È meglio essere liberi
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che non esserlo, anche quando la prima condizione è pericolosa e la seconda sicura.
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Henry L. Mencken di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 30 APRILE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Telefonata tra Obama e Angela Merkel: «Azioni risolute». Trichet: «Evitare il contagio»
Le lacrime di Atene
Aumento di tutte le tasse e riduzione dei salari: il premier Papandreou annuncia il giro di vite chiesto dall’Europa. Ipotesi “manovrina”in Italia CHI SARÀ IL PROSSIMO
PARLA IL MINISTRO DELLE FINANZE
E adesso comincia La svolta di Parigi a tremare «Aveva ragione la gente di Dublino la Germania»
Clamoroso passo indietro, con polemiche, per l’ex ministro indicato come nuovo presidente del comitato di gestione Francesco Lo Dico • pagina 7
di Gianfranco Polillo
di F. Kempe e C. Koch-Weser
ove arriverà il contagio? Difficile rispondere. Come nelle catastrofi ambientali – l’ultima è quella del Golfo del Messico – molto dipenderà dalle condizioni esterne. La speculazione è come un vento che colpisce nelle forme e nei modi più impensati. Ma tutti i dati ci dicono che per l’Italia il rischio è ancora lontano. Mentre, dopo Grecia, Portogallo e Spagna, tutti guardano con preoccupazione all’Irlanda.
erlino aveva ragione a prendere tempo: la crisi greca è di tali proporzioni che la sua soluzione impone una lunga serie di riflessioni, senza contare il peso della “burocrazia”della Ue. Questa l’opinione di Christine Lagarde, ministro delle Finanze di Nicolas Sarkozy, che ammette: «La prudenza di Angela Merkel era giustificata». Quasi una svolta, dopo il confronto tra l’attendismo tedesco e l’interventismo francese.
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Siniscalco abbandona: «La Sanpaolo non mi vuole»
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In un incontro con i senatori il Cavaliere riapre le ostilità e si dichiara «tradito da Gianfranco»
Le ripicche di Silvio “Dimissioni irrevocabili”di Bocchino che attacca: «Berlusconi voleva la mia testa». E il premier insiste: «Fini è più vicino a Casini e Rutelli» I FILI DELLA CORRENTE
L’AUTO-EPURATO
Ma il malessere serpeggia anche tra i finiani
Caro Italo, come mai allora ti sei dimesso?
di Riccardo Paradisi
di Giancristiano Desiderio
egnali di divisione interna alla corrente finiana erano emersi in superficie, per chi voleva leggerli, già da alcune settimane. Da una parte il direttore scientifico della fondazione Alessandro Campi, dall’altra invece Adolfo Urso, il segretario generale di Farefuturo, uomo di sicura obbedienza finiana, che chiariva come le posizioni espresse da esponenti della fondazione fossero state rilasciate a titolo personale.
talo Bocchino si è dimesso definitivamente e ha dichiarato di essere stato epurato. Delle due l’una: o si è dimesso o è stato epurato. Le due cose non possono stare assieme. A meno che non si consideri una terza ipotesi: l’auto-epurazione. Ma è una congettura che non ci sentiamo di avanzare perché significherebbe dire che il Pdl è un partito totalitario in cui il dissidente si auto-convince di essere un traditore.
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
82 •
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
Il Messico, un Paese assediato dall’emergenza Narcotraffico, violenza, povertà, ignoranza e disoccupazione: viaggio nell’inferno dove è stato rapito il volontario italiano Maurizio Stefanini • pagina 14
La Capria e Napoli: «Una bellezza che fa male» Dallo scandalo immondizia all’allarme malavita. Il grande scrittore piange la città e i suoi tesori perduti Rita Pacifici • pagina 18 19.30
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pagina 2 • 30 aprile 2010
Crisi. La crescita tumultuosa, poi la caduta e l’accumulo di grandi debiti: vediamo quali sono le economie a rischio in Europa
Chi sarà il prossimo?
In pochi giorni, Portogallo e Spagna sono entrati nell’occhio del ciclone dopo il crollo greco. Adesso i riflettori sono puntati sull’Irlanda. E l’Italia... di Gianfranco Polillo ove arriverà il contagio? Difficile rispondere. Come nelle catastrofi ambientali – l’ultima è quella del Golfo del Messico – molto dipenderà dalle condizioni esterne. La speculazione è come un vento che colpisce nelle forme e nei modi più impensati. Spesso non del tutto razionalmente. Se fossimo però in uno dei tanti gnomi alla ricerca di facili guadagni, non seguiremo i ragionamenti di Vincenzo Visco: ex ministro del tesoro del Governo Amato e uomo di punta del Pd. In un recente articolo sul Sole 24ore ha iscritto d’ufficio – willful thinking? – l’Italia nella lista dei reprobi. Per far questo ha dovuto trasformare l’ormai famoso acronimo pigs (le iniziali di Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) in piigs. Errore non solo di sintassi. La fortuna giornalistica di quel termine è nella traduzione dall’inglese. Nel primo caso significa “porci”, nel secondo assolutamente nulla. Ma nemmeno Vincenzo Visco se l’è sentita di collocare l’Italia al posto dell’Irlanda, al fine di rispettare una regola lessicale.
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Dalla grammatica all’economia: la situazione italiana è ben diversa da quella degli altri paesi europei. Confondere le acque non serve a nessuno. Tanto meno a chi dovrebbe avere a cuore le sorti del Paese. Nessuno dei parametri che la speculazione internazionale pone al centro delle sue strategie è tale da giustificare un investimento di risorse che, se sbagliato, si ritorcerebbe contro gli incauti apprendisti stregoni. Cominciamo dal deficit. Le previsioni per il 2010 indicano un livello pari al 5,3 per cento. La Germania è al 5,6; la Francia oltre il 7 e così via. La media europea poi è del 7,5 per cento. Questi sono i dati dell’Economist. Se si cercano, invece, fonti più autorevoli, si può guardare all’Fmi. Nel report elaborato in occasione dell’ultimo summit del G20, la proiezione futura degli equilibri finanziari italiani è solida quanto quella della Germania. Mentre preoccupano Stati Uniti, il complesso dei pigs (nella versione originale) Gran Bretagna e via dicendo. Il debito italiano rimane, indubbiamente,
alto; ma cresce poco rispetto alle altre economie. Il dato non deve sorprendere. Alla sua origine sono soprattutto gli errori del passato, che non siamo riusciti a correggere; ma nemmeno ad aggravare. E la speculazione – quella che fa bene all’economia – guarda al futuro, non al passato. Conta, come si dice in questi casi, il flusso più dello stock accumulato. E sui futuri rinnovi del debito pubblico italiano non pesa quel macigno – le risorse elargite alle banche per evitare il loro fallimento – che invece irrigidisce il budget complessivo dell’Occidente: Stati Uniti e Gran Bretagna, in testa. C’è poi il risparmio delle famiglie. La loro ricchezza finanziaria è quella più elevata, in rapporto al reddito disponibile.Tante formiche, che hanno resistito alle lusinghe
Da noi si dovrebbero realizzare subito riforme da tempo vagheggiate, ma mai realizzate. E questo è il compito della politica degli eccessi del consumismo e costruito una dote, che i mercati valutano nel suo giusto valore. Pubblici vizi (il debito pubblico) e virtù private (la sobrietà della gente): si potrebbe dire. Ma nell’aritmetica del debito, contano entrambe, abbassando l’asticella complessiva.
La produzione industriale tira poco: questo è vero. Ma il deficit complessivo della bilancia dei pagamenti non è così elevato. Il finanziamento estero è quindi contenuto.
L’esatto contrario di quanto avviene per la Grecia, la Spagna e il Portogallo. L’Irlanda resta in mezzo al guado. La sua dipendenza dall’estero è molto più elevata. Non ha un mercato interno che fa da contrappeso. È come andare in mare. Una barca a vela di 40 piedi è molto più stabile di uno yacht d’altura della stessa stazza. Il bulbo di piombo, sotto la linea di galleggiamento, le da stabilità e le permette di reggere alla forza dei marosi. Lo stesso vale per l’economia, sempre che non si facciano errori. Vale a dire abbassare la guardia e abbando-
nare la rotta del rigore finanziario. Basta questo per essere tranquilli? C’è un dato che non va trascurato. La velocità con cui i mercati hanno reagito alle notizie del declassamento di Grecia, Portogallo e Spagna. L’esperienza storica dimostra che le crisi, quando scoppiano, hanno un andamento devastante. Non sono brezze, ma veri e propri tifoni che sconvolgono l’ambiente. Si pensi al fallimento della Lehman Brothers e all’effetto domino ch’essa ha comportato. La sua lunga coda ha colpito paesi e continenti lontani. Messo in ginocchio strutture finanziarie che sembravano «troppo grandi per fal-
lire». Nel momento in cui la turbolenza iniziale prende forza vecchie fragilità, una volta trascurate, si trasformano in cedimenti strutturali. La spiegazione del processo ha una sua logica. La speculazione si muove secondo la tecnica del “mordi e fuggi”. Colpisce i più esposti. Realizza i guadagni che si attendeva e si rivolge altrove.
Nell’ormai lontano 1992, l’Italia non era sull’orlo del default. Aveva guai anche seri, ma non tali da giustificare una svalutazione della lira del 30 per cento. Tant’è che, passata la nottata, la nostra moneta recuperò abbondantemente sui mercati internazionali. Ma allora bastò che la Germania, per sostenere le spese della sua unificazione, alzasse i tassi di interesse, per determinare un vero e proprio terre-
moto valutario. Se questa è la dinamica della crisi attuale, chi non deve dormire sogni tranquilli è soprattutto l’Irlanda. Non che la sua situazione sia catastrofica, ma il grande sviluppo di quel Paese degli anni passati – un vero è proprio modello che molti volevano imitare – era figlio soprattutto di una particolare congiuntura internazionale. Grande movimento dei capitali in cerca di nuovi sbocchi. Un piccolo paese alle porte dell’Europa. Un’economia essenzialmente dominata dalla finanza e dalle esportazioni. A loro volta trainate da un forte sviluppo del commercio internazionale. Condizioni che, al-
meno nel breve periodo, sono venute meno. I capitali che circolano sono quelli che si concentrano sul semplice trading finanziario. Languono gli investimenti nei settori produttivi. Il commercio internazionale ha fortemente rallentato. Questo non significa, ovviamente, scegliere una vittima designata. Significa solo ragionare in termini probabilistici. Un calcolo che dovrebbe escludere l’Italia. Nel nostro Paese i problemi so-
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Una telefonata tra Angela Merkel e Barack Obama ha sbloccato il piano di aiuti per la Grecia. L’Italia contribuirà con 5,5 miliardi di euro che il ministro Tremonti ha cominciato a cercare. Nella pagina a fianco, ancora scontri ad Atene
Nuove tasse su sigarette e benzina, blocco dei salari e flessibilità sul lavoro: sono le misure annunciate da Papandreou
Accordo Ue-Fmi, così la Grecia piange E da noi già si parla di una «manovrina» per trovare i 5,5 miliardi da prestare ad Atene di Alessandro D’Amato
ROMA. È bastata una telefonata, o quasi. Quella che nella notte si sono scambiati il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, nella quale i due leader si sono trovati d’accordo nel chiedere ad Atene «azioni decise» e l’intervento «in tempi tempestivi» del Fondo Monetario Internazionale e dell’Unione Euopea. Un nuovo segnale di uno sforzo comune, anche al di là dell’oceano, mentre, grazie al pressing esercitato sulla Germania, sembra avvicinarsi l’ora dell’attivazione del piano salva-Grecia che, con l’aggravarsi della situazione, pare destinato a raggiungere i 100-120 miliardi di euro in tre anni (sempre secondo l’Fmi).Gli azionisti di maggioranza dei due “salvatori” (la Germania per l’Ue, gli Stati Uniti per l’Fmi) hanno calmato i mercati, dopo che la giornata di mercoledì aveva contribuito ad accendere le polveri, con il downgrading da parte delle agenzie di rating del debito spagnolo, ultima brutta notizia per la stabilità dell’euro dopo i pesantissimi scricchiolii su Grecia e Portogallo.
Il premier greco Papandreou ha convocato per oggi i sindacati e i rappresentanti degli industriali per informarli sulle nuove «dolorose misure» che il governo è pronto ad introdurre per far fronte all’emergenza e ottenere l’erogazione del pacchetto di aiuti Ue-Fmi. Fonti del governo hanno indicato che l’accordo con gli inviati europei e dell’Fmi ad Atene per un piano triennale di risanamento deve essere finalizzato «nei prossimi giorni». Subito dopo Papandreou si è presentato in tv per avvertire il popolo che alla Grecia non è no d’altro tipo. È il morto – come diceva Karl Marx – che rischia di afferrare il vivo. Il passato che pesa sul presente e rende incerto il futuro. Qui si dovrebbe intervenire per accelerare i tempi, giocando d’anticipo, e realizzare riforme da tempo vagheg-
possibile fissare «linee rosse» oltre le quali non può andare l’intervento di Fmi e Ue.Ma a quel punto le Borse avevano già aperto in positivo: anche la notizia dello spread decennale dei titoli spagnoli rispetto a quelli tedeschi balzato a 127 basis point non agitava più di tanto i listini, mentre quello greco cominciava a schizzare al rialzo raggiungendo il 7% a metà giornata. L’Unione europea e il Fondo monetario internazionale avrebbero chiesto al governo greco di ridurre il deficit del Paese di 10 punti percentuali in due anni e di tagliare i salari, secondo un sindacalista uscito da una riunione delle parti sociali con il primo ministro Papandreou. Mentre da Bruxelles si faceva sapere che ogni misura era vincolata al rispetto di parametri certi da parte del paese ellenico.
nelle attuali circostanze». Il numero uno della Bce ha anche esortato i Governi a mostrare un forte senso di «autodisciplina» per mantenere la fiducia dei cittadini, mentre «adeguamenti fiscali da soli non saranno sufficienti a garantire la sostenibilità. Sono necessarie riforme strutturali. Dobbiamo migliorare con determinazione l’efficacia del controllo di politiche fiscali ed economiche. Faccio conto in particolare sulla Germania».
In Italia, intanto, si cominciano a disegnare diversi scenari. Da più parti si sottolinea che il rischio greco non esiste, nemmeno per i risparmiatori italiani. DI contro, ci si chiede come il governo reperità i 5,5 miliardi di euro che dovrà prestare alla Grecia. Tra l’opposizione, si cominciava a parlare di un rischio-manovrina per permettere a Tremonti di reperire la somma. Ma per ora sono soltanto ipotesi. E l’acqua gettata sul fuoco agisce anche sui Cds: il costo assicurativo contro il rischio default a cinque anni ellenico nel primo pomeriggio veniva indicato a 622 punti base (754,5 pb nella vigilia). Stesso trend anche per i cds di Spagna (a 175 pb dai 187 pb della vigilia) e del Portogallo (a 289 pb da 333 pb). Ma è chiaro che la Grecia dovrà compiere altri sforzi. Il Fondo monetario internazionale, impegnato ad Atene nei colloqui con la Commissione europea per fissare le condizioni per il prestito, chiede un congelamento dei salari dei dipendenti pubblici per tre
Il sì congiunto di Obama e Merkel ha sbloccato la situazione. E le Borse approvano il piano di salvataggio
Anche Trichet ha garantito l’impegno del Vecchio Continente: «L’Eurozona deve affrettarsi a varare un pacchetto di aiuti alla Grecia che impedisca alla crisi di contagiare altri paesi dell’area». Al summit economico di Monaco, Trichet ha anche indicato che la Grecia necessita di un piano pluriennale. «Non voglio commentare i negoziati in corso ad Atene, che devono sfociare in un programma pluriennale, coraggioso, ampio e convincente. Adesso ciò di cui abbiamo bisogno sopratutto è un forte senso di orientamento». E ha poi sottolineato: «Il mio messaggio a Berlino di ieri è che è caldamente consigliata una procedura parlamentare rapida
giate, ma mai realizzate. Questo è, oggi, il compito della politica. Deve inforcare gli occhiali da presbite. Fronteggiare l’immediato, ma senza abbandonare il terreno dei pensieri lunghi. Della riflessione sugli assetti strategici, sulle riforme economiche e
istituzionali. Se non faremo così, rimarremo sempre in mezzo al mare. Dobbiamo invece aumentare la velocità per raggiungere un porto più sicuro. Spetta naturalmente all’equipaggio, vale a dire alla maggioranza, governare la barca; ma i passeg-
anni. Il portavoce del governo, Giorgio Petalotis ha aggiunto che le nuove misure potranno includere nuovi aumenti dell’Iva su alcolici, sigarette e carburanti, nuovi tagli alle indennità dei dipendenti pubblici, congelamento dei salari nel settore privato, flessibilità nell’occupazione, liberalizzazione dei limiti sui licenziamenti nel settore privato. Non ha escluso tagli alla tredicesima e quattordicesima mensilità, affermando tuttavia che la questione è ancora in discussione. Alcune misure saranno provvisorie e altre permanenti. Secondo fonti informate potrebbero essere annunciate già domenica da Papandreou.
La domanda però è: basteranno? «Salvare la Grecia è uno spreco di risorse pubbliche» secondo Nouriel Roubini, l’economista della New York University divenuto famoso nel mondo per aver correttamente anticipato lo scoppio della bolla immobiliare e il collasso di Wall Street. Per l’economista quello della Grecia non è un problema di liquidità ma di insolvenza, e la cura proposta dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale non potrà che rimandare nella migliore delle ipotesi il problema, con il rischio aggiuntivo di un contagio agli altri paesi deboli della Ue, prima di tutto Spagna e Portogallo, ma anche Italia e Irlanda. La probabilità di una rottura dell’unione monetaria sta crescendo rapidamente, e sta crescendo anche la probabilità che la Grecia si trasformi in un’altra Argentina. Il mondo sta seduto sul ciglio di un vulcano. Quella ellenica potrebbe essere soltanto la prima, piccola eruzione.
geri – ossia l’opposizione – non può tirarsi fuori. In un mare in tempesta, tutti danno una mano. Se non altro si parlano per evitare il possibile naufragio. È quanto continuiamo, sommessamente, a sperare. Anche se i segnali non vanno in questa di-
rezione. E allora? Dalla vicenda greca è possibile trarre un qualche insegnamento. L’esplodere della crisi è stata anche la conseguenza di una dura contrapposizione sociale, oltre che politica. Facciamo il possibile per fermare gli incendiari.
