quel giorno era il giorno di Natale del 1915, e io ero nel Carso, sul Monte San Michele. Ho passato quella notte coricato nel fango, di faccia al nemico che stava più in alto di noi ed era cento volte meglio armato di noi. Nelle trincee, quasi sempre nelle stesse trincee, perché siamo rimasti sul San Michele anche nel periodo di riposo, per un anno si svolsero i combattimenti. Il Porto Sepolto racchiude l’esperienza di quell’anno». Sono parole di Giuseppe Ungaretti tese a rievocare la pubblicazione della sua raccolta d’esordio, edita nel 1916 dallo Stabilimento Tipografico Friulano di Udine in una tiratura di appena 80 esemplari. Com’è noto fu l’ufficiale Ettore Serra a improvvisarsi editore dopo aver conosciuto quel soldato semplice «dal fare trasandato e disattento» che scrisse in seguito: «La colpa fu tutta sua. A dire il vero, quei foglietti: cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute... sui quali da due anni andavo facendo giorno per giorno il mio esame di coscienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane, por-

«I

di Pasquale Di Palmo tandoli a vivere con me nel fango della trincea o facendomene capezzale nei rari riposi, non erano destinati a nessun pubblico». Serra, divenuto amico del poeta, si fece consegnare, dopo qualche mese, il tascapane contenente varie carte, tra cui le liriche scritte tra il 1915 e il 1916 e ne ricavò una spoglia brochure di 48 pagine. Si tratta del celebre diario in versi ungarettiano, ricco di immagini folgoranti e di una musicalità franta che cambieranno radicalmente le sorti della nostra lirica moderna. Leone Piccioni ha così rievocato l’incontro con il «Gentile / Ettore Serra», come recita l’incipit della lirica conclusiva, intitolata Poesia: «Era un giovane tenente, amante della poesia e poeta lui stesso, lettore della Voce e di Lacerba. Nella primavera del ’16 [...] era a Versa: vi giunse a riposo il reggimento di Ungaretti, 19° fanteria della Brigata Brescia, dopo un mese e mezzo e forse più passato sul Carso, in trincea. Serra ha raccontato che passando per l’acquartieramento di quel reparto, notò, per un puro caso, un fante che si distingueva dagli al-

Le quotazioni, da capogiro, del “Porto sepolto” di Ungaretti edito nel 1916 in 80 esemplari

tri per il suo portamento trascurato e per il disordine della sua tenuta militare e della persona: camminava lentamente, dondolando, le mani in tasca, il cappello militare di traverso, le scarpe sporche, esposto al sole, godendoselo,“come una lucertola”. [...]“Come ti chiami?”“Giuseppe Ungaretti.”“Di dove sei?”“Di Lucca, più precisamente di Alessandria d’Egitto”, ecc. ecc. Ma il nome non era del tutto nuovo per Serra, ripensò alle poesie di Lacerba, forse aveva fatto in tempo a vedere il numero della Voce del mese avanti». Serra ristamperà nel 1923 Il Porto Sepolto presso la sua Stamperia Apuana in un’edizione di 500 copie numerate fuori commercio, corredata da una presentazione di Mussolini e da 5 xilografie e 15 fregi di Francesco Gamba. Ma quell’editio princeps dall’aspetto grafico così povero e dimesso, che adesso costituisce uno dei titoli più ricercati del Novecento, conserva il fascino impagabile dei versicoli dell’«uomo di pena» che trascina la sua «carcassa/ usata dal fango/ come una suola/ o come un seme/ di spinalba». Nel 1919 sarà la volta dei versi francesi di La Guerre, pubblicati dall’Établissement Lux di Parigi in 80 esemplari fuori commercio. Entrambi i titoli, rarissimi, hanno quotazioni ormai da capogiro, che si aggirano intorno ai 25 mila euro.


MobyDICK

Esordi

di Maria Pia Ammirati

arrebbe la pena, per raccontare questo romanzo scritto da una ragazza dell’89, tessere e ritessere citazioni dal testo, opera prima da poco candidata allo Strega 2010, che di diritto entra nella schiera del pastiche letterario di buona tradizione italica che da Dossi arriva a Carlo Emilio Gadda non dimenticando un minore come Antonio Pizzuto. La casa è il titolo sintetico e vagamente anonimo per il nuovo romanzo di Angela Bubba, scrittrice già individuata nel 2008 tra i finalisti del Premio Calvino, che contrasta la fluvialità linguistica e il parossismo di una novella in lingua pasticciata, appunto, con il dialetto calabrese, lingua madre dell’autrice. Forza d’urto i derivati verbali dei tanti neologismi che creano quindi non solo una mappa geografica del testo, ma esaltano una letterarietà di spirito naturale. Lo spessore linguistico che imprime forza al testo sovrasta la storia che, forse, occhieggia all’impronta verista citata nella quarta di copertina. Per il resto, cioè oltre la materia grezza del plot, difficile avvicinare il testo al verismo degli scrittori meridionali. Tralasciando alcune sapide scene come quella del primario che incontra la protagonista Lia (incontro tra il popolo e la classe dirigente), tutto il resto fugge via dal verismo per parlare una lingua mista e decadente, a tratti epica. Una dose di ironia e disincanto, una mancata partecipazione del narratore, l’impegno stilistico che sopravanza la storia in quanto tale. La storia, peraltro, sarebbe anche facile e collaudata, riportabile ad altri esperimenti narrativi recenti dedicati alle storie di famiglie come

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La casa dove la donna è solo psicologia quelle di Mariolina Venezia o di Milena Agus, se non fosse che lo scatto della Bubba è nella maturità espressiva che procede per accumulo. Ma per non perdere il filo enunciato al principio, prima di dar conto della storia, sentiamo l’incipit del libro e introduciamoci in argomento: «Nella famiglia Manfredi la donna non era un essere umano, né una qualche corporea entità, e neanche una sorta d’impasto di sangue ossa e passione. Era una psicologia, quella cosa soltanto». La famiglia Manfredi che abita la casa è composta da cinque figli, quattro femmine e un maschio. Per questo motivo l’apertura del libro è dedicata alla descrizione ontologica del mondo femminile. Una sorta di nobilitazione del concetto di matriarcato meridionale dove il corpo delle donne vive una funzione prevalentemente ri-produttiva, il resto è psicologia, cioè intricato sistema di relazioni. Non sarà un caso che, sempre in apertura, è posta la nascita del figlio della prima ragazza della famiglia Manfredi. La casa è situata in uno strano e sghembo luogo della Calabria «a Petronà, un groppo di pietre fra la Calabria e le nuvole», in un tempo lontano e sospeso, tutto da consumare dentro le dinamiche familiari fatte di nascite, malattie e morti. Il luogo è tutto, oltre che la scena per i suoi personaggi, è la rappresentazione stessa di un mondo arcaico e avulso dalla storia. Come arcaiche sono a volte le impennate linguistiche, i neologismi, la parlata volgare: «spincionarsi… sbobinava… ululava nella gelata… spulicò timido… una brancata d’uomini... i ragazzi passiavano nella piazza». Un testo corposo e arduo, di sorprendente maturità per una scrittrice giovanissima che avrà ancora molto da dire.

Racconti

Angela Bubba, La casa, Elliot, 363 pagine, 16,50 euro

Raymond Carver primo e ultimo essuna sorpresa, questo è certo: il copione emozionale non si ribalta. Ma viene spontaneo ripensare a quanto sia squallida e triste una gran parte di America leggendo i racconti inediti di Raymond Carver proposti ora dalla Einaudi. Anche sul grande schermo, per merito di Robert Altman che rese pellicola (America oggi) nove testi dello scrittore scarno e tagliente, il cosiddetto paese delle opportunità appariva ripiegato su se stesso, desolato, in preda a contraddizioni che mai esploravano davvero i tortuosi cunicoli dell’anima. Dentro villette e appartamenti, dentro un decoro di superficie, si avverte il niente o il quasi niente, oppure il brusio di un temporale in arrivo. Accanto a sconfitti automatismi di persone che si agitano come cavie in gabbia o come manichini nelle vetrine della piccineria piccolo-borghese, affiora uno dei temi cari - evidenti gli appigli autobiografici - a Carver, ossia la fatica dell’uomo di liberarsi da certe schiavitù come l’alcol per adottare regole di vita semplici, rigorose anche se apparentemente assurde.

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di Mario Donati Questo testo si compone di due parti: la prima contiene gli inediti di un Carver già maturo, la seconda i racconti giovanili. Ed è interessante rilevare come i secondi siano in qualche modo prologo dei primi, almeno nelle parti, non tante, in cui compare la luce del riscatto. Carver è fedele al suo idolomaestro Hemingway, senza però dimenticare il corteggiamento letterario verso Cechov. Nel racconto Legna da ardere compare un uomo, Myers, attorno al quale lo scrittore non si perita di mobilitare memorie. Basta un gesto, una parola, un particolare: tutto è affidato all’elaborazione di chi legge. Si può facilmente affermare che Carver non schiavizza il lettore, non lo tiene per le redini. Semmai dà una sterzata al suo calesse, indicandone la direzione. Questo personaggio è descritto magistralmente nelle prime tre righe: «Era la metà di agosto e Myers era sospeso a metà tra una vita e l’altra. L’unica differenza, rispetto alle altre volte, era che questa volta era sobrio». Il resto,

se ci fosse, sarebbe per Carver antiquato chiacchiericcio. È una scelta stilistica: la si può apprezzare oppure no, quel che è certo è che risulta di grande efficacia. Certe volte uno schizzo su carta «parla» più di un affresco. Ebbene, Myers affitta una camera presso due coniugi, che lo considerano subito «uno a posto». Un giorno si offre a tagliare la legna. Nulla vuole in cambio, nemmeno un invito a cena. Il suo scopo è quello di fare bene un lavoro faticoso. I suoi ospiti non capiscono, ma accettano quel volontariato con accetta e motosega: sono una coppia di una grottesca chiusura spirituale, lontana dalle domande. Dopo pochi giorni Myers, terminato il lavoro, si tiene la testa tra le mani per qualche istante poi spegne la luce e va a letto, lasciando la finestra aperta: «Andava bene così». Ce l’ha fatta, se ne andrà. Il primo importante passo è compiuto. Al lettore il compito di immaginare il tipo di inferno da cui Myers proviene. Raymond Carver, Se hai bisogno, chiama, Einaudi, 143 pagine, 18,00 euro

ALTRE LETTURE

QUELLA FOLLIA CHE PER I GRECI ERA SAGGEZZA di Riccardo Paradisi

ella Grecia delle origini la follia non fu solo malattia, ma mezzo per forzare i limiti dell’anima e dilatare la personalità. Faceva parte dell’esperienza religiosa, stava alla base dell’attività di profeti e persino di politici, era la voce degli oracoli. C’era metodo in quella pazzia: ispirava poeti e cantori, né mancavano culti estatici, come quello di Dioniso, in cui gli adepti avevano esperienze visionarie. In Grecia i pazzi non venivano reclusi; piuttosto la società era capace di modellare la follia al proprio interno, sfruttandola in modo creativo. Ai confini dell’anima di Giulio Guidorizzi, (Raffaello Cortina editore, 225 pagine, 19,00 euro) è il primo studio italiano a delineare una storia della pazzia nell’antichità mostrando quanto la stessa civiltà occidentale deve alla non-ragione.

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UN FUOCO DISTRUTTIVO CHIAMATO RABBIA *****

uò prenderti mentre sei in coda in auto, sul posto di lavoro, o durante una discussione con il partner. E poi quando si esaurisce e se ne va è troppo tardi per rimediare ai danni che ha provocato. Ma che cosa è esattamente la rabbia? Da dove viene e perché si scatena? E soprattutto che cosa si può fare per combatterla? Da questi interrogativi prende le mosse l’intervista di Cinzia Tani al neurologo Rosario Sorrentino Rabbia (Mondadori, 225 pagine, 18,50 euro) dove si cerca di risalire alle radici neurologiche e mentali di un’emozione diventata la cifra della società contemporanea con i suoi ritmi sempre più frenetici. Un virus quello della rabbia che sta avvelenando e corrodendo non solo rapporti di coppia e famigliari, ma anche le più elementari norme della convivenza civile.

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L’ITALIA PREROMANA NELLA TOPONOMASTICA *****

e mappe parlano e raccontano attraverso i nomi dei luoghi, storie di civiltà e di popoli che nel corso dei secoli sono vissuti e si sono sviluppati nella nostra Penisola. Accanto ai toponimi di origine latina o romanza e ad altri più recenti attributi a scopi celebrativi e augurali, ci sono anche nomi in cui affiorano resti di lingue di antichi popoli che abitavano l’Italia nel I millennio a.C. o ancora più indietro nel tempo. Sabini, sanniti, etruschi, celti, venetici, sardiani, siculi, messapi, piceni, liguri, prima di diventare tutti romani e poi antenati di noi italiani, ci hanno lasciato misteriosi e spesso finora «muti» toponimi che Toponomastica d’Italia di Antonio Sciarretta (Mursia, 273 pagine, 18,00 euro) spiega in un viaggio affascinante alla scoperta del nostro passato più remoto.

