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Si passa sovente dall’amore
he di cronac
all’ambizione, ma non si ritorna mai dall’ambizione all’amore François De La Rochefoucauld
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 29 APRILE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Declassato il rating della Spagna. Sul tavolo Ue del 10 maggio anche la revisione dei principi del trattato di Maastricht
L’Europa appesa a Berlino La Merkel dice sì agli aiuti ma vuole cambiare il patto di stabilità Dopo le pressioni di Trichet la Germania approva un prestito di 8,4 miliardi di euro in cambio di misure più dure.Atene ringrazia e avverte: «I salari non si toccano» Maggioranza in fibrillazione sul ddl lavoro
Ancora scontri nel Pdl. Bossi, Fini (e Montezemolo) contro il voto anticipato
Dopo l’intervento del presidente della Camera a “Porta a Porta”, Bondi rilancia l’ultimatum: «Scelga tra ruolo istituzionale e ruolo politico». Oggi intanto il Gruppo «processa» Bocchino. E al Senato riparte il Lodo Alfano di Errico Novi
di Enrico Singer ngela Merkel non se l’è sentita di far vedere al mondo che il sì tedesco al piano dell’Europa e del Fmi per salvare la Grecia era appeso al voto nel Nord Reno Westfalia del 9 maggio. E ha giocato d’anticipo. Il suo governo chiederà già lunedì al Parlamento di approvare lo sforzo che toccherà alle casse di Berlino, il più oneroso: 8,4 miliardi di euro per quest’anno e una cifra ancora da stabilire - ma più che doppia - per il 2011 e per il 2012. Atene può respirare: la scadenza del 19 maggio per pagare gli interessi dei prestiti che ha già ottenuto sui mercati non è più un incubo. Anche a Bruxelles tirano un sospiro di sollievo. Ma attenzione: la crisi non è finita. Al contrario: entra in una fase nuova perché, in cambio del suo sì, la Merkel vuole cambiare le regole del Patto di stabilità e le turbolenze nella Ue aumenteranno. Investendo anche l’Italia.
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LA CRISI E IL FEDERALISMO
LE PROSPETTIVE FUTURE
Stiamo attenti, Italia, se ci sei il debito non può adesso riforma diventare padano le pensioni di Francesco D’Onofrio
di Giuliano Cazzola
e recenti vicende elleniche sembrano molto lontane dai più urgenti e vicini problemi del federalismo fiscale in Italia: al contrario, vi è una connessione strettissima tra le due vicende. Un’analisi attenta di quel che sta accadendo in Grecia, in riferimento alla copertura del debito pubblico, ci pone alcune domande ineludibili.
ulle pensioni la parola d’ordine è ottimismo. Come sempre accade le questioni non sono mai tutte sbagliate o tutte vere. L’Inps vanta ancora – la notizia è certamente confortante – alcuni miliardi di saldo attivo. Ma la crisi greca, con le ripercussioni su altre economie europee, ci impone alcune valutazioni urgenti.
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Una difesa d’autore (con richiesta di svolta) dell’associazione condannata per pedofilia
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Nelle sale il film sulla sacerdotessa martire che però non va “usata” a fini d’attualità
«Cari fratelli scout, Grande Ipazia: ma non è ora di aprire ai gay» era la nonna di Galileo
ROMA. Il teatrino della maggioranza è finito in rissa. I
di Paul Theroux
di Franco Cardini
leader (Bossi, Fini, ma anche Luca Cordero di Montezemolo) sia pure per ragioni diverse hanno fermato la corsa alle elezioni anticipate: «Prima noi vogliamo il federalismo», ha detto Bossi. E Montezemolo ha aggiunto: «Non possiamo votare ogni anno». La verità è che il clima all’interno della maggioranza è ormai infuocato. Alla Camera, ieri, il Governo è andato sotto su un emendamento del Pd sulla riforma dell’arbitrato per il lavoro. E i berlusconiani hanno accusato i finiani di aver organizzato una vera e propria imboscata al governo.Vero o no, ne è nata una rissa in Aula. E dopo l’intervento di Fini a “Porta a Porta”, Bondi rilancia l’ultimatum: «Deve scegliere tra presidenza della Camera e ruolo politico».
lcuni fattorini delle pizze sanno guidare con prudenza e, sebbene possa sembrare incredibile - considerate le recenti notizie che suggerivano il contrario - alcuni ecclesiastici sono pii, alcuni politici monogami e alcuni rivenditori di auto onesti.Vi sono anche dei capi scout intrisi di etica.
arliamo di un film, Agora di Alejandro Amenábar, e di una donna del V secolo, Ipazia, una figura storica effettivamente esistita e il destino della quale è stato sotto molti aspetti esemplare. Una donna che avrebbe meritato, per esser descritta in termini adeguati, il genio di Shakespeare.
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I QUADERNI)
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Timur Dykes, caposcout americano condannato per pedofilia
• ANNO XV •
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
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Rachel Weisz, Ipazia nel film di Alejandro Amenábar
IN REDAZIONE ALLE ORE
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Nuovi paletti. Dietro l’apparente indecisione tedesca sul salvataggio della Grecia, c’è una precisa strategia economica
L’instabilità europea
Il 10 maggio Angela Merkel chiederà una modifica di Maastricht: limiti più rigidi per chi ha un debito totale che supera il 60% del Pil di Enrico Singer segue dalla prima Angela Merkel, che in queste settimane si è guadagnata il soprannome di Frau nein, signora no, non è diventata improvvisamente munifica. Né si è risvegliato in lei quel sentimento di solidarietà europea che tanti compresi Tremonti e Frattini hanno invocato per aiutare la Grecia perché «quando la casa del vicino brucia è meglio correre con l’estintore», come ha detto il nostro ministro dell’Economia al vertice del Fondo monetario a Washington. In realtà, più che la Grecia, Angela Merkel vuole salvare la stabilità dell’euro che, ormai da dieci anni, ha preso il posto del tanto amato marco tedesco e che è strumento essenziale per la salute dell’economia della Germania e della sua bilancia commerciale. Della Merkel si può dire di tutto, nel bene o nel male, ma una cosa è fuori dubbio: il suo senso pratico, la dote di tirare fuori un risultato anche quando è costretta a cedere. E nel caso della crisi innescata dalla quasi-bancarotta della Grecia, il risultato che insegue Angela Merkel è una revisione del Trattato di Maastricht e, quindi, del Patto di stabilità che già vincola tra loro i bilanci pubblici dei Paesi di Eurolandia definendo un tetto per il deficit e per il debito.
I due parametri del Patto non hanno la stessa forza. Per il deficit (il rapporto - negativo - tra entrate e uscite anno per anno) esiste un limite - il 3 per cento - oltre il quale scattano delle procedure d’infrazione da parte della Ue per costringere le pecore nere a rientrare nell’ovile. Per la verità, quando anche le locomotive dell’Europa, Germania e Francia, dopo l’Italia e molti altri, sforarono questo tetto, si decise
Il nostro Paese tra la necessità di preservare i conti pubblici e l’obbligo di guardare al futuro
Italia, ora batti un colpo e fai la riforma delle pensioni di Giuliano Cazzola ulle pensioni la parola d’ordine è ottimismo. Come sempre accade le questioni non sono mai tutte sbagliate o tutte vere. Il rapporto annuale dell’Inps ha messo in evidenza che il sistema ha tenuto, nonostante che sia stato sottoposto a uno sforzo tremendo in materia di ammortizzatori sociali. Anzi, il principale istituto previdenziale del Paese vanta ancora – la notizia è confortante – alcuni miliardi di saldo attivo. Ma la crisi greca, con le ripercussioni su altre economie europee, ci impone alcune valutazioni urgenti. Sarebbe il caso di aggiungere che si tratta di valori di previsione e che, probabilmente, i saldi saranno peggiori; ma è già tanto non presentare dei disavanzi crescenti in una situazione di finanza pubblica oggettivamente messa alla prova. Quanto agli aspetti di carattere strutturale, sembra di capire che non si parla di riforme.
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mire sonni tranquilli perché il settore previdenziale non presenta particolari problemi di sostenibilità (salvo il caso dell’invalidità civile, un comparto che, con i suoi 16 miliardi di spesa è sottoposto ad un continuo “crucefige”), resta da chiedersi se la previdenza, che è tanta parte del bilancio allargato dell’amministrazione pubblica, non debba essere chiamata a fornire un contributo al rientro del deficit (come chiede la Ue) e ad accumulare un po’ di risorse da investire in utili riforme come quella degli ammortizzatori sociali. Se anche si volesse evitare di «fare cassa» con le pensioni, un giorno o l’altro (un’esigenza riconosciuta recentemente anche dal ministro Tremonti in una sua lettera al Foglio e scritta a chiare lettere nel “Libro bianco” del ministro Sacconi) dovremo pur interrogarci su come si può e si deve assicurare ai giovani un futuro dignitoso da pensionati. È noto che i trattamenti pensionistici piantano le loro radici nell’attività lavorativa svolta. Così, quanti hanno avuto ed avranno un presente da lavoratori corredato di precarietà, saltuarietà e discontinuità, si candidano disperatamente a divenire pensionati poveri. Il sistema organizzato dalla legge Dini del 1995 (un provvedimento osannato dalla sinistra e dai sindacati confederali) infatti non prevede strumenti e meccanismi di solidarietà infragenerazionale (come ad esempio l’integrazione al minimo nel sistema retributivo: la vecchia Dc e i suoi alleati erano più sensibili ai problemi della gente!). Di conseguenza, ognuno starà da solo a vedersela con il suo montante contributivo.
Senza voler fare cassa con la previdenza si dovrà decidere come poter assicurare garanzie e tutele alle prossime generazioni
Il governo ha ragione a ricordare che, l’anno scorso, è stata varata, senza dover subire un solo minuto di sciopero, una miniriforma molto importante con effetti di carattere strutturale (riguardanti l’elevazione graduale dell’età di vecchiaia a 65 per le dipendenti delle amministrazioni pubbliche e l’aggancio automatico dell’età di quiescenza all’attesa di vita a partire dal 2015) che consentiranno di raddrizzare la curva della spesa. Ma qualche interrogativo meriterebbe risposte più meditate. Cominciamo dal primo. Anche ammesso che, per quanto riguarda le loro pensioni, gli italiani possano dor-
Mi permetto, allora, di suggerire l’esame di alcune proposte, quali l’introduzione di una pensione di base, finanziata dalla fiscalità generale, per i nuovi occupati (per i quali dovrebbe essere unificata l’aliquota contributiva) e il riconoscimento della facoltà di opting out per alcuni punti dell’ aliquota contributiva legale (5 o 6 punti da destinare alla previdenza complementare) ai lavoratori con un rapporto di collaborazione. Idee nuove dunque. Dobbiamo far passare la nottata della crisi, ma l’alba non è lontana.
di applicare una certa dose di flessibilità: non al limite del 3 per cento, ma ai metodi per calcolarlo e alle misure per recuperare. L’altro parametro è la massa totale del debito. In sostanza la somma dei deficit accumulati anno dopo anno. Quando, nel 1992, furono scritte le regole dai ministri economici - per l’Italia c’era Guido Carli - si discusse a lungo sulla forza da dare a questo parametro. Il livello di debito considerato sostenibile per un corretto sviluppo dell’economia fu individuato a quota 60 per cento del prodotto interno lordo. Ma per non penalizzare Paesi come l’Italia, che già viaggiavano oltre il cento per cento, fu deciso di usare una formula piuttosto generica. Il Patto prevede che il rapporto tra debito e Pil deve «tendere» al livello del 60 per cento.
Per Angela Merkel il risultato di questa indeterminazione è che la Grecia ha raggiunto un volume di debito che è pari al 121 per cento del suo prodotto interno lordo anche se i dati ufficiali parlano del 115 per cento (ma le statistiche di Atene sono da tempo contestate). E che l’Italia è a quota 120,1 per cento. Anche Francia e Germania, sotto i colpi della crisi economica viaggiano rispettivamente al livello dell’85,4 e dell’84,5 per cento, ma per loro il risanamento non è fuori portata. Ecco, partendo da questi numeri e da queste considerazioni, la Germania di Frau nein vorrebbe che nella revisione del Patto di stabilità anche a questo parametro venisse attribuito maggiore peso. Con una regola più chiara e stringente: più alto è il debito, più basso deve essere il deficit. Quindi non più tolleranza al 3 per cento per Paesi come la Grecia o l’Italia.Tetto più risicato. Se non, addirittura obbligo di surplus per riuscire finalmente a ridurre la massa totale del debito. È facile immaginare che una revisione del Patto di stabilità in questa direzione qualora fosse proposta ufficialmente dalla Germania - provocherebbe un terremoto. Anche perché non è soltanto l’Italia a trovarsi esposta su questo fronte. E qualsiasi revisione dei Trattati, nella Ue, deve essere presa all’unanimità quando sono in gioco regole così importanti. Come dire che quella esplosa sui conti pubblici greci,
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Il presidente della Banca centrale europea ieri ha fatto pressioni sul governo tedesco perché sbloccasse gli aiuti alla Grecia, la cui situazione economica sta diventando sempre più grave: «Spegnete l’incendio prima che si propaghi», ha chiesto Atene. Nella pagina a fianco, il superministro Giulio Tremonti
Berlino: sì al prestito. Atene: no ai vincoli Dopo le pressioni di Trichet, la Germania sblocca un piano di aiuti per 8,4 miliardi di euro di Francesco Pacifico
ROMA. La voragine greca potrebbe costare all’Europa 120 miliardi di euro. Sarebbe questa la cifra profilata per il prossimo triennio da Dominique Strauss-Kahn, direttore del Fondo monetario, e Jean-Claude Trichet, presidente della Bce, durante la loro missione di ieri in Germania. Numeri che hanno spinto la Locomotiva europea ad annunciare entro lunedì un piano di aiuti da 8,4 miliardi e la cancelliera Angela Merkel a tranquillizzare i partner: «Non vogliamo evitare le nostre responsabilità, perché è speranza comune che i negoziati con la Grecia possano concludersi entro pochi giorni».
All’inizio della prossima settimana, sette giorni prima che si voti nel in Renania-Nord-Westfalia, il governo Merkel si presenterà al Bundestag per chiedere il via libera a un pacchetto di aiuti verso Atene pari a 8,4 miliardi nel 2010. Un balsamo per un Paese che di lì a due settimane deve coprire bond in scadenza per 8,2 miliardi di euro. Sulla carta il governo ellenico ha ottenuto quell’intervento repentino – come ha ripetuto ieri il premier George Papandreou – per «evitare che il fuoco della crisi si diffonda all’economia europea e mondiale». Ma come ha ricordato la Merkel, ora la parola passa proprio ai greci, alle loro disponibilità ad accettare una nuova stretta. Non a caso la risposta dei mercati è stata tiepida: lo spread tra il bund tedesco e T-bill è sceso al 10 per cento, le
da crisi economico-finanziaria potrebbe diventare presto crisi politico-istituzionale e dividere ancora di più di quanto già non lo sia l’Unione europea.
I vertici di Bruxelles lo sanno molto bene e non è certo un caso che il nuovo presidente stabile del Consiglio europeo, Herman van Rompuy, ieri, durante una visita in Giappone, ha an-
Borse europee hanno registrato un forte arresto, mentre l’euro ha toccato il minimo storico da un anno sul dollaro a 1,3143. E non certo perché l’economia del Vecchio Continente sembra dimostrare una ripresa più ampia rispetto alle previsioni. Sul medio e lungo termine sono in gioco la riforma del Patto di stabilità europeo (vedere il pezzo nella pagina a fianco) e il rischio, secondo Standard and Poor’s, che gli obbligazionisti perdano qualcosa come 200 miliardi di euro in caso di default. Ma sul breve termine decisive saranno le decisioni della Grecia per rientrare dal deficit, visto che nessuno crede che bastino i 45 miliardi di euro promessi da Ue e Fondo per rimettere in pista il Paese. Ieri, mentre Papandreou si appellava per l’ennesima volta alla solidarietà degli europartner, il suo governo respingeva le richieste di Fmi e di Bruxelles per un nuovo taglio sui salari. Commentando la trattativa, il ministro del Lavoro, Andreas Loverdos, ha toccato il tasto dell’orgoglio nazionale: «L’essenziale delle discussioni concerne la politica salariale, la tredicesima e la quattordicesima che spettano ai greci. Ci hanno chiesto la loro soppressione e noi non abbiamo accettato». Sarebbe d’accordo anche la Sev, la Confindustria, preoccupata più dalla
nunciato che intende convocare un vertice straordinario dei capi di Stato e di governo dei sedici Paesi della zona euro «intorno al 10 maggio». Non sarà in quella occasione che si affronterà apertamente il problema posto da Angela Merkel. Ma se ne comincerà a parlare. Soprattutto, si comincerano a delinenare gli schieramenti. Da parte sua, il commissario euro-
coesione sociale che dai conti. Quindi, al momento non si va oltre la sforbiciata decisa a marzo, nel primo pacchetto di austerity, con il quale si erano soppressi vari incentivi e la quasi totalità della quattordicesima ai dipendenti pubblici. Ma è facile ipotizzare che questi paletti non saranno confermati in una trattativa che gioco forza deve concludersi entro domenica.
In ogni caso una decisione è imminente, anche perché ogni giorno che passa il contaggio viene “metabolizzato”dal mercato. Ieri, temendo un’ondata di liquidità, sono arretrate tutte le Borse dell’Asia, mentre sono stati in calo anche i future americani legati ai maggiori listini. Dopo Grecia e Portogallo Standard & Poor’s ha tagliato anche il rating della Spagna portandolo ad «AA» dal precedente «AA+». Non caso da Lisbona – già in questi giorni vittima delle speculazioni – il premier José Socrates ha annunciato di «voler accelerare l’attuazione del piano di austerità per ridurre deficit e debito pubblico». A Berlino pensano di sbloccare i primi aiuti già il prossimo 7 maggio. E lo faranno con meno remore soprattutto se il governo greco accetterà «un programma esigente per il consolidamento del bilancio in grado di ristabilire la fiducia dei mercati nel Paese».
La cancelliera lunedì al Bundestag per il via libera. La Grecia rifiuta tagli ai salari. Declassata la Spagna
peo agli Affari economici e monetari, il finlandese Olli Rehn, sta approntando un suo piano.
Una revisione soft, naturalmente, che lascerebbe invariate le regole esistenti rendendole, però, «più efficaci». Con un’attenzione speciale a un aspetto spesso trascurato: il ruolo di Eurostat. L’organismo statistico della Ue, al mo-
Questo concetto, non certo nuovo, Angela Merkel l’ha ripetuto al termine dell’incontro avuto ieri con Dominique Strauss-Kahn. Un messaggio da estendere anche ai governi europei e a certa finanza, per evitare che salvata la Grecia le speculazioni si spostino di qualche chilometro. In fondo è questo il punto dal quale partiranno i leader dell’Eurozona convocati a Bruxelles il prossimo 10 maggio, nella speranza di chiudere questa telenovela. Accanto alla Ue e al Fmi potrebbe fare la sua parte anche la Russia, da tempo vicina al governo Papandreou e molto interessata all’area per il passaggio delle sue pipeline. Per StraussKahn l’importante è che «il programma di aiuti parta quanto prima, anche se i negoziati con il Atene sono stati difficili, perché occorrerà tempo prima di risanare le finanze locali». JeanClaude Trichet ha sottolineato la «necessità assoluta che la Germania si decida in fretta».
A Roma, intanto, si fa il punto sull’esposizione delle banche italiane verso istituzioni finanziarie e imprese in Grecia. A dicembre 2009 era pari a 5,27 miliardi di euro. IntesaSanPaolo ha dichiarato uno scoperto pari a 1,5 miliardi di euro, le Generali a poco meno di 800 milioni, mentre Mps non va oltre pendenze di 20 milioni. In totale, comunque, una cifra non lontana da quella che Giulio Tremonti dovrà impegnare nel salvataggio ellenico.
mento, elabora i dati forniti dai governi nazionali (e la Grecia fu già colta in fallo per avere trasmesso dati fasulli) senza la possibilità di poter effettuare audit autonomi e diretti per verificare il reale quadro contabile dei Paesi. Il rafforzamento dei poteri di Eurostat è tra i punti che Olli Rehn vuole mettere all’ordine del giorno dei lavori della ta-
sk force che dovrebbe essere creata entro l’anno, con la partecipazione anche di esperti della Banca centrale europea, per arrivare a costruire un meccanismo permanente anti-crisi per evitare in futuro il ripetersi di disastri come quello della Grecia. E c’è da scommettere che anche all’interno della task force le discussioni saranno roventi.
