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ISSN 1827-8817 00501

di e h c a n cro

Il genio è un uomo capace di dire cose profonde in modo semplice

Charles Bukowski

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 1 MAGGIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Obama annuncia: «È una catastrofe nazionale. Ora basta trivellazioni»

Un immenso eco-disastro da 6 milioni di dollari al giorno La Marea Nera ha raggiunto le coste della Louisiana di Alessandro D’Amato successo quello che si temeva dal primo giorno: le correnti e i venti hanno spinto sulle coste della Louisiana la Marea Nera che si è sprigionata dall’affondamento della piattaforma della Bp Deepwater Horizon, sprofondata nel Golfo del Messico il 22 aprile. Il presidente Usa Obama ha decretato lo stato di «catastrofe nazionale» e ha annunciato la sospensione del piano di nuove trivellazioni nel Golfo del Messico che era stato fortemente criticato dagli ambientalisti. Anche la Florida ie-

È

ri ha decretato lo stato di emergenza per l’arrivo della chiazza. Intanto la Bp, che ha dichiarato l’intenzione di pagare tutta l’operazione di contenimento e pulizia del greggio che sta uscendo dalla piattaforma, comincia a fare i conti dei costi. Per ora, si parla di 6 milioni di euro al giorno solo per cercare di contenere la fuoriuscita. Ma il vero colpo economico alla British Petroleum arriverà nel momento in cui dovrà pulire il mare e le coste. a pagina 8

Fini: «Italo cacciato senza una ragione». Il governatore pugliese lancia un’Opa sui Democrats

Due partiti a pezzi Lo scandalo Scajola e il caso Bocchino stremano il Pdl. Il Pd assediato da dentro (Veltroni) e da fuori (Vendola). E dovrebbero fare le riforme...

L’approfondimento. Che cosa si può fare per evitare che Roma finisca come Atene

L’attacco all’Euro e l’impotenza italiana La battaglia del rating dimostra che qualcuno punta sulla fine della moneta unica. O la nostra politica torna a muoversi o saranno guai. Intanto è allarme inflazione e disoccupazione Enrico Cisnetto e Carlo Lottieri • pagine 4 e 5 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

VIA DELL’UMILTÀ

VIA DEL NAZARENO

Scene da fine impero: il popolo dei tradimenti incrociati

Scene da primarie folli: perfino Nichi può pensare a Palazzo Chigi

di Riccardo Paradisi

di Errico Novi

ROMA. Invece di tirare un sospiro di sollievo il Pdl avrebbe dovuto trattenere il fiato di fronte ai risultati delle elezioni regionali dello scorso 28 marzo. Sì perché, malgrado l’evitato disastro delle fosche previsioni della vigilia, è stato proprio il consolatorio quadro emerso dalle amministrative a innescare la miccia della deflagrazione dell’auditorium della Conciliazione, a scatenare lo scontro tra i cofondatori del partito e, a cascata, l’esplosione delle altre contraddizioni nel Popolo della libertà. Fino agli ultimi guai immobiliari che si sono abbattuti sul ministro Claudio Scajola. segue a pagina 2

ROMA. Nichi Vendola impu-

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

83 •

gna le primarie, un’arma che agli occhi dei dirigenti democratici ha le sembianze fatali del boomerang. In una intervista fiume a RaiNews24, ieri ha spiegato con civetteria che le primarie «sono uno strumento fondamentale, un momento di fertilizzazione del terreno sociale e culturale, un modo di sparigliare i consueti giochi della politica». E siccome lui non ha un partito che lo sostenga verso Palazzo Chigi, perché non approfittare del taxi Pd, a suo modo di vedere allo sbando e senza guida? Un’Opa vera e propria. Lanciata - pare - con il sostegno di Walter Veltroni. segue a pagina 3 WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Un saggio del filosofo americano

Oltre la crisi

Le mie tre proposte per tornare al capitalismo etico e battere la povertà di Michael Novak a crisi economica non ha causato solo l’impoverimento delle famiglie, ma ha portato con sé alcuni effetti positivi innegabili. Tra questi (almeno per gli Usa), la drastica diminuzione del debito personale, con particolare riferimento alle carte di credito; una nuova consapevolezza del fatto che il matrimonio è qualcosa di più di un legame emotivo, vale a dire «una sorta di associazione economica e una rete di sicurezza sociale»; una lieve riduzione (o almeno un posticipo) dei divorzi, e meno soldi investiti in vacanze e distrazioni costose che portano i genitori lontano dai propri figli.

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IN REDAZIONE ALLE ORE

a pagina 24

19.30


prima pagina

pagina 2 • 1 maggio 2010

Degenerazioni. Ormai volano gli stracci. Fini difende Bocchino mentre i “berluscones” attaccano: «Sono dei traditori»

Pdl, si scava tra le macerie La rottura definitiva tra i cofondatori, i colpi bassi mediatici, le inchieste giudiziarie (l’ultima sul ministro Scajola): anatomia d’un partito stremato di Riccardo Paradisi

Denis Verdini, è implicato nell’inchiesta sulle irregolarità della «cricca» formata da Anemone, Balducci e Bertolaso

ROMA. Invece di tirare un sospiro di sollievo il Pdl avrebbe dovuto trattenere il fiato di fronte ai risultati delle regionali dello scorso 28 marzo. Sì perché, malgrado l’evitato disastro delle fosche previsioni della vigilia, è stato proprio il consolatorio quadro emerso dalle amministrative a innescare la miccia della deflagrazione dell’auditorium della Conciliazione, a scatenare lo scontro tra i cofondatori del partito e, a cascata, l’esplosione delle altre contraddizioni nel Popolo delle libertà.

Contraddizioni che nel corpaccione del Pdl covavano latenti da tempo affiorando come correnti carsiche con intervalli sempre più ravvicinati e con intensità sempre maggiore. Il confronto tra il premier e il presidente della Camera sui temi caldi della giustizia e della gestione interna del partito – con le pressanti e inevase richieste di Fini di maggiore rappresentanza interna – sono stati la costante della storia del Pdl dall’atto della sua nascita, il 28 marzo 2009. Una costante a cui si aggiunge la variabile dell’inchiesta sulla Protezione civile, che vede coinvolti non solo Guido Bertolaso e aòcuni imprenditori suoi amici, ma niente meno che il coordinatore del Pdl Denis Verdini. È un episodio che mette a nudo divisioni e guerre interne al Pdl. Nella sponda finiana,Verdini è considerato l’uomo forte del berlusconismo, talmente forte da potersi giocare nelle lotte di potere interne al Pdl una sua partita individuale, costruendo una

Il ministro Scajola avrebbe avuto in dono dall’imprenditore Anemone un appartamento nel cuore di Roma

cerniera di congiunzione tra gli ex An, ormai lontani dal presidente della Camera, e gli ex forzisti più autonomi, isolando così i finiani alla sinistra del partito in un ruolo di opposizione interna minoritaria. Ma il lavoro politico di Verdini è sgradito, anche all’ala più berlusconiana del Pdl, quella che fa capo all’altro coordinatore del Pdl, il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi. Di Verdini i berlusconiani di più stretta osservanza, teorici e assertori del partito a leadership carismatica e avversi anche a un embrione di istituzionalizzazione correntizia, hanno tenuto in gran sospetto la partecipazione al convegno di Arezzo del 23 gennaio dove i cosiddetti dorotei – moderati ex An e berlusconiani – volevano costruire un luogo di mediazione dei conflitti. Contro Verdini insomma convergono a tenaglia interessi di due settori del Pdl strategicamente antagonisti ma tatticamente uniti dall’obiettivo di impedire la creazione di un corpo intermedio nel partito. L’inchiesta su Verdini potrebbe semplificare il gioco se desse seguito alle sue dimissioni che alcuni finiani non fanno segreto di caldeggiare come “opportune”. A un certo punto questo schema si rovescia. Berlusconi si convince che spingere alle dimissioni Verdini potrebbe apparire un atto di cedimento nei confronti di quelle che chiama le pressioni indebite della magistratura, decide una nuova rivoluzione dall’alto: rimettendo in pista i

La rottura tra Fini e Berlusconi a molti sembra definitiva dopo la lite in diretta tv alla direzione del Pdl

club della libertà di Maria Vittoria Brambilla. Ma sono misure insufficienti a disciplinare l’anarchia feudale del partito che durante le regionali si dispiega senza freni. Nella formazione delle liste e nella scelta dei candidati governatori il Pdl appare un partito diviso sul territorio, ostaggio dei cacicchi locali: lo dimostra clamorosamente il caso pugliese – con il sostegno della candidatura di Rocco Palese e il siluramento di Adriana Poli Bortone. In Veneto e Piemonte poi il Pdl sceglie di tenere una strategia di devoluzione verso la Lega consegnandole due regioni. Ed è appunto il risultato delle regionali a fare esplodere le contraddizioni. L’avanzata del

Italo Bocchino si è dimesso da vicepresidente del Gruppo alla Camera: «Sono stato epurato», ha denunciato

Carroccio spinge Fini e gli ex di An a lanciare l’allarme: 20 seggi in meno al nord al Pdl in favore del Carroccio, la golden share del governo a Bossi, soprattutto l’esclusione del presidente della Camera dalla riunione di Arcore successiva alle elezioni, dove viene discussa la bozza Calderoli sulla riforma costituzionale. Nodi che vengono tutti al pettine della direzione nazionale, compresa la guerra mediatica interna al partito. Bondi rinfaccia agli ex di An le bordate di Farefuturo contro il berlusconismo, Fini replica ricordando gli attacchi personali che nei suoi confronti Fel-

cale del berlusconismo di nuovo in azione: «È giunta l’ora – dice il ministro Brambilla – che Fini scopra le carte. Ha utilizzato l’alto scranno che occupa come megafono per una linea politica in palese contrasto con quella del capo del suo partito e del capo del governo. Questo paradosso comincia ad essere difficile da sostenere». Un’analisi che per qualcuno annuncia un regolamento di conti tramite un Predellino due e elezioni anticipate. Per soprammercato arriva sul tavolo politico anche l’inchiesta su una presunta speculazione immobiliare privata del ministro Claudio Scajola.

I finiani minacciano ostruzionismo su ogni provvedimento non previsto dal programma elettorale. Il “ritorno” della Brambilla tri ha vibrato dalle pagine del Giornale. Lo scontro tra Berlusconi e il presidente della Camera è durissimo e le conseguenze sono la cronaca di questi giorni e di queste ore. Dalla frattura si generano le dimissioni di Italo Bocchino da vicecapogruppo vicario del Pdl alla Camera, che lo stesso Bocchino e Fini definiscono un’epurazione. Una lettura violentemente contestata dall’ala più radi-

Su Generazione Italia, il sito di Bocchino che doveva essere l’aggregatore della corrente finiana, si chiede al governo di rilanciare la sua immagine crinata dal caso Scajola, accelerando l’iter del ddl anticorruzione. Sempre Bocchino minaccia poi ostruzionismo su ogni passaggio legislativo: «dovranno convincerci su ogni voto». È anche la risposta al Giornale di Feltri che giovedì pubblicava un’inchiesta su soldi Rai alla suocera di Fini e ieri su un appalto Rai, di sei milioni di euro, alla moglie di Bocchino. Volano gli stracci nel Pdl, un partito nel caos e in stato confusionale su cui sembra modellarsi specularmente il Pd. Una pulsione mimetica alla disintegrazione che fa apparire i due maggiori partiti italiani figure allo specchio di un bipolarismo diventato teatro della decomposizione di ciò che doveva esser il bipartitismo italiano.


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Massimo D’Alema è al centro delle polemiche nel Pd per le sue presunte “aperture” a Gianfranco Fini

Nichi Vendola si scalda i muscoli sperando di ottenere una candidatura alla leadership dell’intera sinistra

1 maggio 2010 • pagina 3

Antonio Di Pietro prosegue con la sua strategia di aggressione soprattutto nei confronti del Pd

Matteo Renzi, il giovane sindaco di Firenze, è accreditato come leader della corrente giovanilista del Pd

Colonialismi. Nuovo affondo del leader di Sinistra e libertà: «I vertici democratici accusano un importante stato confusionale»

L’Opa di Vendola sul Pd

Mentre al Nazareno si litiga sugli «interlocutori», il governatore pugliese è già pronto alle primarie di coalizione: «Questo centrosinistra è vecchio» di Errico Novi

ROMA. Con tono solenne, in uno studio non proprio dalla sua parte, Pier Luigi Bersani sancisce: «Questa è la linea del Pd, il resto sono chiacchiere». Gli altri, Travaglio compreso, lo guardano, e zitti. È come se si dessero di gomito: «Lasciatelo fare, non lo contraddite». Perché come fa Pier Luigi Bersani a dire che «è questa» la linea del Pd? Ora, non conta tanto il soggetto della rivendicazione fatta ad Annozero – che per inciso è il «patto costituzionale» contro il populismo. Non è il dettaglio, l’episodio particolare, che conta: è il senso generale della frase. «Questa è la linea del Pd, il resto sono chiacchiere» fa quasi tenerezza. Basta ricordarsi di tutte le sconfessioni, le divisioni, i distinguo sollevati puntualmente dalle varie minoranze interne. Su tutto. Sul «patto» con Fini e Casini come sulla giustizia. Sulla candidatura di Emma Bonino come sulle riforme costituzionali. È un continuo guardarsi l’ombelico, contraddirsi a vicenda, litigare con autistica pervicacia. Questo è il Pd. Nonostante la buona volontà di Pier Luigi Bersani. E mentre un competitor come Nichi Vendola dà del «vecchio» a tutti e annuncia «tempi nuovi».

Ora questa anarchia politica ha prodotto alcuni risultati. Tutti negativi. Primo: la sconfitta alle Regionali. Al Pd è andata male, molto peggio del previsto. Perso il Lazio, perso il Piemonte, strapersi i feudi neoborbonici di Campania e Calabria. Resiste la dorsale appenninica, con la coda del subappenino dauno, Puglia e Basilicata. E oltretutto la Puglia è

diventata il seno dove s’alleva la “serpe” Nichi. Punto secondo: chiuse le urne, si è subito aperto un dibattito sulla struttura da dare al partito. Con esito surreale. Anziché assumere per quello che era la provocazione di Prodi sui venti segretari che eleggono un primus inter pares, la si è presa alla lettera. Rigettandola, ovviamente. Ne è venuto un restyling statutario che vorrebbe razionalizzare le spinte centrifughe ma che non aiuta a sciogliere alcun nodo strategico. Anzi: resta inevasa la domanda di una linea più congrua alla “questione settentrionale”, domanda avanzata dallo stesso Prodi, da Chiamparino, da Cacciari. Ma proprio mentre s’affievolisce il grido di dolore cisalpino, ecco avventarsi sul travagliato corpo democratico la temeraria scommessa di Vendola. Da Sud, con un drappo meridionalista sfacciatamente issato sui disastri delle giunte appena sconfitte di Bassolino e Loiero. E la scena evoca la terribile idea della tenaglia: Chiamparino da una parte, Vendola dall’altra. In mezzo un Pd romano troppo inerte, diviso e quindi evanescente.

Dilaga, il governatore della Puglia. E impugna le primarie, un’arma che agli occhi dei dirigenti democratici ha le sembianze fatali del boomerang. Dice con civetteria impudente che le primarie «sono uno strumento fondamentale, un momento di ferti-

lizzazione del terreno sociale e culturale, un modo di sparigliare i consueti giochi della politica». Sparigliare, certo: nella fluviale intervista trasmessa ieri da RaiNews24, il governatore della Puglia non svela il trucco. Che è semplice: lui non ha un partito in grado di sorreggerne le ambizioni da premier. Così non può far altro che approfittare dell’anarchia del Pd, usare le primarie come cavallo di troia e colo-

nizzare un elettorato allo sbando. Mentre ancora prosegue il delirante dibattito sull’affidavit di Massimo D’Alema a Fini (in fondo l’ex premier ha solo detto che il presidente della Camera è un «interlocutore») Vendola si fa strada come un bulldozer: «Quanta vecchiezza c’è nella politica dei centrosinistra. Dobbiamo far entrare aria fresca: se non è il credibile annuncio di tempi nuovi, il centrosinistra non è». I leader del Pd? «Si comportano come gli esorcisti, cercano di far sparire la realtà che è sgradita». Quindi la coltellata: «Nella leadership democratica c’è uno stato confusionale importante, prevale la propensione a discutere di assetti di potere anziché di programma dell’alternativa».

A furia di dividersi su ogni cosa il partito ha spalancato la strada al populismo di sinistra e chiuso la via riformista

È il primo colpo della campagna da candidato premier. Seguirà l’appuntamento a Firenze annunciato da Di Pietro sulla Stampa di ieri: spazio a De Magistris, magari a Santoro. Con la sua sterile conflittualità interna, il Pd è riuscito a favorire la crescita di opposti populismi: a destra quello di Berlusconi e Bossi, a sinistra quello di Vendola. A furia di avvitarsi nei propri contrasti, i democratici non hanno scelto una linea riformista e moderata ma hanno trasformato Nichi in un gigante del populismo di sinistra. In grado persi-

no di promuovere la sua vocazione di affabulatore come la sola strada disponibile per battere l’avversario. «Dobbiamo ritrovare il vocabolario giusto per affascinare, per essere credibili come costruttori di un’alternativa di governo», dice ancora il presidente pugliese nell’intervista a RaiNews24. Serve la parola che affascina. Lui la possiede e ne farà l’arma vincente alle eventuali, future primarie del centrosinistra. Col rischio di riuscirci, vista la paralisi strategica del Pd.

E l’ambizione di Veltroni per un partito a vocazione maggioritaria? Bersani per fortuna ha energicamente archiviato la chimera del predecessore. Ma rischia di trovarsi soffocato da una sorta di doppio minoritarismo: Pd minoritario nei confronti della destra populista ma anche rispetto al populismo di sinistra. Incapace di scegliere una linea politica vera, autonoma, riformista e moderata insieme, perché troppo condizionato dalle sue opposizioni interne. Da Franceschini e Veltroni, che a furia di reclamare più antiberlusconismo si ritrovano scavalcati da Vendola. Dai popolari di Fioroni che fanno scontare l’impossibile sintesi in chiave moderata con la richiesta di maggiori spazi di potere. Dagli azionisti occulti, cioè da Repubblica, da Di Pietro, da Grillo, che nell’opinione pubblica spesso hanno più seguito del segretario e su molti dossier, giustizia in primis, dettano la linea. Con il rischio che a furia di perdersi nei labirinti, il Pd si trasformi in una dependance del signore delle Puglie.


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l’approfondimento

Quella che sta investendo il Vecchio Continente sembra solo una crisi economica. E invece riguarda soprattutto le istituzioni

L’Aggressione e l’Impotenza

L’atteggiamento delle agenzie di rating dimostra che nel mondo qualcuno sta puntando sulla fine dell’Euro. Nessun Paese è fuori pericolo, non soltanto i meno forti. Perciò o la nostra politica torna a muoversi o presto arriveranno i guai di Enrico Cisnetto eurosistema è come il bipolarismo italiano: si sta squagliando. Da anni. Lentamente, ma inesorabilmente. E ora siamo vicini al redde rationem. Viene da fare questo parallelo, molto meno ardito di quanto non si pensi, a leggere contemporaneamente la vicenda della Grecia, con il pericolo di contagio di altri paesi europei fino a mettere il discussione la moneta unica, e quella interna al nostro sistema politico. Perché se non c’è dubbio che quanto sta accadendo alla Grecia – rischio di default per il violento attacco speculativo al debito di quel paese, derivante dal combinato disposto della sua scarsa crescita economica con il mancato controllo della dinamica della finanza pubblica – è da ricondursi non al singolo caso ma all’intero impianto dell’euro, altrettanto chiaro è il fatto che la rissa che si sta consumando dentro il Pdl non è un episodio, ma l’ennesimo sintomo di una malattia corrosiva che sta dilaniando il nostro sistema politico da quando è apparso evidente che tanto il centro-sinistra (dopo i cinque anni pieni della legislatura 19962001 e il biennio sciagurato dell’ultimo Prodi) quanto il centro-destra (dopo il

L’

deludente quinquennio 2001-2006 e la non meno inconsistente prima parte della legislatura in corso) non sono in grado di produrre una quantità sufficiente e decente di governo del paese.