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di Enrica Rosso ongo brutta e nun so bella/ chesta so: ‘na cartuscella,/ ‘na palomma co’‘na scella/ e me chiammano Pupella» (Son brutta e non son bella/ questa sono: una piccola cosa/ una colomba con un’ala sola/ e mi chiamano Bambolina). Così si presenta Giacinta Maggio, in arte Pupella nel libro autobiografico del 1995 Poca luce in tanto spazio che ne raccoglie ricordi, riflessioni e poesie. Figlia di Domenico Maggio, detto Mimì, e di Antonietta Gravante, entrambi attori e cantanti, si guadagnò l’appellativo di Pupella sul campo, debuttando a soli due anni, nella compagnia paterna nel ruolo del titolo della commedia La pupa movibile di Eduardo Scarpetta. In effetti Pupella nasce protagonista. Donna d’indole forte, sempre fautrice delle sue scelte, aveva un animo da guerriero ospitato in un corpo minuto. Non doveva essere stato facile nascere femmina, a Napoli, il 24 aprile del 1910. Certo suo padre era un capocomico importante, ma le bocche da sfamare in famiglia erano tante (sedici figli di cui non tutti sopravvissuti) e la concorrenza di ben cinque fratelli in palcoscenico, per una con il suo temperamento, sicuramente stimolante (anche se le valse il nomignolo di «Duse», frutto di un eccessivo autocompiacimento). Lei però non aveva nulla da rimproverarsi, nessuno le aveva fatto sconti e solo lavorando duro era arrivata a guadagnarsi l’amore del pubblico e la stima della critica dimostrata con l’assegnazione di numerosi premi. Dopo lo scioglimento della compagnia di famiglia Pupella si affilia alla «Scarpettiana» e sotto la guida del capocomico Eduardo maturerà la sua arte fino al conseguimento nel 1959 del clamoroso successo personale nel ruolo di Rosa che

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Televisione

Teatro Un guerriero di nome Pupella MobyDICK

Alla Casa dei Teatri di Roma, omaggio alla grande attrice napoletana a 100 anni dalla nascita Eduardo le scrisse addosso, in quel Sabato domenica e lunedì datato 1959. Il suo intuito d’interprete le farà interrompere l’esperienza partenopea per affrontare Arialda di Giovanni Testori messo in scena da Luchino Visconti. Da quel momento prenderà parte, in ruoli secondari ma che le regaleranno la popolarità, ad alcune delle pellicole che hanno fatto la storia del cinema: Amarcord di Federico

spettacoli

Fellini, La Ciociara di Vittorio De Sica, Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, Sabato, domenica e lunedì della Wertmüller, Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore. Non rinuncia però al teatro di Giuseppe Patroni Griffi: In memoria di una signora amica di nuovo scritto per lei e diretto da Francesco Rosi, e con Antonio Calenda che la dirigerà in La madre di Bertolt Brecht e Aspettando Godot di Samuel Beckett. Sempre imprevedibile, verso la fine della sua splendida carriera si è ritrovata con i fratelli Rosalia e Beniamino in Na sera ‘e maggio costruito su misura da Calenda per creare l’occasione. In seguito a un incidente d’auto che la costrinse a interrompere la tournée decise poi di ritirarsi tra Roma e Todi. Fino all’ultimo vitalissima, gioiosa, grata alla vita. Nel centenario della nascita O-Maggio a Pupella è il titolo della rassegna video che la Casa dei Teatri a Roma le dedica tra aprile e maggio per ricordarla. Già dal 16 aprile, ogni settimana, nei giorni di venerdì e sabato alle ore 16.00, si potrà assistere a Le quattro giornate di Napoli del 1962, Il cilindro e Le voci di dentro, entrambi diretti da Eduardo De Filippo, In memoria di una signora amica per la regia di Giuseppe Patroni Griffi, Sabato, domenica e lunedì e in ultimo la pellicola di Francesco Apolloni Fate come noi del 2001.

DVD

ANCORA IL MISTERO DELLA SINDONE ncominciata da pochi giorni l’Ostensione presso il duomo di Torino, la Sacra Sindone continua a interrogare gli studiosi e a richiamare migliaia di fedeli da tutto il mondo. E il prezioso lenzuolo di Giuseppe d’Arimatea, che secondo la tradizione avvolse il Cristo dopo la deposizione, è al centro di un bel documentario di David W. Rolfe, intitolato Sindone-Passio Christi Passio hominis. Passata tra le mani di musulmani e crociati, e poi da casa Savoia che la affidò al Papa, la reliquia più amata dai fedeli è oggetto di numerose leggende e fatti storici, che il regista ripercorre con perizia ed equilibrio.

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GAMES

ARAGORN E GANDALF ALLA RISCOSSA appuntamento tanto atteso ha finalmente una data: l’inizio dell’autunno porterà in dote agli amanti di Tolkien una grande avventura in console che consentirà al giocatore di vestire i panni di Aragorn. Il nuovo episodio ludico de Il Signore degli Anelli porterà il sigillo Warner Bros e sarà improntato agli elementi che hanno fatto la fortuna della saga: combattimenti con spade e archi, a piedi o a cavallo, nel corso di un assedio o mentre si raggiungono frettolosamente i ripari. Le versioni per Wii e playstation3, disporranno inoltre di una golosa modalità di gioco cooperativa: il compagno d’avventura potrà infatti impersonare Gandalf.

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di Francesco Lo Dico

La “mala education” che rende assassini

iù che una sensazione è un dato di fatto: nel 2010 la fiction televisiva s’è presa una vacanza. I canali Sky ripropongono le vecchie serie, da Csi a Criminal Minds, da Ncis a l’Ispettore Barnaby.Tutto già visto. Un tutto che si affianca all’archeologia divertente del canale Retro: che avrebbe senso, eccome, se avesse come contraltare la novità. Rai e Mediaset non ne approfittano. Oppure tentano, ma con muscoli infiacchiti. Si dovrà attendere il prossimo autunno, quando Sky lancerà la seconda serie di Romanzo criminale, in fase di lavorazione (fino a giugno) nelle aulebunker del Foro Italico, a Roma.Vedremo agire, in tribunale e fuori, i «veri bastardi» italiani, con quelle connessioni tra Banda della Magliana, terrorismo e servizi segreti deviati che fanno tanto paura all’estabilishment, tanto è vero che Mediaset s’è tolta dalla coproduzione («prodotto troppo duro», hanno detto) e proporrà sulla sua

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di Pier Mario Fasanotti rete alcuni brani della fiction debitamente tagliati. L’autore dell’omonimo romanzo, il magistrato Giancarlo De Cataldo, è stato sferzante a proposito del rifiuto della realtà, un misto di fantasia e di verità processuali: «È da trent’anni che la tv ci narcotizza». E dunque, si chiede il telespettatore? Si può scovare un altro prodotto come la «docu-fiction», in pratica la spiegazione per immagini di un argomento, di uno scandalo, di un tema sociale. Seguendo questo filone vale la pena prestare attenzione a Donne mortali, con sottotitolo Young blood, presentato da Discovery Real. Siamo alla terza serie, coordinata dalla psicologa e criminologa Roberta Bruzzone. È un pugno sullo stomaco perché si tratta di vicende vissute e queste spingono la gente a interrogarsi sul cardine primario della società, cioè la famiglia. Il serial narra delle piccole donne che

uccidono. Immancabilmente va in primo piano la causa familiare di tanto sangue: la mala education, per dirla alla spagnola. Newcastle, fine anni Sessanta: Mary ha dieci anni e strangola Martin, un bambino di quattro anni la cui unica colpa è stata quella di essere uscito da casa per andare a giocare ai giardini. Casualmente verrà trovato il suo cadavere in una casa abbandonata. L’autopsia dirà «morte naturale». Mary fa di tutto per attirare l’attenzione, ma nessuno la crede. Scrive frasi esplicite sul diario. Poco dopo, assieme a Norma, una sua amica poco più grande, firma un altro omicidio. Ai funerali della vittima (tre anni) qualcuno la nota mentre sogghigna. Partono le indagini, Norma crolla, Mary è in trappola. Ed ecco la sua storia familiare: figlia di una prostituta che l’ha partorita a sedici anni, è stata ripetutamente abbando-

nata dall’unico e osceno genitore che ha tentato anche di avvelenarla. Mary ha assistito a tutti gli incontri sessualmercenari della mamma, a volte partecipando come se fosse stata un «regalo» in più ai clienti. La bambina non comprende le conseguenze di quel che fa, ha però in sé il senso della morte. Una sua frase-chiave: «Uccido per tornare indietro». Il passato è una morsa. Ai giudici confessa: «Mi piace fare cose terribili a esseri più deboli di me». Praticamente voleva uccidere se stessa. È condannata all’ergastolo, il suo caso sarà riesaminato con il compimento della maggiore età. Ora Mary, dopo aver scontato dodici anni di carcere, ha un’altra identità e vive lontano. Ha pure un figlio. Stranezza della legge britannica: Betty, la madre della bimba assassina, non è mai stata dietro le sbarre. Spiega un esperto: «Molti non riconoscono i segnali di avvertimento lanciati a volte da bambini e da adolescenti. Sottovalutarli è un errore fatale».


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poesia

24 aprile 2010 • pagina 21

Pavese e la metrica della solitudine di Francesco Napoli talo Calvino ha ricordato, nelle sue Note generali alle Poesie edite e inedite di Cesare Pavese apparse nel 1962, come l’autore volle apporre a Lavorare stanca in «nuova edizione aumentata» (1943) una fascetta con su scritto: «Una delle voci più isolate della poesia contemporanea». Perché tale si sentiva il letterato piemontese e tale effettivamente era. Leggendo quei suoi versi e confrontandoli con alcune opere di quegli anni da Sentimento del tempo (1933) di Ungaretti a Erato e Apollion (1936) di Quasimodo, passando da Isola (1932) di Gatto, poeta peraltro con tratti sintonici con il poeta delle Langhe, alle Poesie (1936) di Cardarelli - ci si rende conto dell’originalità di Pavese esordiente. Ma potrebbe essere utile anche andare indietro nel tempo e, risalendo al 1936 e alla prima edizione di quell’opera, venuta alla luce per i tipi della rivista Solaria di Alberto Carocci, si riconosce come l’ambiente poetico italiano era allora tutto pervaso dagli stilemi ermetici, e poeti e critici di quella scuola ignorarono quasi del tutto la raccolta di Pavese. Leone Ginzburg aveva provveduto dalla proposta, fatta sin dal 1932, all’effettiva uscita, quattro anni dopo, a difendere con tenacia il lavoro poetico dell’amico, scrivendo tra l’altro a Carocci che «il libro così poco ungarettiano, andrebbe: è proprio obbligatorio piegarsi alle esigenze del cosiddetto fiuto di chi non se ne intende?».

PAESAGGIO VIII

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man e la traduzione del Moby Dick di Melville, cioè dopo aver iniziato a tracciare un percorso di lettura del mondo angloamericano quasi in opposizione alla francofilia dell’Ermetismo italico.