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l’approfondimento
Crisi. La cancelliera tedesca ha le sue buone ragioni per frenare sul prestito, ma è indispensabile che decida presto
Angela, non diavola
Gian Enrico Rusconi e Giorgio La Malfa vanno controcorrente: non è tutta colpa della Germania. Il sentimento antitedesco fa dimenticare il vero problema: l’Unione non solo non ha una strategia economica, non ha nemmeno una politica comune di Riccardo Paradisi e aspettative sull’aiuto tedesco al- tanto che questo avvenga sarebbe però la Grecia sull’orlo del fallimento un buon esercizio di onestà intellettuale economico e del collasso politico comprendere le ragioni dell’apparente hanno ormai assunto un’impa- attendismo della Germania. Non c’è inzienza particolare. Dietro cui si cela, fatti solo la riottosità dei cittadini tedeschi, già tendenzialmente euroscettici, di male, un animus antitedesco. Come se fossero la Germania e in parti- fronte alla prospettiva di doversi caricarcolare il suo cancelliere Angela Merkel si sulle spalle gli errori e le disinvolture fii responsabili del disastro in cui s’è pre- nanziarie greche. Riottosità maggioritarie visto che secipitata la Grecia. E certo la posta in gioco è altissima: di- condo la Infratest dimap, ben il 57% delpende dall’evoluzione della vicenda gre- l’elettorato è contrario a questa evenca e dal fatto se verrà o no aiutata a usci- tualità, mentre solo il 33% dei cittadini re dal precipizio a cui è appesa il destino sarebbe favorevole. della casa europea, la solidità dell’area E difficilmente l’umore potrà cambiare euro e la sopravvivenza della moneta co- nei prossimi giorni, anche alla luce della dura campagna mune. Fattori che GIAN ENRICO RUSCONI anti-greca che una se compromessi parte della stampa potrebbero mettere «Le pressioni continua ad aliin pericolosa vibrache vengono mentare. Come il zione l’intero contiesercitate tabloid Bild, il nente investendo nei confronti giornale più seguiprogressivamente della Germania to della Germania, anche i paesi per da parte con i suoi sette miora meno esposti del resto lioni di lettori: della fascia medidelle nazioni «Perché dovremterranea. europee sono mo pagare per le assolutamente Insomma siamo pensioni di lusso ingenerose» di fronte a una pardei greci?». Non tita così decisiva c’è solo questa che tutto induce a formidabile e lepensare all’inevitabilità alla fine dell’aiu- gittima resistenza, che avrà dei riflessi to tedesco e dell’assenso del Cancelliere sull’imminente appuntamento elettoal piano di salvataggio della Grecia. In- rale con le regionali del nord-Reno Ve-
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stfalia, a spiegare il ritardo dell’inter- camente una certezza. A chi gli chiede vento pro Atene. infatti se Berlino rivedrà mai i soldi che «C’è anche – come sostiene Gian Enrico darà in prestito alla Grecia, Sinn – che è Rusconi, osservatore attento di questioni anche uno dei più influenti consiglieri tedesche – la volontà della Germania di economici del governo tedesco – risponverificare sul serio la consistenza dei pro- de: «A dire il vero, credo di no. La Grepositi greci circa le cia non è nella poGIORGIO LA MALFA misure di risparmio sizione di praticae risanamento stare il rigore di bi«l’Unione tale che sono semlancio necessario e europea pre state le preconchiederà alla Gersi è trovata dizioni dell’operamania di rinunciaspiazzata zione di aiuto». Anre ai debiti». di fronte che in questo sta Inoltre il salvatagal rischio di un l’autorevolezza del gio greco rapprefallimento cancelliere tedesco, senterà un precedi uno stato che, ricorda Ruscodente per gli altri membro. Non ni, deve vedersela paesi europei graha strumenti anche con le forti vati dai debiti. «È per gestirla» perplessità di ampi comprensibile che settori del suo goitaliani e spagnoli verno. «E questo premano sulla mentre la Francia tace, la Gran Bretagna Germania per farci pagare, perché per sembra assente, l’Italia da continue le- loro ciò costituirebbe un importante zioncine sulla casa comune». Insomma, precedente». Insomma, la Merkel decisecondo Rusconi «le pressioni che ven- derà alla fine per l’intervento – c’è già gono esercitate nei confronti della Ger- una bozza di legge in discussione a Bermania sono assolutamente ingenerose. lino con cui la Germania sta pensando Anche perché siamo di fronte al più che di assicurare alla Grecia prestiti anche giustificato sospetto che Atene non rim- per il 2011-12, provvedimento che arriborserà mai la Germania». verà prima della scadenza-chiave del 19 maggio – ma il cancelliere ha ancora biUn sospetto che per Hans Werner sogno di tempo e di argomenti per conSinn, capo dell’istituto Ifo, uno dei più vincere i tedeschi che l’operazione di autorevoli economisti tedeschi, è prati- salvataggio malgrado i sacrifici è giusta
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La riforma pretesa dal Carroccio contiene un equivoco che va sciolto al più presto
Attenti, il debito italiano non può diventare padano Il tracollo dell’economia greca è una lezione anche per noi: il federalismo alla maniera leghista ci avrebbe già condannato di Francesco D’Onofrio e recenti vicende elleniche sembrano molto lontane dai più urgenti e vicini problemi del federalismo fiscale in Italia: al contrario, vi è una connessione strettissima tra le due vicende. Un’analisi attenta di quel che sta accadendo in Grecia, in riferimento alla copertura internazionale della emissione di titoli di Stato ellenici, necessari per assicurare parte essenziale della spesa pubblica greca complessiva, pone in evidenza infatti due questioni: da un lato, quali sono le dimensioni territoriali minime perché si manifesti una consistente manovra internazionale al ribasso sui titoli pubblici; dall’altro, se esiste o meno una copertura europea dei problemi finanziari greci.
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Si tratta in sostanza di capire su quali basi statual-territoriali si fon-
nizzare una difesa appena sufficiente per garantire l’autonomia della Grecia dalla speculazione internazionale. I due bandoli della matassa greca riguardano pertanto l’uno la dimensione internazionale della speculazione al ribasso e l’altro l’idea stessa di Europa.
Ebbene, questi due bandoli sono strettamente connessi alla questione del federalismo fiscale italiano. Si alternano, da un lato, affermazioni del tutto tranquillizzanti sulla tenuta finanziaria dei titoli di Stato italiani emessi a copertura del nostro debito pubblico e, dall’altro, affermazioni che fanno temere un effetto domino destinato a colpire anche i titoli di Stato italiani, sebbene non nell’immediato futuro. Vi è comunque l’affermazione di una qualche connessione tra l’entità delle
sta ponendo in evidenza la crisi greca: se in questo ultimo caso la domanda di fondo concerne quale sia l’idea di Europa che si ha in mente, in riferimento al federalismo fiscale che ci concerne, la domanda di fondo riguarda proprio l’idea di Italia che si ha in mente. La struttura fondamentale del federalismo fiscale italiano sembra pertanto essersi basata su un non chiarito concetto di fondo: la prospettiva che si aveva in mente al momento della delega al governo, avvenuta nel 2009, era quella di un federalismo sostanzialmente teso a costruire una pluralità di Stati anche dal punto di vista fiscale, o, al contrario, si aveva in mente l’Italia unita quale ci è stata tramandata dal 1860? Così come la vicenda greca è infatti vissuta in una tensione tra una sorta di autosufficienza tede-
Se in Europa la domanda è «che Unione fare», qui l’interrogativo è sempre lo stesso: a che tipo forma di Stato si vuole arrivare? da una consistente manovra internazionale al ribasso sulla emissione di titoli di Stato a copertura del debito, e si tratta di capire se la Grecia viene lasciata al suo destino finanziario-internazionale, o se esiste l’idea di un’Europa che non potrebbe sopravvivere senza la Grecia. In altre parole, il problema è mettere insieme i due bandoli di questa matassa che sembra non avere conseguenze dirette per la questione apparentemente tutta “nostrana” del federalismo fiscale. I due bandoli della matassa ellenica vanno invece capiti fino in fondo per quel che ciascuno di essi significa: la dimensione territoriale minima per consentire un guadagno sufficiente per la speculazione internazionale al ribasso sui titoli emessi a copertura del debito, da un lato; e l’esistenza o meno di un contesto territoriale nuovo – quello europeo – all’interno del quale soltanto è possibile orga-
emissioni dei titoli di Stato italiani e la tenuta complessiva dei nostri conti pubblici, che sono fino ad oggi conti pubblici unitari e non federali. Da questo punto di vista, si può pertanto ritenere che la dimensione territoriale dell’Italia unita pone l’Italia medesima al riparo da un effetto greco immediato e dirompente sui nostri titoli di debito pubblico. Allo stesso tempo, se attraverso il federalismo fiscale si giunge ad una sostanziale modifica della provvista italiana dei proventi fiscali, si deve essere consapevoli che non vi sarebbe più una sufficiente garanzia del nostro debito pubblico, sempre che lo si voglia conservare in capo allo Stato, come sembra del tutto preferibile, anche per quel che concerne la garanzia internazionale del debito medesimo.
Si torna pertanto ad un punto di partenza molto simile a quello che
sca da un lato e di solidarietà europeistica dall’altro, la vicenda del federalismo fiscale italiano è ancora oggi vissuta tra una sorta di autosufficienza padana da un lato e di solidarietà italiana dall’altro.
Q u e s t o e q u i v o c o deve essere necessariamente sciolto, prima che sia troppo tardi. E così come è probabile che la Germania dovrà trovare un equilibrio tra la rigorosa difesa dei propri interessi nazionali e la solidarietà europeistica nei confronti della Grecia, anche in riferimento al federalismo fiscale le regioni, tentate da una sorta di autosufficienza padana, dovranno finire con il fare i conti con le questioni poste dal debito pubblico che è italiano e non può diventare padano, perché questo correrebbe il rischio di diventare a sua volta preda della speculazione internazionale.
e necessaria e che la Grecia farà sul serio. Per questo Berlino ha chiesto altre misure anti-deficit alla Grecia in cambio del suo sostegno economico anche se la Germania ha sempre negato l’ipotesi dell’uscita di Atene dall’area euro: «non è un’opzione da prendere in considerazione».
Però, come ha chiarito il ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle, la Grecia deve fare la sua parte prima di ricevere un aiuto finanziario: «Dare i soldi alla Grecia troppo presto l’allontanerebbe dal dovere di fare i suoi compiti a casa con la necessaria diligenza e disciplina». Sembrano toni antipatici, ma come dice ancora Rusconi, «qui ci troviamo di fronte a una specie di Piano Marshall che non prevede però per i tedeschi la funzione che hanno avuto gli americani per l’Europa dal dopoguerra. Siamo di fronte a un non detto gigantesco infatti per cui si è messo in moto un meccanismo economico europeo senza che a guidarlo sia un’autorità politica. Dove il ruolo di leadership è chiaramente della Germania che supplisce la guida politica europea e le sue commissioni. Una leadership effettiva quella tedesca che però non viene riconosciuta nè dall’Europa, nè dagli stessi tedeschi, per motivi storici e culturali troppo evidenti per essere ricordati. Ma questa assunzione di responsabilità collettiva di fronte alla quale è la Germania preoccupa i tedeschi». Anche Giorgio La Malfa dà per scontato che l’aiuto tedesco alla Grecia sia inevitabile. Il fatto è che questa situazione di pericoloso stallo secondo l’ex ministro delle politiche comunitarie, è la conseguenza di una contraddizione finora irrisolta: e cioè che in Europa si è voluto fare prima l’unione monetaria e poi quella politica. «Il risultato è che l’Unione europea si è trovata spiazzata di fronte al rischio di un fallimento di uno stato membro. Non ha gli strumenti adeguati per gestirla». Sicchè l’accordo raggiunto in sede comunitaria per sostenere i conti pubblici di Atene è stata una scelta obbligata. Così come le conseguenze di un fallimento sarebbero devastanti. «La moneta unica ci ha tenuto al riparo da una crisi valutaria ma non ha potuto evitare una crisi del debito i cui effetti sono oggi sotto gli occhi di tutti. E questo è avvenuto perché si è voluto adottare un’unica politica monetaria per un’area che va dalla solida Germania alla fragile Grecia». La fragilità oggettiva della costruzione dell’euro, che la grande crisi internazionale ha messo in evidenza, sta insomma generando le sue conseguenze. Dieci anni fa La Malfa scriveva un libro sui rischi dell’euro, vi sosteneva che lasciando irrisolta la questione dell’unione politica si teneva scoperto il filo che avrebbe generato il cortocircuito della crisi economica attraverso il deflagrare dell’unione monetaria. Insomma senza coesione politica l’elemento di solidarietà verrebbe a mancare di fronte a crisi importanti. Lo scenario a cui stiamo di fronte è l’avverarsi in parte di questa previsione. Per questo per la La Malfa si esce dall’impasse imboccando la strada dell’unità politica e dotando l’Unione europea di «un ministero del Tesoro comunitario, che sia in grado di gestire meglio emergenze di questo tipo ma anche di affrontare meglio le fasi di stagnazione dell’economia».
diario
pagina 6 • 29 aprile 2010
Giustizia. Il nuovo testo sarebbe diviso in soli tre articoli: ma tra maggioranza e opposizione già comincia lo scontro
Arriva il lodo costituzionale
Parte l’iter della legge che «garantisce» il governo e il Quirinale ROMA. Il tempo di sintonizzarsi sulla nuova strategia delle “riforme condivise” che già Silvio Berlusconi procede “come un treno” - come ha fatto sapere ai giornali qualche giorno fa - sulla strada del cambiamento. Anzi è talmente veloce che ha già praticamente presentato l’unica riforma costituzionale che vedrà la luce in questa legislatura. Quella della giustizia, ovviamente. Anzi un po’ meno. Diciamo una riforma della giustizia per palazzo Chigi e dintorni. In altre parole, il lodo Alfano di rango costituzionale. L’annuncio è arrivato ieri mattina alle agenzie di stampa attraverso il gruppo Pdl del Senato: il disegno di legge, infatti, sarà di iniziativa parlamentare e porterà le firme di Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello. La presentazione dovrebbe avvenire entro questa settimana, ma i contenuti del testo sono, come detto, trapelati ieri: un ddl di rango costituzionale composto di tre soli articoli che istituirà la sospensione dei processi per il capo dello Stato, il presidente del Consiglio e i ministri.
Secondo le indiscrezioni, la legge predisposta dalla maggioranza prevede che il procedimento non sia bloccato automaticamente, ma la sua apertura vada comunicata alla Camera di appartenenza, la quale a quel punto avrebbe novan-
di Marco Palombi
ta giorni di tempo per decidere se far proseguire il processo o disporne la sospensione fino al termine del mandato dell’imputato (la Costituzione, però, prevede già una procedura diversa per il capo dello Stato). Nel caso di un ministro tecnico infine, che non sia cioè anche parlamentare, sarà il Senato a doversi esprimere. Rispetto al precedente Lodo, come si ricorderà, rimangono fuori dallo scudo i presidenti delle Camere: i tecnici del centrodestra hanno risposto così all’obiezione della Corte costituzionale secondo cui, non essendoci differenza sostanziale tra i presidenti e gli altri eletti, prevedere un salvacondotto solo per i due era irragionevolmente discriminatorio.
Fin qui, le indicazioni. «Ci stiamo ancora lavorando – mette invece le mani avanti Quagliariello – ci prendiamo tutto il tempo dovuto». D’altronde il testo va discusso anche con la Lega che, nelle intenzioni dei promotori, dovrebbe aggiungere la firma del suo capogruppo Federico Bricolo a quelle dei vertici del Pdl a palazzo Madama. In realtà tut-
Il provvedimento sarà firmato da Gasparri e Quagliariello. Manca ancora il sì definitivo della Lega ta la modalità di diffusione del testo dà l’idea di una sorta di prova generale della vera presentazione: diciamo che i promotori hanno fatto fare un giro all’aria aperta ad una possibile versione del ddl per vedere l’effetto che fa (soprattutto dalle parti del Carroccio). Ovviamente le opposizioni preannunciano la loro contrarietà. Tuoni, fulmini e bibliche lamentele da parte di Italia dei Valori: «È una profanazione della Carta», s’è indignato il capogruppo in Senato Felice Belisario. «Altro che riforme della giustizia», dice il responsabile di settore del Pd Andrea Orlando: «Dopo l’indegno capitolo della legge sulle intercettazioni, si aprirà quello del Lodo Alfano. La verità è che la maggioranza non riesce ad andare oltre gli interventi finalizzati a risolvere i problemi del premier e dei suoi amici». Anche l’Udc, che pure era stata favorevole alla norma ponte sul legittimo impedimento, non ha gradito: «La proposta della maggioranza – dice Michele Vietti - ci lascia perplessi sia per l’e-
stensione dello scudo ai ministri, sia perché rimane sostanzialmente irrisolto il nodo del rapporto politica-giustizia».
Più tecnica la reazione del vicepresidente del Csm Nicola Mancino: «Viene un po’ in ritardo questo Lodo costituzionale, si poteva fare prima. Fosse stato presentato nel settembre del 2008 non avremmo avuto la pronuncia della Corte Costituzionale e una serie di polemiche sulla legittimità del ddl ordinario». Ad aleggiare sul tutto, comunque, il giudizio di Dio, ovvero il referendum confermativo che pende su tutte le riforme costituzionali non approvate dai due terzi del Parlamento. Sempre in Senato, peraltro, continua la battaglia sull’altro fronte aperto di questi giorni: il ddl sulle intercettazioni. Ieri nei pressi di palazzo Madama manifestavano contro la legge i giornalisti - i vertici della Fnsi sono stati ricevuti anche da Renato Schifani - e il popolo viola, mentre all’interno si assisteva all’ennesimo stop del provvedimento. La commissione giustizia ha di nuovo deciso di non procedere
ai voti sul testo rinviando tutto alla settimana prossima. Ufficialmente, lo ha spiegato il presidente Berselli, manca il parere sul ddl della commissione Bilancio, ma in realtà i problemi li ha aperti uno dei pareri arrivati, quello della Affari costituzionali: il fatto è che, pur essendo un sostanziale via libera, la Prima commissione solleva dubbi di diverso genere e importanza. Bisognerebbe chiarire, tanto per dire, la questione della competenza ad autorizzare le intercettazioni: il ddl la affida al tribunale del capoluogo distrettuale in composizione collegiale, mentre attualmente essa è appannaggio del giudice per le indagini preliminari, come d’altronde avviene per tutti gli altri mezzi di prova (perquisizioni, sequestri e ispezioni). Perché questa diversità di gestione? Poi c’è la questione del cosiddetto “emendamento D’Addario”, che alla fine dovrebbe essere riformulato dal relatore Roberto Centaro. Si tratta, in sostanza, dell’istituzione di una nuova figura di reato: «Chiunque fraudolentemente effettua riprese o registrazioni di comunicazioni e conversazioni a lui dirette o comunque effettuate in sua presenza» è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni. «Ma quattro anni non si sanno neppure per reati ben più gravi…», era sbottato martedì il finiano Maurizio Saia.
diario
29 aprile 2010 • pagina 7
Restano ancora a disposizione i fondi per l’edilizia ecologica
I pm acquisiscono un diario consegnato dal figlio Gianfelice
Già esauriti gli incentivi per moto e nautica
Calciopoli, spunta il memoriale di Facchetti
ROMA. Il 93,7% dei contributi
NAPOLI. Altro colpo di teatro,
per le due ruote messi a disposizione dal governo è stato già erogato: si tratta di una notizia che non sorprende più di tanto dal momento che già nel corso del primo giorno di erogazione, il 15 aprile, era stato prenotato il 30% delle somme. Il dato emerge dalla tabella consegnata dal governo in commissione Attività produttive e Finanze alla Camera. Sono dunque stati erogati già 11.252.097 milioni di euro a fronte dei 12milioni a disposizione. Di questi oltre 11.148 sono per i motocicli fino a 40 cavalli o fino a 70kw «euro 3» mentre 104mila euro sono stati erogati per i motocicli elettrici e ibridi. Nel complesso, sul totale di 300
ieri, alla Procura di Napoli, dove è apparso a sorpresa un clamoroso memoriale di Giacinto Facchetti destinato a ripercuotersi con forza sul processo Calciopoli. Le pagine depositate agli atti del dibattimento racconterebbero il funzionamento del mondo del pallone italiano, alla luce di quanto esperito direttamente dall’ex presidente dell’Inter in un diario scritto poco prima di morire. Nelle pagine autografe, l’ex dirigente dell’Inter descriverebbe gli anni in cui è scoppiato lo scandalo, i legami tra Moggi e gli arbitri, quelli favoriti e quelli penalizzati dal gruppo capitanato dall’ex dirigente della Juventus. Secondo quanto trapelato, il quadro delineato dal celebre terzino nerazzurro evidenzierebbe insomma lo strapotere esercitato dalla Juventus in quegli anni. Ad affidare il memoriale agli inquirenti è stato nei giorni scorsi il figlio del campione, Gianfelice Facchetti.
