L’assurdo nasce dal confronto
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fra la domanda dell’uomo e l’irragionevole silenzio del mondo
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Albert Camus di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 28 APRILE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
È cominciato l’iter che dovrebbe portare, entro il 21 maggio, alla definizione delle norme attuative della contestata riforma
Raggirano anche il demanio Sta passando sotto silenzio una grave misura del primo decreto “federalista”: la cessione ai comuni di molti beni dello Stato.Proprietà di tutti diventano di pochi e si lede la garanzia del debito pubblico ERRORI ANNUNCIATI
UNA NORMA ANTI-EUROPEA
Il federalismo del mito e il federalismo della realtà
Tra costi e ricavi non c’è guadagno di Carlo Lottieri La fervida fantasia dei politici italiani conia ogni giorno termini e concetti del tutto nuovi. Ma in certi casi la parola non basta.
di Giancristiano Desiderio
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i sono cose che si conoscono solo quando si realizzano. Una di queste è il federalismo e nel caso specifico il federalismo fiscale. In teoria si sa cos’è ma, come tutti sanno, la pratica è un’altra cosa. Da sempre, sul federalismo fiscale ci sono due scuole di pensiero contrapposte: la prima dice che è un toccasana e persino la via giusta per risolvere una volta per sempre la famigerata “questione meridionale”; la seconda scuola invece sostiene che il federalismo caro alla Lega di Bossi è una sciagura nazionale che finirebbe per accentuare il divario tra Nord e Sud. Dire in astratto chi abbia ragione non è possibile perché manca sempre l’essenziale: la prova concreta. Con i decreti attuativi le cose cominciano a cambiare. segue a pagina 2
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PARLA ALESSANDRO DE NICOLA
«Meglio le famiglie del governo» Il presidente riceve 298 nuovi magistrati
Appello di Napolitano: «Giustizia e politica, è tempo di fare pace» «Equilibrio, serenità e sobrietà di comportamenti»: il Quirinale detta le regole per recuperare «il sostegno e l’apprezzamento dei cittadini»
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PARLA GIAN LUCA GALLETTI
«È un’idea sbagliata, ecco la prova» di Alessandro D’Amato Gian Luca Galletti, dell’Udc, punta l’indice: «Il primo decreto attuativo non fa che confermare i dubbi su questo federalismo» a pagina 3
Grecia bocciata: titoli-spazzatura Declassato anche il Portogallo. E crollano le Borse europee di Gualtiero Lami fuori questione». Ma i segnali che inducono al pessimismo, tuttavia, sono sempre di più, a partire al declassamento al livello «junk», ossia spazzatura, del rating greco da parte di Standard and Poors, che fa il paio con il declassamento di quelli portoghesi, a un passo dal crack. Per il prossimo 10 maggio è stato convocato un vertice straordinario dei governi dell’Eurozona che avrà all’ordine del giorno la definizione degli aiuti alla Grecia. a pagina 7
seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
di Giuseppe Baiocchi
«Il debito pubblico lo garantiscono i risparmi delle famiglie, non il governo», dice l’economista Alessandro De Nicola.
Il debito di Atene sale ancora di più. Il 10 maggio vertice Ue straordinario
grava drammaticamente. «La Grecia non può più» rifinanziare sul mercato il suo debito pubblico» ha annunciato il ministro delle Finanze, George Papaconstantinou, che ha sottolineato che il deficit di bilancio del 2009, già corretto da Eurostat al 13,6%, potrebbe esser ancora rivisto in peggio, «al 14 per cento del Pil». Il presidente della Banca centrale europea, Trichet, ha certato di stemperare i toni dicendo un default della Grecia o dell’eurozona «è
Io, maschio, posso difendere il femminismo?
di Gabriella Mecucci
Marco Palombi • pagina 6
ROMA. La crisi economica greca si ag-
Nel dibattito aperto dalla Tamaro sono intervenute solo donne
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
in corso da qualche settimana un dibattito sul bilancio del “femminismo”, dibattito aperto sul Corriere della Sera da Susanna Tamaro: di quel movimento che con radici lontane ha attraverso tutta l’Italia tra gli anni Sessanta e gli Ottanta, la scrittrice sottolineava più le ombre e i costi umani che i meriti e i benefici. E su questa provocazione si sono esercitate in tante su tutte le testate quotidiane. E tutte le voci più origi- È vero nali ed autore- che oggi voli dell’«altra trionfa metà del cielo» il velinismo: si sono espresse al riguardo, ma le tradendo quasi battaglie sempre l’acuta principali nostalgia per sono già l’antica stagione di lotta e in- state vinte sieme la malinconia per lo spegnersi del movimento accanto alla diffusa sensazione di aver in sostanza fallito gli ambiziosi obiettivi di un tempo. Si può aggiungere che da tutti gli interventi, senza eccezione, traspariva comunque un senso di sconfitta come di chi ha quasi inutilmente logorato gli anni. segue a pagina 11
È
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 28 aprile 2010
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Tra centro e periferia. Le Regioni oggi da Calderoli con una loro controproposta per ottenere più poteri sull’assegnazione dei cespiti
Federalismo on the beach Il governo vuole cedere ai Comuni i beni del demanio. Ossia: ciò che è di tutti diventa di pochi. E non garantisce più il debito pubblico di Francesco Pacifico
ROMA. Luca Zaia è convinto che «la chiusura della partita sul federalismo demaniale si avrà entro l’estate». Peccato che gli altri suoi colleghi governatori, compresi quelli di centrodestra, siano di opinione diversa. Prima sono arrivati i timori per l’impatto sugli incassi dell’Erario con relativi ripercussioni sul debito pubblico espressi dall’ufficio studi della Camera. Quindi è toccato al presidente dell’Agenzia del Demanio, Maurizio Prato, mettere in guardia sull’esito delle dismissioni in corso. Ma ora Roberto Calderoli dovrà fare i conti con un fronte non meno complesso: quello dei governatori. Roberto Formigoni come Vasco Errani, Stefano Caldoro come Nichi Vendola sono pronti a vincolare il via libera al primo decreto attuativo sul federalismo (è atteso per domani dalla Conferenza StatoRegioni) all’accettazione di non poche modifiche.
Questa mattina il presidente della Conferenza delle Regioni, l’emiliano Errani, presenterà il conto al ministro per la Semplificazione. Un testo articolato per intervenire su due aspetti previsti dall’articolo 19 della delega sul federalismo fiscale: un trasferimento di personale e risorse adeguato che vada di pari passo a quello dei cespisti, pieni poteri alle Regioni per governare questo processo e decidere quali beni devolvere e a quali enti girarne la titolarità. È proprio quest’ultimo il nodo principale da sciogliere. E non soltanto perché il patrimonio demaniale dello Stato, valutato tra i 4 e i 5 miliardi di euro ma per il 60 per cento non valorizzabile, può rivelarsi un affare come un boomerang. Senza dimenticare che in futuro i trasferimenti verso gli enti locali saranno rimodulati (e ridotti) in base ai beni devoluti, tenendo conto anche dei mancati introiti (soprattutto in termini di canoni di locazione) registrati a livello centrale. L’articolo 19 della delega sul federalismo fiscale
Tutti i dubbi che suscita una riforma che sempre di più sembra solo un’operazione politica
Quante sorprese, quando si passa dal mito alla realtà di Giancristiano Desiderio segue dalla prima
Infatti, finalmente le intenzioni cominciano a toccare terra e si può capire cosa va e cosa non va. Il primo esempio reale riguarda il demanio dello Stato. Cosa cambia con il federalismo fiscale? Il demanio passa dallo Stato ai Comuni. E quali sono le conseguenze? La prima conseguenza è una perdita secca per il bilancio statale che con le proprietà demaniali copre uno spicchio, neanche troppo piccolo, del grande e sempre incombente debito pubblico. Il demanio statale, in sostanza, funge da garanzia, ma se sarà trasferito agli enti locali il debito pubblico avrà un ulteriore aggravio dei conti. Gli economisti di fede federalista e il ministro Tremonti diranno che nulla è destinato a cambiare, ma le ana-
degli enti locali e dei comuni. Quale sarà l’uso che i comuni faranno delle proprietà che una volta andavano sotto la denominazione di demanio dello Stato? Ecco, questa è una domanda che in un prossimo futuro verrebbe a perdere persino il suo senso e la sua legittimità. Gli enti locali e i comuni, infatti, una volta entrati in possesso degli ex beni dello Stato non dovranno più dar conto di ciò che faranno di quel bene. Eppure, fino a prova contraria quel tale bene è ora del demanio dello Stato e in quanto tale è inalienabile. La terza conseguenza è la speculazione. Può darsi che il demanio statale abbia in sé un difetto: è improduttivo. Con la sua divisione potrebbe diventare una gallina da uova d’oro perché gli enti e i comuni potrebbero metterlo finalmente a frutto. Ma questa è solo l’ipotesi positiva. C’è anche l’ipotesi negativa: la speculazione, l’abusivismo, l’esproprio. E’ un cattivo pensiero, è però risaputo che a pensare male si fa
La questione di fondo riguarda il Sud. Non è detto che una diversa redistribuzione delle risorse responsabilizzi i dirigenti meridionali spezzando il circolo delle clientele lisi degli economisti e dei politici sui conti pubblici sono un affare che molto spesso sfiora la magia piuttosto che la scienza di Quintino Sella. E’ meglio stare a dei ragionamenti chiari piuttosto che affidarsi alle sottigliezze che dicono ma non spiegano.
La seconda conseguenza riguarda proprio la proprietà (chiedo scusa per la cacofonia). Il demanio statale - terre e immobili - è per sua natura non divisibile perché in quel genitivo “dello Stato”entrano in gioco le proprietà di tutti noi. Con l’attuazione dei decreti federalisti, invece, si divide ciò che non si può dividere e le proprietà del popolo italiano diventano proprietà
peccato ma difficilmente si sbaglia. I comuni che sono a loro volta indebitati potrebbero essere fortemente tentati di far cassa con le ex proprietà demaniali.
Sono, queste tre, solo alcune delle conseguenze che possono nascere da una cessione infelice del demanio statale ai comuni. Come in altre “materie” di importanza nazionale, è bene che anche il demanio dello Stato non cambi il “proprietario”. Altra questione, invece, è quella della messa frutto degli immobili demaniali: ma per far fruttare il demanio, lì dove è effettivamente possibile, non è necessario devolverlo ai comuni, basta concederne l’uso sulla base di un chiaro progetto di investimento. Sul federalismo fiscale c’è ormai una non piccola letteratura critica. In particolare, la questione di fondo riguarda il Mezzogiorno. Ci si chiede: una diversa redistribuzione delle risorse produrrà una responsabilizzazione dei ceti dirigenti meridionali e spezzerà il circolo delle clientele? La letteratura critica, pur con tutta la sua dottrina, non ha una risposta certa. Alla fine il federalismo fiscale è una scommessa. Non sarebbe stato meglio una normale e salutare riforma del sistema fiscale?
parla di «attribuzione a titolo non oneroso ad ogni livello di governo di distinte tipologie di beni, commisurate alle dimensioni territoriali, alle capacità finanziarie ed alle competenze e funzioni effettivamente svolte o esercitate dalle diverse regioni ed enti locali». In questa formulazione le Regioni vedono una mortificazione alle potestà previste dall’articolo 119 della Costituzione. Soprattutto si attendono chiarimenti sui beni del demanio marittimo (spiagge e porti) o del demanio idrico (fiumi e laghi), che pur rientrando per default nel processo di trasferimento, possono essere individuati dallo Stato singolarmente o per gruppi, con il rischio di una loro eccessiva frammentazionte tra diversi enti. Nella proposta che Errani presenterà a Calderoli si prevede un chiaro riconoscimento alle Regioni del ruolo di governo del territorio. Un ruolo «a garanzia dell’intero sistema, tanto in più in un processo che richiederà un forte ruolo di coordinamento, di concentrazione sul territorio e di conoscenza delle realtà territoriali». Forti tutto questo, i governatori sono pronti a «svolgere un ruolo di interlocuzione con lo Stato e di intermediazione fra Stato ed enti locali dei beni in ragione della potestà legislativa necessaria a conferire le funzioni amministrative sul territorio di riferimento». Se Calderoli accettasse la richiesta, i governatori riuscirebbero a far passare il principio che nel trasferimento di funzioni vanno privilegiati i livelli con potestà legislativa (le Regioni, per l’appunto) rispetto a quelli con poteri amministrativi (Comuni e province). Ed è una battaglia trasversale, importante al Sud come al Nord. Al riguardo Beatrice Lorenzin, ospite del “Cenacolo” di Marco Antonellis, ha sottolineato l’importanza della battaglia per il Pdl, «vuoi perché il nostro federalismo porta sui territori le risorse tolte dal Titolo V, vuoi perché noi al Mezzogiorno abbiamo registrato un importante risultato alle regionali».
Chiarita la parte dei diritti si passa a quella più prosaica della remunerazione dei beni trasferiti. Molti commentatori hanno scritto che si rischiano gravi ripercussioni per l’erario dando agli enti locali la possibilità di scegliere – a eccezione dei beni del demanio marittimo e idrico – quali cespiti rifiutare o meno. E non soltanto perché Regioni, Comuni e Province possono dimostrarsi gestori peg-
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«Non si possono regalare a qualcuno dei beni che sono di tutti»
«Una riforma sbagliata, ecco un’altra prova» Per Gian Luca Galletti, il primo decreto attuativo continua a discriminare invece di unire il Paese di Alessandro D’Amato
ROMA. «Se queste sono le basi, si sta avverando il nostro pronostico: con il federalismo fiscale il governo sta sbagliando tutto». Gian Luca Galletti, deputato bolognese dell’Udc, è reduce dall’audizione del ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli presso la commissione bicamerale per l’Attuazione del federalismo, e punta il dito sugli schemi di decreto attuativo del federalismo demaniale. «Tutte le preoccupazioni che avevamo fatto emergere quando si votò per la legge delega si stanno realizzando, e lo dico con preoccupazione», aggiunge Galletti. Il provvedimento che dovrebbe essere varato entro il 21 maggio ha ancora molti problemi irrisolti, anche perché si accumulano ritardi su tutti gli altri decreti attuativi - non ancora esaminati - che la legge 42 prevede debbano essere approvati appunto entro il 21 maggio del 2011 e quindi presentati entro il prossimo dicembre.
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I beni demaniali che il governo intende trasferire ai Comuni sono spesso spiagge o fari o ex caserme. A destra, Gian Luca Galletti. Nella pagina a fianco, il ministro Roberto Calderoli giori dello Stato centrale. Alberto Zanardi, tributarista dell’università di Bologna, ha scritto sulla Voce.info: «Il fatto che gli enti decentrati possano liberamente scegliere cosa vedersi attribuito a partire dall’elenco statale li porterà naturalmente a selezionare solo quei beni su cui esistono più solide prospettive di valorizzazione. Di converso, rimarrebbero allo Stato gli immobili che per le loro caratteristiche di “bene pubblico” possono con maggiore difficoltà essere messi a reddito». Qualche giorno fa il servizio studi della Camera ha detto che c’è il rischio di far ridurre l’attivo patrimoniale statale e, di conseguenza, far «affievolire gli strumenti di garanzia dello Stato». È difficile dire con certezza se è una garanzia per i possessori del nostro debito un demanio pubblico non valorizzabile per il 60 per cento del totale. Mentre sono chiari i diversi obblighi tra il centro e la periferia sul ripianamento del passivo: soltanto lo Stato, e non gli enti locali, ha l’obbligo di utilizzare in questo modo gli incassi derivanti dalla valorizzazione del demanio.
Per superare questo ostacolo il ministro Calderoli ha dato mandato ai suoi tecnici di studiare meccanismi che spingano Comuni, Province e Regioni a utilizzare parte dei proventi dalla vendita di
caserme e carceri in disuso per sanare il debito pubblico locale. Ma è facile pensare che di fronte a questo scenario gli enti chiederanno un ulteriore risarcimento. Nel testo che presenteranno questa mattina i governatori chiedono che, in nome del principio della “non onerosità dell’attribuzione”, arrivi «una parziale sterilizzazione delle spese relative ai beni trasferiti ai fini del patto di stabilità». Quindi, tenendo conto che non sempre i beni demaniali sono in regola con le normative urbanistiche, si guarda anche a «una compensazione ulteriore all’ente destinatario del bene per far fronte agli adeguamenti di legge e la deroga al rispetto della normativa senza sanzioni per un periodo definito da una programmazione per la messa a norma dei beni». Senza dimentica che una settimana fa la Conferenza delle Regioni ha chiesto chiarimenti sulle strutture tecniche e il personale sul territorio che finora hanno gestito i beni demaniali. Tanto da chiedere l’istituzione di un’apposita agenzia da finanziare a livello centrale. Non a caso ieri Calderoli ieri ha mandato un duro monito alle Regioni: «Il federalismo demaniale non può rappresentare uno strumento di blocco o di ricatto rispetto ad altri provvedimenti, non puo’ essere il paravento rispetto all’Ici o al patto per la Salute».
dovranno assumere altro personale per gestire quello che decideranno di non alienare. Un’assurdità. Ma l’errore è di principio». Ovvero? «Ovvero, quello che sta facendo il governo è proprio cronologicamente errato, sono sbagliati i tempi. L’esecutivo sta destinando un numero finito di risorse, senza preoccuparsi del fabbisogno di ciascun ente; prima invece bisognava definire il fabbisogno, e poi eventualmente dare le risorse con l’attenzione ai livelli minimi di sussistenza. Questo non accadrà, e ne pagheremo le conseguenze». Il neo-governatore del Veneto, il leghista Zaia, ha detto invece che con il federalismo demaniale si sta restituendo il maltolto ai territori. «Non sono d’accordo, in questo modo rischiamo soltanto di alimentare scontri tra comuni e Stato. I provvedimenti confusi non aiutano il federalismo, e il governo dovrebbe ascoltare l’Udc: la nostra disponibilità a collaborare in questa fase è intatta, ma che ci ascoltino».
Credo che l’iter generale non sarà completato prima della fine della legislatura. Sia a causa dei tanti nodi tecnici sia a causa di quelli politici
«Stiamo dando la possibilità ai Comuni di vendere il patrimonio per ripianare i propri debiti e fare cassa, e basta». In un’ottica da Ultimi giorni di Pompei, senza preoccuparsi delle eventuali conseguenze. «Peggio. Qui non si stanno seguendo alcuni elementari principi che sono assolutamente necessari per evitare di commettere un errore i cui effetti pagheremo per anni». Ad esempio? «Ad esempio, l’alienazione del patrimonio dei Comuni non si può effettuare senza che sia rispettato il principio della perequazione: quel patrimonio che gli enti vanno ad alienare non è appannaggio loro e basta, ma di tutti; quindi il ricavato non può soltanto essere destinato alle comunità locali, ma è necessario che sia utilizzato per ridurre il debito comunale e anche quello statale. Le generazioni future, e stiamo parlando di tutti i cittadini, non possono continuare a pagare per gli indebitamenti delle attuali. E parte del patrimonio statale, che appartiene a tutti, deve avere anche quella destinazione». Ma Calderoli dice che comunque i costi sono destinati ad essere compensati. «Nel federalismo fiscale che la maggioranza sta per approvare le entrate sono, per definizione, finite, mentre i costi sono infiniti. Lo schema prevede che vengano trasferiti i beni ma non il personale, e questo non può non significare un aumento dei costi a carico dello Stato e degli stessi comuni». Perché gli impiegati rimarranno a carico del governo di Roma? «Esatto. E in più gli enti
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Secondo la Polverini, invece, «le Regioni devono mantenere un ruolo centrale in tutto quello che sarà il percorso del federalismo e dei decreti attuativi». E in generale le Regioni sembrano piuttosto critiche sulla questione del federalismo demaniale. Succede perché si stanno offrendo troppe risorse ad enti “concorrenti”, come i Comuni? «No, penso semplicemente che i presidenti si rendano conto degli errori che si stanno commettendo in questa fase». Il ministro Calderoli ha affermato che i tempi saranno inevitabilmente dilatati, e aveva ragione Tremonti quando pronosticava un tempo maggiore rispetto a un anno per varare i decreti attuativi. Secondo lei, quale sarà la dead line del provvedimento? «Credo che l’iter non sarà completato prima della fine della legislatura». Più a causa dei nodi tecnici o a causa di quelli politici? «Per entrambe le cose, ma quelli politici sembrano di più difficile soluzioni». Per Calderoli, c’è sempre stata la volontà di affrontare i problemi in termini di garanzia per la coesione sociale. Il ministro ritiene che l’aver abbandonato il principio del posto storico rappresenti un meccanismo perequativo ma anche di coesione sociale. «Ma finché non arriveremo a una determinazione precisa dei costi standard, il problema rimarrà comunque aperto».