Partiamo dall’euro. Quanto è accadu-

to la speculazione internazionale, che ha visto nell’Europa l’anello debole della catena della globalizzazione mondiale. Di conseguenza, si è cercata la tessera più fragile nel puzzle di Eurolandia, individuandola nella Grecia. Ma chi oggi, brandendo l’arma impropria dei ra-

to è chiaro ed evidente: paradossalmente, il mondo ha affrontato la crisi finanziaria e recessiva iniziata nell’estate del 2007, causata da un eccesso di debito planetario, creando nuovo debito. Stavolta tutto pubblico. L’Europa non è stata da meno, con l’aggravante che la sua capacità complessiva di uscire dalla recessione si è rivelata nettamente minore di quella non solo dell’Asia e taluni paesi del Sudamerica, ma anche degli stessi Stati Uniti (non a caso ieri è stato annunciato che l’economia americana è cresciuta nel primo trimestre del 3,2%). Per questo il binomio «bassa crescita & alto debito» ha attrat-

ting, attacca Atene certo non ha messo nel mirino solo il paese ellenico, ma l’euro nel suo insieme. Insomma, per

dirla senza reticenze: nel mondo si sta scommettendo sulla fine dell’Europa, intesa come nucleo di 16 paesi che hanno una comune moneta in tasca.

E la scommessa la stanno vincendo, se è vero che il Vecchio Continente ci ha messo mesi per fronteggiare il pericolo di un default greco, dividendosi tra i fautori del rigore (lasciamo Atene al suo destino, così diamo un esempio agli altri paesi poco virtuosi e fermiamo la speculazione sul nascere) e coloro che erano favorevoli a finanziare la Grecia per consentirle di rimborsare i titoli pubblici in scadenza; poi ha dovuto prendere tre decisioni a distanza di pochi giorni l’una dall’altra per arrivare a farsi chiedere i soldi dal governo greco e a darglieli (fra poco), lasciando così che i tassi salissero fino a diventare a due cifre e dunque passando da un im-


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Ieri il ministro Tremonti, a Berlino per l’Aspen, ha lodato la tenuta dei titoli pubblici

Roma non diventerà Atene. Ma solo se fa le riforme

Il vero pericolo è che il nostro governo, come gli altri deboli dell’Ue, consideri gli aiuti come un paracadute che giustifica l’immobilismo di Carlo Lottieri a situazione finanziaria greca (ma ormai anche portoghese e spagnola) è sempre più difficile. Stavolta le principali agenzie di rating hanno in qualche modo fatto il loro mestiere, il che ha contribuito a far schizzare verso l’alto gli interessi da pagare. In un’ampia parte d’Europa, ci si trova quindi a fare i conti con debiti pubblici già onerosi che lo sono divenuti ancora di più. In particolare, Atene e le altre capitali nei guai sono entro una spirale perversa, perché più l’indebitamento è considerato “a rischio” e più esse saranno costrette a pagare alti interessi sul debito, aggravando ulteriormente il quadro.

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Anche per questo motivo le resistenze della Germania – dove l’opinione pubblica è massicciamente contraria a sborsare un solo euro per rimediare alle “carte false”della politica ellenica – sembrano ormai molto affievolite. Alla fine, anche il governo di Angela Merkel si allineerà agli altri e darà il proprio contributo per sostenere i conti pubblici greci: tanto più che le banche tedesche si sono molto esposte nel Peloponneso. Ormai non è più tanto in discussione “se” vi sarà l’aiuto, ma “quanto” la Grecia sarà costretta a cambiare: quali insomma saranno le condizioni che dovrà ingoiare per evitare il dissesto completo. In linea di massima, i tedeschi si sono risolti a pagare perché le difficoltà della Grecia gravano ormai su tutti gli europei, dato che quel Paese è parte integrante dell’Europa e per giunta fa parte a pieno titolo del “club dell’euro”. Una soluzione sensata sarebbe consistita nel far ritornare la Grecia alla dracma, ma è anche vero che i tecnocrati di Bruxelles hanno costruito una moneta unica che non prevede procedure di uscita. E ora non possiamo stupirci se quindi è lo stesso euro che ogni giorno perde quota. Comunque andrà a finire, sarà un disastro. Stiamo infatti scontando sempre di più le conseguenze di un falso federalismo europeo, caotico e deresponsabilizzante, centralizzatore e burocratico. Abbiamo accorpato Paesi molto diversi non già in un unico mercato (come sarebbe stato giusto e possibile), ma all’interno di un fitto sistema di direttive, con una sola valuta, con programmi redistributivi fallimentari e, soprattutto, dominato da una logica che ha escluso la possibilità stessa che qualcuno possa essere chiamato a pagare per i propri errori. I greci hanno falsificato i loro conti: tutti gli europei ne pagheranno il conto e in realtà già lo stanno pagando. A questo punto è difficile essere ottimisti. Apprestandosi a salvare la Grecia, è l’intero gruppo dei cosiddetti

“maiali” (i Pigs: Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, ma la “i” può essere intesa anche come Italia...) che si sentirà autorizzato ad abusare della protezione assicurata. Se oggi la Grecia non paga fino in fondo le conseguenze dei propri errori, perché mai dovrà farlo poi il Portogallo? E perché mai gli altri dovrebbero agire in modo virtuoso, se c’è sempre un qualche Pantalone pronto a venire in soccorso? Il federalismo si basa sulla responsabilità, oppure non è più tale. Molti sottolineano che la situazione italiana sarebbe diversa in quanto il nostro debito sarebbe in qualche modo “coperto”da un notevole risparmio privato. Le formichine di provincia, insomma, potrebbero compensare i scialacquatori di Stato. La cosa non può però tranquillizzare del tutto, dato che qualcuno do-

mare le conseguenze a lungo periodo della scelta di correre in soccorso di quel Paese. L’intervento, in effetti, sottrae i singoli Paesi alle proprie responsabilità e soprattutto indebolisce – in Spagna, in Portogallo, in Irlanda, anche da noi – la posizione di chi chiede al governo di mettere veramente ordine nei conti: a partire dal debito pubblico e dal sistema previdenziale.

Venendo più specificamente ai guai italiani, è urgente che una politica economica fino ad oggi “tutta difensiva”, e cioè volta a limitare (pur con più un’eccezione) gli eccessi di spesa, sappia farsi anche “d’attacco”, e inizi quindi a scommettere su un nuovo dinamismo economico. Ieri il ministro Giulio Tremonti, a Berlino per un convegno dell’Aspen Institute, ha mostra-

Bisogna subito ridare slancio alla produzione. Ma anche tagliare spesa statale e tasse. E aprire il nostro mercato ai Paesi stranieri vrebbe spiegare ai titolari dei bond nazionali (un gran numero di famiglie, tra gli altri) che quel loro capitale, tra poco, potrebbe valere poco o nulla. Perché se è triste scoprire di avere un enorme debito da pagare nei riguardi di altri, non è neppure una bella notizia sapere che il proprio risparmio si è dissolto come neve al sole.

L’Italia deve anche preoccuparsi per le conseguenze indirette che deriveranno a tutto il Vecchio Continente da questa vicenda. Il deprezzamento dell’euro già ci rende più poveri e produrrà un aumento dei beni d’importazione: a partire dal petrolio. Ma siamo solo all’inizio. Perché se fino ad ora la moneta europea è stata gestita con un certo rigore, grazie al “controllo” tedesco sulla Banca centrale e grazie all’assenza di un governo nazionale quale partner unico della moneta stessa, il salvataggio della Grecia sta velocemente dissolvendo il credito guadagnato dalla valuta europea in questi anni. Non bisogna neppure sottosti-

to grande soddisfazione per il buon andamento dell’asta dei titoli pubblici. Proprio in quel momento, però, l’Istat andava diffondendo dati che devono fare riflettere, poiché a marzo il tasso di disoccupazione in Italia è arrivato all’8,8% (+1% rispetto allo scorso anno) e la disoccupazione giovanile (15-24 anni) è addirittura al 27,7%: il tutto mentre l’inflazione sale. Bisogna dunque ridare slancio alla produzione, e al più presto, ma se non si tagliano spesa pubblica e tasse, se non si liberano le forze economiche aprendosi ai mercati stranieri e liberalizzando quelli interni (le professioni, ad esempio), se non si mettono sul mercato i vecchi pachidermi del capitalismo di Stato che servono solo a distribuire potere e prebende (si pensi alle banche), ebbene, se non ci si muove con determinazione per creare le condizioni di una crescita robusta, l’Italia continuerà restare dalle parti dei maialini europei che sono “a rischio”. Seguitando a sperare che quella “i” continui a indicare l’Irlanda.

pegno di 30 miliardi (più 15 dell’Fmi) ad un complessivo quattro volte tanto. Se a questo si aggiunge il tormento, consumato pubblicamente, del governo tedesco, più che diviso su questa questione, e si aggiunge la palese dimostrazione della fragilità della costruzione del club dell’euro, non fosse altro perché nessuno aveva previsto a Maastricht che un giorno un paese membro del club avrebbe potuto andare a gambe all’aria, allora si capisce come tutto congiura a dimostrare quanto sia stato efficace l’attacco al cuore dell’euro. È chiaro, dunque, che la speculazione non si fermerà qui: dopo la Grecia, sarà sì la volta di altri piccoli, come Portogallo e Irlanda, di cui già si parla, ma se l’obiettivo è Eurolandia, c’è da aspettarsi che la speculazione aggredisca anche e soprattutto i paesi più grandi e quindi maggiormente in grado di mandare in tilt il sistema. Italia non esclusa.

Per questo, al di là dell’ostentazione di tranquillità e fiducia che il governo ha mostrato in questo frangente – assolutamente necessaria, sia chiaro, altrimenti i mercati avrebbero interpretato qualsiasi altro umore o comunicazione come il segno di una pericolosa debolezza – bisogna che ci si predisponga anche al peggio. Come? Prima di tutto facendo un salutare bagno di consapevolezza – materia prima rara, tranne alcune eccezioni – e poi attrezzandosi con coraggio e fantasia a fare alcune scelte atte a prevenire il male – cosa notoriamente meno dolorosa del curare – scelte che sono riassumibili nelle famose riforme economiche strutturali. Sì, proprio quelle di cui si parla da tempo immemorabile e delle quali Berlusconi e sodali si sono riempiti la bocca – sempre genericamente, per carità, hai visto mai che domani qualcuno possa chiederne conto – subito dopo le elezioni regionali. «Chiusa la stagione delle elezioni, finalmente si apre quella delle grandi riforme», è stato il mantra del premier, senza spiegare perché nei primi due anni della legislatura – cioè proprio quelli in cui si possano più agevolmente fare le riforme – non è successo nulla di nulla. Peccato, però, che il primo mese di questi tre anni di legislatura senza elezioni sia stato riempito non da un dibattito su quali riforme fare e come, ma dalla cronaca deprimente di una guerra senza quartiere interna al Pdl e alla maggioranza di governo. Un viatico niente affatto rassicurante per quanto potrà accadere prossimamente, tant’è vero che il tema più gettonato è quello delle eventuali elezioni anticipate. Se a questo si aggiunge la non meno deprimente telenovela riguardante il Pd, che è persino riuscito a spaccarsi anche sulle spaccature del fronte opposto, si capisce come il problema sia non la querelle Fini–Berlusconi quanto la più complessiva tenuta del bipolarismo nostrano. O meglio, l’ultima scena di un film, la disgregazione del sistema politico italiano, che va in onda da molto tempo e che è ormai arrivato all’epilogo. Insomma, così come da una parte la posta in gioco non è la Grecia ma l’euro e l’intero assetto della vecchia Europa, così dall’altra la partita non riguarda solo il Pdl e questo governo, ma la Seconda Repubblica. Speriamo nell’uno come nell’altro caso di non uscirne con le ossa rotte. (www.enricocisnetto.it)


diario

pagina 6 • 1 maggio 2010

Crisi. Dalle rilevazioni dell’Istat arrivano ancora segnali contraddittori sulla ripresa dell’economia nel nostro Paese

Ragazzi, non c’è più lavoro

Disoccupazione giovanile al 27%: è record negativo in Europa ROMA. Sono ben al di sopra

di Francesco Lo Dico

dei due milioni, gli italiani che cercano occupazione. Più esattamente, due milioni e 194mila unità. Un numero che secondo i dati Istat riferiti a marzo, registra un 2,7 per cento in più rispetto al mese precedente, e un preoccupante più 12 per cento di incremento sull’anno scorso. E che imprime conseguenti riflessi negativi anche sul tasso di disoccupazione attestato all’8,8 per cento, equivalente a uno 0,2 per cento in più rispetto a febbraio, e all’uno per cento rispetto a marzo 2009.

Ma le notizie peggiori provengono dal tasso di inattività, e cioè dalla percentuale di persone residenti (sul totale) che non lavorano per scelta (casalinghe o gli studenti), o perché troppo anziani e quindi ritirati dal lavoro: un 37,8 per cento che stabilisce il record negativo dal 2002 a oggi. Analizzati nello specifico, i dati Istat fotografano in modo impietoso i morsi che la crisi ha impresso sulla viva carne delle classi meno protette. A partire dalla disoccupazione giovanile, che seppur in lievissimo calo rispetto al mese precedente (0,4 per cento), indica nell’attuale 27,7 per cento un aumento di quasi tre punti percentuali rispetto a marzo del 2009. Non meno sconsolanti, i dati sulla disoccupazione femminile. A oggi sono senza lavoro un milione e 44mila donne italiane, che significa un aumento del 4,8 per cento su base mensile. E per accorgersi di quanto sia stata forzata-

pati, la sostanza non cambia. Sono 22 milioni e 753mila gli italiani che lavorano, uno 0,2 per cento in meno rispetto a febbraio e un decremento occupazionale dell’1,6 per cento rispetto all’anno scorso. In brusca sintesi, negli ultimi mesi hanno perso il lavoro 367mila persone. Ma per ritornare al tasso di inattività, ( fermo al 37,8 per cento, meno 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente ma più 0,5 punti percentuali rispetto a marzo 2009), le statistiche Istat dicono in parole povere

Sacconi omette il dato più avvilente: l’Italia è il peggior luogo del Vecchio Continente in cui un giovane possa trovarsi a vivere mente discriminatoria la valanga della crisi, basta comparare il dato con quello che coinvolge l’incremento della disoccupazione maschile, che invece registra uno 0,9 per cento. In termini assoluti, l’Istat valuta i maschi italiani senza occupazione nel numero di un milione e 150mila unità, diecimila in più rispetto al mese precedente. Un dato che vuol dire un fatto molto semplice: nell’ultimo anno hanno perso il lavoro 111mila uomini. Rovesciata la prospettiva sul numero di occu-

che un italiano su due è inattivo nella fascia compresa tra i 15 e i 65 anni.

Un aspetto che assume tratti inquietanti in Sicilia, dove sono inattive tre persone su cinque. In termini assoluti, il numero di inattivi di età compresa tra 15 e 64 anni, è pari in Italia a 14 milioni 907mila unità, cifra che rappresenta una riduzione di 24mila unità rispetto a febbraio, ma comunque un aumento dell’1,6 per cento rispetto a marzo 2009. Tradotto, si tratta di

Ad aprile è a +1,5% rispetto al 2009

E l’inflazione risale ROMA. L’inflazione ad aprile è salita al +1,5% annuo dal +1,4% registrato a marzo. Si tratta del maggior incremento tendenziale da febbraio 2009. Come al solito, lo ha comunicato l’Istat nella stima preliminare, precisando che su base mensile i prezzi al consumo sono cresciuti dello 0,4%. L’aumento dei prezzi risente in particolare della corsa di beni e prodotti energetici. Infatti il comparto energetico, ha spiegato l’Istituto di statistica, ha registrato un aumento dei prezzi dell’1,5% su base mensile e del 4,9% su base annua (in forte accelerazione dal 2,5% registrato a marzo). Corrono in particolare i prezzi del comparto non regolamentato (sostanzialmente carburanti), che ad aprile sono cresciuti del 2,1% congiunturale e del 15% tendenziale. La benzina verde registra un incremento del 2,7%

rispetto a marzo e del 16,7% rispetto ad aprile 2009. Andamento simile per il gasolio, cresciuto del 2,2% congiunturale e del 15,9% tendenziale. Al netto della componente energetica, ha aggiunto l’Istat, l’inflazione è aumentata dell’1,3%. Sempre in base alla stima provvisoria, l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (Ipca), che tiene conto anche delle riduzioni temporanee di prezzo come saldi e promozioni, ha registrato a marzo un incremento dell’1,6% rispetto ad aprile 2009 (record da dicembre 2008), e del +0,9% rispetto a marzo 2010. Per quanto riguarda l’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività, gli incrementi congiunturali più significativi hanno riguardato i prezzi dei trasporti, dei servizi ricettivi e di ristorazione e abitazione, acqua, elettricità e combustibili.

239mila italiani inattivi in più in un anno. Secondo il governo, l’aumento del tasso di disoccupazione non giunge inatteso. Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, fa sapere che «il tasso di disoccupazione è leggermente incrementato, ce lo aspettavamo», e tiene a precisare che «molti gufi segnalavano ancor peggio. Come sappiamo l’andamento della disoccupazione è successivo all’andamento dell’economia». Se comparato al tasso di disoccupazione dell’Eurozona, che attestandosi al 10 per cento è il più alto degli ultimi dieci anni, quello italiano dell’8,8 per cento è un po’ meno peggiore «ma è una magra consolazione perché poi chi cerca lavoro non lo trova», nota Sacconi. Ed è ancora più magra, se si prende a riferimento l’Unione europea a ventisette Paesi, dove la media di disoccupati fa registrare il 9,6 per cento. Il ministro del Lavoro sostiene inoltre che per fronteggiare la drammatica imponenza di questi numeri occorre «la combinazione degli ammortizzatori sociali con la formazione, una sfida obbligata» che è «una risposta tradizionale ma tradizionalmente fallita».