Fiat, no dei sindacati al piano industriale Bocciata l’intesa centrale. La Uilm: «Valutare caso per caso» di Alessandro D’Amato a trattativa comincia male. I sindacati dicono no a un’“intesa centrale”sul piano industriale Fiat presentato nei giorni scorsi dall’ad Sergio Marchionne, e chiedono di discuterlo stabilimento per stabilimento. La Fiat chiede alle organizzazioni sindacali un accordo di massima di adesione al piano industriale mentre i sindacati vogliono arrivare ad un accordo-quadro solo una volta risolte le questioni di Pomigliano, Melfi, Mirafiori e Cassino.
L
milioni, i contributi già utilizzati sono pari al 30% per un valore di 88,314 milioni di euro. Per quanto riguarda invece i contributi per le cucine componibili, la percentuale già erogata è pari al 40,8% (35 milioni su un totale di 60milioni), mentre per la banda larga la quota è del 19,6%, sul totale dei fondi pari a 20 milioni. Dati simili quelli del settore degli elettrodomestici, dove la percentuale è pari a poco meno del 17%: su un totale di 50 milioni di euro sono ancora a disposizione dunque oltre 42milioni di euro.
Nel comparto delle macchine agricole è invece già stato erogato il 43% delle risorse disponibili, mentre per il comparto dei rimorchi la percentuale è quasi del 26% (oltre 2milioni su un totale di quasi 6). Più bassa la quota erogata per i contributi per gli immobili a alta efficienza energetica pari a circa il 13% sul totale di 60 milioni a disposizione. Pari poi al 3,8% i contributi erogati per le gru a torre per l’edilizia e allo 0,1% di quelli per l’efficienza energetica industriale (inverter). Insomma: l’edilizia ”tira” di meno sul mercato. Anche rispetto al settore della nautica, per il quale i fondi sono esauriti già da un po’.
Il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella, mentre era in corso l’incontro con i rappresentanti del Lingotto, è uscito per parlare con i giornalisti. «L’azienda ha ribadito il piano Marchionne senza accennare al piano B. Siamo propensi a discutere ma c’è un problema sul tavolo: la Fiat vuole l’assenso di massima, a prescindere sul piano perché ci sono 20 miliardi di investimenti e questo ci deve bastare. Noi abbiamo detto che non è sufficiente, è positivo ma vogliamo discutere perché ci sono situazioni urgenti come Pomigliano d’Arco». Secondo Palombella «è impensabile realizzare un’intesa centrale perché ci sono le diverse realtà degli stabilimenti che vanno discusse. Il 4 maggio cominceremo con Pomigliano d’Arco e lì cercheremo di fare l’intesa su 18 turni, poi vogliamo aprire la discussione sugli altri stabilimenti: Melfi, Cassino, Mirafiori, dopo si potrà tornare all’accordo quadro». La Fiat, ha spiegato, «sta titubando. Ci auguriamo che riveda la sua intransigenza e voglia avviare un percorso di merito». Il Lingotto, ha ricordato il sindacalista della Uilm, sullo stabilimento di Pomigliano d’Arco «ha consegnato la lettera di disdetta parziale del contratto sull’orario di lavoro e alcuni elementi retributivi accessori». Il piano industriale Fiat «ci hanno spiegato che passa per il massimo utilizzo degli impianti, questo significa che con 18 turni lavorativi a Pomigliano d’Arco avremo la saturazione del personale mentre sugli altri stabilimenti questo
non ci sarà e, quindi, ci sarà bisogno di nuova occupazione». Insomma, l’accordo “in tempi brevi” auspicato da Bonanni della Cisl in mattinata sembra invece molto lontano. Anche perché la via per la trattativa appare un po’ stretta, specie per la politica. In mattinata era stato il ministro dello Sviluppo economico Scajola a entrare in argomento, ribadendo il sostegno al piano Fiat: «Lo stabilimento di Pomigliano d’Arco diventerà la seconda fabbrica della Fiat in Italia dopo Melfi, ma il sindacato adesso deve svolgere un ruolo molto importante». Scajola a Napoli aveva sottolineato che si sta assistendo «a una fase molto importante della crescita della Fiat in Italia». Un contesto nel quale «c’è la riorganizzazione del sistema Fiat in Italia che poggia su Pomigliano in maniera significativa, il che vuol dire grande attenzione per il Sud. Ma ognuno deve fare la sua parte - ha aggiunto - la Fiat ha presentato un piano coraggioso, con modelli innovativi anche a Pomigliano d’Arco; il governo dà tutta la collaborazione nel dialogo tra la Fiat e le parti sindacali. Credo che il sindacato, e mi pare di cogliere degli aspetti positivi in alcune dichiarazioni - ha concluso - debba svolgere adesso un ruolo molto importante. Dobbiamo rendere Pomigliano un modello di capacità di lavoro, maggiore flessibilità di lavoro, renderlo uno stabilimento esemplare per la produzione». Schierandosi apertamente a favore dell’azienda, Scajola ha comunque ristretto la via della trattativa per i sindacati, che adesso sanno qual è l’orientamento dell’esecutivo. E sarà difficile fargli cambiare idea, anche con gli scioperi.
In aggiunta alle scottanti pagine, i pm Giuseppe Narducci e Stefano Capuano, hanno raccolto da Facchetti jr anche una testimonianza resa lunedì scorso. Il giovane aveva definito nei giorni scorsi come «una falsificazione vergognosa, lesi-
Palombella: «L’accordo solo dopo aver risolto le questioni degli stabilimenti di Pomigliano, Melfi, Mirafiori e Cassino»
Intanto si apre uno spiraglio per Termini Imerese. Mentre fonti sindacali fanno sapere che all’orizzonte sembra profilarsi un acquirente cinese, il vicepresidente della Commissione Ue e commissario all’industria Tajani punta invece su un gruppo di imprenditori privati che potrebbero portare la produzione dell’auto elettrica in Sicilia.
va della memoria della memoria di mio padre», la ricostruzione fatta durante l’udienza di Napoli al processo sullo scandalo Calciopoli. Il riferimento era alla telefonata - acquisita dal Tribunale - nel quale suo padre parlava con l’allora designatore arbitrale Paolo Bergamo. «In tale conversazione - ha spiegato Gianfelice Facchetti - a mio padre viene attribuito l’aver pronunciato il nome del Sig. Collina, cosa che invece dialogando faceva il Dott. Bergamo; di conseguenza, ne è risultata un’interpretazione totalmente differente dalla realtà diffusa con irresponsabile complicità da alcuni organi di informazione».
politica
pagina 8 • 29 aprile 2010
Leader. «Non voglio divorziare», dice il cofondatore. «Feltri? Sguazza nel fango». Cicchitto convoca per oggi la riunione del gruppo: «Italo per me è da sfiduciare»
Stop al teatrino No di Bossi e Fini al voto anticipato. Caos nel Pdl: Bocchino sotto tiro, da Bondi ultimatum al presidente della Camera di Errico Novi
ROMA. Il prologo è andato in scena alla luce del sole: alla direzione nazionale Fini e Berlusconi hanno sferragliato con le armature scintillanti come si converrebbe all’epos, salvo qualche scivolata nel melodramma. Com’era prevedibile, quello che viene dopo, in questo lungo day after, è assai meno limpido. Molti sotterfugi, piccole e grandi trame, pugnalate a tradimento. Plateale e non certo cavalleresco è l’ennesimo attacco che il presidente della Camera subisce dalla prima pagina del Giornale: «Un milione alla“suocera” di Fini, paga mamma Rai». Storia di un appalto ottenuto dalla madre di Elisabetta Tulliani per il programma Festa italiana. In guerra come in amore non ci sono regole? Può darsi, nel caso però bisognerebbe dare per acquisito che il capitano Feltri sia agli ordini del generale Berlusconi. Cosa che Silvio implicitamente nega: «Esprimo la più convinta solidarietà a Fini per gli attacchi personali che quest’oggi il Giornale gli ha mosso, non si può trascendere in aggressioni su vicende che nulla hanno a che fare con la politica: sono i metodi che assai spesso ho dovuto subire».
Non basta a placare la rabbia del presidente della Camera. Che dagli studi di Porta a porta si chiede «perché la solidarietà arriva solo oggi». Quindi la risposta a Feltri: «Certo giornalismo sguazza nel fango, per non dire di peggio». È la linea aperta ma fer-
Anche Montezemolo boccia le urne. Esecutivo battuto sul ddl lavoro, si scatena una zuffa tra berlusconiani ed ex An. Lega, è Reguzzoni il nuovo capogruppo ma dell’ex leader di An che liquida così la questione delle sue dimissioni: «La presidenza della Camera non è un cadeau del premier». Eppure Bondi gli rilancia l’ultimatum: «Scelga tra il ruolo istituzionale e quello politico». Fini, invece, difende Italo Bocchino, preavvisato di licenziamento da parte di Cicchitto: «Sfiduciarlo sarebbe una cosa da illiberali, altro che partito dell’amore». Lui, Fini, non vuole «divorziare», basta che «siano rispettate le mie opinioni». Su un’altra cosa non intende transigere: «Niente voto anticipato, sarebbe una sciagura». Stavolta lui e Bossi si trovano d’accordo: «Non voglio le elezioni, solo il federalismo», spiega il leader della Lega, «e Fini mi ha assicurato che lui non ci creerà problemi».
Arriva anche il no di Montezemolo: «Un Paese non può crescere se vota una volta l’anno». È anche un modo per sconfessare le tesi che vedono l’ex presidente della Fiat al centro di un piano anti premier. E Fini a sua volta rafforza il concetto: «Motezemolo nella
Il governo è passato dalle grandi riforme alla grande voglia di urne
Come sopravvivere tre anni senza elezioni? di Giancristiano Desiderio l presidente del Consiglio in questi giorni di passione ha più volte ripetuto che il governo ha davanti a sé tre anni di lavoro e il solo pensare di ritornare a votare è un delitto. In realtà, l’esecutivo ha davanti a sé solo un anno di tempo da dedicare interamente al governo del Paese perché a metà 2011 si entrerà di fatto nel tempo pre-elettorale e la legislatura sarà già nella fase della campagna elettorale. Tutto questo, ben s’intende, in una situazione normale. Ma come sanno anche i fenicotteri rosa il governo Berlusconi non è in una situazione normale da quando il presidente del Consiglio e il presidente della Camera sono separati in casa Pdl. È chiaro a tutti, quindi, che il pensiero dominante del governo di Berlusconi e di Bossi è proprio quello che Berlusconi e Bossi pubblicamente negano: il voto anticipato.
I
Proprio Bossi ieri parlando a Radio Radicale ha precisato il suo pensiero pubblico rispetto a quanto aveva detto il giorno dopo la fine della storia sentimentale tra Silvio e Gianfranco. Se alla Padania aveva detto che la stagione dell’alleanza con il Pdl era ormai conclusa e il governo rischiava un “crollo verticale”, ieri alla radio Bossi ha invece sostenuto che «la Lega non vuole andare a votare mentre vuole il federalismo fiscale e sotto sotto anche Fini vuole la riforma perché in realtà neanche lui crede veramente ai ragionamenti che fa». Ma se questo è il nuovo pensiero pubblico di Bossi, la sua virtù, quale sarà il suo pensiero privato, il suo vizio? Non sarà che il leghista neghi la volontà elettorale e dica di voler incassare unicamente il federalismo fiscale perché sa che dal divorzio morale dell’Auditorium proprio la riforma federalista in chiave leghista è molto più incerta e il destino della legislatura in un modo o nell’altro è ormai segnato? La Lega non vuole il voto fino a quando il federalismo fiscale non
sarà ufficialmente respinto. Ciò che serve è un casus belli. È evidente: i discorsi politici a quattr’occhi di Berlusconi e di Bossi sono diversi dai discorsi politici fatti a beneficio delle telecamere e di quella cosa non meglio definibile ma pur reale che si chiama opinione pubblica.
Chi ieri ha risposto subito a Bossi è stato Luca di Montezemolo. La risposta è significativa perché Montezemolo parla riferendosi alle parole pubbliche di Bossi ma attribuendo loro il significato delle parole private: «Nessuna nazione può crescere andando a votare una volta l’anno». Ciò che dice Montezemolo si può anche ritradurre così: non si potrà ritornare nuovamente al voto se il federalismo caro alla Lega dovesse arenarsi perché non si può gettare al vento un’altra legislatura. Dunque, sotto a lavorare. Ma qui si tocca il vero tasto dolente della governativa commedia degli equivoci: al di là della giaculatoria de «i prossimi tre anni» il governo dimostra con i fatti di non sapere letteralmente cosa fare. Le riforme istituzionali appartengono al migliore dei mondi possibili e non sono di questo mondo; la riforma leghista non ha più dietro di sé una maggioranza coesa e politicamente convinta; le riforme sociali ed economiche sono ingessate perché il principio-guida di Tremonti (che, in verità, finora lo premia) è quello che dice che bisogna prima di ogni cosa tenere i conti sotto controllo aspettando che passi la bufera finanziario-economica che “nel pensier rinnova la paura”. Stando così le cose, il mantra de «i prossimi tre anni» è un bluff e una trappola nella quale Berlusconi e Bossi non vogliono cadere. Comprensibile, ma anche non condivisibile. Come nella migliore tradizione teatrale, tutti attendono il colpo di scena o il momento dell’agnizione che dissolverà bugie ed equivoci.
mia corrente? Siamo al solito teatrino». È una brutta rappresentazione, di certo, quella messa in scena dal Pdl: è difficile anche il momento che vive Fabrizio Cicchitto, capogruppo alla Camera“sfidato”da Italo Bocchino e costretto dal Cavaliere ad accelerare i tempi per mettere alla porta quest’ultimo: fissata per oggi l’assemblea dei deputati pdl, Cicchitto incassa suo malgrado l’ennesima batosta in aula, dove la maggioranza va sotto di un solo voto (225 a 224) su un emendamento al ddl lavoro. Si contano addirittura 50 assenti ingiustificati. Non sono tutti finiani, evidentemente, anche se tra loro va annoverato proprio Bocchino. Il cui destino sembra segnato, a sentire il capogruppo: «Le sue dimissioni per me vanno accettate, anche se non c’entra Fini». C’entrerebbe invece Berlusconi, secondo fonti parlamentari del Pdl, che avrebbe fatto forti pressioni per liquidare l’uomo del cofondatore.
Nonostante l’aritmetica attesti lo sbandamento complessivo della delegazione Pdl (i firmatari del documento pro-Fini alla Camera sono 38 e diversi siedono regolarmente al loro posto) in Transatlantico si scatena una mezza rissa tra berlusconiani e uomini dell’ex An. A perdere completamente il controllo è un deputato assai vicino a Nicola Cosentino, Giancarlo Lehner. Gli risponde a muso duro Antonino Lo Presti: «Ma quale imboscata dei finiani, ti devi vergognare di dire queste cose». Interviene Simone Baldelli a sedare la violenta lite, e proprio a lui si rivolge Fabio Granata: «Dite a Berlusconi che se manda avanti questi personaggi finisce male», riferendosi appunto a Lehner. Caos assoluto, da cui potrebbe generarsi un clima incandescente all’assemblea del gruppo di oggi. La voce sul pressing del premier diffonde
politica
29 aprile 2010 • pagina 9
Chiamparino, per differenziarsi, punta a un’alleanza con il Senatur
Silvio o Gianfranco? Nel Pd si litiga su tutto Ogni giorno, Bersani è attaccato da amici e nemici: e adesso anche Pdl e Lega sono tema di forti divisioni di Antonio Funiciello
ROMA. Pierluigi Bersani aveva provato ad assumere per il suo Pd almeno una posizione netta e non fraintendibile: no alle riforme, senza se e senza ma. Eppure ha dovuto ancora una volta fare marcia indietro, quando nel partito è rimasto a difenderlo su questa linea solo Rosy Bindi, che negli ultimi tempi s’era parecchio allontanata dal suo segretario. Da Marini a D’Alema, da Veltroni a Franceschini, s’è levato un tale coro di critiche che ieri il portavoce di Bersani, Filippo Penati, s’è affrettato a smentire ufficialmente sulle reti Mediaset la presunta e pregiudiziale ostilità del segretario democratico, in seguito al discorso del 25 aprile del premier Berlusconi. Naturalmente nel Pd restano diverse opzioni su come andare al confronto col centrodestra su un tema tanto scivoloso. E da sfondo alle scelte dei vari capi corrente fa senz’altro il conflitto aperto nel Pdl da Fini. Anche se alcuni nel Pd non escludono la sponda Lega per provare a forzare la mano al premier e trovare un accordo che aggiri la bandiera del presidenzialismo, disordinatamente garrita da Berlusconi contro il centrosinistra. Fini, Bossi e Luca Cordero di Montezemolo ieri hanno fermato il teatrino delle elezioni anticipate. A destra, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani
repubblicano per salvare l’Italia vada in fondo nella direzione indicata da D’Alema. Contro questa ipotesi,Veltroni non ha mancato di dire la sua. Dopo tutto, dopo la sconfitta del 2008, fu proprio Veltroni che nei primi giorni della legislatura cominciò a dare segnali positivi a Berlusconi, verso un accordo politico che chiudesse l’eterna transizione italiana. Poi Repubblica sparò nel mucchio e di lì a poco Veltroni s’era dimesso da segretario. Tuttavia è proprio lui il più preoccupato dell’attuale navigare a vista del PD, anche in rapporto a quanto detto di recente da Napolitano su riforme e giustizia.
Già, Napolitano. Non era mai capitato nel centrosinistra, negli anni della seconda repubblica, che un inquilino del Quirinale fosse meno gradito come l’ex senatore a vita. La recente uscita del Presidente contro la magistratura ha fatto letteralmente infuriare quella corrente dei giudici che dentro al PD continua ad avere
Dal Nord Chiamparino l’agitazione tra i parlamentari dell’ex Alleanza nazionale. Con la componente più vicina a Fini pronta a dare battaglia di fronte a una pubblica esecuzione del vicecapogruppo vicario: «Le epurazioni sono dannose», avverte Briguglio.