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l’approfondimento
Conti. Vediamo quali sono le contraddizioni (economiche, oltre che politiche) del primo decreto attuativo
Federalismo, basta la parola? I ricavi ai Comuni e i debiti allo Stato: sembra proprio questo il senso della proposta leghista di trasferire agli enti locali i beni del demanio. Ecco perché così si rischia di indebolire le coperture del deficit e di creare nuovi carrozzoni burocratici di Carlo Lottieri a fervida fantasia dei politici italiani conia ogni giorno termini e concetti del tutto nuovi, sulla cui ragionevolezza è però legittimo esprimere più di una perplessità. L’ultima di queste bizzarre creature è il cosiddetto “federalismo demaniale”, un oggetto assai misterioso per quanti studiano la teoria federale: basti dire che si tratta di un’espressione intraducibile in altre lingue, ma che da noi è stata utilizzata a indicare il semplice trasferimento di molti beni pubblici dal centro alla periferia. Un’idea di per sé non sbagliata, ma che va esaminata un poco meglio nei suoi dettagli. Il punto forte del progetto sta nella cattiva gestione di tali capitali immobiliari da parte dello Stato. È ovvio che se a Molfetta o ad Alessandria vi sono stabili o terreni, caserme o miniere che dipendono da questo o quel ministero, sarebbe irragionevole immaginarsi una buona cura di tutto ciò. Se ciò che è comunale è spesso malgestito, ciò che è statale lo è quasi sempre.Viaggiando lungo le strade italiane, d’altra parte, è facile incontrare molte vecchie case cantoniere in totale dissesto: un patrimonio dell’Anas letteralmente corroso dal tempo e dall’incuria, e di cui tale agenzia farebbe bene a disfarsi. Di beni analoghi lo Stato ne ha moltissimi
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e spesso si tratta di risorse potenzialmente molto interessanti, ma poco sfruttate e ancor meno valorizzate.
L’argomento della Lega, che più di ogni altra forza si batte per questo trasferimento dallo Stato ai comuni, è proprio che tali capitali (per lo più immobiliari) possono essere meglio amministrati una volta consegnati a realtà più vicine alla gente. E questo è certamente un buon argomento. Vi è però un’obiezione molto seria, la quale non va fatta cadere. L’Italia è un Paese con un debito pubblico mostruoso, e nonostante quanto va affermando il ministro Giulio Tremonti vi sono serissimi rischi che il disastro della Grecia – un dissesto senza vere via d’uscita, come ha mostrato Mario Seminerio in un suo intervento sul sito Libertiamo – possa presto avere ripercussioni anche sugli altri anelli deboli dell’Unione europea: il Portogallo, la Spagna, l’Italia stessa. Togliere allo Stato centrale i beni demaniali senza immaginare alcuna compensazione significa quindi rinunciare al potenziale introito che potrebbe derivare da una loro privatizzazione. Vendere tali beni, insomma, aiuterebbe a iniziare quella necessaria riduzione del fabbisogno di Bot e Cct che è condizione essenziale a
evitare il dissesto dell’economia italiana e ad allontanare il “rischio Argentina”. Che fare, allora? Una via d’uscita potrebbe consistere nella proposta di attribuire questi beni demaniali agli enti locali, ma in cambio dell’accettazione di una adeguata quota (proporzionale al valore del demanio stesso) del debito pubblico. Se la tal Regione o il tal Comune intendono acquisire una caserma piena di erbacce e usata come bivacco da strani frequentatori, possono farlo e può anche essere una scelta sensata. È però opportuno che chi ottiene tale bene non lo riceva in dono, ma lo faccio in cambio di un adeguato corrispettivo debitorio. In altre parole, l’ente locale ottiene un pezzo di demanio, ma anche una parte del debito. Ovviamente, questo duplice trasferimento deve avvenire sulla base di un patto molto chiaro, che sia liberamente sottoscritto da entrambe le parti (Stato ed ente locale) e abbia luogo seguendo regole ben precise. È insomma necessario che lo Stato non figuri quale garante di ultima istanza di fronte a ogni debito e che quindi gli enti locali siano compiutamente responsabilizzati in rapporto alle loro scelte. Comuni e Regioni devono essere liberi di indebitarsi, se lo vogliono, ma sapendo che qualora fossero insolventi
non riceveranno il minimo aiuto da Roma.
In altri termini, il duplice trasferimento di debito e beni deve
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La crisi continua a pesare molto, malgrado la sua credibilità internazionale resti alta
«Le famiglie salvano l’Italia, altro che il governo!»
«Per i mercati, i risparmi privati garantiscono il debito pubblico più delle alchimie sul deficit», dice l’economista Alessandro De Nicola di Gabriella Mecucci
ROMA. La Germania ha stoppato il piano di salvataggio della Grecia, Atene vive una situazione drammatica, ma anche a Lisbona e a Madrid si teme l’effetto contagio. Roma non è proprio sulla linea del fuoco, ma non può dormire sonni tranquilli. In questa situazione, con uno dei debiti più alti de mondo, la Lega vorrebbe passare i beni del demanio ai Comuni. Non è proprio una misura prudente. Alessandro De Nicola, economista di ispirazione liberale, non teme però «un collasso come quello greco». E aggiunge: «Se il crollo è probabilmente escluso, questo non vuol dire che non corriamo gravi rischi, su tutti quello del declino. Non ci aspetta il tonfo sul baratro, ma potrebbe verificarsi scivolamento più lento verso il basso». Professore, lei esclude il collasso. Ma il nostro debito pubblico non è molto più leggero di quello greco? È vero. Ma il prpblema che ha portato al crollo di Atene non è stata solo l’entità del debito, ma la mancanza totale di trasparenza. Il governo non ha reso pubblica la situazione di bilancio, anzi l’ha occultata. Così facendo, Atene è diventata non credibile agli occhi dei mercati. La totale perdita di fiducia, la fuga degli investitori e degli acquirenti di bond e la crescita a ritmi elevati del deficit annuale pubblico hanno provocato il collasso. La Germania ha bloccato l’attuazione delle misure di salvataggio per Atene... Le ha subordibnate – e ha ragione – ad un piano credibile di uscita dalla crisi. Già, come ne escono? È molto difficile, perché occorre dar vita a un piano equlibrato. Se, ad esempio, ammesso che sia sostenibile politicamente e socialmente, i greci dimezzassero le pensioni, il primo anno probabilmente avrebbero una forte riduzione del deficit di bilancio, ma l’anno successivo si verificherebbe una pesante riduzione dei consumi e quindi delle entrate pubbliche. Il governo deve quindi muoversi con accortezza: tagliare la spesa in modo consistente, ma senza esagerare. Mentre in questa situazione è assolutamente sconsigliato agire sulle entrate tagliando le tasse. E l’effetto contagio? Non credo nel contagio, penso che ciascuno si scelga il proprio destino. Il Portogallo e la Spagna, che sono i due paesi più a rischio, non importano il collasso dalla Grecia. Lo rischiano però se non riescono a mantenere la fiducia dei mercati. E
questo dipende dalla politica che i loro rispettivi governi faranno. L’esistenza della moneta comune e di un’unica politica monetaria non può favorire il contagio? No, non è l’euro che dobbiamo temere, ma la nostra incapacità. Ma l’Italia non sta meglio di Spaggna e Portogallo? Guardi che se doverssimo far riferimento a un indicatore peraltro molto importante come il rapporto fra deficit e Pil, la Spagna sta meglio di noi. In Italia infatti il rapporto è del 120 per cento, mentre in Spagna è del 53 per cento. Meno della metà. Eppure Madrid rischia parecchio più di noi. Perché? Il problema è sempre quello della
Gli spagnoli invece risparmiano meno e la spesa pubblica è cresciuta di più. Risultato: i mercati credono nella loro ripresa meno che nella nostra. Comprano più volentieri i nostri bond risapetto ai loro. E quindi rischiano più di noi. Attraverso il «federalismo demaniale», la Lega vorrebbe passare i beni del Demanio ai Comuni: non le sembra azzartdato fare una simile cosa quando si è ancora nell’occhio della crisi? Quei beni sono infatti una copertura del debito pubblico che è gigantesco. Il problema non è questo. La copertura – come ho già detto – sono i risparmi delle famiglie. Quanto al debito pubblico, è vero che è enorme, ma la questione importante è la fi-
«Prendiamo due persone: una ha molti debiti e un’attività, l’altra ne ha pochi ma non ha lavoro: ebbene, il mercato si fida della prima» fiducia dei mercati. La Spagna ne ha meno perché il suo sviluppo è fortemente basato sul settore delle costruzioni che non possono riprendere nel breve periodo. Il deficit di Madrid è cresciuto in modo molto forte: dell’11 percento in un anno. Roma invece ha avuto un rallentamento nella crescita delle perdite annuali e si scommette sul fatto che ha un sistema industriale meglio attrezzato per riprendersi. Se esistono due persone e di queste una ha un milione di euro di debiti, ma è un bravo medico magari proprietario di una clinica privata e l’altra ha solo mezzo milione di debito, ma è disoccupata, il mercato si fida più della prima che della seconda. Chi rappresenta la clinica privata dell’Italia? Il risparmio delle famiglie: quelle italiane sono come le formiche. È questa la nostra salvezza vera. Poi, occorre aggiungere che il nostro deficit è progredito più lentamente.
ducia dei mercati.Il Giappone, ad esempio ha un debito pubblico molto più grande del nostro: raggiunge il 200 per cento del Pil. Eppure nessuno si sogna di temere il crollo nipponico. L’Italia quindi può stare tranquilla? Non ho detto questo. Il nostro debito pubblico deve essere abbattuto. La nostra economia stenta a riprendere. Ma noi non rischiamo il collasso, piuttosto rischiamo il declino. Non cadremo sul baratro, ma il pericolo è che slittiamo lentamente verso il basso. E che dovremmo fare per fermare questo scivolamento? Esattamente ciò che il governo, sebbene da più parti sollecitato, si ostina a non fare. E cioè: riforma delle pensioni, tagli alla sanità, abolizione delle Province... Che cosa aspettiamo a realzzare queste riforme? Se non ci muoveremo, la colpa del declino non sarà degli altri, ma solo nostra.
avere luogo solo dopo aver messo nero su bianco che mai più si avranno salvataggi come quelli (vergognosi) che di recente hanno interessato i comuni di Roma e Catania. Chi in futuro s’indebiterà e non saprà far fronte ai propri impegni, dovrà fare esattamente come fa ogni privato che si trovi in questa situazione: dovrà vendere ciò che ha, ridurre le spese, offrire vere garanzie. Il sindaco di Roma poteva ad esempio cedere quote di Acea, invece che mettere le mani in tasca ai contribuenti di tutta Italia. È evidente che da nessuna parte del mondo è facile incontrare un ente locale che fallisce: può succedere, ma in circostanze assai peculiari. Come hanno scritto Massimo Bordignon e Gilberto Turati, perfino negli Stati Uniti «i vincoli legislativi relativi al fallimento degli enti locali sono più restrittivi che nel caso delle imprese private, o sono così interpretati dalla giurisprudenza». Ma questo non significa che un’amministrazione non sia chiamata a fare tutto il possibile per raddrizzare con le proprie forze e risorse una situazione compromessa. In qualche modo, la vicenda di questo assai bizzarro “federalismo demaniale”obbliga a capire se il federalismo che s’intende costruire è un federalismo vero, oppure se la Lega intende espandere anche al Nord le logiche assistenziali che già hanno massacrato l’economia (e la società) del Mezzogiorno. Perché se lo Stato regala pezzi di demanio alle Regioni e/o continua a rappresentare l’ufficiale pagatore che corre in soccorso di amministratori incapaci, si potrà pure anche usare la parola federalismo, ma si sta soltanto imbrogliando la gente. Come ebbe a dire Milton Friedman, «nessun pasto è gratis». E non devono esserlo neppure le spiagge e le caserme che lo Stato intende trasferire alla periferia.
Va anche aggiunto, e la cosa è interessante, che neppure le Regioni sembrano entusiaste del progetto governativo. Nei giorni scorsi, al termine della prima conferenza delle Regioni che ha fatto seguito all’ultima tornata elettorale, il governatore della Basilicata Vito De Filippo ha sottolineato che le Regioni «non condividono molti punti del decreto legislativo del federalismo demaniale» e che «ci sono elementi di difficoltà per la concreta applicazione del testo». Si dirà: De Filippo è di sinistra. Ma identica perplessità ha espresso l’assessore al Bilancio lombardo, Romano Colozzi, che ha evidenziato come manchi chiarezza, ad esempio, sul destino dei dipendenti che fino ad oggi hanno gestito molti di quei beni statali. Le Regioni non appaiono contente, e lo si comprende, di vederli finire sul loro groppone. Qui emerge un altro punto cruciale. Se lo Stato vuole cedere alle Regioni taluni beni, tutto ciò deve avvenire con il consenso delle Regioni stesse e non con un atto d’imperio. Ancora una volta, sarebbe curioso se il termine “federalismo”venisse qui usato per scaricare sulla periferia una serie di carrozzoni che Roma non vuole più: nella più pura logica centralista. Spesso si sente dire che il federalismo può essere la soluzione di moltissimi problemi italiani. È vero, poiché esso comporta più responsabilità e più concorrenza istituzionale. Ma le scelte in direzione del federalismo devono essere veramente tali, perché non basta appiccare l’aggettivo “federale” a qualunque nefandezza per salvarsi l’anima nella convinzione di avere pure fatto il bene dell’Italia.
diario
pagina 6 • 28 aprile 2010
Equilibri. Il Presidente ha ricevuto ieri al Quirinale le giovani toghe: «Prevalga una comune responsabilità istituzionale»
«I magistrati facciano autocritica» L’appello di Napolitano per una nuova era di rispetto tra politica e giustizia ROMA. Il 14 aprile Napolitano aveva dato un grosso dispiacere a Berlusconi: nel tardo pomeriggio il presidente della Repubblica aveva fatto sapere di aver convocato le elezioni per il rinnovo del Consiglio superiore della magistratura per il 4 e 5 luglio prossimi. Uno sgarbo, per così dire, arrivato mentre sul tavolo di Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa ma anche capo del gabinetto legislativo del Guardasigilli Alfano, si studiava la possibilità di prorogare per decreto (più o meno di un anno) l’attuale Csm e procedere a una riforma della legge elettorale dell’organo di autogoverno delle toghe. Le linee individuate dai fedelissimi del Cavaliere per un Consiglio più allineato col governo erano in sostanza due: procedere all’elezione per sorteggio tra tutti i magistrati in servizio o aumentare a dismisura la quota di membri laici eletti dal Parlamento. Niente di particolarmente difficile visto che per farlo basta una legge ordinaria. Non solo. Palazzo Chigi pensava di aver avuto un sostanziale via libera dal Quirinale. Poi, due settimane fa, la doccia fredda: dal colle più alto fecero sapere che l’unico precedente (una proroga nel 1985 dovuta alla parziale bocciatura del dispositivo elettorale da parte della Consulta) non bastava a garantire i presupposti di necessità e urgenza al decreto. Ieri, col suo discorso ai nuovi uditori giudiziari, il capo dello Stato ha voluto dare una carezza al centrodestra: il ruolo della magistratura non è in discussione e «nessuna ombra può svilirlo», ha detto in sostanza Napolitano, ma le toghe devono fare tutto il possibile per non farsi ritenere parte in causa in una guerra con la politica. Chi amministra giustizia in nome
spetto della dignità della persona. Fate attenzione a non cedere a esposizioni mediatiche o a sentirvi investiti di missioni improprie ed esorbitanti oppure ancora a indulgere ad atteggiamenti impropriamente protagonistici e personalistici che possono offuscare e mettere in discussione la imparzialità dei singoli magistrati, dell’ufficio giudiziario cui appartengono, della magistratura in generale».
di Marco Palombi
del popolo italiano, dice il Quirinale, deve essere al di sopra di qualunque sospetto. Pur sobrio nella sostanza, il linguaggio del presidente ieri pareva studiato apposta per solleticare le opinioni di una buona parte del centrodestra: ne facciano fede, per tutte, le parole di miele dedicate al capo dello Stato da Daniele Capezzone e Michele Saponara, membro del Csm in quota Forza Italia.
Politica e giustizia, ha detto il presidente della Repubblica ai 298 vincitori dell’ultimo concorso in magistratura, «non possono e non debbono percepirsi come
mondi ostili guidati dal reciproco sospetto», ma farsi guidare dal «senso della misura, del rispetto e, infine, della comune responsabilità istituzionale». Pur nella consueta sobrietà di stile, Napolitano ha detto tutto quel che doveva: esiste un «problema di crisi di fiducia» verso le toghe «insorta nel Paese sia per il funzionamento insoddisfacente dell’amministrazione della giustizia sia per l’incrinarsi dell’immagine e del prestigio della magistratura». Per questo «occorre adoperarsi per
recuperare l’apprezzamento e il sostegno dei cittadini. E a tal fine la magistratura non può sottrarsi a una seria riflessione critica su se stessa, ma deve proporsi le necessarie autocorrezioni, rifuggendo da visioni autoreferenziali». Insomma, nessuno può sottrarsi al confronto sulla strada della prossima riforma della giustizia annunciata dal governo: «Vanno individuate strategie di intervento condivise che siano frutto di un confronto anche acceso ma costruttivo e che non risentano di un atteggiamento pregiudizialmente conflittuale». Nella pratica di tribunale, ha ammonito poi Napolitano, «sappiate accompagnare il ricorso alle vostre competenze giuridiche e il necessario scrupolo nell’applicazione delle norme con un profondo ri-
Ultimo ma non ultimo, il capo dello Stato ha dato il suo avallo a un’innovativa risoluzione della VI commissione del Csm (oggi dovrebbe essere esaminata dal plenum) che propone al Guardasigilli, e tramite lui al Parlamento, di vietare ai magistrati di ricoprire contemporaneamente ruoli politici o di candidarsi in circoscrizioni in cui hanno esercitato le loro funzioni. Basta, in sostanza, con casi come quello di Lorenzo Nicastro, eletto alle ultime Regionali in Puglia con Italia dei valori. La risoluzione, però, si spinge anche più in là e chiede al Csm «una riflessione» sulle candidature di magistrati alle Camere per verificare se le attuali regole sono «adeguate a garantire il corretto equilibrio» tra i diritti politici del magistrato e la «salvaguardia dell’immagine d’indipendenza e la credibilità della magistratura». Ieri poi, per non farsi mancare niente, Fini ha incontrato i vertici dell’Anm a Montecitorio. Secondo fonti parlamentari, il presidente della Camera avrebbe garantito al sindacato delle toghe che non accetterà mai una riforma costituzionale della giustizia in cui il pm sia sotto il controllo dell’esecutivo, ma anche spiegato che la divisione delle carriere è la linea ufficiale del centrodestra, lui compreso.
diario
28 aprile 2010 • pagina 7
Una normativa più restrittiva del garante della Privacy
Il cordoglio della politica per uno dei padri costituenti
Cambiano le regole per i controlli in video
Si è spento a Padova l’ex ministro dc Luigi Gui
ROMA. Cambiano le regole dei
PADOVA. È scomparso lunedì sera nella sua casa di Padova, l’ex ministro democristiano Luigi Gui. Nato nella città veneta il 26 settembre 1914, padre costituente, figura di spicco della Dc a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, Gui fu titolare del dicastero della Pubblica istruzione negli anni ’60, per poi essere chiamato alla guida della Difesa. Successivamente fu ministro della Sanità, e dal 1974 al 1976 ministro degli Interni del quarto governo Moro, che proprio in difesa di Gui pronunciò la famosa frase «Non ci faremo processare nelle piazze» al tempo dell’affaire Lockheed. L’ex ministro dc fu accusato nel 1976 di essere coinvolto nello scandalo,
sistemi di videosorveglianza per consentire una maggior tutela della privacy. Vediamo quali sono: 1) Sistemi integrati di videosorveglianza solo nel rispetto di specifiche garanzie per la libertà delle persone. 2) Appositi cartelli per segnalare la presenza di telecamere collegate con le sale operative delle forze di polizia. 3) Obbligo di sottoporre alla verifica del Garante privacy, prima della loro attivazione, i sistemi che presentino rischi per i diritti e le libertà fondamentali delle persone, come i sistemi tecnologicamente avanzati o ”intelligenti”. 4) Conservazione a tempo delle immagini registrate. 5) Rigorose misure di sicurezza a protezione delle immagini e contro accessi non autorizzati. Sono i cinque punti che l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali impone ai ”soggetti pubblici e privati” che intendono installare telecamere e sistemi di videosorveglianza.