Ma ciò che rende particolarmente avvilente la condizione italiana, rispetto a quella dei Paesi europei, è un dato che il ministro del Lavoro dimentica di commentare. Tra i giovani italiani compresi tra i quindici e i ventiquattro anni, la disoccupazione sale al 27 per cento: un aumento di tre punti percentuali rispetto all’anno scorso, che spiega come definire i ragazzi della Penisola «bamboccioni», sia obiettivo quanto osservare Brunetta e dedurne che sarebbe titolare inamovibile in qualunque nazionale di basket. Un abbaglio, che può essere facilmente compreso se si paragona la nostra disoccupazione giovanile a quella dell’Europa a ventisette. In Italia, come detto, siamo al 27 per cento. Nel resto del Vecchio continente al 20,6. Quasi sette punti percentuali in più, a fronte di un tasso di disoccupazione generale leggermente inferiore a quello dell’Ue. A qualcuno viene in mente, se non di fare ammenda, se non di fare qualcosa, che al momento l’Italia è il peggior Paese europeo nel quale un giovane (non) possa vivere?


diario

1 maggio 2010 • pagina 7

Enti lirici contro i tagli del governo: «Musica in pericolo»

Per i pm, Feltri pubblicò come vero un fotomontaggio

Decreto Bondi, c’è la firma del Quirinale

Un indagato per il falso documento contro Boffo

ROMA. Porte sbarrate ieri sera all’Opera di Roma. Idem domenica prossima all’Accademia di Santa Cecilia. Sciopero a oltranza anche a Bologna, dove salterà la prima della Carmen e niente Oro del Reno, alla Scala di Milano. L’emanazione del decreto legge per le “Disposizioni urgenti in materia di spettacolo e di attività culturali”, firmato ieri dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha definitivamente scatenato l’indignata reazione delle maggiori fondazioni liricosinfoniche italiane, contro il decreto del ministro per i Beni culturali, Sandro Bondi. Il Quirinale precisa però che la firma è arrivata dopo aver «preso atto della conferma da parte dello stesso ministro dell’intendimento di incontrare nei prossimi giorni le rappresentanze sindacali». Ci sarà molto da discutere, il 6 maggio. «ll decreto colpisce impropriamente – spiegano i sindacati – la sopravvivenza dei teatri lirici, attaccando la stabilità degli organici e distorcendo le regole vitali di funzionamento dei teatri, e mette in discussione il diritto all’esistenza delle Fondazioni». Come altre volte rispetto alla cultura nazionale, il governo provvede

NAPOLI. C’è un indagato nell’inchiesta avviata lo scorso settembre dalla procura di Monza in relazione alla vicenda Boffo-Feltri, ossia quella del falso documento pubblicato dal Giornale per accusare l’allora direttore dell’Avvenire: si tratta di un dipendente di un ufficio giudiziario del distretto di Napoli nei cui confronti è stato ipotizzato il reato di accesso abusivo a sistema informatico. L’inchiesta, affidata al pm Caterina Trentini, circa un mese fa è stata trasmessa alla procura di Napoli per competenza territoriale. Dell’iscrizione nel registro degli indagati del dipendente della Giustizia e della trasmissione degli atti se ne è saputo però solo ieri.

a robusti tagli, nonostante l’Italia investa meno di ogni altro Paese in cultura: 0,3 per cento del pil, contro il 12 dell’Inghilterra.

Il decreto promosso dall’ex sindaco di Fivizzano, desta sconcerto a partire dall’articolo 3, incentrato sull’autonomia delle fondazioni e sull’Imaie, la mutua degli artisti. Ma a suscitare unanime rabbia presso gli operatori della Lirica nazionale, è la riforma dei contratti congegnata dal ministro azzurro. In particolare quelli integrativi, che secondo Bondi sono la causa dei conti in rosso di alcune fondazioni. Il provvedimento approvato il 16, già il 25 aprile aveva mostrato tutto il suo potenziale alla Scala, quando la protesta dei lavoratori del settore contro il decreto è fruttata a un manifestante la manganellata di un agente in pieno volto.

Caso Cucchi, cade l’accusa di omicidio colposo Chiuse le indagini sulla morte del giovane romano di Gaia Miani

ROMA. Si è chiusa ieri l’inchiesta della Procura capitolina sulla vicenda di Stefano Cucchi, il giovane 31enne morto nell’ottobre 2009 all’ospedale Pertini di Roma una settimana dopo essere stato arrestato per droga, per cui sono stati indagati alcuni agenti di polizia penitenziaria e diversi medici. La procura di Roma, è notizia di ieri, non ha individuato nella vicenda il reato di omicidio colposo per nessuno degli indagati. Per le guardie carcerarie, alle quali si contesta di aver percosso Stefano Cucchi, i reati sono infatti di lesioni e abuso di autorità. Tutt’altro che migliorata invece è la posizione dei medici indagati, per i quali i pm Vincenzo Barba e Francesca Loy ipotizzano il favoreggiamento, l’abbandono di persona incapace, l’abuso d’ufficio e il falso ideologico.

A tutti e tredici gli indagati è stato notificato l’avviso di chiusura delle indagini, che anticipa formalmente la richiesta di rinvio a giudizio da parte dei pm al gip. Lo scenario che emerge dall’avviso di fine indagine firmato dai pm e dal procuratore Ferrara, conferma dunque che Stefano Cucchi fu picchiato dagli agenti della polizia penitenziaria e, di fatto, non curato dai medici dell’ospedale Sandro Pertini, i quali, pur avendo ben presenti le patologie di cui soffriva il ragazzo nel corso della degenza, «volontariamente omettevano di intervenire». Che cosa accade ora? Il deposito degli atti del procedimento, in base a quanto previsto dall’art. 415 bis del codice di procedura penale, anticipa la richiesta di rinvio a giudizio degli indagati. I magistrati, alla luce dei risultati delle perizie, hanno modificato le originarie ipotesi di accusa che erano di omicidio preterintenzionale per gli agenti ritenuti responsabili del presunto pestaggio in una cella di sicurezza del Tribunale di Roma, e di omicidio colposo per i medici del reparto penitenziario dell’ospedale in cui fu ricoverato Cucchi. Ad ogni modo, nei prossimi giorni, proprio come annunciato tre giorni fa giorni fa dalla senatrice radicale Do-

natella Poretti, si potrà fare maggiore chiarezza su tutta la vicenda dal momento che i documenti relativi al caso dovrebbero essere desecretati e pubblicati sul web a disposizione del pubblico. Tra i primi a commentare la chiusura delle indagini, ieri, è stato Luigi Manconi dell’associazione “A buon diritto”. «La mia prima valutazione - ha detto - in attesa di conoscere meglio le decisioni prese dalla procura, è decisamente negativa. Per un verso c’è un elemento simbolico molto importante che rischia di avere pesanti ripercussioni sull’opinione pubblica. Stiamo parlando di un giovane uomo morto. Bene, la parola omicidio non compare nei capi di imputazione». «Stefano Cucchi - ha aggiunto Manconi - viene ricoverato nel reparto detentivo del Pertini in quanto ha subito un pestaggio, perchè ha subito violenze. Violenze documentate, riconosciute, certificate, e sono queste violenze che hanno portato Stefano in quel luogo dove non è stato curato. Questo nesso di causa e effetto è stato ingorato. Quelle violenze hanno inciso pesantemente sul percorso sanitario determinando la successione di fatti patologici che lo hanno portato alla morte. Le percosse hanno un ruolo decisivo. Questa causa precisa, descritta dalle perizie, cioè il pestaggio subito, diventa qualcosa di incerto e approssimativo.Viene separato dal rapporto di causa-effetto con la morte di Cucchi. Questo è un errore grave che rischia di compromettere il processo».

Abuso di autorità e lesioni per gli agenti; favoreggiamento,abbandono di incapace, abuso d’ufficio,falso ideologico per i medici

La famiglia di Cucchi, che non ha ancora commentato le notizie, appena due giorni fa aveva dichiarato: «Ci sono vuoti che ancora non riesco a capire. La mia famiglia ed io in quel momento abbiamo avuto la forza di reagire perché non potevamo accettare che un ragazzo che stava benissimo potesse cessare di vivere in soli sei giorni. Però mi domando, tutte quelle famiglie che non hanno la forza, i mezzi e le possibilità di affrontare una simile battaglia, non avranno giustizia?».

Inoltre, sempre a quanto si è appreso, il documento pubblicato alla fine dello scorso agosto sulle pagine de Il Giornale diretto da Vittorio Feltri, secondo l’inchiesta, sarebbe probabilmente il risultato di un fotomontaggio: il casellario giudiziario sarebbe vero nella sostanza (relativa al patteggiamento di Boffo al tribunale di Terni in seguito a una querela per molestie) ma non nella forma, in quanto il modo in cui è stato redatto non corrisponde a quello di un autentico casellario giudiziario. Insomma, un falso confezionato per l’occasione, che il direttore del Giornale ha preteso di esporre come autentico atto d’accusa.

Vale la pena ricordare, a questo proposito, che per gli articoli apparsi sul quotidiano milanese di via Negri a partire dal 28 agosto 2009 – una campagna stampa in piena regola in seguito alla quale il direttore di Avvenire Dino Boffo finì per dimettersi - Vittorio Feltri poco più di un mese fa è stato sospeso per sei mesi dall’ordine dei giornalisti della Lombardia, una sanzione comminata anche perché ha consentito a Renato Farina di continuare a firmare pezzi dopo la sua radiazione dall’albo.


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grandangolo

I costi del drammatico incidente nel Golfo del Messico

Una catastrofe da sei milioni di dollari al giorno È questo il prezzo che la British Petroleum spende per cercare di fermare la tragedia. Ma, secondo gli esperti, i veri problemi di carattere economico inizieranno più avanti, quando ci saranno da ripulire il mare e le coste. Senza contare il «danno d’immagine» che tutto questo provocherà per la società petrolifera di Alessandro D’Amato

ROMA. Una Marea Nera che vale sei milioni di dollari al giorno. È la cifra che costa alla British Petroleum l’intervento disperato sulle coste sudorientali degli Stati Uniti dopo che si sono cominciate ad avvistare le prime smagliature della marea nera fuoriuscita dalla piattaforma della Bp Deepwater Horizon, sprofondata nel Golfo del Messico il 22 aprile, che nel frattempo hanno raggiunto le coste della Louisiana costringendo a decretare lo stato di «catastrofe nazionale». «Siamo determinati a contrastare la marea su tutti i fronti», ha detto l’amministratore delegato del gruppo Tony Hayward nel comunicato pubblicato sul sito dell’azienda.

La fuoriuscita di petrolio è stimata sempre intorno ai 5.000 barili al giorno, mentre l’impegno per fronteggiare l’emergenza costa «sei milioni di dollari al giorno» al consorzio proprietario, di cui Bp detiene il 65%. Il gruppo petrolifero, recita la nota, ha allestito un altro centro di monitoraggio e coordinamento a Mobile, in Alabama, per fronteggiare l’emergenza in Mississippi, Alabama e Florida. Bp ha già installato 54 km di reti di protezione sulle coste e si prepara a piazzarne altri 90 chilometri nei prossimi giorni, ma non nasconde la preoccupazione legata alle condizioni meteo,

che potrebbero «muovere la marea sempre più verso le coste». Il gruppo monitora in particolare le spiagge di Venice (in Louisiana), di Pascagoula e Biloxi (Mississippi), Mobile (Alabama) e Pensacola (Florida). Il vero problema, quindi, è quanto costerà, dal punto di vista economico oltre al disastro ambientale, alla Bp e al Paese quanto sta accadendo. Di sicuro colpirà il piano energetico di Barack Obama, che prevedeva l’ampiamento delle possibilità di ricerca di petrolio e gas offshore, insieme allo sviluppo delle energie rinnovabili. Scrive il Time che i senatori del New Jersey Robert Menendez e Frank Lautenberg si sono già schierati contro l’espansione delle perforazione offshore, e il senatore democratico Bill Nelson della Florida ha annunciato giovedì una legge che sospende tutto in attesa di una indagine completa sull’incidente del Golfo. «Drilling è troppo vicino alla costa e pone una minaccia per l’economia e l’ambiente della Florida ed altri Stati», ha scritto Nelson in una lettera a Obama.

l’apertura di Obama sul punto», dice Carlo Stagnaro dell’Istituto Bruno Leoni. «Credo sia difficile quantificare il costo dell’intervento immediato, più facile pensa re che quello strutturale sarà comunque molto più alto». Il crollo del titolo di Bp in Borsa però è indi-

«Più che altro prevedo per l’azienda un danno d’immagine molto importante, con conseguenze anche politiche, visto che aumenterà il volume delle proteste contro le nuove esplorazioni per la ricerca di petrolio, proprio dopo

ce di una difficoltà, per lo meno così prevedono gli operatori finanziari. «Già, ma più che altro ci si aspetta che British Petroleum dovrà mettere mano al portafogli, e pesantemente, in un momento già congiunturalmente diffi-

Il «buco» emette un milione e mezzo di litri di greggio alla settimana. Ha già contaminato un’area di 70.000 chilometri quadrati: oltre la metà del Medio Adriatico

cile; questo forse il motivo delle vendite, oltre magari a quelli che hanno venduto per “protesta” ovvero per l’indignazione presso l’opinione pubblica per quanto sta accadendo». La “verde” Bp insomma avrà qualche ripercussione… «Già. E magari rivedrà anche il budget che investe in comunicazione, per accreditarsi come amica dell’ambiente e così via. Magari, se si fosse investito di più nella sicurezza invece tutto questo non sarebbe successo».

«Il buco emette 200.000 litri di greggio al giorno e ha contaminato 70.000 chilometri quadrati, un’area grande quanto il bacino del Po. Il Medio Adriatico è pari a 130.000 chilometri quadrati, è l’estensione che fa spavento». Il paragone fatto da Romano Pagnotta, dirigente dell’Istituto di Ricerca delle acque del Cnr, dà un’idea immediatamente comprensibile della vastità della marea nera. «Quando affonda una petroliera - prosegue Pagnotta - tira fuori quello che ha dentro. Ricordo che quando ci fu il disastro della Haven, nel golfo di Genova, nell’aprile 1991, la petroliera conteneva circa 140.000 tonnellate di greggio e prese fuoco. È stato calcolato che una percentuale di circa il 30% di greggio se ne andò con la combustione, che la dissolse. Qui inve-


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Washington ha dichiarato lo stato di catastrofe nazionale ambientale

La marea nera arriva sulle spiagge E Obama annucia: «Basta trivellazioni» di Gualtiero Lami

ROMA. È finita proprio come si era te-

ce la domanda è: quanto durerà questa fuoruscita?». Già, quanto? BP e la Guardia Costiera stanno continuando a lavorare per fermarla. Quando l’impianto di perforazione Deepwater Horizon è affondato il 22 aprile, il tubo che collega il montante e il rig si è rotto, a 5.000 piedi (1,5 km) in fondo all’oceano. I tentativi di utilizzare i robot subacqueo per sigillarlo – il che potrebbe fermare la fuoriuscita - non sono finora riusciti, anche se BP dice che vuole continuare a provare. La società ha inoltre avviato le cosiddette bruciature controllate del petrolio in superficie - 100 barili di petrolio in un minuto nella prova di ieri - e può iniziare a usare disperdenti chimici subacquea presso il sito, una tecnica che non è mai stato provato prima. «Stiamo lavorando per fermare l’olio», ha detto Doug Suttles, Chief Operating Officer di BP. «Abbiamo persone che lavorano 24 ore al giorno su questo». Ma non basteranno, probabilmente.

Secondo esperti ambientalisti americani il danno provocato dalla perdita del pozzo petrolifero Bp nel Golfo del Messico potrebbe eguagliare o superare quelli della marea nera della Exxon Valdez nel 1989 in Alaska. A sentire le ultime stime ci vorrebbero due mesi con il petrolio che sgorga dal fondo marino a un ritmo di 5.000 barili al giorno per eguagliare l’impatto della perdita della petroliera Valdez nel Prince William Sound dell’Alaska. Secondo gli esperti, tuttavia, anche se i numeri non eguagliano quelli della Valdez, l’impatto sulle coste del Delta del Mississippi potrebbe essere altrettanto grave per la fragilità di quell’ecosistema, dove numerose specie in pericolo o in via di estinzione vengono a riprodursi. «L’80% di greggio si riverserà sulle coste, solo al massimo un 10-20% verrà recuperato dalla superficie», dice ancora Amato del CNR, il ricercatore che ha partecipato lo

scorso autunno alle indagini sulla nave dei veleni a largo delle coste calabresi cosentine. I disperdenti «sono solo maquillage» in questa situazione, e per le coste non c’è più niente da fare, mentre il problema più grande è sul fondo dove occorre assolutamente fermare la fuoriuscita del greggio. «Si tratta di un’operazione di robotizzazione estremamente difficile a una profondità di 1.500 metri. Il petrolio non esce da un pozzo come quello dell’acqua ma da minuscole porosità della roccia dalle quali il sistema di pompaggio con la pressione succhia il petrolio. Quindi i robot, filoguidati, con telecamere, sonar e due braccia manipolatrici che avvitano e svitano è come se dovessero rimettere un tappo a una bottiglia di champagne».

Intanto, dal momento dell’incidente, le azioni di Bp hanno perso 25 miliardi di dollari. Nel complesso, gli sforzi della Bp nell’investire in reputation avevano fatto lievitare il valore del suo brand a 17 miliardi fino a prima del disastro. Bp è considerata la più ecologica tra le grandi compagnie petrolifere, è la “buona” almeno quanto la Exxon è la “cattiva” nell’immagine dell’opinione pubblica. Ora forse le cose cambieranno.Di certo l’effetto sull’opinione pubblica delle zone direttamente colpite sarà lungo e duraturo: difficilmente l’elettore medio dimenticherà tutto quello che ha visto in tv in questi giorni, e quel petrolio che ha visto “spillare” gli tornerà in mente ogni volta che qualcuno proporrà di sfruttare meglio industrialmente la costa. Durante le elezioni del 2008, ai verdi era rimasto difficile contrastare l’accattivante slogan conservatore «Drill, baby, drill (Trapana, baby, trapana)». Ora la risposta ce l’hanno: «Spill, baby, spill». Difficile non pensare che questo non significherà, nel breve, un robusto ridirezionarsi verso altre fonti di approvvigionamento. Solare, eolico, e anche nucleare.

muto fin dall’inizio: le prime lingue della marea nera, fuoriuscita dalla piattaforma della Bp Deepwater Horizon, sprofondata nel Golfo del Messico il 22 aprile, hanno raggiunto le coste della Louisiana e negli Stati Uniti è stato decretato lo stato di «catastrofe nazionale». I tentacoli dell’enorme macchia di greggio sono stati avvistati al tramonto di giovedì sulle coste del delta del Mississippi, in Louisiana. Questo perché la perdita reale di petrolio si è rivelata cinque volte più grave di quanto inizialmente previsto (circa 5 mila barili di greggio si riversano in mare ogni giorno), con conseguenze che potrebbero eguagliare o superare quelle del disastro Exxon Valdez del 1989 in Alaska. Al punto che lo stesso presidente Usa Barack Obama è sceso in campo annunciando la mobilitazione «di tutte le risorse possibili», anche l’esercito, per contenere il disastro ecologico.

Insomma, l’incidente è diventato un caso di emergenza nazionale negli Usa, con la Casa Bianca in campo e il Pentagono chiamato all’intervento diretto per cercare di fermare la marea nera. Il presidente Obama, costantemente informato, ha chiamato i governatori delle aree costiere a rischio: oltre alla Lousiana, il Texas, l’Alabama, il Mississippi, la Florida. I pescatori del delta hanno passato le ultime due notti a raccogliere gamberi prima che l’onda viscosa rosso-arancio del greggio intrappolasse e uccidesse tutti i crostacei che rappresentano la loro unica fonte di sostentamento. «Sta accadendo una cosa gravissima», ha dichiarato David Kennedy della National Oceanic and Atmospheric Administration. «Sono spaventato. Si tratta di un affare enorme. E gli sforzi che saranno necessari per far fronte alla situazione saranno immensi». Secondo l’Istituto «i venti che si sono levati non fanno che aumentare la velocità con la quale la macchia si sta dirigendo verso la costa». Proprio per questo, la marea nera potrebbe diventare il peggior disastro ambientale in decenni per gli Stati Uniti: a rischio sono centinaia di specie di pesci, uccelli e altre forme di vita di un ecosistema particolarmente fragile e già sottoposto a traumi al

passaggio dell’uragano Katrina. A New Orleans, la città devastata dal ciclone del 2005, giovedì l’aria è diventata pesante per i vapori acri del greggio: sono stati effettuati test per verificare le denunce dei residenti che hanno intasati i centralini comunali e della protezione civile. Nel mese di aprile sono state trovate morte sulla spiaggia a Galveston e sulla penisola Bolivar (Texas) 32 tartarughe di una specie rara, il doppio della media, ma nessuna collegabile alla marea nera, anche perché la macchia di petrolio si trova da tutt’altra parte rispetto a Galveston e, a parte un improvviso cambio delle correnti e dei venti, non dovrebbe arrivare in quella zona.