Proprio Bocchino d’altronde alimenta una corposa letteratura, con le sue «lettere di dimissioni» (a usare il plurale è Cicchitto, che allude all’anticipazione pubblicata dal collerga sul Corriere della Sera). Giorgio Stracquadanio per esempio ricostruisce il «bluff» sulla presunta scalata di Maurizio Lupi alla poltrona di Cicchitto: «Non c’è nulla di vero su questa storia, c’è solo un curioso retroscena pubblicato sabato scorso dal Riformista e riferito a un “anonimo finiano”. Inizialmente è sembrato un semplice stratagemma di Antonio Polito, poi si è avuta l’impressione che a ispirare l’articolo potesse essere stato lo stesso Fini. Fino all’annuncio di dimissioni da parte di Bocchino e ai conseguenti attacchi rivoltigli da Menia e Labocetta: lì si è capito che il vicecapogruppo era il solo suggeritore». Un bluff insomma in cui si sarebbe tentato di «scatenare il caos all’interno del gruppo», secondo Stracquadanio. È Bossi a rafforzare la sua delergazione parlamentare, con la nomina a sorpresa di Marco Reguzzoni come successore di Roberto Cota. Un altro varesotto come il Senatùr, Maroni e Giorgetti: «Con un un gruppo così rompiamo il culo a tutti», dice Umberto. Ingolosito, evidentemente, dalle lacerazioni del Pdl.
pensa esattamente questo: più che rincorrere Berlusconi o Fini, il Pd dovrebbe cercare di trovare un alleato in Bossi, che pur di portare a casa il federalismo è ben disposto a dare una mani ai democratici. Se il Pd confermerebbe nelle commissioni preposte alla discussione sul federalismo fiscale una qualche collaborazione col centrodestra, la cosa si potrebbe fare. Ma a Bersani il federalismo fiscale non piace (sua la frase «il maiale non è tutto prosciutto») e così sarà difficile tenere il canale con Bossi aperto. Con buona pace di Chiamparino. Non avendo però il Pd una sua proposta unitaria sulla riforma dell’assetto dello stato, con annesso cambio della legge elettorale, è inevitabile che il vertice democratico più che sul merito delle questioni, si divida sul metodo delle sponde da ricercare, eliminata l’opzione Bossi che tanto piace a Chiamparino e altri esponenti del Nord. Il dissidio si riassume tutto in due nomi: Fini o Berlusconi? A Fini, si sa, guarda con grande interesse D’Alema, che immaginando una prossima scomposizione dei due poli in seguito alla crisi del bipolarismo, pensa a una ricomposizione post-bipolare, a cui il Pd dia corpo rafforzando i rapporti con Casini e, appunto, con Fini. Non è soltanto un richiamo tattico quello che D’Alema fa al ”suo” Bersani: si tratta della definizione di una nuova missione politica per il Pd, archiviata una volta per tutte la vocazione maggioritaria di veltroniana memoria. Bersani, che bipolarista resta, è però perplesso; per quanto la sua invocazione al patto
La recente uscita di Napolitano contro la magistratura ha fatto letteralmente infuriare quella corrente pro giudici che dentro al Pd continua ad avere molto potere di interdizione molto potere. E Bersani è risultato assai sensibile alla sfuriata in corso, avendo timore di perdere consenso in favore dell’Italia dei Valori. Ma quello che preoccupa maggiormente il segretario democratico è che dietro l’apertura ”riformista” di Berlusconi ci sia la copertura proprio di Napolitano, che ha inteso confermarla richiamando all’autocritica i giudici. Al di là di Bersani, nel Pd sono in pochi a guardare perplessi alle aperture del colle più alto. I popolari anzitutto, che di riforma di giustizia non vogliono sentire parlare, tant’è che hanno fatto ritirare a Bersani l’appoggio all’iniziativa di Andrea Orlando (titolare del dipartimento Pd giustizia) di definizione di una piattaforma d’incontro col centrodestra sulla riforma del servizio giustizia. Sollecitato, il segretario democratico non c’ha pensato due volte, anche in virtù della concomitanza in questi giorni con la discussione sul ddl intercettazioni, sul quale Bersani intende fare il diavolo a quattro.
panorama
pagina 10 • 29 aprile 2010
Sfide. Un cambio di marcia per ridare ossigeno agli italiani: l’analisi di Montezemolo al Parco della Musica di Roma
«Paese fermo, serve una scossa» L’ex presidente Fiat: «La classe dirigente faccia spazio ai giovani» di Franco Insardà
ROMA. Sotto il segno della Fiat. È stato questo il leitmotiv che ha scandito la giornata di ieri di Luca Cordero di Montezemolo che insieme con il presidente della Camera Gianfranco Fini ha presentato, al Parco della Musica di Roma, il quarto rapporto “Generare classe dirigente” che l’Università cura con Fondirigenti e Associazione Management Club.
Concentrarsi sul core business, accettare le sfide del mercato, superare i personalismi: questo il modello che Montezemolo propone al Paese sull’esempio del Lingotto. «La classe dirigente – ha detto – deve anche sapere quando lasciare spazio ai giovani. Io alla Fiat ho ritenuto giusto farlo. La scorsa settimana è iniziata una nuova sfida che si realizzerà nei prossimi quattro anni». L’ex presidente della casa torinese ha spiegato di aver «ritenuto giusto lasciare il passo a un giovane che come rappresentante degli azionisti potrà seguirla dall’inizio alla fine ed è pienamente all’altezza del suo ruolo». Gianfranco Fini ha rilevato come nei mesi della bufera finanziaria internazionale il sistema creditizio italiano, dimostrando capacità di fronteggiare l’urto, ha dato all’Italia «un vantaggio competitivo
rispetto agli altri Paesi, ma nei prossimi anni la crescita dovrà basarsi in particolare sulle imprese e l’economia reale». Ma soprattutto per Fini le riforme fondamentali da fare non sono tanto quelle istituzionali, ma quelle economiche, necessarie per gettare le basi per lo sviluppo, uscire dalla crisi e dare un futuro ai giovani. E ha sottolineato che sarà «altrettanto importante il ruolo dell’alta amministrazione pubblica le cui competenze dobbiamo valorizzare, ma occorre anche iniettare meccanismi di qualificazione e selettivi tipici del-
«Nel 2004 la nostra azienda automobilistica era nell’angolo: ne siamo usciti grazie al coraggio, rinunciando agli alibi» la società, delle imprese e della ricerca. Solo così – ha proseguito il presidente della Camera – si può dare certezza ai giovani che gli unici criteri di valutazione sono quelli basati sul merito e qualità dell’impegno. Se vogliamo dare una prospettiva ai giovani, dobbiamo dare loro la possibilità di sperare che si realizzi il loro diritto di essere valutati secondo il loro valore. Per la
prima volta in tanti anni i giovani pensano a se stessi con il timore di trovarsi tra cinque o dieci anni in condizioni peggiori di quelle nelle quali si trovano oggi grazie al sacrificio dei loro genitori. Quando viene meno la spinta al miglioramento sociale, la società perde il senso di vincere le sfide». Montezemolo, continuando nel parallelo con la casa torinese e attingendo alla sua esperienza professionale, ha indicato una via d’uscita dalla crisi. La Fiat, ha raccontato, nel 2004 «si trovava nell’angolo, con la guardia abbassata e le gambe molli in attesa del ko, ma in questi anni è riuscita a mutare volto, concentrando le sue energie sul “core business”, non trovando scuse per rimanere ferma, puntando su una squadra unita».
ruolo senza perdere tempo in personalismi, conflitti e divisioni. Sapendo che il oneman-show era finito». Poi tornando all’Italia ha detto: «In sei anni il management di
E da uomo di sport Montezemolo, criticando l’atteggiamento delle classi dirigenti di fronte alla crisi e la loro poca propensione a confrontarsi con le sfide, ha continuando con le sue metafore sportive: «Bisogna tornare al centro del ring perché nessun match si può vincere giocandolo solo in difesa. Il problema è che l’Italia è chiusa nell’angolo da molto tempo prima che iniziasse la crisi. Tenendo la guardia alta riesce, grazie soprattutto all’impegno individuale degli italiani, a respingere la maggior parte dei colpi, ma non trova la forza di passare all’attacco. Le sfide del mercato vanno accettate senza chiudersi. Il campo da gioco dà risultati oggettivi, bisogna reagire con prontezza alla crisi: insomma non trovare scuse per risultati deludenti».
«Non è che il pilota non sia importante, ma i personalismi non aiutano», spiega Cordero. «Il tempo dell’one-man-show è finito»
Il pensiero è corso veloce alla rossa di Maranello e, infatti, Montezemolo ha continuato: «In qualunque azienda, anche alla Ferrari, laddove il talento individuale del pilota è un elemento fondamentale per il successo della squadra, se si perde di vista questo principio si può vincere qualche gara, ma si perde il campionato. Non è che il pilota non sia importante, ma la Fiat ha puntato su un team in cui ognuno ha svolto il suo
Fiat ha fatto esclusivamente il suo dovere. Così come ritengo che di questo dovere faccia parte integrante il rendere concretamente possibile l’avvicendamento delle classi dirigenti, come servirebbe anche nel Paese».
A questo proposito ha fatto l’esempio della Cina: «Se ci lamentiamo che i cinesi copiano loro non smettono di produrre. Bisogna spingere le nostre aziende a diventare più grandi, a unirsi, ad approfittare anche di quel mercato, altrimenti non andremo da nessuna parte». Pensare che al suo arrivo il presidente della Ferrari aveva dichiarato testualmente: «Oggi parlo solo di università».
panorama
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Consumi. Presentata ieri a San Benedetto del Tronto la ricerca dell’Iref
S. BENEDETTO
DEL
TRONTO.
Se l’ottimismo è il profumo della vita, la preziosa boccetta dev’essere stata fabbricata in edizione talmente limitata da essere pervenuta soltanto nelle ariose stanze di Palazzo Chigi. Perché nel resto d’Italia, e nei tinelli delle famiglie italiane, domina incontenibile il tanfo della crisi, e neppure la televisione accesa sembra per ora addolcirne la sgradevolezza. È tutto nero su bianco nella ricerca realizzata dalla Iref, istituto di ricerca delle Acli, presentata ieri nel corso del 34° Convegno nazionale delle Caritas Diocesane a San Benedetto del Tronto. Un lavoro di indagine condotto su un totale di 4500 famiglie italiane, che sono state intervistate a maggio del 2009, a settembre dello stesso anno, e infine lo scorso febbraio.
Il quadro che ne emerge, una specie di topografia ragionata dei bisogni dei nuclei familiari della Penisola, è poco confortante da qualunque lato si osservino i tre i focus della ricerca: i fabbisogni di cura delle famiglie e il “welfare fatto in casa”, il legame tra famiglia e welfare, l’effetto della crisi economica. E proprio da quest’ultimo punto bisogna partire per cogliere dalla viva voce di padri e madri italiani, gli effetti della recessione. I dati della ricerca Acli dicono che il 56,7 per cento delle famiglie considera il 2009 «un anno in affanno, più difficile del precedente», il 41,1 per cento lo ritiene un anno come gli altri, e soltanto il 2,2 per cento sostiene di aver migliorato la propria condizione economica in questo stesso periodo. Ma a chi considera l’atavica ignavia del Mezzogiorno come una variabile indipendente, la ricerca della Caritas riserva un dato interessante: la crisi ha colpito al Sud tanto quanto nell’operoso Nord Est, dove le regioni dei capannoni e dell’economia diffusa registrano un saldo simile a quello delle aree sottoindustralizzate del Meridione. Appena migliori, invece, le condizioni del triangolo industriale e delle regioni italiane che contano su un’alta presenza di impiego pubblico. La crisi morde al cuore le famiglie, si diceva. Un assunto ben dimostrato dai dati registrati tra settembre 2009 e febbraio 2010. Le famiglie interpellate dalla Caritas denunciano una coatta riduzione dei consumi, che investe innanzitutto le spese per la cura della persona, ma anche una drastico ridimensionamento nel consumo di acqua, luce, gas, viaggi, va-
L’Italia della Caritas, poco pane ma tanta crisi L’allarme delle Acli: «Sette famiglie su dieci impoverite dalla recessione» di Francesco Lo Dico
canze, tempo libero e divertimenti. Francia o Spagna, purché se magna, direbbe l’antico adagio. E invece la crisi sembra avere infranto anche il mito delle mamme italiche che moltiplicano pani e pesci a scapito di magri stipendi. Perché pane, pasta e carne sembrano essere diventate sulle tavole italiane guest star sempre più sfuggenti e dal cachet non troppo accessibi-
Il 70 per cento delle mamme non ha abbastanza soldi in tasca per comprare quantitativi sufficienti di pasta, pane e carne
le: se il 19,8 per cento delle famiglie con una solidità economica alta ne lamenta consumi ridotti, ben sette famiglie su dieci dal reddito medio-basso, fanno sapere che non hanno abbastanza soldi in tasca per comprare quantitativi sufficienti di alimenti base. Un bell’esempio di dieta mediterranea, insomma. Ma il cibo non è l’unico tabù che la crisi ha mandato a gambe all’aria.
La ricerca Acli spiega chiaramente che sotto il materasso di molti non ci sono più euro da nascondere. E che anzi è meglio stare attenti al materasso. L’impoverimento del ceto medio suburbano impedisce infatti a numerose famiglie di risparmiare, e le trasforma in nuove classi a rischio. «Al di là delle situazioni estreme è interessante notare come in termini comparativi, le famiglie che possono contare su dei risparmi, anche se titolari di mutui o affitti, tendono ad avere una condizione migliore di quelle che, pur essendo proprietarie di casa, non riescono a risparmiare: difatti, il risparmio alimentare interessa nel primo caso il 30,6 per cento delle famiglie, nel secondo il 47,8 per cento», scrivono i ricercatori. Una situazione che rende molto utile fare il punto sulle famiglie italiane giovani, sorte in una congiuntura enormemente sfavorevole. Come affrontano la crisi? «Approfondendo i diversi profili delle famiglie nelle quali entrambi i partner hanno meno di 40 anni – spiega il presidente delle Acli, Andrea Olivero – si nota che alcune hanno retto alla crisi meglio di altre». Ci si riferisce in questo caso a nuclei familiari a doppio reddito nei quali l’occupazione femminile ha svolto un ruolo di compensazione. Ma nonostante le difficoltà, pare che le giovani famiglie continuino ad avere rispetto a quelle consolidate, maggiori aspettative verso il futuro. Il 61,8 per cento di queste è infatti poco o per nulla d’accordo rispetto all’affermazione “oggi è inutile fare progetti perché il futuro è carico di rischi”, a fronte di un campione totale del 47,7 per cento che la condivide. «La crisi di fiducia non è quindi generalizzata: ci sono ancora famiglie che guardano più in là di oggi. Questi elementi ci suggeriscono, in modo chiaro, alcune piste di lavoro rispetto alle quali sollecitare anche un pronto intervento della politica», argomenta Olivero.
In un’ideale agenda politica in grado di fronteggiare la crisi, Acli e Caritas pongono in testa il tema dell’occupazione delle donne, e «il mantenimento e possibilmente l’incremento degli attuali livelli occupazionali». Dare cioè piena attuazione al reddito di garanzia, favorire misure in grado di conciliare i tempi di lavoro a quelli familiari, ridurre il costo dei mutui, e incentivare il part-time. Suggerimenti preziosi, che non hanno prezzo. Per tutto il resto, c’è social card.
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il paginone
“Agora” racconta la storia di una scienziata e filosofa neoplatonica barbarament di Franco Cardini arliamo di un film, Agora di Alejandro Amenábar, e di una donna del V secolo, Ipazia, una figura storica effettivamente esistita e il destino della quale è stato sotto molti aspetti esemplare. Una donna che avrebbe meritato, per esser descritta in termini adeguati, il genio di Shakespeare; e che si è meritato quello del nostro Mario Luzi, il quale gli dedicò nel 1978 il suo intenso Libro di Ipazia, scegliendo per lei la misura appunto del dramma. Nessuno pensò allora, in tempi che pur non erano facili - era l’anno dell’assassinio di Moro -, a rimproverare al più grande esponente della cultura cattolica militante italiana il fatto di essersi inchinato con commozione sulla memoria di una martire pagana della ferocia d’una banda di cristiani fanatici.
P
Oggi, le cose appaiono diverse. Ma ci sono nel mezzo le polemiche accanite sul tema dei casi di pedofilia nella Chiesa cattolica, l’insorgere di numerosi fondamentalismi tra loro in guerra (compreso uno strisciante e insidioso fondamentalismo laicista) e soprattutto la caduta a picco del tono culturale medio della nostra società civile e la sua parallela regressione morale. Oggi, una discussione che non sia a gola spiegata e che non degeneri nella rissa volgare “non fa spettacolo”: e, nella società dello spettacolo, si condanna a venir emarginata. Ecco perché bisogna rassegnarsi alle chiacchiere in libertà su un’importante vicenda storica e su un bel film. Sì, perché va detto che - alla faccia di “indiscrezioni” e di “rivelazioni” tutte abbastanza fasulle - non esiste lo straccio di una prova né che Amenábar abbia avuto sul serio l’intenzione di girare un film anticristiano o addirittura anticattolico, né che il suo film sia stato bloccato, in Italia, da una pregiudiziale censura ispirata da esponenti della Chiesa. Del resto, va detto che se anche così fosse - ed è strano che da noi arrivi soltanto adesso una pellicola che in altri paesi circola da mesi - ciò avrà potuto dipendere forse non tanto da un’ostilità da parte della Chiesa, ma dalla sua convinzione che il nostro pubblico è tutt’altro che maturo per accogliere e intendere correttamente un messaggio come
Tutta (o quasi) la quello. Il che è triste, ma è vero. Intanto, cominciamo con l’aspetto propriamente filmico del nostro oggetto di discussione. Amenábar è uno che prende una pupattola o una bellona, la schiaffa sul set e riesce a obbligarla ad esprimere (quando la stoffa c’è) la grande attrice che lei nasconde di solito dietro il bel faccino o le curve. Lo ha fatto magistralmente in The Others, con una Nicole Kidman nevrotica e allampanata signora ossessionata dai fantasmi che scopre poi - in un rovesciamento di piani degno di Lévi-Strauss e di Tzvetan Todorov - di esser lei il fantasma: con tutta la grande lezione antropologica e psicanalitica ma anche civile che se ne ricava, cioè che anche noi siamo “Altri”. Ora prende Rachel Weisz, che ci aveva non filmicamente convinti, però certo sedotti come ragazzina sexy e svampita in un divertente fimaccio, La mummia, e ne fa una stella da Premio Oscar, scoprendo fra l’altro il suo purissimo profilo da statua greca che la rende tanto convincente nell’interpretazione della pura e virtuosa custode del tempio alessandrino della scienza.
Agora è un bel film, condotto con molta cura. La ricostruzione dell’Alessandria del V secolo, sospesa tra accura-
La ricostruzione dell’Alessandria del V secolo, sospesa tra accurata ricerca archeologica ed heroic fantasy, è quasi commovente ta ricerca archeologica ed heroic fantasy, una specie di kolossal degli Anni Cinquanta-Sessanta rivisitato dalle tecnologie digitali più sofisticate, è quasi commovente. Certo, gli errori e gli anacronismi si possono sempre trovare: ma insomma, un film è un film e - a meno che non lanci esso stesso la provocazio-
Il film di Amenábar è bello, ma viziato da un equivoco: lo scontro non era tra scienza e fede, ma tra due misticismi ne di presentarsi come scrupolosamente aderente alla verità storica - non va certo giudicato come si giudicherebbe un seminario di filologia o di archeologia. Del resto, basta riprendere un istante in mano un saggio scritto ormai alcuni anni or sono da Silvia Ronchey, Ipazia l’intellettuale, pubblicato nel 1994 nel libro Roma al femminile (Laterza), per rendersi conto che si è dinanzi a una ricostruzione dei fatti attenta ed equilibrata, al centro della quale c’è tuttavia un grave equivoco, di cui riparleremo: e che costituisce il vero handicap della proposta di Amenábar.
Quel che in questo tempo di opposte idiozie bisogna cercar di riuscire a capire è che, con Agora, non ci troviamo affatto di fronte a un prodotto di volgare propaganda o di bassa polemica, un film che voglia “scandalizzare” proponendo il contrasto tra i pagani saggi e buoni e i cristiani brutti, sporchi e cat-
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te massacrata da una banda di “chierici-pretoriani” al servizio del patriarca Cirillo
a verità su Ipazia poiché il cristianesimo è religione di pace e d’amore (a differenza di ebraismo e d’Islam, “religioni di legge”), anche la storia delle società cristiane concrete è stata di conseguenza tale. Nemmeno per idea. Ferme restando le splendide pagine di carità e di abnegazione scritte da legioni di martiri e di missionari, quella dell’affermazione della fede cristiana dal IV secolo (cioè da quando Teodosio la impose come unico culto legittimo nell’impero) in poi, è stata storia di una religione propagata con la violenza oppure scesa autoritariamente dall’alto: storia di conversioni coatte oppure decise dai principi e accettate dai popoli. Vi sfido formalmente a proporre un solo esempio di conversione d’intere comunità (i casi individuali sono ovviamente un’altra cosa) che si sia verificato sulla base di parametri differenti.
S‘inquadra in questo contesto l’episodio che riguarda Ipazia. Una donna bella, giovane,
Sacerdotessa del cosmo e dell’armonia, non poteva accettare quella che per lei era la follìa della morte e della resurrezione d’un Dio fatto Uomo tivi. I soliti teocons e neocons, che hanno piagnucolato sul fatto che saremmo davanti al solito “ultimo pregiudizio legittimo”, l’attacco anticristiano, in un mondo nel quale non è più politically correct dir male di ebrei o di musulmani mentre dei cristiani in genere e dei cattolici in particolare, possono aver
anche qualche ragione sul piano generale: ma non in questo caso.
Il fatto è che bisogna uscire da un lungo equivoco storico. Secoli di censura, di storiografia più o meno eurocentrica o distratta e di pregiudizi propagandistici hanno indotto a ritenere che,
virtuosa, colta e saggia, una scienziata e filosofa neoplatonica, la quale fu barbaramente massacrata nell’Alessandria del 415 d.C. da una banda di parabalani, i “chierici-pretoriani” al servizio del patriarca Cirillo, uno dei principali Padri della Chiesa del tempo, avversario inflessibile di eretici, di pagani e di ebrei.