Il periodo per adeguarsi è fissato, a seconda degli adempimenti, da un minimo di sei mesi ad un massimo di un anno. Il provvedimento generale, che sostituisce quello del 2004 spiega il Garante - si è reso «necessario non solo alla luce dell’aumento massiccio di sistemi di videosorveglianza per diver-
Grecia: giù il rating, crollano le Borse Vertice straordinario dell’Eurozona il 10 maggio di Gualtiero Lami
ROMA. La crisi economica greca si aggrava drammaticamente. «La Grecia non può più» rifinanziare sul mercato il suo debito pubblico» ha annunciato il ministro delle Finanze, George Papaconstantinou, che ha sottolineato che il deficit di bilancio del 2009, già corretto da Eurostat al 13,6%, potrebbe esser ancora rivisto in peggio, «al 14 per cento del Pil». Il presidente della Banca centrale europea, Jean Claude Trichet, non ha voluto commentare l’andamento dei negoziati tra il governo di Atene e Bruxelles, ma ha spiegato che a suo parere un default della Grecia o dell’eurozona «è fuori questione». I segnali che inducono al pessimismo, tuttavia, non mancano, a partire al declassamento al livello «junk», ossia spazzatura, del rating greco da parte di Standard and Poors. Per il prossimo 10 maggio, intanto, è stato inoltre convocato un vertice straordinario dei governi dell’Eurozona che avrà all’ordine del giorno la definizione di politiche di aiuto per la Grecia. Un’altra data fatidica è quella che desta le maggiori preoccupazioni ad Atene ed è quella del 19 maggio, quando andranno a scadenza 9 miliardi di euro di titoli di Stato. Per quella data sarà necessario reperire fondi che il governo greco «non può più» prendere a prestito sul mercato. In questa situazione la Grecia «non è aiutata dall’Europa», ha sottolineato il ministro Papaconstantinou secondo cui «manca chiarezza» sugli aiuti che sono stati richiesti. Martedì i rendimenti sui titoli di stato greci segnano nuovi massimi, oltre il 9,5 per cento, mentre la Borsa di Atene è arrivata a perdere oltre il 6 per cento. Intanto, la Banca centrale di Atene paventa che per l’anno in corso la recessione potrà essere maggiore della contrazione del 2% prevista finora: una «riduzione» del prodotto interno lordo «maggiore» di quella calcolata «è molto probabile alle condizioni attuali, caratterizzate da un alto livello di incertezza», ha affermato il governatore della Banca di Grecia, Georges Provopoulos, spiegando che il calo del Pil è avvenuto
principalmente «a causa del forte crollo degli investimenti, ma anche dei consumi privati e delle esportazioni».
Nel frattempo, la crisi greca minaccia seriamente di estendersi all’Europa meridionale: Standard and Poor’s, una delle principali agenzie di rating, ha declassato il rating del Portogallo per il modo in cui sta gestendo l’elevato debito pubblico e la situazione debole dell’economia. Il rating è stato ora abbassato di due note ed è passato a «A-» da «A+», in pratica quattro note sopra il cosiddetto livello «spazzatura» («junk»). L’outlook sulle prospettive del debito portoghese è negativo. Il rating sovrano della Grecia, cine detti, è invece finito già a livello «junk». Il rating è stato tagliato di tre note a «BB+». L’outlook resta negativo, il che significa che il rating potrebbe essere ulteriormente declassato. Inevitabili le conseguenze sui mercati finanziari. A risentire maggiormente del crollo di Atene è stato il Portogallo, naturalmente, ma anche la Spagna dove il tasso di disoccupazione ha superato a marzo la soglia psicologica del 20%. La Borsa di Madrid è scivolata del 4,19%, mentre quella di Lisbona è sprofondata del 5,3%. Chiusura in profondo rosso anche per Milano (-3,1%), Parigi (-3,82%), Francoforte (-2,73%) e Londra (-2,61%). Quella di oggi, dunque, si preannuncia come una giornata fondamentale per il cancelliere tedesco Angela Merkel, che sarà impegnata in una serie di vertici sulla Grecia fino al tardo pomeriggio. Secondo quanto scrive l’agenzia stampa Dpa, che cita fonti del governo, la Merkel terrà un primo incontro con alcuni ministri dell’esecutivo, tra i quali i ministri del Cancellierato, Ronald Pofalla (Cdu), degli Esteri, Guido Westerwelle (Fdp) e delle Finanze, Wolfgang Schaeuble (Cdu). Lo stesso ministro delle Finanze, intanto, sta lavorando «in modo febbrile» - secondo la Dpa - a un disegno di legge per sbloccare il piano di aiuti alla Grecia, possibilità avversata.
Standard & Poor’s declassa anche il debito di Spagna e Portogallo. E intanto peggiora il deficit di Atene
se finalità (prevenzione accertamento e repressione dei reati, sicurezza pubblica, tutela della proprietà privata, controllo stradale etc.), ma anche in considerazione dei numerosi interventi legislativi adottati in materia: tra questi, quelli più recenti che hanno attribuito ai sindaci e ai comuni specifiche competenze in materia di incolumità pubblica e di sicurezza urbana, così come le norme, anche regionali, che hanno incentivato l’uso di telecamere». Il provvedimento, di cui è stato relatore Francesco Pizzetti, in via di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, tiene conto delle osservazioni formulate dal ministero dell’Interno e dall’Anci.
ma fu assolto con formula piena tre anni dopo dalla Corte Costituzionale.
Molteplici le condoglianze che il mondo politico ha porto alla famiglia. Il presidente del Senato, Renato Schifani, ricorda che Gui è stato un «padre costituente che ha ricoperto più volte con impegno e profondo senso dello Stato l’incarico di sottosegretario e di ministro. La sua attività nella vita politica e parlamentare e la dedizione profusa fin da giovane nella diffusione della democrazia rappresentano un esempio per quanti hanno a cuore i valori del progresso civile e morale del Paese». «È stato un grande protagonista della vita politica nazionale e della Democrazia Cristiana di cui ha incarnato i valori più veri», osserva il segretario regionale dell’Udc, Antonio De Poli, «Gui ha rappresentato in sedi diverse e con grande competenza il Veneto e la sua gente, dall’Assemblea costituente ai diversi Ministeri dell’Interno, della Sanità e dell’Istruzione e della Difesa. È stato un esempio per una classe politica e dirigente veneta che si è distinta nel tempo a livello nazionale». I funerali di Gui si terranno domani a Padova.
politica
pagina 8 • 28 aprile 2010
Vittime di guerra. Minoranza pdl già divisa: Bocchino consegna le dimissioni e si ricandida contro Cicchitto, anche Menia in campo
La sfida delle presidenze
Tra meno di un mese i vertici delle commissioni vanno rivotati: quattro finiani a rischio, ma potrebbero sostituirli solo altri ex An di Errico Novi
ROMA. Capannello di finiani
Anche stavolta non ci sareb-
E Italo Bocchino, di fronte a
in Transatlantico. «Attenti alle commissioni», dice uno, «ho guardato con attenzione il regolamento: i presidenti vanno rivotati a due anni esatti di distanza dalla prima elezione, non a due anni e mezzo come si credeva». Vuol dire che è roba di settimane, di giorni ormai: la ghigliottina dovrebbe scattare non più tardi del 25 maggio, calendario parlamentare alla mano. È un serio motivo di allarme, a Montecitorio
be partita e le “ri-votazioni” avrebbero esito inoffensivo, se non si fosse aperta la crisi all’interno del Pdl. A maggior ragione dopo l’ultimatum indirizzato da Silvio Berlusconi, ma anche da Renato Schifani e altri big, allo stesso Fini. Ma se la presidenza della Camera è ben tutelata dalla Costituzione, non altrettanto si può dire per gli altri organismi parlamentari. Sono quattro quelli guidati da uomini vicini all’ex
un quadro così precario, sceglie di giocare d’anticipo: consegna l’annunciata lettera di dimissioni da vicepresidente dei deputati pdl nelle mani del capogruppo Fabrizio Cicchitto. Mossa ambivalente. Da una parte potrebbe disinnescare la carica di ostilità che monta nei suoi confronti persino nel giro finiano. Dall’altra però rischia di creare un precedente: se vale per Bocchino, la logica delle dimissioni potrebbe valere per tutti gli appartenenti alla neonata minoranza. Discorso molto pericoloso in tempi del genere, in cui allo scontro aperto tra i cofondatori corrisponde quello parallelo nelle retrovie. Deve essere per questo che la repentina iniziativa di Bocchino suscita irritazione forte in Menia: letto il testo delle dimissioni, in cui il vicecapogruppo uscente chiede di «contarsi» e perciò si ricandida al posto dello stesso Cicchitto, il sottosegretario triestino rilancia: «A questo punto mi candido anch’io». E infierisce: «Non so quale consenso Bocchino pensi di avere ma non ha certo il mio né quello di molti che con lealtà seguono Fini e con altrettanta lealtà sostengono il governo Berlusconi, senza prestarsi al gioco delle tre carte».
PRESIDENZA DEL GRUPPO Italo Bocchino ha rassegnato ieri le dimissioni da vicecapogruppo del Pdl alla Camera. Secondo l’ex An, dovrà rimettere il mandato anche Fabrizio Cicchitto, che però ribatte: «Non è questo il regolamento»
e a Palazzo Madama. Nelle ultime legislature in effetti non si è mai verificato che il vertice di una commissione non venisse confermato alle “elezioni di medio termine”. Tanto è vero che di queste ultime si ha scarsa cognizione persino tra deputati e senatori, almeno tra quelli di prima nomina. Ora invece il problema c’è e andrà affrontato. Nonostante il disgelo inaugurato da Gianfranco Fini nella riunione con i suoi di lunedì scorso, e nono-
leader di An: oltre a Baldassarri, ci sono Giulia Bongiorno (Giustizia alla Camera), Silvano Moffa (Lavoro, sempre alla Camera) e Cesare Cursi (Industria al Senato). Discorso a parte andrebbe fatto per Fabio Granata, che si trova a essere vicepresidente di un’Antimafia il cui massimo grado spetta a una figura di grande autonomia come Beppe Pisanu. Senza considerare Adolfo Urso, viceministro al Commercio estero, e Roberto Menia, sotto-
COMMISSIONE GIUSTIZIA CAMERA Fedelissima del presidente della Camera, il presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno potrebbe lasciare il posto a un uomo della corrente finiana più moderato come Manlio Contento
stante le parole rasserenanti rivolte da Maurizio Gasparri all’autorevole presidente finiano della commissione Finanze del Senato, Mario Baldassarri.
segretario all’Ambiente, la cui posizione è persino meno garantita delle altre: una loro eventuale destituzione non avrebbe neanche bisogno di una ratifica parlamentare.
È il sintomo dell’insofferenza sempre più diffusa tra gli ex An nei confronti del parlamentare campano. Amedeo Labocetta ha annunciato di «non seguire Fini» perché sono sbagliati non solo «tempi e modi» ma anche gli «uomini scelti». E il riferimento all’animatore di Generazione Italia è esplicito: «Il suo è un ruolo lacerante», sostiene Labocetta. È vero che con la missiva consegnata a Cicchitto, il vicario spiazza un po’ gli avversari dei vari fronti. Dice Carmelo Briguglio: «Nei fatti le dimissioni di Italo sono congelate». In effetti Cicchitto prende tempo. Anche rispetto alle altre due richieste del suo vice: la convocazione dell’assemblea del gruppo e l’incontro con Berlusconi. «Voglio parlare con il premier per avere un chiarimento politico, che faciliti il difficile percorso che il gruppo dovrà fare», scrive tra l’altro Bocchino. La sua ambizione è nota, ma lo è anche la resistenza di molti finiani a riconoscergli il ruolo di avanguardia
COMMISSIONE FINANZE SENATO Il presidente della commissione Finanze Mario Baldassarri potrebbe fare spazio a Mario Ferrara, suo vice, che non è un ex An ma che garantirebbe più equilibrio, essendo vicino a Miccichè
deella corrente. Dissensi interni destinati a crescere proprio a causa il nuovo fronte che dal 20 maggio in poi si aprirà nelle commissioni. «Gli altri incarichi», osserva ancora il superfiniano Briguglio, «dipendono dal confronto tra Berlusconi e Fini. Rappresentano questioni secondarie, che discendono a cascata dall’evolversi della dialettica tra i leader».
Un finiano moderato come Giuseppe Consolo lascia intra-
proccio quasi ghandiano, insomma. Eppure il posizionamento degli aspiranti neo-presidenti pare sia da tempo in corso, nelle quattro commissioni incriminate. Ma al di là delle ambizioni personali, c’è un vincolo insuperabile: se davvero i presidenti finiani fossero sostituiti, sarebbe impossibile farlo con parlamentari che non siano sempre di area An. Naturalmente verrebbero scelti quelli che non hanno seguito il cofondatore. Con un simile criterio,
COMMISSIONE LAVORO CAMERA Il presidente della commissione Lavoro di Montecitorio, Silvano Moffa, potrebbe essere avvicendato da Marcello Taglialatela, già responsabile An dell’ufficio Politiche per il Mezzogiorno
vedere l’atteggiamento con cui i fedelissimi del presidente della Camera si preparano all’eventuale “rimpastino” delle presidenze: «Aspettiamo le decisioni del gruppo e non abbiamo in mente alcuna rivolta. Fini lo ha detto con chiarezza: la nostra non è una posizione di rottura, ci stiamo costituendo come corrente ma pur sempre nell’ambito del Pdl». E poi, dice il deputato della commissione Giustizia, «ci sono tante cose da fare, da discutere insieme: per esempio, è ora che si cominci a mettere in calendario una modifica costituzionale anche per la separazione delle carriere: se procedessimo con legge ordinaria la Consulta ce la boccerebbe di sicuro». Ap-
la rosa dei papabili si restringe molto. Alla Bongiorno potrebbero subentrare Antonino Lo Presti o Manlio Contento: il primo è un ex An rimasto più vicino a La Russa e Gasparri, il secondo ha formato il documento pro-Fini ma è tra le colombe del gruppo. Se fosse sfiduciato Moffa, uno dei pochi titolati a sostituirlo è Marcello Taglialatela, anche lui proveniente da via della Scrofa e non compreso nella lista dei fedelissimi. La posizione di Baldassarri è stata blindata ieri da Gasparri: ma in caso di sorprese l’unico che ha il peso e il prestigio per avvicendarlo è il siciliano Mario Ferrara, ex forzista ma vicino a Micciché e dunque in grado di garantire equilibri più ampi.
politica
28 aprile 2010 • pagina 9
Per un’intervista a “Repubblica” attaccato da berlusconiani e finiani opo il processo a Italo Bocchino – il dimissionario vicecapogruppo del Pdl alla Camera, diventato per i regolatori di conti del Pdl la pietra dello scandalo nel sollevamento finiano – poco benevoli sguardi s’indirizzano ora sul professor Alessandro Campi, storico delle idee politiche dell’università di Perugia e direttore scientifico della fondazione Farefuturo.
D
Ad aprire l’istruttoria nei confronti della mente della destra nuova è stato il ministro ai Beni culturali Sandro Bondi replicando alla direzione nazionale del Pdl la polemica che da tempo sostiene nei confronti della fondazione finiana, accusata dal triumviro del Pdl di frondismo sistematico e di frazionismo ideologico. Una deriva generata, secondo Bondi, dalla fuoriuscita della fondazione dal controllo del presidente della Camera. Come se appunto fondazioni e intellettuali siano per definizione soggetti da tenere sotto controllo politico. Tra Bondi e Campi del resto la disputa sul tema non è di oggi: un confronto pubblico sul ruolo degli intellettuali e il loro rapporto con la politica è documentato sul Giornale di Vittorio Feltri dei primi di febbraio. Bondi vi contesta, duramente, un’articolo di Campi accusandolo d’essere un’intellettuale astratto come tutti gli intellettuali. Che aveva detto Campi? Che gli pareva eccessiva la foga emergenzialista in cui s’era avvitato il governo Berlusconi, ricorrendo a Bertolaso come a un mister Wolf risolutore di problemi. Campi replicava sul Giornale che fosse stato nei panni del ministro dei Beni culturali ci sarebbe andato piano a definire gli intellettuali come dei buoni a nulla incapaci di cogliere la realtà. Ma erano carezze rispetto al seguito della querelle. E agli affondi bondiani delle ultime settimane. Cui altri sono seguiti da parte del quartier generale del Pdl. Lunedì è stato il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto a prendersela con il professore. Cicchitto definisce grave il fatto che Campi, su Repubblica abbia avanzato l’ipotesi di un governo tecnico il cui unico scopo dovrebbe essere quello di cambiare la legge elettorale. Infine dall’interno della
Adesso è Campi la strega da bruciare Tregua con il presidente della Camera, ma la tensione dopo Bocchino si scarica sul professore di Riccardo Paradisi stessa componente finiana Roberto Menia ha chiesto siano «licenziati i vari Campi a cui non ordina il medico di rispondere alle domande di Repubblica». Come se appunto la metrica del pensiero di Campi dovesse essere scandita dall’un-due d’una casermetta correntizia. (Che peraltro dice di opporsi al cesarismo berlusconiano). Curioso pretesto tra l’altro – e sia detto per inciso – quello dell’intervista. Si perché al professor Campi Repubblica chiede di commentare uno scenario, quello delle elezioni anticipate, evocato prima da Umberto Bossi, poi ventilato da Berlusconi e da mesi minacciato dagli stessi finiani con l’ipotesi di governi tecnici. Il politologo umbro s’è
limitato a dire ciò che un governo secondo lui potrebbe limitarsi a fare, ossia cambiare questa obbroriosa legge elettorale. Ma si sa che i pretesti, soprattutto quelli speciosi come questo, li trova chi li cerca. E a cercarli sono in molti. Sono alcuni falchi berlusconiani che per inaridire il terreno intorno a Fini colpiscono le figure che a diverso titolo gli sono vicine. Così che anche Campi diventa una sorta di parafulmine di tensioni che non si possono scaricare altrove. Ma a usare i pretesti sono anche i finiani che nel correntino hanno già dato vita a personalismi e gelosie, al disappunto per l’intrattenersi di Fini con l’intelligenza, sempre pericolosa per certa destra adubitativa e orfana del vecchio credere-obbedire e combattere. Senonchè verso il suo supporter Ro-
berto Menia, che ha chiesto la cacciata di Campi, Fini è lapidario: «Le posizioni di Campi non c’entrano nulla con la nostra azione politica, che sarà di leale fedeltà a questa maggioranza». Che è un modo per tenere fuori Campi dalla polemica ma anche di riprendere in mano la regia delle esternazioni del cosiddetto arcipelago. «Occorre senso di responsabilità, alzate il telefono prima di parlare...», ha poi consigliato Fini a quelli che si considerano ”liberi pensatori”. Intanto Campi che fa? Il suo mestiere. Manda in libreria una nuova rivista di politologia, Rivista di politica si chiama. Il primo numero mette a tema le questioni di cui il professore s’è occupato in tutti questi anni: il comunitarismo, la presidenzializzazione della politica, la nazione, il federalismo, il senso perduto dell’onore in politica. Con un’avvertenza specifica nell’editoriale: «La rivista si propone di discutere e analizzare la realtà della politica – i suoi presupposti fondamentali e le sue forme storiche di manifestazione – senza mai rinunciare alla libertà di critica».