Il ministro della Sicurezza interna Janet Napolitano e la collega dell’Epa Lisa Jackson ieri hanno raggiunto il ministro dell’Interno Ken Salazar che era già sul posto. Per la Casa Bianca, ha commentato il Washington Post, la marea nera presenta un problema non solo ambientale ma anche politico: il presidente solo qualche settimana fa aveva dato vita a un programma di trivellazioni offshore assai impopolare tra gli ambientalisti. Le preoccupazioni dei verdi in questi ultimi giorni si sono rivelate fondate, oltre che particolarmente pressanti. Tanto che la Casa Bianca, dopo aver difeso il piano a spada tratta, almeno nel primo momento, ha deciso di sospenderlo. Prima, l’amministrazione di Washington ha sostenuto che il piano «propone un processo ponderato e scientificamente fondato per determinare quali nuove aree siano adatte all’esplorazione e allo sviluppo e per valutare potenziali rischi e benefici», poi ne ha annunciato la sospensione. Di contro, Obama ha promesso anche ogni risorsa disponibile ai governatori interessati dall’avanzare della mare nera. Bobby Jindal, della Louisiana, ha chiesto fondi per mobilitare seimila uomini della Guardia Nazionale. Tocca a Bp, le cui azioni hanno perso giovedì l’8 per cento sui mercati, in prima battuta contenere il disastro, ma ora che la marea nera ha toccato terra, le risorse private non bastano.


economia

pagina 10 • 1 maggio 2010

L’ex ministro dell’Economia, Domenico Siniscalco. In basso a destra, il presidente della Compagnia di San Paolo, Angelo Benessia. In basso a destra, il numero uno di Fondazione Cariplo, Giuseppe Guzzetti

ROMA. Dice un politico torinese che lo conosce bene: «Soltanto una personalità complessa quanto volitiva come quella di Angelo Benessia poteva prima motivare con la torinesità la sua guerra contro Enrico Salza e i milanesi di Intesa, quindi far coaugulare i voti della Compagnia di Sanpaolo su un professore bocconiano (Andrea Beltratti, ndr), che non gravita a Torino da almeno un ventennio». Per la cronaca Andrea Beltratti a Torino ha mantenuto la famiglia come un’indissolubile fede granata. Ma difficilmente, dopo il ritiro dell’altro candidato Domenico Siniscalco, tutto questo gli basterà per avere la strada spianata nella conquista della presidenza del consiglio di gestione di IntesaSanpaolo. Di conseguenza, se la prossima settimana l’organismo guidato da Giovanni Bazoli lasciasse al suo posto Enrico Salza, sarebbe piena la sconfitta del presidente di Compagnia di San Paolo Benessia, del suo grande sponsor Sergio Chiamparino e di un sistema potere nato nell’ex Pci e rafforzatosi negli anni con l’incontro con quello che rimane del mondo Fiat e di un baronato cresciuto nel mito di Giustizia e libertà.

Microcosmi. Chi è il grande sconfitto nella partita di IntesaSanpaolo

Benessia, l’ultimo avvocato di Torino Vita e opere del consigliere di Chiamparino nella battaglia per “licenziare” Enrico Salza di Francesco Pacifico

Un microcosmo che a questo punto potrebbe implodere già prima delle amministrative del prossimo anno e del quale Angelo Benessia è uno dei principali esponenti, sicuramente il cervello e il migliore consigliere del sindaco Chiamparino. Uno che Torino la conosce bene, l’ex sindaco e oggi direttore di Nuovasocietà.it Diego Novelli, fa fatica a capire perché un professionista navigato e un amministratore tanto cauto si siano ficcati in un pasticcio simile. «Mi fa ridere che Sergio parli di po-

teri forti per giustificare il ritiro di Siniscalco. Una volta i poteri forti erano la massoneria, la Fiat, la Chiesa, oggi chi sarebbero, Guzzetti?». Ma di pasticcio si tratta e ad acuirlo c’è proprio la fine di un mondo. Che non a caso ha il suo inizio nel 2007, quando Chiamparino viene a sapere che Salza, senza coinvolgerlo, vuole insediare Gustavo Zagreblesky in Compagnia di San Paolo al posto già promesso a Benessia. Forse è l’onta subita che spinge il nostro a bruciare tre candidature (Alfonzio Iozzio, Emilio °Ottolenghi, Elsa Fornero) prima di arrivare a Domenico Siniscalco, a spaccare il consiglio della fondazione che non vuole l’ex ministro, ad andare oltre i poteri imposti dallo statuto lanciando anche un altro nome per il Cds di IntesaSanpaolo. Senza dimenticare che Chiamparino rivendica l’operazione a mezzo stampa, millanta presunti accordi con Tremonti e Guzzetti, scatenare le ire del patron di Cariplo.Va detto che a Torino non soltanto il sindaco e il suo consigliori sono scontenti della gestione Salza, accusato di essere troppo vicino ai vertici milanesi della banca Passera e Bazoli. Ma qui c’è il tentativo di portare la principale poltrona della città, la presi-

denza di IntesaSanpaolo, da un mileu laico e liberale dal quale proviene Salza a uno postcomunista. E dopo gli insucessi in Emilia o in Lombardia, giocare con la banche non si sta rivelando un affare neanche a Torino.

Soprattutto ne esce sconfitto un avvocato che tra i suoi vezzi ha quelli di girare in bicicletta, dare del tu a tutti e leggere in tedesco ascoltando Bach. Classe 1941, Benessia si intreccia

l’Associazione Sistema Musica, il CeSPI, il Politecnico di Torino. Realtà che nella scala gerarchica della Mole danno luce soltanto inferiore a quella che garantisce la Compagnia di San Paolo. Poltrona che una volta scalata fa del nostro un professionista dei consigli d’amministrazione a tutto tondo. Qualcuno in città lo chiamava Medusa, altri Benefiat. E se nel Cda del Lingotto ci è arrivato proprio in quota San Paolo, non si è mai chiarito del tutto il suo rapporto con gli Agnelli. Si tramanda che l’Avvocato l’avesse mandato in Rizzoli per dar fastidio al suo ex amministratore delegato, Cesare Romiti. Oppure che da consigliere di Telecom si dimise in nome della buona gestione degli affari sabaudi contro l’invasione dei capitani padani Gnutti e Colaninno. E guarda caso a guidare l’azienda in quel frangente c’era un manager degli Agnelli (di Umberto, per la precisione) come Rossignolo. Un uomo simile non poteva che avere un dialogo privilegiato con la politica. Antifascista come si confà a ogni buon torinese, cresciuto alla scuola degli azionisti Galante Garrone, Paolo Greco, Franzo Grande Stevens, non ha fatto fatica a diventare negli anni uno dei riferimenti dei postcomunisti per i grandi affa-

È sempre più sulla graticola il presidente della Compagnia di San Paolo dopo il pasticcio sulla candidatura di Siniscalco ai vertici di Ca’ de Sass con i business più interessanti e con i più esclusivi salotti della città non fosse altro perché è uno dei migliori avvocati d’affari locali. Con la moglie Cristiana Maccagno guida uno dei più importanti studi legali del Nordovest. Guarda caso tra i suoi clienti c’è il meglio dell’economia sabauda: la Fiat, la Sip, è stato consulente del San Paolo durante la fusione con l’Imi. Il suo curriculum, del resto parla da solo. Prima di sbarcare due anni fa alla guida della Compagnia di San Paolo è stato vicepresidente della Rcs Editori, consigliere di amministrazione di Fiat e di Telecom Italia. Senza dimenticare istituzioni culturali come la Fondazione Antonio Gramsci (dove stringe amicizia con Chiamparino), l’Unione Musicale di Torino e

ri finanziari come Mario Virano – commissario del governo per la Tav – lo è per i grandi progetti infrastrutturali. Racconta un manager locale: «A Torino più che altrove l’ultima generazione del Pci ha sempre vissuto in modo subalterno verso la grande impresa. Di conseguenza un personaggio come Benessia – giellino, membro dell’istituto Gramsci, frequentatore delle colline – era assolutamente da cooptare». Lo chiama a sé Sergio Chiamparino quando c’è da valutare il valore della utility torinese Aem che va verso il matrimonio con la genovese Amga, che porterà alla nascita di Iride.

La stessa operazione Benessia proverà a ripeterla nel tentativo di fusione della locale società di trasporto Gtt con la milanese Atm. Ma sarà un fallimento. Gli avversari del presidente di Compagnia di San Paolo dicono che a Torino dettano le regole un gruppo ristretto di professionisti che, come il nostro, gode della piena stima della politica. Vero o falso che sia, pare che il nostro sia caduto su un progetto più grande di lui: ripercorrere attraverso la fondazione il cursus seguito da Enrico Salza per arrivare alla conquista di quella che è oggi la principale banca italiana.


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Pier Mario Fasanotti ormai ricorrente una nostalgia. E questa si fa spesso lamentazione: oggi non esistono più intellettuali-giganti che, pur con cromatismi spinti ed esagerazioni metaforiche, puntano il dito direttamente sul nucleo vizioso di un’Italia che piace sempre meno a un gran numero di italiani. E si tirano in ballo nomi come quelli di Pier Paolo Pasolini e di Leonardo Sciascia. Qualcuno s’arrovella nell’immaginare la materia della quale i due si potrebbero scandalizzare, e magari come «urlare» con la loro voce pacata e sottile, contro la disastrosa deriva della cultura. Operazione difficile visto che dalla loro morte la televisione e il caravanserraglio dei premi letterari ha aumentato di molto i decibel o della volgarità o delle polemiche da cortile dove «i polli di Renzo» sono sempre ben più di due. È anche passato molto tempo da quando il marchio della critica era un oggetto impugnato da mani esperte, che fungeva quindi da sestante, Il j’accuse o più modestamente bussola, per i nache Giulio Ferroni viganti-lettolancia nel libro “Scritture

È

Un pamphlet contro la deriva culturale italiana

a perdere” è pesante: eccesso di libri e comunicazione del vuoto con poche isole felici che galleggiano in un mare inquinato. Mentre gli intellettuali tacciono, ri. È uscito in soggiogati dalla dittatura questi giorni un della tv pamphlet che mena fen-

LA LETTERATURA DEL NULLA Parola chiave Straniero di Maurizio Ciampa Phil Manzanera e la meteora 801 di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Il Dolce Stil Novo ai tempi di Properzio di Roberto Mussapi

Fenomenologia di Miles Davis di Adriano Mazzoletti

Islam & Rock‘n’Roll notizie da Tribeca di Anselma Dell’Olio

denti a chi crede di essere o aspira a essere intellettuale. Senza alcuna distinzione faziosa tra destra e sinistra. L’autore è Giulio Ferroni, docente universitario, critico, pubblicista e scrittore, una delle menti più lucide ma soprattutto più indipendenti che tocca e annusa le macerie culturali del nostro paese (e non solo del nostro) e ne percepisce l’odore acre della putrefazione. Esagero nell’accennare a maleodoranti e velenosissime discariche, quasi simili a quelle descritte da Roberto Saviano in Gomorra?

Infanzia e visionarietà di Giosetta Fioroni di Marco Vallora


la letteratura del

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Credo di no, convinto (e non solo io) che la mediocrità, se è dilagante e infettante o se viene presentata come luccicante vetrina stracolma di griffes similoro, ha un odore ributtante. Ci si abitua, questo è certo, sed semper olet. Ferroni, in Scritture a perdere - La letteratura negli anni zero (Laterza editore), comincia il suo j’accuse con tono narrativo, descrivendo il proprio straniamento, che sfiora la nausea, all’uscita del Salone del Libro di Torino. Una passeggiata torinese («Dimmi: ove tende questo vagar mio breve…» per rammentare Dante) fino a piazza San Carlo, e qui sale lo stranissimo brusio, una commistione di voci stridule («che mi rapiva, senza intender l’inno»: sempre Dante) attorno a una donna bionda, Maria De Filippi, «la più ostinata educatrice delle giovani generazioni» intenta a organizzare la tenzone, targata Mediaset, dei nuovi «talenti». Un vociare in progressivo espandersi, con padri e nonni che portano i bambini ad ammirare l’ambizione e la smania di tanti a vivere, magari solo per qualche minuto, sotto i riflettori della seducente quanto effimera macchina televisiva, per dire poi «io c’ero». «Uno sgorgare di rilucente, squillante, imbecille paradiso», annota Ferroni, tra il basso stupore, o assuefazione, dei suoi amici che lo aspettano al ristorante. A questo punto s’impone una domanda. E Ferroni puntualmente sosta mentalmente cercando un collegamento tra libri e luna park televisivo. Si chiede: «C’è un legame tra l’eccesso dei libri e la comunicazione del vuoto, tra l’espansione illimitata della cultura e la sua evaporazione nell’illusione pubblicitaria, nell’insulsaggine spettacolare?». Ormai gli italiani paiono dominati da quella gestualità nevrotica che è lo zapping, così che «l’inflazione della cultura finisce per convergere proprio con l’invasione delle forme spettacolari più vuote, con ciò che più allontana da ogni coscienza critica e riflessiva».

Questo il punto, per Ferroni. Si perde il senso dell’essenziale. Lo si perde per «eccesso». Lo si perde per una comunicazione sempre meno «ecologica». Facile quindi smarrire il baricentro squisitamente culturale che consiste nell’operare distinzioni. La melassa diventa valanga, con l’aggravante che anche il libro, da molti considerato comunque un totem anche se scritto da attori comici, saltimbanchi della politica e veline, è in grado di «aggiungere ulteriore veleno a quello propinato da altri». A Ferroni, al quale piacciono le citazioni taglienti, viene in mente un verso del Belli: « Li libbri nun zò rrobba da cristiano: fijji, pe carità, nnun li leggete». Un paradosso satirico del poeta romanesco? Fino a un certo punto, visto che andrebbe applicato, pari pari, a un gran numero di libri. Quelli, precisa Ferroni, strettamente legati alla «letteratura che collabora allo scarto, che non fa altro che ruotare intorno anno III - numero 17 - pagina II

A sinistra, Paolo Giordano, vincitore a sorpresa del Premio Strega del 2008. A destra, la copertina del nuovo libro di Giulio Ferroni. Sotto, Maria De Filippi, Susanna Tamaro, Sebastano Vassalli e Alessandro Baricco alla comunicazione già data, che non fa che cercare occasioni di presenza, producendo materiale da consumare, offrendo scritture a perdere». Sono parole pesanti, pesantissime. Ma che c’è, se c’è qualcosa, nella sponda opposta del fiume con gli odori pestilenziali dell’inutilità? Lo storico e critico della letteratura sa bene che cosa c’è o che cosa ci dovrebbe essere: testi «che cercano l’essenziale, che scavano in questo eccesso di comunicazione, che fanno i conti con le lacerazioni del presente e chiamano in causa i limiti e le derive del mondo, ne interrogano il destino». A proposito sia di libri che di talk-show o reality-show, è in voga la tendenza di «trasformare la propria banale quotidianità in qualcosa di spettacolare», una giostrina dove ognuno propone se stesso come modello, magari unico, e sempre divertito-perché la cosa è gioiosa (sic) e «moderna» - dall’irrobustito diritto di ficcare il naso nelle altrui imbarazzanti intimità. Dicevamo poc’anzi dell’assenza di critici di grande caratura, capaci di separare l’attrazione verso il già sentito o le sirene gracchianti della moda del momento dall’esigenza emotivamente e intellettualmente pressante di scavare nell’essenziale. Non è un caso che, in assenza di «antichi maestri» i giornalisti culturali siano sempre più propensi a far parlare scrittori e scrittorelli. Un’intervista e via. Una presa di distanza, a volte iper-consciamente voluta, ma anche una resa alla legge del mercato che impone di parlare diffusamente di ciò che gli editori, con l’adrenalina del marketing copiosamente iniettata nelle vene, sbattono nelle vetrine fino ad arrivare a occupare la vetrina principe, ossia la classifica dei più venduti. Ecco la vera meta del rugby lobbistico, della lotta (non libera) delle corporazioni, dei vari «amici» votanti ai premi letterari. Ma gli intellettuali dicono qualcosa o sono muti e passivi? Domanda retorica: «No, non discettano nemmeno sulla propria sopravvivenza». Siamo alla vigilia dei grandi e piccoli premi letterari. C’è già un gran mugugno. Come del resto l’anno passato. E con abili e tristi scommettitori. Ricordiamo l’editore Elido Fazi quando nella tarda primavera del 2009 disse: «Lo Strega va fermato per un anno e ripensato, anche perché si sa già chi vincerà l’anno prossimo… molto probabile che vincerà Tiziano Scarpa (Einaudi) visto che il gruppo Mondadori dispone di 140 “Amici della Domenica” e di certo non se li farà sfuggire». Profezia avverata. E quest’anno? Le riflessioni condotte finora riguardano non tanto il valore dei cinque libri finalisti, quanto all’opportunità di calibrare l’avvicendarsi degli editori vincitori. È un tagliar le gambe al merito, è uno squallido manuale Cencelli che ingabbia la cultura nei giorni dei fasti, con ovvie ripercussioni sulle vendite. Per Ferroni i premi letterari si risolvono spesso nel «vario disporsi di una compagnia di giro che, specie sul finale volgere dell’estate, percorre il paese a manifestare il senso della cultura come presenza, transito orizzontale, proiezione di attualità:

nulla

invito a specchiarsi nella percezione di qualche valore, di qualche dato di distinzione, di qualche categoria in cui si coniugano i fondamenti dell’esperienza». E viene da ricordare quanto disse il poeta Andrea Zanzotto sulla «volgarità fatua e rissosa», che ci lascia «sospesi tra un mare di catarro e un mare di sperma, mentre intorno a noi enormi mutamenti sono in corso e scienza e tecnica ne trascinano il gioco, a loro volta giocate da tortuosi e occulti poteri economici». Zanzotto si scaglia anche contro la televisione che «è riuscita a scoordinare tessuti psichici molto profondi e a generare un’abitudine alla volgarità permanente, commista oggi alla fatuità del pettegolezzo». Certo: la tv è pertinente se si fanno considerazioni culturali in quanto fonte e certificazione della mediocrità.