l’approfondimento
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L’Ue non è mai stata così incerta e litigiosa: ora la «madame di Ferro» dell’economia francese tende la mano alla Germania
La svolta di Parigi
La soluzione della crisi greca ha diviso i due colossi europei: prudente la Merkel, interventista Sarkozy. Ora in questa intervista il ministro delle Finanze, Christine Lagarde ammette: «Aveva ragione Berlino a prendere tempo» di Frederick Kempe e Caio Koch-Weser hristine Lagarde, classe 1956, è ministro delle Finanze francese dal giugno 2007 e prima di quest’ incarico era stata ministro dell’Agricoltura. Fortemente voluta dal presidente Sarkozy è considerata una madame di ferro, versione alla francese dell’unica Lady di ferro conosciuta: Margaret Thatcher. Ha eccellenti rapporti con gli Stati Uniti (dove ha lungamente studiato e lavorato) e questa intervista sulla crisi greca e la risposta europea è un breve estratto di una lunga chiaccherata con Frederick Kempe (presidente dell’Atlantic Council) e Caio Koch-Weser (vice presidente della Deutsche Bank) nell’ambito di un seminario organizzato dall’Atlantic Council. Per l’Europa, la Grecia è senza dubbio il tema dell’anno. Per il presidente della Bundesbank l’entità del pacchetto d’emergenza è, cito testualmente, «una goccia nel mare». Se le sue affermazioni si rivelassero vere, cosa implicherebbe tutto ciò? Cosa accadrà quando la liquidità prevista dal pacchetto d’emergenza si sarà esaurita? Che percorso avete intrapreso e qual è la lezione che dobbiamo imparare? È una domanda piuttosto ampia e comincio - ovviamente - con la Grecia. Le
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misure che abbiamo deciso hanno inevitabilmente richiesto del tempo per essere deifnite poiché abbiamo dovuto rapportarci con il Consiglio Europeo, l’Ecofin e l’Eurogruppo. Vale la pena specificare che un tale iter non deve sorprendere: queste sono le procedure europee. Come dire: il governo Usa segue altri meccanismi e può prendere decisioni per conto della California, mentre quello della Ue è un sistema un po’ più complesso. Sono stati necessari due Consigli Europei, a cui hanno fatto seguito ulteriori sessioni tecniche e di perfezionamento, per elaborare nel modo più appropriato un pacchetto per la Grecia che non risultasse una semplice goccia nel mare; e a dirla tutta, non definirei un impegno dei membri dell’Eurogruppo dell’ammontare di 30 miliardi di euro “una goccia nel mare”. In secondo luogo, va precisato che quella da noi stanziata è una quota di maggioranza di un pacchetto più ampio poiché il Fondo Monetario Internazionale avrà anch’esso voce in capitolo nel programma. E se analizziamo ciò alla luce delle necessità di liquidità e di ripianamento del debito e del deficit greco, si può concludere che lo sforzo fatto rappresenti ben più di quanto ci si potesse attendere per il primo anno del programma. Ciò che abbia-
mo sviluppato con la Grecia è un programma triennale: abbiamo messo in moto un processo mediante il quale la Grecia, se dovesse avere bisogno di attivare il programma, avrà accesso ai finanziamenti congiunti Euro/Fmi al fine di finanziare il debito e il deficit. Non si è giunti a questo punto senza aver prima ponderato tali decisioni; e i termini negoziali concordati con la Grecia fanno parte di un programma di stabilizzazione abbozzato lo scorso novembre e significativamente aggiornato in seguito ai negoziati con la Commissione. E che cosa avete ottenuto in cambio dalla Grecia? I negoziati prevedono misure molto, molto dure e restrittive nei riguardi della Grecia. Per esempio: tagli alla spesa pubblica per circa il 20%, riduzione dei piani pensionistici, un’efficace riscossione delle imposte, un aumento della pressione fiscale per i redditi più alti e così via. Vi sono poi altre due componenti: la riduzione della spesa da un lato, l’aumento della riscossione dall’altro. A un certo punto sono stati sollevati dubbi sul fatto che la Grecia potesse prendere tali misure seriamente. Ma il governo greco ha deciso di confrontarsi con la propria opinione pubblica, di portare leggi in parlamento e farle votare; e
il paese sta per dare il via ad un consistente programma negoziato con la Commissione Europea ed approvato da tutti noi, il quale consentirà senza dubbio di ridare solidità e un miglior bilanciamento alle finanze pubbliche di Atene. Questo è lo stato dell’arte attuale. Si è parlato di divisioni all’interno dei Paesi europei. Ritengo che la risolutezza evidenziata nell’impegno collettivo da parte dell’Eurogruppo di sostenere la Grecia con il contributo del Fondo Monetario Internazionale costituisca una chiara indicazione del fatto che tutti noi portiamo una responsabilità nei confronti degli altri e non abbandoneremo nessun paese membro. E abbiamo fiducia che la Grecia possa farcela. Certo, è un processo che prevede una serie di compromessi: da un lato il paese deve dimostrare la propria determinazione a risanare le finanze pubbliche e tornare a livelli accettabili in termini di dati e statistiche. Dall’altro, i membri dell’Eurogruppo forniranno il proprio impegno e il loro sostegno ed indicheranno chiaramente l’ammontare, i tassi d’interesse, la maturità e il processo di revisione assieme all’Fmi. Le opinioni pubbliche e gli elettori europei avvallerebbero nuovamen-
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L’apertura dell’Expo diventerà una vetrina per offrire prestiti vantaggiosi ai Paesi in crisi
E la Cina aspetta sul fiume (per raccogliere i saldi europei) Il governo di Pechino invoca «nuovi e migliori rapporti con l’Ue» Mentre si aggira come un falco sulle Borse del Vecchio Continente di Vincenzo Faccioli Pintozzi rattando con la Cina, non bisognerebbe mai dimenticare quello che disse Deng Xiaoping a proposito del suo predecessore, il “Grande Timoniere”Mao Zedong. Conclusa la Rivoluzione culturale, e interpretando l’umore del popolo, Deng affermò infatti in uno storico intervento che Mao «aveva preso il 70 per cento di decisioni corrette e il 30 per cento di decisioni sbagliate». La Cina e il mondo intero rimasero con il fiato sospeso per quella che, correttamente, apparve all’epoca come una critica al sistema di potere dominante; ma pochi riescono a ricordare che Deng – e tutti i suoi successori – hanno avuto e hanno comunque a disposizione un buon 70 per cento di rotte già tracciate. In questa ottica andrebbe letta la magnanima apertura concessa ieri da Wen Jiabao all’Unione Europea, suggellata da un editoriale al miele del Quotidiano del Popolo. Il primo ministro - ricevendo le delegazioni di Francia, Germania e Commissione – ha sostanzialmente affermato che Pechino vuole “relazioni più affettuose” con i Ventisette membri dell’Unione. Senza accennare in alcun modo alla crisi che ha colpito con forza Grecia e Spagna e sta per calare sul Portogallo e, forse, l’Italia. Cosa c’entra Mao Zedong in tutto questo? Moltissimo. Perché fu proprio il primo presidente della Cina popolare a portare la sua nazione in seno alle Nazioni Unite, che fino ad allora riconoscevano nella Taiwan di Chiang Kai-shek il governo legittimo del Paese.
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Lo fece comprando a peso d’oro il voto favorevole dei Paesi africani e dei non allineati, sostenuto da uno Stalin “amico-nemico” cui continuava a fornire derrate alimentari e materie prime sostanzialmente gratis. In pratica, il “Grande Balzo in avanti”servì a questo: distruggere la popolazione interna costringendola a privazioni senza limiti pur di avere il denaro per l’agognato seggio. Oggi la situazione, seppur in uno scenario geopolitico molto diverso, si ripete: senza alcun bisogno di fare grossi sacrifici, la Cina volteggia come un falco sui cieli europei in attesa di entrare – con generosi prestiti a tassi convenienti – nella gestione stessa degli Stati sovrani.Vale la pena, per capire meglio, analizzare le flessioni nel mercato finanziario d’Asia. Prendiamo ad esempio il 28 aprile, quando le Borse di tutto il continente sono calate pericolosamente. Prendendo le mosse da Wall Street, il mercato in Giappone è sceso del 3 per cento a mezzogiorno; in Australia e Corea del Sud si registrava già all’apertura un meno 2 per cento. Più precisamente, a metà giornata l’indice della borsa di Tokyo ha perso il 2,47
per cento; a Hong Kong l’1,53; Sydney l’1,39; Seoul l’1,25; Singapore l’1,23; Taipei l’1,19. A Shanghai l’indice è sceso solo dello 0,15 per cento. Le perdite sono state molto più modeste di quelle che hanno investito le borse europee il giorno prima, quando Parigi ha perso il 3,82; Londra il 2,61; Francoforte il 2,73; Milano il 3,28; Bruxelles il 3,34. A New York l’indice Dow Jones ha perso l’1,90.
A fronte dunque dell’evidente discrepanza fra le perdite subite in Europa con quelle dell’Asia, si capisce come mai Pechino possa essere più invogliata a prestare il proprio denaro ad Atene ed eventualmente a Madrid: rischi minori e possibilità massimizzate di entrare nelle politiche estere ed economiche di Paesi “teste di pon-
rose violazioni ai diritti umani che avvengono nel Paese. Il Chinese Human Rights Defender riporta l’arresto di Feng Zhenghu, che da anni lotta contro le falle nel sistema giudiziario proprio a Shanghai. Feng stava preparando uno “Shanghai Expo” contro i processi ingiusti; la notte del 19 aprile, la polizia è entrata nella sua casa, ha sequestrato il suo computer e lo ha portato via. Gli agenti lo hanno minacciato di “farlo sparire come Gao Zhisheng” se avesse parlato durante l’incontro internazionale. Il riferimento è all’avvocato cristiano, attivista per i diritti umani, sparito nel nulla per un anno prima di riemergere con una condanna penale. Almeno altri sei noti attivisti sono stati inoltre condannati alla “rieducazione tramite il lavoro” in vista dell’Expo. Altri quattro sono
È stato Mao Zedong il primo a usare il denaro come pregiata merce di scambio in diplomazia: il seggio all’Onu fu comprato te”per il Vecchio Continente. La scelta dell’Expo come passerella per lanciare questa partnership dovrebbe però lasciare l’amaro in bocca ai governi occidentali. Come da tradizione alla vigilia dei grandi eventi che si svolgono sul proprio suolo nazionale, il governo cinese ha lanciato una campagna di arresti ed espulsioni forzate ai danni dei dissidenti e degli attivisti per i diritti umani di Shanghai, che il primo maggio celebra l’apertura al pubblico dell’Expo. Pechino ha inoltre avvertito i dissidenti del resto del Paese di “non recarsi” nella città, che nei prossimi sei mesi ospiterà 70 milioni di visitatori provenienti da tutto il pianeta. Per preparare l’evento, le autorità hanno ordinato la requisizione forzate di palazzi e terreni; cacciato cittadini scomodi che hanno perso il lavoro; imposto una nuova e più feroce restrizione sui mezzi di comunicazione. Il timore è che, alla presenza dei leader mondiali presenti per l’inaugurazione dell’Expo, la comunità dissidente possa denunciare le nume-
stati arrestati, sempre per lo stesso motivo. Tong Guojing, ad esempio, è stato condannato a 18 mesi di lavori forzati dopo che la demolizione forzata della sua casa lo ha trasformato in un attivista. La pubblica sicurezza ha diramato poi agli attivisti delle province circostanti “l’invito” a non presentarsi a Shanghai: la pena è l’arresto.
Ed è in questo contesto che si tratteranno, con ogni probabilità, i piccoli ma preziosi piani di sostegno di Pechino ad Atene. Un modo in più per garantirsi altre voci silenti sulla questione dei diritti umani, connivenza fondamentale per la sopravvivenza del regime mono-partitico cinese. Altra lezione tramandata dal “Grande Timoniere”, che disse al suo delfino Lin Biao «se vuoi che un nemico smetta di essere una minaccia hai due strade: o lo distruggi sul campo in modo che non possa più rialzarsi, oppure te lo compri in modo che non possa più alzare la faccia per la vergogna». Una lezione che potremmo dover imparare.
te una simile scelta qualora un altro paese membro dovesse trovarsi ad affrontare un crac di simile entità? Questa vicenda ci insegna che dobbiamo apportare costantemente dei correttivi. E che a volte dobbiamo essere pronti a “trasgredire” – mi si passi il termine - il Trattato di Lisbona, visto che quest’ultimo non prevedeva i meccanismi che abbiamo elaborato, come ad esempio la collaborazione con il Fmi. La Carta di Lisbona, inoltre, prevede una clausola anti-salvataggio che abbiamo dovuto “aggirare” per poter sostenere la Grecia. Ecco, una simile capacità di adattamento simboleggia l’Europa. Ma per tornare alla sua domanda principale e alla lezione che abbiamo appreso da questa crisi finanziaria vorrei dire qualcosa in più. In primo luogo, nessuno auspica che circostanze simili si ripetano nuovamente. In futuro, però, dovremo affrontare collettivamente i rischi e cercare di minimizzarli, o quantomeno renderli meno probabili rispetto a prima. E a tal fine, il G-20 si è rivelato un ottimo strumento, un’ottima istituzione, il risultato di uno strappo alla regole, visto che esso non è mai stato un gruppo di capi di stato e di governo bensì un gruppo di ministri delle Finanze, elevato quasi al rango di vertice fra leader al fine di offrire una soluzione più ampia possibile. In particolare per ciò che concerne le regole finanziarie e la supervisione sono stati scelti, rispettivamente, il Fondo Monetario Internazionale ed il Financial Stability Board. Una scelta che permette di offrire rimedi sia sui sistemi d’allerta che nell’elaborazione di pacchetti di sostegno. In secondo luogo, il G-20 appare come un gruppo in grado di offrire nuove regole, nuovi principi, nuove linee guida in relazione a fattori molteplici quali le richieste di capitali, le proporzioni di liquidità, le agenzie di rating, gli indennizzi per gli operatori di borsa e i dirigenti, le regole sugli hedge funds, la trasparenza e la chiarezza necessarie per regolare il settore dei derivati, la definizione di tutti questi strumenti in modo più visibile e sicuro e così via. Quali misure la Francia pensa di adottare per bilanciare nuovamente l’economia globale? E come pensa di rilanciare le economie dell’eurozona, il cui rendimento è stato criticato, soprattutto dalla Germania? Come farà la Ue ad affrontare il problema? Riguardo al primo problema, ho sollevato la questione quando ho fatto riferimento al bisogno per l’Europa, e più nello specifico dei paesi dell’Eurozona, di determinare una maggiore convergenza tra i nostri modelli economici, e certamente la necessità di non guardare semplicemente alle limitazioni e ai criteri imposti dal budget, intendendo deficit e rapporto debito-Pil, ma anche la competitività. Se guardiamo al costo unitario del lavoro nell’eurozona, si potrà notare come la Germania abbia fatto notevoli passi avanti avendo migliorato significativamente la propria competitività. Mentre altri membri, quali la Grecia e l’Irlanda, tanto per fare un esempio, si ritrovano all’estremo opposto e la forbice si sta allargando. Chiaramente, all’interno della stessa zona monetaria, dobbiamo assottigliare tale divario e riportare le economie su livelli più omogenei. È un esercizio che dobbiamo condurre e che richiederà uno sforzo enorme. Il presidente Van Rompuy è stato incaricato di lavorare alla definizione di una task force che si concentri su tali problematiche, al fine di garantire una solida crescita nei paesi dell’Eurozona.
diario
pagina 6 • 30 aprile 2010
Bilanci. Secondo l’Abi nell’anno della crisi regge il sistema delle famiglie, che però sono costrette ad aumentare i debiti
Il miraggio del risparmio
Solo 3 giovani su 10 riescono a avere un mutuo per la prima casa ROMA. Neppure la crisi ha eroso la propensione al risparmio delle famiglie italiane, vero pilastro per la tutela delle fasce più deboli. Ma se nel 2009 ci sono state quasi sei famiglie su dieci, ben 15 milioni, in possesso delle risorse necessarie per indebitarsi e a sostenere i costi connessi all’acquisto di una casa, soltanto il 30 per cento dei nuclei con a capo un under35 ha potuto accendere un mutuo. In totale l’ha fatto soltanto mezzo milione di persone. L’ennesima riprova che la congiuntura ha colpito soprattutto chi, con contratto a tempo determinato oppure novello laureato o diplomato, non riesce a rimanere o a entrare nel mercato del lavoro. E non a caso il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi ha sottolineato che “se pure le famiglie hanno reagito bene, abbiamo un’emergenza giovani di cui dobbiamo occuparci”. Questo è il primo dato che salta agli occhi nel primo Report trimestrale sull’indebitamento, la vulnerabilità e le patologie finanziarie delle famiglie italiane, che l’Abi ha presentato ieri mattina e realizzato in collaborazione con il ministero del Lavoro e l’Istat. Inutile dire che si allarga lo iato tra chi può vantare tutele (posto fisso, accesso agli ammortizzatori sociali, aumenti contrattuali) e chi no. Eppure la crisi ha finito per livellare trasversalmente le diverse posizioni, riducendo la capacità di spesa, come dimostra il calo della propensione, il livello di solvibilità e l’accesso al credito. «La sofferenza - ha spiegato il presidente dell’Abi, Corrado Faissola - è dovuta al fatto che il reddito è diminuito, ma le risposte di carattere sociale che le istituzioni hanno approntato hanno consentito di evitare che la crisi economica avesse riflessi drammatici». Partendo dai principali indicatori e dalla qualità dei finanziamenti alle famiglie, si scopre che il tasso di decadimento sugli importi è salito a quota 1,36 per cento, in crescita dello 0,41 rispetto a un anno fa. L’area ove si registrano maggiori sofferenze è il Mezzogiorno, dove il tasso di decadimento ha toccato quota 1,58 per cento. Nella media il Centro-Nord (1,35 per cento), dove però si segnala rispetto
di Francesco Pacifico
Corrado Faissola denuncia: «Le sofferenze sono dovute al minor reddito». Bankitalia: nel 60% dei contenziosi con le banche, vincono i clienti allo scorso quinquennio un peggioramento della qualità delle somme erogate (+0,30 per cento). Invece il livello di decadimento sul numero di finanziamenti è arrivato nell’1,19 per cento, in crescita di 0,33 punti rispetto al 2008. Il presidente dell’Abi ha sottolineato che «la capacità di risparmio delle famiglie italiane è tra le più alte al mondo, quasi il doppio rispetto a quella degli Stati Uniti. Investono e rappresentano il pilastro sul quale è stata costruita la reazione alla crisi che ha consentito alle banche di superarla». Eppure il loro indebitamento in rapporto al reddito disponibile cresce, ma resta inferiore alla media dell’area dell’euro.
Guardando la principale destinazione dei mutui, la casa, si scopre che le famiglie in grado di acquistare un’abitazione a prezzo medio di mercato, di accedere al sistema del credito e di ottenere una rata non superiore al 30 del reddito, sono circa 15 milioni.Tanto che il mini-
stro Sacconi ha notato che «nel rapporto tra debito e ricchezza il nostro Paese appare significativamente stabile: noi siamo al 68 per cento contro il 220 della Grecia». Stando ai dati del rapporto dell’Abi nell’ultimo trimestre 2009 i mutui per l’acquisto di abitazioni sono cresciuti dell’8,2 per cento rispetto al 2008, con un valore di 247 miliardi di euro. Il maggiore incremento si è registrato nel Mezzogiorno che ha registrato una crescita su base annua pari all’11,3, seguito dal Centro con un +8,2 e dal Nord con un +7,3. Nella categoria degli indici di indebitamento, invece, nell’ultimo trimestre 2009 l’incidenza complessiva del debito finanziario contratto dalle famiglie consumatrici è stata
del 45 per cento, in crescita di quattro punti rispetto al 2008. La riduzione del reddito ha spinto poi più soggetti a rivolgersi al sistema del credito al consumo. Il denaro erogato da banche e finanziarie è stato in totale nel 2009 pari a quasi 113 miliardi di euro, in aumento del 6,7 per cento rispetto a un anno prima. Su questo versante maggiore dinamismo è stato registrato al Nord con +8,2 per cento. Seguono il Centro con un +6,6 per cento e il Mezzogiorno con un +5,2. La propensione al risparmio ha retto sotto l’ondata della crisi. Anche se la congiuntura, soprattutto in relazione ai contraccolpi riservati alle fasce più giovani della popolazione, fa dire all’Abi che si deve «monitorare con attenzione tutti i possibili fronti di vulnerabilità. Di fronte a questo, le sole politiche di credito non possono fornire una risposta globale, ma sono necessarie soluzioni più specifiche». E collegandosi al dibattito in piedi da quasi un anno sul potere d’acquisto, Palazzo Altieri fa sapere che servono «risposte tese al rafforzamento delle capacità competitive del sistema Paese e quindi delle capacità di crescita, e non meri incrementi salariali che in assenza di aumenti di produttività si tradurrebbero in recuperi effimeri».
Ma perfetta cartina di tornasole all’analisi dell’Abi è un’indagine presentata ieri da Bankitalia sull’avvio dell`attività dell`arbitro bancario finanziario. Nella quale ha sempre spesso ragione la clientela, vessata dagli istituti. Nel periodo dal 15 ottobre 2009 al 31 marzo 2010 si sono affidate al sistema stragiudiziale 1.052 controversie, con una crescita mensile pari al 26,5 per cento. In sei casi su dieci la sentenza è stata favorevole al cliente che ha proposto il ricorso. La maggior parte dei giudizi (87 per cento) ha riguardato il sistema bancario. Seguono le finanziarie (7 per cento) e le Poste (4). Alla base dei contenziosi problematiche relative a conti correnti, mutui e credito al consumo, carte di pagamento e trasparenza. La distribuzione territoriale per luogo di residenza del ricorrente evidenzia invece che il 44 per cento circa delle pratiche proviene dall`Italia settentrionale, il 34 dalle regioni centrali e il 22 dal Sud.
diario
30 aprile 2010 • pagina 7
Ipm di Perugia: fondi di Anemone per ilministro. E lui: «Attacco infondato»
Il nuovo testo presenta modifiche significative alle parti citate dal Colle
«Soldi in nero con 80 assegni per l’immobile di Scajola»
Ddl Lavoro, sì della Camera. Il provvedimento va al Senato
ROMA. Un attacco sconvolgen-
ROMA. Primo giro di boa per il ddl lavoro che taglia il traguardo di Montecitorio passando ora al Senato. Rinviato da Napolitano il 31 marzo, è stato approvato dalla Camera con 259 sì, 214 no, 35 astenuti. Il provvedimento ha già fatto una lunga “navetta” cominciando nel settembre 2008 il suo iter, terminato (dopo 4 letture) il 3 marzo in via definitiva. Poi è giunto il messaggio di rinvio del capo dello Stato e il “viaggio” parlamentare è ricominciato. Il nuovo testo presenta modifiche significative solo alle parti citate dal Colle: la norma sui danni da amianto per i lavoratori a bordo del naviglio di Stato che ora dà loro certezza di risarcimento; la norma sull’arbitrato che intro-
te, infondato e senza spiegazione. Ha definito così, ieri, il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola l’indiscrezione pubblicata sulla stampa secondo la quale, per i pubblici ministeri di Perugia, il costruttore Diego Anemone avrebbe acquistato, tra il 2004 e il 2006, attraverso alcuni fondi neri, un appartamento in seguito intestato allo stesso ministro Scajola. «Non mi lascio intimidire. Nella vita possono capitare cose incomprensibili. E questa è addirittura sconvolgente. Colpisce con una violenza senza precedenti il mio privato e la mia famiglia».