Appunto, Campi è un politologo prestato alla politica, un’osservatore partecipato, non è un politico che s’esercita in politologia. Ad Alleanza nazionale – e ai vari Menia – poi alla corrente finiana Campi ha portato in dote un patrimonio di metodo e di idee che sono qualcosa di più solido della tarda scolastica neodestra di seconda generazione che lì allignava e delle improvvisazioni di politici di destra con qualche improvvisato uso di libri. Un contributo anche critico in certi passaggi, mai pedissequo, libero, sempre sulla linea della riflessione argomentata. Del resto proprio dalla cultura e dalla storia del realismo politico Campi ha imparato a tenersi lontano dalla rischiosa lusinga di essere il consigliere del principe. Non solo perché il destino dei consiglieri del principe è sempre rischioso ma perché appunto non è questo il mestiere di Campi. Che continuerà a fare quello che sa fare: lavorare per le idee e la loro circolazione. E pazienza se a certe latitudini torneranno a non circolare.
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panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Salvatore Merlo e la conversione di Gianfranco hissà cosa avrà pensato Salvatore Merlo quando ha assistito al litigio del tipo “c’eravamo tanto amati” tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Chi è Salvatore Merlo? Un giovane giornalista, per la precisione cronista politico, che lavora a Il Foglio e ogni santo giorno deve dedicare non poche ore della sua vita alla analisi e alla cronaca delle cose che accadono nel centrodestra ieri e nel Pdl oggi. È interessante sapere cosa abbia attraversato la mente del giovane cronista perché per la Vallecchi è appena uscito un suo libro intitolato La conversione di Fini. Viaggio in una destra senza Berlusconi in cui, in poche parole, si racconta tutto quanto stava lì lì per accadere ma, per ovvie ragioni, Merlo non ha potuto scrivere perché i fatti erano ancora in mente Dei. Il giornalista racconta i fatti immediatamente precedenti. Racconta come sono cambiati i rapporti tra Silvio e Gianfranco. Racconta la nuova strada dell’ex leader di An. Racconta la “vita nova” o, appunto, la conversione di Fini. Se si vuol capire qualcosa di più della nascita della tragicommedia dell’Auditorium della Conciliazione bisogna leggere questo libro.
C
Inizia così: «L’ex leader di An ha rinunciato alla condizione sicura che gli veniva dall’essere padrone di un partito del 12 per cento e ago della bilancia all’interno dei complessi rapporti di coalizione interni alla casa delle libertà di Silvio Berlusconi. Senza partito, senza i fidati dirigenti, e per ora senza voti nella sua sola persona, Gianfranco Fini ha accettato di calarsi all’interno del Pdl da una posizione oggettivamente di minoranza, puntando tutto sulla propria conversione politica e culturale ai valori di una destra molto francesizzante, alla Sarkozy, e molto poco berlusconiana». È la nascita stessa del Pdl e il modo il Predellino - in cui è venuto al mondo il nuovo partito di Berlusconi che hanno costretto Fini a cambiare schema: se fino a quel momento era stato il delfino di Berlusconi e il primo candidato alla successione, da quel momento in poi Fini ha dovuto rivedere il suo passato e il suo presente per darsi una diversa chance nel futuro prossimo. Il fatto nuovo che il cronista coglie in tutte le sue conseguenze è l’estinzione di Alleanza nazionale e la scelta di giocare in un ruolo privo di una rete di protezione. «All’erede di Giorgio Almirante - scrive con apprezzamento Merlo - oggi va riconosciuto il coraggio di una scelta d’azzardo che fa piazza pulita di gran parte delle critiche che lo hanno accompagnato negli anni».
Infatti, il giorno dopo lo spettacolo dell’Auditorium proprio il coraggio è la virtù che da più parti è stata riconosciuta a Fini. Proprio lui che, come disse una volta Pino Rauti, «appartiene a quella razza di postfascisti che hanno fatto carriera esponendosi e rischiando il meno possibile». Si può quasi sostenere che solo ora Fini cominci a fare politica. E pensare che tutto è accade perché la durata dell’esperienza politica del Cavaliere è andata al di là dell’immaginato.
A che punto è la notte del Partito democratico Nuove spaccature su riforme, aperture a Fini e rapporti con il Colle di Antonio Funiciello
ROMA. A sentire Sabrina Ferilli, anima storica della sinistra italiana, Bersani deve fare come Rocky nel film di Stallone: «Prendere colpi e rialzarsi: gli occhi pesti, neri, ma in piedi fino a quando arriverà il suo momento». Se la memoria regge, alla fine del primo Rocky (l’unico da ricordare), il Balboa di Stallone finisce solo per pareggiare ai punti, tant’è che il campione in carica Apollo Creed conserva il titolo. Difficile, così, che Bersani accetti l’augurio della Simone de Beauvoir del Pd. nel frattempo il suo partito affina la strategia del suo patto repubblicano. Ieri, una delegazione del Pd ha posto una corona di fiori sulla tomba di Antonio Gramsci, in occasione del 73esimo della sua scomparsa. Sabato, Bersani marcerà a Empoli con Cgil, Cisl e Uil, che a Firenze stanno facendo la guerra al sindaco Pd Renzi, perché vorrebbe andare incontro alle richieste dei commercianti e tenere aperti i negozi nel giorno della festa dei lavoratori. I commercianti chiedono di poter lavorare per fare fronte agli effetti della crisi; i sindacati ricordano che il 1 maggio «è la festa del popolo, non del consumo».
cratica suona forte e si colora di rosso, dopo l’intervista di lunedì a Repubblica di Bersani, che ha segnato un riavvicinamento tra il segretario e il presidente di Italianieuropei.
Finora Bersani s’era mostrato scettico nei riguardi del disegno neo-proporzionalista di D’Alema, confermando tacitamente un’impostazione bipolarista che contraddiceva la svolta dalemiana. Ma l’idea del patto repubblicano per salvare l’Italia, dopo le intemperie in casa Pdl, ha suggerito a molti che D’Alema e Bersani abbiano ripreso a parlarsi. Il che, al momento, non è vero. Senza le tensioni tra Fini e Berlusconi, probabilmente Bersani non avrebbe acceso i toni nell’intervista. Dopo tutto, la tabella di marcia del segretario democratico prevede un cammino lungo nella definizione della proposta politica intorno alla quale il Pd vorrebbe costruire l’annunciato patto repubblicano. Ieri, in una riunione di vertice, Bersani ha affidato al vicesegretario Letta la ricerca delle 10 parole cardine di un progetto democratico da lanciare nel 2011, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Da cui poi partire, l’anno prossimo, alla tessitura di un’alleanza per il governo che tenga dentro ogni forma vivente che non graviti nella galassia berlusconiana. Il no secco di Bersani alle riforme di Berlusconi è così scontato e, a ben vedere, indirizzato più al Quirinale che a Palazzo Chigi. Tra Napolitano e Bersani c’è da sempre diffidenza, che il segretario democratico ha tradotto in termini di vera ostilità quando Napolitano ha firmato il decreto salva-liste, mentre il Pd sognava di poter vincere a tavolino le Regionali, sia nel Lazio sia in Lombardia. Lo stesso richiamo in favore delle riforme con cui il Presidente della Repubblica ha sostenuto l’intervento del 25 aprile del Presidente del Consiglio, è suonato ostile al Nazareno che, difatti, ha utilizzato Repubblica per respingere l’invito di Napolitano e Berlusconi ai due mittenti. È una novità nel centrosinistra che, da Scalfaro a Ciampi, ha sempre avuto nel colle più alto il più solido alleato. Paradosso vuole che, proprio con l’ex comunista Napolitano, i rapporti si siano irrigiditi, perché il patto repubblicano pretende, per riuscire vincente, una contrapposizione radicale al premier. Che qualsiasi mediazione quirinalizia indebolirebbe.
Il 7, l’8 e il 9 maggio, Area democratica si riunirà a Cortona. Sul tavolo, l’analisi del voto ma soprattutto il “nodo-D’Alema”
Tra Gramsci e i sindacati, il Pd prova a marcare presenza, ma credendoci poco. Il 7, l’8 e il 9 maggio, Area democratica, il rassemblement di componenti interne al Pd che oppose Franceschini a Bersani, farà il punto della situazione a Cortona. Tre giorni per (a) affermare un’analisi del voto regionale nel segno della sconfitta del Pd, misconosciuta da Bersani; (b) definire una posizione sui temi del lavoro tanto cari al segretario, coinvolgendo anche l’eretico Pietro Ichino che al congresso votò Marino; (c) chiudere a ogni disegno dalemiano neo-proporzionalista. Soprattutto su quest’ultimo punto, veltroniani, fassiniani e fioroniani riuniti a Cortona, cercheranno di sferrare un attacco ai vertici del Nazareno, avvisando Bersani che un cedimento sul modello tedesco proposto da D’Alema sarebbe considerato inaccettabile dalla minoranza interna. Come pure l’ammiccare sfacciatamente a Fini sognando improbabili scomposizioni del quadro politico dal lato del centrodestra, nella speranza di mettere su una nuova Unione, anzi un’Unionissima, non solo con Casini (che di suo dispensa ragionevole indifferenza), ma anche con Fini. L’allarme di Area demo-
panorama
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Un intervento al maschile nel dibattito sull’eclissi dei temi «sessisti», aperto sui giornali da Susanna Tamaro
Ma il femminismo ha già vinto Le battaglie delle donne hanno cambiato la loro identità. Malgrado il velinismo di Giuseppe Baiocchi segue dalla prima Soprattutto se, poi, il modello prevalente della donna nella vita pubblica e nella civiltà della comunicazione ritornava quello del “veliname”, trionfante e senza altre alternative, nel rutilante mondo televisivo, dove il primato del corpo e della sua esibizione tiranneggiava tutti i campi del potere.
Il dibattito, profondo e sofferto, ha visto l’assenza “interessata” e tutto sommato indifferente di “questa metà della terra”: come se agli uomini, intellettuali compresi, facesse in fondo comodo non doversi confrontare con i tormenti e le speranze altrui. E ignorare la questione salvasse dal rischio di venire additati come saccenti padroni avvezzi a permettersi ogni “invasione di campo”. Invece, proprio perché alla fin fine insieme dobbiamo pure vivere, prova a farlo qui, in punta di piedi e con molto rispetto, chi ha sempre osservato da lontano la lunga parabola femminista e femminile e (non foss’altro perché marito e padre di figlie) ha creduto e in cuor suo “tifato”per l’affermazione delle donne, magari in una competizione più pacifica e meno conflittuale. Con un primo appunto di metodo: è pur vero, anzi verissimo, che la condizione delle “veline” ( o peggio delle “escort”) è l’apparente totalità del modello in voga. Ed è qui che la riduzione alla pura fisicità e al successo esclusivo della sola avvenenza (soprattutto se sfacciata e carnosa) si dimostra imperante. E tuttavia sarebbe far torto all’intelligenza di chi lamenta a ragione la potenza del fenomeno di costume, se non si considerasse che proprio il circo mediatico dell’immagine e dello spettacolo è per sua natura strutturalmente il più arretrato e il più sordo ai movimenti e alle trasformazioni profonde in corso in una società complessa e moderna come la nostra.
pleta nella dignità della persona) e ha operato una irreversibile rivoluzione culturale, costringendo perfino la Chiesa ad interrogarsi sui mutamenti in atto e a trovare accenti nuovi, con papa Wojtyla, sull’indispensabile originalità del “genio femminile”. E la generazione appena successiva ha percorso fino in fondo tutti gli spiragli che si aprivano nell’ambito pubblico, nella scelta del lavoro e dell’affermazione professionale, conquistando rapidamente e, nonostante molti ostacoli, piena legittimità e completa “cittadinanza” in campi che fino ad allora ap-
lungo itinerario ha trasmesso valori non più “rinunciabili”. E lo si nota soprattutto nei giovani e nelle giovani di oggi. Non c’è agenzia educativa o facoltà universitaria che non confermi, a ogni ricerca sociologica, che dovunque le ragazze sono sempre in testa alla lista. Più determinate, più appassionate dello studio e dei lavoro, più sicure negli obiettivi da raggiungere e nei progetti integrali di vita. Con un decisivo elemento in più: e cioè, dato per scontato che la libertà di autorealizzazione nella dimensione pubblica del lavoro e della professione è prateria
Molte conquiste sono state ottenute, non senza fatica, tra ostilità e pregiudizi che non sono ancora completamente tramontati
I passaggi epocali di un movimento talvolta malato di ideologismi e di astrattezze rivendicative hanno inciso in maniera determinante nel paesaggio umano degli ultimi decenni. La prima generazione, impegnata verso la liberazione dagli schemi del passato, ha comunque condotto, pur tra cadute ed asprezze, a un cambio non indifferente della legislazione e del diritto (dalla tutela della maternità alla parità com-
parivano preclusi, violando veri e propri santuari delle professioni maschili. Così è oggi del tutto normale e universalmente accettato incontrare magistrate e avvocatesse, figure autorevoli nella ricerca scientifica e nella medicina, nell’impresa e nel management: e sta altresì passando la “novità” della prima donna questore o prefetto, pilota di caccia o ufficiale dei corpi militari.
Conquiste ottenute non senza fatica, tra ostilità e pregiudizi che non sono ancora completamente tramontati (non mancano i ruoli dove, a parità di condizione, resta comunque preferito chi dispone del pisello), e tuttavia costruite con paziente tenacia e straordinaria applicazione. E anche con sacrifici e rinunce, in particolare alla vita di relazione e di generazione del futuro, insomma alla parte privata di sé. Ma il
aperta e paritaria, deve comunque consentire l’altrettanto indispensabile libertà di autorealizzazione nella dimensione personale e intima, famiglia e maternità compresa. In una parola, le ragazze non intendono “copiare” le rinunce e i sacrifici delle loro madri: e questa fiera determinazione, unita ad una invidiabile concretezza, anche se poco avvertibile dal circuito mediatico, non potrà non avere conseguenze collettive di indubbia portata, con cambiamenti che scuoteranno la politica, la struttura del welfare e la stessa cultura, verso una società che dovrà adeguarsi ad inventare soluzioni “a misura di femmina” e imparare a muoversi “a passo di donna”… D’altronde non hanno più reali competitori: i coetanei giovani appaiono svogliati e smarriti, in chiara crisi di identità e costretti a rifugiarsi in stereotipi antichi e limitati che dimostrano di non aver più ragion d’essere. E anche nelle generazioni più stagionate gli stessi maschi non se la cavano poi tanto brillantemente, pur se più abituati a mascherare debolezze e fragilità dietro le astuzie del potere (compreso il ferreo governo della società dello spettacolo).
In realtà le ragazze di ieri e di oggi (e del domani) hanno già “vinto”, magari senza saperlo e senza completamente rendersene conto. E, a questo punto, che se ne fanno dei maschi? Eppure ne hanno bisogno e ne sono in gran parte deluse, almeno a leggere gli infiniti blog e le tantissime “poste del cuore”. Gli uomini hanno perso definitivamente il monopolio: dell’agone pubblico (e presto della sua guida); ma anche della forza fisica (un tempo di attacco e di difesa, di conquista e di protezione) che finisce, nel nostro tempo, per servire sempre meno. Eppure degli uomini toccherà loro (e tocca già adesso) “prendersi cura”. E non per compiacerne gli stantìi protagonismi o giustificarne le segrete debolezze. Quanto piuttosto per costruirne insieme una forma identitaria all’insegna di una inedita eppure affascinante responsabilità. E cioè costringerli a sviluppare una autentica capacità di ascolto, persuaderli a non vergognarsi della libertà di piangere, far emergere una sensibilità non egoista ma compassionevole: insomma far affiorare finalmente la virtù tipicamente maschile obnubilata da secoli, ovvero quell’istintiva e salutare tenerezza.
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Pubblichiamo un estratto del libro “Il partito Repubblica. Storia del giornale di Scalfari e Mauro”di Maurizio Stefanini, che sta per essere pubblicato per i tipi di Boroli Editore. Il brano scelto, a cavallo tra il primo e il secondo capitolo, si occupa della nascita del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari.
il paginone
Le dimissioni dall’Espresso, l’esperienza parlamentare con il Psi, gli scontri con Cra
opo le dimissioni da direttore, [Eugenio Scalfari] resta sempre coeditore dell’Espresso. Nel 1970 ne approfitta dunque per imporre alla rivista un inserto di dodici pagine su Economia e Finanza che è gestito da due suoi fedelissimi, Claudio Risé e Giuseppe Turani. Privato proprio del settore che era stato la grande novità dell’Espresso il direttore Gianni Corbi si dimette, per protesta. Gli succede Livio Zanetti; ma subito, sul suo giornale Candido, il senatore missino Giorgio Pisanò rivela che durante la guerra è stato con lui nel Battaglione paracadutisti della Repubblica di Salò. (...) Di fronte a un’inferocita assemblea di redattori, Scalfari difende il piangente Zanetti, che grazie a lui dunque resta, ma come docile burattino nelle sue mani. È il punto di partenza per la ripresa in mano del settimanale. Nel 1972, allo scioglimento anticipato delle Camere, Scalfari chiede di ricandidarsi.
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Ma i socialisti milanesi lo accusano di aver trascurato la vita di partito – in quattro anni da deputato non è mai entrato in una sezione – e dopo la scissione del Psdi ci si attende che i seggi siano meno.Valendosi di questo scontento, Bettino Craxi fa candidare Ripa di Meana, che prende voti nello stesso bacino elettorale salottiero e radical chic di Scalfari. Scalfari arriverà nono con 8909 preferenze, e Ripa diMeana settimo con 12.779. Eletti i primi sei, con Craxi secondo (23.704 preferenze). L’antipatia per Craxi nasce presumibilmente da questo episodio. Altro strascico di quell’esperienza la si trova in Come andremo a incominciare?, dove Scalfari non solo attacca l’incultura dei socialisti, ma descrive anche la sua militanza tra loro come «i quattro anni più frustranti della mia vita». «Uno pensa che un grande partito popolare ti possa mettere in contatto con la gente del Paese, con vive e fresche correnti d’opinione. Niente vero. Il partito ti mette a contatto, tutto al più, con sezioni del tuo collegio. E le sezioni d’un partito sono, credimi, la cosa più melanconica che si possa immaginare: qualche cosa tra l’associazione bocciofila e la piccola camarilla utilizzata per procacciare qualche spicciolo favore individuale». Libero comunque dalla politica parlamentare, Scalfari assume anche formalmente la direzione di Economia e Finanza dell’Espresso, iniziando anche a collaborare con La Stampa. Nel contempo si dedica alla riorganizzazione dell’Espresso, facendolo passare nel 1974 dalla tradizionale forma a lenzuolo a quella a quaderno. Un nuovo abito al servizio di una nuova concezione italiana del newsmagazine, con una forte linea politica, scrittura curata e molta opinione. Quasi il contrario dell’altro magazine di Mondadori Panorama, lanciato come mensile nel 1962 e trasformato nel 1967 in settimanale con in mente il modello del tedesco Der Spiegel, del francese L’Express e soprattutto delle riviste anglosassoni: articoli brevi e apparentemente asettici dal punto di vista politico, ma pieni di dichiarazio-
La costituzione della Dopo più di trent’anni, sono ancora attuali le linee guida del giornale-partito che ha sostituito la sinistra nel suo confronto con la modernità? di Maurizio Stefanini ni. Sia L’Espresso sia Panorama, però, intercettano in pieno il grande movimento della società italiana postsessantottina: la crescita di una nuova opinione pubblica di sinistra di estrazione borghese, che mantiene gusti e interessi borghesi, e per la quale la libertà dei costumi è un tema altrettanto importante delle vecchie rivendicazioni di tipo sindacale della sinistra popolare.