E Cesare Pavese (1908-1950) nasce proprio poeta e la condizione di solitudine denunciata con lucidità nella succitata fascetta editoriale la porterà sempre con sé. Subito abbandonato dal padre, morto prematuramente nel 1914; subito solo, lontano dagli affetti famigliari per evitare il contagio del tifo contratto dalla sorella Maria, Cesare Pavese crescerà di fatto nella nativa Santo Stefano Belbo, Cuneo, e apprende quale è il dolore del suicidio quando ne viene sfiorato nel 1926: l’amico e collega universitario di Torino, Elico Baraldi, si toglie la vita per amore. Anni prima al liceo D’Azeglio, allievo di Augusto Monti crociano di formazione e gramsciano per ammirazione, si era formato un gruppo di intellettuali uniti da tendenze politiche molto prossime - Norberto Bobbio, il già citato Ginzburg, Ludovico Geymonat, Federico Chabod, Giulio Einaudi, Vittorio Foa, oltre il nostro - che si terranno per mano nell’Italia post-fascista con le loro parabola culturale dalle alterne fortune. Cesare Pavese subentra nel 1934 a Ginzburg, incarcerato dai fascisti, nella direzione della rivista Cultura edita dalla neonata casa editrice Einaudi. Ma anche per lui la mannaia fascista è pronta a colpire. Andrà al confino, a Brancaleone Calabro, dopo la brillante tesi su Whit-

Sì, perché in Lavorare stanca appare subito chiara «la sua estraneità a Ungaretti e alla lirica ermetica, la quale piuttosto sta nell’essersi Pavese scelto modelli completamente estranei alla formazione e al successo delNel silenzio del buio sale uno sciacquo la poesia pura di stampo francese» (Guglieldove passano voci e risa remote; minetti). Cesare Pavese ha voluto probabilmente rifarsi all’amato Whitman degli anni s’accompagna al brusio un colore vano universitari, con la volontà di scrivere un che è di sole, di rive e di sguardi chiari. poema sull’uomo moderno pari a quello del poeta delle Foglie d’erba ma senza quell’ottiUn’estate di voci. Ogni viso contiene mismo di fondo che permea il capolavoro Come un frutto maturo un sapore andato. americano. Ci sono grandi contrasti nella raccolta: città e campagna, bivacchi e giovani, uomini e donne, albe e notti, terra e sanOgni occhiata che torna, conserva un gusto gue. Si ha la sensazione, leggendo soprattutto la prima edizione della raccolta, di attradi erba e cose impregnate di sole a sera versare una serie continua di stazioni di un sulla spiaggia. Conserva un fiato di mare. itinerario paesistico ed esistenziale in un tutt’uno poco disarticolabile, compatto come Come un mare notturno è quest’ombra vaga anche Charles Baudelaire sa farlo. Ecco, il poeta dei Fiori del male è forse l’unico dei di ansie e brividi antichi, che il cielo sfiora francesi del XIX secolo che Pavese e ogni sera ritorna. Le voci morte ammira e imita, seppure alla lontana. La versificazione si assomigliano al frangersi di quel mare poggia su una misura largamente narrativa, vicina certo ai poemetti Cesare Pavese whitmaniani ma anda Lavorare stanca che a certe nostrane esperienze marginali come quella di Thovez e di Jahier. Il ritmo ha una cadenza iterativa al- narrativa: romanzi noti, con una lunga riflessione sul miquanto pronunciata, che sembra to culminata nell’equilibrio tra sofferta problematica esivoler comunicare l’effetto di una stenziale, fascinazione del mito stesso e richiamo alla realtà condannata a riprodursi di realtà storica, nelle ultime prove, fino a quel La bella continuo nelle proprie forme, a ritor- estate (1950) che pur valendogli il riconoscimento pubnare sul proprio destino. Pavese realiz- blico del Premio Strega a nulla servì per trarlo da un rinza un verso narrativo del tutto personale, novato stato depressivo. Roma non l’aveva rigenerato, organizzato spesso nel suo respiro lungo su tutt’altro. Vi aveva conosciuto l’ennesimo amore inecombinazioni di metri regolari variamente combi- spresso, Constance Dowling, ma una volta tornato a Tonati e disposti. E quale uomo ci appare tra le pieghe dei rino temeva d’averla persa. Per sempre. La giovane ameversi? Scrive Gianfranco Lauretano nel bel lavoro La ricana si recò da lui: voleva flirtare con un famoso lettetraccia di Cesare Pavese apparso pochi anni orsono, che rato; Pavese, forse, l’amava per davvero. Constance illunella poesia di Pavese «i personaggi (…) sono sempre e se l’uomo, che la seguì in quel di Cervinia, e poi ripartirà soprattutto simbolo, e la memoria cerca di fermare in ben presto lasciando all’amareggiato scrittore modo di un’immagine un incontro rappresentativo di un senti- dedicarle La luna e i falò: «For C. - Ripeness is all» e lo mento o di un dato dell’essere». Poi basta poesia e solo spazio appena di qualche giorno prima del suicidio.

il club di calliope

I ricordi cominciano nella sera sotto il fiato del vento a levare il volto e ascoltare la voce del fiume. L’acqua è la stessa, nel buio, degli anni morti.

ALLA SCOPERTA DEL SACRO CHE È IN NOI in libreria

Ho ascoltato il rumore delle onde, ma non ho sentito il tuo respiro, il calore del tuo corpo, il suono delle tue parole, sussurrate, gridate, insieme a lacrime di dolore (di gioia?). Impietrito, atterrito, perduto, senza di te. E con te. Vorrei perdermi in un mare in tempesta, in uno Tsunami di pensiero, questa volta, senza più ritrovarti, senza più ritrovarmi. Ma la vita ti riserva sempre sorprese amare, amarissime, che però si rivelano quando li sai riconoscere - solo buchi in un barattolo, rispetto al baratro che ci circonda. Aldo Forbice

di Loretto Rafanelli abrizio Pagni, giovane critico toscano interessato in particolare a Roberto Mussapi, sul quale ha scritto una monografia e curato un libro intervista, esce ora, ed è un esordio, con una raccolta di poesie dal bel titolo L’Anima e il Fango (Noubs, 68 pagine,10,00 euro). Pagni è un poeta solare con un senso pieno della vita, la ricchezza del suo dettato è la ricchezza e la coscienza di una storia che nasce, muore e si rigenera in continuazione, capace quindi di cogliere la speranza e di superare «il ciclico senso del vuoto». E in questo dialogo tra la vita e la morte, il pieno e il vuoto, l’anima e la melma, egli coglie la ragione incessante e miracolosa dell’esistenza. Nei suoi versi si avverte una germinazione continua «…dove non è possibile riconoscere il confine/ tra il finito e il non finito/ tra l’orizzonte e il suo oltre…» ma si scopre «il sacro che è in noi». Pagni certamente ha in mente la lezione di Bigongiari, con quel dialogo aperto tra minuto e assoluto, ma pure quella di Celan, nel dire: «riconosco un bagliore in quel buio/ riconosco una luce tremante».

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i misteri dell’universo

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isola di Pasqua, proprietà del Cile da cui dista circa 4000 km, è una delle più sperdute dell’Oceano Pacifico. Situata sulla parte meridionale, a circa 27 gradi di latitudine, ovvero circa la latitudine di Tebe in Egitto, dista un 2100 km dall’isola più vicina, Pitcairn. Fu scoperta da una nave olandese nel 1722, annessa dalla Spagna nel 1770 per poi passare sotto il controllo del Cile. Ora è raggiungibile in aereo e costituisce una importante attrazione turistica. I marinai olandesi che vi giunsero nel 1722 la trovarono con abitanti di due tipi: uno minoritario di pelle chiara, alta statura e orecchie forate, l’altro di pelle più scura e statura più bassa. Alla seconda visita gli abitanti di pelle chiara erano quasi scomparsi, la causa probabile fu una guerra fra i due gruppi. I bianchi, minoritari, si rifugiarono in una penisoletta difesa da una palizzata, stando ai ricordi raccolti nell’Ottocento, ma questo non bastò e furono sterminati. Se ne salvò un piccolo numero tenuto in vita, potremmo dire, per preservare il seme, un’usanza che si ritrova nelle tribù degli ebrei in occasione di scontri interni, come quello organizzato da Ghersom, figlio di Mosè, che virtualmente distrusse la tribù di Beniamino. Dopo l’annessione gli spagnoli lasciarono l’isola, povera di risorse, abbandonata per quasi un secolo, ma ricordiamo le brevi visite di Cook e La Pérouse. Verso il 1860 arrivarono dei trafficanti che trattarono gli abitanti locali come schiavi. Ne trasportarono molti in Perù a lavorare nelle miniere di guano. Similmente, migliaia di indigeni dell’attuale Venezuela erano stati portati da Cristoforo Colombo a lavorare nelle miniere di rame e di oro di Hispaniola, dopo che i locali abitanti, i Taino, circa tre milioni secondo Las Casas, furono virtualmente distrutti in pochi anni dalle malattie di origine europea e dalle terribili corvées imposte da Colombo. La popolazione dell’isola di Pasqua, stimata in 15 mila abitanti, si ridusse a 111!

MobyDICK

ai confini della realtà

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Notizie dall’isola di Pasqua

Al 1947 risale il primo dei viaggi per oceani del norvegese Thor Heyerdahl, che chi scrive ha incontrato nella sua

di Emilio Spedicato Kon Tiki, nome del Dio Sole incaico, e titolo del libro che scrisse; il primo editore lo rifiutò, il secondo ne vendette milioni di copie, e Thor mi ha fatto vedere, nella torre romana dove lavorava sopra Laigueglia, le traduzioni in settanta lingue. Libro che lessi da ragazzo in francese e poi rilessi… uno dei più affascinanti libri di viaggi. Il viaggio gli fu suggerito dalla leggenda intorno a un re inca che avrebbe viaggiato dal Perù alle isole della Polinesia con venti mila soldati e marinai, tornando al punto di partenza dopo circa un anno. Heyerdahl voleva verificare la fattibilità di questo viaggio, e dopo circa tre mesi s’imbattè in un’isola del-

esistevano grandi camere sotterranee, accessibili da budelli naturali nelle rocce vulcaniche (Heyerdahl rischiò di essere intrappolato), dove le persone usavano passare giorni in meditazione, vicine ai corpi mummificati dei loro avi: meditazione dichiarata utile per far passare la depressione. Luoghi abitati da spiriti chiamati Aku Aku, nome del libro dove Heyerdahl parla di questa esperienza. Notiamo che Aku Aku è il nome degli spiriti della foresta in Cameroon, come ha raccontato Mary Kingsley che visitò la regione oltre cento anni fa e una notte li vide volteggiare nella forma di sfere violacee luminose grandi come aran-

Sperduta nell’Oceano Pacifico, fu scoperta da una nave olandese nel 1722. Molti gli interrogativi intorno alla sua storia. Come quelli relativi ai suoi abitanti, di due razze diverse, una delle quali fu quasi sterminata dall’altra. I resoconti dei viaggi di Thor Heyerdahl casa sulle colline di Laigueglia e in quella a Tenerife, presso le piramidi di Guimar. Heyerdahl, uno dei più grandi esploratori del mare, morto ultra novantenne, quattro anni di resistenza antinazista nella Norvegia occupata, ha intrapreso viaggi per mare su navi del tipo di quelle usate in tempi antichi, zattere di balsa o costruite con canne. Ha dimostrato la possibilità di attraversare interi oceani con questi mezzi, cosa ritenuta prima impossibile. Il primo viaggio fu con la zattera

l’arcipelago delle Marchesi. Nel viaggio ci fu l’incontro con una piovra gigantesca (se ne sono ora osservate lunghe 30 metri e si parla della possibilità che raggiungano anche 100 metri) e si dimostrò la grande stabilità della zattera, attraverso le cui aperture passavano senza danni le più grandi ondate. In un viaggio successivo Heyerdahl studiò l’isola di Pasqua, negli aspetti antropologici e archeologici. La popolazione aveva ormai perso quasi tutte le sue tradizioni. Tuttavia

ce; e di una varietà di spiriti degli antichi egizi. Identità di nomi forse associata ad antichi collegamenti. Esiste anche una scrittura propria dell’isola, documentata in una ventina di tavolette, chiamata rongo rongo, non ancora decifrata con certezza.

L’isola di Pasqua è famosa per le piattaforme megalitiche e per le statue dai profili alla Modigliani, alcune gi-

ganti: una enorme giace incompleta in una cava. Per Heyerdahl la popolazione di pelle chiara e orecchie forate (costume tipico degli ariani, lo si vede in Budda) era quella originaria, proveniente dal sud America (popolato sappiamo ora da popolazione dell’Asia sud orientale, quindi con possibile componente indiana). Gli altri abitanti erano arrivati successivamente, erano stati per un periodo schiavi, poi si erano ribellati, sterminando i nobili dalle orecchie forate. Recenti datazioni al radiocarbonio hanno indicato tempi di popolamento meno antichi, verso il 1200. Questo suggerisce un arrivo nell’isola di popolazioni dalla Polinesia o Melanesia fuggite dalle loro terre dopo la probabile catastrofe tsnunamica del 1178 (causata dalla caduta sul Pacifico di frammenti di un oggetto il cui nucleo si schiantò sulla Luna in quell’anno, dando luogo a curiosi fenomeni osservati ad esempio anche a Canterbury). Ma che i nobili dalle orecchie forate fossero arrivati prima non è impossibile, dato che lo tsunami provocato dall’evento potrebbe avere completamente dilavato la parte dell’isola con materiale databile al radiocarbonio. Forse alcuni si salvarono salendo verso la cima del vulcano che domina l’isola. Un problema ancora aperto, come quello degli Aku Aku…


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

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Convergere senza scontri: ecco la mossa vincente

LE VERITÀ NASCOSTE

Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha parlato ai giovani di riforme e di futuro, e sagacemente ha ribadito come tutto ciò nasceva tanto tempo fa, quando due modi di concepire la svolta societaria degli anni ’70, si davano la mano prima di venire alle mani. La seconda cosa è successa però, perché un vento di rinnovamento e di impegno da parte delle classi giovanili è stato inquinato da quella politica perversa che non piace: le incomprensioni, gli atti strumentali, la stessa sordità dei governi passati, portò alla piazza rovente e ai primi scontri con la polizia, da cui nacque una stagione di piombo che non doveva avvenire. Ora di tempo ne è passato e uno dei motivi per cui la destra è vincente è perché conosce i punti della politica ove si può convergere senza scontrarsi, ma dal momento che ciò serve a costruire un futuro certo, il dialogo va con la generazione che sta vivendo i cambiamenti della politica e rappresenta il cardine delle vittorie del futuro.