«Registro un attacco - ha quindi proseguito in una nota Scajola - infondato e senza spiegazione, per una vicenda nella quale non sono indagato, a danno di chi lavora tutti i giorni per difendere, nel proprio ruolo, le ragioni e gli interessi del nostro Paese». Il ministro per lo Sviluppo economico ha comunque sottolineato di non essere «abituato alla dietrologia», e quindi «non voglio credere che dietro a tutto questo vi siano oscuri manovratori o disegni preordinati». Dunque, «per rispetto alla Magistratura che sta lavorando, non posso dire nulla sul merito di quanto ap-
Siniscalco abbandona «Sanpaolo non mi vuole» Polemico l’ex ministro candidato alla gestione di Francesco Lo Dico
TORINO. Domenico Siniscalco si ritira. L’ex ministro tecnico del secondo e terzo Governo Berlusconi ha lasciato cadere ieri la propria disponibilità per la presidenza del Consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo. A provocare il passo indietro dell’economista torinese, al quale il presidente dell’ente torinese, Angelo Benessia, aveva offerto l’incarico, ci sarebbe la linea assunta da Compagnia di Sanpaolo, primo azionista di Ca’ de Sass, che non è riuscita a esprimere una candidatura unica per il ruolo che attualmente ricopre Enrico Salza. «Ho ritirato la mia disponibilità per il consiglio di gestione in polemica con la Compagnia di Sanpaolo e il suo presidente che in 15 giorni non sono nemmeno riusciti a formulare una candidatura unica per la presidenza del consiglio di gestione», ha spiegato Siniscalco, che in una nota ringrazia «il sindaco di Torino e tutti gli azionisti che hanno manifestato il loro apprezzamento, sostenendo la sua candidatura» con riferimento in particolare a Sergio Chiamparino, che nei giorni scorsi ne aveva appoggiato la candidatura.
Proprio dai verbali, è emerso infatti la ferma volontà del presidente Benessia, di sostituire Salza, al quale aveva contestato di essere «stato contrario alla linea dei grandi azionisti, anche con dichiarazioni sui mezzi di informazione, al modo di fare banca attraverso la banca dei territori». E di non aver saputo mantenere la “torinesità”della banca. Ma sulla candidatura di Siniscalco, era stata bufera non più tardi di qualche giorno fa, quando l’intervista concessa dal sindaco Chiamparino a Repubblica aveva mandato su tutte le furie il presidente della Fondazione Cariplo, Giuseppe Guzzetti. Il primo cittadino della Mole, aveva fatto sapere che sul nome di Siniscalco c’era stato il placet del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, grazie alla mediazione del presidente della Fondazione Cariplo. E sulla vicenda di Siniscalco ha molto pesato inoltre l’uscita del leader della Lega, Umberto Bossi, che a metà aprile aveva annunciato da Roma la “presa delle banche del Nord”. Dichiarazioni che in parte hanno condizionato l’esito di una vicenda non semplice, che ha trasformato la partita delle nomine in una sorta di cartina di tornasole sull’autonomia del sistema finanziario.
Guzzetti, della Fondazione Cariplo, aveva espresso la sua perplessità alla nomina per puntare sul milanese Andrea Beltratti
parso sui giornali. Resta la grande amarezza per il fatto che si sia arrivati a coinvolgere addirittura i miei figli. La mia coscienza è pulita. Proseguo con la massima serenità il mio lavoro», ha concluso. Il ministro in ogni caso non ha fornito ulteriori chiarimenti sulla vicenda. Gli inquirenti di Perugia avrebbero comunque accertato che una rilevante somma in nero (sembrerebbe novecentomila euro, in ottanta assegni circolari) è stata versata per l’acquisto della casa di cui lui risulta proprietario. Rimane anche da chiarire come mai l’operazione sia stata firmata da personaggi in carcere o inquisiti per gli appalti del G8.
La decisione di Siniscalco, segue di poche ore la pubblicazione sulla stampa dei verbali del comitato nomine della Compagnia di San Paolo. La componente milanese della banca guidata dal presidente della Fondazione Cariplo, Giuseppe Guzzetti, aveva espresso infatti nei giorni scorsi notevoli perplessità, rinsaldata in questo dall’asse con il presidente del consiglio di sorveglianza, Giovanni Bazoli. Un’alleanza che aveva prodotto un altro candidato da opporre all’ex ministro dell’Economia, individuato nel professore della Bocconi, Andrea Beltratti. Ma la guerra dei nomi che ha spinto Siniscalco a chiamarsi fuori, non è che la punta dell’iceberg di un profondo conflitto tra le due anime di una banca nata il 2 gennaio 2007, dalla fusione tra Banca Intesa e Sanpaolo IMI. Una fusione che sembra avere consegnato il pallino alla componente milanese e aver lasciato nelle retrovie la “parte torinese”.
La decisione di Siniscalco è arrivata però a poche ore dall’assemblea degli azionisti di Intesa Sanpaolo, in programma per oggi a Torino. La rinuncia dell’ex ministro dell’Economia sembra riportare quindi in auge l’ipotesi della candidatura di Enrico Salza. «Siniscalco ha sottolineato di aver subito un torto e fa bene ad essere offeso. La mia personale convinzione – ha spiegato la vicepresidente di Compagnia Sanpaolo, Elsa Fornero – è che il candidato ideale fosse Andrea Beltratti. Mi dispiace che le persone vengano stritolate da queste comunicazioni». C’è tempo fino al 5 maggio, quando si riunirà il nuovo consiglio di sorveglianza presieduto da Bazoli, Ma certo è che la tela imbastita da Benessia sembra essersi impigliata di colpo in un evento inatteso.
duce nuovi paletti volti a garantire l’effettiva volontarietà delle parti di farvi ricorso; la norma sui licenziamenti individuali che ora prevede l’obbligo di comunicazione in forma scritta e la norma sui rapporti di collaborazione coordinata e continuativa che ora obbliga l’azienda a stipulare un contratto a tempo indeterminato al collaboratore che abbia vinto la causa.
Il ministro del Lavoro Sacconi ha espresso «soddisfazione» per il via libera al ddl «che regola l’arbitrato per “equità” in funzione di una più tempestiva soluzione delle controversie di lavoro». «Sono ben un milione e mezzo le cause pendenti, cui si aggiunge un flusso annuale di circa 400mila per una durata media che va dai 5 ai 7 anni se il procedimento arriva in Cassazione. Deflazionare il contenzioso in materia di lavoro significa da un lato garantire la libera possibilità di scegliere una giustizia più rapida e, dall’altro, incoraggiare nuovi rapporti di lavoro». Critico Epifani, che commenta: il ddl «non produrrà effetti perché resta incostituzionale e qualsiasi ricorso al Giudice del lavoro ne bloccherà gli effetti» ribadisce, osservando che «quando si vuole fare troppo i furbi, spesso ci si attorciglia su se stessi».
politica
pagina 8 • 30 aprile 2010
Nervi tesi. Il presidente della Camera concorda con il suo braccio destro la ritirata preventiva. Al dissidente il Cavaliere disse: «Io ti infilzo»
Le ripicche di Silvio Bocchino si arrende: «Cacciato dal premier». Che dice: «Fini è fuori dal Pdl, ormai guarda a Casini e Rutelli» di Errico Novi
ROMA. «Non sarebbe stata una bella riunione». E a dirlo è uno di quei finiani che passano per moderati. Meglio evitare «scontri» e vedere quello che succede. È per questo che Italo Bocchino gioca d’anticipo sul suo gruppo, su Fabrizio Cicchitto e tutti gli altri: di prima mattina fa girare un sms che annuncia le sue «dimissioni irrevocabili». Segue lettera, tanto per ossequiare la forma. E seguono retroscena ampiamente svelati dall’ormai ex vicario del Pdl alla Camera: «È un’epurazione di Berlusconi, non mi ha perdonato la mia partecipazione a Ballarò». Credibile? La tesi difensiva vacilla: è pur sempre il braccio destro di Fini a rinunciare in anticipo alla battaglia. È lui a dare per definitivo un passo indietro che, chiariscono altri della sua corrente, non era scritto nelle precedenti missive. Poi però si capisce che non c’erano alternative, per lui e per il presidente della Camera, che hanno deciso mercoledì sera, di comune accordo. Meglio evitare un mezzo linciaggio politico, che di certo si sarebbe consumato nella sala Colletti di Montecitorio.
Lo fa intendere, meglio di tutti, proprio Berlusconi. Passano pochi minuti dalla mossa preventiva di Bocchino e già diversi senatori riferiscono della cena a cui hanno partecipato la sera prima a palazzo Grazioli. «Silvio è
In una cena con i senatori il presidente del Consiglio definisce «irreversibile» la rottura con il cofondatore. «Ma di beghe d’ora in poi se ne occuperà il partito» sembrato disteso, ha raccontato barzellette, più allegro di molti di noi reduci dalle fatiche di Palazzo Madama. Ma su una cosa è stato chiaro: Bocchino è un problema, e Fini pure». Nel senso che il primo «si è comportato in modo strafottente con me, insolente», ha detto Berlusconi, «quando gli ho chiesto di stare attento a non esporsi con un intervento televisivo pochi giorni dopo la lite con Urso mi ha risposto “tu non mi dici cosa devo fare». A Fini va anche peggio: «Non appartiene più al Pdl e al nostro elettorato, ormai guarda a Casini e Rutelli». Insomma, una scomunica in piena regola. Che si sarebbe materializzata secondo una sorta di translitterazione nel documento già pronto al gruppo Pdl di Montrecitorio. «Avevano già raccolto oltre quaranta firme contro di me», riferisce ancora lo stesso Bocchino. Un modo per tradurre in atti concreti la fatwa del premier.
Si fa difficile per i finiani, e l’ex vicario (che resterà «vicecapogruppo semplice» insieme agli altri dieci del direttivo della Camera) prefigura scenari da purga staliniana: «Non vorrei che ora toccasse ai presidenti di commissione». Quelli vicini al presidente della Came-
Analisi di un gesto di “auto-epurazione”
Caro Italo, ma allora perché ti sei dimesso? di Giancristiano Desiderio talo Bocchino si è dimesso definitivamente e ha dichiarato di essere stato epurato. Delle due l’una: o si è dimesso o è stato epurato. Le due cose non possono stare assieme. A meno che non si consideri una terza ipotesi: l’autoepurazione. Ma è una congettura che non ci sentiamo di avanzare perché significherebbe dire che il Pdl è un partito totalitario in cui il dissidente si auto-convince di essere un traditore. Non è questo il nostro caso: Bocchino non si sente un traditore e sostiene apertamente che il capo del governo e il capo del suo partito «ha chiesto la mia testa». Resta da spiegare perché presentando le volontarie dimissioni Bocchino ha offerto, alla maniera di San Giovanni Decollato, la sua testa al Capo. Da chi e per cosa è stato sacrificato Bocchino?
I
Il Pdl non è un partito liberale ma carismatico. La parola del leader è verità. Si potrà anche non credergli, ma non è dato discuterla o contraddirla in pubblico. Il “popolo della libertà” si sente libero perché aderisce volontariamente alla verità del capo Berlusconi e accetta la regola della inesistenza del dissenso. Gianfranco Fini ha rotto il tabù e ha avanzato la normalissima idea che il Pdl non si debba fondare sul consenso indiscutibile, ma sul dissenso: ossia sul diritto di sostenere pubblicamente una verità politica diversa da quella del capo. Al di là delle mire personali, delle tattiche e delle gelosie - tutte cose umanissime la cui esistenza diamo per scontata - la rottura tra Berlusconi e Fini si è consumata su questa diversa idea di partito. Italo Bocchino ha sostenuto l’idea di un partito rispettoso e forte della regola liberale del dissenso ma ci ha rimesso le penne (politiche). Perché? Forse, la sua stessa
area politica - i finiani, come sono stati definiti - non crede fino in fondo alla lotta politica che sta conducendo? E’probabile che Bocchino, a quanto si dice nei corridoi, stia sulle scatole a molti e non ha senso ora mettersi a valutare se abbiano ragione o torto, ma non era questo il momento di mettere da parte le scatole personali e nonostante tutto difendere Bocchino?
Le critiche maggiori all’operato dell’ex vice-capogruppo del Pdl a Montecitorio non sono venute dai berlusconiani ma dai finiani. Quella che si è consumata ieri è sembrata una resa dei conti non tra finiani e berlusconiani ma tra gli stessi sostenitori di Fini. Bocchino era quello che era salito più in alto e ora è quello che è più in basso. In molti hanno visto in lui non il parlamentare lungimirante che conduce una giusta battaglia di civiltà politica, ma un apprendista stregone che ha combinato un pasticcio non più rimediabile: la rottura sentimentale e politica tra Fini e Berlusconi. Se questo è vero - e non siamo molto lontani dalla verità - ci va di mezzo la stessa idea di partito più libero che Fini rivendica per sé e gli stessi elettori berlusconiani. Berlusconi, dopo le dimissioni di Bocchino, ha detto: «Adesso vediamo se Fini è leale». Lo voglia o no Fini, il “caso Bocchino” è il “caso Fini”. Non è in gioco, come dice Berlusconi, la sua lealtà al Pdl ma la sua lealtà a se stesso, alla cultura del dissenso pubblico che ha voluto rappresentare. La battaglia è più culturale che politica e non comporta premi o conquista di potere o sottopotere perché la libertà è premio a se stessa. Se ci si crede è una lotta per l’ideale degna di essere fatta. Il “caso Bocchino”- spero di sbagliare - non dà questa impressione.
ra sono quattro: Giulia Bongiorno (Giustizia a Montecitorio), Silvano Moffa (Lavoro, sempre a Montecitorio), Mario Baldassarri (Finanze al Senato) e Cesare Cursi (Industria al Senato). In più c’è Fabio Granata che fa il vice di Beppe Pisanu in Antimafia, oltre a un viceministro come Adolfo Urso e a sottosegretari come Roberto Menia e Alfredo Mantica. Non tira una bella aria e ora la pattuglia vicina al cofondatore avverte tutto il peso dell’ostilità berlusconiana. Percepisce il chiaro via libera concesso dal Cavaliere a ogni sorta di discriminazione. Che l’aria sia cambiata lo dimostrano le parole al limite dell’irrisione di Cicchitto: «Ormai Bocchino è affetto da incontinenza comunicativa». Il marchigiano Casoli, del nucleo più ortodosso dei senatori berlusconiani, non è da meno: «A tradire Italo sono stati i primi colpi di calore». Non si tira indietro Maurizio Lupi: «Se Bocchino continua sulla strada della rissa non lo seguirà nessuno». Ostracismo condito insomma da una sorta di psichiatrizzazione del dissenso: è l’atteggiamento tipico di una maggioranza che si sente libera di procedere senza indugio nel regolamento dei conti.
Colpisce la “dissuasione a posteriori” di Ignazio La Russa: «Dimettendosi definitivamente, Italo ha preso una saggia decisione», dice il ministro, quasi ad alludere a rischi per l’incolumità del vicecapogruppo se solo avesse provato a misurarsi con l’assemblea. Resta il fatto che, sconvocata la riunione, sono formalmente sancite solo le dimissioni da vicario: con il ruolo nel direttivo rimasto intatto, Bocchino potrà continuare a fare dichiarazioni da rappresentante della minoranza. Dovrà fare i conti con il passo spedito di Berlusconi: sempre nella cena di mercoledì sera il Cavaliere ha messo al bando le «beghe» che non possono disturbare lui e il governo, e che «sarà il partito a risolvere». È tutta qui la delega in bianco per attuare ulteriori epurazioni, secondo l’interpretazione finiana. C’è poco da interpretare d’altronde nel resto dell’analisi fatta dal premier con i suoi senatori: «Abbiamo constatato che con Gianfranco non c’è più amicizia, ora vediamo se c’è lealtà da parte sua, in Parlamento e prima ancora con gli elettori. E se qualcuno vuole assumersi la responsabilità di far
politica
30 aprile 2010 • pagina 9
I finiani danno battaglia ma in ordine sparso e senza una linea organizzata
Una corrente pericolosa (per Berlusconi) ma divisa Antipatie per Bocchino, imbarazzi per Farefuturo, liti tra moderati e incendiari: guai e retroscena d’una componente un po’ anarchica di Riccardo Paradisi egnali di divisione interna alla corrente finiana erano emersi in superficie, per chi voleva leggerli, da alcune settimane. Già all’indomani del 28 marzo, quando, di fronte ai risultati delle elezioni amministrative, all’interno della galassia di Farefuturo le analisi sul voto apparivano divergenti. Da una parte il direttore scientifico della fondazione Alessandro Campi e con lui il webmagazine di Farefuturo diretto da Filippo Rossi, facevano notare che la pretesa vittoria del centrodestra in realtà era una vittoria soprattutto della Lega, che al nord aveva sottratto al Popolo della Libertà la bellezza di venti seggi e che insomma per il Pdl c’era davvero poco da festeggiare, soprattutto considerando le pretese del Carroccio sulla linea da dettare al governo. A stretto giro arrivava la replica di Adolfo Urso, il segretario generale di Farefuturo, uomo di sicura obbedienza finiana, che chiariva come le posizioni espresse da esponenti della fondazione fossero state rilasciate a titolo esclusivamente personale.
S
Sotto, il presidente del Consiglio Berlusconi. Sopra, il presidente della Camera Fini insieme con Bocchino, che si è definitivamente dimesso ieri dalla vicepresidenza del gruppo del Pdl alla Camera. A destra, il direttore scientifico della fondazione Farefuturo, Alessandro Campi
cadere l’esecutivo, la strada delle elezioni sarà l’unica possibile». Eventualità evidentemente non lontana, secondo Berlusconi, giacché dal suo punto di vista «la rottura ormai è insanabile, irreversibile», con l’ex leader di An che, appunto, «guarda a Casini e Rutelli» e «non più al Pdl e al nostro elettorato». Non ci sono margini, secondo il Cavaliere, tanto più che le avvisaglie del distacco risalgono a molto lontano, «ai tempi della caduta di Prodi, della nascita del Pdl», quando «Fini decise di aderire solo perché temeva di non raggiungere un risultato brillante con la sola Alleanza nazionale». Anche la strategia meno conflittuale adottata dall’ex leader di An negli ultimi giorni, secondo Berlusconi, «nasce solo dalla constatazione di non avere i numeri sufficienti per fare i gruppi unici. Ma aspetta il momento buono, il suo obiettivo è sempre quello». Resta una pagina non edificante nella tormentata storia del partitone unico. Bocchino ha modo di dire che «Berlusconi non ci fa una bella fialtro gura: che partito dell’amore, questo è il partito della paura». Racconta anche di come il presidente del Consiglio non abbia certo ecceduto in diplomazia nel preavvisargli la rimozione: «Mi ha detto “io ti inflizo”». Fuochi d’artificio? Può darsi. Tutto dipende da «quello che succede ora», come dicono i finiani moderati.
E di come la Lega sia un alleato strategico. A dimostrarlo c’è l’importantissima apertura al semipresidenzialismo fatta dal ministro Roberto Maroni che testimonia come l’agire dei vari soggetti del centrodestra sia unitario e corale. Verso i cosiddetti incendiari della componente finiana arrivano altri avvertimenti durante la riunione a porte chiuse organizzata da Fini a Montecitorio alla vigilia della direzione nazionale. Amedeo Laboccetta, che firma il documento di solidarietà al presidente della Camera, chiarisce che chi sta investendo sull’innalzamento del livello di scontro all’interno del Pdl – il riferimento è ancora a Bocchino, al siciliano Fabio Granata e a Farefuturo – è stato smentito dallo stesso Fini, che ha richiamato tutti a un maggiore senso di responsabilità. Prima della riunione il finiano Roberto Menia, triestino, ex collega di corrrente di Bocchino ai tempi del Msi e di An (entrambi militavano nella componente Destra protagonista) attacca violentemente Bocchino e gli chiede chi lo abbia investito dell’autorità di parlare a nome di tutti. Sono sintomi di un malessere sempre più manifesto, sempre meno trattenuto. Un nervosismo che aumenta con l’innalzarsi della tensione interna al Pdl e su cui lo scontro tra Berlusconi e Fini alla direzione nazionale funziona come l’ innesto tecnico che lo fa esplodere. La riunione dei finiani successiva allo scontro dell’auditorium della Conciliazione fa registrare uno stato di tensione altissimo; Menia ha un
climax di aggressività, chiede il ridimensionamento di Bocchino e stavolta anche il licenziamento del professor Alessandro Campi, colpevole di aver rilasciato un’intervista al quotidiano Repubblica sui possibili compiti di un’eventuale governo tecnico. Stavolta interviene anche Fini nella querelle. Chiede a Menia e a quelli che sostengono le sue posizioni di tenere distinti nell’analisi l’azione politica della componente e del presidente della Camera dalle esternazioni del cosiddetto arcipelago Fare futuro fondazione e webmagazine.
Come a dire: «Non sono certo loro a dare la linea». È il segnale che Fini ha intenzione di intraprendere un nuovo corso: ridimensionare i guastatori, i liberi pensatori della sua area e privilegiare la via politica e gerarchica: «Magari prima di rilasciare telefonate dichiarazioni adesso», dice ai suoi. Lo stesso Adolfo Urso, che appunto, della fondazione Farefuturo è il segretario, arriva a sostenere - come riferiscono fonti interne al gruppetto parlamentare finiano – che la fondazione ormai più che una risorsa costituisce per il presidente della Camera un impaccio, un problema. Paradossalmente sono le stesse valutazioni che in questi mesi ha sempre fatto sulla fondazione Farefuturo il triumviro del Pdl Sandro Bondi, che ha reiteratamente accusato intellettuali e giornalisti vicini a Fini di danneggiarlocon le loro provocazioni. Attacchi che fino a oggi lo stesso Fini aveva sempre rintuzzato rivendicando all’arcipelago la libertà di dibattere, di provocare, di «mettere il sale dentro la minestra d’una politica troppo spesso insipida», per usare una colorita espressione usata a più riprese dal presidente della Camera. Il clima evidentemente ora è cambiato. La durissima reazione dell’armata berlusconiana se non fa recedere Fini dall’idea di dar filo da torcere al premier, continuando a sostenere le posizioni su cui s’è arrivati a una rottura, ha spinto il presidente della Camera a un contegno strategico meno guascone. Resta incerto a questo punto anche il destino di Generazione italia il movimento organizzato dal dimissionario Bocchino per innervare nel territorio la corrente finiana. Una variante più morbida rispetto all’ipotesi di Carmelo Briguglio di costituire il gruppo autonomo degli ex di An, ma oggi temeraria vista l’aria che tira. Che riassume bene il bolognese ex An e finiano Enzo Raisi: «Essendo uno di quelli che è stato indicato nella lista di proscrizione posso solo dire che il primo (Bocchino n.d.r.) è caduto, vediamo gli altri quanto resistono».