Insomma, un segmento di
potere Dc». Così Scalfari riesce a rilanciare il suo nome, e al contempo a indicare l’obiettivo polemico del nuovo blocco sociale che punta a costituire. In L’uomo che non credeva in Dio definirà «questa storia della borghesia illuminata» propugnata dal Mondo e dall’Espresso un’illusione: «Una borghesia liberale, anzi liberal, la leggenda del partito“whig”dell’Inghilterra del primo Ottocento, la lega di Manchester sostenuta dall’industria tessile che si batteva contro il dazio sul grano.
opinione pubblica che non si riconosce più nella stampa borghese tradizionale, ma non può neanche digerire il modello pedagogico da giornale sovietico dell’Unità o di Paese Sera. Infatti, L’Epresso rapidamente raddoppia: da 150mila a 300mila copie. Il 1974 è anche l’anno di Razza padrona: fortunato pamphlet di Scalfari e Turani contro la «borghesia di Stato» degli imprenditori organici al «sistema di
«È fatta da uomini che appartengono al vasto arco della sinistra italiana - scrive il fondatore - consapevoli d’esercitare un mestiere basato sull’impegno civile»
Insomma l’industria grande e piccola che prendesse nelle sue mani la ricostruzione dello Stato e si alleasse con la classe operaia per risolvere la questione sociale»; «Fu un’illusione che resistette a molte sconfitte e che personalmente ancora vagheggiavo fino alla metà degli anni Ottanta. A volte bisogna sognare, magari a occhi aperti, per realizzare un obiettivo. E noi sognammo ». Il sogno porta comunque a una corposissima realtà. I due anni successivi a Razza padrona lo vedono perfezionare gli ultimi particolari e cercare i finanziamenti. La sede del nuovo giornale è a Roma in piazza Indipendenza, nome fatidico. Il 14 gennaio 1976 Repubblica esce in edicola. «Questo giornale è un poco diverso dagli altri: è un giornale d’informazione il quale, anziché ostentare una illusoria neutralità politica, dichiara esplicitamente d’aver fatto una scelta di campo. È fatto da uomini che appartengono al vasto
il paginone
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axi, la decisione di tentare una nuova avventura. In un libro, la storia del quotidiano di Piazza Indipendenza
a “Repubblica” arco della sinistra italiana, consapevoli d’esercitare un mestiere, quale appunto del giornalista, fondato al tempo stesso su un massimo d’impegno civile e su un massimo di professionalità e di indipendenza». Così a pagina 6 del suo primo numero, il 14 gennaio del 1976, Repubblica rivela il suo essere «un giornale non neutrale». Ma il 1° febbraio successivo Eugenio Scalfari aggiunge: «Alcuni lettori ci rimproverano d’avere un atteggiamento politico troppo definito, altri invece ci rimproverano del contrario, cioè di non aver ancora reso esplicita una nostra linea. Analoghi e contrastanti giudizi ci sono stati rivolti da uomini politici di vario colore. Credo che tutte e due queste valutazioni contengano una parte di verità: la Repubblica ha una sua “chiave di lettura” dei fatti, ma è una chiave che non coincide necessariamente con quella di questo o quel partito. So per esempio che tra i comunisti che contano, l’articolo di Giorgio Amendola sull’ultimo numero di Rinascita nel quale si attacca a fondo la Dc non ha trovato molti consensi. A noi invece è piaciuta (sic) molto e infatti ne abbiamo dato un sunto due giorni fa in prima pagina al posto dell’articolo di fondo. Che volete. La pensiamo così». Dunque, né giornale indipendente, né giornale di partito, e neanche giornale di opinione. Ma giornale che ha fatto “una scelta di campo” non coincidente però con i“campi”già esistenti nell’agone politico.“Giornale partito” è un modo polemico con cui questa
quarta etichetta è stata tradotta. Il «partito irresponsabile dell’informazione», secondo la famosa definizione dell’allora portavoce del Psi Ugo Intini. Partito: perché fa politica. Partito dell’informazione: perché è un giornale e non un normale partito politico, con i suoi iscritti, la sua segreteria, il suo gruppo parlamentare, le sue casse, le sezioni, le federazioni, i nuclei aziendali ed, eventualmente, anche i suoi giornali“organi ufficiali”. Partito irresponsabile: perché, a differenza dei partiti, non si presenta al giudizio degli eletto-
Il suo target è preciso: una “classe dirigente” composta da studenti, quadri sindacali, imprenditori, funzionari, insegnanti, politici locali e nazionali ri. Da cui l’altrettanto famosa risposta di Scalfari: «La Repubblica si sottopone tutti i giorni al giudizio dei suoi lettori che liberamente vanno all’edicola, scegliendola tra molti altri giornali».
Notorio è anche il fastidio che per l’etichetta di “giornale partito” ha Ezio Mauro, dal 1996 successore di Scalfari alla di-
rezione. «Quando qualcuno in questi trent’anni ha ripetuto la formula vecchia e intellettualmente pigra del giornalepartito» ha scritto lo stesso Mauro nel Libro dei trent’anni con cui Repubblica ha celebrato il proprio anniversario del 2006, «ho sempre risposto che Repubblica in realtà è molto di meno e qualcosa di più, quindi è totalmente un’altra cosa. Di meno, perché è un giornale che al primo posto ha il dovere di informare, e non pensa (certamente io non voglio) a interferire con l’autonomia della politica, cui spetta in una società democratica stare a capotavola, tenere il mazzo, distribuire le carte, disciplinando lo scontro e il confronto tra gli interessi legittimamente in campo con l’interesse generale. Di più, perché il giornale ha la possibilità di prendere posizione quotidianamente su tutte le vicende degne di essere analizzate, e può farlo in modo trasparente e libero, senza rispondere a verità precostituite, appesantimenti ideologici, linee politiche». L’editore Carlo De Benedetti, però, fa a sua volta una smentita che è in parte un’ammissione: «La Repubblica non era, né è mai stata, un partito. È evidente. La Repubblica dà e ha dato fastidio ai partiti, perché colloquia direttamente con il suo lettorato, che in gran parte costituisce anche una omogeneità di elettorato. C’è una sovrapposizione, non totale, ma significativa, tra il lettorato della Repubblica e l’elettorato di una certa area politica. La Repubblica non è l’Unità, né l’equivalente di una conferenza stampa di Fassino, e neppure del congresso della Margherita. È quella sovrapposizione, invece, che fa sì che verso quel lettorato la Repubblica riesca davvero a disintermediare i partiti». Angelo Agostini, autore di un saggio su La Repubblica. Un’idea dell’Italia (1976-2006), dal piglio scientifico ma dai toni sottilmente celebrativi, ammette che «di tutte le etichette che la Repubblica si porta addosso, questa è l’unica che abbia ancora oggi un fondamento di verità. È portatrice del più grosso abbaglio sul ruolo che quel giornale ha avuto nella storia d’Italia degli ultimi trent’anni, ma porta con sé una radice inconsapevole di chiarezza. La Repubblica ha sempre fatto politica, dal 14 gennaio 1976 fino a oggi. Probabilmente, anzi con certezza, continuerà a fare politica. Ha preso parte e prende parte (talvolta sbagliando). E questo è l’elemento che possiamo tenere per buono di quell’antica accusa. Di sicuro, tuttavia, la Repubblica non è mai stata partito, anzi. Delle caratteristiche dei partiti che si sono succeduti nella storia dell’Italia repubblicana, la Repubblica non ha certo condiviso, ma ha invece duramente combattuto i tratti di fondo, l’appartenenza che viene prima degli interessi generali, il naturale costituirsi d’un partito in fazioni e correnti, l’umanissimo dividersi dei leader per gruppi o sodali o nemici, l’intreccio talvolta inevitabile tra politica e affari. Anzi, in questa battaglia il giornale è stato un
elemento costitutivo dell’opposizione alla “partitocrazia”, intesa come la degenerazione di alcuni elementi comuni alla “Prima” quanto alla “Seconda” Repubblica. Volendo semplificare, la Repubblica ha sempre evidenziato due caratteri costitutivi del suo essere un giornale di tendenza, quindi un giornale schierato, un giornale non neutrale, ma partecipe, senza essere mai un giornale di partito. Il primo tratto è quello che, storicizzando, l’editore chiama oggi “disintermediazione” dei partiti. L’altro è l’essere stata il primo vero quotidiano nazionale nel giornalismo italiano».
In un certo senso, è la stessa cosa detta da Intini: Repubblica è un soggetto che si è appropriato di un ruolo proprio dei partiti, senza sottostare alle regole del loro gioco, ma rovesciata da critica in lode: dal momento che i partiti in Italia hanno tralignato, ha fatto bene a metter loro i bastoni tra le ruote. Proprio il continuo sciogliersi e riaggregarsi delle organizzazioni partitiche nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, il venir meno di antichi punti di riferimento che andavano dalla tradizione socialista al mito sovietico, ha finito però per esaltare il ruolo di Repubblica come «officina dell’identità per la sinistra incerta», secondo una definizione anch’essa di Agostini. «Un’agenzia culturale» o «agente di socializzazione» che risponde «alla mancanza, in Italia, di una sinistra capace di affrontare la sostanza culturale del confronto con una modernità che ha completamente stravolto i suoi canoni». Insomma, a questo punto più che di giornale partito si dovrebbe parlare di un giornale che ha preso il posto del partito, o dei partiti, a cui i suoi lettori facevano riferimento. Eppure, quando Repubblica parte, il suo progetto non è certamente ancora quello di diventare il surrogato di un partito di massa di sinistra che ha cessato di esistere come identità forte. Al contrario. «Finora si sono fatti dei giornali omnibus, buoni cioè per tutti i lettori» spiega nel 1977 Scalfari in un’intervista. «Noi, invece, vogliamo ritagliare dalla massa del pubblico una fetta precisa: la classe dirigente, prendendo come riferimento non il reddito ma i ruoli esercitati nella società. La classe guida, per noi, sono gli studenti, i quadri sindacali, gli imprenditori, i funzionari, gli insegnanti, i politici locali e nazionali». In pratica è l’élite liberal di Pannunzio, che coopta i protagonisti della protesta giovanile del 1968 e dell’autunno caldo del 1969 per metterli al servizio di una proposta whig che, includendo il Pci, in qualche modo tiene conto anche della concezione leninista del rivoluzionario di professione e di quella gramsciana dell’intellettuale. Un progetto, insomma, di un eclettismo straordinario, e che solo lo straordinario virtuosismo di Scalfari riesce a sostenere. Eppure, è il progetto che poi dalle élite si imporrà alle masse di sinistra.
mondo
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Il caso. L’ok al trasferimento firmato lunedì sera da Hillary Clinton. L’avvocato dell’ex capo di Stato: «Nessuno mi ha avvisato»
Il ritorno di Noriega Ripescato dall’oblio, l’ex dittatore panamense è stato estradato in Francia. Perché ora? di Antonio Picasso a scena del vecchio Manuel Noriega, che scende claudicante dall’aereo a Parigi, ricorda quella di altri ex dittatori che, prima di lui e come lui, sono stati ripescati dall’oblio della storia per rispondere dinnanzi a un Tribunale dei crimini commessi quando erano al potere. Era da vent’anni che non si aveva un’immagine pubblica dell’ex leader panamense. La Giustizia francese è riuscita a ottenerne l’estradizione da Washington (firmata da Hillary Clinton) con l’intenzione di processarlo per traffico di droga, estorsione e riciclaggio di denaro sporco. Sono gli stessi capi di imputazione per cui Noriega era stato condannato a 40 anni di carcere negli Usa. Parigi aveva spiccato la denuncia ancora nel 1999 e ora pretende di giudicare “Faccia d’ananas”, senza fargli alcuno sconto di pena, come invece è accaduto negli Stati Uniti. Manuel Noriega, classe 1938, rappresenta l’esempio classico del dittatore militare latinoamericano che ottiene il potere politico grazie al supporto della Cia e poi di questa se ne fa beffe. Educato al Collegio militare di Lima in Perù, Noriega ha studiato anche alla scuola militare di Fort Benning in Georgia (Usa). A soli trent’anni è protagonista del Colpo di Stato che detronizza Arnulfo Arias, dittatore panamense dalle tendenze filo-fasciste, deposto più volte per volontà degli Stati Uniti e definitivamente “affondato” nel 1968. Il caso ha voluto che anche Arias sia stato rinchiuso in un carcere di Miami, per morirvi nel 1988. Noriega segue quindi il suo nuovo presidente, Omar Torrijos, nella ricostruzione dei rapporti con gli Usa, in special modo per la firma dei trattati di regolamentazione doganale del Canale di Panama.
L
Tutto il contrario di quanto i due avevano promesso alla popolazione locale. «Qui crescono i figli della rivoluzione!» È lo slogan adottato da Torrijos alla sua presa di potere. Ma di rivoluzione i panamensi ne hanno vista ben poca. Nel 1981 il presidente Torrijos muore in circostanze misteriose durante un incidente aereo. Nel libro
Confessioni di un sicario dell’economia, John Perkins, agente della National Security Agency (Nsa) denuncia la Cia, agenzia di intelligence “concorrente”, di aver sabotato il velivolo presidenziale. Tornando a Noriega, al momento della morte di Torrijos, egli è allo stesso tempo Comandante della Guardia Nazionale e al vertice dei servizi segreti militari. La fine del Presidente gli torna vantaggiosa per soddisfare le sue ambizioni di porsi alla guida del Paese.
quinte e lasciare che la presidenza della Repubblica resti nelle mani di altri militari.
Prima è il turno del colonnello Florencio Flores, poi di Ruben Dario Paredes, il quale non è altro che una marionetta gestita da“Faccia d’ananas”e che ha assunto la leadership in vece di quest’ultimo, sempre grazie a un golpe. Nel 1983, con il placet della Cia, avviene il formale passaggio di consegne. Noriega si autopromuove generale e, co-
L’ex generale, oggi imputato a Parigi, era stato insignito da Chirac della Legion d’onore il 22 gennaio del 1987. Un riconoscimento che adesso si trasforma in un ingombrante autogol Noriega infatti non ha più ostacoli per raggiungere questo obiettivo. Gli oppositori politici più rilevanti sono già “scomparsi”durante la presidenza di Torrijos. Questo gli permette di presentarsi alla popolazione come un uomo da sempre fedele alle istituzioni, ma non responsabile delle persecuzioni perpetrate dal suo predecessore. Anzi, dimostrando un’astuzia machiavellica, nel primo biennio post-Torrijos, Noriega preferisce mantenersi dietro le
me Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate di Panama, assume de facto la guida delle istituzioni politiche. Da questo momento, cominciano sei anni di affari illeciti, congetture e sotterfugi. Panama diventa la scalo per le operazioni speciali fortemente osteggiate dal Congresso Usa, ma condotte ugualmente dal Pentagono e dalla Cia in America Latina, in particolare in El Salvador e Nicaragua. Noriega torna utile come copertura per una serie di attività diplo-
La Croisette dei tiranni Quando la Francia socialista accoglieva Baby Doc, Mobutu e Amin Dada di Pierre Chiartano ittatori sanguinari, despoti a tassametro, golpisti della 25ma ora e grassatori istituzionali di varia natura e tendenze, dove finiscono i loro giorni, una volta fuori dal potere? Alcuni pagano il dazio del sangue che hanno sparso, passati per le armi o condannati e giustiziati, come Saddam Hussein. I più, ahimé, espatriano per spendere l’ultima parte della loro vita in un buen retiro che si sono costruiti con i soldi messi da parte durante le loro poco commendevoli attività. Forse servirebbe un novello Ignazio Silone che oggi scrivesse Il Rifugio dei Dittatori. Avremmo così un manuale per turisti a caccia di queste nefaste incrostazioni della storia. Un tempo era la Costa Azzurra france-
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se la meta prediletta dai moderni Caligola. Parigi doveva confrontarsi periodicamente con ondate di protesta fomentate dai difensori della giustizia e della democrazia, o semplicemente dalle vittime di quei mentori di regimi violenti e liberticidi. Quanto ingenuo spreco di preziosissimo sdegno.
Oggi la Francia chiede l’estradizione agli Usa di Manuel Noriega, il feroce dittatore di Panama, detto anche cara de pina, faccia d’ananas. Ora detenuto nelle carceri federali. Un tempo chiudeva un occhio, anzi accoglieva volentieri personaggi dal curriculum assai equivoco. Ad esempio, nel 1993, fu il caso del dimissionario presidente della Nigeria, il generale Ibrahim Babangida,
a 53 anni – Ibb per gli amici – che aveva governato il Paese africano dal 1985. Aveva intenzione di concedersi un esilio dorato in una proprietà di tre ettari, disseminata di ulivi e palme, dotata di piscine e campi da tennis. La villa era situata nei pressi di Grasse ed era stata acquistata, nel novembre del 1990, da una società di Ginevra che aveva fatto grossi affari con il governo di Lagos. Babangida, da tempo aveva accumulato un tesoro nelle banche della Confederazione elvetica. E si sarebbe trovato in buona compagnia, con altri dittatori deposti o ancora in carica, come Claude Duvalier e Mobuto Sese Seko. Quest’ ultimo un assiduo frequentatore di Roquebrune Cap Martin. Una compagnia di giro, dove non
mondo matiche e di sicurezza degli Stati Uniti per le quali non si ancora fatta sufficiente chiarezza. È lui che fa da mediatore nei rapporti segreti fra l’Amministrazione Reagan e il lider maximo cubano, Fidel Castro. Ed è sempre “Faccia d’ananas” che gestisce il traffico di armi verso i Contras del Nicaragua, le forze paramilitari che combattono il governo rivoluzionario-sandinista di Managua, con il sostegno del Pentagono. Non si fa nemmeno scrupolo di ospitare sul suo territorio nazionale l’ex scià di Persia, Resa Pahlevi II, già deposto nel 1979. Una scelta, questa, legata collateralmente allo scandalo “Irangate”, che mette in serio imbarazzo la Casa Bianca. Noriega però resta per Washington quel dittatore spregiudicato ma necessario, disposto a sporcarsi le mani senza che venga toccato da alcun turbamento morale. La sua avidità politica e di denaro lo
mancavano mafiosi e inquisiti delle nostre Tangentopoli, alcuni sceicchi dal passato di Dart Fener arabi. Ma parliamo di voci che rincorrono fatti, del gossip diplomatico ed economico che lascia filtrare, senza affermare. Oppure di vere e proprie bufale, messe in giro ad arte, per proteggere. Non è mai possibile sapere con esattezza la meta finale di questi rappresentanti delle “regimocrazia” internazionale. Difficile fare un censimento dei dittatori, in esilio o no, con villa in Costa Azzurra. Si dice che persino Bokassa ne avesse una.
portano tuttavia a commettere l’errore di fare il doppio gioco in un settore in cui il puritanesimo americano degli anni Ottanta non lascia spazio ai “Giano bifronte”. Nel 1988 la Dea, l’agenzia Usa antidroga, incrimina Noriega per i suoi legami con il cartello colombiano di Cali, il quale all’epoca controlla l’80% del traffico di cocaina ed eroina negli Stati Uniti. Successivamente il trust criminale verrà inglobato nel più solido e concorrente cartello di Medellin.
Washington avrebbe permesso tutto a Noriega, fuorché un tradimento nella guerra alla mafia colombiana. Una questione per cui le due Amministrazioni repubblicane Reagan e Bush sr. hanno speso anima e corpo nel corso di tutti gli anni Ottanta. Noriega da solo ha rischiato di far saltare la macchina da guerra americana. Da quel momento la Casa Bianca fa di tutto per eliminare il “traditore”. Nel frattempo negli Usa comincia una campagna di diffamazione me-
gresso, poi si trasferì nella villa «Mohamedia» di Mougins, graziosamente messa a sua disposizione dal figlio di Khashoggi, uomo di affari saudita. Quest’ultimo era finito nerl mirino delle autorità perchè sospettato di aver custodito i preziosi quadri trafugati da un altro dittatore, Marcos, prima della sua fuga dalle Filippine. Dal 1986 «Bébé Doc» trascorreva il suo illimitato
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diatica che culmina con la notizia del 15 dicembre 1988 per cui Panama avrebbe dichiarato guerra agli Stati Uniti. Esatta-
mente cinque giorni dopo, il presidente Bush dà l’ok per “l’Operazione Giusta Causa”. Il Pentagono invia a Panama 27 mila uomini a sostegno di Guillermo Endara Galimany, che sarebbe dovuto diventare il nuovo leader di Panama. Le forze di Noriega resistono fino al giorno di Natale. Negli scontri di allora muoiono centinaia di panamensi e 23 soldati americani.