Bruna Rosso

DOV’È L’ANIMA DELLA SINISTRA? Archiviata la stagione elettorale, assieme alle ultime sconfitte locali, è arrivato il momento di mettere in calendario un tavolo dei partiti del centrosinistra che possa preparare una conferenza programmatica con l’ambizione di proporre un futuro a questo Paese oltre il berlusconismo. Il centrosinistra si deve dare subito un obbiettivo e una scadenza, altrimenti il dibattito in corso nel Partito democratico per dargli un’anima, rischia di sfinire tutti senza alcun risultato utile. E il Pd, che è il primo partito dell’opposizione, non può mancare alla responsabilità di guidare questa fase di riorganizzazione, e deve farlo in tempi brevissimi, altrimenti c’è il rischio non tanto della sua definitiva marginalizzazione quanto della scomparsa in Italia di un’opposizione degna di questo nome almeno per i prossimi anni.

Riccardo

CHEWING-GUM. I DANNI ECONOMICI Per togliere dall’asfalto una gomma masticata ci vogliono due minuti al costo di un euro. È il calcolo che hanno fatto in Germania e che risucchia alle casse dei comuni qualcosa come 900 milioni di euro. In Italia si consumano circa 23mila tonnellate di gomme da masticare (si capisce il motivo di tanta pubblicità); se

tutti gettassero per terra la gomma, il costo per raccoglierla arriverebbe all’iperbolica cifra di 23 miliardi di euro che, ovviamente, non si spendono per la semplice ragione che non tutti i consumatori gettano la gomma per terra e, soprattutto, perché i comuni non si sognano di raccoglierle. Ricordiamo che per “smaltire” una gomma, cioè perché si dissolva nell’ambiente, ci vogliono circa 5 anni. Le gomme hanno un effetto positivo per l’igiene orale (alito, pulizia) ma anche delle controindicazioni (mal di stomaco da eccessiva produzione di saliva e inglobamenti di aria, effetto lassativo a causa dell’aspartame, se presente). Insomma, il chewing-gum non è proprio indispensabile alla nostra vita, e se non ne possiamo fare a meno sarebbe utile evitare ulteriori costi per le nostre tasche.

P. M.

Il tripudio continua e afferma che si tratta di vittoria del Pdl genuina al 100%. In molti casi, come il ribaltone a Mantova o la vittoria a Pomigliano d’Arco del centrodestra, nonostante la forza della roccaforte di sinistra diventata una consuetudine un po’ in tutta la regione campama, ha fatto capire che non si tratta di successo al fotofinish, o di margini di

L’IMMAGINE

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tolleranza, bensì di un’Italia intera che ha voluto cambiare pagina, una volta e per sempre. La prima cosa che sarà da subito garantita è la sinergia di collegamento tra la rete politica locale e quella nazionale.

Lettera firmata

All’indomani della tragedia aerea polacca, l’Unità ha pubblicato una vignetta in cui un signore si rivolge ad una ragazza affermando: «Novantasei membri del governo polacco spariti in un colpo!», e lei che risponde: «La solita storia: a chi troppo e a chi niente».Vignetta ignobile e meschina che conferma per l’ennesima volta l’essenza violenta, mortifera e luciferina dell’ideologia comunista. Evidentemente ai cinici e vendicativi dinosauri sopravissuti alla caduta del Muro, i cento milioni di morti ammazzati nel tentativo di realizzare un’improbabile paradiso terrestre democratico, non sono bastati. Enigma: che sia per l’insaziabile sete di sangue che i comunisti di tutti i tempi e luoghi hanno scelto il colore rosso quale emblema del loro essere?

Gianni Toffali - Verona

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NON BASTA CAMBIARE ALLENATORE PER FAR VINCERE LA SQUADRA

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ma anche il portafoglio in questi giorni non scherza. E i funzionari della Sec, l’agenzia di controllo sulle attività di Wall Street, passavano più tempo su siti porno che a vigilare sulle malefatte di “signori della finanza”come Bernie Madoff: lo ha scoperto una commissione di inchiesta del braccio investigativo della stessa Sec. L’indagine è stata commissionata dal senatore repubblicano Chuck Grassley. La Sec dovrebbe essere il “poliziotto” del sistema finanziario ma molti impiegati passavano il loro tempo su siti come naughty.com, skankwire, youporn. L’inchiesta ha scoperto 31 casi gravi negli ultimi due anni e mezzo, l’ultimo di appena un mese fa: di questi, 17 erano alti funzionari, con salari tra i 100.000 e i 222.000 dollari all’anno. Un legale della Sec al quartier generale di Washington aveva passato fino a otto ore al giorno scaricando immagini porno, che hanno occupato tutto lo spazio disponibile sul suo computer. Una contabile aveva tentato di accedere a siti a luci rosse 1.800 volte in due settimane e aveva 600 immagini a rischio sul suo hard drive. Un altro dipendente era riuscito a superare un filtro di Google per accedere a siti “proibiti”: si è dimesso subito.

VIGNETTA IGNOBILE E MESCHINA

Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 38 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

NEW YORK. La carne, si sa, è debole;

CAMBIARE PAGINA

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e di cronach

La Borsa Usa “controllata” da erotomani

Faccia da patchwork! Se pensate si tratti di facepainting vi ingannate. Il volto di questa ragazza in realtà è imbrattato, ma non di tempere: quelli che vedete sono adesivi, attaccati sulla pelle l’uno accanto all’altro in una specie di collage. Speriamo che la creazione, presentata lo scorso ottobre alla Festa del Design di Tokyo sia facilmente “lavabile”

Il Pd si comporta come quelle squadre di calcio che rischiano la serie B: dopo alcune sconfitte di seguito cambiano allenatore. Battuti nel caposaldo di Mantova se la prendono con Bersani (il quale, in verità, ha perso anche a Piacenza e nel suo paese natale). È inutile presentare dei leader nuovi con cadenze semestrali quando non si è più capaci di interpretare, come soggetto collettivo, la società italiana, soprattutto nel Nord del Paese.

G.C.


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grandangolo Energie. Il conflitto tra sviluppo e sostenibilità

Il futuro sta rischiando di perdere l’autobus

La benzina costa molto e sporca l’ambiente ma ancora non abbiamo inventato un sistema per consumare e progredire senza aggravi per l’economia e il territorio. È un problema di strategia politica e di programmazione urbanistica che non sembrano andare d’accordo di Carlo Lottieri n questo inizio di Terzo Millennio tanto ancor legato alle logiche del “secolo breve” e alle sue irrisolte contraddizioni, l’industria automobilistica continua a rappresentare un pezzo davvero significativo di molte economie e società dell’Occidente. Per decenni molti analisti hanno sostenuto che non si possa avere nazione economica solida in assenza di importanti player che producano vetture: la stessa politica di sussidi alla Fiat è stata spesso giustificata in tal modo. Per giunta, l’automobile è il fulcro dell’industria meccanica e quindi si trova in uno snodo particolare di molti apparati produttivi. La fase matura della Rivoluzione industriale si afferma attorno ai conglomerati operai che producono vetture per le famiglie, e poi anche mezzi da autotrasporto, macchine agricole, veicoli industriali, autobus e via dicendo. Quanti a lungo hanno guardato all’economia con lo sguardo di un ingegnere sociale che deve far crescere il sistema produttivo nel suo insieme hanno spesso scommesso sul fatto che se il settore automobilistico è forte, con esso cresce anche la ricerca correlata e un indotto di dimensioni rilevanti. Larga parte della storia novecentesca – non solo economica – è fortemente dominata dal ruolo dell’auto-

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mobile: basti pensare alla Volkswagen (letteralmente, “mezzo del popolo”) e alla funzione che tale azienda ha giocato nella Germania degli anni Trenta e Quaranta. Quell’azienda fu inventata da Hitler come tassello centrale di un progetto di sviluppo dell’intero Paese e ancora oggi, entro logiche del tutto diverse e compiutamente democratiche, continua a rappresentare un delicato punto d’incontro tra politica, banche e sistema delle imprese. Ma anche lontano dall’Europa e dalle sue complicate vicende, a più riprese ci si è persuasi, si pensi agli Stati Uniti, che il distretto delle quattroruote (Detroit, in particolare) avesse una funzione cruciale da giocare. Di fronte ai cancelli di un’azienda che produce vetture sembra che molti avvertano di non essere dinanzi a un’impresa come le altre.

C’è però il rovescio della medaglia. Se da un lato viene esaltata oltre ogni ragionevolezza, l’autovettura può anche diventare, e spesso diventa, l’obiettivo polemico di varie discussioni pubbliche e, in qualche caso, finisce per essere considerata addirittura il “nemico principale”. Basti pensare alla questione energetica e quindi al fatto che o i mezzi di trasporto si perfezionano e riducono il consumo di

energia, oppure l’intera società umana potrebbe conoscere serie difficoltà. Nessuno è in grado di dire quanti barili di petrolio vi siano al mondo e quali altre risorse (ancora ignote) possano essere scoperte e valorizzate, ma certo è in parte com-

Tutto il Novecento è segnato dall’automobile: spesso la crescita produttiva generale ha coinciso con la salute di quel settore prensibile che l’apprensione sul fronte dell’energia attiri tanta attenzione. E uno dei grandi divoratori di petrolio è l’automobile a diesel o a benzina. Ma c’è di più. Chi abbia un po’ di di-

mestichezza con i più partecipati dibattiti che hanno luogo all’interno dei consigli comunali, in Italia e altrove, sa bene che esiste una sorta di un partito trasversale maggioritario che è pregiudizialmente nemico delle autovetture. D’altra parte, ormai le città sono percorsi a ostacoli: tra zone a traffico limitato, isole pedonali, incomprensibili sensi unici e piste riservate, muoversi in macchina in una città che non si conosce è un’impresa difficilissima, un percorso a ostacoli.

Talvolta si pensa che tutto questo sia frutto dell’insipienza di assessori e urbanisti: e in qualche caso può essere. Ma spesso si tratta del frutto deliberato di politiche che mirano esattamente a scoraggiare l’utilizzo del mezzo “privato” a favore di quello “pubblico”. Si tratta di uno schema che vede il riemergere di antiche passioni collettiviste, ma anche l’incapacità a far fronte agli innegabili problemi che sono connessi a un ricorso sempre più di massa all’automobile. Questa andrebbe insomma combattuta perché inquina l’aria che respiriamo. E se è vero che con le automobili più moderne il danno è inferiore (anche se il parco macchine italiano resta in parte abbastanza vecchiotto) e an-


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DOPO L’ACCORDO TRA RENAULT, NISSAN E DAIMLER, ANCHE FIAT TORNA NEL SETTORE

Il “sogno elettrico” non ha più le batterie scariche di Andrea Giuricin veicoli elettrici tornano di moda. Dapprima la decisione del governo spagnolo di José Zapatero di puntare sui veicoli elettrici con l’investimento di 590 milioni di euro in due anni; poi l’accordo tra il gruppo Renault-Nissan in Italia con Enel per studiare la compatibilità tra le stazioni di ricarica e i futuri veicoli elettrici hanno riaperto una pagina che sembrava essere finita in secondo piano.

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cor meno inquinanti saranno i modelli a venire, pure va detto che l’ambiente viene penalizzato due volte: all’atto della costruzione e poi, ovviamente, nel momento dell’utilizzo. La circolazione delle automobili private è avversata soprattutto, però, in quanto generatrice di traffico e quindi all’origine, secondo i critici, di un abbassamento della qualità della vita. In verità l’argomento lascia un po’ il tempo che trova, dato che gli automobilisti che si spostano in macchina sanno bene quali sono i disagi che ciò comporta, e se nonostante questo continuano a farlo è perché valutano – a ragione – che i vantaggi sono preminenti rispetto agli oneri.

Bisognerebbe insomma che i politici locali, sempre impegnati a combattere il trasporto privato, si rendessero conto che oggi non c’è una vera alternativa all’automobile. Nella maggior parte dei casi è impossibile immaginare di abbandonare la macchina per sposare i trasporti pubblici. Tram, metropolitane, treni e altri mezzi di questo tipo possono fare di più e meglio, senza dubbio, soprattutto se si aprirà questi mercati alla concorrenza e se finirà la logica burocratica e sostanzialmente parastatale che da sempre domina tali infrastrutture. Ma se ci si può ragionevolmente trasferire da un quartiere periferico di Roma (dove si vive) per andare nel centro città (in cui si lavora), questo non è fattibile se – ad esempio – si lavora in un quartiere periferico che sta dall’altra parte dell’Urbe. E tale argomento è ancor più pesante per chi deve quotidianamente spostarsi da un piccolo centro dell’Umbria o della Puglia ad un altro della stessa regione. L’utopia di una rete di trasporti pubblici che permetta di collegare tra loro i luoghi più diversi è, appunto, un’utopia irrealizzabile. Per tale fondamentale motivo l’automobile resta indispensabile.

L’ intera controversia sull’automobile (talvolta sovvenzionata e in altre occasioni boicottata, ora esaltata e ora demonizzata) aiuta anche a cogliere le difficoltà della mentalità prevalente: dato che in moltissime circostanze pensiamo in un modo e agiamo in un altro, parliamo in una maniera e poi non sappiamo trarre da ciò tutte le conseguenze.