La reazione dell’armata berlusconiana non fa recedere l’ex leader di An dall’opposizione interna ma lo spinge a una strategia più prudente
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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Poveri napoletani, metà vittime e metà carnefici l comandante dei vigili urbani di Napoli, Luigi Sementa, esasperato per l’inciviltà diffusa dei napoletani ha sbottato: «I napoletani sono il vero male di Napoli». Lo scultore ed ex deputato di Forza Italia Nicola Rivelli ha realizzato una statua dedicata «Agli eroi napoletani» sacrificati sull’altare della spazzatura. Tra la frase del comandante Sementa e la statua del politico Rivelli c’è una palese contraddizione. Evidentissima. Per il primo, i napoletani sono i carnefici; per il secondo, i napoletani sono vittime. Come si spiega l’esistenza di due idee così inconciliabili sui napoletani che sono o malvagi o eroi? Un primo tentativo di spiegazione si potrebbe trovare nei diversi ruoli svolti dagli autori delle due idee di Napoli: Luigi Sementa ha una funzione di controllo e repressione e ogni santo giorno fa esperienza dell’indisciplina e dell’individualismo dei napoletani che non rispettano regole, leggi, norme di buon comportamento civile; Nicola Rivelli è artista e politico e la sua visione delle cose, soprattutto dell’era di Bassolino, lo porta alla considerazione che la invivibilità napoletana è il frutto del malgoverno.
I
Come si intuisce facilmente, la spiegazione spiega molto poco. Infatti, alle due idee sui napoletani tra loro opposte del generale Sementa e dello scultore e politico Rivelli si potrebbero aggiungere tante altre testimonianze ora a favore dell’uno ora a favore dell’altro, fino a giungere alla costituzioni di due fazioni o partiti: il partito di quelli che «i napoletani sono il male di Napoli» e il partito di quelli che «i napoletani sono vittime del malgoverno di Napoli». Al primo partito si è già iscritto con una lettera pubblicata dal Corriere del Mezzogiorno il magistrato Carlo Visconti, il quale dinanzi al male napoletano si è chiesto “che fare?” e, sconfortato e sfiduciato, ha risposto «francamente non so dirlo». Al secondo partito, invece, si potrebbe certamente iscrivere Raffaele La Capria, parlando con liberal ha proposto di assegnare ai napoletani il Premio Nobel per la sopravvivenza visto che la loro vita è contrassegnata dalla normalità camorristica, dal far west e la spazzatura. Le ragioni dei due partiti anche se si auto-annullano hanno un’origine comune. È il mito di Napoli come «un paradiso abitato da diavoli» che si perde nelle nebbie della storia. In questo mito i napoletani sono uomini «di poco ingegno, maligni, cattivi e pieni di tradimento» come sosteneva il Piovano Arlotto. Croce volle riprendere il luogo comune e pur sconfessandolo e dimostrandone la falsità lo ripropose come un biasimo che è bene considerare «verissimo per far che sia sempre men vero». Ecco, questo dovrebbe costituire il terzo partito di Napoli. Il partito di quelli che «i napoletani non sono né diavoli né angeli» e per intendere la condizione napoletana non accampa né scuse antropologiche né accuse politiche ma svolge una quotidiana critica, simile all’esame di coscienza, tanto del governo quanto dei napoletani. Dov’è questo partito?
Ma i giovani possono vedersi in Centro? Qualche idea per il futuro del partito di Casini di Fabrizio Anzolini analisi è corretta o, almeno, questo è quello che appare guardando i risultati elettorali delle regionali: il bipartitismo, in Italia, non trova terreno fertile e il fantasma del 2008 sta lentamente scomparendo, almeno fino al prossimo “colpo di teatro”. Anche il bipolarismo non sembra godere di ottima salute e con le ultime elezioni regionali ha dimostrato tutti i suoi limiti permettendo a un partito dalle percentuali non eccezionali di fare da ago della bilancia in più di qualche regione (pensiamo al ruolo dell’Udc in Liguria, in Puglia, in Lazio e, in parte, anche nella stessa Campania). L’analisi politica dei centristi, quindi, sembra corretta. È proprio l’Unione di Centro, infatti, che ha fatto della battaglia a questo bipolarismo uno dei suoi punti fermi. Un“bipolarismo muscolare”che in 15 anni non è mai riuscito a dare il via alla tanto auspicata, quanto necessaria, stagione riformista trasformando le riforme strutturali in uno scontato spot da agitare in campagna elettorale per cercare d’intercettare i voti degli scontenti. Mancano, però, il metodo e la forma. O, per dirla alla Piero Ostellino, i voti. E questi mancano soprattutto al Nord del Paese dove l’Udc si attesta, per lo più, attorno a percentuali davvero basse: Piemonte 3,92, Emilia Romagna 3,93, Lombardia 3,84, Liguria 3,93%. La situazione è diversa, per fortuna, solo nel Nord Est dove Antonio De Poli, il candidato presidente dell’Unione di Centro in Veneto, riesce a prendere, nonostante l’onda leghista e l’incredibile successo di Zaia, il 6,38% (portando la lista dell’Udc al 5%). E in Friuli Venezia Giulia dove si era votato nel 2008, con le politiche. L’Udc era alleata del Centrodestra a livello locale ma lo stesso giorno, a livello nazionale, andava da sola. Il risultato è stato di un buon 6,15%.
L’
gio che il partito lancia al Nord del Paese. O meglio, il messaggio che non riesce a lanciare. Se alle percentuali dell’Udc del sud, infatti, aggiungessimo anche quelle delle regioni in cui non si è votato (ad esempio Sardegna, Sicilia e Friuli), dove il partito di Casini è saldamente sopra il 5 %, la media nazionale si sarebbe assestata non intorno al 5,6/5,7 calcolato ma, sicuramente, intorno a un più abbondante 6%.
Un risultato sicuramente insufficiente alla costruzione del “Grande Centro”ma sicuramente significativo e importante per un partito portatore di valori e di una diversa visione politica. Detto questo, però, è evidente che oggi il partito di centro deve aprire una importante riflessione sul suo ruolo nel Nord del Paese, sulla sua incapacità di attrazione tra i ceti medi del Nord, sulle basse percentuali che, mai come in questi risultati, sono sotto gli occhi di tutti. L’allargamento e il rinnovamento , la nascita di un “Partito della Nazione”, l’apertura a nuove forze e soprattutto, a nuove idee, sono rimaste per troppo tempo sulla bocca dei dirigenti a livello locale e nazionale e non si sono mai tradotte in realtà trasformando la giusta attenzione che si era formata attorno a un nuovo aggregatore di moderati in disillusione. Da oggi, per crescere e non continuare a“vivacchiare”, si dovrà aggiungere ai temi del nostro dna, famiglia e valori cattolici (che tanto rapidamente la Lega sta cercando di far propri), nuove e ugualmente importanti tematiche. L’attenzione per l’ambiente e per le nuove fonti di energia, l’attenzione al mondo femminile, l’attenzione al mondo del lavoro, il ricambio generazionale e l’estromissione di ogni condannato dalle liste non possono rimanere ulteriori promesse in grado di trasformarsi in aneliti o disillusioni. Questi temi devono diventare la nuova strutturta portante di un partito che dev’essere in grado di togliersi definitivamente di dosso l’etichetta di “ex dc”per trasformarsi, definitivamente, in qualcosa di nuovo e in grado di contribuire attivamente a cambiare il sistema. Formare, seriamente, una nuova classe dirigente, nuovi volti e nuovi uomini da mandare in prima linea, come altri partiti hanno già fatto, deve diventare il nuovo obbiettivo di un “estremo centro” che, a differenza di quello che sostengono alcuni politologi, potrebbe diventare realmente una nuova scommessa. È questione di sopravvivenza. E di coraggio.
Dobbiamo formare, seriamente, una nuova classe dirigente, nuovi volti e nuovi uomini da mandare in prima linea
Insomma, al di là delle affermazioni di chi non crede nel progetto di Casini e dell’Udc, al di là di chi teorizza, ormai da più di due anni, la nostra imminente scomparsa, siamo riusciti a tener viva l’idea di una politica diversa anche in questa tornata elettorale, impegnandoci in una linea, quella dei “tre forni”, che ha trasformato quello che nell’immaginario collettivo viene visto troppo facilmente come il partito degli exdc nostalgici, in un partito “antisistema”impegnato a cercare di cambiare radicalmente lo scenario politico italiano rompendo le regole non scritte delle alleanze omogenee. Il problema, ormai evidente, è il messag-
(Responsabile formazione giovani Nord Est dell’Udc)
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Cecilia Malmstrom: «Tra le priorità del futuro, un sistema comune per i richiedenti asilo e un’agenda per l’integrazione»
Il nodo-respingimenti agita l’Ue Ieri a Montecitorio l’audizione del Commissario europeo per gli Affari Interni di Ruggiero Capone ella mattinata di ieri il Commissario europeo per gli Affari Interni, Cecilia Malmstrom, pare non abbia avuto nemmeno un attimo di tregua. Ha incontrato prima il sottosegretario all’Interno Mantovano, e poi il ministro degli Esteri Frattini. Entrambi pare si siano affannati nel tentativo di dare al commissario europeo una diversa impressione dell’Italia. Una missione propedeutica ad addolcire i toni delle iniziative della Malmstrom. Infatti, nel primo pomeriggio, il commissario ha incontrato, in unica seduta, le commissioni Affari costituzionali e Politiche dell’Ue della Camera ed Affari costituzionali, nonché Esteri e Politiche dell’Ue del Senato. L’audizione della Malmstrom era motivata dalle «politiche e iniziative dell’Ue in materia di immigrazione, controllo delle frontiere e asilo». Riunione nata alla luce dell’imminente modifica del regolamento del Consiglio d’Europa, che istituisce l’Agenzia europea per la gestione della «cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea» (il cosiddetto Frontex). Tematiche che preoccupano non poco l’Ue, anche perché il problema immigrazione clandestina sarebbe in Italia particolarmente legato al mondo del lavoro nero, dell’evasione fiscale e previdenziale e della mancate politiche sociali. Così la visita e audizione (presso la Sala del Mappamondo) del
N
Commissario europeo ha portato lo scompiglio nel sistema politico italiano. Infatti la Malmstrom, che ha auspicato un «sistema comune europeo per i richiedenti asilo» che armonizzi le diverse normative nazionali, ha una posizione sostanzialmente in sintonia con l’alto commissario Onu per i rifugiati Antonio Guterres, il quale ha auspicato che «il governo di Roma riveda al più presto la sua politica in materia di respingimenti». Infatti sarebbero
stati respinti verso le coste africane un numero imprecisato di esuli per motivi politici, e la polizia italiana non avrebbe ottemperato agli accertamenti di rito. Per giunta il nostro governo non avrebbe risposto esaustivamente sull’argomento e, forse per superficialità, evitato d’indagare sulla vicenda. I ben informati sostengono che l’eurodeputata svedese si fiderebbe di tutti i paesi dell’Ue, fatta eccezione per l’Italia. Non è il caso di malignare, la Malmstrom non è certo contro il governo italiano, piuttosto contro la nostra burocrazia e la dirigenza ministeriale (e di polizia) che gestisce il rimpatrio degli immigrati clandestini. La Malmstrom concorda con Mantovano sulle ragioni del contrasto alla criminalità organizzata, in particolare sull’efficacia delle disposizioni. Ma non certo sulla leggerezza con cui l’Italia affida ai Paesi frontalieri (Libia) gli immigrati respinti alle frontiere.
La svedese critica la leggerezza con cui l’Italia affida ai Paesi vicini gli immigrati respinti alle frontiere
Di fatto il commissario vorrebbe dotare Frontex di maggiori strumenti e autonomia, ma nel massimo rispetto dei diritti umani. Certo l’Italia potrebbe anche consigliare al commissario svedese di dare una occhiata alla Spagna, che da tempo inveterato affida il controllo della frontiera marocchina ai “viva la muerte”(il Tercio, la cosiddetta Legione spagnola): certo hanno modi di
respingimento meno bonari dei guardacoste italiani.Va detto che la commissaria europea si muove in base agli atti della Corte europea di Strasburgo, e con il compito di tutelare i diritti delle persone dei 47 paesi che hanno sottoscritto la Convenzione. La Corte non è certo stata dolce con l’Italia, riconoscendo al Belpaese nel solo 2009 ben 68 condanne di violazione di diritti umani. Un corposo dossier (curato dall’Osservatorio sulle sentenze della Corte) ha raggiunto l’Avvocatura della Camera dei deputati, che ieri ha ascoltato in diretta il pensiero del commissario Malmstrom. L’accusa rivolta all’Italia è soprattutto di leggerezza nella gestione della materia diritti umani e d’interferenza nella vita privata dei detenuti. Un imbarazzante dossier, in cui spicca la leggerezza con cui è stato liberato nel 2004 Angelo Izzo (il mostro del massacro del Circeo), poi numerosi casi di tortura in carcere, quindi la condanna da parte della Corte di Strasburgo per i mille cavilli che impediscono a molti docenti d’insegnare. La relazione della Malmstrom alla Camera dei deputati è stata preceduta, qualche giorno fa, da quella di Lorenzo Ria, deputato dell’Udc, che ha acclarato le ben 2.471 sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo cui il nostro Paese non ha dato seguito, ignorandole letteralmente. Il ministro della Giustizia Alfano pare abbia ascoltato senza smentire.
Dinastie. Andrea presidente come il padre Umberto. Ma soprattutto come il nonno Edoardo
Se la Juve ritrova lo stile Agnelli di Gabriella Mecucci ndrea Agnelli, figlio di Umberto, diventa dunque presidente della Juventus (quarantotto anni dopo il padre) e come primo gesto ha chiesto la revoca dello scudetto 2006, assegnato dalla giustizia sportiva all’Inter. La famiglia dunque si sta rapidamente riappropriando di tutto il suo potere: una settimana fa Jaki, il nipote prediletto dell’avvocato, è diventato presidente della Fiat al posto di Montezemolo, ieri Andrea è stato ufficialmente indicato come nuovo capo della Juve. Trova un club piuttosto malmesso, sprofondato negli anni scorsi in serie B per illeciti sportivi. Risalito rapidamente, non ha saputo però tornare ai livelli di prestigio che ha avuto in tutta la sua storia. Jaki ha come stella polare suo nonno Gianni. Ed anche Andrea può trovare in famiglia l’uomo giusto a cui ispirarsi. Si tratta di Edoardo Agnelli, padre di Gianni, di Umberto e di altri cinque figli e quindi nonno della nuova guida bianconera. Divenne presidente della Fiat nel 1923 e ci restò sino al ’35, anno della sua morte.
A
Nella prima metà degli anni Venti, il calcio italiano non andava troppo per il sottile: era basato sul comandamento “palla lunga e pedalare”. Edoardo comprò subito alcuni calciatori argentini dai piedi buoni, li pagò profumatamente, ma l’investimento rese parecchio. Uno come Raimondo Orsi prendeva 8mila lire al mese,
gogliva Torino e l’Italia intera. Ma non contano solo gioco e vittorie, occorreva fare in modo che il football divenisse popolare quanto l’automobilismo di Tazio Nuvolari e il ciclismo di Costante Girardengo, di Learco Guerra e Alfredo Binda. Il nonno di Andrea con la sua equipe ci riuscì. I bianconeri erano fortissimi e combattivi, ma sapevano anche perdere con eleganza. Nacque, insomma, la signora del calcio italiano, purtroppo di recente molto infangata e bistrattata. Anche la moglie di Edoardo, quella gran signora di nonna Virginia, aristocratica e trasgressiva, era una super tifosa, tantochè nel 1932 si presentò alla cena per festeggiare lo scudetto con due cani: un samoiedo bianco e un barboncino nero. Non sarà facile per Andrea raggiungere i successi dell’età dell’oro e, soprattutto, ricostruire il mitico stile Juventus. Ma si chiama Agnelli: noblesse oblige.
Negli anni Trenta, l’antenato lanciò la squadra nel gotha del calcio internazionale comprando (a caro prezzo) tutti i più grandi giocatori del tempo dieci anni prima che Rabagliati cantasse: «Se potessi avere mille lire al mese». E oltre al lauto stipendio aveva in dotazione una bella casa e una super automobile con chauffeur. Robe mai viste all’epoca. Alla Juve si guadagnava bene e si vinceva parecchio: sei scudetti in dieci anni, di cui cinque consecutivi. Edoardo insomma aveva messo su uno squadrone che inor-
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a guerra è il rifugio creativo ideale per uno scrittore in crisi: colpi di scena, eroismi, tradimenti, atti di viltà sono talmente comuni su qualunque campo di battaglia che anche con una scarsa dose di fantasia si dovrebbe riuscire a confezionare qualcosa di interessante per il lettore. Non sorprende quindi che la storia della letteratura occidentale inizi con una guerra. Troia, anno 1250 avanti Cristo circa. L’esercito degli Achei, guidato da Agamennone, tiene d’assedio la città di Ilio per una banale storia di corna. Dopo dieci anni di conflitto, forse per uno stratagemma ideato da Ulisse, la città cade e viene distrutta. Tre secoli dopo un aedo di grande talento sistema una parte delle innumerevoli narrazioni in versi che nel frattempo sono nate intorno al conflitto e, con l’Iliade,“inventa”la letteratura occidentale. Possiamo dire che almeno in questo caso si sia trattato di una “guerra giusta”. Da allora il mondo delle lettere, non importa se in forma di poema, prosa, aforisma o trattato, è rimasto ossessivamente avvinghiato alle questioni militari, mai passate di moda tra il pubblico negli ultimi tre millenni. Mentre le tecnologie belliche sono passate dalla fionda agli aerei senza pilota, qualcosa è cambiato anche nel modo di raccontare questo modo organizzato e razionale di uccidere i propri simili.
L
Partiamo da Omero, ovviamente. Quando mette mano all’Iliade, sembra conoscere tutti i trucchi per interessare l’ascoltatore. Mette subito al centro della scena il suo campione, l’eroe Achille, accecato dall’ira per lo sgarbo subito dall’ingordo Agamennone, che gli ha rubato la schiava Briseide. È a partire da questo episodio apparentemente secondario che si dipana la grandiosa vicenda dell’assedio a Troia, che ormai va avanti da un decennio. Omero lascia che il lettore si perda in queste beghe tra condottieri, tiene il conflitto sullo sfondo per aumentare la suspance e scioglierla tutta insieme quando ci accompagna sul campo di battaglia sotto le mura della città. Le grandi manovre dell’esercito e le scene di battaglia di massa non interessano molto l’uomo greco, che vuole sentirsi raccontare il singolo confronto tra due campioni, e Omero lo accontenta, concentrandosi su un duello alla volta. Ci porta dentro l’azione, nel mezzo del campo di battaglia, tra sabbia, rimbombi metallici e urla, a pochi passi di distanza da uomini che attendono di vedere il sangue dell’avversario o il proprio macchiare il terreno polveroso. I particolari cruenti non sono risparmiati: quando Ettore uccide Patroclo «l’asta di bronzo della ferita strappò, premendo col piede, lo rovesciò supino». E quando gli Achei raggiungono Ettore appena ucciso da Achille, lo fanno tenendo le lance tra le mani «e nessuno di loro si avvicinò senza colpire». Nessuna descrizione delle atrocità della guerra sarà mai più esplicita di questa. Ma l’Iliade, con tutta la sua forza primitiva, si interroga sull’utilità della carneficina e si conclude senza gloria. Paride viene vendicato, ma il poema si chiude con il pianto con-
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Tutto nasce con «l’ira funesta del pelide Achille», per approdare ai repor
Omero? Oggi farebb Il rapporto tra letteratura e guerra: dall’antica Grecia alla Fallaci, senza dimenticare Hemingway, Montanelli, Kapuscinski e i disegni di “Maus” di Alfonso Francia
giunto di Achille e Priamo, che abbraccia l’uccisore di suo figlio. L’ultimo canto non è dedicato al trionfo del vincitore, ma al funerale dello sconfitto. Omero dimostra di essere molto più moderno di centinaia di suoi epigoni che si susseguiranno nei secoli.
Del resto il poema epico resterà, a parte poche eccezioni, il genere letterario preferito per raccontare la guerra, fino all’affermazione del romanzo, che dominerà per tutto l’Ottocento. Poi, grazie a una delle più grandi trovate della modernità, il giornalismo, saranno i reportage a raccontare battaglie e stragi.