“Faccia d’ananas”, intuendo l’impossibilità di resistere, cerca rifugio rocambolescamente presso la Nunziatura apostoli-
ca, dalla quale ne esce dopo che le truppe Usa, non potendo sparare contro la rappresentanza del Vaticano, hanno bersagliato l’edificio con musica rock ad altissimo volume. Noriega si arrende, ma si dichiara prigioniero di guerra, sperando così in un trattamento speciale. Nel 1992 la Corte della Florida lo ha condannato a 40 anni di prigione per traffico di droga, estorsione e riciclaggio di denaro sporco. La pena successivamente è stata ridotta a 30 e poi a 17 anni. Finora la famiglia Noriega ha sperato di riportare l’anziano dittatore in patria. L’intervento francese però scompagina questi programmi e rischia di far concludere la storia dell’ex dittatore in un carcere di Parigi. L’unica incognita riguarda la scelta dei Tribunali transalpini: se considerare questi vent’anni di carcere vissuti da Noriega come una pena già scontata, oppure – nel caso di un’eventuale e ulteriore condanna – di “riazzerare” il conteggio.
saudita Akram Ojjeh nel 1986. Un luogo da Mille e una notte in mezzo a un parco di dieci ettari. Marmo bianco e rosa, una superficie abitabile di mille metri quadrati, piscina coperta, sauna, jacuzzi, tennis, eliporto e una cantina con mille bottiglie di vini pregiatissimi. Dalla Costa Azzura il passo per un ingresso trionfale nel casinò di Montecarlo, è breve. Lì figurano clienti di spicco come gli emiri del Qatar e del Bahrein.
Un tempo era la Costa Azzurra la meta prediletta dai moderni Caligola. Sul lungomare potevi incrociare “il gotha” africano: da Bokassa a Babangida. Grasse e Cap Martin le mete preferite
Banchieri e manager europei non storcevano il naso quando li incontravano nelle occasioni ufficiali. Gli allegri tiranni della Cote d’Azur si presentavano ai banchetti con le loro donne e le loro guardie del corpo, spesso dando feste a caviale e champagne e spendendo ”generosamente” i dollari rapinati alla loro gente, nei casinò tra Mentone e Cannes. Jean Claude Duvalier fu portato in Francia in aereo nel febbraio del 1986. Prima passò da Grasse, evidentemente una meta d’in-
tempo libero tra Parigi, Ginevra e le Alpi Marittime. La sua fortuna è stimata circa 600 milioni di dollari, una somma decisamente irrilevante rispetto ai cinque miliardi di dollari della buon anima – si fa per dire – di Mobuto, presidente dello Zaire, che possedeva castelli, terreni, palazzi e un appartamento all’avenue Foch. La sua villa di Roquebrune Cap Martin, battezzata «Del mare», è stata comprata dal miliardario
Fu il governo socialista di Laurent Fabius ad accogliere, senza battere ciglio, Jean Claude Duvalier, tiranno di Haiti. Ora è quello di centrodestra di Sarkozy che ha chiesto l’estradizione dell’ex dittatore di Panama. Ma non è solo la Francia ad “accasare” certi personaggi. Basti pensare a Idi Amin Dada, despota ugandese, che dovette fuggire dal suo Paese nel 1979 per rifugiarsi dai suoi mentori libici. Poi passò in Iraq e infine in Arabia Saudita, dove godette di uno stipendio governativo fino alla sua morte avvenuta nel 2003.
Sopra, i dittatori JeanClaude Duvalier (Haiti) e Mobutu (ex Zaire). In apertura, il generale Noriega e la Clinton. Un poliziotto della Dea
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Difesa. In vista del vertice di maggio, l’intervento dell’ex ambasciatore Usa all’Onu ebbene i resoconti e dossier sulle politiche nucleari che il presidente Obama sta mettendo in campo si siano incentrati sulle loro implicazioni per gli Stati Uniti, non è di certo meno importante comprendere gli effetti su amici ed alleati della America. Eventi come il nuovo accordo Start, il trattato sul controllo degli armamenti siglato con la Russia, la pubblicazione del Nuclear Posture Review dell’attuale amministrazione, il recente vertice di Washington sulla sicurezza nucleare, e l’incertezza che aleggia sulla conferenza di aggiornamento del Trattato di Non- Proliferazione Nucleare, prevista per maggio, si ripercuotono su tutte le capitali del mondo. Le politiche intraprese da Obama si dimostrano negative in egual misura tanto per l’America quanto per coloro che da decenni fanno affidamento sul deterrente nucleare statunitense come pilastro della propria strategia nazionale di difesa. Poiché le capacità di Washington diminuiscono, e dato che l’eventualità dell’utilizzo delle armi nucleari si riduce, gli alleati chiedono con forza garanzie se l’ombrello nucleare statunitense continuerà a fornire loro la protezione di cui hanno goduto nei tempi passati.
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Molti alleati comprendono chiaramente che i nostri reciproci avversari globali non hanno nessuna intenzione di imitare Obama nel suo tentativo di ridurre l’entità dei programmi di difesa nucleare. I nostri amici denotano di conseguenza una sempre maggiore insicurezza. Se Washington non continuerà a mantenere l’ombrello protettivo che così a lungo ha garantito stabilità strategica, altri paesi inizieranno a prendere decisioni diverse su come proteggere se stessi, ivi compresa, per alcuni, la possibilità di sviluppare propri arsenali nucleari. All’interno dell’Amministrazione vi sono strenui sostenitori di un’America che si impegni in una “rinuncia al primo utilizzo” delle armi nucleari. Quantunque il Nuclear Posture Review abbia in un certo senso “semplicemente” esteso le “Negative Security Assurances” vi sono pochi dubbi sul fatto che il concetto di “rinuncia al primo utilizzo” abbia fatto proseliti nelle stanze dell’attuale Amministrazione. Tali costrizioni auto-imposte circa l’utilizzo degli armamenti nucleari avvalorano i timori dei nostri alleati sul fatto che Obama abbia dimenticato la lezione più importante della Guerra Fred-
Obama, in caso di guerra chi difende gli alleati? Ecco perché la ritirata americana dal nucleare incoraggia la proliferazione di John R. Bolton
da riguardo alla deterrenza nucleare statunitense. Non vi è mai stato dubbio alcuno che un attacco sovietico condotto attraverso il cosiddetto Fulda Gap e diretto contro l’Europa occidentale avrebbe creato scompiglio tra le forze Nato, dilagando probabilmente sino alla Manica.
Pertanto, la minaccia di una ritorsione nucleare da parte statunitense in risposta ad un tale attacco – un caso di certo non ambiguo di primo utilizzo statunitense di armi nucleari – rappresentava precisamente ciò che era giudicato necessario al fine di mantenere le forze sovietiche sull’altro lato della Cortina di Ferro. I rischi derivano non solo dalle politiche sul nucleare dell’amministrazione Obama. Cancellando i progetti di siti di difesa missilistica in Polonia e nella Repubblica Ceca, il Presidente ha dimostrato di non riporre più piena fiducia negli arsenali missilistici come cardine del sistema di difesa nazionale. Inoltre, e ciò risulta altrettanto importante, la Russia ed altri attori hanno rapidamente interpretato la
Se Washington non continuerà a mantenere l’ombrello protettivo, altri Paesi difenderanno se stessi. L’America vuole questo?
decisione di non sviluppare le strutture difensive in Europa orientale come una retromarcia di Washington in risposta alle minacce di Mosca.
Nella migliore delle ipotesi, Obama ha dimostrato di essere pronto a fare ricorso al sistema missilistico di difesa statunitense solo in quanto moneta di scambio, riesumando così quella sciagurata opzione politica che Ronald Reagan aveva coerentemente ed energicamente respinto. Se il suolo statunitense si ritrovasse ad essere vulnerabile, la sua volontà di rischiare un confronto con un avversario si ridurrebbe considerevolmente. In tali circostanze, gli alleati degli Stati Uniti non potrebbero contare, come invece avveniva ai tempi della Guerra Fredda, sulla minaccia di rappresaglie nucleari da parte di Washington nel caso di aggressione. Di conseguenza, gli europei dovrebbero ora essere molto preoccupati per il fatto di essere sempre più soli nel confronto con la riemergente minaccia incarnata da una Rus-
sia belligerante. Poiché il nuovo Start non limita le armi nucleari tattiche, la Vecchia Europa, proprio per via della sua prossimità geografica, si rivela assolutamente vulnerabile da tale punto di vista, a tutto vantaggio della Russia. Appare pertanto assolutamente ironico che alcuni paesi membri della Nato abbiano recentemente invocato la rimozione dal suolo europeo delle ultime armi nucleari tattiche statunitensi, la qual cosa non farà altro che accrescere l’attuale vantaggio di Mosca. Per di più, dato che il conflitto in Afghanistan ha aperto nuove crepe in seno all’alleanza atlantica, l’Europa deve valutare se tale vetusta organizzazione sia in grado di rinnovare i suoi originari obiettivi di difesa di fronte alla minaccia posta da Mosca.
Nel Pacifico, le preoccupazioni si rivelano egualmente acute, in special modo in Giappone. Costretto a misurarsi con la non ambigua realtà di una Cina impegnata in una constante espansione e modernizzazione delle proprie capacità militari convenzionali e nucleari, e con una Corea del Nord che già ospita armamenti nucleari, il Giappone si trova inevitabilmente ad affrontare il dubbio se dotarsi o meno di un proprio deterrente nucleare. L’ambiguità statunitense riguardo la difesa missilistica non fa altro che aumentare le preoccupazioni di Tokyo, data la sua vicinanza all’Asia orientale continentale ed ai missili balistici lì collocati. La Corea del Sud, Taiwan e l’Australia, tra gli altri, condividono i timori nipponici, ognuno di questi attori a seconda delle proprie circostanze. Così, mentre si registrano indubbie variazioni tra gli alleati dell’America circa le vere implicazioni del ritiro globale di Obama dalla strategica posizione di dominio nucleare, la direttrice generale non è in dubbio. Il declino statunitense lascia i nostri alleati sempre più soli, incerti sull’impegno e la risolutezza di Washington, costretti ad affrontare decisioni difficili su come garantire la propria sicurezza nazionale. Ironia della sorte, sono proprio i nostri alleati che potrebbero far accrescere il livello di proliferazione nucleare, non tanto i nostri nemici giurati. Questa è la realtà creata dalla ritirata dell’America nucleare, l’esatto opposto del bonario ottimismo dell’amministrazione Obama, secondo cui una ridotta capacità nucleare statunitense incoraggerebbe gli altri a fare altrettanto.
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Voto compatto dei repubblicani contro il dibattito
È alta 4 metri e il suo modello è il Cristo di Rio de Janeiro
Riforma finanza: dal Senato primo stop alla Casa Bianca
Sfida cristiana all’Iraq: eretta statua di Gesù
WASHINGTON. La delusione
HAMDANIYA. I cristiani del nord dell’Iraq hanno scelto di sfidare le minacce degli estremisti locali erigendo ad Hamdaniya una grande statua del Cristo redentore sul modello di quella che si erge sul monte di Corcovado a Rio de Janeiro. Di dimensioni ridotte rispetto a quella brasiliana, con i suoi circa quattro metri la statua irachena è diventata il monumento più visitato della città, la più grande località cristiana del nord. «Non si tratta di lasciare un segno della nostra presenza in questa regione poiché non abbiamo alcuna intenzione di andarcene. Ma erigendo una statua di Gesù con le braccia aperte, vogliamo lanciare un messaggio di pace e di coesistenza a tutti gli iracheni»,
era nell’aria, ma per i democratici il voto procedurale in Senato sulla riforma della finanza è comunque stato una doccia fredda: servivano 60 voti per superare lo sbarramento repubblicano, concludere il dibattito e portare la legge al voto dell’aula, ma la votazione si è conclusa con 57 sì e 41 no. Questo significa che non solo i repubblicani hanno votato compatti contro la chiusura del dibattito, come era prevedibile, ma la maggioranza si è persa per strada anche il voto di un democratico (Ben Nelson del Nebraska), oltre a quello del leader della maggioranza Harry Reid che ha votato “no” per assicurarsi la possibilità, secondo il regolamento del Senato, di riproporre il voto in aula nei prossimi giorni.
Nella mattinata di ieri è arrivata la risposta di Barack Obama, che in un discorso pronunciato alla Casa Bianca dopo aver incontrato la commissione sulla riduzione del deficit da lui nominata, ha detto che bisogna agire in fretta per evitare di lasciare sulle spalle delle generazioni future una «montagna di debiti». Il presidente, poi, si è rivolto direttamente ai giornalisti, affermando che non avrebbe antici-
Base navale ai russi, caos e botte in Ucraina La lobby di Putin ottiene il sì alla flotta in Crimea di Luisa Arezzo
KIEV. La visita lampo di Vladimir Putin lunedì a Kiev ha funzionato: e la lobby esercitata sulle foze politiche ucraine ha portato alla proroga per la permanenza della Flotta russa del Mar Nero a Sebastopoli di 25 anni. Il premier russo ha ottenuto quello che voleva (un doppio successo, visto che Medvedev raggiungeva nelle stesse ore un accordo con la Norvegia sui confini dell’Artico, una querelle che andava avanti da anni), ma il caos nella Rada, il parlamento ucraino, ha ricordato molto da vicino la guerriglia. Subito dopo la ratifica, Vladimir Lytvyn, il presidente dell’assemblea è stato bersagliato con uova trovando riparo dietro gli ombrelli aperti dai commessi. Una folla di manifestanti si è radunata in Verkhovna Rada e di fronte alla sede di governo; rappresentanti dell’opposizione - “Ucraina nostra” di Yulia Tymoshenko; “Fronte per il cambiamento”e gli ultranazionalisti di “Svoboda” - hanno occupato palazzo Mariinsky e via Hrushevskoho. Il lancio del primo fumogeno ha fatto scattare l’allarme antincendio e spinto alcuni deputati a indossare le maschere antigas, ma non ha fermato il dibattito. Una maggioranza piuttosto risicata di deputati - 236 sui 450 - ha ratificato l’accordo firmato dal presidente filo-russo Viktor Yanukovych e da quello russo Dmitry Medvedev, per il prolungamento fino al 2042 della concessione della base navale in Crimea in cambio di uno sconto del 30 per cento sulle forniture di gas dalla Russia. «Vergogna, vergogna» urlavano i deputati dell’opposizione che si sono anche accapigliati con quelli della maggioranza intorno a una gigantesca bandiera dell’Ucraina aperta in aula. Il conflitto vero parte nel 1991, ma risale al 1954, quando l’allora segretario del Pcus Nikita Krushev mettendo una firma su un pezzo di carta regalò la Crimea all’Ucraina. Allora non era un gran problema, dato che tutti erano sotto il grande ombrello sovietico. I primi nodi iniziarono a venire al pettine subito la dissoluzione dell’Urss e l’indipendenza dell’Ucraina, non solo perché gran parte della popolazione nella penisola sul Mar
Nero era di etnia russa. Un ruolo fondamentale nell’eterna questione l’ha sempre giocato la base di Sebastopoli, come tutto il resto integrata nel tessuto politico, economico e sociale della Crimea. In sostanza un pezzo di Russia su territorio ucraino. Dopo il confuso periodo dei primi anni Novanta, alla Crimea venne concesso lo stato di Repubblica autonoma di Ucraina e gli accordi del 1997 tra i presidenti Leonid Kuchma e Boris Eltsin regolarono provvisoriamente lo status di Sebastopoli e dell’ex flotta sovietica. La base venne data in affitto a Mosca dietro un corrispettivo di quasi 98 milioni di dollari l’anno per un periodo di 20 anni, cioè fino al 2017.
La questione è tornata al centro delle polemiche nel 2008 con la guerra in Georgia e i messaggi poco velati dell’ex presidente Yushchenko al Cremlino di tenersi pronto a fare le valige dalla Crimea. Il cambiamento di vertice a Kiev con il tracollo dei rivoluzionari arancioni, da Yuhchenko alla Tymoshenko, e l’arrivo di Victor Yanukovich, hanno cambiato le carte in tavola ancora una volta. Tolta dall’agenda l’entrata dell’Ucraina nella Nato e riportato il timone verso Mosca, il nuovo capo di stato ha sorriso volentieri alle proposte del Cremlino di prolungare la permanenza sino al 2042 facendo uno sconto sulla bolletta del gas. Un pragmatismo che ha suscitato le focose proteste dell’opposizione parlamentare ma va in direzione di quello che la maggioranza degli ucraini desidera. Come hanno segnalato recenti sondaggi la gente in Ucraina si preoccupa poco degli equilibri geopolitici e più alla borsa della spesa. Soprattutto con l’economia del paese vicina al collasso. Solo poco più del 20% degli ucraini è contrario alla permanenza russa a Sebastopoli, oltre il 60% è favorevole, tra questi ovviamente la stragrande maggioranza di coloro che vivono nelle regioni dell’est, del sud e dei diretti interessati in Crimea, dove la base di Sebastopoli rappresenta un importante fattore economico e di stabilità.
236 sui 450 deputati hanno ratificato l’accordo firmato da Yanukovych e Medvedev. Subito dopo, la rissa
pato loro nulla del lavoro della commissione, presieduta da Bowles e Simpson. «Tutti voi, amici dei media, ci chiederete una volta alla settimana o due volte al giorno quello che prevediamo o escludiamo. È un vecchio gioco di Washington ma noi questa volta non staremo al gioco, voglio che questa commissione sia libera di fare il proprio lavoro». Ricordando i gravi problemi economici causati dalla crisi finanziaria, Obama ha assicurato che «attaccando gli sprechi e le frodi» si riuscirà nel lungo termine a far diminuire il debito americano che, secondo le ultime previsioni, nel 2010 si attesterebbe sui 13mila miliardi di dollari.
ha affermato Bachar Girgis Habbache, 48 anni, coordinatore per gli Affari cristiani della città.
Intanto, un rapporto di Human Rights Watch ha confermato che le minoranze, in particolare cristiane, del nord dell’Iraq, sono vittime collaterali del conflitto tra arabi e curdi ma anche di estremisti sunniti. Mentre Amnesty, sempre ieri, ha denunciato le centinaia di civili morti a causa di un mancato controllo della situazione. «La statua rappresenta soltanto un’opera minuscola comparata a tutto ciò che i cristiani hanno fatto per l’Iraq nei secoli e se questa statua è distruttibile, la storia dei cristiani in questo paese non potrà essere cancellata», ha commentato Habbache. L’iniziativa e la realizzazione sono il frutto del lavoro di due guardie di sicurezza locali e 20 volontari. «L’abbiamo costruita in meno di un mese. spendendo 150mila dinari (128 dollari, ndr)», ha precisato una delle due guardie, Alaa Naser Matti. «È fatta per durare oltre 30 anni. L’abbiamo dipinta di bianco, che è il colore della pace, e sarà restaurata ogni anno. Abbiamo scelto di fare un Gesù con le braccia aperte, il che significa che prende la città sotto la sua protezione e diffonde la pace in Iraq».
cultura
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Mostre. Parte al Vittoriano di Roma una ricca esposizione di cimeli e memorabilia che celebra la storia del Cane a sei zampe e di Enrico Mattei
Eni Vidi Vici, ecco il mito I sogni di gloria e la miseria, le trivelle e il boom: storia di un marchio che ha fatto l’Italia moderna di Massimo Tosti uando il mostro apparve sulle stazioni di servizio e nei manifesti pubblicitari, l’Italia intera si interrogò sul suo significato. Non s’era mai visto un cane a sei zampe. Come se non bastasse, quell’esemplare – nient’affatto domestico – sputava fiamme, come i draghi che molti secoli prima San Giorgo s’era preoccupato di combattere e sconfiggere. Mezzo amico dell’uomo, e mezzo animale mitologico e inquietante. Si moltiplicarono interpretazioni e supposizioni, finché l’ufficio stampa dell’Eni spiegò che le sei zampe erano semplicemente la somma fra le quattro ruote di un’automobile e le due gambe del conducente.