Anche chi parla come se volesse lasciarsi alle spalle il mondo industriale, poi finisce per non trarre da ciò alcuna conseguenza Gli stessi italiani – ma il discorso non riguarda solo il nostro Paese – che in astratto vorrebbero ritornare nell’Arcadia dei cibi genuini, della vita semplice senza lussi e comodità, e che quindi vedono nell’automobile la fonte del logoramento che subiamo, poi in realtà destinano una gran parte del loro tempo a prendersi cura della vettura di proprietà, destinano somme significative per l’acquisto dell’ultimo modello, comprano riviste specializzate e visitano autosaloni. Spesso si parla come se si volesse lasciarsi alle spalle il mondo industriale, ma poi non si trae da ciò alcuna conseguenza. Con il risultato che magari di domenica si organizza una gita in campagna proprio in quel piccolo mondo antico nel quale non si sente il rombo di un motore. Ma ovviamente ci si arriva in automobile.

L’accordo tra Daimler e il gruppo franco-nipponico fa prevedere inoltre degli importanti cambiamenti non solo per quanto riguarda l’attivazione di piattaforme comuni e la riduzione dei costi con la produzione di motori, ma anche per quanto riguarda le strategie nel settore dei veicoli elettrici.L’alleanza Renault-Nissan è stata la prima a proporre sul mercato un’offerta ampia di veicoli ad emissioni zero, tanto che entro la metà del 2012 ha in programma di presentare quattro modelli tra commerciali, berline e piccole. Per avere successo in questo particolare settore sono necessari almeno tre elementi e su questi, il gruppo guidato da Carlos Ghosn, si sta muovendo. Intanto, il successo dei veicoli elettrici dipende dalla capacità di sviluppo di batterie in grado di fornire un’autonomia adeguata. È la ragione per la quale da anni Renault e Nissan si sono alleati con Nec. L’entrata in questa joint venture da parte di Daimler è significativa. Bisogna ricordare che la tecnologia “elettrica”, pur prevedendo un basso impatto ambientale per quanto riguarda le emissioni dei veicoli, ha ancora due problematiche. La prima è di tipo ambientale: l’inquinamento prodotto nella dismissione delle batterie utilizzate non è di poco conto. La seconda riguarda i costi di produzione per tali batterie agli ioni di litio ancora troppo elevati. Per cercare di risolvere questa seconda problematica il gruppo franco-giapponese ha infatti deciso di fare pressione sui diversi governi, al fine di mettere degli incentivi a questo particolare settore. Il governo Israeliano è stato uno dei primi a prevedere un accordo diretto con la casa automobilistica guidata da Carlos Ghosn, tanto che uno dei due modelli elettrici

di Renault-Nissan entrerà in commercio nel 2011 solo in Israele. Il governo guidato da Zapatero, in forte difficoltà per il calo dei consensi dovuto alla gestione della crisi economica, ha deciso di puntare una parte del proprio rilancio sulle nuove tecnologie “verdi”. E in questo senso è da vedere l’investimento di 590 milioni di euro in due anni per lo sviluppo dei veicoli elettrici. Il settore auto motive ha un’importanza rilevante nel Paese Iberico in quanto vale circa il 6 per cento del prodotto interno lordo e dà occupazione ad oltre 300 mila lavoratori. L’obiettivo è di dare impulso alle vendite e soprattutto alla produzione di automobili elettriche, in modo anche da rendere il parco circolante meno inquinante. L’obiettivo è vendere 70 mila veicoli nei prossimi due anni e questo livello non sarà facile da raggiungere, nonostante un incentivo di 6000 euro per ogni autoveicolo elettrico venduto. Una parte del sussidio serve anche a sviluppare una rete di distribuzione di stazioni di rifornimento elettrico. Infatti uno dei punti più discussi è l’obbligo per i centri commerciali di fornire una presa elettrica ogni 5 posti di parcheggio.

Il terzo elemento necessario per il successo dell’elettrico per il quale il gruppo Renault-Nissan ha cominciato a fare accordi, è quello riguardante il rifornimento. Attualmente la ricarica è uno dei punti deboli di questo nuovo business, ma l’accordo tra Enel, Endesa e il gruppo francogiapponese sembra presupporre degli sviluppi importanti. Le compagnie fornitrici di energia elettrica hanno tutto l’interesse ad entrare in questo nuovo business in competizione con le imprese petrolifere, così come le case automobilistiche hanno la necessità di trovare partner con le capacità di sviluppare una rete di distribuzione. Ma vi è un dubbio non di poco conto circa il mercato dei veicoli elettrici: questo business non rischia di essere troppo sovvenzionato e dopato dal pubblico e di non avere “vita propria” al di fuori dei sussidi pubblici?


mondo

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Manovre. Una notte a Villa Gernetto per il premier russo. Per una trattativa economica, non per questioni di Stato

Due amici, anzi tre Putin domani in visita privata da Berlusconi. Per trovare un accordo d’affari con Gheddafi di Enrico Singer a Novo Ogariovo a Villa Certosa, dalla Soloviovka a Villa Gernetto. Con l’incontro di domenica sera nella settecentesca dimora di Lesmo, a pochi chilometri da Arcore, che Berlusconi ha acquistato per farne la futura sede dell’università del pensiero liberale, l’amico Silvio e l’amico Vladimir completeranno il giro delle rispettive residenze private che hanno fatto da sfondo ai loro numerosi colloqui riservati. E, soprattutto, terranno a battesimo un nuovo business che si aggiungerà al già ricco portafoglio dei rapporti tra l’Italia e la Russia di Putin. Un business in campo energetico, naturalmente, collegato al grande affare del gasdotto South Stream che vede Eni e Gazprom associate per realizzare la nuova pipeline che dovrebbe aggirare l’Ucraina e altre regioni a rischio (per Mosca). Ma che coinvolge questa volta, in una spregiudicata triangolazione, la Libia di Gheddafi. Da tempo il gigante dell’energia russo insegue la possibilità di aumentare la sua presenza nel bacino del Mediterraneo e insiste per uno scambio di asset con Eni che

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è il più grande operatore straniero sul mercato libico. Missione ormai compiuta: Aleksej Miller, il presidente di Gazprom, e l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, hanno raggiunto, pochi giorni fa a Mosca, un’intesa sull’entrata di Gazprom nel progetto Elephant, in Libia. L’accordo dettagliato sta per essere finalizzato e deve essere ancora sottoposto per approvazione alle autorità libiche.

Putin e Berlusconi discuteranno proprio di questo e il premier russo conta sui rapporti speciali del presidente del Consiglio italiano con il colonnello Gheddafi per chiudere senza intoppi la partita. Il progetto Elephant sfrutta giacimenti di petrolio individuati nel 1997 nel deserto del Sudovest libico, a circa 800 chilometri da Tripoli, che sono in produzione dal 2004 e sono stati finora sfruttati da un consorzio di cui l’Eni detiene la maggioranza, con un gruppo di cinque compagnie sudcoreane, dopo avere acquistato, nel 2001, le quote della britannica Lasmo. In Libia, per il momento, la Russia ha soltanto due concessioni estrattive otte-

nute in cambio di forniture di armi secondo una classica politica sia sovietica che post-sovietica che non tiene più il passo, però, all’attivismo delle compagnie occidentali e all’ingresso massiccio degli investimenti della Cina in tutto il continente africano. A Vil-

la Gernetto il premier russo arriverà domenica pomeriggio da Vienna, dove è prevista una cerimonia per rendere omaggio ai soldati sovietici uccisi nella seconda guerra mondiale. Putin si fermerà per la notte nella residenza e lunedì mattina terrà al fianco di Berlusconi una conferenza stampa che sarà l’unico

momento pubblico della visita e che dovrebbe essere anche l’occasione per annunciare i dettagli del nuovo business tra Eni e Gazprom in Libia e per riferire sugli altri temi sul tappeto: in particolare la questione del programma nucleare iraniano.

È la seconda volta che Berlusconi utilizza la sua nuova proprietà in Brianza per un incon-

Per Lucio Caracciolo, nonostante il nuovo corso Usa, resta la diffidenza della Clinton e di Biden

Sono altri i problemi di Obama di Pierre Chiartano l premier russo Vladimir Putin arriverà in Italia per un vertice privato col presidente del Consiglio Berlusconi. Dopo le prime indiscrezioni, la notizia è stata confermata da palazzo Chigi attraverso una nota in cui afferma che al termine dei colloqui bilaterali tra i due primi ministri vi sarà una conferenza stampa congiunta nell’auditorium della più recente proprietà berlusconiana, alle ore 12.30. I rapporti personali con il premier russo in un certo periodo avevano causato qualche frizione col dipartimento di Stato, perchè al di fuori dell’ortodossia che vedeva Mosca assolutamente distante dagli standard occidentali di una democrazia. Ma una volta risolta la vicenda del gasdotto South Stream, sembra che le riserve di Obama sul premier

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italiano si siano ridotte, almeno per convenienza. Troppi fronti aperti per Washington per averne anche uno – se pur minore – con lo Stivale governato dal centrodestra. Abbiamo chiesto a un grande esperto di politica internazionale, come il direttore di Limes, Lucio Caracciolo un parere sui nuovi equilibri Washington-Mosca-Roma, ammesso che l’Italia abbia una percebile rilevanza in questa relazione.

«Ciò che è cambiato nei rapporti tra Russia e Stati Uniti è che in questo momento Washington si trova nella condizione di dover fare delle concessioni a Mosca, che avrebbe preferito non fare. Credo che l’accordo sulla riduzione delle testate nucleari, lo Start, sia più vantaggioso per i russi che per gli americani. Perché, sostanzialmente, consente un ammodernamento dei due sistemi nucleari, a favore di quello russo che è decisamente più obsoleto. Ri-

mane, a mio avviso, una diffidenza di fondo che è appena mascherata dalle necessità geopolitiche e finanziarie degli Stati Uniti in questo momento». Una mancanza di fiducia, meglio interpretata dalla politica del segretario di Stato Hillary Clinton. «Certamente, da lei, dal vicepresidente Joe Biden e dalla vecchia classe dirigente clintoniana che è ancora segnata fortemente dalla guerra fredda. Obama è più pragmatico, perché ha un’altra storia, un’altra geografia e una diversa mentalità. Le maggiori riserve sono incarnate dal dipartimento di Stato e in una certa misura anche dal Pentagono. Non bisogna dimenticare che la Russia serve all’America su vari fronti, a cominciare dall’Afghanistan e dall’Iran». Il privatissimo rapporto tra Volodja di Russia e il premier italiano, come viene percepito dalla Casa Bianca? Sembra che le perplessità iniziali abbiano lasciato spazio a un maggiore pragmatismo, lo stesso di-


mondo

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nale ed è una mega villa costruita nel 1980 - a poca distanza da una dacia che fu di Stalin - in un parco naturale dove sorge anche un monastero del ’600 che si vede dalle terrazze della residenza. Berlusconi è stato ospite in questa villa alla fine dell’ottobre 2009 e l’ha definita «un paradiso in terra». Anche allora fu annunciato un importante passo avanti nei rapporti tra Gazprom ed Eni nel progetto South Stream: l’aumento della capacità di trasporto del gasdotto (che dovrebbe essere operativo dal 2015) da 31 a 47 miliardi di metri cubi di gas all’anno.

Di sicuro gli Usa non hanno visto per lungo tempo di buon occhio l’attivismo di Berlusconi sul fronte russo con South Stream e ora dovranno valutare con attenzione il nuovo intreccio di cooperazione a tre Russia-Italia-Libia. Per non deludere del tutto l’amico Obama, è prevedibile che sul secondo piatto forte dei colloqui privati con Putin - la minaccia nucleare iraniana - Berlusconi

sibilità di varare nuove misure per convicere Teheran ad accettare i controlli dell’Aiea e a limitare i suoi piani nucleari al solo settore civile. Obama e Putin ne hanno parlato in margine alle trattative per il rinnovo dell’accordo Start ed ora è la Cina - che ha diritto di veto al Consiglio di sicurezza come Usa, Russia, Francia e Gran Bretagna - il Paese più freddo sull’adozione di nuove sanzioni.