Non poche sberle Ferroni le dà a certi giovani - o eternamente giovani - scrittori di successo. Parla di scrittura plastificata, e questo termine ci ricorda la diatriba che ebbe con Alessandro Baricco, il quale si era lamentato del silenzio critico di Ferroni sul suo ultimo romanzo, cadendo però in una colpevole distrazione visto che Ferroni era intervenuto eccome, e successivamente, con tono tra lo sconsolato e l’ironico, ebbe a obiettargli: «Vede che le parole dei critici non contano niente?». In ogni caso sono ceffoni ragionati quelli del critico, che considera gran parte della letteratura italiana di successo «desolante» e comunque «giocata su una scrittura neutra e priva di respiro o su artifici esteriori e ripetitivi». Ferroni ancora oggi si stupisce - o fa finta di stupirsi - della «vittoria a sorpresa» di Paolo Giordano allo Strega di due anni fa (con La solitudine dei numeri primi). Un titolo che è una furbizia editoriale visto che la scienza non c’entra proprio nulla, semmai c’entra la giovane età dell’autore e il fatto che si occupi, all’università, di matematica. Risultato? «… Una narrazione che scorre senza troppi intoppi, levigata e pettinata, con qualche accenno di sospesa malinconia, che si specchia in se stessa, nella propria impalpabile esilità, in una recitazione di incanto esistenziale, ma con frequenti cadute nella più disarmante banalità». Il fioretto del critico si fa spada quando aggiunge: «Versione laica e torinese di Va’ dove ti porta il cuore». Ovviamente tutti aspettiamo il film tratto dal romanzo. E con quanta ansia! Ma chi contrappone Ferroni ai pallidi autori che s’arrampicano sui pioli delle classifiche? Preferisce la forma breve del racconto, «che scava il senso dell’esperienza con tensione linguistica ed espressiva». Sarà che il racconto ci riconduce alla fonte primaria del narrare? Spesso è lo strumento più adatto a decifrare «quella complessità che tutti evocano ma che nessuno riesce ad afferrare e a definire». Il racconto come antagonista nobile della scrittura sciatta, fluviale e «informatica» (spesso composta da tanti «copia-e-incolla»). E Ferroni, infine, fa alcuni nomi: Sebastiano Vassalli, Giorgio Falco, Silvana Grasso, Nicola Lagioia, Emanno Cavazzoni, Laura Pariani. Rimane il fatto che queste isole felici stanno in un mare inquinato, dove «intellettuali e politici tacciono, subalterni a tutto ciò che passa in televisione, attenti soprattutto a starci dentro anche loro, con rispettosa deferenza al potere imperiale di certi registi e conduttori».


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STRANIERO arola dirompente, straniero, parola densa di tensione, polo d’inquietudine. Da sempre. Da quando l’Occidente è l’Occidente. «In una piccola cerchia familiare, serena, accogliente, è entrato all’improvviso un forestiero - uno straniero . Era un tipo apparentemente comune, insignificante, eppure ha suscitato un senso di turbamento. Costui non soltanto ha turbato la lieta serata, ma la pace, la felicità dell’intera famiglia, e per molto tempo». L’osservazione di E.T.A. Hoffmann, scrittore e musicista attivo fra Settecento e Ottocento, è solo uno dei tanti documenti di una storia lunga e stratificata che s’identifica con la storia stessa della civiltà occidentale. Molti i passaggi e le sequenze, ma potrò attraversare solo quelli che mi sembrano d’irrinunciabile importanza.

P

Prendiamo due date più vicine a noi dentro il paesaggio vasto dell’età contemporanea: 1908, 1919. In mezzo un decennio di accentuata instabilità, di «tellurica inquietudine», in cui le parole, dice Hofmannstahl nella Lettera di Lord Chandos, sono «vortici che turbinano senza sosta».Vortici, zone di turbolenza che attestano una trasformazione dal ritmo bruciante. Cambia, con il primo conflitto mondiale, la mappa del mondo, e cambia anche la mappa della mente. L’uomo diventa uno straniero a se stesso che abbandona ogni patria mentale, taglia ogni sua radice. Un’ampia storiografia, che si è sviluppata negli ultimi venti-venticinque anni, ha letto la prima guerra mondiale e tutto ciò che le sta attorno, prima e soprattutto dopo, come un processo di traumatica trasformazione dell’esperienza umana. La grande guerra e la memoria moderna di Paul Fussell o Terra di nessuno di Eric Leed sono fra le opere più importanti di questo indirizzo storiografico. Ma consideriamo un’altra fonte, Walter Benjamin, il grande pensatore e scrittore tedesco della prima metà del Novecento. In Esperienza e povertà, del 1932, Benjamin parla dell’impoverimento dell’esperienza umana a seguito della prima guerra mondiale, da cui gli uomini sono tornati ammutoliti, isolati in un silenzio che non consente loro di dar nome alla propria esperienza. Torniamo ora alle due date: 1908, 1919. Del 1908 la Sociologia di Georg Simmel; del 1919 il Perturbante di Sigmund Freud. Qui le nozioni di straniero ed estraneità sono radicalmente ripensate. E aprono nuove possibilità interpretative. Lo straniero di Simmel non è il nemico e non è il barbaro, si muove dentro i nostri confini, nello spazio delle nostre comunità. Straniero interno, dice Simmel, espressione in sé contraddittoria, quasi in tensione con se stessa, comunque di estrema mobilità, pericolosamente dinamica, e collocata ai confini dell’identità sociale. «Lo straniero interno - dice Simmel - non è colui che viene oggi e domani se ne va. Ma è quello che viene oggi e domani rimane». Un esempio lo possiamo trovare nel Castello di Franz

Viene da fuori, è “nessuno” ma è “qualcuno” molto vicino a noi. Un termine in cui si condensano le paure e le forze che sfaldano la convivenza, ma anche la speranza di riuscire ad abbattere muri e recinti

Una sonda nell’anima di Maurizio Ciampa

La fonte della nostra inquietudine o della nostra angoscia, quella più difficile da interpretare, non sta nella massa oscura dell’ignoto, come comunemente si crede. Ciò che ci inquieta si cela nell’ordinario: è lo strano fiore della familiarità. Ma una familiarità che cambia di segno... Kafka, uno dei grandi monumenti della letteratura del secolo passato. Poche righe, ma significative. A parlare è la locandiera, si rivolge all’agrimensore con tono aspro, ma rassegnato: «Lei non è del castello, non è del villaggio, non è nessuno. Anzi, sfortunamente, anche lei è qualcuno, e cioè un estraneo, uno che è sempre fra i piedi, uno che è causa di continue seccature». Che ibrida creatura lo straniero: è «nessuno» ed è «qualcuno», non fa parte della comunità del villaggio, viene da fuori, ma, al tempo stesso, è lì, «sempre fra i piedi». A guardar bene si muove come lo straniero interno disegnato da Simmel e, a sua volta, non è

che la proiezione della persona di Franz Kafka, segnato da una costante fluttuazione fra essere e non essere. Non è ebreo Kafka, o perlomeno non lo è pienamente, non è interno alla comunità degli ebrei praghesi, sicuramente non è cristiano, e, allo stesso tempo, non partecipa neppure al «grande avvenire virile», come dice in un passaggio dei Diari. È dunque fuori posto, semplicemente uno straniero. «Per quaranta anni ho errato fuori dalla terra di Canaan», scrive nel 1922 a soli due anni dalla morte, quasi per restituire o cogliere sinteticamente il senso della sua esperienza umana. Una sorta di dichiarazione testamentaria:

Franz Kafka è stato uno straniero. A sé e agli altri. Ma ha fatto dell’estraneità scrittura e conoscenza, una sonda dentro l’umano. Ho lasciato da parte il perturbante di Freud, decisiva ramificazione della figura dello straniero. Comunemente si pensa che la fonte della nostra inquietudine o della nostra angoscia, quella più difficile da interpretare, stia nella massa oscura dell’ignoto, di ciò che non conosciamo. Non è così per Freud che spezza la linearità di questa equazione: ciò che ci inquieta si cela nell’ordinario, è lo strano fiore della familiarità. Ma di una familiarità che cambia di segno, un po’ come nella novella di Hoffmann ricordata all’inizio in cui l’arrivo dello straniero pare rompere per sempre la quiete familiare. Lo straniero è ciò che ci è più vicino. Di qui probabilmente l’allarme che ne deriva, segnalato nell’ordine simbolico ancor prima che in quello sociale. Seguiamo, a passo veloce, un’altra strada, una strada che viene da più lontano rispetto a quella percorsa fino a questo punto. Non un sentiero, ma una grande via dove s’incrociano molti diversi cammini. Punto d’avvio: il valore della fede cristiana, che riattraversa, dall’origine e lungo tutta la sua storia, lo scosceso territorio dello straniero, colui che non ha patria in se stesso, può essere il folle, può essere l’idiota, chi comunque esce da sé attratto da un altrove. Enzo Bianchi, importante voce del cristianesimo dei nostri giorni (un suo libro s’intitola Da forestiero) ricorda che i cristiani seguono un viandante, «uno che non ha dove posare il capo» secondo l’espressione evangelica. Gesù vive come straniero e, al tempo stesso, chiede di diventare straniero, chiede la Xeniteia, l’uscita dal proprio suolo, dalla propria terra. Come accade nell’Esodo. E Mosè, che ha portato gli ebrei al di fuori dei confini dell’Egitto, non entrerà nella terra promessa, morirà da straniero.

Come l’ebreo, il cristiano non è colui che sta, ma è colui che si distacca dalla terra seguendo una promessa. Gesù, secondo l’immagine dello scrittore francese Christian Bobin, è l’«uomo che cammina», l’uomo che non riposa. Non ha casa e si mette costantemente sulla strada. Esattamente come uno straniero, un clandestino di questo mondo. Allora se ha senso richiamarsi alla radice cristiana è proprio in virtù di questa parola - straniero - dalla lunga e accidentata memoria. Parola nella quale confluiscono e si rispecchiano le tante paure - reali e immaginarie - che attraversano il nostro tempo. In quella semplice complessa parola si condensano le forze che possono arrivare a sfaldare l’edificio della convivenza, ma si ritrovano anche le speranze, l’umano desiderio di ascoltare e accogliere l’altro senza costruire muri e recinti. Questo viene dalla radice ebraico-cristiana e dalla storia che ne ha fatto seguito. Essa c’impegna a guardare all’identità - oggi così reclamata - attraverso la figura dello straniero.


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Pop

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anni fa. C’è la fusion tagliente di East Of Asteroid, fatta d’improvvise accelerazioni; il passo felpato e prezioso di Rongwrong; l’etnomusica jazzata di Sombre Reptiles; la filastrocca che declina la semplicità di Golden Hours; la melodia latina che scandisce Diamond Head. C’è la voce di Brian Eno, soprattutto: adorabilmente isterica, fra gli schizzi funky di Baby’s On Fire e Third Uncle; gelida, fra le glaciali armonizzazioni di Fat Lady Of Limbourg; fremente, nel rock psicopatico di Miss Shapiro. E c’è il gusto proibito della rivisitazione: ascoltare per credere Tomorrow Never Knows di Lennon & McCartney che Manzanera e soci riplasmano, elasticizzano, travasano in una nuova psichedelìa. E poi You Really Got Me dei Kinks: ovvero gli anni Sessanta reinventati a colpi di rock tagliente (e orecchio a quel sintetizzatore un po’ sbruffone). Ma siccome un cd non era

di Stefano Bianchi opo aver scandito con un vortice di sperimentazioni e intellettualismi il bello del Glam Rock, nel 1976 i Roxy Music non sanno più che pesci pigliare. Decidono che è meglio sciogliersi, in attesa di tempi migliori. A Bryan Ferry, con quella voce di velluto, non par vero di continuare a fare il dandy solista. Andy Mackay (il sassofonista) incide un disco che fatalmente intitola Resolving Contradictions. Phil Manzanera (il chitarrista) s’inventa un progetto temporaneo che chiama 801, dal refrain del brano The True Wheel (We are the 801, we are the central shaft) composto dallo stratega elettronico Brian Eno. Londinese, classe ’51, madre colombiana e padre inglese, adolescenza trascorsa in Venezuela, Colombia e Cuba, Philip Geoffrey Targett-Adams inietta sabor latino nei suoi stratosferici assoli.Tant’è che si fa chiamare Manzanera in omaggio al bolero del messicano Armando Manzanero. Oltre a Eno, chiama a raccolta Bill MacCormick (basso e voce, ex Quiet Sun e Matching Mole), Francis Monkman (tastiere, ex Curved Air), Simon Phillips (batteria), Lloyd Watson (chitarra) e organizza solo tre concerti. 801 dovrà essere una meteora, ma destinata a incollarsi nella memoria di chi andrà ad ascoltare la funambolica band. La data finale, 3 settembre ’76 alla Queen Elizabeth Hall di Londra, viene registrata e si trasforma in 801 Live. Ricordo d’averlo acquistato in tempo reale, quell’ellepì. A occhi chiusi, da fedele «roxyano» con un debole per Manzanera. E adesso che me lo ritrovo fra le mani (rimasterizzato, racchiuso in un cofanetto con la scritta Collectors Edition che mi fa dar di matto, rock-feticista come so-

D

Classica

musica

Phil Manzanera e la meteora (splendente) 801

no) non posso che ribadire quel che penso da allora: 801 Live è uno dei dischi dal vivo più belli in assoluto. Non esagero e vi invito ad ascoltarlo. Dentro ci troverete una musica imprevedibilmente obliqua che pizzica rock e tardo Progressive, titilla suoni latinoamericani e freme d’elettronica. Dal pazzesco, «hendrixiano» strumentale Lagrima si dipana tutto il resto. Che è geniale e rivoluzionario, oggi come trentaquattro

sufficiente, eccone un altro che documenta le prove dei concerti effettuate il 23 agosto ’76 agli Shepperton Studios. Medesima scaletta, ma con una gran voglia d’improvvisare in più. Da applausi. L’anno dopo, per capitalizzare l’inaspettato successo, Phil Manzanera richiama gli 801 (senza Lloyd Watson, ma con l’aggiunta di altri virtuosi fra cui Tim Finn, Kevin Godley e Lol Creme) e pubblica l’album in studio Listen Now. Dopodiché arriverà il ’79 e i Roxy Music si riuniranno per incidere Manifesto. Ma quella è un’altra storia. Phil Manzanera, 801 Live, Expression Records, 28,90 euro

zapping

IL ROCK GERIATRICO del genio Lou Reed di Bruno Giurato

ondogliamo condogliamo. Nella sua rubrica sul Foglio Stefano Pistolini si affligge per le attività extramusicali di Lou Reed. Sembra infatti che la colonna dell’Art Rock, il soggetto che ha insegnato le passeggiate sul lato selvaggio (e anche l’oggetto delle bordate maligne di Lester Bangs, il più gran giornalista musicale di sempre insieme a Boris Vian) abbia ideato un programma per l’iPhone, denominato Lou Zoom. ’Sto Lou Zoom «non è un tuffo nell’inconscio, nel peccato, nel sesso» (citiamo Pistolini) ma è una applicazione che permette a chi ha problemi di vista di ingrandire i numeri sul display: una roba da terza età. Rock geriatrico. Il fatto fa ammosciare gli spiriti a Pistolini, che corre a rifugiarsi tra i vecchi dischi di Lou per far girare il grande amarcord generazionale. Condogliamo condogliamo, per carità, anche se eravamo già stati svezzati dal fatto che Pete Townshend degli Who dai centodieci decibel e dallo sfascio delle chitarre fosse passato al cornetto acustico. Ma infine ci sarebbe un fatto: è fondamentale che la rockstar sia giovane e faccia cose giovani? Da bluesman e/o jazzman: era bello Miles pure ammalato, e Ornette Coleman da vecchio ci pare meglio di tanti anni fa. Ma come termine delle nostalgie, dei bric à brac e bibelots di liberazione (ma da che?) ci sarebbe un fatto. Il rock non è solo sociologia giovanile, il rock sarebbero note, anzi forse addirittura musica, più o meno come la musica classica (sic!). E il significato «liberatorio» potrebbe essere tutto interno all’opera. Tenere in piedi la nostalgia per le pose giovani, per una trasgressione ormai appannaggio di politici e conduttori tv potrebbe sembrare una sorta di linguaggio egocentrico. Spiace farlo notare, ma il fatto è che, ormai, il rock sarebbe un classico. E il legame tra rock e sociologia giovanile sarebbe da amarcord. Condogliamo condogliamo.

C

Ventiquattro cherubini per una piccola messa solenne di Jacopo Pellegrini

Q

uando, nel 1902, i tecnici della Gramophone & Typewriter Company varcarono la soglia dei palazzi vaticani, Alessandro Moreschi contava 44 anni. Per i portabandiera del montante positivismo tecnologico l’ultimo evirato cantore della Cappella Sistina doveva sembrare più un fenomeno da baraccone che l’estremo rappresentante d’un’illustre prosapia: un dinosauro superstite, uno scherzo (contro)natura.Tra i brani incisi dal soprano (non sopranista, come alcuni degli odierni controtenori, che utilizzano un falsetto più o meno rinforzato) figura anche il «Crucifixus» della Petite messe solennelle composta da Rossini nel 1863, quando cioè Moreschi era già nato. Si tratta d’un assolo in cui a una parte vocale ad alto tasso patetico, fitta di cromatismi, si contrappone una parte strumentale (pianoforte e ar-

monium) ad accordi in staccato ostinatamente ripetuti, con quel tipico andamento marziale che, come un fil rouge minaccioso (la marcia evoca eserciti, guerre, violenze, morte), attraversa l’intera composizione. Questa coesistenza di elementi diversi e in conflitto tra loro (canto/accompagnamento, melodia/ritmo) può essere letta come la manifestazione, una delle tante, di quell’ironia antifrastica che regge l’intero edificio, e che balza all’occhio fin dal titolo, per quell’accostamento di «piccolo» e «solenne». Laddove il dato quantitativo allude all’organico prescritto dall’autore: «Dodici cantori dei tre sessi, uomini, donne e castrati, basteranno alla sua esecuzione, vale a dire otto per il coro e quattro per i solisti, in totale dodici cherubini» (com’era avanti Rossini, già parlava di «terzo sesso»!). I nostri conservatori di musica godono di scarsa considerazione; in molti casi, non a torto. Quello di Parma, intitolato ad Arrigo Boito (che ne

fu il direttore su segnalazione di Verdi), cerca tuttavia di tenere alto nome e blasone anche attraverso un fitto programma di concerti e seminari tenuti da musicologi e musicisti illustri sì, ma soprattutto capaci. L’avvio è stato nel nome di Rossini, e consisteva appunto nell’esecuzione della Petite messe solennelle secondo la nuova edizione critica curata per Bärenreiter dal primo dei filologi rossiniani (e non solo), Philip Gossett. I cherubini «planati» su Parma non erano 12, bensì 24 (un numero comunque inferiore alla prassi corrente), e ovviamente tra di loro non figuravano gli amati (da Rossini) castrati. Questo mannello d’italiani ispanici slavi orientali, tutti iscritti alle classi di canto, componeva il neonato Coro da camera del Conservatorio Boito, addestrato, previo apposito masterclass, da Martino Faggiani, maestro del coro al Teatro Regio della città emiliana. Le sue lezioni (pare durissime) hanno avuto un esito sorprendente, de-

gno del massimo encomio per l’emissione sempre limpida, l’impasto morbido e leggero, la dizione ben curata, la dinamica sfumatissima. I solisti, diversi per ogni numero, uscivano di volta in volta dalla massa corale ed esibivano, com’è ovvio, tassi di talento diversificati; costante la voglia di far bene e la padronanza stilistica. La revisione di Gossett, oltre a espungere dal corpo della Messe l’inno «O salutaris hostia» (introdotto da Rossini in una fase successiva), interviene soprattutto sulla componente strumentale per due pianoforti e harmonium: ritornelli accorciati, segni di articolazione e fraseggio corretti e integrati. I pianoforti impiegati a Parma (li suonavano l’eccellente Massimo Guidetti, Pina Coni e, in alcuni casi, lo stesso Faggiani; all’harmonium Davide Zanasi) erano strumenti francesi, adattissimi, per il loro timbro chiaro e pungente, a rendere l’inarrestabile processione degli staccati.