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Quanto alla lingua di fuoco non occorreva una didascalia: i film americani (prima ancora delle trivellazioni di Caviaga e Cortemaggiore) avevano rivelato a tutti che prima che il petrolio sgorghi dal sottosuolo, il pozzo lancia fiamme e lapilli come un vulcano. Un giorno (alla fine degli anni Quaranta) il protagonista principale di questa storia – Enrico Mattei, prima liquidatore dell’Agip e poi fondatore dell’Eni di cui l’Agip fu la spina dorsale – disse a Vittorio Valletta, presidente della Fiat: «Se in questo Paese sappiamo fare le automobili, dobbiamo saper fare anche la benzina». In realtà, la stragrande maggioranza degli italiani ebbe la benzina prima dell’automobile. Le quattro ruote erano ancora un sogno: sarebbero diventate una realtà a partire dal 1955 quando dalle officine della Fiat uscirono le prime 600, l’utilitaria alla portata finalmente di molti capifamiglia e, poi, due anni più tardi, con l’inizio della produzione della Nuova 500, chiamata a sostituire sul mercato le Topolino. Il primo boom della motorizzazione aveva riguardato le
due ruote: la Vespa (il primo scooter prodotto nel mondo) era entrata in produzione nel 1946, seguita – a un anno di distanza – dalla Lambretta. I due scooter costavano intorno alle 120mila lire, mentre la Topoli-
All’epoca fu molto discussa la paternità del simbolo: molti puntarono su Longanesi ma era opera di Giuseppe Guzzi
no costava sei volte tanto. La benzina, nel 1952, costava 138 lire al litro. Il salario di un operaio arrivava a fatica a 40mila lire al mese, quello di un impiegato toccava le 60mila. Gli italiani, nel 1952, cantavano: «Dio del ciel se fossi una colomba / vorrei volar laggiù dov’è il mio amor!». I versi strappalacrime raccontavano l’amore infelice di due ragazzi triestini, divisi dai confini fra Zona A e Zona B, conseguenza della sconfitta nella Seconda guerra mondiale. Vola colomba, cantata da Nilla Pizzi vinse quell’anno il Festival di Sanremo. L’Italia – a parte il Festival – era completamente diversa da quella di oggi. Le città mostravano ancora il volto delle macerie. Ci voleva coraggio per avviare nuove attività, ci voleva persino un pizzico di follia per puntare sulla ripresa. Il coraggio fu una delle doti di Enrico Mattei. Gli avevano affidato – alla fine della guerra – l’incarico di liquidare l’Agip, un’azienda di Stato creata negli anni Venti. Mattei, convinto che il sottosuolo italiano fosse ricco di gas e di petroli, puntò viceversa sul potenziamento dell’azienda. Le trivelle si misero al lavoro per estrarre gas e petrolio. Fu quella – nel dopoguerra – la prima volta che l’Italia sognò di entrare nel club ristretto dei Grandi Paesi, imboccando la strada dello sviluppo economico e non della forza politica e militare.
Mattei aveva indossato i panni dell’imprenditore, dopo quelli di partigiano e di politico. Ma era anche un comunicatore, uno dei primi a rendersi conto di quanto fosse importante
Nella foto grande, il fondatore dell’Eni, Enrico Mattei. Qui sotto, a sinistra, il padre della compagnia petrolifera italiana interpretato da Massimo Ghini, e la locandina del film di Francesco Rosi dedicato alla sua misteriosa morte. A destra, in alto, il celebre Cane a sei zampe disegnato da Giuseppe Guzzi. Più giù, la Vespa e la Lambretta, mezzi simbolo dell’Italia del boom
l’immagine. Per questo bandì un concorso – aperto a tutti – per trovare il simbolo (oggi si direbbe il brand) che descrivesse la sua azienda. Alla gara parteciparono quattromila bozzetti; ci vollero 14 riunioni della giuria per scegliere il vincitore. Nella seduta conclusiva (a Merano) fu scelto il Cane a sei zampe presentato da Giuseppe Guzzi, che si era limitato a rifinire il bozzetto, ma che si rifiutò di rivelare chi ne fosse l’autore e ideatore. Questo segreto scatenò la legittima curiosità di tutti. Si moltiplicarono le voci sull’identità del creatore: molti puntarono il dito su Leo Longanesi, che era uno degli intellettuali più geniali
del tempo; altri ipotizzarono che si trattasse di Fortunato Depero, che aveva comunque presentato un altro logo con il suo nome. Chi sospettava di Depero, sottolineava come le sei zampe evocassero molte opere futuriste, che – per dare
cultura
che finiva accendendo la fiamma del gas) divenne il logo di Agipgas: l’anomalia delle tre zampe, rimandava direttamente a un mondo fantastico e misterioso, quale è il mondo fossile sotterraneo. Il tratto aggressivo diceva esplicitamente che si trattava di una fonte energetica potente. L’animale prescelto dichiarava, per converso, il carattere domestico, familiare, sicuro, del combustibile gpl. E un serpente fu l’immagine scelta per far conoscere i lubrificanti dell’azienda.
l’idea del movimento e della velocità – ricorrevano proprio alla moltiplicazione delle gambe o delle ruote. Il mistero è stato svelato soltanto negli anni Ottanta, dopo la morte di Luigi Broggini, un artista di indiscusso valore sia nella pittura che nella scultura. A rivelare l’identità del “papà del cane” fu il figlio di Broggini, che giustificò con il carattere schivo del padre la scelta di non apparire. Al Cane a sei zampe (che nell’arco di quasi sessant’anni, ha leggermente modificato il proprio aspetto, accorciandosi e perdendo qualcosa in ferocia) è dedicata una mostra al Vittoriano, che ripercorre tutte le tappe di quell’idea vincente, che ha accompagnato gli italiani di tre diverse generazioni, come le uova di Pasqua o i panettoni natalizi. Quando – negli anni Sessanta – si aprì l’era delle autostrade, gli automobilisti scoprirono le stazioni di servizio ampie e confortevoli, molto “americane” (del genere di quelle dipinte da Edward Hopper, il maestro del realismo), e la catena di Motel Agip che sorgevano nelle aree di sosta.
L’Agip divenne il marchio dell’Italia moderna, che aveva superato il trauma della mise-
ria, e scopriva il miracolo economico. L’Italia che sostituì le gite fuori porta (a bordo dello scooter) con i fine settimana (presto ribattezzati week-end) sulle utilitarie accessoriate con le immagini magnetiche di San Cristoforo e dei bambini ( Non correre papà) incollate accanto al volante, con il cagnolino che scuoteva la testa sul lunotto posteriore. Il regista Ettore Scola, aveva completato l’idea di Broggini, con lo slogan “fedele amico dell’uomo a quattro ruote”. Il successo del Cane indusse l’Eni a scegliere altri due animali per far conoscere i propri prodotti. Un gatto a tre zampe (manto tigrato e dalla testa volta all’indietro, verso la coda ricurva,
Nella mostra del Vittoriano 196 immagini, 50 documenti originali, 30 ”caroselli”, 70 memorabilia, 25 filmati aziendali e 20 vignette satiriche provenienti dal ricco patrimonio dell’archivio storico Eni e da collezioni private consentono al visitatore di ripercorrere la storia dell’azienda. La Mostra ripercorre le tappe significative, i fatti storici, i mutamenti che l’Italia ha vissuto dagli anni Cinquanta, ma anche le storie di un protagonista che ha avuto il coraggio di immaginare il futuro: Enrico Mattei. La parte
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finale dell’esposizione è, invece, dedicata al presente, con un’opera esclusiva ispirata al Cane a sei zampe realizzata dalla sand artist israeliana Ilana Yahav, una delle protagoniste della nuova campagna Eni, incentrata sulla valorizzazione di talenti emergenti nelle più diverse discipline artistiche. «Oggi Eni», ricorda l’amministratore delegato Paolo Scaroni, «è una Energy company, che ha saputo perseguire una corretta integrazione di tutte le sue attività. È presente in oltre settanta Paesi e unisce le energie di oltre settantamila persone. Per dimensioni è la prima realtà economica italiana e tra le più importanti al mondo. Ed è soprattutto una realtà capace di restare fedele alla propria storia, ma sempre
più aperta, dinamica, proiettata in avanti grazie al coraggio di immaginare il futuro». Che era poi la linea tracciata oltre sessant’anni fa da Enrico Mattei. Quando si rese conto che il sottosuolo italiano offriva possibilità inferiori alle speranze, non esitò a espandere la propria attività oltre i confini nazionali. La benzina continuò per anni a chiamarsi Supercortemaggiore (dal nome del
paese nel quale erano stati trovati i primi giacimenti di oro nero), ma il petrolio sgorgava altrove: soprattutto in Africa e nel Medio Oriente. Geologi, ingegneri, perforatori, si spostarono con le proprie famiglie in Egitto, Iran, Libia, Tunisia. La bandiera con il Cane a sei zampe svettava sulle piattaforme in mezzo al mare: imponenti strutture metalliche impiegate per l’esplorazione di aree marine dove erano stati individuati giacimenti di idrocarburi. E la storia di Mattei (e dell’Eni) divenne un intrigo internazionale, nel quale l’azienda italiana sfidava le Sette Sorelle, cioè le multinazionali che fino ad allora si erano divise i profitti dell’estrazione del petrolio. Mattei morì il 27 ottobre 1962, a bordo di un bireattore di proprietà dell’Eni, che precipitò – per cause mai completamente accertate – in un campo in località Bascapè, a poco più di dieci chilometri da Linate. A bordo, oltre al pilota Irnerio Bertuzzi, c’erano un giornalista inglese, William Mc Hale, e il presidente dell’Eni. Le condizioni atmosferiche erano pessime, ma forse non tali da giustificare l’incidente. L’aereo era decollato da Catania alle ore 16,57. L’ultimo contatto radio con l’aeroporto di Linate, avvenne alle ore 18,57. Quasi subito si formò il sospetto che l’aereo fosse stato sabotato.
Di lì a pochi giorni – il 6 novembre – Mattei si sarebbe dovuto recare in Algeria per firmare un accordo, giudicato molto scomodo per le Sette Sorelle. La Procura di Pavia aprì un’inchiesta per i reati di omicidio pluriaggravato e disastro aviatorio. Tre anni e mezzo più tardi, l’indagine si chiuse con una sentenza di non luogo a procedere «perché i fatti non sussistono». Il caso fu riaperto nel 1970 in seguito alla scomparsa di un giornalista siciliano, Mauro De Mauro, che stava svolgendo indagini approfondite sul disastro aereo e le sue possibili cause. Nel 1997, un Pubblico Ministero di Pavia giunse alla conclusione che l’aereo fosse stato abbattuto da una «limitata carica esplosiva, probabilmente innescata dal comando che abbassava il carrello». Un attentato, dunque. Ma – a distanza di quasi quarant’anni – i magistrati che cercarono di ricostruire la verità non furono in grado di scoprire gli autori materiali del crimine, limitandosi a formulare ipotesi (opinabili, come tutte le ipotesi) sui presunti mandanti.
cultura
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astano il titolo, e una rapida occhiata all’indice dei nomi, per capire che ai saggi sulla letteratura italiana del ’900 riuniti da Domenico Scarpa in Storie avventurose di libri necessari (Gaffi, Roma 2010) è sottesa un’implicita matrice garboliana. Ognuno di questi undici pezzi forma un tessuto trapuntato dalle figure di singoli destini spesso messi a confronto con un loro modello, specchiati nella sagoma di un gemello “segreto”, illuminati da un antipodo apparente o reale (e si veda, come termine di paragone, il noto brano di Garboli su Penna e Fortini). Riecheggiando un’immagine manganelliana citata in coda, potremmo dire che simili ritratti-ricami sono i punti d’increspatura del tessuto che conoscono di sé solo un rovescio, e che tocca allo studioso rivoltare.
B
Per farlo, Scarpa afferra la sua tela ai due lembi dell’aneddoto psicologicamente emblematico e del motivo tematicostrutturale; ma intanto si cautela dai rischi della “calda critica” con rapide zoomate di filologo. Garboliani restano anche i punti focali che esercitano il maggior magnetismo: da una parte la grazia poetica più felice e lieve, dall’altra l’oscuro grembo biologico, la fatica non redenta dallo stile in cui si concentra l’ombra di questo idoleggiato sole. Nel primo saggio, ad esempio, Scarpa insegue le tracce che la guizzante fantasia stevensoniana dell’ Isola del tesoro ha lasciato negli scrittori del nostro ’900. E non a caso scopriamo subito che «di lui parlano con maggiore passione coloro ai quali la sua grazia appare a portata di mano, ma vietata da un vetro». Così ci sfilano davanti agli occhi il «vetro» frammentante e calligrafico di Cecchi, e quello etico, “protestante” di Calvino. Ma per Scarpa esiste anche una reincarnazione novecentesca dei motivi più profondi di Stevenson: e sta in quel suo breve «avvenire» italiano che va sotto il nome di Silvio D’Arzo. Ecco quindi, fin da subito, il tema della felicità “senza peso”, e il tema speculare del desiderio inibito, della passione con cui questa felicità è inseguita da chi non la possiede. Allo stesso modo, nel penultimo pezzo, Scarpa ci descrive il vetro attraverso il quale Sciascia fissa Stendhal. Davanti allo «spiritello che oggettiva l’emozione e lo slancio biologico», incarnatosi nel felice «scrittore d’evasione» Beyle, troviamo un suo cupo ammiratore siciliano sempre incline ad autoimprigionarsi. Il libro si chiude poi sulla strana coppia Manganelli-Primo Levi: e qui il saggista tenta di convincerci del fatto che dietro
Libri. Scarpa mette a confronto i grandi scrittori italiani nelle sue “Storie avventurose”
Le vite parallele di Sciascia & Co. di Matteo Marchesini due universi in apparenza così alieni si nasconde una comune «vocazione didascalica», seppur parallela e diversamente «stravolta». Sia l’autore di La letteratura come menzogna sia il testimone di Auschwitz, sotto poetiche opposte e ten-
confronti. Ma anche dove delinea il ritratto di un singolo, Scarpa lo fa nutrendo di continuo la sua pagina con altri paragoni tangenziali.
Esplorata la rapidità stevensionana, l’autore ci fa passare per il ruminio di Corrado Alvaro, scrittore lento e «opaco», dal tono «neutro ma non neutrale», che si difende dal fascismo con la passiva resistenza
di un «carapace». Segue poi l’indagine sul «lapidario estense» e sull’ovattato solfeggio oratorio di Bassani, che guarda agli eventi come una nottola di Minerva miope, orbata. Tutto l’opposto delle vampate stilistiche al magnesio di Domenico Rea, scrittore sbracciato e «primario», sospeso tra peripezie voraci e densi raccoglimenti. Il suo destino ingrato illumina il traumatico passag-
Al centro dell’opera i punti focali dell’analisi garboliana: da una parte la grazia poetica più felice, dall’altra la fatica di vivere non redenta dallo stile
denziose, sarebbero i misuratori di un inferno reso lineare e “pedagogico”da stili che lo circoscrivono con metodo, e che trattano pudicamente l’io come un epifenomeno. In questo senso, il vero avversario di entrambi è l’altro Levi, Carlo: cioè l’autore immediatamente soggettivista e narcisista; mentre il «medio proporzionale» tra i due immaginari si trova in Calvino. Fin qui s’è parlato dei saggi che puntano tutto sui
Nella foto grande, un dipinto di Renè Magritte, affiancato dalla copertina del libro di Scarpa. Qui sopra, Stendhal e Primo Levi
gio d’epoca avvenuto tra gli anni ’50 e i ’60: quando il promettente Rea si vide sottrarre la palma dello stile viscerale e “neoplastico” da Pasolini. Più avanti, Scarpa porta sulla scena un altro scrittore della stessa generazione, ma sottoposto a diversi tempi di sviluppo: è Luigi Meneghello, che negli anni ’60 raccontò la Resistenza imperfetta dei partigiani «schiappini» con uno stile impuro, tendente a svisare la lingua culta e a glorificare il dialetto nelle tonalità di un’ironia sempre indifesa: ed emblema di questo stile è il termine «parabello» con cui i suoi personaggi un po’ guasconi ribattezzano il fucile mitragliatore. Ma in chiusura, veniamo ai due ritratti più partecipi: Soldati e Parise. Il primo, con la sua prosa «pianeggiante», passa repentinamente dal catalogo al «giudizio idiosincratico espresso con la pacatezza del buonsenso», instilla astutamente in ogni gioia un po’ di malinconia per assaporarne meglio il gusto fuggevole. Anche il pezzo sul «parla come mangi» del buongustaio e omeopata Soldati ricorda un saggio-archetipo garboliano dove si parla appunto del ruolo del cibo, tipico stilema dello scrittore piemontese e di Simenon. Ma il fantasma di Garboli diventa ancor più spesso nelle pagine in cui Scarpa descrive il pulsare gioioso e cruento della prosa di Parise: uno scrittore «etologo» che più che vedere odora, gusta, palpa. Qui però il paragone con Montale funziona solo esteriormente, “tematicamente”, e rischia di sviare dai caratteri decisivi dell’esperienza parisiana. Perché Montale non esiste senza l’atto iniziale con cui dà significato all’assenza di significato; mentre a Parise – come dimostra il periodo “darwinista” - i significati fanno male. Una cosa è il «barbaglio», l’attimo eletto delle Occasioni; tutt’altra cosa lo scintillio del momento qualunque, del tempo “casuale” colto dai migliori Sillabari.
Ecco: nel trarre un bilancio, vorremmo osservare che non di rado Scarpa prende l’abbrivio da confronti tematici un po’ estrinseci, simili a volte a un atto di forza critico; ma speriamo anche di avere dimostrato, con le nostre citazioni, come li sappia poi quasi sempre compensare e giustificare, offrendoci nelle anse saporose del discorso alcuni aforismi critici da antologia.
spettacoli
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Spettacoli. A Modena la compagnia del coreografo americano che offre agli spettatori il meglio del proprio repertorio
Taylor, la danza moderna in tre atti di Diana Del Monte
In questa pagina, alcuni momenti tratti dalla trilogia proposta a Modena dalla compagnia del coreografo americano Paul Taylor. L’artista ha legato la sua straordinaria carriera al brillante debutto di cinquant’anni fa a Spoleto
MODENA. La grazia, la fluidità e la godibilità dell’opera coreografica sono le sue cifre stilistiche. La fiducia nella sua immaginazione e nel suo esprimerla attraverso la danza, un credo. Sabato sera, al Teatro Pavarotti di Modena, è arrivato Paul Taylor, icona della modern dance americana, con la sua compagnia, la Paul Taylor Dance Company, e un programma composto da tre titoli: Changes, Beloved Renegade, Brandenburgs.
Quasi a riprova della fecondità artistica del maestro statunitense che quest’anno compie 80 anni, la serata modenese si è aperta con due creazioni che fanno parte dalla storia recente, anzi recentissima, della compagnia – maggio 2008, la prima, novembre dello stesso anno la seconda – per chiudersi con un tuffo negli anni ’80 con Brandenburgs, del 1988. Già danzatore nelle compagnie di Merce Cunningham, Marta Graham e George Balanchine, nel 1954 Taylor decide di fondare, mentre era ancora impegnato come solista nella compagnia della Graham (19521964), la Paul Taylor Dance Company. Nel 1960, la giovane formazione viene chiamata per la prima volta a un festival internazionale; a invitarla, sotto consiglio di Lincoln Kirstein, Gian Carlo Menotti, allora direttore del Festival di Spoleto. Il viaggio in Italia portò fortuna al coreografo americano e alla sua giovane compagnia che, in Spoleto, vide solo la prima tappa di una lunghissima e fortunata serie di tournée all’estero. Nel 2005, la Paul Taylor Dance Company ha festeggiato 50 anni di attività, costante e continuativa; per l’occasione il City Center di New York ha or-
ganizzato una tresettimane interamente dedicata al coreografo durante la quale, alla fine dell’ultima serata, i 70 danzatori che hanno fatto parte della compagnia dalla sua fondazione a oggi, si sono riuniti per inchinarsi, tutti insieme, di fronte al maestro. Danzatore splendido e versatile, Taylor è entrato tardi nel mondo della danza. Nato a Washinghton, si dedica inizialmente alla pittura e al nuoto – era membro della squadra di nuoto della sua università, la Syracuse University. Il suo incontro con la danza, dunque, avviene solo quando lascia la sua città natale per trasferirsi a New York, dove in-
Nel 2005, il gruppo di ballerini ha celebrato 50 anni di attività e il City Center di New York ha organizzato tre settimane di eventi zia a studiare alla Juilliard School, una delle migliori scuole di danza degli Stati Uniti. Ad oggi, il suo repertorio conta 116 coreografie e più di cinquanta fra premi e riconoscimenti, nazionali e internazionali, tutti ottenuti grazie al suo lavoro con la danza.