In attesa di chiudere la festa del 25 aprile a cena con il premier russo, Silvio Berlusconi ha mantenuto una promessa che aveva fatto a Putin: quella di acquistare il primo suv “Patriot” che sarebbe stato prodotto dalla joint venture italorussa fra Fiat e Sollers. Il nuovo automezzo, costruito in Russia, gli è stato consegnato ieri. Berlusconi è salito a bordo, ha dato gas e poi è sceso soffermandosi sulla pedana dello sportello: «C’è anche un prezioso predellino...», ha detto. Ma ha subito aggiunto: «Certe cose non si ripetono, buona la prima». Il suv, co-

Aleksej Miller, il presidente di Gazprom, e l’ad dell’Eni, Paolo Scaroni, hanno raggiunto, pochi giorni fa a Mosca, un’intesa sull’entrata di Gazprom nel progetto Elephant, in Libia tro con un leader straniero.Villa Gernetto fu aperta per la prima volta l’8 febbraio scorso durante la visita del premier croato, la signora Jadranka Kosor. Ma nel caso degli incontri con l’amico Putin non è davvero una novità l’utilizzo delle residenze private. Il leader russo è già stato più di una volta in Sardegna, a Villa Certosa. Sia da presidente che da primo ministro. L’ultima vol-

ta proprio dopo una visita a Tripoli dove aveva incontrato Gheddafi per preparare la firma dell’ultimo contratto da 1,3 miliardi di euro per la fornitura di armi russe alla Libia. E Silvio Berlusconi è stato sia nella dacia presidenziale di Putin a Novo Ogariovo, alle porte di Mosca, sia in quella della Soloviovka, sul lago Valdai, nei dintorni di San Pietroburgo. La da-

scorso fatto per il cambiamento dei rapporti con Cremlino influenza anche eventuali dissapori del passato tra Roma e Washington. «Certamente sono rapporti che non entusiasmano la Casa Bianca, anche se questo clima più favorevole incide.Visto anche che l’elemento di maggiore preoccupazione per gli Usa, cioè il gasdotto South Stream sembra essere stato appianato».

Ricordiamo che la maggiore

cia di Novo Ogariovo, a dieci chilometri dalla capitale, tra la Rubljovka - la strada delle ville dei nuovi ricchi russi - e il fiume Moskwa, è a disposiziene dei capi del Cremlino, ma Putin l’ha tenuta per sé anche da premier lasciando al presidente Medvedev un’altra residenza ufficiale.

La dacia sul lago Valdai, invece, è di sua proprietà perso-

relativo su eventuali competitori quali Iran o Turchia, sempre a favore di Mosca. «Ora si è trovato un accordo per cui South Stream e Nabucco diventano un solo progetto. Meglio, Nabucco verrà integrato dentro il gasdotto russo. Quindi quello che era il maggior elemento di contenzioso, cioè un gasdotto italo-russo – poi diventa-

ribadirà la «piena sintonia» con il presidente americano e con i suoi sforzi per far approvare dal Consiglio di sicurezza dell’Onu una mozione che preveda «sanzioni stringenti» per impedire al regime di Ahmadinejad di realizzare la bomba atomica. La Russia, a lungo contraria a inasprire le sanzioni già esistenti contro l’Iran, ha comunque già aperto alla pos-

serci. In questa fase non ne vedo. L’avvio dei rapporti tra Obama e Berlusconi era stato pessimo, ma le necessità degli uni e degli altri, mi pare, abbiano acclarato la situazione. Il premier italiano non è più visto così male alla Casa Bianca, anzi. E, a parte i rapporti personali che non possono essere paragonati a quelli tra Berlusconi e Putin, non ci sono oggi grossi problemi tra Italia e America». Secondo il direttore di Limes il giro di boa dei rapporti tra Roma e Washington è stato senz’altro «l’accordo su South Stream». «Non parliamo d’amore, si tratta di un rapporto pragmatico. Quella trattativa ha tolto di mezzo lo scoglio principale. Poi l’Italia sta per mandare altri mille soldati in Afghansitan, ci sono quindi stati dei segnali molto positivi dal fronte americano».

I rapporti Roma-Mosca non entusiasmano la Casa Bianca, ma oggi il clima è più favorevole. L’elemento di maggiore preoccupazione per gli Usa, il gasdotto South Stream, sembra superato

preoccupazione americana era che l’Europa mantenesse una certa diversificazione negli approvvigionamenti energetici, che non dipendesse solo dal rubinetto del Cremlino. Ragione per cui sponsorizzava l’altro progetto di una pipeline attraverso la Turchia: il Nabucco. Dal punto di vista russo, South Stream non era altro che una mossa geopolitica che avrebbe permesso di consolidare ulteriormente il quasi-monopolio di export di gas verso l’Europa. Un progetto che tendeva a ridurre drasticamente il ruolo di Paesi ”problematici” quali Ucraina – ora dopo le ultime elezioni rientrata nei ranghi – di non poca importanza è il fatto che questo progetto avrebbe garantito – nella versione originaria – un vantaggio

to italo-russo-francese – alternativo al progetto europeo sponsorizzato da Washington per aggirare la Russia, è finito». Con Libia e Gheddaffi tutto as usual. «L’apertura iniziale è stata tra Libia e Stati Uniti, non certo tra Tripoli e Roma. Non c’è un grosso problema sui rapporti italo-libici. Washington ha tanti di quei grattacapi che penso sinceramente che la Libia non sia in cima alla lista». Dunque pochi punti di frizione, per il momento, tra Farnesina e dipartimento di Stato. «Se fossimo due potenze quasi paritarie potrebbero anche es-

Da questa analisi anche il futuro appare meno complicato di come appariva qualche tempo fa. «I rapporti si svilupperanno sempre in maniera periferica e pragmatica. Nel senso che l’Italia non è certo nel cuore degli interessi statunitensi e per quel poco che dovremmo condividere si vedrà caso per caso».

munque, non entrerà a far parte del parco macchine del premier. È stato lo stesso Berlusconi a rivelare di averlo donato al ministro della Difesa, Ignazio La Russa: «Mi ha detto stamane di voler comprare un suv e io glielo ho regalato». Fiat e Sollers hanno in programma di investire 2,4 miliardi per produrre 500.000 vetture all’anno.


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Israele. Cauto ottimismo dopo l’incontro tra l’inviato speciale e Netanyahu GERUSALEMME. Gli Stati Uniti tentano un nuovo assalto alla “nebulosa” israelopalestinese. L’inviato speciale per il Medioriente, George Mitchell, è arrivato ieri a Gerusalemme per incontrare le massime autorità israeliane e poi quelle palestinesi. Una visita che conclude una settimana di nuove tensioni nella regione. È di questi ultimi giorni la denuncia israeliana per cui la Siria di avrebbe rifornito Hezbollah di missili Scud da utilizzare in un conflitto prossimo venturo. Damasco però ha negato ogni accusa. Il caso ha generato frizioni anche oltre Atlantico. Mercoledì a Washington, il rappresentante diplomatico siriano è stato convocato dal Dipartimento di Stato per chiarimenti. Nel frattempo si è verificato un non meglio precisato lancio di razzi su territorio giordano. Di questi tuttavia non si sa né la motivazione né l’origine dell’attacco. Il dialogo tra israeliani e palestinesi a sua volta resta bloccato e Mitchell è arrivato in Medioriente proprio per tentarne una riaccensione. Il rappresentante di Obama si è incontrato con il Primo ministro israeliano Netanyahu, e con il Ministro della Difesa Barak. Il colloquio con il Presidente palestinese Abu Mazen è in corso nel momento in cui andiamo in stampa. Le note ufficiali diffuse dopo i vertici fra Mitchell e i leader israeliani lasciano trasparire un ritrovato ottimismo. Va ricordato che, a metà marzo, il viaggio in Israele del vice Presidente Usa Joe Biden era risultato totalmente fallimentare. Il governo Netanyahu aveva fatto capire agli Stati Uniti, con parole e fatti, che la sua politica espansionistica degli insediamenti intorno a Geru-

Dialogo in Medioriente, gli Usa ci riprovano George Mitchell a Gerusalemme incontra le massime autorità israeliane e palestinesi di Antonio Picasso

pure alla Siria. La disponibilità del Ministro della Difesa israeliano tuttavia non è stata appoggiata dal suo Premier. L’ufficio di Netanyahu proprio ieri mattina ha smentito il quotidiano Haaretz il quale ha scritto di una sua eventuale accettazione di uno «Stato palestinese provvisorio in Cisgiordania, nel contesto di un accordo di

Il governo ospite ha parlato di «formule diverse a oggi in elaborazione», sulle quali starebbero lavorando gli analisti locali salemme non sarebbe stata oggetto di discussione. La vicenda fece parlare di una crisi senza precedenti fra i due governi. Mitchell questa volta è arrivato in Israele per ricucire gli strappi di un mese e mezzo fa e per capire se sia emerso, in seno al governo israeliano, uno spazio per riprendere i negoziati con l’Autorità palestinese. A questo proposito, Ehud Barak si è detto favorevole a invertire la rotta di intransigenza adottata dal suo governo e quindi aprirsi all’Anp, come

transizione che preveda anche il rinvio dei negoziati sullo status di Gerusalemme est». Nulla di vero, secondo l’entourage di Netanyahu. L’intransigenza israeliana questa volta però non appare assoluta. Il governo infatti ha parlato di «formule diverse attualmente in elaborazione», sulle quali starebbero lavorando gli analisti locali. Volendo tracciare un bilancio provvisorio quindi, si può dire che la visita di Mitchell non è stata negativa. D’altra parte, non si può ve-

Nuovo “no” di Bibi all’ipotesi-spartizione

«Ma la città santa non si tocca» «Di Gerusalemme non se ne parla!». È il chiaro messaggio del Premier israeliano Netanyahu poco prima dell’atterraggio dell’Inviato Usa, Mitchell. Il leader israeliano ha messo un veto a priori sull’eventualità che si discuta della spartizione di Gerusalemme tra due Stati. La parte orientale della Città Santa è stata conquistata dall’Esercito israeliano durante la Guerra dei sei giorni, nel 1967. Già nel 1950 tuttavia Israele proclamò unilateralmente Gerusalemme capitale del suo Stato. Nessun governo straniero però, che abbia rapporti diplomatici con Israele, ha mai deciso di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv. All’interno delle mura crociate sono conservati i Luoghi più sacri per l’Ebraismo, il Cristia-

nesimo e per l’Islam. Il Muro del Pianto, il Santo Sepolcro e la Moschea d’oro nella Città Vecchia fanno di Gerusalemme il luogo con la maggior densità di simbolismi religiosi del mondo. Israele quindi rivendica il possesso della città secondo quanto scritto nelle Sacre Scritture. I palestinesi vorrebbero farne il cuore di un loro futuro Stato indipendente. Il mondo cristiano, a suo tempo, propose di porre l’area sotto tutela delle Nazioni Unite. Finora non si è giunti a una soluzione definitiva. Fermo restando che le istituzioni israeliane - Presidenza della Repubblica, Parlamento, Governo e Corte Suprema - ne abbiano fatto la loro sede fin dal ’67. Una scelta politica e logistica sancita di nuovo, ieri, dalle (a.p.) parole di Netanyahu.

derla nemmeno come un successo. Netanyahu ha riservato all’inviato di Obama un’accoglienza “senza sorprese”, come invece era stata quella di Biden. Mentre il vice Presidente Usa era in Israele infatti proprio per convincere il Paese a fermare gli insediamenti - il Ministero dell’Interno elaborava il decreto per la realizzazione di 1.600 appartamenti a Ramat Shlomo, appena fuori Gerusalemme. Un gesto che aveva provocato la collera del Segretario di Sato Usa, Hillary Clinton. La presenza in sé di Mitchell in Medioriente, a conclusione di questa settimana calda, lascia pensare che i fatti più recenti costituissero una serie di “bolle” politiche speculative, facilmente strumentalizzabili.

Del colore contrario però è la situazione nelle piazze. Ieri a Bilin, un villaggio tagliato in due dalla barriera protettiva che separa Israele dai Territori Palestinesi, una manifestazione di protesta è degenerata in uno scontro fisico tra la Polizia israeliana e i manifestanti. Nei tafferugli un militante pacifista originario di Jaffa è rimasto gravemente ferito. Che il corteo potesse sfociare in un momento di violenza era prevedibile, se si tiene conto che i manifestanti si erano presentati muniti di sassi e che la Polizia era in assetto anti-sommossa. Altrettanto preoccupante è l’annuncio dato da alcuni coloni per cui durante i falò della festa ebraica di “Lag-ba Omer”, in programma la prossima settimana, verrà bruciato anche un fantoccio del Presidente Obama. La ricorrenza celebra la rivolta degli ebrei contro l’Impero romano, avvenuta nel 132 d.C. Di solito durante i festeggiamenti vengono date alle fiamme le figure rappresentanti i nemici storici di Israele: da Hitler al Presidente egiziano Nasser, passando per Arafat e il Segretario di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Il fatto che alcuni coloni vogliano includere «Hussein Obama, agente dell’Olp» - così come si legge nella nota diffusa appare grottesco. Soprattutto suggerisce quanto sia distante la percezione della Casa Bianca dal contesto sociale in cui si sta ostinatamente impegnando per concludere il processo di pace. Al di là del risultato asettico raccolto da Mitchell ieri, le posizioni dell’opinione pubblica israeliana restano ben chiare. Né Obama né tanto meno Netanyahu possono sottovalutarle.