Tolto Hemingway, i grandi narratori della guerra del Novecento si chiamano Montanelli, Fallaci, Kapuscinski. Di quest’ultimo si è tornati a parlare di recente perché, a tre anni dalla scomparsa, nella sua Polonia è comparsa una biografia che mette in discussione l’obiettività di molti dei suoi servizi. Lui stesso, d’altra parte, aveva una volta sostenuto che «Il giornalista non può essere un testimone indifferente, ma dovrebbe possedere quell’abilità che la psicologia chiama empatia. Il cosiddetto giornalismo obiettivo non è praticabile in contesti di guerra». Obiettività o meno, Kapuscinski ci ha lasciato scritti memorabili. Basterebbero le 30 pagine del suo La guerra del football per farcelo ricordare. In quell’occasione il giornalista raccontò la guerra scoppiata nell’estate
del 1969 tra Salvador e Honduras a causa di una partita di calcio tra le nazionali dei due Paesi.
Arrivato fortunosamente in prima linea, si ritrovò su un campo di battaglia controllato dagli honduregni e disseminato di morti e feriti. Uno di loro, un giovane crivellato di colpi, era in fin di vita. Kapuscinski riporta questo dialogo: «È dei nostri o dei loro?», chiese un soldato seduto vicino alla barella. «Non si sa», rispose dopo un silenzio l’infermiere. «È di sua madre», disse uno dei soldati in piedi. «Adesso è di Dio», aggiunse dopo poco un altro. Poco importa che questo dialogo sia stato ascoltato o immaginato da chi l’ha scritto, è difficile leggere un riassunto più efficace dei sentimenti dell’uomo in guerra. Ci riesce forse Monta-
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rtage degli inviati e ai romanzi (o alle graphic novel) ambientati al fronte
be l’Iliade a fumetti La locandina del film “Troy”. Qui a fianco, Indro Montanelli. A destra: David Grossman (in alto) e Ryszard Kapuscinski (in basso). Nell’altra pagina: Oriana Fallaci
nelli che, scrivendo dalla Finlandia attaccata dai sovietici, così descrive un terreno sul quale fino a qualche ora prima era infuriata la battaglia. «Unico cimelio di guerra sul triste campo di Tolvajaervi raccogliemmo un pacchetto di lettere uscite da uno zaino sbuzzato, accanto a un grappolo di morti presso un autocarro. Alcune macchie di sangue rapprese dal freddo le inceralaccavano». Omero non avrebbe saputo fare di meglio.
Però stiamo parlando di scritti risalenti a parecchi decenni fa. Oggi chi scrive di guerra? Tra crisi della carta stampata e informazione mordi e fuggi su internet, il testimone sembra essere passato a un mezzo espressivo che con la serietà del tema in questione sembrava avere poco a che fare: il fumetto. In
Italia c’è voluta l’introduzione del termine graphic novel per convincerci che una tavola disegnata può essere seria e autorevole quanto una pagina di Guerra e Pace. Prima Art Spiegelman con il suo Maus ha raccontato, disegnando gatti e topi, l’orrore indicibile dell’Olocausto, poi il maltese Joe Sacco ha illustrato il conflitto israelo-palestinese e la guerra di Bosnia con una chiarezza e una felicità narrativa che ormai sembra mancare ai normali reporter di guerra.
I suoi disegni hanno una chiarezza espressiva che rapisce il lettore quanto «l’alba dalle dita di rosa» e «l’elmo lucente» di Ettore. Nessun particolare nei suoi disegni è inserito per riempire la pagina. La matita non è come una macchina da presa, che cattura tutto senza discernimento, anche i particolari insignificanti. Sacco inserisce solo particolari che meritano di essere notati e ricordati dal lettore, e che insieme ai dialoghi raddoppiano la loro intensità. Basti pensare alle vignette che raffigurano lo stesso Sacco mentre passeggia per Goradze assieme a qualche abitante del posto, che racconta dei conflitti dei mesi passati. Tutto il panorama intorno a loro è in rovina: le strade sfondate dai colpi di mortaio, le case diventate scheletri anneriti dal fumo degli incendi, i lampioni divelti. Questi particolari rendono i ricordi dei superstiti chiari come non potrebbero mai esserlo utilizzando solo le parole, e Sacco li replica con ostinazione per decine di pagine. Questi lavori sono riusciti nell’immane compito di riunire il meglio della letteratura di guerra: l’eroismo omerico, la grandiosità del romanzo storico e l’esattezza del giornalismo. Sacco, ad esempio, sembra aver mandato a memoria la lezione di Omero. Nel suo Goradze utilizza una storia secondaria - la sorte di questa piccola città bosniaca circondata dai serbi - per narrare l’intera tragedia jugoslava, esattamente come nell’Iliade l’ira di Achille è il pretesto per cantare la guerra di Troia. Entrambi fanno avvicinare il loro pubblico al centro della battaglia, senza tralasciare niente. Come assistiamo da due passi allo scontro furioso tra achei e troiani per la conquista delle spoglie di Cebrione, l’auriga di Ettore, così siamo messi di fronte
alla carneficina degli abitanti bosniaci di Goradze, sgozzati come animali sul ponte che attraversa la Drina e poi gettati nella corrente del fiume che li trasporta come tronchi verso la Sava e verso l’oblio degli uomini. E i parolai dell’Onu, che rinunciano a prendere posizione di fronte alle continue trasgressioni agli accordi delle truppe di Milosevic, ricordano il soldato Tersite, che incoraggia i suoi compagni ad abbandonare l’impresa e tornare a casa. Addirittura gli dei dell’Olimpo, che si riuniscono capricciosamente per decidere le sorti del conflitto, parteggiando chi per una causa chi per un’altra, non sono tanto diversi dai governi che osservano la carneficina balcanica cambiando ogni giorno idea, puntando il dito con vigliacca equità ora su uno ora su un altro, come se le vite in gioco fossero una variabile secondaria. E pure la pietà espressa nei confronti delle vittime non sembra mostrare chissà quale differenza. I
Il poema epico resta il genere di scrittura preferito per raccontare i conflitti fino all’affermazione del romanzo, che dominerà per tutto l’800 versi omerici esprimono costernazione di fronte a tutte le morti, perché «come le stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua»; le tavole di Sacco affiancano invece le vittime bosniache a quelle serbe. Ma se l’Iliade racconta una guerra solo in minima parte rispondente a un evento storico, i lavori di Sacco restano tenacemente ancorati alla realtà di fatti accaduti di fronte a lui. In Palestina, pubblicato in volume alla fine degli anni Novanta, descrive il conflitto a bassa tensione tra Israele e Territori nell’ultimo periodo della prima Intifada per come lo ha visto e vissuto, stando accanto ai profughi da giornalista. Lo stesso accade con Footnotes in Gaza, uscito di recente negli Stati Uniti e previsto per l’uscita in Italia a settembre per Mondadori. Vivendo solo assieme al popolo palestinese però, il
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disegnatore esagera un po’con i torti della parte israeliana, criticata per partito preso anche quando propone un dialogo senza condizioni. Più vicino al tradizionale romanzo è Maus, del quale è ormai impossibile dire qualcosa di nuovo. Il suo ruolo nella memoria storica della Shoah non è in discussione, e per soppesarne l’importanza si sono scomodati intellettuali, politologi e storici. Qui facciamo solo notare che si tratta di un bellissimo racconto, appassionante e godibile (per quanto si possa usare questo aggettivo nel descrivere una storia che parla dell’annientamento di milioni di persone), e che il ritmo narrativo è avvincente e serrato come in un thriller.
Anche per questo il tratto è più veloce e netto rispetto a quello di Sacco, che preferisce la riflessione alla narrazione pura e semplice. Più che la paura della battaglia, Spiegelmann mette in primo piano il dolore causato dalla mancanza delle persone care, morte o sparite o costrette a fuggire. Un’attenzione al privato anche quando si parla di grandi eventi storici che certo deve aver tenuto bene in mente l’iraniana Marian Satrapi mentre realizzava il suo Persepolis, bellissimo affresco familiare sull’Iran della rivoluzione e della guerra contro l’Iraq che condizionò il mondo arabo per tutti gli anni Ottanta. Il conflitto resta invisibile da qualche parte lungo il confine, ma sconvolge la vita della neonata Repubblica. Niente più romanzi tradizionali dunque? Forse no. Il problema è che oggi non ci sono più grandi eserciti che si combattono, le guerre asimmetriche e gli attentati suicidi sono difficili da rendere in letteratura. Ci ha provato di recente David Grossman, con il ponderoso A un cerbiatto somiglia il mio amore, che ricordando la Guerra dei sei giorni segue una madre in fuga dalle notizie sulla sorte del figlio soldato impegnato in Cisgiordania. Ma come la sua protagonista Grossman scappa dalla guerra che pure tanto lo preoccupa, rinunciando a darvi un senso. Un altro tentativo porta la firma dell’inviato di Repubblica Guido Rampoldi, che ha scritto La mendicante azzurra, ambientato nell’Afghanistan da poco liberato dai talebani. Il giornalista aveva giocato la carta del thriller di fantasia ambientato in un paese da lui realmente visitato e ben conosciuto. Sembrava l’uovo di Colombo, ma le descrizioni minute del paesaggio afghano e dell’instabile condizione politica si sono amalgamate poco con la trama avventurosa costruita dall’autore, e anche questo romanzo è rimasto a metà del guado. In attesa di uno scrittore che riesca nell’impresa si può sempre tornare a leggere quell’ira funesta dalla quale era cominciato tutto...
mondo
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Crisi. Narcotraffico, esaurimento del greggio, scarsità d’acqua, ignoranza, disoccupazione e Stati del Sud (Chiapas e Oaxaca)
Le sei guerre del Messico Con il governo assediato dalle emergenze il Paese è in bilico fra decollo e fallimento di Maurizio Stefanini on solo narcos. Fu l’11 dicembre del 2006 che il presidente Felipe Calderón, insediatosi appena 10 giorni prima, inviò 6500 tra soldati, marines e agenti della Polizia Federale nel Michoacán: lo Stato in cui lui stesso è nato, e in cui la violenza dei narcos era ormai scappata da ogni possibilità di controllo della debole e spesso corrotta o terrorizzata polizia locale. Da allora questa “Guerra alla Droga”, come è stata ufficialmente ribattezzata, aveva provocato secondo un conteggio ufficiale fatto a marzo ben 19.026 vittime. I Cartelli da cui arriva il 90% della cocaina consumata negli stati Uniti contro le forze dell’ordine, e anche Cartelli tra di loro, in una drammatica escalation di teste tagliate, uomini bruciati vivi, cadaveri mutilati, sparatorie in mezzo alla strada, agguati nei ristoranti.
N
Ma Andrés Oppenheimer, il noto latino-americanologo della Cnn, Premio Pulitzer e editorialista in una sessantina di giornali di tutto il mondo ispanico, proprio in un commento del 30 marzo sul viaggio in Messico della segretario di Stato Usa Hillary Clinton aveva ricordato come in realtà in questo momento quel Paese stia combattendo non una guerra sola, ma ben sei. Le altre cinque guerre molto meno appariscenti di quella dei narcos, ma non per questo meno minaccio-
se. La seconda guerra era l’esaurimento del petrolio: anch’essa di stretta attualità, se non altro per il richiamo del gravissimo incidente nel Golfo del Messico, anche se sul versante statunitense. Come spiegava Oppenheimer, «le entrate petrolifere rappresentano fino al 40% del bilancio federale messicano, ma il greggio del Paese si sta esaurendo. L’Amministrazione di Informazione Energetica degli Stati Uniti calcola che il Messico si vedrà obbligato a importare petrolio nel 2017». La terza, quella dell’acqua: anch’essa venuta alla ribalta della cronaca di recente,
Economico Mondiale, dedicato alla competitività del Messico e diretto da economisti dell’Unversità di Harvard, ha concluso che il principale problema del Paese per competere nell’economia mondiale è il suo povero sistema educativo». Ricordiamo che proprio per questi problemi di competitività il Messico è stato escluso dal Bric: l’alleanza delle economie emergenti tra Brasile, Russia, India e Cina. È vero che in questo momento si parla di integrarvelo in qualche modo, ed è stata coniata anche la nuova possibile etichetta di Bricm. Ma è significativo che nelle trattative in
Petrolio, rimesse e droga: l’economia messicana si basa su queste fonti, una primaria, una risultante dall’immigrazione, una illegale. Le prime due sono in crisi, ma i Cartelli no... quando l’allarme per l’influenza suina coincise con gravi problemi di razionamento nella capitale messicana. Annotava sempre Oppenheimer: «Città del Messico ha già seri problemi di acqua, e la scarsità causa tensione con gli Stati vicini. Ed è probabile che il cambio climatico globale trasformi il Messico in un Paese ancora più arido di oggi». Poi c’è il quarto problema: «che farà il Messico per poter competere con la Cina, l’India e altre potenze emergenti con migliori sistemi educativi? Uno studio del Forum
corso per un trattato di Libero Commercio tra Brasile e Messico che potrebbe fare da anticamera a questa integrazione a spingere sono gli imprenditori brasiliani, opltre ai due governi: i loro colleghi messicani fanno resistenza.
Poi Oppnheimer evidenziava il quinto problema: «che farà il Messico con la sua nuova generazione di giovani disoccupati quando non possa più esportare queste persone negli Stati Uniti con la stessa facilità di prima, per i crescenti controlli alla
frontiera o la disoccupazione negli Stati Uniti?». E anche questo è un nodo che sta venendo rapidamente al pettine, con quella legge dell’Arizona contro i clandestini per la quale anche una forza politica tradizionalmente filo-Usa come il Partito di Azione Nazionale (Pan) di Calderón ha iniziato a fare la voce grossa con Washington, chiedendo addirittura ai cittadini messicani di boicottare il vicino. Infine, la sesta “guerra”. «Che farà il Messico per integrare la sua popolazione indigena nell’economia moderna? Sebbene i governi recenti abbiano proporzionato miliardi di dollari agli Stati del Sud fin dalla ribellione del Chiapas del 1994, il Sud non si beneficia tanto come gli Stati del Nord per l’inserimento messicano nell’e-
conomia mondiale». E qui si inseriscono appunto altri eventi più recenti, che hanno avuto come protagonisti due italiani. Dopo la storia del salentino Leuccio Rizzo la cui foto era stata fatta passare per quella del Subcomandante Marcos, c’è stata infatti l’altra disavventura mediatica che ha travolto un cooperante italiano in Messico: David Casinori, che non era in realtà stato rapito, ma aveva smarrito il cellulare durante la fuga dalla banda armata che aveva assalito la colonna umanitaria di cui faceva parte.
Equivoco a parte, però, questa storia dall’Oaxaca è ben più drammatica di quella un po’ grottesca del Chiapas. Tutti e due, l’Oaxaca e il Chiapas, sono stati nel Sud del Messico. Tutti e
mondo
In alto, una cartina del Messico e, a destra, un cittadino messicano che affronta la polizia federale al confine con gli Stati Uniti. Sotto, due diverse immagini del Muro: in versione “fumetto” e nella realtà. Il Messico è la seconda economia dell’America Latina e la quarta delle Americhe
due sono stati a forte componente indigena: maya il Chiapas; soprattutto mixtechi e zapotechi, ma anche di altre 16 etnie minori nell’Oaxaca. E tra queste etnie minori, anche quei triqui tra cui è avvenuto l’agguato. Tutti e due sono altresì luoghi turistici: le rovine maya di Palenque, la Selva Lacandona e architetture coloniali nel Chiapas; i siti archeologici di Mitla, Lambitieco, Dainzu, Yagul e Montealban, le spiagge di Puerto Escondido e pure le architetture coloniali nell’Oaxaca. In più, tutti e due sono diventati luoghi di pellegrinaggio per aspiranti rivoluzionari da Europa e Nord America.
Con la differenza però che nel Chiapas la guerriglia zapatista è ormai soprattutto virtuale, anche perché dopo i trattati di pace firmati e le amnistie concesse dal governo messicano il Subcomandanre Marcos e i suoi per la legge sono poco più che pittoreschi campeggiatori. Mentre l’Oaxaca dal 2004 è nel caos: per le allegate frodi nelle elezioni che videro l’insediamento a governatore di Ulises Ruiz Ortiz, cui dal 2006 si è unita una rivolta sindacale di maestri attorno ai quali si è agglutinata l’Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca (Appo), fronte di oltre 300 organizzazioni in mobilitazione perma-
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nente. Quattro anni fa, dunque, quasi in contemporanea con il Michoacán, anche nell’Oaxaca ha dovuto intervenire l’esercito federale: una situazione tanto più complicata in quanto da una parte l’Appo fa riferimento all’opposizione di sinistra contro i governi del centro-destra del Pan. Dal 2000 al 2006 Vicente Fox, e dal 2006 Felipe Calderón. Dall’altra, però, anche il governatore Ruis Ortiz è un uomo dell’opposizione, di quel Partito Rivoluzionario Istituzionale (Pri) contro cui Fox fece la sua storica alternativa, dopo che era stato al potere dal tempo della Rivoluzione messicana. Aggiungiamo appunto il modo in cui la faida tra Appo e le bande paramilitari vicine al Pri dallo scorso gennaio ha incendiato le aree dell’etnia triqui. Tre i gruppi in campo. Uno è il Movimento di Unificazione e Lotta Triqui (Mult), organizzazione indigenista storica da cui è scaturito il Partito di Unità Popolare, rappresentato all’assemblea dello Stato. Un altro è il Movimento di Unificazione e Lotta Triqui – Indipendente (Mult-i), che è nato da una scissione del precedente, e che fa capo all’Appo. Il terzo è la Unità di Benessere Sociale della Regione Triqui (Ubisort), vicino al Pri. L’Ubisort teneva assediata da due settimane San Juan Copala, roccaforte del Mult-i. Una caravona umanita-
La British Petroleum accetta gli aiuti Usa e lancia l’allarme: c’è una terza falla
Marea Nera: arriva il Pentagono Cresce l’allarme per la marea nera nel Golfo del Messico che minaccia le coste degli Stati Uniti. Nella piattaforma della Bp affondata nel Golfo del Messico è stata scoperta una terza falla sottomarina e ora la fuoriuscita di greggio è di 5mila barili al giorno, cinque volte in più di quella che era stata precedentemente stimata e confermata dalla Bp fino a mercoledì. La chiazza di petrolio, estesa lungo un fronte di 160 chilometri per 70 di ampiezza (un’area grande più o meno quanto New York), si muove inarrestabile verso la Louisiana e minaccia New Orleans. I robot sottomarini non sono riusciti a tamponare le falle e non è stato risolutivo l’intervento delle squadre speciali che hanno proceduto a un ”incendio controllato”di chiazze di greggio. Nella serata di ieri hanno cominciato ad avvicinarsi alle coste della Louisiana le prime chiazze di petrolio, che riportano alla mente le immagini
del disastro provocato dalla Exxon Valdes in Alaska nel 1989. Per cercare di limitare i danni, la British Petroleum ha accettato l’aiuto del Pentagono. «Accettiamo aiuti da chiunque, non importa da dove arrivino le proposte», ha detto alla Nbc Doug Suttles, capo delle operazioni di trivellazione della Bp, «dobbiamo fare di tutto per ridurre l’impatto di questo evento». Intanto è libero e sta bene David Casinori, l’italiano dato per disperso mercoledì in Messico dopo un assalto di paramilitari a un convoglio umanitario. Lo ha comunicato la Farnesina. Casinori ha contattato al telefono il funzionario dell’ambasciata italiana in Messico che si era recato nella zona di Oaxaca per avere notizie. Casinori aveva avuto difficoltà a comunicare perché era stato rapinato di tutto, anche il cellulare, motivo per cui non ha potuto dare prima notizie sulla sua sorte.
ria con ong, volontari internazionali e organizzazioni di area Appo ha cercato di rompere il blocco per portare rifornimenti. E l’Ubisort l’ha attaccata, uccidendo due persone: il finlandese Tyri Antero Jaakkola e la messicana Beatríz Carino. Un delitto di Stato, secondo un punto di vista abbastanza diffuso da chi guarda la situazione dell’Oaxaca dall’Europa. Ma María Sanabia, direttrice del giornale locale A diario, parla piuttosto di “faida permanente”. «A Triqui non può entrare il Governo, quella regione è governata da loro e nessun altro». È la stessa fonte a spiegare che le varie fazioni locali «sono meglio armate dei soldati».
Ma questo sull’arsenale in loro mano è anche un problema dell’affrontare i narcos. Fino al 2009 le autorità messicane dicevano di aver sequestrato loro «16.228 veicoli terrestri, 257 natanti, 346 aeronavi, 131.000 armi, 2770 bombe a mano». Addirittura, per far passare la droga vengono usati aerei e sottomarini. Eppure, la Fiat di Marchionne ha cercato in tutti i modi l’integrazione con la Chrysler proprio per poter entrare in Messico. È un messicano secondo Forbes l’uomo più ricco del mondo: il re delle telecomunicazioni, e non solo, Carlos Slim Helú. È lo stesso Slim che con i suoi soldi ha salvato dalla bancarotta il New York Times: numero uno di quella stampa Usa che lancia in continuazione l’allarme sulla deriva messicana e sul rischio di trovarsi uno Stato fallito oltre il Rio Grande. Ma anche le Big Three dell’industria automobilistica del Michigan avevano pensato di traslocare i quartier generali a sud del Rio bravo, se davvero a Detroit si fossero trovate costrette a consegnare i libri in tribunale. E anche un milione di pensionati statunitensi negli ultimi anni ha a sua volta “delocalizzato”a Sud, per i prezzi più bassi. «L’invasione dei nonni», l’hanno ribattezzata i giornali messicani. Il Messico è la seconda economia dell’America Latina, la quarta delle Americhe, la dodicesima al mondo, la prima dell’America Latina come reddito pro capite, ed ha il 90% dell’export regolato da trattati di libero commercio. Le tre fonti di valuta principali restano però il petrolio, le rimesse e il narcotraffico: una primaria, una risultante dall’immigrazione, una illegale. E il narcotraffico, presumibilmente, con l’ultima crisi è passato al primo posto. Insomma, un Paese tra il decollo e il fallimento. Talmente indecifrabile che forse proprio per quersto i giornali del resto del mondo rinunciano perfino a raccontarlo. Salvo il dover dare ogni tanto conto di qualche mattanza in cui si trova coinvolto l’occasionale compatriota di passaggio.