MobyDICK

arti Mostre

ignificativo, ma non sorprendente, che il portentoso volumone Skira che Germano Celant dedica all’opera omnia (et caetera, perché la sappiamo quanto mai attiva) di Giosetta Fioroni, si apra, in copertina, con un’immagine seriale e stampigliata d’una reiterata mannequin, le falde della mondanità (o mondità?) che garriscono come al vento d’una passerella ininterrotta. E si chiude - su un retro bilingue ove non compare la cifra del prezzo - con una delle classiche, recenti figure ceramificate dell’eterna ragazza romana, che è insieme l’artista, la sua modella e il suo viaggiante immaginario. Quasi una bambola-manichino da abbigliare post-modern, dopo la guerra estenuata della cultura di massa e dei sessi, rudere elegante e laccato d’una sognificata Piazza del Popolo che non c’è più, ma riverbera i suoi lumini laici, scialbati di memoria. Non tanto la materia formata che (fuori)esce e si risolidifica da quell’iniziale, piatto carta-modello mentale, che è l’orma schifaniana e dissanguata della golosità del vedere, che tronfa in prima copertina e che ha nei Sillabari di Goffredo Parise il portolano sentimentale dei punti cardinali argentati, per smarrirsi con melanconica voluttà. E nemmeno la banalità di ricordare che Celant, con le sue frequentazioni Prada e l’orgoglio d’aver portato Armani e la déesse Moda al Guggenheim, prediligerebbe questo tasto, tra i tanti della polifonia vorace che Giosetta Fioroni, soprattutto in questo voluminoso centone di cose e progetti e memorie, persegue, cambiando continuamente registri al suo organo portativo della mutevole nervosità manuale. Pur restando fedelissima alla sua martellante vocazione adolescenziale (figlia d’uno scultore, nel «disordine vitale» del suo atelier di crete e materie, coperte nella notte da manti protettivi dell’umida fecondità, come una coorte di fantocci. E poi d’una mamma burattinaia estrusca, di Tarquinia, che le fa conoscere

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Architettura

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Infanzia

e visionarietà di Giosetta Fioroni di Marco Vallora Cardarelli, nella farmacia avita). Commistione, che stampa il suo immaginario semprinfantile: «in tutto il mio lavoro c’è una specie di matrice comune che è l’infanzia, vissuta tra elementi molto legati alla visionarietà». E come è già Giosetta, quella pupattola insoddisfatta, che posa bambina con un «copricapo russo», come una Paolina poco napoleonica, su una chaise-longue di midollino para-liberty, le scarpette della già avviata contestazione tranquillamente sul cuscino di mamma, complice papà, pronte a scapparsene verso le sue creative scarabattole, prima ancora d’incocciare in un maestro decisivo, come Toti Scialoja. Ma sullo sfondo, sempre, l’imprimée a paillettes d’una strega-marionetta, che strega e stampa il suo immaginario, come un’imprinting indelebile, sia pure slavato. E la memoria che si stinge d’argento, come una tintura casalinga, nel tinello maldicente e avvelenato d’una fantasia che sarà presto ceronettiana. Il rapporto tra i due artisti è ovviamente ben documentato in questo regesto, che contempla fotografie, docu-

menti, memorie di cataloghi e di collaborazioni e di amicizie, con Parise, in primis («nel ’64 conobbi da amici Goffredo e cominciammo una complicata ma ap-

passionata vita comune») e poi con Twombly, con Zanzotto, con i pittori popitaliani di Piazza del Popolo, con il gallerista della Tartaruga De Martiis, con Pascali, con il cane Petote e il Gruppo ’63, con Erri de Luca e Franco Marcoaldi, e con l’inseparabile Arbasino: «Giosetta dipingeva le fiabe leggendole secondo l’interpretazione psicoanalitica di Bruno Bettelheim», che poi si scoprì che picchiava i suoi figli e li terrorizzava, e tutto questo torna, con questo universo scosso e talvolta ammaliato e dolcemente, polverosamente criminale (gli archivi assassini di Duesseldorf, l’Acephale batailliano, le saponificatrici industriose e littorie di Ceronetti). Una scrittura azzoppata e frammentata del figurativo («Io ho sempre avuto passione per lo scrivere amanuense. Quello che Restany chiama “la scrittura di Giosetta Fioroni” è appunto un misto di calligrafia e di segni e disegni ideogrammati, che vanno a comporre una particolare scrittura, una scrittura-calligrafgia emotiva»). L’emotività e la colla del ricordo, visto magari attraverso lo spioncino di questi teatrini, che ricordano più Cornell che non Duchamp. Curiosamente Celant, che abbandona il suo rigore arte povera e il suo internazionalismo, che sinora si era piegato solo su Melotti, Vedova, Accardi e poche altre cose italiane, la prende da lontanissimo, in un dotto preambolo che deve molto all’Informe di Rosalind Kraus e che poco sembra a che fare con la Fioroni, ma la nobilita come uno di quegli imprescindibili «tasselli indispensabili per completare la visione globale» cui appunto si è appena abbandonato. Germano Celant, Giosetta Fioroni, Skira, 456 pagine, 140,00 euro

A Santa Sofia, dove tutto raffigura l’estasi…

n vero inno alla più indescrivibile bellezza», diceva Procopio, è il tempio dedicato alla Divina Sapienza, Hagia Sophia, edificato in un profluvio di luce e in sublime policromia come immenso atto di devozione alla Sacra Presenza.William ButlerYeats ha scritto di Santa Sofia come di una costruzione ove «tutto raffigurava l’estasi», e, in Byzantium, nel 1930: «una cupola accesa dalle stelle o dalla luna, disdegna/ tutto ciò che l’uomo è,/ tutte le complessità/ la furia e il fango delle vene umane». Per Yeats l’arte impersonale è fase della perfetta bellezza, ed è portatrice di una unità della cultura ove naturale e sovrannaturale sono uno. In questa fase sono uniti, nella storia, edificio e simbolo. La grandezza immanente della fusione di potenza e bellezza agisce nella Megàle ekklesìa come «spettacolo che supera ogni aspettativa»: absidi, esedre, capitelli e arcate, mosaici incrostati d’oro e marmi dalle screziature cremisi bianche e verdi concorrono, con la cupola, alla ricchezza profusa della visione; l’architettura è il veicolo del sacro splendore della divina sapienza. Artemio di Tralle e Isidoro da Mileto, architetti-scienziati e mitici costruttori,

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di Guglielmo Bilancioni hanno saputo inscenare il trionfo della struttura e dei meccanismi sperimentali che la autosostengono. Uno spazio «semplice e geniale», ha detto Krautheimer, ove uno spazio-universo che riproduce la volta celeste provvede a una emanzione, dal centro, della Gloria. L’edificio, teatro di sacre liturgie e di complicati rituali di potere, è il luogo dell’incontro, stringente e critico, fra gerarchie ecclesiastiche e politiche. L’apertura del libro su Santa Sofia di William Richard Lethaby, scritto con Harold Swainson, del 1894, è molto decisa: «L’edificio più interessante sulla superficie della terra». Su tale costruzione è stata pubblicata presso Electa la monografia di Rowland J. Mainstone, uscita a Londra nel 1988. Il lavoro di Mainstone unisce analisi strutturale e interpretazione storica, studia antecedenti e riferimenti - Pantheon, Domus Aurea, Spalato, Minerva Medica, San Vitale, Santi Sergio e Bacco - risolve arcani tecnologici e rivela le complicate stratificazioni di volte e di sostegni,

prodotto di continue decisioni in corso d’opera, descrive archi e cupole nelle loro tensioni e nella distribuzione delle forze, elabora teorie sugli sviluppi iniziali dell’opera e fornisce tutti i testi di riferimento delle descrizioni antiche. Come quella di Paolo Silenziario, mistica e tecnica a un tempo: «Una parte mirabile a vedersi, come se niente la sostenesse, stava sospesa nell’aria». Parte importante del libro sono disegni e fotografie, opera dell’autore, che aveva iniziato a lavorare sui rilievi di Santa Sofia assieme a Robert van Nice negli anni Sessanta. Gli elementi fondamentali che armonizzano simbolo ornamento e struttura, in Santa Sofia come in ogni altro grande edificio classico, sono le colonne: «La bellezza sorrise sul pavimento dell’intero tempio - ancora Silenziario - quando si innalzarono le colonne sulle basi ben levigate». E il Sacro appare, assieme al mito di Bisanzio. Di notte migliaia di lampade sospese, sostenute da un anello sotto la cupola detto Polycandelion, e un mare di luce sopra i fedeli rifletteva l’oro dei mosaici e infiammava le volte. Un profluvio di luce, dal carico mistico, una luce autogenerata, aurea. In quegli istanti tutto era chiaro. Sapienza divina è la divina proporzione: «là l’uomo con Dio coesiste». Rowland J. Mainstone, Santa Sofia, Electa, 301 pagine, 110,00 euro


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NON AMAVA SENTIRSI DEFINIRE “MITO” MA ALLA SOGLIA DEI TRENT’ANNI ERA GIÀ STATO DETERMINANTE PER L’EVOLUZIONE DEL JAZZ, SEBBENE IL SUO GENIO

MobyDICK

il paginone

Fenomenologia

AVREBBE PRODOTTO ANCORA INATTESE TRASFORMAZIONI. IN VISTA DELLE CELEBRAZIONI PER IL VENTENNALE DELLA MORTE, DUE LIBRI, TRENTA CD, QUATTRO DVD E MOLTO ALTRO ANCORA RICORDANO L’UOMO E IL MUSICISTA di Adriano Mazzoletti anno prossimo saranno trascorsi vent’anni dalla scomparsa di Miles Davis, ma il mondo del jazz continua a ricordarlo. Due libri, l’autobiografia scritta con Quincy Troupe e un approfondito studio sulla genesi di Bitches Brew, quattro cofanetti per un totale di 30 cd, due piccoli volumi a corollario di due dei cofanetti e altri quattro dvd è quanto oggi viene offerto agli appassionati di Miles Davis, senza dimenticare numerosi dischi, ancora in catalogo, registrati nel corso della sua lunga e importante carriera, e altri volumi di ormai difficile reperimento, una biografia critica dovuta alla penna della tromba inglese Ian Carr e Round About Midnight di Eric Nisenson; se a questi poi si volessero aggiungere Kind of Blue di Ashley Kahn e Miles Live in Studio di Richard Cook pubblicati da Il Saggiatore nel 2003 e 2008, musicisti, musicologi e appassionati avrebbero un panorama assai completo dell’opera regi-

L’

derò sempre così Miles e lo stesso farà il milione dei tuoi figli. Con quella incasinatissima voce da vecchietto lo so che stai alzando gli occhi al cielo in questo momento e stai dicendo (con un grugnito) So What? E allora?».

Nelle parole di Leroy Jones c’è tutto Davis. La sua storia musicale, ma anche il suo carattere. Ma era così scostante, scontroso, inavvicinabile, Miles? Nell’autobiografia egli scrive: «Ho sempre voluto essere accettato come un buon musicista perciò non facevo il clown come Armstrong e Gillespie. Questo non richiedeva sorrisi, ma solo abilità nel suonare la tromba. È quello che ho sempre fatto. Prendere o lasciare. Così a molti bianchi, giornalisti e non, non piacevo e non gli piaccio nemmeno adesso, perché mi vedevano come un piccolo negro borioso. Noi del Midwest guardiamo ai bianchi in modo diverso. C’era poi il fatto che arrivavo da un altro ambiente sociale

Scontroso, inavvicinabile. Una fama che derivava dalle sue origini benestanti che non lo fecero mai sentire inferiore per il colore della pelle. Si comportava come un bianco della sua stessa estrazione e questo gli procurò ostilità strata del musicista Davis e, attraverso l’autobiografia e il dvd The Miles Davis Story, la possibilità di meglio capire anche Davis uomo.

Questa è la terza edizione italiana del volume di Miles e Quincy Troupe. La prima venne pubblicata nel 1990 da Rizzoli a distanza di solo un anno da quando era uscita negli Stati Uniti. La seconda nel 2001 da Minimum Fax senza però le oltre cento foto delle prime edizioni americana, francese e italiana. Questa terza, sempre per i tipi di Minimum Fax si differenzia dalle precedenti per alcune parti aggiunte. Una intervista inedita di Alex Haley a Miles e l’orazione funebre che Amiri Baraka, nome musulmano del poeta e scrittore Leroy Jones, recitò nel corso delle cerimonia. «Tu eri già bop quando sei arrivato in volo con l’anima dalla testa umana. Poi sei diventato cool. Quella fu, come dire, la creazione di te stesso. Poi ti sei messo con Philly e quegli altri per suonare un bop più tosto. E poi ci hai scatenato addosso quel mostro totalmente visionario, Trane, in quella band per sempre classica, perfetta, meravigliosa. Fa che possiamo essere sempre in grado di ascoltare Straight no Chaser ogni volta che ci va. Lo so che negli ultimi anni t’ho sentito e t’ho visto vestito tutto di viola e roba del genere e la cosa mi ha spaventato un po’.Tutto quel rock’n’roll a palla non è che mi interessasse tanto, però senti fratello ho ascoltato Tutu e ci stavi dando dentro come il Miles che conoscevamo. Ti ricoranno III - numero 17 - pagina VIII

rispetto a quello di Louis e Dizzy, inoltre ero più giovane e non avevo dovuto passare i casini che avevano passato loro per essere accettati nell’industria musicale». Per comprendere a fondo l’animo di Miles e certi suoi atteggiamenti a torto considerati violenti è necessario considerare diverse ipotesi. A differenza dei musicisti neri della generazione precedente, Davis apparteneva a una famiglia benestante. Il padre era un medico conosciuto e apprezzato ad Alton (Illinois), sua città natale. Nel 1944, a diciotto anni, si era diplomato alla Lincoln High School e come la maggior parte degli studenti americani delle middle-class aveva iniziato a

suonare nell’orchestra della scuola per poi decidere di continuare gli studi musicali alla Julliard School, una delle più prestigiose degli Stati Uniti. Finché Miles fu un musicista come tanti altri la sua estrazione sociale così diversa da quella degli Armstrong, Parker, Gillespie tutti provenienti dal Sud e appartenenti a famiglie differenti dalla sua, non creò problemi. Questi iniziarono quando divenne una personalità di rilievo. Molti afroamericani della sua generazione e della sua stessa estrazione sociale che avevano la pelle fortemente scura, si ritenevano inferiori a causa dell’ostilità con cui venivano trattati. Se per molti ciò era considerato inevitabile, per Davis era intollerabile. Iniziò a comportarsi come un bianco della sua stessa estrazione. Elegantissimo, indossava vestiti e calzature italiane e quando giunse il successo anche economico, acquistò una Ferrari che utilizzava spesso per i suoi spostamenti professionali. Furono in molti a considerare tutto ciò come una forma di arroganza.

Quincy Troupe che con Miles scrisse non solo la biografia, ma collaborò a molte altre iniziative, racconta in un prezioso volumetto Io e Miles Davis,Vita e musica di un genio molti episodi relativi al carattere del trombettista che non tollerava intrusioni nella sua vita privata e soprattutto pretendeva di essere rispettato e non solo come musicista. «Una sera a cena a casa sua - racconta Troupe - suonarono improvvisamente alla porta. Il suo cameriere fece entrare un uomo sulla trentina, un nero. Appena Miles lo vide gli chiese chi fosse e che cosa volesse. Lo sconosciuto rispose che era venuto a lavorare come assistente di Gordon Meltzer, il road manager. Miles disse all’uomo che avrebbe dovuto aspettare l’arrivo di Gordon e gli ordinò di tornare giù ad aspettare. Quando Gordon arrivò portandosi appresso lo sconosciuto, Miles, irritato perché si era presentato senza farsi annunciare, disse subito che quel tale non avrebbe funzionato. Gordon che sapeva come prendere Miles disse che era uno bravo. Miles fissò Gordon per un attimo e gli chiese di dire all’altro di andare in cucina e di portare a tutti del gelato. L’uomo iniziò ad attraversare l’intera stanza. Miles sollevò gli occhiali da sole e scrutò attentamente l’uomo mentre camminava. Quando entrò in cucina Miles fece scivolare gli occhiali al loro posto, si girò verso Gordon e disse:“Non funzionerà”.“Oh Miles, ma perché?”, sbottò Gordon. “Perché cammina fuori tempo” rispose». Nell’autobiografia, nel libro di Quincy Troupe e nel dvd dedicato alla storia di Davis, so-


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a di Miles Davis

Alcune immagini di Miles Davis. A sinistra, il musicista con Louis Armstrong. Sotto le copertine dei suoi cd più celebri e due ritratti no innumerevoli gli episodi a volte divertenti, a volte sorprendenti, spesso drammatici come il pestaggio e conseguente arresto da parte della polizia di NewYork, perché si era rifiutato di farsi da parte mentre camminava su un marciapiede affollato di passanti. Davis era un uomo di carattere e se quando eri con lui non ti comportavi nel modo giusto, potevi subire almeno quattro punizioni. Poteva ignorar-

presa mia e di Grappelli si tolse i grandi occhiali da sole che non aveva fino a quel momento mai rimosso dal suo viso. Ma è il Davis musicista che rimarrà per sempre, nella storia della musica del Novecento. L’opera omnia è disponibile in quattro cofanetti di altissimo interesse. Il primo

Dischi come “Miles Ahead”, “Porgy and Bess”, “Sketches of Spain” fecero credere che avesse toccato i massimi vertici espressivi. Ma pochi mesi più tardi incise “Bitches Brew”, primo esempio di quella discussa “svolta elettrica” ti del tutto. Poteva togliersi gli occhiali scuri e fissarti con il suo sguardo come se volesse fulminarti. Poteva offenderti insultandoti con una sequela di parolacce. Se però, tutto sommato, gli piacevi, poteva mettersi a giocare con te come fa il gatto col topo. Personalmente ho avuto modo di incontrare Davis diverse volte. E l’ho sempre trovato gentile e affabile. Forse perché amava molto il nostro paese e la nostra gente.Voglio solo ricordare un episodio.

Nel 1980 ricoprivo la carica di direttore artistico di uno dei maggiori festival italiani, quello di Pompei, che si svolgeva nel Teatro agli scavi che in quel periodo ospitava con grande successo anche le Panatanee. Per uno dei concerti ebbi l’idea di fare esibire nella prima parte Grappelli, nella seconda Davis. Quando Miles seppe che Stéphane avrebbe suonato prima di lui, pretese di venire in teatro a inizio concerto. Si sedette fra le quinte e per oltre un’ora seguì con grande attenzione il violinista francese. A un certo punto mi chiese per quale ragione avessi scelto il trio di Stéphane per il primo set del concerto. Il violinista all’epoca suonava con un trio a corde - violino, chitarra, contrabbasso - naturalmente acustici. Davis utilizzava già all’epoca strumenti elettrici ed elettronici. Gli spiegai che trovavo una grande affinità fra la sua musica e quella di Grappelli. Mi guardò sorridendo e alla fine del concerto chiese di fare una fotografia, lui, Stéphane e io. E con grande sor-

racchiude in quattordici cd tutte le registrazioni da lui effettuate fra il 1954 e il ’56 per Prestige. Tre anni straordinariamente intensi per il suo lavoro in studio di incisione e per le molte tournée negli Usa e in Europa. È sufficiente scorrere i nomi dei suoi partner di quel periodo per avere l’idea di come Davis, alla soglia dei trent’anni, fosse stato determinante per l’evoluzione del linguaggio jazz alla metà degli anni Cinquanta. Con i pianisti John Lewis,Thelonious Monk e Horace Silver, i contrabbassisti Percy Heath e Oscar Pettiford, i batteristi Art Blakey, Kenny Clarke e Max Roach, i sassofonisti Lucky Thompson, Jackie McLean, Sonny Rollins e soprattutto John Coltrane realizzò, in quel periodo, quei quattordici album con una lunga serie di capolavori, Oleo, Four, Half Nelson, Tune Up. Fu anche la straordinaria triade di grandi musicisti - Red Garland, Paul Chambers e Philly Joe Jones - che lo accompagnarono in quel periodo, a modificare radicalmente il ruolo della sezione ritmica nel jazz.