Ad aprile, e solo per un breve periodo, la tournée della Paul Taylor Dance Company ha toccato anche il nostro paese, concludendosi sabato sera con l’appuntamento modenese. In questi pochi giorni, la leggerezza e l’armonia che contraddistinguono lo stile coreografico di Taylor hanno illuminato, oltre a quello di Modena, i pal-
coscenici di Mestre, Pavia e Bari, ricordando al pubblico italiano il perché della fama di artista sofisticato e facilmente godibile che il coreografo statunitense si è guadagnato in tanti anni di lavoro. La preparazione tecnica dell’attuale formazione è esattamente come ci si aspetta che sia quella di una grande compagnia di modern dance, ottima; i danzatori sono tutti belli, ordinati, leggeri, divertenti e divertiti, come un gruppo di giovani rampolli dell’ upper east side che, nella coreografia d’apertura, gioca a riportare sul palco i mitici anni ‘60. Changes, infatti, su musiche dei The Mamas and the Papas, è un vero e proprio “California dreamin’”, uno scorcio quasi voyeuristico tra i ricordi del coreografo, colto a riportare alla mente i suoi anni più pazzi. Lo spettacolo si presenta dolce e smaliziato, come sempre appaiono i ricordi delle scorribande giovanili a distanza di anni;autoironico nel suo ritrarre un’età fatta di sogni da realizzare, di progetti per un mondo che si riteneva di poter cambiare. Da qui il titolo: Changes, un pezzo dedicato a tutti cambiamenti possibili, voluti, ricercati, ma mai realizzati, per ricordare, con un sorriso un po’ amaro, come e a cosa si credeva e quanto, in fondo, fosse divertente farlo. «I am the poet of the body, I am the poet of the soul». Intorno a questo verso di Walt Whitman, Taylor costruisce Beloved Renegaded, la seconda coreografia del programma modenese. Qui e in Brandenburgs, l’ultimo pezzo di quelli presentati a Modena, il vocabolario di Taylor appare chiaro e leggibile, manifestando il suo essere punto d’incontro tra la tecnica Graham e la fascinazione dell’universo neo-
costruire il suo personalissimo stile ha attinto liberamente ai registri delle tecniche formulate dai grandi coreografi novecenteschi, primi fra tutti i suoi due maestri diretti, Martha Graham e George Balanchine. Gli scambi, i piccoli passi eseguiti a grande velocità e la costruzione dello spazio scenico si fondono, così, con le pose dinamiche e l’interazione con il terreno di origine grahamiana. In tal senso, è curioso osservare l’utilizzo, che potremmo definire quasi primaverile, di una tecnica che, invece, nella sua forma originale risulta molto dura. Epurata da tutto lo psicologismo junghiano e dimentica, almeno apparentemente, della quasi minacciosa “contraction”, uno dei suoi elementi fondanti, Taylor sembra presentarci la tecnica graham attraverso occhi balanchiniani, e questo risulta molto divertente ai tecnici del settore.
classico balanchiniano, il cui richiamo, a partire dall’utilizzo dei Concerti brandeburghesi di Bach, appare subito evidente. Nella sua lunga carriera, infatti,Taylor non ha mai sentito l’esigenza di elaborare un proprio vocabolario tecnico e per
Andando oltre i virtuosismi analitici, il coreografo statunitense, insignito della Légion d’Honneur nel 2000, riconosciuto dall’Ufficio degli Eruditi della Libreria del Congresso americano come uno dei 50 americani degni di menzione per la loro straordinaria attività nonché membro onorario dell’American Academy and Institute of Atrs and Letter, porta in scena, come sempre, tre spettacoli che riempiono e soddisfano lo sguardo di ogni genere di spettatore, grazie a un movimento che si svolge e respira secondo una linea continua. Si può essere sicuri che il ritorno a casa, dopo aver assistito ad uno spettacolo della sua compagnia, sarà sempre leggero e animato da un sorriso, come lo era, d’altra parte, il palcoscenico.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Si chiude il cerchio della violenza nelle terre più fredde dell’Est L’ennesimo atto kamikaze a Mosca, gli ennesimi volti increduli colti di sorpresa dalla furia dell’odio. Attaccati ai sedili con un collante mortale, corpi innocenti sono passati dal treno sotterraneo alla più grande ed eterna delle luci. Sulla terra resta però un problema intatto, ovvero la valenza di un gesto orribile che giustificherà le successive misure repressive di Putin. Come un’onda anomala che nell’accompagnare un terremoto, avvolge innocenti nel gorgo del male. Alla fine, come una metropolitana puntuale e precisa, si chiude il cerchio della violenza nelle terre più fredde dell’est. La Russia di Putin diventa così l’esatta fotocopia della Russia degli zar, per la tipologia delle vicende che si succedono periodicamente: il terrorismo nord-caucasico è uno delle fiere che lo zar Putin deve domare. Un mondo che proprio per la sua caratteristica rurale, come unica salvezza del sostentamento, come la storia ci ha evidenziato, deve rallentare i progressi locali e, mai come ora, accelerare al massimo quelli centrali, di uno Stato che non ama le mezze misure e alla fine torna vincente, in barba ai tanti bambini che potranno perire nel prossimo attentato o nella prossima repressione delle guardie di Putin.
Gennaro Napoli
FATTI E NON CHIACCHIERE Maicon smentisce categoricamente quanto apparso su alcuni organi di stampa, secondo i quali il giocatore dell’Inter sarebbe arrivato in ritardo all’ultimo allenamento della squadra, mentre invece era presente regolarmente fin dal primo minuto. Maicon smentisce inoltre nella maniera più assoluta le voci che lo vorrebbero interessato a cambiare squadra per la prossima stagione. La sua volontà di rimanere all’Inter è dimostrata dal rinnovo di contratto firmato di recente con la società Nerazzurra. Si invitano quindi tutti coloro che sono interessati a far uscire queste notizie false a trovare un altro giocatore con lo stesso numero di presenze e con lo stesso rendimento di Maicon nelle stagioni disputate in Italia con l’Inter. Questi sono i fatti, il resto sono solo chiacchiere.
Antonio Caliendo
PER IL PRESIDENZIALISMO SERVE L’ASSEMBLEA COSTITUENTE Siccome l’Italia non ha bisogno di una seconda legge “porcata”, probabilmente la grande riforma, là dove hanno già fallito Craxi e la bicameralina di D’Alema, non la farà neppure Calderoli. E questo tutto sommato è un bene, visto cosa è stato capace di fare con la legge elettorale in vigore. Resta il fatto che è improponibile pensare a un sistema presidenziale con la legge attuale, e dunque se l’ultima parola è quella di Gasparri e Rotondi, che non vogliono toccarla, è chiaro che anche questo tentativo finirà in una bolla di sapone. Per una radicale revisione della forma di governo servono pesi e contrappesi che garantiscano tanto la democrazia quanto la governabilità, e soprattutto una condivisione delle nuove regole che sia la più ampia possibile. In una parola servirebbe
Prima della tempesta La campagna nei pressi di Schönbuch, nel land di Baden-Württemberg (sud-ovest della Germania), pochi istanti prima di un violento acquazzone. Il Baden-Württemberg è il terzo land tedesco, sia per estensione sia per popolazione. Il capoluogo è Stoccarda (circa 600mila abitanti)
un’Assemblea costituente e non certo quattro dichiarazioni a giornali e tv.
Riccardo
INCENTIVI DEL GOVERNO Mentre nell’opposizione si litiga ancora sulle direzioni da prendere e sui riferimenti da considerare, dimostrando che il Pd in realtà ancora deve assumere un volto, a destra ci si organizza sul nuovo. Occorre incentivare, per esempio, quell’artigiana-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
lità imprenditoriale che dalla moda al mobile, dal nord a sud, ha atteso troppo tempo per emergere, e adesso si trova a dover fare i conti con il made in China. Esiste una grossa complicità da parte di molte grosse aziende, italiane e anche europee, che da tempo stanno sfruttando il basso costo della manodopera cinese, mantenendo nel contempo le regole delle norme e delle specifiche del prodotto nostrano.
Bruno Russo
da ”YnetNews” del 27/04/10
Ankara chiama Damasco di Ron Ben-Yishal nkara e Damasco si lanciano occhiate d’intesa. E se Turchia e Siria organizzano delle manovre militari congiunte, Israele giustamente si preoccupa. E non si tratta solo delle attività di due forze aramate che fanno pratica insieme, ciò che preoccupa Gerusalemme sono una serie di rapporti che negli ultimi tempi si sono sviluppati tra Ankara e Damasco. L’attività congiunta siro-turca comincerà martedì prossimo, ricalcando ciò che era già stato fatto circa un anno fa. Le perplessità provocate nello Stato ebraico sono legate al significato politico di questa iniziativa e alla possibilità che questi rapporti si estendano nel settore della cooperazione tecnologica e militare. Un incubo che toglierebbe il sonno a qualsiasi ministro della Difesa israeliano. Il che significa che apparati forniti da Israele ad Ankara, potrebbero finire in mani siriane. E i rapporti e i segnali di distensione tra i due Paesi non si fermano qui.
A
Sei mesi fa è stato eliminato l’obbligo di visto sui passaporti per i cittadini siriani e turchi che vogliano viaggiare da un Paese all’altro. Al momento non ci sono riscontri di alcun passaggio di tecnologie, ma le preoccupazioni rimangono.Tanto che il ministro delle Difesa, Ehud Barak, ha sollevato il problema durante il suo ultimo meeting a Washington, ribadendo come siano a rischio gli equlibri strtategici dell’intera regione. Le manovre programmate servono per aumentare il coordinamento delle forze di terra dei due Paesi nell’attività di controllo delle rispettive frontiere. Nessun tipo di componente aerea, compresi i droni senza piloti – forniti recentemente da Israele all’esercito turco – verranno uti-
lizzati durante le manovre. Uno dei motivi principali che ha spinto le autorità di Ankara a voler questo tipo di cooperazione militare è il pericolo curdo. L’ala armata del Pkk sempre più spesso ha utilizzato il territorio siriano come percorso d’infiltrazione in Turchia per portare a termine azioni terroristiche. Oltre al fatto che molti curdi hanno ormai messo le tende in Siria.
Addirittura la Turchia, nel 1998, aveva minacciato d’invadere la Siria se questa non si fosse attivata efficacemente nel contrasto alle attività dei gruppi armati curdi sul proprio territorio. Il Pkk comunque sta continuando a muoversi liberamente nella regione, anche se in maniera meno estesa. Ricordiamo che nel 2007 per la prima volta dopo circa vent’anni,Turchia, Siria e Iraq erano tornati a dialogare attorno un tavolo comune per la ripartizione dello sfruttamento idrico del Tigri e dell’Eufrate, a pochi giorni dalla diffusione del famoso rapporto dell’Onu secondo il quale entro il 2030 si sarebbe staneta una corsa all’accaparamento delle fonti idiriche. L’incontro tripartito, svoltosi ad Antalia, nel sud della Turchia, era stato reso possibile dal ritrovato clima di distensione tra Damasco e Baghdad che avevano riallacciato i rapporti dopo un gelo durato un quarto di secolo. Alla riunione avevano partecipato l’allora ministro turco dell’Energia, Hilmi Gueler, il collega siriano dell’Irrigazione, Nader
al Bunni e quello iracheno Abd al Latif Rashid. Un’operazione in linea con il nuovo approccio turco che si percepisce come potenza regionale e che vorrebbe sentirsi protagonista ed esempio nel mondo arabo. A sostegno delle ansie di Gerusalemme va invece ascritto il rifiuto – all’inizio di ottobre 2009 – della Turchia alla partecipazione di Israele alla «Anatolian Eagle», un’esercitazione dell’Air-force turca che, dalla metà degli anni Novanta, Ankara aveva tenuto ogni anno insieme ad Israele, Nato e Stati Uniti.
Si è trattato della prima volta in cui il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp), alla guida della Turchia, ha lasciato che la sua retorica sempre più anti-occidentale andasse a riversarsi sulla sua strategia in politica estera, con una mossa che sembrava un ripensamento delle linee guida che fino ad allora avevano caratterizzato la politica estera turca nei confronti dell’Occidente.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog
dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Che c’è di più reale della stessa realtà? In questi ultimi tempi, ho letto La Femme, la Religion et le Prete di Michelet. Libri come questi sono pieni di realismo, ma che c’è di più reale della stessa realtà, e dove c’è più vita che nella vita stessa? E noi che facciamo del nostro meglio per vivere, perché non viviamo di più? Durante i mie tre giorni ad Amsterdam, mi sentii solo e abbandonato; tutte quelle discussioni e la stessa bontà dimostratami dagli zii fecero nascere in me una profonda malinconia, finché decisi di reagire. Non lasciarti stordire, mi dissi. E così, una mattina, andai da zio S. per l’ultima volta. «Ascoltami, caro zio», gli dissi, «se Kee fosse un angelo, sarebbe troppo in alto per me, e d’altronde non credo che potrei rimanere innamorato di un angelo. Se fosse un diavolo, non vorrei aver nulla a che fare con lei. Ma Kee è una vera donna e l’amo profondamente: questa è la verità e ne sono lieto. Finché non diventerà un angelo o un diavolo, il caso in questione non sarà definito». Zio S. non seppe ribattere nulla: mormorando qualcosa sui sentimenti femminili, se ne andò in chiesa. E così, Theo, tuo fratello che si rifiutava di lasciarsi stordire, si sentì ugualmente stordito, come se fosse rimasto appoggiato troppo a lungo alla fredda e bianca parete di una chiesa. Vincent van Gogh al fratello
LE VERITÀ NASCOSTE
L’esercito Usa dichiara guerra a PowerPoint WASHINGTON. Secondo il New York Times, è ormai scontro aperto tra i vertici dell’esercito statunitense e la popolare applicazione di Microsoft utilizzata in tutto il mondo per le “presentazioni”di ogni genere. Casus belli, una serie complicatissima di “slide” sulla strategia militare americana in Afghanistan, proposta la scorsa estate al generale Stanley McChrystal. Le diapositive digitali rappresentavano un diagramma intricato pieno di frecce e passaggi tortuosi, tanto da spingere uno dei generali presenti a un commento sarcastico: «Quando avremo capito questi slide, avremo vinto la guerra». La presentazione in PowerPoint, a suo tempo, diventò “virale”su Internet, per essere additata come il classico esempio di uno strumento fuori controllo. Per risolvere alla radice il problema, alcuni comandanti americani hanno deciso di proibire l’utilizzo di PowerPoint e di altri software simili. Il generale del corpo dei Marines, James N. Mattis, ne ha impedito l’utilizzo motivando così la sua scelta radicale: «È pericoloso perché può creare l’illusione della comprensione delle cose e l’illusione di averne il controllo». Le slide offrono spesso una visione semplicistica dei complessi problemi legati alle campagne militari. E questo limita la discussione e il confronto, rendendo meno efficaci le decisioni assunte nei briefing di guerra. Inoltre, la preparazione delle presentazioni porta via molto tempo e impedisce agli ufficiali di essere maggiormente produttivi. Cambiare l’abitudine delle presentazioni in PowerPoint, però, non sarà affatto semplice. »Anche se l’operazione potrebbe trovare il sostegno di chi, come il generale David Petraeus, vede le presentazioni come «un’agonia».
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
SÌ ALLE PROVINCE UTILI Sono passati quasi due anni da quando il governo ha iniziato a lavorare. Ma tanto tempo c’è voluto affinché si facesse chiarezza sulla questione delle province. Dopo le campagne mediatiche e di stampa per la loro abolizione, forse si è arrivati alla lettura chiara di quanto c’è scritto nel programma elettorale del Pdl. Nell’errore di quanto contenuto nel programma è incorso, incredibilmente, anche il presidente della Camera, nonché cofondatore del Pdl, Gianfranco Fini. Il quale, nel proprio intervento alla direzione nazionale del partito dell’altro giorno, ha accusato il Pdl (il suo partito) e quindi la propria maggioranza di governo di avere abdicato all’idea di voler abolire le province, come scritta chiaramente nel programma elettorale. Solo che, leggendo con attenzione il programma, ci si accorge - e la Lega Nord questo lo ha ribadito in più occasioni - come quest’affermazione rappresenti una menzogna, o meglio, una inesattezza. Infatti, nel programma compare una frase chiara: «Il nostro impegno sarà all’opposto sul lato della spesa pubblica, che ridurremo nella sua parte eccessiva, non di garanzia sociale, e perciò comprimibile. A partire dal costo della politica e dell’apparato burocratico (ad esempio delle province inutili)». Ebbene, c’è scritto «province inutili». E quali sarebbero? Sono quelle, come dichiarato dal ministro dell’Interno Maroni, delle nove aree metropolitane individuate dalla legge, e in cui verranno istituite le città metropolitane. Finalmente si fa chiarezza in merito a quello che è stato un grande equivoco. Quello di considerare le province come enti inutili.
Roberto Marraccini
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,
Direttore da Washington Michael Novak
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Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
SERVE UNA MAGGIORE INTEGRAZIONE TRA UNIVERSITÀ E MONDO DEL LAVORO Non sono stupito dalla bocciatura dei corsi di laurea breve giunta dalla Corte dei Conti. Noi giovani dell’Unione di centro siamo da sempre contrari a una scriteriata proliferazione di corsi di laurea improduttivi e di sedi universitarie. Una delle conseguenze di questo sistema ha infatti portato al rendimento poco proficuo degli studenti. A nulla serve avere l’università a due passi da casa, si assisterebbe a un “surplus strutturale” che non implica affatto una eccellente preparazione culturale, professionale e umana dei ragazzi. Nel settore dell’istruzione universitaria di saliente rilevanza restano innanzitutto una maggiore integrazione tra mondo universitario e mondo dell’impresa, affinché si permetta allo studente di acquisire le giuste e necessarie competenze e di entrare in tempi ragionevolmente brevi nel mondo del lavoro. In seconda analisi è necessario favorire, attraverso politiche socio-finanziarie, la formazione d’eccellenza all’estero, al fine di portare in seguito questa eccellenza nel nostro Paese e soprattutto nel nostro Sud. Il governo Vendola ha spesso saputo conciliare questi due aspetti: università e formazione professionale e su questa strada si deve proseguire, in quanto i risultati giunti finora non sono affatto trascurabili ma serve perfezionare tale modello, incrementando gli espedienti che consentano un più incisivo raccordo tra formazione d’eccellenza e mondo dell’impresa, magari costituendo un consiglio regionale dell’economia e del lavoro che sia strumento propositivo, costruttivo e mirato al fine di giungere a una università seria, concreta e utile e un accesso al mondo del lavoro più repentino e consapevole da parte dello studente. LA LEGA NORD CONTINUA A DETTARE L’AGENDA POLITICA AL GOVERNO In seguito alle dichiarazioni del leader del Carroccio, il ministro Umberto Bossi, il quale ha ribadito la netta affermazione della sua forza politica al settentrione e la conseguente legittimità ad amministrare le banche del nord, evidenzio la gravità di tali richieste e la supremazia politica della Lega all’interno dell’esecutivo. Ormai è chiaro a tutti che la Lega Nord detti a Berlusconi e al governo nazionale l’agenda politica del Paese e ciò è grave e rischioso soprattutto per il sud. Abbiamo dimostrato in più circostanze che l’unica forza politica in grado di arginare la Lega al Nord e di difendere i diritti del Sud sia l’Udc che, non a caso, ha ribadito con nettezza grandi consensi in quest’ultima tornata elettorale sia al nord ma soprattutto al sud. Un’ultima considerazione sui recenti dissapori tra il premier e Fini: il presidente della Camera fa bene a far emergere tutti i dubbi relativi alle pretese della Lega; gli attriti tra le due alte cariche dello Stato porteranno a uno scontro all’interno della stessa maggioranza che nuoce ulteriormente al Paese a causa di una situazione di inesorabile inerzia politico-amministrativa che evidentemente si andrà a creare. Sergio Adamo U D C - MO V I M E N T O GI O V A N I L E - ME Z Z O G I O R N O
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