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Reportage. Viaggio nell’ovest del Kosovo, sotto il controllo italiano PRISTINA. Si chiamano Eod, acronimo che nel vocabolario militare sta per Explosive Ordinance Disposal: sono gli artificieri, i reparti iperspecializzati delle forze armate cui viene affidato il compito di cercare e distruggere mine e proietti inesplosi dai teatri di guerra, o da quelli che la guerra l’hanno vista passare. Staff Officer del team Eod in Kosovo, di stanza presso la base “Villaggio Italia” di Belo Polje, nel cuore della municipalità di Pec, è il capitano Luciano Tarantino. Al suo comando c’è la squadra di militari col Tricolore sul braccio impegnata a bonificare quella fetta di territorio kosovaro nella zona ovest della provincia che la Nato ha affidato al controllo italiano. È lui a raccontare cosa significa essere Eod in quello che fino a poco tempo fa è stato uno dei teatri più delicati e complessi per chi è chiamato a svolgere questo genere di attività operativa, e che adesso marcia finalmente lungo il cammino che porta alla normalizzazione. «Servono sangue freddo, esperienza, preparazione tecnica – racconta – E la consapevolezza che quando si comincia qualcosa bisogna portarla a termine. Il nostro è un lavoro nel quale non si possono lasciare le cose a metà». La minaccia può nascondersi dappertutto, ed anche l’oggetto all’apparenza più innocuo può celare in realtà una mina antiuomo, una bomba rudimentale pronta ad esplodere al primo tocco, un ordigno inesploso. Anzi, molto spesso, ed è il caso delle mine in particolare, il camuffamento non è fatto per nascondere il pericolo, ma al contrario per attirare l’attenzione dell’ignara potenziale vittima. Come se già tutto questo non bastasse già a rendere le cose complicate, una mina può nascondere uno dei cosiddetti “sistemi di trappolamento”, piazzato apposta per esplodere al primo tentativo di disinnesco, oppure nascondere un altro ordigno, come nel caso delle mine anticarro sovrapposte l’una all’altra, la sottostante innescata per esplodere non appena l’altra viene rimossa. Per questo un operatore Eod deve essere in grado di individuare il pericolo al minimo segnale, e mettere in atto tutte le procedure necessarie a scongiurarlo. Anche se a volte, purtroppo, nemmeno preparazione, perizia e cautela riescono ad evitare incidenti e vittime. Qual è, oggi, il livello di pericolo in Kosovo? C’è ancora molto lavoro da fare per gli uomini Eod? «Tutte le aree urbane, i centri abitati e le zone più fortemente antropizzate sono
Il sangue freddo di chi deve sminare I nostri artificieri operano in una delle zone più a rischio dell’intera Europa di Luca Pautasso
Tra i compiti dell’Eod c’è anche quello di istruire i locali circa i rischi legati alla presenza di ordigni inesplosi sul territorio, lavorando sulla prevenzione state già completamente bonificate» spiega. «I problemi – prosegue - rappresentati soprattutto dalle cluster-bomb, sussistono soltanto più in aree molto circoscritte, poco estese e, per fortuna, impervie, e in alcuni passi e valichi lungo le zone di confine». Nel prefabbricato all’interno di “Villaggio Italia” che ospita il team c’è un’intera stanza dedicata alla raccolta e all’esposizione del
materiale bellico rinvenuto sul campo dalla sua squadra e dalle altre che, a partire dal 1999, hanno operato sotto l’egida della Nato per riportare la pace in terra kosovara.
Sembra un museo di guerra in formato mignon realizzato raccogliendo qua e là le testimonianze mai disinnescate di una guerra che, per fortuna, tace ormai da 10 anni. In
realtà, agli addetti ai lavori, basta un rapido sguardo lì dentro per avereben chiaro in testa con cosa ci si può trovare a fare i conti quando si entra in azione. Ora il lavoro degli artificieri ha reso ciascuno di questi oggetti totalmente inoffensivo. Ieri, la loro presenza sul territorio poteva significare pericolo di morte per ogni uomo, donna o bambino ci fosse inavvertitamente incappato. Proiettili, bossoli, bombe a mano, fucili, mitragliatrici e piccoli pezzi d’artiglieria, e poi ancora mine anticarro e antiuomo, e munizioni di ogni genere e provenienza.
Alcuni sono residuati bellici risalenti addirittura alla Seconda Guerra Mondiale, e riutilizzati alla bisogna dai combattenti di entrambe le fazioni durante i sanguinosi scontri tra l’esercito serbo e i guerriglieri di etnia albanese dell’Uck. Altri, negli anni in cui il conflitto imperversava, rappresentavano gli ultimi ritrovati della tecnica. Non mancano ovviamente i resti delle famigerate cluster bombs, le bombe a frammentazione con un involucro, il cosiddetto “dispenser”, che si apre quando l’ordigno è ancora in caduta libera, seminando il proprio carico di morte in un raggio che può toccare anche diverse centinaia di metri.
Sono proprio le cluster, assieme alle mine antiuomo, ad aver rappresentato per lungo tempo il rischio più grande per la popolazione locale. «I colori sgargianti, la forma inconsueta e i piccoli paracadute di nylon cui sono collegati gli ordigni ne facevano spesso oggetti irresistibili per i bambini che li rinvenivano per strada, nei prati, nei campi coltivati, con tutte le terribili conseguenze che si possono immaginare» racconta il capitano Tarantino. Per questo tra i compiti dell’Eod c’è anche quello di istruire i locali circa i rischi legati alla presenza di ordigni inesplosi sul territorio: «Costruire un rapporto di fiducia e collaborazione non solo con le autorità locali, ma anche con la gente comune, è fondamentale per il nostro lavoro – dice Tarantino – Spesso sono gli stessi civili a segnalarci per primi la presenza di oggetti dall’aria sospetta, che possono rivelarsi mine o ordigni inesplosi». Altrettanto importante, specie in teatri fortemente antropizzati come il Kosovo, è operare con la consapevolezza di dover raggiungere l’obiettivo il più rapidamente possibile, limitando al massimo il rischio di danni collaterali. Il rinvenimento di un ordigno in un campo destinato alla coltivazione, in un’abitazione o in un negozio, con la conseguente evacuazione e interdizione, infatti, può significare per una famiglia o un intero villaggio la privazione a tempo indeterminato dell’unica fonte di reddito, dell’unico possibile sostentamento. «Qualche tempo fa fummo chiamati a bonificare una porzione di edificio che ospitava un’agenzia di viaggi. Ricordo ancora lo stupore e la gratitudine del proprietario, quando scopri che in eravamo riusciti a rimuovere l’ordigno in pochissimo tempo» racconta lo Staff Officer Eod italiano. «E senza rompere niente» aggiunge, sorridendo.
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La denuncia di una delle vittime, che attacca il primate cattolico
Non si fermano nella capitale gli scontri fra esercito e “rossi”
Belgio, Chiesa sotto accusa: ancora casi di pedofilia
Thailandia sull’orlo della guerra civile
BRUXELLES. André Leonard,
BANGKOK. Un soldato ucciso
primate della Chiesa cattolica belga, avrebbe insabbiato il caso di un sacerdote pedofilo, impedendo che il religioso potesse finire in tribunale. È questa la rivelazione pubblicata dal quotidiano belga De Morgen, che riporta il racconto della presunta vittima, Joel Devillet. Durante gli anni ’80, Devillet sarebbe stato ripetutamente oggetto di abusi sessuali da parte del parroco del suo villaggio, e nel 1996 si sarebbe finalmente confidato con Leonard, allora vescovo della diocesi di Namur: «Lui ha però lasciato fare. È stato varato un accordo finanziario, in base al quale il sacerdote avrebbe pagato un terzo della mia terapia, il vescovo un altro terzo mentre il resto sarebbe stato a mio carico ma nonostante avesse ammesso i fatti, questo sacerdote è rimasto al suo posto per altri cinque anni e ha continuato a fare vittime: Leonard ha fatto di tutto perché si evitasse un processo», ha dichiarato.
da “fuoco amico” e 19 feriti: è il bilancio degli scontri di ieri a Bangkok fra “camicie rosse” ed esercito thai. I dimostranti antigovernativi raccontano scene “di guerra” e annunciano di essere “pronti a combattere fino alla morte”. I militari difendono l’uso di proiettili veri per disperdere la folla, perché «i soldati e la polizia sono esseri umani e i manifestanti hanno attaccato per primi». Continuano le violenze fra “camicie rosse”- vicine all’ex premier in esilio Thaksin Shinawatra e sostenute dal partito di opposizione United Front for Democracy against Dictatorship (Udd) - ed esercito thai. Ieri la capitale è stata teatro di una vera e propria guerri-
Il portavoce del primate cattolico non ha commentato la vicenda, limitandosi a sottolineare come sul caso stia già lavorando la magistratura belga. Nel 2009, la faccenda è infatti finita sul tavolo del tribunale di Namur. Sono invece arrivate le
E il Cairo attacca Hamas e Hezbollah Il governo Mubarak si schiera a favore dell’Occidente di Antonio Picasso
IL CAIRO. Il regime di Mubarak mostra i muscoli contro i nemici dell’Occidente. Ieri Hamas ha denunciato le Autorità egiziane di essersi macchiare di un “omicidio a sangue freddo”. L’accusa è relativa alla morte di quattro palestinesi uccisi dalla polizia egiziana, che avrebbe pompato del gas all’interno di un tunnel che collega il deserto del Sinai con la Striscia di Gaza. «Si trattava di semplici lavoratori palestinesi che cercavano di guadagnare il loro tozzo di pane quotidiano», si legge nella nota diffusa dal movimento islamico. La smentita dell’accaduto è giunta immediatamente dal Cairo. I problemi di gestione del confine tra Egitto e Gaza sono sedimentati ormai da circa tre anni, da quando Israele ha imposto il blocco alla circolazione di uomini e merci fra il suo territorio e la Striscia. Di conseguenza si è venuto a creare un mercato nero di ogni tipo e non limitato al traffico di armi. Dopo “Piombo fuso” inoltre, l’immigrazione dei palestinesi verso l’Egitto è aumentata sensibilmente. Le stime ufficiali parlano di una comunità di 70mila persone. Si può però presupporre una revisione al rialzo di queste cifre. L’opinione pubblica egiziana non nasconde la sua avversione verso la presenza di immigrati che, per quanto arabi, vengono visti come un elemento di destabilizzazione degli equilibri sociali nazionali. Da qui la scelta di erigere una barriera, profonda circa 30 metri che impedisca la viabilità dei tunnel nel sottosuolo. Nel frattempo un tribunale del Cairo ha giudicato 26 persone colpevoli di collusione con il partito sciita libanese di Hezbollah. Si tratta di un gruppo costituito da libanesi, palestinesi, egiziani e un sudanese. Il caso si era già guadagnato in precedenza le prime pagine dei giornali di tutto il mondo arabo.
stregua di come sono considerati in Occidente e in Israele: né più né meno che potenziali terroristi. In realtà, l’accusa formale rivolta dalla magistratura egiziana nei loro confronti è stata di spionaggio. «Per noi è una medaglia d’onore - ha dichiarato Hassan Nasrallah - la loro unica colpa è aver sostenuto la causa palestinese».
L’atteggiamento del Partito di Dio appare anomalo. Strano è infatti che il movimento sciita cerchi di fare proselitismo oltrefrontiera, in un momento in cui si temono scontri con Israele e quando a Beirut i suoi rappresentanti si sono confermati a pieno titolo in seno al Governo di Rafiq Hariri. È come se fosse uno spreco di risorse. Ed è di altrettanta difficile interpretazione la posizione di Nasrallah in merito a Sehab, uno dei condannati nei giorni scorsi. Indicandolo come “suo uomo al Cairo” ne ha automaticamente certificato la condanna in Egitto. Al contrario è del tutto trasparente l’atteggiamento del regime di Mubarak. Nel momento di transizione che sta vivendo - con le incertezze relative al passaggio di consegne del potere fra il presidente e suo figlio Gamal - Il Cairo vuole dimostrare a tutti di possedere una strategia politica chiara. La severità adottata è un messaggio sia per l’Occidente sia per il mondo arabo. L’Egitto non intende fare sconti all’intransigenza di queste “teste calde”, come possono apparire Hamas ed Hezbollah. Certo, i rischi per Mubarak sono di precludersi la possibilità di gestire la mediazione nella frattura interna ai palestinesi, fra Fatah e appunto Hamas. È altrettanto pericoloso mettere in crisi i rapporti con il Governo di Beirut. Infine non sono da sottovalutare le potenziali ripercussioni in seno all’opinione pubblica nazionale, che potrebbe accusare il presidente di schierarsi a fianco dell’Occidente e di Israele, anziché proteggere i suoi fratelli arabi. D’altro canto l’Egitto è la sola potenza regionale di tutto il mondo arabo ed è con queste scelte impopolari che dimostra il suo vigore.
I problemi di gestione tra Egitto e Gaza sono sedimentati ormai da circa tre anni,quando Israele impose il blocco della Striscia
reazioni della Conferenza episcopale italiana rappresentata da mons. Mariano Crociata, segretario generale della Cei. «È sbagliato far credere che in ogni prete si celi un potenziale pedofilo - ha detto - ed è sbagliato supporre che le accuse di pedofilia siano soltanto il frutto di un complotto architettato contro la Chiesa». E a proposito delle insinuazioni rivolte al primate cattolico dalla stampa belga, monsignor Mariano Crociata è intervenuto affermando che «l’emergere di casi puntuali non può dare adito a giudizi sommari di per sé sempre superficiali. È necessario, invece, attenersi il più possibile ai fatti, senza lasciarsi sopraffare dal clamore».
La polemica nasceva dal fatto che il “Partito di Dio” tentasse di raccogliere consensi nel pieno dell’Egitto sunnita e che quest’ultimo trattasse i suoi eventuali sostenitori quasi alla
glia urbana, ma il timore è che gli scontri delle ultime settimane - nonostante gli appelli alla calma e alla concordia dei leader religiosi - possano trascinare la Thailandia in una vera e propria guerra civile.
Fonti locali riferiscono che la crisi ha aumentato il divario fra le masse contadine delle zone rurali e la media borghesia e la classe dirigente, concentrata nella capitale. Di rado i thailandesi “sono stati così divisi” e “la collera è in aumento in entrambi i fronti”. Nel tentativo di contenere una diffusione a macchia d’olio delle proteste, a partire dalla scorsa notte i funzionari addetti alla sicurezza hanno ordinato alla polizia la chiusura di tutte le vie di accesso alla zona occupata dai manifestanti antigovernativi, nel cuore finanziario della capitale. Intanto si fa sempre più pesante il bilancio di morti e feriti. Dall’inizio delle manifestazioni - a metà marzo - sono morte 27 persone, oltre 900 i feriti. L’ultima vittima è un soldato dell’esercito thailandese, ucciso ieri da “fuoco amico”. Egli si chiamava Pvt Narongrit Sala e apparteneva a un corpo di armata con base a Kanchanaburi. Il militare è stato ucciso da un colpo di fucile.