Impossibile scegliere fra i quasi novanta titoli incisi in quei tre anni i più riusciti. Ai già citati si dovrebbero ancora aggiungere Dr. Jackle e Bemsha Swing che si ergono come capolavori assoluti. Nel corso della seduta in cui venne inciso quest’ultimo, Davis chiese a Thelonious

Monk di non accompagnarlo durante gli assolo di tromba, lasciando solo al contrabbasso e alla batteria il compito di suonare, fatto questo che rende l’atmosfera più ampia e ariosa. Un secondo cofanetto con sei cd e un volume di oltre novanta pagine con la minuziosa descrizione delle varie sedute, contiene tutte le incisioni realizzate da Davis con Gil Evans per Columbia dal 1957 al 1968. L’importanza del rinnovato rapporto con quel grande arrangiatore che era stato uno degli artefici delle famose sedute del 1949, in seguito raccolte nell’album Birth of the Cool, appare evidente fin dalla prima seduta: non più un complesso di cinque o sei elementi, ma una grande orchestra al servizio del più geniale solista espresso dal jazz in quel momento.

Dischi come Miles Ahead, Porgy and Bess, Sketches of Spain fecero scorrere fiumi di inchiostro. Critici americani ed europei ritennero che la musica di Miles avesse toccato i massimi vertici espressivi. Non potevano prevedere che pochi mesi più tardi con organico rinnovato e con musicisti più vicini ai suoi nuovi interessi musicali - Wayne Shorter, Joe Zawinul, Chick Corea, Herbie Hancock - Davis avrebbe inciso Bitches Brew, primo esempio di quella «svolta elettrica» che divise il mondo del jazz. Non c’è dubbio che Bitches Brew sia un capolavoro, come hanno recentemente spiegato assai bene Enrico Merlin e Veniero Rizzardi nel loro corposo volume edito da Il Saggiatore, dedicato a quest’opera. Forse non «il capolavoro» di Davis in senso assoluto, come asseriscono i due autori, ma sicuramente un momento di grandissimo significato per ciò che Bitches Brew determinò nella successiva evoluzione del jazz. Il quarto cofanetto (pubblicato da Sony) raccoglie sei dischi per un totale di ventotto brani realizzati tutti fra il 16 e il 19 dicembre 1970, quando Davis con il suo gruppo comprendente, fra gli altri, John McLaughlin, Keith Jarrett e Jack DeJohnette, era ingaggiato in un locale di Washington (Dc), il Cellar Door. Oltre sei ore di registrazioni live con Davis, ormai un mito, in splendida forma. Ma sul fatto di essere definito un mito, non era troppo d’accordo. «Un mito - soleva ripetere - è un vecchio col bastone che viene ricordato per quello che faceva una volta. Io lo sto ancora facendo».


Narrativa

MobyDICK

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John Banville LA LETTERA DI NEWTON Guanda, 126 pagine, 12,50 euro

ulla copertina dell’ultimo romanzo (tradotto) di John Banville, l’editore Guanda ha deciso di riportare una frase del Sunday Times: «Come far capire ai lettori che La lettera di Newton è qualcosa di straordinario?». Assicuriamo i colleghi inglesi che a noi italiani, almeno quelli che si allontanano dal clima di superficialità e dal fetore di discarica che oggi si sente qui, non può sfuggire un testo come questo. Un romanzo breve e intensissimo che conferma, se ce ne fosse bisogno, il talento di uno dei più grandi narratori delle isole britanniche (è nato in Irlanda nel 1945). Che c’entra Isaac Newton? L’io narrante è quello di uno storico che trascorre un’estate nel paese di Fern con l’intento di ultimare un saggio sullo scienziato. Lo «scopritore» della gravità a cinquant’anni si fermò, turbatissimo. Non potendo continuare a esplorare «gli assoluti» prestò orecchio a sé e al comune sentire degli uomini. Quando un incendio distrusse i suoi ultimi scritti, assicurò i preoccupati amici che non era scomparso «nulla». Lo storico che prende alloggio presso la famiglia Lawless pone le sue carte sul tavolo ma, come lo scienziato inglese, non scrive un rigo. In quella casa di campagna ci sono la quarantenne Carlotta, suo marito Edoardo, ubriacone e rozzo, la nipote Ottilia, ventenne, e il bambino Michael (di chi sia figlio è un mistero). È con la ragazza che il protagonista s’infila in una «stregoneria frenetica dei sensi», ben sapendo che l’amore è come una nuvola: passa e magari non torna nello stesso spicchio di cielo. S’accorge invece di amare Carlotta Lawless: «Una donna di mezza età, decisamente sposata, con mani di mezza età, rughe intorno agli occhi e un tenue accenno di baffi, che mi aveva rivolto non più di venti parole… e tuttavia eccola seduta nel letto con me, con ancora il vestito che indossava alla festa e un sorriso imprudente: amore». Se Ottilia, che quando si spoglia pare si denudi del suo stesso corpo, è «un abbozzo, sull’oboe, del tema a venire», Carlotta è una luce che rimane nella foto della memoria. L’uomo non riesce a trovare parole per descriverla e anche quando pronuncia

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libri

Amore

e altre storie sulle orme di Newton Nel romanzo di John Banville i turbamenti dello scienziato e quelli di uno storico alle prese con un saggio a lui dedicato

Riletture

di Pier Mario Fasanotti

il suo nome, «esso suona come un’esagerazione».Tutto della donna gli sta bene. E tutto va a finire sotto quella lente d’ingrandimento che è l’amore. Passione della mente, spaventosamente dilatata. Poco importa se certe volte non ricorda il colore dei suoi occhi. La famiglia Lawness è un insieme di bizzarri frammenti che lasciano un’orma, e tutto riconduce a Carlotta per la quale lo storico di Newton nutre un continuo e silenziosissimo spasmo. L’amore esiste «per darci un nuovo concetto di noi stessi». Ma c’è anche Ottilia, le cui frequentazioni notturne non cessano. Lei però comincia a immaginare un futuro, sia pure nebulosamente. L’ospite confessa a se stesso che della curiosità amorosa verso di lei «non era rimasto molto, tranne lussuria, fastidio e una sorta di scontrosa compassione». Il gioco erotico continua, ma perverso, spietato e «orribilmente piacevole». Un giorno la ragazza, sola nella casa, invita l’amante nella sua stanza, ma rivela poi di aver barato sul luogo. Tutto è sfumato e Banville penetra delicatamente nella complessità dei sentimenti umani: Ottilia ha forse capito che l’uomo ha bisogno di «sentire» Carlotta? L’estate a Fern diventa un tempo all’interno del tempo.Tra l’intellettuale e Carlotta c’è praticamente un solo scambio di battute: la donna si meraviglia apprendendo che Newton «lasciò perdere». E per questo esprime rammarico: i suoi occhi sono «addolorati», ma non tanto per lo scienziato, quanto per quello sconosciuto che poco tempo prima ha bussato alla sua porta. Null’altro Banville aggiunge, tratteggiando con mano leggera l’intuizione di Carlotta dinanzi alla resa, questa volta anche sentimentale. Intanto il rapporto tra i due amanti è sempre più intriso dalle allusioni e dal taciuto. E non sarà esplicitamente avvertito il lettore sul passo che lui farà quando verrà a sapere che Ottilia ha in sé il germe di un futuro. È probabile, ma non certo, che lo storico sarà «un tutt’uno con le cose e le persone» al pari di Newton dopo la crisi che lo distanzierà dalla speculazione.

Del Giudice e quello scintillio dei fuochi d’artificio no spazio breve per dire pur sommessamente di un’opera letteraria che avrebbe comunque bisogno di ampi margini critici: quella di Daniele Del Giudice (1949). Dal primo libro Lo stadio di Wimbledon (’83), quando apparve suscitando molto interesse, è tale la forza della sua narrativa, le diverse tematiche che tocca anche con grande sapienza tecnica, rara e non facile per la sua forza stilistica, che è davvero difficile valutare la misura delle sue potenzialità non certo ancora espresse del tutto, malgrado i sei libri pubblicati fino al 2009. Uomo di studi e di grande cultura classica e moderna, Del Giudice si presenta con tutto il suo ricco bagaglio narrativo con una esperienza tecnica che varia ogni volta in latitudine: navigatore (e il riferimento va a Orizzonte mobile, 2009); pilota di aerei con una profonda conoscenza anche dei temi e dei tempi della navigazione aerea (Staccando l’ombra da terra, 1994), incentrandosi in Atlante occidentale del 1985 con un personaggio chiave come un esperto che lavora a un acceleratore nucleare (e anche qui è formidabile la sua conoscenza pratica e teorica), non ci sarebbe da stupirci se ci offrisse in futuro una tematica narrativa legata a un mondo siderale o a un mondo matematico

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di Leone Piccioni o altra cosa ancora. Del resto alcune esperienze le ha fatte sulla sua persona viva, navigando più volte fino all’Antartico, prendendo dopo tante esercitazioni il brevetto di pilota e aggiungendo certamente (e ancora ne aggiungerebbe) studi e specializzazioni. Ma si badi bene: tutti questi elementi tecnici e teorici non sono di impedimento per il lettore, sono perfettamente restituiti nell’ambito di una narrativa umanistica e sentimentale tale da catturare sempre chi legge portandolo in un porto di quiete e di soddisfazione.Talvolta con il rimpianto che un racconto sia già finito: questo avviene per esempio sia in Orizzonte mobile che in Atlante occidentale. Questo rapporto tra conoscenza tecnica e invenzione narrativa, Del Giudice poteva averlo conosciuto anche in uno scrittore come Primo Levi che ha molto amato e per il quale ha introdotto presso Einaudi l’edizione delle opere, con particolare riferimento alla Chiave a stella. In Atlante occidentale si confrontano due personaggi di grande rilievo (e già qui comuncia l’avventura aviatoria): uno si chiama Brahe e l’altro Epstein: il primo, un tecnico che lavora a un acceleratore nu-

Esperienza tecnica e invenzione narrativa nelle opere dello scrittore

cleare; il secondo, scrittore prima noto per successi di genere popolare, poi tutto dedito a riferimenti di narrativa sul tempo e sulla temporalità degli oggetti. I loro incontri, i loro colloqui sono molto profondi e pieni di umanità. Ci sarebbe molto da citare ma mi limito a indicare le due scintillanti pagine che danno profonda emozione quando Del Giudice descrive uno spettacolo di fuochi d’artificio. Non diversamente, in Staccando l’ombra da terra Del Giudice si lega profondamente al lettore prima raccontandogli il suo primo volo come pilota pieno di pericoli e di difficoltà, sull’orlo vicinissimo della morte; poi descrivendo in un intero capitolo ambientato nella guerra, nel ’42, le avventure di una squadriglia di aereisiluranti italiani comandata dal colonnello Buscaglia, che attacca nel golfo di Bougie un porto pieno di navi da guerra e da carico degli alleati, con una insolita manovra provenendo da terra anziché dal mare sulla costa algerina. Anche qui una descrizione che ti prende, non ti lascia e commuove pensando alla sorte di tanti piloti deceduti. Del Giudice sa che l’Italia è scesa in campo senza «nessuna struttura alle spalle» ma con grandi talenti individuali, veri eroi che hanno pagato con la vita e che non si possono dimenticare. Mi tornano in mente, chiudendo queste brevi note, i fuochi d’artificio: quasi più belli - credetemi - a leggerli che a vederli!


MobyDICK

poesia

1 maggio 2010 • pagina 19

Il Dolce Stil Novo ai tempi di Properzio di Roberto Mussapi

Q

uesti versi sono estrapolati da un elegia di Properzio (circa 50-15 a.C.), uno dei grandissimi poeti latini dell’età d’oro di Augusto. Sarebbe impossibile «estrapolare» (atto che comprende un’azione chirurgica di taglio) da un lirico come Catullo, di cui ogni poesia costituisce una fulminante e indivisibile unità assoluta, secondo la cifra dei lirici puri, Petrarca, Cavalcanti, Guinizelli, e aggiungerei Saffo, se non avesse provveduto il tempo, nel suo volto più crudele, a operare tagli feroci ai suoi versi, che ci sono giunti malauguratamente a frammenti. Che brillano però di lucentezza assoluta. L’opera di Properzio consente invece di estrapolarne delle parti, come quella di Omero o la Commedia di Dante, perché, pur trattandosi di un poeta lirico, le sue poesie compongono un libro più simile a un poema che a un canzoniere. Il canzoniere è uno scrigno che contiene un certo numero di gioielli, il poema è simile a una statua o un edificio in cui i gioielli si sono fusi nelle loro quintessenza alchemica, per generare una realtà diversa. Nel caso specifico l’opera di Properzio: il suo libro di Elegie costituisce una novità assoluta nella lirica occidentale, di cui amplifica e dilata, anche spiazzandolo, lo sguardo stesso del poeta e la sua voce conseguente. Catullo parla a se stesso, e nel suo Odi et amo o nel lamento per la morte del passero di Lesbia canta, nel suo io, il dolore universale. La grande lirica segue questo atteggiamento monologante in cui la sfera dell’io si fa cassa di risonanza delle pulsioni cosmiche.

Properzio non parla a se stesso, scrive lettere in forma di poesie: la sua è elegia epistolare. Le lettere sono principalmente indirizzate a Cinzia, la donna amata, simile alla Lesbia di Catullo per la passione lacerante che genera, per l’infedeltà che fa impazzire il poeta, per quella tragica irraggiungibilità ultima, definitiva, appagante, che nel mondo contemporaneo solo il cinema ha saputo riproporre con La mia droga si chiama Julie e altri film d’amore dello stesso grande François Truffaut. Ma Cinzia è, se vogliamo, ancora più presente di Lesbia, perché è lì, davanti, il poeta sta scrivendo poesie indirizzate a lei, che vediamo ascoltare, o scrollare le spalle, muta, anche a noi inarrivabile. Inarrivabile al poeta e a noi, e nello stesso tempo, come l’autore continuamente lamenta, fin troppo abbordabile da molti. Il paradosso della donna nella poesia d’amore latina. Nello stesso tempo Properzio scrive anche, meno di frequente, ad altri: amici, conoscenti, e a loro parla d’amore, mescolando le proprie pene personali alle tragedie e alle storie del mito. A volte scrive a se stesso, in ciò essendo comunque diverso dal lirico puro, da Catullo. Catullo parla in assolu-

il club di calliope

I lamenti sulla sua infedeltà, lei ti soggioga,

to, il suo io è il mondo. Properzio scrive a volte a Cinzia, a volte ad altri, a volte a se stesso. spesso pregarla per un nonnulla, spesso ti respinge, Il suo io non è assoluto, è come spezzato, vive e spesso roderti coi denti le unghie immeritevoli una condizione straordinariamente moderna. E modernissima è l’intuizione dello scambio, mentre l’ira ti agita i piedi irresoluti. o passaggio di identità: caratteristico dell’eleInutili gli unguenti sparsi sui miei capelli, gia di Properzio è di iniziare una poesia rivolgendosi a Cinzia, ma poi, nello svolgimento, e l’andatura si faceva cauta, i passi misurati. parlare ora a lei ora a se stesso, con mutamenQui non c’è erba che valga, né Citeide notturna, ti naturali che paiono inavvertiti, creando una straordinaria, geniale identificazione, doloroné gli infusi del sapiente Perimede. sissima, tra il poeta che ama e la donna oggetNon c’è falso veggente che io non ingrassi, to del suo amore. Non sappiamo più chi sia lui, se parli a lei o a se stesso, tanto l’amore né fattucchiera che non rigiri i miei sogni. travalica i limiti della persona individuale. L’amore è l’ossessione della poesia lirica delQuando non scorgi né le cause né le ferite aperte, l’età di Augusto, come lo era nei lirici greci, coda dove provenga tanto male è un mistero. me lo sarà nel Dolce Stil Novo. E similmente alla poesia del Duecento fiorentino, la donna Non di medici o di un letto ha bisogno questo malato, amata, vale a dire l’oggetto della poesia, in ule il mutare del cielo o del vento non lo sfiorano: tima analisi la realtà, è segnata da un destino di inarrivabilità ultima, definitiva: il poeta incammina, e gli amici vedono il suo funerale! tuisce che tale approdo coinciderebbe con la Questo è il mistero che noi chiamiamo amore. cessazione del vivere stesso, con il suo spasimo, l’amore definitivo e pacificato presuppone la morte. Ecco che la poesia si rivela il conSestio Properzio tinuo drammatico baluginante sfolgorio del rovello: per gli stilnovisti la donna è irraggiun(Traduzione di Roberto Mussapi) gibile, fonte di sofferenza, in quanto «angelicata», di una stoffa diversa da quella umana, per Properzio e in genere i lirici del suo temsua cultura e saggezza, ricorre alle fattucchiere, ai pratipo parrebbe, ma solo a occhi superficiali, il contrario. coni, a qualunque imbonitore prometta di lenirgli una peCinzia, in questo affratellata a Lesbia, è fonte di strazio na che egli sa irredimibile. Cammina come un morto, anche per i suoi continui tradimenti, per la sua esplicita mentre ambula gli amici vedono già il suo funerale. L’alussuria e infedeltà: che rapporto con la donna angelica- more distrugge, brucia, come avverrà in Cavalcanti, semta? Semplice. La similarità tra una donna del pre arso come un legno che sta incenerendo divorato dalmondo pagano e una dell’età cristiana. la passione. Il malato d’amore, incide nei suoi versi maQuell’aura che nelle donne di Caval- gnifici Properzio, non ha bisogno di un medico: quel macanti o del Dante delle Rime è an- le è più profondo, la scienza, ha intuito ed espresso il poegelica, in Catullo e Properzio è co- ta, non è in grado di guarire o anche solo compiutamenmunque il segno, il marchio di te conoscere l’uomo e i suoi mali. In tal senso le diagnosi un essere non propriamente del medico sono simili alle chiacchiere dei ciarlatani e terreno: la donna è un essere delle false veggenti: non raggiungono l’obbiettivo. La comisterioso, «demonico», nel noscenza avverrà per altre vie, ma non tocca al poeta senso letterale del termine (che scrivere la diagnosi, orientare la guarigione: al poeta tocnon c’entra niente col negativo ca vivere, testimoniare la nostra condizione. Cinzia è Cin«diabolico»), mette in relazione zia, certo, ma è, in quanto oggetto amato, disperatamente due mondi, quello noto e lumino- perché è inafferrabile fino in fondo, la realtà stessa a cui so del giorno, dell’Urbe, della Fa- l’uomo si accosta con gli occhi del poeta, gli unici in grama, della storia, e quello notturno, do di reggerne l’oscura incandescenza. Dove il medico buio dell’incubo, dello smembramento non arriva, dove si apre lo spazio del buio sconfinato, la dell’io, dell’anima che disperata cerca in fame d’amore. Il poema epistolare di Properzio non è un quel volto e in quel corpo il suo compimento.I ver- lamento, ma un inno alla forza divorante dell’amore che si qui proposti di Properzio fissano il momento tragico ha bisogno del suo stesso potere distruttivo per tenere acdell’agone: il poeta, uomo colto, celebre, famoso per la cesa la fiaccola della passione, della vita.