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24 aprile 2010 • pagina 29

A compiere la strage, quattro autobomba e un kamikaze

Il premier: «Pronto a farmi da parte se crisi non sarà risolta»

Attentati a Baghdad: 67 morti e oltre 100 feriti

Thailandia, “camicie rosse” disposte al negoziato

BAGHDAD. Almeno 67 morti e 110 feriti: è il terribile bilancio della serie di attentati che ha colpito nella giornata di ieri le moschee e le zone sciite della capitale dell’Iraq. Lo ha riferito una fonte della sicurezza citata dalla tv araba al-Jazeera. A colpire i fedeli mentre uscivano dalle moschee sciite in occasione della preghiera comunitaria del venerdì sarebbero state quattro autobomba e un kamikaze. Particolarmente colpito poi il sobborgo di Baghdad denominato “Sadr City”e abitato in prevelanza da sciiti. Gli attentati di ieri sembrerebbero comunque essere la risposta degli insorti ai recenti attacchi delle forze di sicurezza contro i principali leader di al Qaeda nel Paese, Abu Omar al-Baghdadi e di Abu Ayub al-Masri.

BANGKOK. Il premier thailandese, Abhisit Vejjajiva, si è detto disposto a farsi da parte nel caso in cui non riesca a risolvere il conflitto politico in corso. A riferirlo sono stati i media locali, senza precisare però se Abhisit sia pronto a rassegnare le dimissioni o sciogliere la camera bassa del parlamento. Poco prima le “camicie rosse” s’erano dette pronte a riprendere negoziati politici proprio in previsione dello scioglimento del Parlamento entro 30 giorni. Ad affermarlo era stato uno dei principali leader del movimento Veera Musikapong, indicando un ammorbidimento della posizione. Finora, infatti, la richiesta era quella di uno scio-

«La serie di attentati che ha colpito questa mattina Baghdad (ieri mattina, ndr), rappresenta la reazione isterica di alQaeda all’uccisione dei suoi leader»; ha confermato ieri il generale Qasim Attah, portavoce della sicurezza irachena. «Si tratta di una reazione rabbiosa dei terroristi - ha sottolineato Attah - una reazione dovuta all’uccisione e all’arresto dei loro

I partiti inglesi a caccia del voto cattolico Cameron, Brown e Clegg ora guardano al Vaticano di Lorenzo Biondi

LONDRA. A dare fuoco alle polveri ci ha provato Michael Jeans di Bristol, trentenne omosessuale, nel corso del dibattito su Sky News. A settembre il Papa visiterà il Regno Unito «al costo di milioni di sterline dei contribuenti»: come si pone la politica britannica nei confronti dello scandalo pedofilia e della dottrina cattolica su aborto, diritti degli omosessuali e contraccezione? David Cameron, Nick Clegg e Gordon Brown hanno dato tre risposte fotocopia: Benedetto XVI sarà il benvenuto, ma vanno criticate aspramente le reticenze della Chiesa sui preti pedofili, così come molte posizioni sui temi etici. Tutti d’accordo, quindi? Non proprio. «Se nomini Dio come argomento in un dibattito, hai perso», spiegava poche settimane fa sul Financial Times la parlamentare conservatrice (e cattolica) Nadine Dorries. Ma se nessuno vuole inimicarsi la maggioranza «laica» dei Paese, allo stesso modo i 5 milioni di cattolici britannici sono un bacino elettorale troppo ghiotto per rischiare che venga conquistato dagli avversari.

prio dalla Scozia di Brown, dove la maggioranza dei cattolici vota a sinistra. Il leader dei laburisti scozzesi, Iain Gray, ha dovuto subire l’attacco dell’arciverscovo di Edimburgo, cardinale O’Brien: «Spero che il Papa vi metta in croce per quello che avete fatto al nostro paese in 10 anni, screditando la famiglia e la vita matrimoniale», ha detto il porporato in un incontro privato col parlamentare, ripetendo poi ogni parola ai microfoni della Bbc.

Musica per le orecchie dell’anglicano David Cameron, che non si è lasciato sfuggire l’occasione. Il leader conservatore ha subito richiesto un’intervista al Catholic Herald impegnandosi a ridurre il limite temporale per l’aborto da 24 a 20 settimane e ribadendo la sua contrarietà al suicidio assistito. Da qualche mese si discute molto del peso della componente cristiana nel partito. Il Centre for Social Justice, guidato dal cattolico Tim Montgomerie, è uno dei think-tank più ascoltati da Cameron. Mentre in un’intervista al Financial Times un parlamentare conservatore confessa le sue paure: i cristiani (evangelici, stavolta) «si stanno prendendo il partito». È un’esagerazione. Un’altra fonte Tory spiega: «Fa parte del “pacchetto”: pro-nucleare, proesercito, pro-life». Tanto più che una vecchia tradizione di Westminster svincola i voti sui temi etici dalla disciplina di partito. E infatti le leggi sui matrimoni gay e sulla ricerca sugli embrioni furono approvate da maggioranze trasversali. Lo sa bene il liberale Nick Clegg, re dei sondaggi nell’ultima settimana. Il suo partito è senza dubbio il più «laico» del Regno Unito, per non dire il più «laicista». Ma la linea ufficiale, rilanciata sul Catholic Herald, rimane: libertà assoluta di voto su tutte le materie eticamente sensibili. Nel dibattito Sky, Clegg ha usato abilmente la sua vita privata: «Non sono un uomo di fede, ma mia moglie Miriam è cattolica e stiamo educando i nostri figli nella sua fede». L’ateo Nick strizza l’occhio ai cattolici; quei milioni di voti farebbero comodo anche a lui.

Giochi di equilibrismi soprattutto nella sinistra per evitare il malcontento dell’elettorato laico dell’Inghilterra

capi più importanti. Hanno piazzato quattro autobomba nei quartieri di al-Hurriya, alAmin, al-Sadr e al-Rahmania di Baghdad». Il generale ha anche aggiunto che i suoi uomini «hanno disinnescato altri nove ordigni nelle zone di al-Zaafraniya e al-Muamil». «Grazie alle precauzioni adottate nei giorni scorsi - ha proseguito Qasim Attah - siamo riusciti a sventare diversi altri attentati e purtroppo prevediamo che nei prossimi giorni la tensione possa salire ulteriormente». Uno degli attentati più cruenti tra i cinque messi a segno oggi è quello avvenuto davanti alla moschea al-Chalabi, del quartiere di al-Hurriya, proprio mentre i fedeli sciiti uscivano dalla moschea per la preghiera del venerdì.

Il premier Brown, figlio di un pastore presbiteriano, ha governato nel segno dell’attenzione per l’elettorato religioso. Il Labour ha sempre avuto al suo interno una forte componente cattolica irlandese. Chiudendo la fase blairiana («non ci occupiamo di Dio» disse Alistair Darling, spin-doctor di Tony Blair), il pragmatico Brown non ha mancato di mandare segnali importanti verso il Vaticano. Prima si è speso per avviare la revisione della legge che vieta a un cattolico la successione al trono d’Inghilterra; poi ha formalmente invitato il successore di Pietro a tornare a Londra, dopo quasi trent’anni dalla visita di Wojtyla. Ma potrebbe non bastare. Perché il Labour è un partito dalle tante anime, in cui la componente laica è ampiamente prevalente. A molti cattolici britannici non è andata giù l’istituzione della «partnership civile» tra omosessuali, con tanto di diritto all’adozione, né il regime fiscale che equipara le coppie «tradizionali» a quelle omosessuali. Parole di fuoco contro il Labour, su questo fronte, arrivano pro-

glimento immediato. La proposta è giunta poco dopo che il capo dell’esercito Anupong Paochinda aveva assicurato che non vi sarebbe stata una repressione violenta delle proteste delle “camicie rosse“, in quanto ciò avrebbe fatto “più danni che altro”.

Il generale Tharit Pengdit, capo della polizia speciale, aveva però avvertito: «Voglio avvisare chiunque sia dietro queste azioni terroristiche del fatto che rischiano la pena di morte». Nell’ultimo mese violenze e disordini hanno provocato 26 morti. Dopo vari attentati dinamitardi a Bangkok, costati la vita almeno a una persona e il ferimento di altre 86, ieri la situazione è rimasta tesa. I manifestanti hanno incendiato le barricate che la polizia aveva invece chiesto di smantellare. Il governo thailandese ha anche dichiarato che i “terroristi” responsabili delle violenze che hanno provocato 26 morti questo mese potranno essere condannati alla pena capitale. «Voglio avvisare chiunque sia dietro queste azioni terroristiche del fatto che rischiano la pena di morte» ha sottolineato il generale Pengdit in un discorso trasmesso alla tv all’indomani della lunga serie di attacchi di due giorni fa.


• 24 aprile 2010

il personaggio della settimana Paradossi. La contraddizione continua tra giornalismo di denuncia, la politica e lo scandalo-trans

Il moralista di Sordi oggi si chiama Marrazzo

L’ex presidente della Regione Lazio è diventato come il personaggio di un film del grande attore: «fregato» dai carabinieri, ma proprio a causa dei suoi “vizietti” e dei suoi eccessi di Maurizio Stefanini l Moralista, famoso film del 1959, era la storia di Agostino: un giovanotto con gli occhialini rotondi interpretato da un memorabile Alberto Sordi, che in pubblico era il segretario dell’Organizzazione Internazionale della Moralità Pubblica, intollerantissima lobby contro ogni tipo di oscenità nello spettacolo dagli interventi ai limiti dell’assurdo. Per fare carriera corteggia però la racchia figlia del presidente dell’Organizzazione, rispettivamente Franca Valeri e Vittorio De Sica. Quando però lo mandano come rappresentante dell’istituzione a un congresso internazionale a Monaco di Baviera salta fuori che di soppiatto fa la tratta delle bianche, inviando le squillo negli stessi locali sottoposti alla sua sorveglianza. Infine smascherato, prima di essere smascherato farà in tempo a rivelare che nella stessa Organizzazione «il più pulito cià la rogna».Tutti con doppia vita e doppia morale a partire dal presidente, impegnato in una facile avventura sentimentale con una diva del cinema.

Sembra che la storia, scritta da

chiesto in un’interrogazione di estendere a tutta Italia la chiusura pomeridiana della discoteca Piper disposta dal Questore di Roma in quanto «mezzo di distrazione dei giovani con conseguente sviamento da occupazione e studi», spiegando che era «dovere costituzionale dei genitori educare i figli e sottrarli ai richiami di chi offre suggestioni per lucro». E in un’altra interrigazione avrebbe protestato per la mancata sospensione del Festival di Sanremo pur dopo il suicidio di Luigi Tenco. Ma nessuno sarebbe mai riuscito a trovare nulla di penalmente eccepibile nella sua permanenza da Assessore al Traffico e poi alla Polizia Urbana a Roma, malgrado esplicata in un momento delicatissimo come quello dell’Olimpiade del 1960, del Piano Regolatore, della Legge Speciale per Roma e dell’avviamento della Metropolitana.

Rodolfo Sonego per sua ammissione «in una sola notte», sia stata ispirata ad Agostino Greggi: all’epoca 37enne consigliere comunale democristiano di Roma e Presidente Diocesano della Gioventù Cattolica. Diventato famoso per una campagna moralizzatrice di cui era stato il culmine l’incarico di avvocato di parte civile in una causa contro un manifesto in abiti succinti di Brigitte Bardot per pubblicizzare il film Miss Spogliarello, sulla base di una petizione firmata da ventimila persone. Solo che Greggi, personalmente, era magari bacchettone, ma onestissimo. In anni successivi come avrebbe deputato

Marrazzo, ha accertato la Corte di Cassazione, pendono responsabilità penali, per tutta la vicenda che lo ha obbligato alle dimissioni da Presidente della Regione Lazio. Né per l’uso dell’auto blu come mezzo per incontrare il trans in Via Gradoli, che va dunque considerato ammissibile. Né per quanto riguarda l’uso di cocaina, la cui quantità era irrisoria. Né per l’eventuale uso del tesserino per sniffare la stessa cocaina, ché non è vietato. Tutta la vicenda va dunque considerata come «un’imboscata» ai suoi danni ordita da alcuni carabinieri della compagnia di Roma Trionfale che nel fare irruzione nell’appartamento di via Gradoli gli avrebbero impedito apposta di tirarsi su i pantaloni, apposta per aggravare

I

la sua posizione e renderlo vulnerabile a qualsiasi forma di ricatto. Non mossi dunque dal dovere istituzionale di verificare una soffiata, ma dall’intenzione di fargli un agguato: sfruttando debolezze a loro ben note, per raggiungere scopi tutt’altro che leciti e comunque contrari alla divisa che indossano.

Eppure, a guardar bene è proprio Marrazzo il personaggio più somigliante a quello di Alberto Sordi, piuttosto che non l’Agostino Greggi dell’ispirazione vera. Non criminale, certo,

Ne a nc he s u P ie ro

attesta la Cassazione: ma quanto in contraddizione con quell’immagine da fustigatore dei costumi e corruzione con cui dagli schermi di Mi manda Raitre si era costruito prima il proprio successo giornalistico, e poi il trampolino da cui lanciarsi alla politica! Che poi, certamente non è il solo politico italiano a marcare qualche flagrante contraddizione tra predica pubblica e razzolamenti privati. Ma se altri vi sopravvivono, è proprio perché si reggono comunque su un qualche tipo di consenso genuino. Mentre Marrazzo era, appunto dal punto di vista politico, il pu-


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ro vuoto. Un estraneo alla politica, scelto a tavolino appunto perché spendibile presso l’elettorato come un volto pulito, un uomo estraneo ai giochi di palazzo. Ma proprio perché Marrazzo era - politicamente parlando - una maschera senza volto, è stato brutalmente costretto a farsi da parte, una volta constatato che quell’immagine oramai recava più danni che benefici.