Il film mostra in fondo bene che v’erano altre posizioni all’interno della Chiesa, per quanto proponga in termini romanzeschi il rapporto tra Sinesio di Cirene (altro padre della Chiesa) e Ipazia. Vero è altresì che essa aveva anche allievi cristiani, che gli erano molto cari; così com’è vero che anche tra i funzionari imperiali v’erano posizioni differenti in ordine all’applicazione dell’editto di Teodosio che introduceva il cristianesimo come unica religione ufficiale consentita; e com’è vero che a fanatici cristiani si era dovuta, nel 391, la distruzione del tempio-biblioteca alessandrino del “Serapeo”. Su Ipazia e sulle violenze che accompagnarono la cristianizzazione dell’impero si è steso per molti secoli un velo d’oblìo. Era ridicolo e antistorico, in realtà, questo tentativo di far passare la storia del cristianesimo come un’ininterrotta storia di pace e d’amore, cosa regolarmente smentita dalla realtà obiettiva (e
non solo con le crociate, l’inquisizione o la “notte di san Bartolomeo”). È ridicolo, oggi, assumere Ipazia come elemento di una polemica anticattolica insieme con le storie dei preti pedofili. Semmai, quel che va segnalato nel film è un equivoco antistorico. Ipazia non era una scienziata moderna, tutta dedita all’esperienza e alla ragione di tipo immanente: era appunto una neoplatonica, il che significa che la sua interpretazione dell’universo e della vita era a sua volta profondamente radicata in un messaggio cosmico. La lotta del tempo non era tra scienza e fede, ma semmai tra un sistema mitico-religioso e una fede radicata nel creazionismo biblico e nella Rivelazione cristica. Una lotta tra due visioni entrambe altamente e profondamente spirituali. È questo l’equivoco da chiarire. Sul tipo di scientificità perseguito da Ipazia, ha ragione senza dubbio Giulio Giorello: l’universo tolemaico era tutt’altro che un mondo chiuso, v’era senza dubbio spazio per studi alternativi, anche nel suo àmbito, all’ipogeocentrica. tesi Quel che non torna, e non è credibile, è l’aver fatto di Ipazia una specie di nonna di Galileo e magari di bisnonna di Margherita Haack. Il cosmo neoplatonico era una realtà vivente, la scienza neoplatonica era un sistema razionale ma non razionalistico, nel quale c’era spazio per una mistica dello spazio e delle corrispondenze tra cielo e terra, tra stelle, natura, corpo umano e anima. Ipazia, sacerdotessa del cosmo e dell’armonia siderea, non poteva accettare quella che per lei era la follìa della morte e della resurrezione d’un Dio fatto Uomo. E ciò ben diverso del conflitto tra fede e scienza, tra fede e ragione, che permea di sé il dramma della modernità. Ipazia non era affatto più “moderna” di Cirillo d’Alessandria.
Quanto appunto alle responsabilità del patriarca nelle malefatte dei suoi squadristi, il discorso è ancora aperto. Le fonti non sono molte, ma ci sono: Socrate Scolastico, Malalas e altri storici che hanno parlato di quell’eccidio, che indignò molti cristiani non meno che molti pagani. Ma le violenze c’erano: ad Alessandria come a Roma come ad Antiochia; per lungo tempo l’atmosfera fu più distesa ad Atene, poi arrivarono anche là. Non dimentichiamo che monofisiti e nestoriani furono costretti a emigrare dall’impero chiedendo asilo al negus d’Etiopia e all’imperatore sasanide e zoroastriano di Persia, e che il grande Giustiniano fece chiudere la scuola filosofica di Atene. Ipazia non fu la sola martire uccisa dai seguaci di Gesù. Erano Suoi cattivi seguaci? Può darsi. Piantiamola comunque con la mistificazione del cristianesimo buonista. Goffredo di Buglione, Thomas de Torquemada ed Hernan Cortés non furono affatto delle sanguinarie eccezioni. Anzi, è mia ferma e non arbitraria convinzione che fossero migliori di molti altri.
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Costituzione. Tre gli obiettivi di Erdogan: riforma della giustizia, processo civile per i militari e divieto di chiudere i partiti religiosi
Le mani sulla Turchia Il due maggio riprende il voto per modificare la Carta di Ataturk. I laici temono un golpe di Alexandre del Valle a Turchia, come disse Samuel Huntington, è uno «Stato sostanzialmente lacerato», un «Giano politico» attratto dall’Europa moderna, un’eccezione di «Stato musulmano laico», ma anche un paese nostalgico dell’Età dell’Oro islamico-ottomana, e sempre più sensibile alle sirene dell’islamismo e del miraggio di un nuovo Califfato. Questa ”lacerazione politica” interna oppone di fatto da una parte i conservatori islamici del Partito di Giustizia e Sviluppo (ossia l’Akp), al potere dal 2002, e dall’altra i nazionalisti-kemalisti laici che fanno parte di quello che i turchi chiamano lo “stato profondo”(Derin Devlet), vicini alle forze armate e trincerati dietro le istituzioni kemaliste anti islamiche, fra cui le Alte corti supreme dello Stato. Infatti, fino all’adozione del settimo pacchetto di riforme (agosto 2003), e all’attuale riforma della Costituzione, il vero centro del potere politico del Paese era il famoso Consiglio Nazionale di Sicurezza (Mgk), sorta di governo ombra presieduto dal Capo dello Stato e composto da militari e civil.
L
Il Mgk poteva “costituzionalmente”proibire e cassare le leggi che minacciavano i principi laici del kemalismo. Fu proprio il Mgk che, il 28 febbraio 1997, intimò al primo ministro turco dell’epoca, l’islamico Necmettin Erbakan, padre spirituale di Erdogan, di dare le dimissioni. Og-
gi, l’Mgk è privo delle sue prerogative politiche, dopo che le leggi d’armonizzazione europee hanno condotto allo smantellamento delle grandi istituzioni politico-militari-giudiziarie che costituivano «l’eccezione kemalista». Il Consiglio Nazionale di Sicurezza presieduto da un civile, è diventato un semplice organismo di consultazione, mentre le Corti Nazionali di Sicurezza (Devlet Güvenlik MahkemesiDgm) sono state abolite. Per tentare di far proibire il partito neo-islamico di Erdogan, democraticamente eletto sì, ma che avrebbe un’agenda nascosta
posizione laica e nazionalista lo costrinse a tornare sui suoi passi e ad immaginare di emendare quella esistente. Ci riprovò nel 2008, proponendo un ambizioso disegno costituzionale che dovette subito ritirare a causa dell’opposizione laica (e della Corte Costituzionale turca) che portò l’Akp sull’orlo della messa al bando. Una prospettiva sostenuta dall’esercito, garante della laicità e dei principi kemalisti, che lo aveva più volte avvisato di essere pronto a reagire con ogni mezzo possibile per difendere i principi laici della Costituzione del 1982.
L’attuale Carta è stata redatta nel 1982, dopo l’ultimo colpo di Stato dei militari nel 1980, per ostacolare la progressione dell’islam politico nel Paese. È già stata emendata, mai in modo radicale per islamizzare il paese, i più accaniti avversari turchi dell’Akp sarebbero pronti ad utilizzare tutti i mezzi concessi dalla Costituzione del 1982. E questo è il motivo per cui l’Akp vuol riformarla: per distruggere l’ultimo strumento legale in grado di mettere fuori dalla scena politica il suo partito. L’attuale Costituzione turca è stata redatta nel 1982, dopo l’ultimo colpo di Stato dei militari nel 1980, per ostacolare la progressione dell’islam politico in Turchia. Ed è già stata emendata parecchie volte. Nel 2007, il primo ministro Erdogan promise una «nuova Costituzione», ma l’op-
In risposta, il governo di Erdogan ha lanciato nel 2008 un processo senza precedenti contro ex-ufficiali, intellettuali e giornalisti nazionalisti e kemalisti d’estrema destra accusati di aver tentato un golpe militare nel 2003 per rovesciare il suo governo islamico (il cosiddetto Processo Ergenekon).
L’accusa ha portato all’arresto di 40 militari (la maggior parte di alto grado) e di un giudice. Dopodichè il governo Akp ha presentato il 22 marzo scorso un nuovo progetto di revisione della Costituzione, giustificandolo come una “necessità
democratica» e una «prova che la Turchia si conforma alle norme europee». Ora, è vero che la Ue ha posto nel 2005 (inizio dei negoziati) come precondizione all’accesso proprio la riforma del sistema giudiziario, legislativo e costituzionale turco. Ma il mondo laico denuncia l’Akp di voler strumentalizzare i criteri democratici europei per giustificare l’abolizione dei principi kemalisti iscritti nella Costituzione del 1982. In nome della libertà dei culti, l’Akp spiega che Bruxelles si oppone ai divieti anti-islamici di Ataturk. Nei diversi rapporti della Commissione riguardo la candidatura turca, inoltre, l’Unione europea esige l’abolizione dei tribunali militari e la riforma della Costituzione del 1982 fra cui la riforma delle alti corti dello Stato, ultimi baluardi laici. In uno studio compiuto sul
kemalismo, il politologo Secil Deren spiega che i diversi rapporti del Parlamento e della Commissione Europea sulla Turchia menzionano il kemalismo come un «ostacolo sul percorso di adesione». Insomma, «lo statalismo, il superiore ruolo conferito all’esercito e la rigidità nei confronti delle fedi religiose sono incompatibili con i valori della Ue».
Il nuovo progetto di legge consiste in 31 articoli che rivoluzionano il metodo di nomina dei giudici, limitano l’intervento dei militari nella vita politica e nella gestione delle istituzioni, e rafforzano il potere esecutivo e parlamentare. Per entrare in vigore, deve essere approvato dai due terzi dei deputati (367), ma il partito di governo islamico dispone solo di 337 voti. In caso di rigetto da parte del
mondo chiedere la protezione dei dati sensibili che potranno essere utilizzati solo con il consenso del loro titolare. - Miglioramento della protezione dei bambini contro la violenza e l’abuso sessuale. In particolare con la creazione di un Ombudsman (difensore civico incaricato di risolvere le controversie tra amministrazione e cittadini). - Rafforzamento dei diritti dei lavoratori. - Riduzione della possibilità di un intervento militare nella gestione delle istituzioni: il cambiamento più importante e problematico è un emendamento all’articolo 148 della Costituzione, destinato a consentire l’eventuale processo davanti ai tribunali civili del capo di Stato maggiore dell’Esercito e dei comandanti dell’Esercito.
- Riforma delle procedure atte a vietare i partiti politici anti laici o anti-costituzionali. Fino ad oggi, il procuratore generale della Corte Costituzionale era l’unica autorità in grado di chiudere un partito. Se approvata la riforma, tale decisione dovrà essere sottoposta al voto parlamentare. E i partiti politici potranno essere banditi solo se accusati di violenza e terroriParlamento, Erdogan ha annunciato di voler sottoporre la riforma ad un referendum prima dell’estate. E i sondaggi mostrano che l’opinione pubblica turca è favorevole alla modifica della costituzione. Fra gli emendamenti, 23 cambierebbero 21 articoli della Costituzione: (10, 20, 23, 41, 53, 69, 74, 84, 94, 125,128, 129, 144, 145, 146, 147, 148, 149, 156 , 159 e la sezione di transizione 15). Il cuore della revisione proposta mira a eliminare gli ostacoli giurisdizionali che impediscono all’Akp di estendere l’islamizzazione del paese e lo smantellamento delle istituzioni kemaliste (Derin Devlet: lo “Stato Profondo”, composto da militari e giudici laici). Si tratta anche di rendere più difficile lo scioglimento dei partiti politici considerati “anti-kemalisti” o islamici (l’attuale Carta vieta i partiti religiosi).
Le modifiche più importanti riguardano la composizione dell’Hysk (Hakimler ve Yuksek Kurulu Savcılar), il Consiglio supremo della magistratura, e il fatto che le decisioni del tribunale militare supremo saranno soggette a ricorsi davanti a giudici civili, mentre il Consiglio supremo militare, lo Yas (Yuksek Askeri Surasi) non potrà più bocciare (come fa ogni anno) gli ufficiali islamici infiltrati nell’esercito turco. Riassumendo, è una riforma a doppio uso: alla luce della strategia globale dell’Akp, si tratta da un lato di promuovere le riforme in nome dei valori europei e della democrazia, e dall’altro di smantellare - grazie al pretesto europeo-
democratico - l’edificio costituzionale laico-kemalista sempre combattuto dall’Akp. Di fatto, la riforma rafforzerebbe l’esecutivo controllato da Erdogan e smantellerebbe l’arsenale kemalista-costituzionale dello Stato turco, ultima barriera (fuori della soluzione del golpe) capace di ostacolare le derive anti-laiche e reazionarie. Secondo Ergun Ozbudun, uno dei principali autori del progetto della riforma della Costituzione nel 2008 e docente di legge alla Università Bilkent di Ankara, gli emendamenti avrebbero lo scopo di spianare la strada all’Akp e non concedere alcun diritto alle minoranze etniche e religiose. Esaminiamo alcuni degli emendamenti proposti: - si chiede la modifica dell’art. 10, che parla di azioni tese al rafforzamento della parità e dell’uguaglianza tra i sessi e dell’uguaglianza davanti alla legge. Una mossa che i kemalisti leggono come una misura tesa ad eliminare il divieto sul velo nelle università, grande tema dell’Akp. - Si chiede di aumentare la garanzia per l’uso delle informazioni sui computer e di rivedere la tutela della privacy (art. 20): i cittadini avranno il diritto di
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smo. Gli emendamenti invece non toccano la questione dello sbarramento al 10% (percentuale necessaria per formare gruppi parlamentari propri), una delle riforme richieste dai liberali e dai curdi. - Riforma completa del sistema di nomina del Consiglio Supremo dei Giudici e dei Procuratori (Hsyk, equivalente al nostro Csm). Attualmente, i 7 membri del Hsyk sono nominati dai presidenti degli organi giudiziari superiori del paese. Secondo il ministro della Giustizia turco, Sadullah Ergin, questo costituisce un «severo sistema di cooptazione» a favore dell’elite kemalista anti-islamica, fra cui l’ex-presidente della Repubblica laicista, Ahmet Sezer. Con la riforma, un terzo dei 21 membri del Consiglio giudiziario sarebbe nominato dal Parlamento o dal Presidente della Repubblica, attualmente Abdullah Gul, anch’egli dell’Akp. E quest’ultimo dunque avrebbe il diritto di nominare 4 dei 21 membri (al momento sono 7) dell’Hsyk. Aumento anche dei giudici della Corte Costituzionale, portata dagli attuali 11 a 17, di cui tre nominati dal Parlamento e altri dal Presidente, quindi dalla maggioranza islamica. Ambedue gli
La riforma deve essere approvata dai due terzi del Parlamento (367 deputati), ma il partito di governo dispone solo di 337 voti. In caso di rigetto, Erdogan sottoporrà il testo a referendum organi (Hsky e Corte) sarebbero inoltre sottoposti al controllo parlamentare. Secondo l’opposizione, la magistratura è in questo modo destinata a perdere il suo ruolo di controllo sull’attività del governo, visto che i più alti magistrati saranno nominati tra le fila dell’Akp. Inoltre il progetto mirerebbe a smantellare legalmente e costituzionalimente l’edificio kemalista turco per facilitare la nascita di un futuro Stato islamico (attualmente reso impossibilie dalla Costituzione vigente).
In prima fila contro le riforme, due figure storiche del kemalismo: l’ex-presidente della Repubblica Ahmet Necdet Sezer e Hasan Gerçeker, capo della Corte d’Appello. Secondo i giudici del Consiglio di Stato e il presidente della Corte Suprema, Mustafa Birden, gli emendamenti alla Costituzione rappresentano «una sconfitta per l’indipendenza della giustizia». Sabih Kanadoglu, Procuratore capo
della Corte d’Appello, ha dichiarato che in Turchia il secolarismo è ormai a rischio. Secondo il famoso professore Ibrahim Kaboglu, uno dei migliori costituzionalisti turchi e professore di diritto costituzionale all’Università di MarmaraIstanbul, con questa riforma, la Corte costituzionale sarà «trasformata in una corte dedicata all’Akp», perché la maggioranza dei suoi membri saranno nominati direttamente o indirettamente dal potere esecutivo e legislativo. Per esempio, il presidente della Repubblica nominerà tre membri scelti fra i candidati proposti dal Consiglio di istruzione superiore (Yok). L’obiettivo del governo sarebbe quello di avere un Consiglio succube del governo piuttosto che un potere indipendente e imparziale. Per Kaboglu, i cambiamenti aumenteranno il potere del Presidente, permettendogli di scegliere un maggior numero di membri della Corte costituzionale. E teme che quest’ultima possa colmarsi di fedeli alleati di Erdogan pronti a «riempire in tutta fretta entrambe le istituzioni (Corte costituzionale e Csm) con persone vicine alle loro idee per garantirsi un futuro».
Ayhan Cakmur e Sinan Dunan, due geopolitici di Istanbul, mi hanno spiegato che molti laici e intellettuali temono l’islamizzazione del paese, visto che queste riforme «aprono il cammino verso un futuro regime islamista totalitario». E mi hanno detto di confidare - contro questo pericolo - soprattutto nell’esercito turco, che «mai lascerà nascere tale regime in Turchia». Di fronte all’evoluzione neo-ottomana e neo-islamica della Turchia targata Akp, e nell’ambito dello smantellamento delle istituzioni kemaliste giudiziarie e della riforma post-kemalista della Costituzione, ultimi baluardi laici legali, alcuni osservatori turchi temono infatti che le tentazioni neo-golpiste - in crescita fra le file della Destra laica estrema e alcuni circoli dell’esercito - abbiano il sopravvento. Ricordiamo che tre volte, in passato, gli alti comandi militari sono intervenuti – nel 1960, 1971, 1980 – in nome della “sicurezza nazionale”, per porre fine alle spinte “reazionarie” o antikemaliste. Per non parlare del ruolo “indiretto”del Mgk nel putch del 1997, indicato come «interruzione del processo democratico». Ma questa tentazione golpista ci pone davanti a un grave dilemma: occorrerebbe, infatti, scegliere tra una Turchia militare-kemalista autoritaria ma laica e pro-occidentale (Nato, ecc.) e una nuova Turchia più democratica in apparenza e sulla Carta -, ma governata da un partito islamico che lotta in nome dell’Europa contro il potere kemalista (Derin Devlet) per smantellare la laicità e instaurare progressivamente un regime islamico.
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Vertice. Atteso oggi l’incontro fra i due primi ministri: Singh e Gilani THIMPU. Si è aperto ieri a Thimphu, nel Bhutan, il vertice dei capi di Stato e di governo della Associazione dell’Asia meridionale per la cooperazione regionale (Saarc), al quale parteciperanno anche il Primo ministro indiano, Manmohan Singh, e quello pakistano, Yusuf Raza Gilani. Le segreterie dei rispettivi Governi non si sono sbilanciate nel prospettare un incontro bilaterale indo-pakistano a margine del summit. D’altra parte è quasi naturale che Singh e Gilani si confrotino su alcune tematiche che interessano entrambi. Se così fosse, si tratterebbe del terzo vertice bilaterale tra i due Paesi dall’inizio dell’anno a oggi. Il primo si è avuto a febbraio, il secondo due settimane fa a Washington, in coicidenza con il summit mondiale sul nucleare. Al di là dei risultati finora emersi dai due precedenti incontri, va sottolineata l’inversione di tendenza fra due Paesi da sempre in reciproca avversione. Dal 2008, prima ancora degli attentati di Mumbai di novembre dello stesso anno, India e Pakistan avevano interrotto le relazioni diplomatiche, limitandosi a tenere aperte le rispettive ambasciate di Islamabad e New Delhi. La ripresa del dialogo è un merito della mediazione da parte degli Stati Uniti, i quali sono interessati affinché le tensioni fra questi due giganti centro-asiatici vengano levigate il più possibile.