cultura
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Geografie. Il centro e la periferia, l’armonia e il disordine, l’amore insanabile e il desiderio di fuga: il grande scrittore partenopeo ripercorre la storia della sua città
Bellezza mia, mi fai male Un’anima europea e una raccolta intorno al Golfo: Raffaele La Capria racconta la sua Napoli perduta di Rita Pacifici na città ancora sospesa nel mito, eppure precipitata nella Storia che ne ha distrutto l’originaria armonia, un luogo limite dove l’eco della Sibilla resiste al tempo e alla smisurata periferia. Lo sguardo di Raffaele La Capria è da sempre e con forza, radicato a Napoli e nel suo paesaggio, tanto da rappresentare uno dei più intensi e lucidi narratori di questa città troppo amata, troppo descritta e come offuscata da un eccesso di scritture. Per questo parlare di Napoli con Raffaele La Capria significa sottrarre, ridurre, ripulire l’oggetto dalle “incrostazioni” che vi sono depositate per cercarne la forma originaria. Ne emerge una topografia, reale, essenziale, filtrata dalla memoria e dalla letteratura ma che rifugge da un pensiero troppo astratto. Quando “città primaria”, quella creata dalla natura e dalla storia e “città secondaria”, quella costruita dai luoghi comuni, si confondono, Raffaele La Capria aiuta a far chiarezza, a illuminare in una nuova visione la civiltà alla quale appartiene, restituendoci una traccia di «quell’idea della bellezza necessaria a tutti». Lei ha scritto che «una città muore se non viene continuamente ripensata» Quali immagini sceglierebbe per non far morire Napoli? Quando penso alla mia città penso al panorama di questa città che vedevo dalla mia casa a Posillipo, Palazzo Donn’Anna e vedevo un paesaggio antichissimo, anzi preistorico, se lo spogliavo di tutti gli eccessi della modernità, tra due vulcani, il Vesuvio e il Monte Epomeo uniti dai Campi Flegrei, quindi un paesaggio che è situato sopra un magma incandescente e tutto questo dà una forza a quel paesaggio che l’oleografia non riesce a spegnere. Nella mia vita c’è sempre quest’immagine così forte. Questa è la prima cosa. Poi c’è un paesaggio educato dalla cultura e dalla poesia e questo paesaggio noi lo guardiamo con un occhio derivante dalla tradizione che ci è venuta dai poemi omerici, o virgiliano, derivante dalla poesia di Virgilio, ed è omerico lì dove le roc-
U
ce strapiombano sul mare e si riflettono con delle macchie ferrigne sulle acque, come il salto di Tiberio a Capri o la parte scoscesa della penisola sorrentina e dall’altra parte dove c’è il tufo, dove il verde finisce sulla riva, ci ricorda i versi di Virgilio e l’immagine che Virgi-
“
La mia terra è come una madre: è possessiva, è una città che incombe su noi tutti, perché lega il suo destino a quello dei suoi figli
”
lio ha dato di questo paesaggio. Questa è la prima, diciamo così, idea, e noi quando guardiamo questo paesaggio senza accorgercene lo vediamo con l’occhio educato dalla visione dei due poeti. Certamente la poesia offre un varco per sentire ma questa terra vanta un legame con l’antichità anche più diretto ed esplicito, che appartiene al visibile. Napoli forse è la città italiana che è più legata, più intrinsecamente legata, al mondo antico. Basti pensare a Pompei, questa città che ci fa vedere la vita di ogni giorno, ferma al primo secolo dopo Cristo, e poi basta prendere una metropolitana a Napoli e in venti minuti si arriva a Cuma, all’antro della Sibilla, si sentono i versi dell’Eneide non più come cose che si leggono sui libri ma come cose di cui si può fare un’esperienza. Tutto questo succede in poche città. Tra l’altro un’altra caratteristica della nostra città è che tutte queste tracce del mondo antico, mentre a Roma e in altre città
che le conservano sono palesi e si vedono a occhio nudo, a Napoli quasi sempre bisogna andare a cercare nel sottosuolo. Per esempio a Baia, si vede un giardino con una custode, gli si chiede se si può entrare, si attraversa un cancelletto, si scendono dei gradini, e all’improvviso si apre sottoterra, davanti ai nostri occhi, uno spazio immenso, che è quello della “piscina mirabilis”, che era un deposito per rifornire la grande flotta romana del mare nostrum. Tutta Napoli ha una serie di grotte, di zone sotterranee dove queste tracce si trovano. Quanto è importante, questa eredità, per il presente della città? Napoli è una città mediterranea, con un grande patrimonio, e come tutte le città mediterranee vive una storia oramai finita, un grande passato che è stato bloccato dall’arrivo della modernità, per cui quasi tutte le città mediterranee sono città della decadenza, città con un presente ancora incerto. Il passaggio tra il passato e la modernità a Napoli è stato drammatico, non ce l’ha fatta questa città ad andare d’accordo coi tempi. Molte città mediterranee sono come delle enclaves dove rimangono delle tracce di un tempo che è ormai passato ma che molti ricordano con un sentimento di cose perdute e che ancora lì si possono ritrovare. Questa è una delle caratteristiche che rende Napoli una città così cara a molta gente anche ora che sta passando un periodo spaventoso dopo la faccenda dei rifiuti, e tutto ciò che ci ricorda lì la presenza della illegalità e della camorra. Ma tutti questi aspetti negativi non possono distruggere la forza del richiamo che esercita questa città sull’anima di tante persone e io naturalmente sono una di queste, spero nel suo riscatto ovviamente e nella mia
Nella foto grande, una delle sculture romane della collezione Farnese al Museo Archeologico di Napoli. A sinistra, un affresco pompeiano. Qui sotto, lo scrittore partenopeo Raffaele La Capria. A destra, in alto, una veduta di Palazzo Donn’Anna. Più giù, Giuseppe Patroni Griffi e Francesco Rosi
possibilità di contribuirvi. Una definizione ricorrente a proposito di Napoli è quella di “porosità”. “Città porosa” è per Walter Benjamin e per Ernst Bloch. Che significato ha per lei questa caratteristica della città? Porosa perché la parte centrale di Napoli è come una barriera corallina, una barriera dove tutto è nato un po’ a caso, senza un piano urbanistico preordinato, che ha a modo suo degli aspetti positivi e negativi. Posi-
tivi perché è tutto molto naturale e non ha quella freddezza, quell’essere preordinato che c’è nelle costruzioni moderne. C’è poi una porosità che è disordine e naturalmente crea diversi problemi: non c’è nessuna città che ha una periferia così orrenda come la periferia napoletana. La chiamano “la corona di spine”, per dire quanto negativamente incide su tutta la vita della città. Lei pensi che tutto il problema del traffico, della confusione dipende dal fatto che non c’è un rapporto giusto tra questa periferia e il centro… E questa geografia fatta di
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vuoti e pieni, ha contribuito in qualche modo a determinare il carattere dei napoletani? La città di Napoli è come chiusa nell’abbraccio del golfo e questo crea un rapporto particolare fra i napoletani ed il paesaggio, di tipo protettivo. È come se la città fosse chiusa in se stessa, autoreferenziale. Tutto ciò che succede nel vasto mondo rimane lontano. E invece Napoli come importante città del Mediterraneo, come città soglia tra l’Europa germanica e l’Europa mediterranea, dovrebbe esercitare una funzione di città ponte, dovrebbe far sì che ci fosse armonia e non la sepa-
razione che oggi c’è, e lo dovrebbe fare in tanti modi, anche culturalmente. Oggi si pensa a Napoli come una periferia. È del tutto assente ormai l’anima europea della città? No, non è assente, culturalmente c’è, ma non si realizza nei fatti, nei comportamenti, nella società, nella vita civile. Esiste un modo peculiare, proprio soltanto dei napoletani, di rapportarsi alla propria città? Ogni napoletano ha a che fare con la propria città diversamente che un abitante di Roma o Torino, perché Napoli impone delle domande, richiede delle
risposte, mentre sto a Roma da più di cinquant’anni, e ci vivo come in un albergo, non devo dare conto a nessuno di quello che sono. Napoli è una città con la quale devi avere rapporti per forza, è come una madre, è possessiva, è una città che incombe perché si sente che il destino individuale e il destino della città sono come legati, tanto è vero che una delle prime domande che si fanno i napoletani è cosa significa essere napoletani. È una faccenda che riguarda l’identità e non credo sia così altrove. Questa forma di civiltà e questa appartenenza che chiamiamo “napoletanità” è più forte della “milanesità” o della “torinesità”, è un’idea di Napoli che non c’è soltanto nei napoletani ma anche in tutti quelli che amano questa città. Un rapporto complicato che si manifesta nel “poetico litigio” di cui parla nell’Armonia perduta. Ma che in che senso c’è un litigio e perché poetico? C’è tra i napoletani e la loro città un poetico litigio nel senso che non è sempre molto facile trovare delle risposte a queste domande che la città ti pone e quindi, entra in campo la fantasia, questi contrasti sono come i contrasti che esistono all’interno della coscienza di ogni persona, un continuo dibattito… Essere napoletani «non solo non è un’evidenza ma significa non aver concluso la propria sorte» e poi ancora Napoli città che «ti ferisce a morte»… Le sue riflessioni denunciano un “male di vivere” concreto e irrimediabile. Io ho scritto che la città «ti ferisce a morte o ti addormenta» perché spesso siamo feriti dal fatto che la città non offre a chi ci vive tutte quelle opportunità che uno desidererebbe, ci si sente come feriti dal fatto che non sia possibile una vita desiderabile. Io per esempio avevo tante ambizioni quando vivevo a Napoli però non trovavo uno sfogo alle mie ambizioni. Io volevo fare lo scrittore, Francesco
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Rosi voleva fare il regista cinematografico, Patroni Griffi, altro mio caro amico, voleva fare lo scrittore di teatro e noi stavamo insieme e coltivavamo queste ambizioni, ma Napoli non ci offrì la possibilità di realizzarle, dovevamo andare via, separarci dalla ragazza a cui volevamo bene, dal padre, dalla madre, dalla casa, dagli ambienti che avevamo frequentato. E quindi c’è una ferita che è l’impossibilità di vivere nella città che ami perché non hai le possibilità che invece ti offrono altre città. Oppure «ti addormenta» nel senso che se ti lasci andare, ti abitui… La forza dell’abitudine è una forza che ti placa, ti fa desistere da tutte le ambizioni, da tutte le possibilità di iniziative che almeno uno vorrebbe poter esplicare. Quindi “addormenta” vuol dire questo: che diminuisce le facoltà creative in una specie di rassegnazione che è la rassegnazione di chi non ha molte possibilità per esprimersi. Il «discorso sul Mediterraneo ha sofferto della sua stessa verbosità: il sole e il mare i profumi e i colori… lo sfarzo e la miseria, la realtà e l’illusione, la vita e il sogno», ha scritto Predrag Matvejevic. Come fa uno scrittore a non rimanere intrappolato dai miti e dai luoghi comuni? Per uno scrittore parlare di Napoli non è facile, perché Napoli è una di quelle città troppo rappresentate, troppo descritte. Uno scrittore, per riuscire a dire qualcosa di personale, deve uscire fuori da queste rappresentazioni già fatte, già note e deve quindi disseppellirla come fa uno che scava per trovare un reperto antico sotto terra… e non è tanto facile perché le rappresentazioni che hanno incro-
stato questa città sono talmente forti che liberarsene è una fatica più grande che in un altro posto. Io ho sempre paragonato Napoli, queste rappresentazioni che incrostano la città, a un anfora pescata dal mare…. E qui ci vuole un occhio esperto per vedere di quell’anfora la forma della bellezza originaria perché queste incrostazioni la nascondono. Quali sono gli scrittori che più sono riusciti a sfuggire al logoramento della rappresentazione di Napoli? La Ortese, per esempio, e pochi altri. Il dialetto è un altro forte elemento dell’identità della città, un elemento “aggregante nella disgregazione”. Quali caratteristiche apprezza di questo dialetto? Napoli è anche una città di contrasti linguistici perché ci sono diversi dialetti napoletani, non soltanto quello bellissimo di Di Giacomo ma c’è anche il dialetto che abbiamo visto nel film del Gomorra, quale io che sono napoletano non capivo una parola. Voglio dire, c’è tutta una gradualità di dialetti che fanno parte della divisione interna di questa città. Comunque penso che il dialetto napoletano abbia trovato nella canzone un veicolo tale che lo ha reso famoso in tutto il mondo ed è difficile che altri dialetti abbiano trovato un’altra maniera così forte per imporsi. Questo dialetto abbellisce forse un po’ troppo la realtà perché è un dialetto molto armonioso, ma detto questo, il suo valore poetico e il suo valore musicale, quelli nessuno ce li può togliere! Armonia e bellezza sono parole chiave del suo pensiero. Sono ancora necessarie, oggi? È necessario oggi più che mai lo “sguardo estetico” sulla realtà. La bellezza e l’armonia possono ristabilire quella Sacralità (nel testo riveduto dallo scrittore è parola sottolineata, ndr.) del mondo che si va perdendo. La profanazione della bellezza è oggi il peccato più grave. La bellezza è profanata non solo se si distrugge un’opera d’arte, una piazza, una strada, un ambiente naturale o urbanistico con interventi disastrosi, ma anche quando si uccide una persona o si maltratta un animale. L’idea di bellezza e di attentato alla bellezza va estesa.
cultura
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Conferenze. Identità, religioni e mediazione culturale al centro dei seminari della Pontificia Università Gregoriana di Roma
La ricerca del dialogo possibile di Giulio Battioni ulcis in fundo. Doveva essere la esile, invisibile voce di uno smilzo ragazzo dagli occhi a mandorla a pronunciare le parole più significative delle pur generose due ore di seminario accademico. Non era gremita la sala adibita presso Palazzo Frascara, nella Pontificia Università Gregoriana, per un’altra puntata del corso Identità e Religioni, ciclo di conferenze organizzato dall’Istituto di Studi Interdisciplinari su Religioni e Culture. Qualche matricola e molti esperti, laici e religiosi, gesuiti e domenicani, mormoni e musulmani, ad ascoltare l’appassionato e spesso appassionante reverendo Bernard O’Connor, del Pontificio Istituto Orientale di Roma, sul tema Identity compromised? How mediation facilitates dialogue.
D
Doveva essere un fragile studente cinese a concludere i lavori con un paio di osservazioni di una semplicità disarmante. La prima, chirurgica: «Il dialogo interreligioso è essenzialmente un dialogo umano»; la seconda, tremenda e ancora più ispirata: «Ricordate Aldo Moro? Paolo VI chiese il “rilascio incondizionato”. Attenzione, il dialogo non può essere mai “incondizionato”». È difficile inoltrarsi nei territori del dialogo interculturale e interreligioso. Il “ritorno di Dio” è oggidì tutt’altro che “dialogico”, pacifico, umano. In diverse aree del pianeta globalizzato, infatti, le religioni sono fonte di conflitto, discriminazione, persecuzione. Il disfacimento ideologico dell’islam, il fanatismo armato degli hindù, l’intolleranza crescente nel mondo buddista, i culti tribali degli animismi africani, il secolarismo neotribale anticristiano e le dis-informanti campagne mediatiche anticattoliche delle due sponde dell’Atlantico rendono come non mai complicata la convivenza tra i popoli, come non mai impraticabili la libertà di coscienza e il diritto all’onestà intellettuale. La dottrina sociale della Chiesa e la teoria dei processi culturali convergono nel ritenere la “mediazione” uno strumento indispensabile per la umanizzazio-
Sopra, la Basilica di San Pietro e la Sinagoga di Roma, luoghi di culto del cristianesimo e dell’ebraismo. A fianco, la Moschea Blu di Isanbul. Il dialogo tra le differenti religioni nel mondo è stato recentemente oggetto di dibattito alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, nell’ambito del ciclo di conferenze intitolate “Identità e Religioni”
Ogni fede può contribuire alla pace, alla tutela dei diritti e alla promozione del bene comune tramite il “capitale” morale e spirituale di cui ciascuna dispone ne delle differenze e la loro coabitazione positiva. La mediazione culturale è innanzi tutto una metodologia, una tecnica di gestione dei conflitti che presuppone un approccio razionale alla loro analisi e alla loro relativa composizione. La mediazione culturale comporta una predisposizione spirituale e psicologica all’ascolto delle “parti” e all’apprezzamento intimo delle ragioni “soggettive”e alla applicazione rigorosa delle procedure “oggettive”. La me-
diazione è una attività che promuove la reciprocità, la cooperazione e la collaborazione tra più soggetti in causa, dei quali si verificano le diverse logiche e la loro coerenza interna, per poi agevolarne l’incontro e l’integrazione. Non può esservi alcuna improvvisazione in chi opera, a livello civile, politico e non governativo, in Medioriente come nel Sudan, in Iraq come in India o in Afghanistan. Ma gli scenari del conflict management sono innumerevoli e
vanno dal peace-keeping internazionale a terreni di problemsolving strategy che spaziano dalla disputa tra Nepal e guerriglieri maoisti alle ricostruzioni di Haiti o del Sudest asiatico post-tsunami, dai colloqui fra ortodossi e giacobiti in Siria alla polemica tra Gheddafi e la Svizzera del referendum antiminareti, dal processo di denuclearizzazione alle conferenze mondiali sul clima, dalle conversazioni Vaticano-Israele ai contenziosi fra Google e la Cina. Non tutti gli ambiti della mediazione culturale sono strettamente “religiosi”. Allo stesso modo, non tutti i luoghi e le occasioni in cui è richiesta la mediazione culturale sono im-
mediatamente politici o conflittuali. Senza dubbio, però, le religioni possono e debbono contribuire alla pace e alla giustizia internazionale, alla tutela dei diritti umani fondamentali e alla promozione del bene comune attraverso il “capitale” morale e spirituale di cui dispongono. Al contempo, non si può trascurare che le religioni dispongono di un potenziale “polemogeno”, una idea-forza originaria in teoria non negoziabile. Soprattutto le religioni storiche, i monoteismi abramici, consistono in “fedi” in una verità divina rivelata normativa, irrinunciabile, vincolante. Soprattutto le religioni storiche a vocazione universale, il cristianesimo e l’islam, sono a lungo apparse e ancora continuano ad apparire non solo refrattarie ma anche contrarie alle esigenze del dialogo. Ma in realtà, se ambedue sono “teologie”capaci di rispettare le proposizioni delle altre fedi, è solo il cristianesimo che abolisce, con la dottrina della creazione e l’Incarnazione, l’evento del Dio che si fa uomo, la dimensione sacrale, impersonale e violenta della religione per introdurre la salvezza, la vita dopo la morte, nella storia. L’ingresso della salvezza nella storia, nondimeno, non sottrae alla società umana la dignità e l’autonomia che le sono proprie, ma anzi ne asseconda le istanze spirituali e materiali, le libertà fondamentali e le concrete diversità culturali, la giustizia e la concordia interna.
Non bisogna illudersi, però. Come in ogni vicenda umana, il cammino della mediazione culturale e del dialogo interreligioso è spesso soggetto al fallimento. Un fallimento dovuto all’imperfezione della condizione dell’uomo, alle insufficienze della cultura, alla incertezza e alla imponderabilità della circostanze. Ciò non toglie che il dialogo fra culture e religioni sia sempre possibile, alla condizione che se ne condivida il fine e il senso umano, e se ne accettino le eventuali sconfitte, con quel realismo della speranza con cui il curato di Bernanos si congedava dal mondo: «Che importa? Tutto è grazia».
spettacoli eitor Villa-Lobos è stato uno degli esponenti di punta del movimento modernista brasiliano capeggiato principalmente da Mario de Andrade, Emiliano Augusto Di Cavalcanti, Menotti del Picchia e Oswald de Andrade, tutti grandi artisti che furono i protagonisti della famosa Settimana dell’arte moderna di San Paolo nel 1922. Agli inizi certo non fu facile per Villa-Lobos esser riconosciuto in un Brasile ancora molto conservatore, ma dopo aver ricevuto attacchi e critiche, cominciò ad avere i primi grandi successi; specialmente ottenuti in seguito ai suoi viaggi e soggiorni europei che lo rivelarono come uno dei più grandi compositori dell’epoca, specialmente negli Stati Uniti, Francia, Inghilterra e perfino in Italia, dove fu nominato nel 1937 accademico di Santa Cecilia a Roma. Insignito di decorazioni nazionali e internazionali, è stato sostenitore in patria dell’insegnamento della musica a tutti i livelli sociali e ha cercato di diffonderla attraverso il canto orfeônico organizzato con veri e propri corali di massa, popolari, che sono arrivati perfino a contare 12mila partecipanti; a ciò ha aggiunto la creazione, dal nulla, delle più importanti istituzioni accademiche e d’insegnamento musicali del Brasile. Come compositore si può affermare che VillaLobos ha saputo unire l’evoluzione della tecnica musicale europea con le ricchezze ritmiche afrobrasiliane e le melodie e leggende del folklore indigeno locale, rimpastando tutto con la sua straordinaria fantasia e riuscendo a produrre brani originalissimi.
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una forma tutta sua, come d’altronde è avvenuto con le sue Bachianas brasileiras che si pensano come operazione diametralmente opposta: nei Chôros vi è la volontà di rendere classico qualcosa di popolare e nelle Bachianas di rendere popolare quello che era classico. «Bach è una fonte folklorica inesauribile che si è profondamente radicata nelle musiche popolari di tutte le nazioni... un mediatore tra le razze», aveva affermato il Carioca.
H
Musica. I “Chôros” composti da Heitor Villa-Lobos dal 1920 al ’29 in tre nuovi cd
Il modernista carioca che stravolse il folklore di Pietro Gallina
Dopo i primi 3 cd delle 9 Bachianas Brasileiras di Villa-Lobos acclamati dalla critica, l’Orquestra Sinfônica de São Paulo e il Coro della stessa istituzione (Osesp), affrontano i Chôros in un altro ciclo di 3 cd (editi da Bis) curati e supervisionati dallo stesso direttore d’orchestra John Neschling. Tutti composti dal 1920 al ’29 in numero di 16, i Chôros di Villa-Lobos sono pezzi di durata e formazione strumentale molto libera, dall’orchestra e coro, fino al complesso cameristico semplice. Villa-Lobos stesso ce ne offre una descrizione: «Una sintesi di differenti modalità di musica brasiliana indigena e popolare... che in termini classici potrebbe avvicinarsi alla forma di Serenata». La registrazione dei 3 volumi è stata premiata col Diapason d’or riconoscendo nell’esecuzione del n. 7 «una lezione di libertà agogica» e nel n. 11 un capolavoro che ci rivela «un universo acustico infinito». Senza parlare del n. 12 con una poderosa orchestra arricchita da tante percussioni indigene che Villa-Lobos sostiene con equilibrio e con sovrana energia creativa. Nell’ultimo volume ne sono inseriti altri
ro. Il termine è ancora usato, specialmente a Rio, per definire un complesso in genere formato da flauto, oficleide, clarinetto, tromba, trombone, sax, chitarra, cavaquinho, mandolino, pandeiro e altri strumenti a percussione. Lo schema è quasi sempre in tempo pari e si tratta di improvvisare su giri armonici costanti o almeno prevedibili e a turno uno strumento, come in una jam session, diventa solista o dialoga in duetto e trio e così via a tutto l’insieme. Certo Villa-Lobos ha dato ai Chôros
due: una Introduçao aos Chôros e un Chôro bis degli anni 1928-’29 che risentono molto dell’influenza di Strawinsky, Ravel e Debussy. Sull’origine del termine Chôro si dice che provenga dall’Africa, e xôlo infatti significava un concerto vocale con danze. I negri brasiliani continuarono a chiamarlo così nelle feste che si facevano nelle fazendas nella settimana di São João e in altre occasioni simili. Il vocabolo misto al portoghese si trasformó in xôro e nelle zone urbane divenne chô-
La registrazione dei volumi è stata premiata col «Diapason d’or», riconoscendo nell’esecuzione della traccia n. 7 «una lezione di libertà agogica» e nella 11 un capolavoro che ci rivela «un universo acustico infinito» In alto, un’immagine di Heitor Villa-Lobos. Sopra, il direttore d’orchestra John Neschling. A sinistra e a destra, le copertine dei cd dei “Chôros” composti da Villa-Lobos dal 1920 al ’29
Impossibile mantenere stretto Villa-Lobos nella sua furia creatrice, giacché tanti sono i motivi che hanno scatenato questa mente senza requie a comporre quasi 2000 pezzi di musica. Nel Chôro n. 8 del Carnevale Carioca, dove l’orchestra è impegnata fino allo spasimo, i solisti introducono un tema esotico in 6/8 mentre l’orchestra suona in 2/4 raggiungendo un risultato di puro delirio dionisiaco. Il primissimo impatto di Villa-Lobos con l’Europa, non fu però subito positivo: le melodie popolari in Europa avevano cominciato a indirizzare la musica verso nuovi sentieri con uno studio metodico realizzato da Pedrell e Bartok. A Villa-Lobos si rimproverava di non aver effettuato uno studio scientifico del ricchissimo patrimonio di melodie popolari brasiliane, piuttosto di averne fatto parziale raccolta, insieme ai ritmi ricchissimi dei neri e i loro strumenti percussivi, e di aver usato tutto per sé, a esclusivo uso soggettivo. Dopo aver respirato il clima di Parigi, abbandonò i vecchi schemi usati e abbracciò liberamente la forma del Poema sinfonico; poi lo riempì di sovrabbondanti bagliori timbrici, dati anche dall’uso di un’infinità di strumenti a percussione indigeni e africani; si concentrò su nuove melodie, libere armonie fino alla dissonanza e i quarti di tono e usò come testi leggende mitologiche amazoniche in tanti suoi brani o anche facendone solo riferimento nei titoli. Ne venne fuori una specie di folklorismo dalle connotazioni molto originali, una contaminazione tra i suoi ormai raffinati mezzi tecnici compositivi e i rivisitati elementi ritmici e melodici di un pittoresco esotismo tropicale, ma di immensa qualità e grandezza. L’inventiva vibrante di Villa-Lobos, particolarmente esplicita nei Chôros, viene messa in risalto in questa interpretazione di John Neschling con l’Orquestra Sinfônica de São Paulo. Il Guardian ha scritto che la «chiarezza dell’orchestrazione e la vitalità dei ritmi sono meravigliosamente convogliati dall’interpretazione di Neschling e la sua orchestra e che il disco finisce proprio con uno dei più sontuosi pezzi della serie, il n. 12, che rappresenta il più ispirato, discorsivo ed eclettico brano, simile a un modernismo stravinskiano caricato di ispirate melodie del folklore».
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
I dialetti non sono lingue. A chi sarebbero serviti sulle strade? Una decisione inevitabile, la bocciatura dei dialetti del Fvg sulla cartellonistica stradale (udinese, pordenonese, bislacco, triestino), in caso contrario sarebbe stato il caos. Contro la Babele linguistica che si rischiava di creare lungo le nostre strade, la bocciatura era l’unico antidoto. Si sarebbero potuti evitare già a priori alcuni eccessi di ideologismi che non portano, come si è visto, da nessuna parte e rischiano soltanto di distogliere dalle problematiche concrete. La difesa delle identità è sacrosanta, ma da qui a voler inaugurare anche la stagione dei dialetti sulle strade, il passo era troppo forzato e inutile. A chi poteva servire questa campagna linguistica? Trovarsi le scritte geografiche nei vari dialetti a chi avrebbe potuto essere di qualche beneficio? Non certo ai turisti e ai viaggiatori che arrivano da altri luoghi. Ma neppure ad un’ottica di difesa delle peculiarità territoriali, perché esse si possono difendere indipendentemente dai cartelli stradali che di certo non sono il canale di trasmissione migliore per salvaguardare le aree dialettali. L’intera operazione era autoreferenziale. Questo risultato dovrebbe a questo punto far capire che è opportuno concentrare gli sforzi politici su altri obiettivi che non rischiano di essere stoppati.