«Ho scelto il silenzio per sei mesi per rispetto ai giudici, agli investigatori e all’Arma dei carabinieri», ha detto

le Salvemini di Tutti dentro: un giudice Di Pietro ante-litteram, del 1984, con la capigliatura alla De Michelis, che fa arrestare a tutto spiano banchieri e giornalisti, vescovi e frati, faccendieri e politici, salvo poi farsi incastrare da inopportune amicizie e debolezze per il gentil sesso, trasformandosi così da inquisitore in inquisito. Lo stesso può dirsi per gran parte dei personaggi di contorno di quella stessa pellicola: a partire da un maneggione milanese che si fa prendere un infarto quando lo arrestano, e poi in ospedale spiega:

La coincidenza più clamorosa è con la pellicola del 1959 dove il protagonista è un uomo pio e intollerante ma pieno di escort Marrazzo. «Mi sono assunto le mie responsabilità verso i cittadini e gli elettori dimettendomi per colpe che sono personali e che hanno coinvolto anche la mia famiglia». In effetti, altri al suo posto, colti in situazioni non dissimili, si sono guardati bene non solo dall’ammettere le proprie colpe, ma neanche di dimettersi dai propri ruoli pubblici. Ecco, anche in questo senso, se vogliamo, la straordinaria galleria delle «Storie di un Italiano» interpretate da Alberto Sordi offre pure un altro bel po’ di prototipi, oltre all’Agostino del Moralista. Per esempio, il giudice Anniba-

«Sono pentito, sono pentito, mi sono pentito subito... non appena ho visto la Guardia di Finanza». Non ci sarà forse da stupirsi se lo sceneggiatore era lo stesso Sonego del Moralista.

Oppure, il Tullio Conforti di Scusi, lei è favorevole o contrario?, del 1966. Cinquantenne imprenditore di successo cui la fede cattolica impone di essere ostile al divorzio; ma non gli impedisce di tradire la moglie girando freneticamente tra un numero di amanti pari ai giorni della settimana. Anche questa, biosgna ammetere, una prassi la cui

diffusione, nella politica italiana, va ben oltre il caso di Marrazzo. Altro riferimento possibile è Commissario, film del 1962 di Luigi Comencini. Qui il personaggio di riferimento non quello del titolo (e di Sordi) ma l’uomo su cui il commissario Sordi indaga. Nella fattispecie: un noto politico e sociologo (curiosamente, si chiama Di Pietro). Sordi, ossia il vicecommissario Dante Lombardozzi che per un arcano motivo sente di di dover moralizzare il mondo, viene a scoprire che la vittima, quel Di Pietro, aveva un solo grande vizio: le escort, che una volta si chiamavano più prosaicamente prostitute. Ebbene, Sordi deuncia tutto, ma le alte sfere lo bloccano e lo costrigono a dimettersi: Finirà a lavorare nella fabbrica di pasta del suocero.

E almeno questo è un rischio che peraltro il presidente della Regione Lazio non correrà. Ma anche lui dice di avere trovato conforto e rifugio nella famiglia: «La mia è una famiglia splendida, mi è sempre stata vicine rispettando il mio silenzio e sopportando tutte le falsità dette”. Ma anche la Rai, nell’immaginario italiano, è stata sempre accostata a una figura familiare: «Mamma Rai» si dice. E a Mamma Rai pure Marrazzo ha fatto appello: «Sono pronto a rientrare in Rai, sono a disposizione dell’azienda». In Rai è ancora in forze con la qualifica di caporedattore, e poiché non c’è alcuna imputazione penale a suo carico (ed essendosi peraltro del tutto conclusa quella carriera politica per la quale si era posto in aspettativa nel 2005) e adesso dovrà tornare al lavoro: in proposito, si è già visto con i dirigenti del personale. A fare cosa, però, è un problema. Improponibile un ritorno a Mi manda Raitre: a parte il fatto che adesso c’è un altro che svolge quel compito in modo più che egregio (Andrea Vianello), come fare più a chiamare all’ordine un qualunque venditore un po’ truffaldino senza sentirsi rispondere con un perentorio: «Lei pensi ai suoi trans!»? Ché - torniamo all’Agostino del Moralista - in Italia

Dalla tv alla politica, andata e ritorno Piero Marrazzo è nato a Roma, nel 1958, ed è figlio del giornalista Giuseppe Marrazzo, uno dei voitli più noti della tv (del Tg2, in particolare) degli anni Settanta Ottanta, soprattutto per le sue graffianti inchieste sulla mnafia e sulla camorra. Piero Marrazzo si è laureato in giurisprudenza e poco dopo è entrato a propria volta in Rai, lasciando l’attività politica giovanile che aveva portato avanti fino a quel momento, come socialista riformista. I venti anni in Rai lo hanno visto come conduttore e inviato del Tg2, poi come responsabile della testata regionale della Toscana e poi, chiamato da Giovanni Minoli, alla Cronaca in diretta, a Drugstories e agli speciali Format. Dall’ottobre 1998 al 2004 ha condotto Mi manda Raitre. Nel novembre 2004 ha accettato di candidarsi per la carica di presidente della regione Lazio per il centrosinistra, vincendo poi le elezioni dell’aprile 2005 con il 50,7% dei voti. Nell’ottobre dell’anno passato, è stato travolto dallo scandalo-trans, dopo che dei carabinieri gli hanno teso un’imboscata, filmandolo con una trans e accanto una dose di cocaina che gli stessi carabinieri (secondo la Cassazione che li ha rinviati a giudizio) avevano portato sul posto.

la chiamata in correo, ossia non il dire «sono innocente» ma pèiuttosto «sei anche tu colpevole», è tuttora considerato il metodo principe della difesa.

In realtà, proprio quella esperienza potrebbe fare di Marrazzo lo straordinario campione di un programma di ci potremmo già immaginare un titolo, qualcosa tipo Siamo tutti colpevoli o Chi di voi è senza peccato... Sarebbe un’esperienza spettacolare e umana straordinaria, potrebbe perfino indirizzare a fini di catarsi nazionale quell’ormai insopprimibile e insopportable smania di autovoyeurismo protagonistico che tracima ormai da tutti i reality. Ma il modo in cui l’ex-presidente della Regione Lazio ha gettato subito la spugna senza neanche provare a lottare (come invece avrebbe fatto fino all’estremo un qualunque tronista, o come hanno fatto altri celebri “peccatori pubblici”che hanno difeso a oltranza le proprie miserie morali) fa forse intuire che gli mancherebbe il necessario coraggio per diventare un vero eroe da Isola dei famosi o da rotocalco. Insomma, probabilmente finirà in qualche ruolo minore a una trasmissione di approfondimento o di coordinamento nei telegiornali. In attesa della pensione: doppia, perché comunque riceverà nel 2013, a 55 anni, un 30% dell’indennità percepita durante l’unico mandato da presidente della Regione Lazio: un vitalizio la cui prima corresponsione sarà preceduta da una liquidazione pari a cinque indennità mensili. A tanti, piacerebbe farsi mandare da Raitre…


ULTIMAPAGINA

Feste. Domani, 25 aprile, al via la camminata-evento di alcuni pellegrini che da Genova giungeranno a Milano e poi a Torino

La nuova “marcia” della di Sergio Valzania egli anni Sessanta l’area individuata dalle città di Milano, Torino e Genova veniva definita come il Triangolo industriale italiano. Era la zona del Paese dove si concentravano le fabbriche più importanti, Fiat, Pirelli, Alfa Romeo e tutto l’indotto da esse generato. Verso quella parte d’Italia si riversava la migrazione interna che cambiò la struttura sociologica del nostro Paese, concentrando la capacità produttiva che consentì, tra l’altro, il nostro ingresso in condizioni non subalterne nel nascente sistema europeo. Molte cose sono cambiate da allora. La deindustrializzazione e il passaggio al terziario hanno modificato la fisionomia dei luoghi, a volte recuperando perfino una loro vocazione all’agricoltura specializzata, quella enologica in particolare. Fra i modi possibili di riflettere sulla nostra storia recente e sulle possibilità del nostro presente il gruppo culturale Movimentolento ne ha scelto uno che coniuga in modo esemplare modernità e tradizione. Domani, 25 aprile, in coincidenza con la festa della Liberazione, un gruppo di pellegrini partirà a piedi dal porto antico di Genova per quella che viene definita una camminata-evento e che dai nomi delle città che attraverserà è stata intitolata Ge.Mi.To..

te, sta nel fatto che il camminare modifica insieme i luoghi e chi li attraversa, aumenta la consapevolezza reciproca. Tutto questo emerge dall’insieme di realtà di cammino a piedi che stanno nascendo e ormai si sono affermate in tutta Europa. La più famosa è il Cammino di Santiago, percorso ogni anno da decine di migliaia di pellegrini. Sul suo modello sono nate altre vie, nella stessa Spagna, in Francia, in Germania, in Polonia, in Norvegia, mentre percorsi come il Cammino di San Francesco in Umbria cominciano a essere frequentati anche da noi, dove sta emergendo con fatica anche la celebre Via Francigena, che nella sua forma compiuta dovrebbe attraversare tutta l’Italia,

Il progetto prevede di percorrere a piedi i 650 chilometri che vanno da Genova a Torino, da lì a Milano e poi di nuovo a Genova, completando il triangolo. Una visita approfondita a luoghi che vanno dal Parco delle capanne di Marcarolo a Ovada, al Monferrato, per seguire quindi il corso del Po fino a Torino, attraversare le risaie del vercellese e della Lomellina, il Parco del Ticino e giungere così a Milano. Da lì, i pellegrini andranno fino a Pavia e a Varzi per proseguire lungo la dorsale appenninica che raggiunge il Parco dell’Antola e quindi Genova. La camminata-evento durerà oltre un mese, con la conclusione il 2 giugno. A chi si domanda il perché di un’impresa del genere è difficile fornire una risposta diretta. Il dato fondamentale, basato su esperienze consolida-

dalla Valle d’Aosta a Bari. Sarebbe riduttivo, e sbagliato, immaginare che tutto questo rappresenti solo un modo diverso, magari più sano ed economico, per trascorrere il tempo libero. Attraversare a piedi un Paese o una regione è un’esperienza culturale importante, che modifica il modo di considerare i luoghi e consente occasioni di incontro e di relazione altrimenti impossibili. Il viaggiare camminando costituisce ormai uno dei più interessanti fenomeni culturali della nuova Europa che si sta costruendo come comunità. Rappresenta uno degli aspetti più vitali della sua riflessione su di sé e sulle proprie prospettive di sviluppo, arrivando a essere una critica all’uso delle risorse come è stato fatto negli ultimi decenni. A camminare non sono figure sociologiche margina-

N

li, ma la componente più attiva e vivace della popolazione che mescola una ricerca di senso della vita a una pratica per molti aspetti prossima alla meditazione. Viaggiare a piedi significa criticare la considerazione abituale del tempo e dello spazio, dilatandoli in un’esperienza vissuta in termini esistenziali.

Per alcuni aspetti può essere considerata una risposta alla crisi economica e una proposta per una modifica dei consumi. Chi posta sulle spalle tutto il necessario per vivere, anche solo qualche settimana, riscopre l’essenziale, sia dal punto di vista fisico sia ideologico, si potrebbe persino dire spirituale. Camminare di-

LIBERAZIONE Verranno percorsi a piedi i 650 km che vanno dal capoluogo ligure a quello lombardo passando per Torino. Il viaggio durerà oltre un mese e terminerà il 2 giugno, giorno della festa della Repubblica

venta costruire un umanesimo rinnovato, che unisce in una comunità consapevole di valori che trascendono quelli puramente materiali. Goethe scrisse che l’Europa moderna si era costituita sul Cammino di Santiago. Qualcosa di simile accade oggi, lungo i molti percorsi per viaggiatori a piedi che attraversano il continente dove giovani e meno giovani di tutti i paesi si incontrano in un continuo scambio realizzato su piani diversi. Nello sforzo dell’andare il confronto non è intellettuale, ma fisico e affettivo, nella simpatia, in senso letterale, di una considerazione comune della realtà. Per questo bisogna essere riconoscenti a chi si ingegna per tracciare anche in Italia queste infrastrutture culturali che collegano il nostro paese alla temperatura culturale del resto dell’Europa. I tempi di un’unione fondata sul carbone e sull’acciaio sono tramontati e la virtualità della rete internet non è sufficiente a costruire l’insieme di sentire e di pensare sul quale si deve fondare la comunità degli europei. Per conoscersi occorre incontrarsi, condividere, scambiare emozioni ed esperienze estetiche. Proprio quello che accade lungo i cammini.


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