Le argomentazioni trattabili tra Singh e Gilani sono di ogni tipo, sia strutturale sia contingente allo scenario geopolitico regionale di queste ultime settimane. Spesso di tende a circoscrivere il rapporto India-Pakistan al contesto afghano e alla guerra in corso. Gli stessi governi dei due Paesi sembra che abbiano preferito limitare momen-
L’eterna lotta fra India e Pakistan Nucleare, stabilità regionale, terrorismo, Afghanistan: un’agenda “caldissima” di Antonio Picasso
tre sanguinose guerre. Dalla prospettiva indiana, l’Afghanistan appare un’opportunità per la sua locomotiva industriale, sempre alla ricerca di nuovi mercati, nonché una scorciatoia strategica per raggiungere i ricchi giacimenti petroliferi iraniani, bypassando il territorio pakistano. Non è un caso che proprio lunedì il Presidente afghano, Hamid
Le due culture, unite un tempo sotto la Corona britannica, non riescono a trovare un punto di dialogo e di reciproca tolleranza taneamente il confronto a questo settore, accusandosi reciprocamente di fomentare la guerra talebana, impedendone di conseguenza la risoluzione. Il Pakistan considera il sovrastante Afghanistan un’area di “profondità strategica”da utilizzare come riserva difensiva in caso le frizioni con l’India dovessero degenerare. Escalation di questo tipo sono già accadute in passato. Dal 1947, anno di dichiarazione di indipendenza dell’India dall’Impero britannico, i due eserciti si sono scontrati
Karzai, fosse in visita ufficiale a New Delhi e che oggi prenderà parte anche lui al summit della Saarc. Dal 2001 a oggi, l’India ha investito 1,2 miliardi di dollari per la ricostruzione del Paese centroasiatico. È facile supporre che tra Singh e Karzai si sia ormai consolidato un rapporto di dialogo privilegiato. Una relazione questa però che certo non piace a Islamabad, il cui governo desiderebbe ottenere maggiore ascolto dal suo omologo di Kabul. Al di là del “dossier Afghanistan”,
Cosa è il Saarc, fondato nel 1985
Il summit del Bhutan Il “South Asian Association for Regional Cooperation” (Saarc) è stato fondato nel 1985 e vi fanno parte: Bangladesh, Bhutan, Maldive, Nepal, Pakistan, India e Sri Lanka. A questi nel 2007 si è unito anche l’Afghanistan. Ai summit del Saarc sono presenti come osservatori anche i rappresentanti di Cina, Usa ed Ue. Si tratta di una delle organizzazione intergovernative più estese al mondo, tenuto conto che coinvolge 1,5 miliardi di persone, nella complessità degli abitanti dei singoli stati membri. di Il vertice Thimphu che si è aperto ieri costituisce la 16 esima sessione di incontri fra i Capi di Stato e di Governo dei membri e prevede, nel corso dei due giorni di dibattito, la firma di due accordi: il primo per la definizione di una politica comu-
ne in ambito ambientale, il secondo per incentivare il commercio regionale. L’obiettivo dell’organizzazione è creare un’area di libero scambio simile a quella dell’Ue. Nel 2007 è stato realizzato un taglio dei dazi commerciali tra le nazioni del Saarc pari al 20%. In questo momento si sta attraversando una “fase 2” che prevede una riduzione della stessa portata entro il 2012. La data per la piena realizzazione di una free trade area non è stata ancora fissata, ma – come si legge nelle note ufficiali – lo sarà “nel più breve tempo possibile”. Come è stato riconosciuto dal Governo indiano in una nota di ieri, «L’Asia meridionale non può restare immune dalla tendenza di una maggiore integrazione, a livello sia re(a.p.) gionale che globale».
Gilani e Singh dovrebbero anche cominciare ad affrontare questioni che paiono accantonate e che, proprio per questo, nessuno vuole che esplodano improvvisamente come problemi di difficile gestione. Il fatto di essere due potenze nucleari, peraltro molto vicine all’Iran, costituisce una fonte di preoccupazione per l’intera comunità internazionale. Il contesto di sicurezza della zona fa sì che i rispettivi arsenali militari siano un potenziale bersaglio per i gruppi terroristici legati ad al-Qaeda e alla guerra talebana. C’è poi la questione religiosa. Il Pakistan, con i suoi 170 milioni di abitanti, è un Paese schiettamente musulmano. L’India, per quanto la sua comunità islamica sia composta da 150 milioni di unità, si dichiara apertamente induista.
Le due culture, unite a suo tempo sotto la Corona britannica, non riescono a trovare un punto di dialogo e di reciproca tolleranza. Anche in questo caso, l’insicurezza così elevata dell’area non facilita la risoluzione del problema. All’induismo più radicale fa da specchio un atteggiamento simile in seno all’Islam, il quale peraltro è diviso dalle rivalità fra sunniti e sciiti, le cui comunità appaiono frammentate in tutti i Paesi. Infine si arriva alla questione del Kashmir, vero casus belli della rivalità strutturale fra India e Pakistan. Dal 1990 a oggi tuttavia, sono 47mila le vittime degli attentati che si sono susseguiti lungo la line of control (Loc); Islamabad e New Delhi preferiscono evitare il termine “confine”, in quanto indicherebbe la formalizzazione di un accordo che invece manca. Gli attacchi più recenti si sono registrati fra gennaio e febbraio, a ridosso delle elezioni regionali nel Kashmir pakistano. Un’eventualità potrebbe essere che, approfittando dell’attenzione mediatica concentrata solo sull’Afghanistan, il terrorismo possa intervenire proprio sulla Loc, generando un nuovo focolaio di instabilità. Ieri l’ennesimo attentato suicida nella città pakistana di Peshawar ha provocato la morte di 4 poliziotti. Nel frattempo a New Delhi è stato arrestato un funzionario dell’Ambasciata indiana presso Islamabad con l’accusa di aver trasmesso informazioni riservate al governo pakistano. Entrambi i fatti mettono evidenziano la necessità di una partnership trasparente e di lungo periodo fra India e Pakistan.
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Medvedev: «Lo dobbiamo al mondo». Memorial «Era ora»
Kenya, la proposta choc arriva dal nord est del Paese
Strage di Katyn, il Cremlino mette sul web i documenti
I mondiali 2010 non sono halal e l’imam vieta il calcio in Tv
MOSCA. La Russia vuole dimostrare di aver imparato le lezioni della storia, e nell’ansioso tentativo di un miglioramento dei rapporti con Varsavia ha reso pubblici ieri i documenti relativi al massacro di Katyn, dove 70 anni fa vennero uccisi circa 22mila soldati polacchi. «Lo dobbiamo al mondo» ha detto il leader del Cremlino Dmitri Medvedev, in visita in Danimarca, specificando tuttavia che «questi archivi non erano sconosciuti: sono stati messi su un sito in modo che tutti possano avere l’opportunità di vedere chi ha dato l’ordine di uccidere gli ufficiali polacchi». Tra i documenti pubblicati online, quello che spicca è una nota del capo della polizia politica (Nkvd), Lavrentij Beria, al dittatore sovietico Josif Stalin, dove si propone di uccidere gli ufficiali.
NAIROBI. Il Kenya non è un Paese islamico. Solo il 10% della popolazione (39 milioni di abitanti totali) fa professione di fede al Corano. Tuttavia ha suscitato un’ondata di polemiche l’eventualità di vietare la trasmissione delle partite dei mondiali di calcio che verrano giocati in Sud Africa a giugno. La proposta è giunta da un Imam del nord-est del Paese, regione confinante con la Somalia. L’autorità religiosa ha sostenuto, attraverso una sentenza formale secondo i canoni dell’Islam (fatwa), che si tratterebbe di un evento non “halal”, quindi non conforme ai precetti del Profeta Maometto. Sheikh Mohammed, questo il nome dell’autorità religiosa protagonista della diatri-
Queste carte erano state desecretate nel 1992 e inviate a Varsavia, ma non erano mai apparse prima su un sito ufficiale russo. Il capo dell’Archivio federale russo, Andrei Artizov, da parte sua ha spiegato che tali documenti erano stati pubblicati per mettere a tacere coloro che negano la colpevolezza sovietica. Il massacro di Katyn rappresenta il fardello più pesante nella storia dei rapporti tra Mosca e Varsavia. Un fardello che con il recente incidente all’aereo presidenziale di
La gaffe di Brown che affonda i Labour E stasera il terzo match a tre sulla Bbc rischia di saltare di Laura Giannone
LONDRA. Periodo nero per i Labour, che a poche ore dal terzo confronto a tre inanellano, con il suo leader Gordon Brown, una gaffe che potrebbe pesare davvero molto alle urne. Il premier, infatti, dopo un evento elettorale a Rochdale, a nord di Manchester, è salito in auto, e, senza rendersi conto di aver ancora addosso un microfono acceso, si è lasciato andare a commenti senza controllo. «È stato un disastro, di chi è stata l’idea di venire qua?», ha detto Brown, le cui frasi sono state messe in onda da Sky. Poi, commentando l’incontro con una cittadina, la ciliegina sulla torta: «Quella donna è una fanatica». Immediate le scuse e la visita alla donna in questione, ma certamente non basteranno a piegare il coro di critiche e di scherno che si è abbattuto sui Labour. Come se non bastasse, è intanto scontro a tutto campo - dalla sanità alla sicurezza, dall’economia alla scuola - tra i leader dei maggiori partiti britannici, che affilano le armi in vista del terzo e probabilmente decisivo confronto a tre in diretta tv, stasera, dove si parlerà principalmente di economia. Uno scontro che rischia di saltare o cambiare drasticamente, dopo che lo Scottish National Party (Snp) è andato in tribunale per chiedere che sia annullato, a meno che non vi partecipi anche il suo leader e premier scozzese Alex Salmond. Il terzo match tv verrà trasmesso in diretta sulla Bbc che ha respinto la richiesta dei nazionalisti scozzesi e di quelli gallesi del Plaid Cymru per essere inclusi nello scontro televisivo, affermando che i tre leader sono stati scelti perchè rappresentativi a livello nazionale di tutto il Regno Unito. Se dovesse aver successo l’azione legale, il tribunale potrebbe far includere i leader scozzesi e gallesi nell’ultimo dibattito, o costringere la Bbc ad organizzarne un quarto che li comprenda. Brown, Cameron e Clegg non sembrano particolarmente impensieriti, e continuano a scambiarsi bordate su ogni argomento della campagna elettorale. Al di là di vere o presunte intenzioni di dar vita a coalizioni se il voto non dovesse dare una maggioranza assoluta a nessu-
no dei contendenti, che secondo i sondaggi si dividono praticamente in tre l’elettorato. Le scintille sono volate sulla protezione della sanità pubblica e sulla famiglia da tutelare. In materia di tagli sui tre protagonisti è caduto l’anatema dell’Institute for Fiscal Studies, rispettato think tank economico, che li ha definiti «incredibilmente reticenti» su come pensano di affrontare il debito in crescita delle finanze pubbliche, già il più alto del dopoguerra.
Intanto Nick Clegg ha deciso di giocare a carte scoperte e ha dichiarato al Times di voler diventare primo ministro. In un’intervista al quotidiano britannico, il leader dei Lib-Dem sostiene che il suo partito è diventato ormai la vera forza progressista che si presenta alle urne. E l’ultimo sondaggio Populus conferma, quando mancano solo otto giorni al voto, che il partito di Clegg è secondo, dietro i Tories e davanti ai Labour. Per Clegg le elezioni del 6 maggio sono una gara a due, tra due «voci concorenti per il cambiamento», i conservatori e i liberaldemocratici. E chiunque vinca, insiste l’astro nascente della politica britannica, una cosa è certa: la riforma del sistema politico è ormai «ineludibile»: «Non la si può soffocare». «Credo che i Lib-Dem abbiano una squadra brillante e vorrei vederli tutti al governo e naturalmente, vorrei essere primo ministro», ha detto Clegg. Nel corso della lunga intervista l’aspirante inquilino di Downing Street ha chiarito più volte come il tema essenziale di qualsiasi negoziato con David Cameron - nell’ipotesi di un «hung Parliament», un parlamento senza un partito con una chiara maggioranza - sarà la riforma elettorale. Clegg ha nuovamente escluso di voler trattare con Gordon Brown se il Labour dovesse uscire dalle urne in terza posizione, ma non ha escluso di voler lavorare con il partito laburista, spiegando di avere un obbligo morale a formare un «governo buono e stabile». Il sondaggio Populus vede i Tories al 36%, i Libdem al 28%, il Labour al 27%.
Il premier non si è accorto dei microfoni aperti e dopo un comizio ha definito “fanatica e bigotta” un’elettrice
Lech Kaczynski ha subito una strana metamorfosi. Mosca ha infatti dimostrato un’apertura e una disponibilità, senza precedenti nei confronti di Varsavia. Anche se è da almeno un anno che Putin pone l’accento sulla necessità di condividere questa sciagura tutti insieme, russi e polacchi. Nel segno di una ricerca spasmodica a un riavvicinamento politico tra i due paesi. Per decenni, l’Unione Sovietica ha accusato i nazisti di aver commesso questi omicidi. Poi nell’aprile 1990 il leader sovietico Gorbaciov ha riconosciuto la responsabilità del suo paese. Ma per ora Katyn non è ancora considerato ufficialmente da Mosca come crimine contro l’umanità.
ba, ha definito il calcio un’attività che provoca una «cattiva influenza sulla educazione dei bambini e li incoraggia a non andare a scuola». L’ipotetica censura religiosa, in una realtà come quella kenyota – fra le più integrate nella globalizzazione, per quanto riguarda l’Africa – suggerisce che le derive di fondamentalismo e di intransigenza culturale, che hanno preso il sopravvento nel Corno d’Africa, si stiano lentamente espandendo oltre i confini della Somalia.
Il Kenya però presenta un tasso di alfabetizzazione pari all’85%, molto superiore alla media di tutto il continente (circa il 69%). Le attività sportive fanno parte dei programmi scolastici. Questo fa pensare di conseguenza che l’iniziativa dell’Imam sia orientata più al controllo dei media che alle questioni prettamente scolastiche. Per i sostenitori del fondamentalismo islamico, introdursi nei canali di comunicazione kenyoti significa poter trasmettere i propri messaggi su un’area molto più estesa, qualitativamente migliore rispetto a quelli della Somalia e soprattutto puntare, in termini di visibilità, su un evento della portata internazionale come saranno i Mondiali “Sud (a.p.) Africa 2010”.
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grandangolo Una testimonianza del grande scrittore americano
«Cari fratelli scout, è arrivato il tempo di aprire ai gay» Dopo la condanna per pedofilia di un capo scout Usa, costato all’organizzazione una multa di 18 milioni di dollari, l’ex ragazzo di Baden-Powell, oggi romanziere di successo, difende lo scoutismo e il suo spirito di gruppo. Ma chiede una svolta radicale, come avvenne in tutto il mondo dopo l’era della segregazione razziale di Paul Theroux lcuni fattorini delle pizze sanno guidare con prudenza e, sebbene possa sembrare incredibile considerate le recenti notizie che suggerivano il contrario - alcuni ecclesiastici sono pii, alcuni politici monogami e alcuni rivenditori di auto onesti. Vi sono anche dei capi scout intrisi di etica.Tuttavia, niente è più allettante per una mente pigra di notizie che consolidare uno stereotipo negativo. Nel mio percorso da Piede Tenero a Capo Scout negli anni Cinquanta, nessuno dei leader adulti che conobbi assomigliava a Timur Dykes, il capo scout pedofilo che abusò di 17 scout; vicenda che ha avuto il proprio epilogo venerdì scorso, con una condanna al pagamento di 18.5 milioni di dollari inferta all’organizzazione. Anche altri capi sono stati accusati di aver violentato ragazzini nel corso di campi scout, eventi che sono ancora sottoposti al vaglio della magistratura. Nel corso del processo a Dykes è altresì emerso che l’ufficio centrale dei boy scout conservava una lista - non ancora divulgata - di molestatori, conosciuta informalmente come il “fascicolo delle perversioni”. «Le azioni degli uomini che si sono macchiati di tali crimini non incarnano i valori e gli ideali dei Boy Scout statunitensi» ha affermato l’organizzazione nazionale in
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risposta al caso Dykes. Condivido, più o meno. Ricordo ancora il giuramento scout («Sul mio onore prometto di fare del mio meglio al fine di compiere il mio dovere …»), e i 12 punti della legge scout («uno scout è serio, leale, aiuta gli altri…»); ma forse mi sto esprimendo in modo erroneo, poiché quando ero uno scout le astrazioni dei “valori”e degli “ideali”contavano per me meno che il semplice uscire di casa e l’andarmene da tutto e tutti. La mia squadra, o meglio squadriglia 25, a Medford, Massachussets, mi insegnò come compiere quel passo primario.
L’essere “fisicamente forti, mentalmente svegli e moralmente retti” ci riguardava solo incidentalmente. Eravamo neri, bianchi, magri, grassi, ricchi, poveri e uniti nell’essere dei perfetti imbranati. Disprezzavamo le nostre uniformi. Sapevamo di essere diversi. Nessuno di noi era bravo a lanciare una palla o ad agitare una mazza. Sebbene vivessimo alla periferia di Boston, con ben due squadre di baseball che militavano nella Major League, dubito fortemente che qualcuno di noi conoscesse il nome di anche un solo giocatore. Ma sapevamo perfettamente che essere uno scout ci consentiva di maneggiare pistole, accendere fuochi e prendere parte a campeg-
gi di squadra, trascorrendo la notte fuori casa. Sotto ogni punto di vista tutto ciò rappresentava la rivincita di noi perdenti.Tu lanci una palla curva; io posso centrare il bersaglio con la mia calibro 22.
Nel mio percorso da Lupetto a Esploratore negli anni ’50 nessuno dei capi che conobbi assomigliava a Timor Dykes, che abusò di 17 ragazzi Eravamo studiosi, ma in modo non-accademico. I miei interessi spaziavano dal rilevamento delle impronte digitali agli usi e costumi dei nativi americani, dall’arrampicata alla lettura delle carte geografiche, dal canottaggio al tiro a segno. Tutte queste attività erano testimo-
niate da targhette al merito che mi ero guadagnato attraverso lo studio. La mia targhetta sulle popolazioni native mi insegnò più su quel capitolo della storia americana di quanto avessi appreso a scuola. E non mi riferisco alle storie trite e ritrite di “cowboy e indiani”: sin dal principio gli scout mi insegnarono il rispetto per i nativi, i loro valori, così come mi aiutarono a ricordare sempre la loro vittimizzazione – in realtà, il loro genocidio.
Soffocato dai compagnoni e dall’omoerotismo della cultura atletica, trovai rifugio nei boy scout, e lì potei dare sfogo al mio amore per l’escursionismo, il nuoto e la solitudine. Era per me importante separarmi dai miei genitori. Mentre le madri ed i padri degli altri applaudivano i propri figli alle partite di baseball, noi eravamo soli – in due o tre impegnati in un’escursione di un giorno intero, o nel tiro a segno presso le cave di sabbia di Stoneham. Anche il campo scout prevedeva la minima autorità, ed il caos conseguente era salutare. Guadagnai riconoscimenti per il canottaggio e la vela – abilità che mi sono servite sino ad oggi. Le mie targhette per il salvataggio e la certificazione della Croce Rossa mi permisero non solo di ottenere un impiego presso laghetti o pisci-
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Non mancano le contestazioni, ma il Papato sembra in ottima salute
Benedetto XVI celebra cinque anni di Pontificato nel segno della continuità con i suoi predecessori di Luigi Accattoli apa Benedetto festeggia cinque anni di Pontificato in buona salute, con un vasto programma di viaggi, di magistero e di governo in pieno svolgimento. In risposta allo scandalo della pedofilia, che lo tormenta in continuità da cinque mesi, ha compiuto alcune scelte - in direzione della trasparenza, della collaborazione con i tribunali civili e dell’incontro con le “vittime”- che gli hanno attirato il riconoscimento degli osservatori non prevenuti.
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ne nella zona di Boston, ma mi consentirono, nel corso degli anni, di soccorrere una certa quantità di sventurati bagnanti. Le spiagge estive ed i sentieri alberati plasmarono la mia coscienza di scrittore tanto quanto la biblioteca pubblica.