Ferruccio Saro
RISPETTARE LE PECULIARITÀ TERRITORIALI Conglobare dentro un’unica Doc regionale i prodotti enogastronomici di tutto il Friuli Venezia Giulia, livellando le differenze geografiche e culturali, non credo possa essere la mossa promozionale più adatta ai tempi del mercato che chiede, sì, un’immagine unica e coordinata dei prodotti, ma nel rispetto e nella messa in luce delle differenze fra prodotti, fra territorio e fra tradizioni. Le guerre d’identità combattute con contrapposizioni campanilistiche non portano a nulla di concreto. Nel settore, non soltanto non c’è un’immagine unica e coordinata che metta d’accordo le varie posizioni, ma non c’è neppure un’equilibrata rappresentazione delle diverse caratteristiche produttive e geografiche, con il rischio che i target non comprendano quali sono le peculiarità comuni al ter-
ritorio e, contemporaneamente, le eccellenze regionali da evidenziare con una contestuale ma diversa promozione.
S.F.
BOMBA AD OROLOGERIA IN GRECIA La crisi della Grecia è l’ennesima bomba ad orologeria del sistema europeo, anche perché la posizione tedesca, inerente al veto sugli aiuti finanziari, è funzione di ben altri problemi elettorali che il ministro degli Esteri tedesco ha al suo interno. Sembra strano ma se si guarda all’intero panorama europeo, noi abbiamo una stabilità e delle prospettive migliori di altri, è ciò è il motivo primo della compattezza che da Fini a Berlusconi si deve richiedere per il Pdl: comunicare e confrontarsi è importante se si rispetta il postulato del restare uniti.
Bruna Rosso
Blue Iceberg Un nutrito gruppo di pinguini si riposa sopra un iceberg blu nei pressi dell’Isola Candlemas, nell’Arcipelago South Sandwich, temporaneamente al riparo dai leoni marini di cui sono la preda preferita
BERSANI CONVOCHI UN TAVOLO DEL CENTROSINISTRA Le elezioni sono passate, ora l’opposizione si riunisca in tempi rapidi attorno a un tavolo per mettere a punto un programma e una proposta di riforme condivise, che resta il miglior antidoto contro ogni deriva plebiscitaria.Bersani, leader del maggior partito dell’opposizione, fissi una data, perché ci si deve dare un obbiettivo e una scadenza, presentando proposte concrete sui nodi più importanti, dalla giustizia al welfa-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
re, incalzando Pdl e Lega, senza aspettare che raggiungano nuovi equilibri. Sono convinto che la funzione dell’opposizione non si esaurisca in una guerra perenne, sterile contro la maggioranza, ma debba al contrario essere di stimolo oltre che di vigilanza sull’operato del governo. Quanto a un programma equilibrato e completo di riforme, la strada migliore resta sempre quella di un’Assemblea costituente, da eleggere col sistema proporzionale puro.
Riccardo
The Indipendent del 23/04/10
Donne e crisi, la ricetta inglese i chiama Net-a-porter.com il nuovo business che ha sfondato in tempi di recessione. E se c’è chi riempie uno scatolone con le sue cose e lascia scrivania, desk o pc in cerca di una nuova collocazione, c’è anche chi ha fatto di necessità virtù nell’Inghilterra che si riscopre più povera di quanto volesse. La storia è quella di due donne che sono riuscite a trasformare il loro lavoro in un successo. Si chiamano Natalie Massenet e Cath Kidston. La prima ha cominciato vendendo qualche abito elegante attraverso il cyber spazio. La seconda abbigliamento vintage da un retrobottega al secondo piano di un quartiere di West London.
S
E nonostante abbiano utilizzato differenti modalità di vendita l’altro giorno sono state unite dallo stesso tipo di guadagno. Sono le due persone che hanno saputo costruire il marchio più remunerativo in tempi di vacche magre. E sono riuscite a venderlo a peso d’oro. Net-a-porter.com è un negozio sulla rete che da circa dieci anni vende moda di tutti i generi, dai vestiti alle borse, agli occhiali, tutti rigorosamente firmati. L’altro è una catena di negozi della nostalgia, che vendono dal vintage al modernariato. Ideati e messi in piedi da Natalie e Cath, sfruttando le loro precedenti esperienze. Ora alle loro attività si è interessato un gigante del lusso con base tra le Alpi svizzere e un fondo americano di private equity. Totale dell’offerta da non rifiutare per le due imprenditrici? Semplicemente 450 milioni di sterline. Chi compra vorrebbe espandere le proprie attività in Asia e consolidarle in Inghilterra e ha così deciso di trasformare la Massenet, 44 anni, e la Kidston, 50 anni, in una coppia di donne che veramente non dovranno
più preoccuparsi del loro futuro. Natalie, angloamericana, ha un passato di giornalista per una rivista come Vanity Fair, inizialmente aveva accarezzato l’idea di aprire una catena di coffee shop, prima di cadere nel mondo della moda e delle griffe. Si calcola che la sua quota nella transazione sia di circa 50 milioni di sterline, scucite dal gigante del lusso Richemont. Una società che detiene marchi come Cartier e Montblanc. Solo lo scorso anno dispensava regali firmati impacchettati con seta, ai suoi tre milioni di clienti. Parliamo di un’azienda che è una holding finanziaria con sede a Ginevra, che fattura cinque miliardi di euro all’anno ed ha quasi 19mila dipendenti in tutto il mondo. La Kidston era una non troppo brillante studentessa che nel 1993 stava per fallire, con la sua attività di vendita di prodotti vintage aperta in Holland park.Trattava dall’abbigliamento ai mobili di modernariato. Il suo business della nostalgia ha fruttato bene e la sua parte dell’azienda, circa il 30 per cento, è stato quotato dal fondo americano, circa 25 milioni di sterline. Così la Ta Associate di Boston ha tirato fuori circa 100 milioni di sterline per acquistare l’intera catena di negozi. E la Kidston continuerà a svolgere un ruolo all’interno dell’azienda. Entrambe non hanno voluto commentare l’operazione di vendita. La Massenet si è limitata ad affermare che avrebbe continuato a costruire «un marchio per il lusso del XIX secolo» e la Kidston ha parlato di un progetto d’espansione delle attività. Insomma bocche cucite. Tutte e due hanno raccolto critiche positive per il loro ruolo di pioniere
in settori economici nuovi e remunerativi. E qualche sassolino se lo sono pure tolto. L’ex giornalista nel Duemila si era sentito rifiutare un progetto da un fondo equity perché, dicevano, «le donne non compreranno mai il lusso on line».
Certo, non tutto nasce dal nulla. La Massenet è figlia di una modella di Chanel e di un giornalista americano, oltre ad essere stata sposata con un gestore francese di hedge fund. Diverso percorso per l’altra imprenditrice che ha puntato su un commercio che sostanzialmente piaceva a lei e pensava di poterlo condividere con molti. Ora pensa a espandersi in Giappone, Cina e Hong Kong. Entrambe hanno però pagato un prezzo al successo: niente torte la domenica e dolci pasquali per le feste. Non c’era mai tempo.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Non ci sono certezze, neppure grammaticali... Signora, vi ringrazio infinitamente della vostra lettera così affascinante, divertente, gentile. Le sole persone che difendono la lingua francese (o l’Esercito come durante l’Affaire Dreyfus) sono quelle che “l’attaccano”. L’idea che ci sia una lingua francese, esistente al di fuori degli scrittori e che si debba proteggerla è inaudita. Ogni scrittore è costretto a farsi una sua lingua, come ogni violinista è costretto a farsi un suo “suono”. E tra il suono di un violinista mediocre e il suono (per la stessa nota) di Thibaut, c’è un infinitamente piccolo che è un mondo! Non voglio dire che amo gli scrittori originali che scrivono male. Preferisco - e forse è una debolezza - quelli che scrivono bene. Ma essi non cominciano a scrivere bene che a condizione di essere originali, di farsi la loro lingua. Ahimè, signora Straus, non ci sono certezze, neppure grammaticali. E non è forse meglio? Perché così una forma grammaticale può essere bella essa stessa, perché può esser bello soltanto ciò che può portare il segno della nostra scelta, del nostro gusto, della nostra incertezza, del nostro desiderio e della nostra debolezza. Signora, quale triste follia mettermi a scrivere di grammatica e letteratura. E sono così malato! In nome del cielo non una parola di tutto ciò. In nome del cielo... al quale non crediamo né l’uno né l’altra Marcel Proust alla signora Straus
LE VERITÀ NASCOSTE
Cambogia, si lotta per salvare il S’aoch PHNOM PENH. Con tono stridulo e alto, l’anziano capo della sua piccola comunità parla una lingua sconosciuta a chi lo ascolta. Si tratta del S’aoch, un antico idioma che l’Unesco teme possa sparire nel corso della prossima generazione. A parlarlo è Noi, una delle dieci persone che ancora parlano quella lingua, capo di un villaggio di 110 persone che sanno capire il S’aoch ma non riescono a parlarlo. È l’ultima vestigia di una cultura che sta scomparendo. Non da sola, però: secondo l’Unesco, sono oltre tremila le lingue in pericolo. Di queste, una sparisce ogni due settimane. La Cambogia ha il discutibile primato di ospitarne diciannove: la presa di potere da parte degli Khmer rossi e il loro tentativo di unificare anche culturalmente il Paese ha spezzato le velleità delle numerose etnie che vivono nell’area. E la popolazione, che vive con meno di un dollaro al giorno, ritiene la battaglia per la sopravvivenza delle lingue decisamente inutile, almeno per il momento. Uno dei pocchissimi alleati del S’aoch è Jean-Michel Filippi, linguista francese, che ha imparato la lingua e trascritto circa quattromila parole. Secondo il docente, «quando scompare una lingua, scompare anche una visione del mondo». Il suo compito è, se possibile, ancora più difficile proprio per l’atteggiamento della tribù, che associa il proprio linguaggio a un tempo di povertà ed esclusione dalla società cambogiana, che è etnicamente e linguisticamente khmer.Tuen, il figlio del capo, spiega: «Non usiamo il nostro linguaggio perché il S’aoch è taowk»; la parola significa “senza alcun valore”.Va detto però che la “svalutazione”della lingua è stata ordinata da Pol Pot, che fra il 1975 e il 1979 ha condannato alla morte circa due milioni di persone. E venti lingue.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
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IL GOVERNO DECIDA A FAVORE DELLA NATURA Susanna Tamaro, Maurizio Costanzo, Anna Oliverio Ferraris, Daniela Poggi e Dacia Maraini si rivolgono al premier contro caccia “no limits” all’esame dell’Aula: sarebbe un brutto modo per celebrare l’anno della biodiversità. Un appello accorato al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi affinché il governo si schieri contro la norma che prevede la possibilità per le regioni di allungare la stagione venatoria. «Ci risiamo con lo sterminio legalizzato degli animali», dice Maurizio Costanzo, «ci risiamo ma non lo accettiamo. Gli sterminatori si devono rassegnare al fatto che a qualunque colpo di mano noi reagiremo con ogni mezzo e in ogni modo. A meno che anche gli animali vengano armati e si combatta ad armi pari». Perché la maggioranza degli italiani, che è contraria alla caccia, non viene ascoltata? La natura è un bene di cui fruire e da cui trarre sensazioni positive di gioia, serenità e bellezza. Una minoranza non può distruggere un bene della maggioranza. Non è questo anticostituzionale? Si tratta di ridurre drasticamente i tempi della caccia, non certo di prolungarli. Il nostro problema, oggi, è la salvaguardia della Natura, non certo la sua distruzione. E poi si crea un forte conflitto tra le leggi che si fanno e ciò che viene insegnato nelle scuole. Potenziare la caccia è in contraddizione con il rispetto, la cura e l’ammirazione per l’ambiente naturale che viene insegnato ai più giovani.
Lipu-Birdlife
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Direttore da Washington Michael Novak
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Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
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Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
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Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
BOCCIATE LE PROPOSTE DELL’UDC PER FAVORIRE I RESIDENTI ANZIANI DEL COMUNE DI PISA In questi giorni si sta preparando il regolamento dell’Agenzia casa del comune di Pisa, strumento che dovrebbe aiutare molte persone e famiglie che si trovano nella cosiddetta fascia grigia di povertà, a risolvere il problema della casa. Dalla proposta della giunta comunale scaturisce che potranno usufruire di tale strumento i residenti a Pisa e tutti coloro che, anche di altri comuni, ci lavorano; sono elencati inoltre una serie di condizioni-punteggi da assegnare per stabilire la graduatoria. Come componente (uditore) della seconda commissione consiliare ho proposto, per conto dell’Unione di Centro, un emendamento, a prima vista un po’ provocatorio, che potesse essere utile per aprire una riflessione. Tale emendamento prevedeva di dare alcuni punteggi, considerando gli anni di residenza nel comune di Pisa (da un massimo di 4 punti per coloro che ci risiedono da oltre venti anni ad un minimo di 1 punto per coloro che ci risiedono da 5 anni). Questa proposta serviva evidentemente, da un lato a non fare superare in graduatoria i residenti pisani da coloro che vivono nei comuni limitrofi che lavorano a Pisa, dall’altro favorire, italiani o stranieri che siano, coloro che da un po’ di anni hanno deciso di investire sul nostro territorio contribuendone lo sviluppo, rispetto a coloro che magari si sono trasferiti nella nostra città da pochi mesi. Il Partito democratico ha votato contro questi emendamenti, anche se la maggioranza di questo ha riconosciuto l’importanza di prevedere qualche punteggio per i residenti a Pisa. Vedremo che cosa proporrà. Certo è, che una proposta che qualcuno ha definito di stampo “leghista”, è più soft di quella che il nuovo presidente della giunta regionale Enrico Rossi sembra avere in testa: per quanto riguarda le case popolari ha proposto che vi possano partecipare solo gli immigrati residenti da 10 anni, portato poi a 5 anni dopo le insistenze della sinistra radicale. Insomma anche a sinistra qualcuno, il problema di come gestire una situazione difficile, come quella dell’assegnazione degli alloggi, se lo sta ponendo.Vorrei discuterne anch’io, pacatamente, e trovare le soluzioni più idonee per evitare inutili conflitti sociali e guerre tra poveri che potrebbero far fallire il progetto di una società mlticulturale, multietnica e multireligiosa, che invece auspico. Carlo Lazzeroni P R E S I D E N T E C I R C O L O LI B E R A L PI S A U D I T O R E UD C SE C O N D A CO M M I S S I O N E CO M U N A L E
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ULTIMAPAGINA Reportage. Cartolina dal quartiere di Kreuzberg, dove si festeggia con musica live, buona cucina e guerriglia urbana
Berlino, il doppio volto del di Andrea D’Addio alsicce, wurstel bianchi, classici, al curry, con la senape, dentro a un panino o tagliati a cubetti da mangiare con le forchettine: la cucina tedesca veloce al gran completo. Accanto, su uno di quei tavoli pieghevoli che si tengono in cantina, ecco invece delizie mediorientali. Carne speziata, creme al culino, paste di ceci, minestre allo zafferano, melasse al melograno e stufati di carne con frutta secca. Siamo a Berlino, ma non all’ultimo piano del KaDeWe, il celebre grande magazzino della capitale che all’ultimo piano ospita uno dei ristoranti più rinomati e internazionali del mondo. Ci troviamo nel quartiere (ex Ovest) di Kreuzberg, nella metà denominata “36” (dall’antico codice postale, l’altra si chiama “61”), diventato fin dagli anni Sessanta il più emblematico centro di fusione tra immigrazione turca e vitalità studentesca tedesca.
S
Qui il Primo maggio è una vera festa, almeno nelle ore diurne. «Siamo tutti lavoratori, bisogna celebrarlo». E così, chiunque ne abbia voglia, può scendere in strada e vendere per pochi centesimi (nessuna ricerca di arricchimento, si fissa un prezzo solo per non avere l’assalto) ciò che si è cucinato a casa. Circa un kilometro quadrato di isola pedonale fatto di strade piene di gente che passeggia, mangia, beve birra e, soprattutto, ascolta musica. A ogni incrocio c’è qualcuno che canta, suona o balla. Ci sono giovanissime orchestre vogliose di mettersi in mostra, ci sono il punk, i ritmi latini, il reggae, il blues, il rap e tanto altro. Per circa dieci ore, si assiste a un concerto dopo l’altro, ogni palco è caratterizzato da un tipo di musica come se si fosse a una fiera espositiva. Ecco quindi l’angolo del rock duro e puro tedesco, ma anche, a 200 metri di distanza, i caldi suoni latini dei tanti musicisti sudamericani espatriati nel centro d’Europa. Davanti a una scuola di danza, ragazzini si contendono il titolo di miglior ballerino di
da 22 anni il comune ha preso in mano l’organizzazione della manifestazione e tutto è diventato più professionale. I palchi vengono montati in maniera inappuntabile, netturbini puliscono con frequenza le strade e alle auto è vietato il passaggio. La ragione? Più si amplia e si rende piacevole l’evento, più è difficile per gli immancabili dimostranti utilizzare il pretesto del 1° maggio per fare guerriglia urbana. A partire dalle 18 è infatti ormai tradizione che i volti sorridenti delle famiglie scompaiano ed emergano quelli arrabbiati e protestanti di ra-
della città, a Köpenick, un incontro di estrema destra ha attirato le proteste di circa tremila persone che hanno bloccato le rotaie dei treni per evitare l’arrivo di altri neonazisti, mentre un ragazzo che sul balcone ha esposto una svastica ed esibito il saluto romano è stato bersagliato dal lancio di pietre e bottiglie. Insomma, il Mayfest è festa, ma fino ad un certo punto. «Negli ultimi anni c’è stata una grossa speculazione sulle case di Kreuzberg. Da zona periferica ed economica si sta trasformando in un quartiere borghese dove la creatività e l’arte di
PRIMO MAGGIO
break dance con confronti uno contro uno decisi per acclamazione dal pubblico astante. Nessun divo, uomo politico o bandiera. L’evento è da vivere di persona, non c’è alcuna autoreferenziale diretta televisiva. Si chiama Mayfest e dal 1988 è una delle giornate più colorate e attese dell’anno berlinese. Anche durante gli anni del Muro si spontaneamente a veniva Kreuzberg per festeggiare, ma
chi rimane vengono sfruttate come attrazione per alzare gli affitti. L’amministrazione comunale non tutela i vecchi affittuari, e i contratti vengono rivisti con rialzi anche del 20% da un anno all’altro», ci dice Helmut Hueber, giornalista della RBB, Radio Berlin Brandeburg. Hueber vive a Kreuzberg da dodici anni, e da venticinque insegna tedesco anche nella locale Volksauchshule, punto di ritrovo per i tanti stranieri, soprattutto turchi, che vogliono imparare la lingua.
Nelle piazze come nei vicoli della zona, non compaiono divi, uomini politici o bandiere. L’evento è da vivere di persona, senza le solite dirette tv. Ma solo fino alle 18: dopo arrivano fascisti e antifascisti a “disturbare” la festa... dicali, antifascisti, e studenti. Nel 1987 il maldestro intervento di un gruppo di poliziotti in cerca di vendetta (una decina di autonomi avevano rivoltato una loro auto) contro un pacifico corteo accese la scintilla della pazzia. Un supermercato venne bruciato, molti negozi saccheggiati. Chi l’ha vissuto ne racconta come l’inferno. Da allora, in serata, e in luoghi che già si conoscono dal mattino, episodi di violenza sono messi in preventivo. Fino all’anno scorso sembrava che l’intensità degli incidenti stessero gradualmente diminuendo, ma il bollettino di guerra del 2009 ha riportato tutto su un piano più drammatico: 300 arresti, una ventina di poliziotti in ospedale, molotov, auto date alle fiamme. In Germania per lancio di oggetti contro le forze dell’ordine si viene condannati dai 2 ai 3 anni di carcere senza condizionale. Dall’altra parte
«Le ragioni della manifestazione, almeno se circoscritti alla situazione del quartiere, possono anche essere condivisibili. Purtroppo però questo discorso diventa semplicemente un pretesto per molti per parlare anche di imperialismo e delle questioni più disparate. Ci sono poi persone che arrivano solo per tirare le pietre. Non hanno a cuore il futuro del quartiere, gli piace avere la possibilità di distruggere e di poter restare impuniti grazie alla confusione del momento. Non sono lavoratori, spesso non sanno neanche cosa significa lavorare, vivono il 1° maggio come un gioco. Loro contro la polizia». Quest’anno il comune ha autorizzato un corteo organizzato dai sindacati a nord della città, a Prenzlauerberg. La speranza è che lì si possano convogliare i dimostranti e non dare giustificazioni a chi, reclamando il diritto di protesta, vorrà organizzare spontanei e violenti centri di dissenso. Mitigare i manganelli con manovre diversive, che siano anche wurstel, kebab e musica. A Berlino la tattica di difesa è l’attacco interculturale.