A volte noi scout operavamo in gruppo; ma spesso era lo sforzo individuale ciò che contava realmente. I miei eroi erano gli esploratori, gli scalatori ed i marinai solitari (e lo sono ancora) e nella mia mente fantasticavo sull’aprirmi varchi nella boscaglia e l’affrontare traversie nel mezzo della giungla (e probabilmente è ancora così). In seguito, quando un adulto menzionò gli scout con una risatina snob, pensai: «non hai la minima idea di cosa significa». Pensai inoltre: «ti spaventa lasciar uscire da soli i tuoi figli». Liberato dagli scout, ebbi la forza di diventare indipendente e mi fu consentito di scoprire la mia identità nel modo in cui gli sport di gruppo non avrebbero mai potuto insegnarmi. I boy scout non sono perfetti, “Né la Gioventù Hitleriana dei suoi peggiori detrattori né la comunità virtuosa dei suoi leali sostenitori”, scrive Jay Mechling in On My Honor, una limpida analisi dello scoutismo nella vita americana. La critica di Mechling è implacabile, ma egli descrive altresì l’autonomia della “squadriglia” media, la grande decentralizzazione dell’organizzazione, la qual cosa consente una maggiore latitudine di quanto i burocrati nell’ufficio centrale potrebbero mai auspicare – o di quanto i profani potrebbero mai immaginare. Tale è stata sicuramente la mia esperienza: obbedivamo alle regole rimanendo noi stessi, e la vittoria non era contemplata. La sessualità e la religione non costituirono per nulla il nucleo centrale della mia esperienza di boy scout. E tuttavia la questione del divieto agli omosessuali e ai non credenti rappresenta un elemento di estrema importanza. Il paradosso è che gli scout, con il loro gruppo di ragazzi così eteroge-
neo, potrebbero facilmente accogliere tali individui. «Lo scoutismo è per tutti i ragazzi» recita la prima riga di una pubblicazione scout ufficiale, datata 1967. L’illuminato opuscolo (più saggio del suo titolo, scoutismo per ritardati mentali) continua affermando, «lo scoutismo è per ogni ragazzo, ed ogni ragazzo è diverso». I boy scout renderebbero un grande servizio se
La sessualità e la religione non costituirono per nulla il nucleo centrale della mia esperienza. Ecco perché bisogna includere gli omosessuali apportassero alcuni correttivi (come avvenne dopo l’era della segregazione) e procedessero sulla strada di un chiaro riconoscimento di inclusività.
Lungi dallo svuotare di contenuto i propri principi, l’accettare omosessuali e non credenti li rafforzerebbe. In ogni caso, esistono già gruppi ristretti composti da scout omosessuali, così come gruppi in cui partecipano scout atei. L’escludere formalmente gli scout omosessuali non fa altro che rendere quegli undicenni ancor più isolati e miserabili, per non parlare della violazione dei loro diritti civili. Alcuni sono omosessuali ed altri non pregano. Non solo questi ragazzi sono capaci di essere buoni scout, ma il riconoscimento di tali loro caratteristiche consentirebbe di rendere i loro compagni più tolleranti, in special modo a quella complicata età.
Non mancano nel suo regno le contestazioni esterne e interne alla Chiesa, ma va detto che non sono mai mancate a nessun Papa e si direbbe che Benedetto - che per questo aspetto aveva avuto una partenza sfavorevole - di anno in anno sia riuscito a ridimensionarle. Se riuscirà a far fronte in maniera significativa alla tempesta degli abusi sessuali sui minori è presto per dirlo, ma ci sono buone possibilità che infine vinca la scommessa. Al momento dell’elezione si temeva che il suo Pontificato avrebbe portato a un indebolimento del cammino ecumenico della Chiesa Cattolica e a difficoltà nei rapporti con l’Ebraismo e con l’Islam, ma ora si vede che questi timori erano infondati. Il viaggio in Turchia del novembre del 2006, quello in Terra Santa del maggio del 2009, la visita alla sinagoga di Roma del gennaio scorso, la prosecuzione del dialogo con le Chiese dell’Ortodossia e con quelle della Riforma stanno a dimostrare che in questi campi si è andati avanti con lo stesso passo che era tenuto da Giovanni Paolo II. Oggi le relazioni sono più difficili con la Comunione Anglicana ma sono migliorate con il Patriarcato di Mosca. Una sostanziale continuità si può mostrare anche nei temi sociali e della pace: la visita all’Onu dell’aprile del 2008, il viaggio in Africa del marzo del 2009 e l’enciclica Caritas in veritate del luglio del 2009 hanno svolto gli stessi temi cari al predecessore, con analoga energia. Elementi di originalità il Pontificato di Benedetto li ha mostrati nella concentrazione della predicazione sulla figura di Gesù (entro l’anno pubblicherà il secondo volume su Gesù di Nazaret, a complemento di quello pubblicato da
Rizzoli nell’aprile del 2007) e su “Dio amore”, temi ai quali torna di continuo e che aveva già trattato nell’enciclica programmatica del Pontificato Deus caritas est (gennaio 2006). Sul piano del governo ha preso due iniziative tutte sue tendenti ad attivare processi di riconciliazione verso l’ala tradizionalista, o lefebvriana e verso gruppi appartenenti alla Comunione Anglicana. Sono decisioni variamente criticate: quella verso i lefebvriani da sinistra e quella verso gli anglicani sia da destra sia da sinistra. Ma è possibile vedere in esse un segno di futuro, oltre le circostanze immediate e interpretarle come due passi in vista di un ecumenismo flessibile e di una maggiore pluralità interna all’edificio cattolico. Domani non sarà necessario che tutti usino lo stesso messale: ci sarà cittadinanza per quello di Giovanni XXIII e per quello anglicano accanto a quello “ordinario” di Paolo VI. Accanto ai preti celibi della Chiesa latina ci saranno quelli sposati della tradizione orientale e i nuovi di ascendenza anglicana. A chi si chiede - e capita spesso se il Pontificato di Papa Benedetto non costituisca una svolta conservatrice nel cammino della Chiesa, a mezzo secolo dal Concilio Vaticano II, credo si possa rispondere che esso procede per lo stesso cammino di applicazione prudente e frenata delle innovazioni conciliari che era stato impostato nella seconda metà del Pontificato montiniano (a partire dal 1968, con l’enciclica Humanae vitae e il Credo del Popolo di Dio) e che fu poi continuato dal Pontificato wojtyliano.
Nei casi in cui si nota un cambiamento si tratta di novità tra loro bilanciate: con Benedetto abbiamo una stretta in campo liturgico che si accompagna a un alleggerimento dei richiami in materia di morale sessuale; c’è una riduzione in quantità ed enfasi della predicazione della pace che va insieme a una maggiore concentrazione nella presentazione della figura di Gesù. Ma sono dettagli: la linea è la stessa. Il secondo tempo di Paolo VI ha fatto e fa scuola a tre Papi: Luciani, Wojtyla e Ratzinger. www.luigiaccattoli.it
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spettacoli
Ritratti. Chi è Federico Fattinger, il diciannovenne cantautore che ha conquistato la giuria del programma “Italia’s Got Talent”
L’arte, nel nome della madre di Matteo Orsucci
all’interno dei quali si ascolta: «Stringo forte tra le mani una foto in cui io vedo che mi ami e ora credo proprio che questo pezzo suonerò solo per te. Perché credo che ci sei, nel mio cuore nella mente dentro ai sogni miei e l’amore rimarrà dentro questa mia canzone».
successo tutto così, molto in fretta, in due minuti e una manciata di secondi... Gli accordi del pianoforte, una voce calma e posata, una mimica per nulla sbruffona, una canzone che davvero tocca dentro. Il successo di Federico Fattinger, ovvero il neo talento eletto praticamente all’unanimità dalla giuria e dal pubblico in sala dello show televisivo Mediaset Italia’s Got Talent, è diventato ancor maggiore quando persino Gerry Scotti ascoltando il di lui pezzo non ha potuto fermare le lacrime.
È
Certe cose accadono sempre molto in fretta e non ci sono le mezze misure: la televisione ti tritura, ti colpisce al mento, ti lascia da una parte ma ti porta anche alle stelle nel battito d’ali di una farfalla. Fattinger nello specifico ha vissuto, in diretta, in prima serata Canale 5, la seconda delle due. Ragazzo di anni 19, originario di Riva del Garda, studente all’Università di Trento, una pagina Facebook di ammiratori ma soprattutto di ammiratrici che in pochi giorni sono qualche decina di migliaia, una pagina Facebook reale, propria all’interno della quale possono accedere solo gli “amici”2.0 per così dire: gli esterni possono limitarsi a leggere le pagine di cui lui è un fan. Cade l’occhio su quella dedicata a Lucio Battisti, e onestamente non è un caso. La storia di Fattinger è la storia molto veloce ma anche, purtroppo, molto amara di un ragazzo che si è ritrovato catapultato agli onori - e oneri - della cronaca di spettacolo musicale con una canzone che nel panorama odierno sembra essere vecchia. Il pezzo si chiama Perché (Io) credo, è dedicata alla mamma, morta un anno fa di un male incurabile. «Lei per me è ancora qui, mi veglia, mi accompagna ogni giorno, è il mio angelo...», ha dichiarato il giovane Federico ai cronisti che ovviamente gli chiedevano conto del percome e del perché di tale dedica insomma, ci facciamo sempre la solita figura da cialtroni con domande cretine... «Le avevo promesso - ha continuato Fattinger nella spiega che quando lei non ci sarebbe più stata tra noi io le avrei dedi-
Nessuna pretesa letteraria. Fattinger non avrà lauree honoris causa né riconoscimenti accademici. Però il tema e la freschezza con cui lo tratta fanno di lui non solo l’evento da giornale di questa settimana, bensì un piccolo rivoluzionario in erba di un mondo della canzone ormai abbastanza asfittico. Quando il pubblico esplode in un fragoroso applauso dopo la sua esibizione lui si volta e
A destra, Federico Fattinger. A sinistra, Gerry Scotti, uno dei giurati di “Italia’s Got Talent”. In basso, Lucio Battisti
cato una canzone. Così ho fatto, è il mio tributo». Già, solo che alla fine questo non esserci nel mondo dei viventi s’è poi risolto in una dolce e insistita presenza per non lasciarsi an-
ha rimandi sotterranei, non ha nulla del Montale che scrive «Ora che il coro delle coturnici di blandisce nel sonno eterno...», o della meravigliosa preghiera che Giuseppe Ungaretti fa alla madre quale intercessione per l’al di là («E solo quando mi avrà perdonato ti verrà il desiderio di guardarmi, e avrai negli occhi un rapido sorriso»), o magari, chessò, il soggiorno verde come un giardino dove abbandonare l’anima di fanciullo, come dice Saba.
Il giovane, originario di Riva del Garda, ha eseguito dal vivo un brano scritto dopo la scomparsa della mamma. E ha commosso l’intera platea per la sua (profonda) semplicità dare. Fattinger di per sé ha tanti capelli in testa, riccioli, un ragazzo come tanti verrebbe da dire giusto per usare la più inflazionata delle formule. Ma è anche stranamente anacronistico. Una canzone come la sua, affatto maldestra visto il tema, è una canzone d’antan. A cantare sentimenti del genere c’è riuscita la grande canzone d’autore italiana: la morte non è mai un tema comodo, la madre morta, addirittura, è un topos letterario. Il testo di Fattinger, mettiamolo in chiaro, non
È successo tutto molto in fretta si diceva, poco più di due minuti di pianoforte. E già il fatto che Federico non abbia scelto una chitarra da disimpegno impegnato, pensierodebolismo delle sette note e via andare è comunque sintomatico di qualcosa probabilmente ulteriore. Due minuti e poco più
dice a mezza voce «Grazie», incredulo, abbassando appena lo sguardo. Quasi pudico di tanto successo. Gerry Scotti si asciuga le lacrime e chiestogli un parere sul pezzo non può che dire: «Questi sono i momenti in cui non bisogna usare le parole, è bravo tutto qui». Anche in quell’occasione Fattinger diventa rosso e ringrazia. È il volto pulito di un’Italia un po’ di una volta, un’Italia che non c’è più, la stessa che magari stava davanti alla televisione per sentire canzoni di spessore per sentimenti cantate da personaggi come Battisti, Mina, Vecchioni, De Gregori, Max Pezzali. Fattinger è la dimostrazione che i sentimenti oggi contano e l’Italia sta lì ad ascoltarli. In barba al nichilismo e alla sofisticata puzza sotto al naso radical chic. Poi vero, può darsi sia solo una canzonetta d’un ragazzo. Ma ha qualcosa di autentico, di forte. È il canto di un figlio, nel nome della madre.
cultura ome e cognome suonavano come un impronunciabile scioglilingua. E allora, quando viveva a Parigi, l’islandese Gudmundur Gudmundsson decise di modificarlo in Ferró ispirandosi al pittore brasiliano Gabriel Ferraud che dipingeva a Montmartre. Senonché, dopo che quest’ultimo l’aveva minacciato di trascinarlo in tribunale, l’artista nato a Ólafsvík nel 1932 cancellò la F et voilà: Erró. Questione di pezzi e incastri. Come la sua arte, che s’è tolta lo sfizio di stravolgere à la Picasso l’autoritratto di Van Gogh, o di fondere Mao, Marx e Rembrandt in un geniale guazzabuglio di scomposizioni, ricomposizioni, ascese, cadute, morti e rinascite. Ma Erró fa Pop Surrealista o Surrealismo Pop? Entrambi, direi, guardando il centinaio di collages eseguiti dal 1958 al 2008 ed esposti fino al 24 maggio alla Galleria d’Arte Grafica del Centre Pompidou di Parigi. 50 ans de collages, s’intitola la mostra: le opere sono in gran parte inedite e l’artista le ha donate al museo nel 2009.
29 aprile 2010 • pagina 21
N
«Il collage, oltre a essere la parte più eccitante e libera del mio lavoro, è quasi una scrittura automatica», ha dichiarato Erró per descrivere la giustapposizione-collisione di immagini che alimentano un flusso narrativo ironico e poi sarcastico e poi avvelenato. E certi collages, ricalcati a mano e proiettati sulla tela, hanno fatto da “modelli”ai suoi colossali dipinti: ad esempio Two Friends dei primi anni Settanta, con un macellaio del Ku Klux Klan e un poliziotto americano, complici in overdose etilica, che osservano sadici l’apocalisse urbana. L’impatto iconoclastico di questo ritagliatore-pittore che dopo aver studiato all’Accademia di Reykjavik e Oslo, e negli anni Cinquanta alle Belle Arti di Firenze e alla Scuola di mosaico di Ravenna, comincia a setacciare idee, spunti, paradossi, degradi, rivoluzioni e disfatte, è il frutto «della mia perenne caccia a riviste, cataloghi, manuali, dizionari illustrati. Esigo il materiale giusto, e quando viaggio lo cerco dappertutto: edicole, librerie, mercatini dell’usato. E una volta acquisita una quantità rilevante di immagini su un particolare tema, inizio una vera e propria serie». Come quella di quarant’anni fa, esposta nella sezione Politique, con Mao Tse Tung primattore e solerte codazzo di cinesi “catapultati”nell’Occidente: con la skyline di New York sullo sfondo, in un interno con vista sul Guggenheim Museum, a colazione in Piazza San Marco a Venezia. Oppure il collage, che caustico è dir poco, che raffigura in una stanza affacciata sulla Tour Eiffel il musicista tedesco Paul Hindemith e Hitler a braccetto con Stalin travestito da sposa. Erró, all’epoca, è reduce dall’esperienza nella Figuration Nar-
Mostre. Le opere dell’artista islandese al «Centre Pompidou» di Parigi
Il Surrealismo Pop “made in Erró” di Stefano Bianchi
Le creazioni, un centinaio di collages eseguiti dal 1958 al 2008, sono in gran parte inedite e dal 2009 di proprietà del museo rative che poneva al centro della questione le alienanti contraddizioni della società contemporanea. Si confronta con Bernard Rancillac, Hervé Télémaque, Eduardo Arroyo, Peter Klasen, Öyvind Fahlström e i nostri Valerio Adami, Gianni
Bertini e Antonio Recalcati. Sempre più ingordo di frammenti e dettagli da spettacolarizzare, mette le mani su foto propagandistiche scovate in Cina Popolare, Vietnam, Cambogia, Unione Sovietica, Cuba e America manipolandole, dissacrandole, ridicolizzandole. Partendo da qui, con cinica spontaneità e passo da instancabile viaggiatore, mette a nudo l’onnipresenza storica della guerra e della violenza con i collages della sezione Conquêtes che utilizzano l’immagine ricorrente di un
bebè, vittima inconsapevole d’ogni conflitto, con l’occhio destro sostituito dall’obbiettivo di una macchina fotografica. La messa in scena della conquista (territoriale, spaziale), viene invece visualizzata nella Série spatiale che raggiunge l’apice dell’anti-americanismo con l’impossibile accostamento di tre astronauti e delle donne
In questa pagina, alcune delle opere dell’artista Errò, circa un centinaio di collages eseguiti dal 1958 al 2008, in mostra a Parigi fino al prossimo 24 maggio alla Galleria d’Arte Grafica del Centre Pompidou, nell’esposizione “50 ans de collages”
estrapolate dal Bagno turco di Ingres. «Erró non è un illustratore, uno storiografo, un caricaturista o un pornografo», scrive nell’83 Jean-Jacques Lebel sulle pagine della rivista Métropolis. «Semplicemente, costruisce i suoi collages in base alle cose contraddittorie e incomprensibili che osserva. Non guarda troppo in faccia la società, né propone chiavi di lettura. Semmai suggerisce tracce, concrete o immaginarie, da far sedimentare nella memoria collettiva». Nel ’58, durante un soggiorno in Israele, l’artista elabora Démasquez les physiciens, videz les laboratoires, serie di opere antinucleari dall’impronta surrealista che apre la mostra nella sezione Mécacollages. Dal ’59 al ’63, attraverso le Mécamorphoses, combina corpi umani con elementi meccanici ritagliati dalla rivista L’Usine nouvelle. Nella serie Méca-Make-Up, in particolare, ferro e ingranaggi deturpano i volti e le acconciature di modelle stereotipate con lo scopo di criticare la società dei consumi. Nemmeno l’icona delle icone, Marilyn Monroe, sfugge alla regola dell’abbrutente maquillage. Ma nel ’63, a New York, è proprio (e paradossalmente) il consumismo da supermarket e da fast-food a stregare Erró, complici gli incontri ravvicinati con Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Claes Oldenburg e James Rosenquist.
La Pop Art, d’ora in avanti, riempirà sempre di più i suoi collages. Lo dimostrano, nella sezione Arts, i personaggi ritagliati dai capolavori di Fernand Léger, El Greco, Pablo Picasso e George Grosz che dialogano (loro malgrado) coi fumetti innescando un cortocircuito fra cultura “alta” e cultura “bassa”, nobile classicismo e cartoon usa-e-getta. E lo testimonia il degno epilogo (Comics) di questa rutilante mostra che accavalla uno sull’altro, quasi a volersi soffocare, fumetti manga giapponesi ed eroi di Walt Disney, umanoidi e Superman, Captain America e femmine muscolarizzate dal bodybuilding in un ossessivo, infinito moltiplicarsi e riprodursi. Neppure la musica sfugge alla “mitologia del quotidiano” professata da Erró: vedi, psichedelicamente, il caleidoscopico Rock and Role con Bugs Bunny chitarrista elettrico di un fantomatico Warner Bros Music Show che duetta con Jimi Hendrix fra rockstar neonaziste, orgasmatiche groupies e Bob Dylan, Jerry Garcia dei Grateful Dead e John Lennon che fuoriescono da un bidone della spazzatura che sprigiona morte, polvere da sparo, crepitar di mitragliatrici. Altro che Love & Peace. Eppure, malgrado tutto, The Show Must Go On: frullando uomini illustri, diavolerie elettroniche, aerei, carrarmati, dittatori allo sbando, vedute da cartolina turistica. Tutto, rigorosamente, Made in Erró.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Cosa fai se la casa del vicino brucia? Gli presti solo l’estintore? Il ministro Tremonti, con la sua calma serafica, per farci accettare come una necessità il prestito da fare all’economia della Grecia ci ha posto la domanda: «Se la casa del vicino brucia, che fai? Se ce l’hai, gli presti l’estintore». Bella e convincente similitudine. Solo che il ministro sente il dovere della solidarietà per gli altri Stati e non guarda all’interno del territorio nazionale, dove ci sono - per stare alla sua similitudine - molte case che bruciano e non per fatti recenti ma per ingiustizie secolari. Per i problemi interni si prepara il federalismo fiscale, del quale si sconosce fino ad oggi la reale portata. Poiché è perorato dalle regioni più ricche, con l’intento di proteggere la loro economia, appare evidente che le regioni più povere rischieranno di diventare ancora più povere. Vien da chiedergli due cose: non pensa, il nostro ministro, che in una economia globalizzata gli steccati possono rivelarsi inutili? Non pensa che il fuoco dell’incendio della casa del vicino possa danneggiare la casa del ricco confinante?
Luigi Celebre
RICORDANDO ROBERTA TATAFIORE È passato un anno dalla tragica morte di Roberta Tatafiore, la militante dei diritti civili delle donne e delle prostitute, la libertaria, la sociologa, la scrittirice, la giornalista eclettica. Una morte che lei stessa ha cercato, voluto, pianificato. Roberta ci ha lasciato un diario, La parola fine - diario di un suicidio. Un libro nel quale parla, senza pudori, della «composizione della sua morte».Toccante è anche l’introduzione di Daniele Scalise, che traccia i primi anni della Tatafiore. Nata a Foggia nel 1943, in piena Seconda guerra mondiale. Racconta dei rapporti con la madre, con le sorelle e con il padre che sarà poi - nel 1960 - ucciso da un operaio della fabbrica nella quale lavorava, uscito di senno. Sarà questo che, forse, segnerà la vita di Roberta. Ma sarà anche la sua profonda sensibilità a tratti “mortifera” e “suicidaria”, come afferma lei stessa. E via via, gli anni
’70 di Roberta, come giornalista femminista e la sua militanza nell’Unione donne italiane. Si occuperà negli anni ’80 di prostituzione, con l’incontro di Pia Covre e Carla Corso, fondatrici del Comitato per i diritti civili delle prostutite, e con le quali darà vita al periodico Lucciola e, come sociologa, studierà a fondo il fenomeno, ponendosi sempre dalla parte delle prostitute: «E Dio non voglia che arrivi anche da noi una legislazione come quella svedese, contro il “cliente” e per la rieducazione delle prostitute!». Collaborerà poi con il ministro della Solidarietà Sociale, per la stesura di una legge per la depenalizzazione della prostutizione. Legge che non arriverà mai. Sarà fra i fondatori di Polo Laico, assieme a Taradash, Negri, Diaconale ed altri: per un centrodestra laico, liberale e libertario. Roberta inizierà dunque a collaborare a testate quali L’Indipendente, diretto da Giordano Bruno
Giocando sotto la pioggia Un gruppo di bambini, in Bangladesh, gioca sotto la pioggia durante la stagione dei monsoni. Il nome monsone deriva dall’arabo “mawsim” che significa “stagione”. Questo indica perfettamente il carattere stagionale di questi grandi flussi d’aria, definiti “venti periodici” dai meteorologi
Guerri, Il Foglio, Il Giornale e infine per Il Secolo d’Italia, e scriverà nel suo diario: «...mi piacciono la direttrice e il vicedirettore di questo stravagante foglio di fronda e di governo, perché scrivere per l’unico quotidiano di destra che opera un’intelligente rivisitazione della cultura fascista mi interessa, perché Gianfranco Fini è il politico più laico e sagace del momento». Sarà profetica. E proprio al Secolo affiderà la sua difesa estrema del diritto all’eutanasia, con particolare riferimento al
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
“caso Eglaro”, che sarà l’ultimo ad appassionarla. La parola fine è l’unico ed ultimo documento che ci rimane di una donna che ha voluto presentarci il suo suicidio come “gesto politico”, ovvero: «il salto nel vuoto di chi non sa adeguarsi alla norma». «A chi appartiene la vita? Alla società? A Dio? A noi stessi? Credo che la vita appartenga ad ogni individuo libero di affidarla a chi vuole in base a ciò che gli suggerisce la coscienza».
Luca Bagatin
New York Times del 27/04/10
Un canestro di rubli per l’Nba di Howard Beck ikhail D. Prokhorov vale 17,8 miliardi di dollari. Un somma sufficiente per comprare tutte le squadre della Nba, la lega professionisti del basket Usa, riempirle di stelle dello sport e portarle in giro per il mondo a bordo del suo yacht da sessanta metri. Forse il problema è che non ci sono sul mercato abbastanza nomi importanti per essere all’altezza di tanto denaro da iniettare nel basket. Quando un personaggio ipercompetitivo ha a disposizione un conto bancario, in apparenza, senza fondo può succedere anche questo. E fortunata la squadra che lo incontra.
M
Il quarantaquattrenne Prokhorov è il secondo uomo più ricco di Russia, sta per diventare il proprietario della squadra dei Nets. Ne si avrà la conferma nelle prossime settimane e sarebbe il passaggio di consegne più pubblicizzato nella storia dell’Nba. Il russo è giovane, atletico, di fascino e alto, e non manca di spirito d’avventura. Rappresenta una sorta di moderno uomo del Rinascimento, ammantato da un’aura da guerra fredda. Potrebbe passare per un “cattivo” dei film di James Bond oppure un agente doppio dei racconto di Tom Clancy. Il blog dei Nets lo ha definito «l’uomo più interessante del mondo». Il suo arrivo ha ispirato speranze e meraviglia. Un modo per distrarsi dalla peggiore stagione dei Nets conclusa con ben 70 incontri persi. Ma creare interesse potrebbe rivelarsi la parte più semplice del lavoro che il magnate russo dovrebbe portare a termine. A cominciare da uno spogliatoio assolutamente demotivato, e ormai privo di quegli elementi che trascinano una squadra alla vittoria.
Per non parlare dell’umore dei tifosi, ormai delusi dalle prestazioni della loro squadra. Prokhorov può fare conto sul pubblico di due città. La prima è Newark, dove la squadra verrà spostata il prossimo autunno. La seconda è Brooklyn, dove la squadra del russo dovrà vedersela con il locali Knicks e il loro presidente, James L. Dolan. Insomma sarà una vera battaglia per conquistare il cuore e le menti dei newyorkesi. Il portafoglio gonfio e l’aura di mistero dell’uomo d’affari russo potranno servire fino a un certo punto. Le regole della Nba che pongono dei limiti agli ingaggi dei giocatori, insieme a molte altre restrizioni, limiteranno molto il potere dei soldi di Prokhorov che da solo non potrà garantire il successo della squadra. E c’è un precedente calcistico, come la sorte del Cska di Mosca dimostra. Nonostante la campagna acquisti faraonica e i denari investiti proprio dal tycoon dei Nets. E arrivano anche i suggerimenti di altri proprietari di squadre della lega basket americana. Uno di questi è Mark Cuban dei Dallas Mavericks: «Se il carattere di Mikhail sarà all’altezza del suo portafoglio e saprà essere disponibile verso i tifosi dei Nets, allora lo ameranno e verranno a vedere le partite della sua squadra». E Cuban può essere considerato un esperto di come fondere passione e redditività nel mondo della pallacanestro. Quando nel Duemila giunse a Dallas, investì l’inverosimile per ricostruire da zero la squadra. A cominciare da un nuovo palazzetto dello sport, con spogliatoi avvenieristici e schermi al plasma messi un po’ dappertutto. Persino le vecchie e tradizionali panchine di legno vennero sostituite con sedute in pelle. La campagna ac-
quisti poi, fu di quelle memorabili, con un’attenzione verso i giocatori che portò il coach ad avere ben 13 assistenti.
Nonostante i successi e il fatto che i Mavericks siano ancora uno dei team che meglio retribuisce i propri giocatori, Cuban si convertì a più miti consigli. Capì che non sempre «più» è sinonimo di «meglio». E che spesso sono i «mezzi non tradizionali» che possono far conquistare risultati importanti. Stare in mezzo ai propri tifosi e rendersi «avvicinabile» è una caratteristica che il patron russo sembra possedere fina dai tempi del Cska, quando nelle finali di Champions league si faceva vedere con la maglia della squadra dialogare a bordo campo con reporter e tifosi. Insomma i Nets sembra abbiano incontrato un cavaliere della porta accanto.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Il nostro amore, saldamente cementato come il Firmamento
NORD BARESE, DECAPITATA CUPOLA DEDITA A FURTI, RAPINE E SPACCIO L’importante operazione portata a termine dal comando provinciale dei carabinieri ha permesso l’arresto di 66 persone, uomini e donne di diverse fasce anagrafiche, dedite a furti d’auto, spaccio di sostanze stupefacenti, estorsione e che seminavano il panico da più di due anni soprattutto nelle città di Bisceglie, Molfetta e Corato. Desidero innanzitutto complimentarmi con le forze dell’ordine per la tenacia, la professionalità e l’impegno con cui hanno condotto indagini, controlli e il blitz che ha portato all’arresto di 66 delinquenti. Questa operazione dimostra quanto di buono si possa produrre in termini di sicurezza nelle nostre città attraverso un’azione congiunta tra forze dell’ordine e politiche a sostegno dell’incolumità dei cittadini attuate dalle istituzioni. Restano dunque prioritari temi come la lotta alla criminalità, allo spaccio, alla delinquenza.
Tu stai soffrendo, sì tu, mio bene più prezioso. Proprio in questo momento mi sono accorto che le lettere devono essere consegnate la mattina presto, lunedì o giovedì, gli unici giorni in cui la carrozza postale viaggia da qui a K. Tu stai soffrendo. Oh, dove sono io, tu sei con me. Mi assicurerò che tu e io... che io possa vivere con te. Che vita!!! Come è adesso!!! Senza di te, inseguito dunque dalla cortesia di persone, una cortesia che credo di desiderare tanto poco quanto la merito. L’ossequio dell’uomo all’uomo. Ciò mi addolora. E quando penso a me stesso e al mio posto nell’universo, cosa sono e cos’è quell’uomo che qualcuno chiama il più grande di tutti, e malgrado ciò - d’altra parte, lì sta l’elemento divino dell’uomo - mi viene da piangere pensando che probabilmente non riceverai notizie da me prima di sabato. Per quanto tu mi ami, il mio amore per te è sempre più grande. E non nasconderti mai da me. Buonanotte. Oddio, così vicina! Così lontana! Il nostro amore non ha le fondamenta in cielo e, oltretutto; non è saldamente cementato come il Firmamento? Ludwig van Beethoven all’Amata Immortale
LE VERITÀ NASCOSTE
California: una contea vieta l’Happy Meal Santa Clara. Tempi duri per McDonald’s, malgrado i disperati tentativi di “no-globalizzazione” del gigante americano del fast food (vedi l’hamburger tricolore sponsorizzato dall’ex ministro Zaia) per sfuggire all’etichetta di “imperialisti alimentare”. I guai per la Big M, stavolta, arrivano dalla contea californiana di Santa Clara, pochi chilometri a sud di San Francisco, nel cuore della Silicon Valley. Con l’obiettivo di combattere l’obesità infantile, la contea ha bandito l’Happy Meal, il “pranzo speciale per i bambini” a cui viene allegato un giocattolo. I funzionari di Santa Clara hanno votato un’ordinanza che «impedisce ai ristoranti di sfruttare la passione dei bambini per i giocattoli per vendere pasti ad alto contenuto di calorie, grassi e sodio», ha spiegato al New York Times KenYeager, primo firmatario della legge. «L’obesità è letteralmente un’epidemia - dice il direttore del dipartimento della salute pubblica della contea, Dan Peddycord - Il 25% dei bambini dell’area è obeso, una percentuale ancora più alta tra le fasce economicamente svantaggiate, che poi sono quelle più attratte dai fast food». «Quello che stiamo cercando di fare - spiega Yaeger - è eliminare la connessione che c’è tra cibo poco sano e giocattoli. Perché un bambino piccolo dovrebbe chiedere un hamburger con patatine? In realtà è il gioco che vogliono». La risposta di McDonald’s è arrivata subito per bocca di un portavoce: «Siamo sconcertati dalla decisione. Il nostro Happy Meal fornisce ai bambini degli elementi essenziali per la crescita, come zinco, ferro e calcio». Polemiche nutrizioniste a parte, adesso bisognerà vedere se i bambini - pur senza giocattolo - inizieranno a preferire le zucchine al vapore alle patatine fritte. Le scommesse sono aperte.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
DISTINGUIAMO IL BIANCO DAL NERO La Santa Sede, ciclicamente viene tirata in ballo in questioni a dir poco scabrose: dagli scandali finanziari fino alla pedofilia. Tuttavia, questi avvenimenti sembra che abbiano la funzione di screditare tale istituzione, a vantaggio di schemi di vita e di società stretti parenti di quel laicismo, anticamera dell’anarchia di valori, della distinzione tra il bene e il male, tra giusto ed ingiusto. Lo scandalo scoppiato in Belgio ha un retroscena disgustoso. Apprendiamo che il Vescovo di Bruges si è dimesso per aver avuto della attenzioni pedofile nei confronti di un giovane a lui vicino. Ciò che mi ha fatto sobbalzare è la pubblicazione di un sondaggio della Bild, nel quale si evidenzia come l’81% dei tedeschi chieda l’abolizione della regola del celibato. Ma come, mi sono chiesto, stiamo e stanno cercando di creare un paravento a questa pratica immonda? Vogliamo giustificare gli orchi, vogliamo creare dei salvacondotti, vogliamo paragonare l’uomo ad un qualsiasi animale privo di libero arbitrio? Certo, siamo liberi di fare tutto e il suo contrario, ma non scandalizziamoci, poi, di fronte ad eventi che evidenziano la perdita di valori, origine di un modello interpretativo soggettivo. I valori sono regole non scritte a cui tutti dovremmo rifarci. Qualcuno potrà obiettare che i valori possono essere diversi a seconda della persona, della sua cultura ed estrazione sociale. Quello che mi preme sottolineare è che bisogna avere il coraggio e la forza di gridare e distinguere ciò che bianco da ciò che è nero, ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è giusto da ciò che è ingiusto.
Francesco Manzella - Villa Vicentina
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Direttore da Washington Michael Novak
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Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
FRANA IN CAPITANATA: NON RESTIAMO SEMPLICI SPETTATORI, MOBILITIAMOCI Non si può rimanere inerti e fare da spettatori alle meste vicende relative alle continue e terribili frane in Terra di Capitanata. Ai giovani dell’Udc della provincia di Foggia, così come a tutti i giovani attaccati al proprio territorio e impegnati nel sociale, nell’associazionismo e nella vita politico-amministrativa, chiedo di mobilitarsi affinché non si permetta di far cadere la situazione nel dimenticatoio e per trovare pronte risoluzioni che consentano di tornare alla vita normale. Un appello anche alle istituzioni locali e centrali: «L’impegno di noi giovani sia di monito a chi ancora resta immobile dinanzi a questa sciagura ambientale, che crea notevoli disagi all’intero territorio: il nostro impegno funga da sprone per il governo regionale e quello nazionale, che troppo spesso tendono a dimenticare un territorio importante come quello di Capitanata. Non c’è più tempo per riflessioni e valutazioni: serve agire. Le istituzioni centrali non si comportino come spesso fanno, cioè dimenticando il Sud o, nel migliore dei casi, intervenendo in netto ritardo. Sergio Adamo U D C - MO V I M E N T O GI O V A N I L E - ME Z Z O G I O R N O BASTA ATTENDISMI. VOGLIAMO TRANI SEDE LEGALE DELLA PROVINCIA Non è più tollerabile questa situazione di attendismo politico, di stasi amministrativa, di mancanza di determinismo operativo: nella prossima seduta del consiglio provinciale proporrò Trani quale sede legale dell’ente provincia. Sono deciso a presentare tale mozione tramite emendamento o come precisa proposta in occasione della seduta del consiglio di fine aprile. Dato che continuiamo ad assistere a questa annosa e disdicevole inerzia nell’assumersi responsabilità e nel prendere decisioni da parte del governo provinciale, mi farò carico di presentare questa istanza al fine di sbloccare il colpevole stallo creatosi a causa di futili campanilismi, sterili propagande e grave inconcludenza. Carlo Laurora U D C - CI T T À D I TR A N I
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ULTIMAPAGINA Il personaggio. È morto uno dei nostri più grandi sceneggiatori
Addio a Scarpelli che mise l’Italia in una farsa di Alessandro Boschi ultima volta che abbiamo incontrato Furio Scarpelli è stato poco più di un anno fa, nella sua casa dalle parti di via del Babuino. In questo mestiere capita spesso di dover raccogliere le testimonianze di chi il cinema italiano non solo lo ha conosciuto, ma lo ha anche scritto, creato. L’occasione, se non ricordiamo male, era la necessità di una testimonianza sui “mostri” dei nostri giorni. E chi meglio di colui che (insieme al fido Age, alias Agenore Incrocci) sui “mostri” degli anni Sessanta aveva scritto un film che definire memorabile è riduttivo? Oddio, ad essere precisi, quello straordinario film era stata sceneggiato anche da altri quattro, Elio Petri, Ettore Scola, Ruggero Maccari e dallo stesso regista Dino Risi. Praticamente il gotha del nostro cinema, manca solo Mario Monicelli. Che comunque con Scarpelli ha molto lavorato.
L’
Ma nel complesso è difficile trovare un capolavoro del cinema italiano che prescinda dal
amati e… beh, direi che basta. C’è qualcuno che nel prossimo secolo potrà reggere il confronto? Dura, molto dura.
Un’altra occasione che il caso, e il lavoro, ci regalò, fu quando ci ritrovammo a cena con Age, Scarpelli e Mario Monicelli. Si parlava di Totò e Carolina, film del 1955 tra i più censurati della storia della censura. Eravamo proprio a
(TRAGICA) Fiano Romano, alle porte di Roma, dove erano state girate alcune scene della pellicola. Non ci era mani capitato di incontrarli insieme, e rimanemmo subito stupiti dal loro “assortimento”, vale a dire dalla loro differentissima maniera di porsi. Scarpelli esuberante, un fiume in
un grande eclettismo. Non si spiegherebbe altrimenti la variegata collezione di copioni così diversi l’uno dall’altro. Come sarebbe possibile passare dalle migliori farse di Totò passando per il neo/linguaggio dei due Brancaleone per approdare alle essenziali battute di western co-
In alto, Furio Scarpelli. Qui accanto, da sinistra, Gassman e Monicelli sul set dell’«Armata Brancaleone»; «La banda degli onesti» e «La grande Guerra»
suo nome. Forse il suo era un destino, essendo nato nel 1919 da Filiberto Scarpelli, fondatore di una rivista umoristica intitolata Il travaso delle idee. Era un destino perché davvero le sue idee continueranno a vivere, e i suoi film a farci divertire, ridere, pensare e commuovere. Era difficile fargli accettare un’intervista, ma lo era altrettanto interromperlo durante la stessa, se te la concedeva. Il suo era un eloquio fluente, dolce, ricco di pause e di incidentali, come se le idee e i riferimenti non smettessero mai di venirgli alla mente. Però, se si trattava di svelare il segreto della sua scrittura, delle sue mirabolanti sceneggiature, tutto si riduceva ad un semplice concetto: «Dai tempi di Omero ad oggi non è cambiato nulla, devi sempre fare in modo che quello che scrivi ti spinga a leggere quello che viene dopo». Certo, semplice, più a dirsi che a farsi. Semplice per chi come lui ha scritto film come Bravissimo, La banda degli onesti, I soliti ignoti, Tutti a casa, Mafioso, La marcia su Roma, L’Armata Brancaleone, C’eravamo tanto
Dalla maschera di Totò all’invenzione di Gassman comico; dal Paese dei vizi a quello delle virtù nascoste: in coppia con Age, diede vita alla “commedia all’italiana” piena, una teoria inarrestabile di aneddoti. Di Age, invece, se ne sarebbero potute perdere le tracce. Silenzioso e taciturno, ma d’appetito. Una strana coppia perfetta. Gli sceneggiatori, che molto spesso vanno a due a due, hanno bisogno di un contraltare, di chi li sappia stimolare con un carattere diverso, di chi metta in discussione una soluzione narrativa, di chi sappia anche, però, riconoscere la migliore, insieme. Ma tutte queste caratteristiche, sebbene unite a una eccellente preparazione di base, a poco servirebbero se non fossero cementate da
me Il buono il brutto e il cattivo? «Gringo lo sai che la tua faccia somiglia a quella di uno che vale duemila dollari…». «Già, ma tu non somigli a quello che li incassa!».
C’è una cosa che va sottolineata, e che forse risolve in maniera definitiva la grandezza di Scarpelli. Egli non si sentiva, in quanto sceneggiatore, un “sottoscrittore”, nel senso di scrittore che sta sotto, minore. Egli rivendicava a ragione la sua titolarità di scrittore a tutti gli effetti, pur nella consapevolezza che la sua opera era un’opera di concerto, che assumeva un senso compiuto solo in virtù di una regìa e di una collaborazione stretta con gli eventuali colleghi sceneggiatori. Se Scarpelli rivendicava questa qualità era perché la sua scrittura, proprio come quella dei più grandi, non partiva dalla pagina letta per approdare alla pagina scritta, partiva dal mondo e al mondo ritornava. Mai con la presunzione di spiegarcelo, ma con l’umiltà di raccontarcelo e farcelo amare.