BELLEZZA E VERITÀ, GLI IMPERATIVI DI AMELIA in libreria

SIESTA

Moltitudini di sole assediano la casa e il tempo intimorito si trattiene di là dalle persiane verdi come canneti Al margine di tutto troviamo il nostro corpo come un’inutile postilla fin quando le campane traboccanti rovesciano la sera e umiliato il cielo s’inginocchia e noi indossiamo previsti paesaggi

di Loretto Rafanelli

ifficile trovare poeti che abbiano vissuto la propria esistenza così radicalmente per la poesia come Amelia Rosselli. In lei c’è un eroismo incessante che non solo la porterà a dire «la poesia è al centro della mia vita» ma la farà rinunciare a tutto ciò che poteva sviare da essa. Per questo confesserà: «Non ho mai voluto legarmi con una vera famiglia, per non togliere attenzione e tempo alla poesia». Un impegno totale alla ricerca «della bellezza e della verità», per la Rosselli gli obiettivi del poeta. Eroismo peraltro ben più pesantemente vissuto dal padre Carlo e dallo zio Nello, uccisi come si sa da sicari fascisti a Parigi nel 1937. Ma Amelia quelle traversie familiari se le porterà con sé fino alla fine, con il suicidio avvenuto a Roma nel 1996. Della poetessa, che Mengaldo considera «un fenomeno sostanzialmente unico nel panorama letterario italiano», possiamo ora conoscere il percorso biografico e il pensiero leggendo l’emozionante libro di conversazioni e interviste (dal 1963 al 1995): È vostra la vita che ho perso (Le Lettere, 394 pagine, 35,00).

D

Jorge Luis Borges (da Fervore di Buenos Aires, Adelphi, 2010)


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molto convincente Lucrezia Lante della Rovere nella parte dell’ispettore di polizia Lisa Milani. La serie Donna detective è in prima serata su Rai1. Fa aumentare gli ascolti. L’attrice, con molte lentiggini (un pregio estetico) e con un fisico splendidamente ammorbidito dall’anagrafe, interpreta un ruolo cosiddetto moderno, quello della donna che lavora. Non solo, anche quello della donna che è in grado di coniugare famiglia (marito e tre figli) con un incarico di responsabilità, con un lavoro che notoriamente scardina gli orari impiegatizi della maggior parte di tutti noi. Per fortuna gli autori della sceneggiatura hanno evitato (almeno finora) il principale luogo comune che serpeggia, o addirittura si pone come caricaturale, tra i serial con donne con la divisa o comunque al comando. Ed è questo: frizzi e lazzi, mezzi sorrisi e furbe occhiate verso un «comandante» con i tacchi. Come se Donna detective anticipasse una realtà che tutti vorremmo, ossia senza battutelle da bar, una società nella quale il genere sessuale è del tutto laterale rispetto al lavoro. Qualcosa di assodato, insomma, alla stregua di un’abitudine comportamentale maturata da decenni. Il serial fa comunque l’occhiolino ai temi di cui si parla più diffusamente oggi. In primis il rapporto con i figli adolescenti. Nel caso specifico Lucrezia-Lisa deve sperimentarsi con la figlia Ludovica, già quasi donna ma ancora bambina nelle sue incertezze, collocata appunto a metà del percorso della crescita che punta alla maturità e all’autonomia. Lo si sa: gli adolescenti parlano poco, reagiscono bruscamente, sono pronti a scatti umorali verso chiunque. Una figlia, poi, ha spesso un rapporto più fluido con il padre. La coppia madre-figlia è un topos narrativo vecchio di secoli: dall’iniziale diffidenza e competizione si passa, ma sempre faticosamente, alla complicità e all’intimità mentale. Ed è solo in quest’ultima fase di vita che la donna più matura smette di essere un’antagonista, consciamente o no, per diventare un’alleata. Il padre si potrà fare un po’ da parte. Un altro elemento di più o meno forzata attualità è l’abilità della donna nel vestire

È

danza

Televisione

spettacoli DVD

Donna detective

sulle ali dell’attualità

QUATTRO PASSI NEL PAESE DELL’ARCOBALENO e can’t wait. Let’s go 2010», ripetono a ogni angolo di strada i cartelloni che annunciano i prossimi Mondiali di calcio nell’Eastern e Western Cape. Una festa di genti e colori diversi, quanto mai consona a quel Sudafrica che l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu ribattezzò Rainbow Nation. E proprio al paese dell’arcobaleno, è dedicato Sudafrica, bel documentario firmato Discovery che conduce gli spettatori alla scoperta di Città del Capo e della terra dei vini, della Garden Route e del Blyde River Canyon. Una gradevole ricognizione in una terra dal fascino naturalistico senza pari.

«W

CONCERTI

UN’ALTRA CAREZZA FIRMATA NEW TROLLS panni diversi a seconda dei momenti. C’è l’ispettrice che dà ordini a sottoposti uomini, c’è quella che fa la torta, c’è quella che dà il bacio della buona notte ai figli, c’è quella che fa la moglie e amante. Donna detective risponde inoltre all’epoca della narrazione gialla in cui l’indagatore non vive più da solo, o se proprio abita in un mono o bi-locale mostra, ai lettori o telespettatori, fette della propria vita sentimentale. Maigret aveva una moglie che più moglie di così non si poteva, Montalbano ha una fidanzata fissa (e noiosa assai) cui è fedele anche se tra mille mugugni, l’avvocato Guerrieri (creatura letteraria di Gianrico Carofiglio) è stato sposato e rimedia alla solitudine con «compagne» che si susseguono, l’ispettore Barnaby convive serenamente con consorte e fi-

glia. Il modello di Raymond Chandler o di Conan Doyle pare sia del tutto superato. Un’altra caratteristica della serie con la Lante della Rovere somiglia in tutto e per tutto a quella delle più recenti storie gialle: l’intrecciarsi del fatti pubblici, ovverosia criminali, con quelli privati. L’ispettrice Lisa è un Giano bifronte, specificatamente perché c’è una sua indagine che coinvolge, o sfiora, sua figlia Ludovica e la sua amica più grandicella e smaliziata. E quindi si aprono squarci sulla «malavita» fatta di approfittatori di minorenni, di consumatori di droga, di guidatori di auto pacchiane e potenti. Il ritmo della serie è serrato, piacevole per le pause «familiari». E anche per le straordinarie vedute dall’alto di Roma, che pare adagiata su una rigogliosa e confortante primavera. (p.m.f.)

ra il lontano 1967, quando Vittorio De Scalzi, Nico Di Palo, Gianni Belleno e Giorgio D’Adamo inaugurarono il progressive made in Italy. E da allora, i New Trolls si resero protagonisti di un beat psichedelico che ebbe nella trilogia del Concerto Grosso esiti artistici pregevoli. Gli stessi che dopo più di quarant’anni la band italiana riproporrà all’Auditorium di Roma l’otto maggio, in una serata evento che segna la storica reunion. Per l’occasione, il combo italiano in formazione originale sarà accompagnato dagli archi dello Gnu Quartet, dal basso di Francesco Bellia e dalle tastiere di Ricky Bolognesi. C’è da scommettere che saranno in molti, a portare via dalla serata un’altra indimenticabile carezza.

E

di Francesco Lo Dico

Sei solitudini si raccontano

io al centro. Sempre più spesso sono dei corpi solitari a riempire lo spazio e il tempo scenico; ma cosa si mette in scena quando si porta sul palco un proprio assolo? Dov’è la chiave di lettura per uno spettacolo che ruota intorno a un solo protagonista? La rassegna Soli al mondo?, ospitata dal centro teatrale La Soffitta di Bologna e organizzata in collaborazione con Teatri di Vita, tenterà di rispondere a queste e ad altre domande dal 3 al 14 maggio, attraverso spettacoli, proiezioni e incontri. In calendario, le performance di sei coreografi - Paola Bianchi, Francesca Pennini, Silvia Bugno, Alessandro Bedosti, Aline Nari, Sayoko Onishi - tutti radicati nella realtà italiana, ma con esperienze e percorsi artistici diversi, che porteranno sul palcoscenico altrettanti assoli danzati, pensati dagli autori per e su loro stessi. La sicurezza di un corpo familiare, ma soprattutto la necessità di esprimere l’idea di un sé culturalmente radicato, è il minimo comune denominatore delle performance presentate a Bologna; un’idea del sé che si manifesta diversamente nelle varie opere e che sottolinea le radici culturali e i percorsi artistici dei vari autori. In particolare, Quando vedremo un tuo ballo? di Alessandro Bedosti, Monoscritture retiniche sull’oscenità dei denti di Francesca Pennini,

L’

MobyDICK

di Diana Del Monte Formaline di Aline Nari, Uno. Frottola contemporanea di Paola Bianchi e Graffio della Bugno si mostrano allo spettatore come varie declinazioni di un unico grido individualista, necessario all’affermazione del singolo. Animal Science di Sayoko Onishi, invece, presenta l’interprete come il tramite di un pensiero collettivo, di una riflessione a più voci che si incarna nel singolo e in cui, memore forse della lingua natìa della coreografa - di origine giapponese ma italiana d’adozione -, il primo pronome personale scompare in un noi/io. La forma dell’assolo danzato, d’altra parte, è stata coltivata da coreografi e danzatori durante tutto il secolo scorso e, ancora oggi, continua a essere una soluzione frequentata spesso dagli artisti in ogni momento della loro carriera. Se da una parte, infatti, la dimensione individuale come espressione artistica risponde a un’ampia gamma di bisogni di natura puramente pratica, dall’altra questo genere di performance sembra mettere in scena una solitudine realmente e pienamente voluta, una sorta di ricercata necessità. Al di là delle non sottovalutabili esigenze economiche e di agilità organizzativa, in queste scelte di solitudine è pertanto possibile leggere altro oltre il mero bisogno;

per questo, Elena Cervellati, curatrice del festival, ha pensato di chiudere Soli al mondo? con una tavola rotonda, durante la quale critici e storici della danza si confronteranno con gli artisti ospiti per comprendere meglio le ragioni di questa scelta. Grazie al festival bolognese, dunque, si puntano i riflettori su una parte significativa della scena italiana e non solo; così, mentre ci prepariamo ad assistere a questa rassegna di individualità, viene naturale chiedersi: se l’io è al centro del palco è perché siamo soli al mondo?

Soli al mondo?, Bologna, Centro teatrale La Soffitta, dal 3 al 14 maggio


Cinema

MobyDICK

l Tribeca Film Festival, fondato da Robert De Niro per restituire alla vita i quartieri intorno a Ground Zero, demoralizzati e disertati dopo gli attacchi terroristici del 11 settembre di nove anni fa, rientra nel novero dei festival orientati più verso il pubblico che verso i critici: più simile a quelli di Roma e di Berlino che a Cannes o a Venezia, per intenderci. Tribeca offre un vasto buffet per tutti i gusti: una sezione per bambini, un drive-in a Ground Zero, film disponibili su canali a pagamento e sul computer, una sezione per film ed eventi sportivi e così via. Alla fine, però, sono i film che contano. Tribeca è un festival in cui i due concorsi principali (per film narrativi e per documentari) hanno un’importanza molto relativa. Lo dimostra il primo film di cui parliamo è Cairo Time (sezione Spotlight) della regista araba-canadese Ruba Nadda. Patricia Clarkson (Good Night and Good Luck, Whatever Works) è Juliette, arrivata al Cairo per una vacanza con l’amato marito Mark, funzionario dell’Onu, che però è bloccato a Gaza, dove segue un campo profughi. Il suo ex collaboratore e grande amico Tareq (Alexander Siddig), gestore di un caffè, si offre di fare da cicerone a Juliette. È il più classico degli incontri «magici» tra misterioso, raffinato Oriente e pragmatico, pedestre Occidente. La trama è esilissima. Una donna sposata gira sola o con un amico per le strade di un accarezzato Cairo in tutto il suo splendore iconografico: il Nilo a tutte le ore e in tutte le luci, i minareti, le piramidi, i maschi molestatori di donne con i capelli al vento, un marito che non arriva, uno scapolo sensuale e di mondo ai suoi ordini. Se non si legge prima di che si tratta, ci si accorge solo alla fine che è la struggente storia di un amore impossibile. È talmente sottotono l’innamoramento che la conclusione sembra un pochino forzata e disorientante; fino all’ultimo si è convinti che l’autrice desidera soprattutto trasmettere il fascino della città e di una cultura altra, vicina e pur tuttavia molto distante, voluttuosa e opaca. Nel film gli unici riferimenti all’inquietudine politica mediorientale sono una corriera fermata dalla polizia nel deserto, senza apparente motivo, una giovane donna turbata che affida una lettera delicata a Juliette e una frase di Tareq su due turisti ammazzati - un ammonimento a non fidarsi di estranei.

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I

Islam & Rock‘n’Roll notizie da Tribeca di Anselma Dell’Olio Sex & Drugs & Rock & Roll (sezione Encounters) è un film biografico sulla vita movimentata di Ian Dury (1942-2000), uno dei fondatori del punk rock e animaWhen We Leave (Die Fremde), nel tore del New Wave, con la sua band The concorso principale (World Narrative Blockheads. Il punk, dalle sonorità ruviCompetition), è un film di Feo Aladag, de e dissonanti, migra da Detroit nel Reun’attrice austriaca al suo debutto come gno Unito negli anni Settanta, è noto per regista, sceneggiatrice e produttrice. Da gruppi e cantanti come i Ramones, i New festeggiare il ritrovamento dell’attrice York Dolls, i Sex Pistols, Malcolm MaSibel Kekilli, l’indimenticabile protagoClaren e Patti Smith. Ma Dury, paroliere, frontman e cantante principale, era un nista di La sposa turca, con il suo sguardo orientale enigmatico e il profumo di elemento fondante, con due successi a zolfo che emana per il lungo in cima alla suo passato in film hit parade britanniTre i film scelti dal festival organizzato da De Niro pornografici. Qui è co: Hit Me WithYour che si è appena concluso. “Cairo Time” Rhythm Stick, e Umay, una moglie con quello che ha dato il un piccolo di cinque su un incontro “magico” tra Oriente e Occidente. nome al film, inno anni, Cem; la incon“When we leave” sui delitti d’onore che sta al rock come triamo quando va a liconsumati contro le donne musulmane. E infine l’Internazionale sta berarsi di una gravial comunismo. Era danza ingombrante. il film biografico sul punk-rocker Ian Dury un artista colto e riLa giovane donna ha belle, colpito all’età per le mani un progetto ardito e irto di ostacoli, che mette in tana tedesca» che si è portata via il fi- di sette anni dalla poliomielite che l’ha atto subito dopo l’ennesima sfuriata del glio e vive da sola. Lo script ci conduce lasciato claudicante e furioso. Dury è un marito Kemal (Ufuk Mayraktar), un uo- per mano nei labirinti sociali e culturali formidabile Andrew Serkis (Gollum nel mo violento che infligge sganassoni a che partoriscono i delitti d’onore. Anche Signore degli Anelli) che interpreta e non lei e botte e confinamenti in sgabuzzini dopo aver intuito dove il film va a para- imita l’originale. Il film è una ricca serie bui al bimbo. Umay fugge con Cem re, si resta con l’ansia di sapere come di episodi non cronologici dalla vita (Nizam Schiller) da Istanbul a Ber- andrà a finire: Umay soccombe o si sal- estrema e sregolata del rockettaro: le selino, dove è cresciuta e dove vivo- va? È spacciata o il suo spirito di so- vizie di un’infanzia passata in un colleno i genitori, una sorella e due pravvivenza la porterà fuori dall’orro- gio per handicappati, il padre autoritario fratelli. La famiglia è felice di re? Umay ce la farà a costruirsi il suo che gli insegna a difendersi con i pugni vederla finché non scopre che sogno: laurea, carriera, una vita felice (il formidabile Ray Winstone), l’aristoha lasciato il marito. «Che co- con suo figlio e un uomo giusto? L’unico cratica moglie che partorisce mentre nelsa vuoi che siano due ceffo- fallimento del film, se di questo si tratta, la stanza vicina Dury fa scatenate prove ni?», ribatte il padre Kader è che la rappresentazione della famiglia con la band, il figlio Baxter affidato a un (Settar Tanriogen) quando la musulmana non riesce a comunicare fi- musicista affettuoso e drogato, l’amante figlia dice che il marito è no in fondo l’ira furiosa che porta alla Denise che alla fine lo lascia, stufa degli violento. Rientra nelle nor- condanna a morte di una figlia e sorella eccessi e del suo egocentrismo, e molto malissime prerogative di un amata e disobbediente. Può darsi che altro ancora, più scene animate nello sticapofamiglia musulmano. sia un compito impossibile far capire il le di Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Man mano che va avanti la perché di un simile orrore. In ogni mo- Club Band. Diretto da Max Whitecross storia, si capisce che la resi- do, il film è un’opera prima meritevole (The Road to Guantanamo) e scritto da stenza famigliare ad accettare legata ad Amnesty International e alla Paul Viragh, il film riesce piuttosto bene la fuga di figlia e nipote, è lega- campagna contro i delitti d’onore delle nell’impresa impari di ricostruire una vita all’ostracismo operato nei lo- infinite donne islamiche come Umay, ta avventurosa in due ore. Imperdibile ro confronti dalla coesa comu- ma noi lo consigliamo lo stesso. per gli appassionati del genere. La yankee chiede: «Perché sono stati uccisi?». Risponde lapidario Tareq: «Perché erano americani».

nità turca berlinese. Per evitare che il figlio sia riconsegnato a Kemal dal padre, Umay chiama la polizia tedesca e viene portata con Cem in una casa-alloggio per vittime di violenze domestiche. Studia, trova lavoro, un appartamento e un nuovo amore tedesco. Gli amici turchi non accettano più gli inviti della famiglia, inventando scuse per non essere contagiati. La famiglia del fidanzato di Rana, la sorella di Umay, rompe il fidanzamento perché non desidera essere legata a gente «disonorata» da una «put-


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ome ben si sa, in Italia il passato non passa mai: non solo quello storico con diatribe interminabili (il Risorgimento, la guerra civile 1943-‘45, Tangentopoli ecc.), non solo quello giudiziario (dopo decenni si riaprono casi famosi: da quelli nazionali come Mattei e Pasolini, a quelli più comuni come i delitti Cesaroni, Claps ecc.), non solo quello politico e/o di costume (in primis il mitico Sessantotto), ma addirittura quello della petite histoire culturale come può essere la fantascienza, o meglio la polemica politico-ideologica che scombussolò riviste professionali e amatoriali, autori, lettori e critici a metà degli anni Settanta. Insomma, roba recente di appena 35 anni fa, e di cui gli appassionati di oggi non sanno nulla, anche perché non erano ancora nati. Ora una antologia (Ambigue utopie, a cura di G.F. Pizzo e W. Catalano, postfazione di A. Caronia, Bietti 2010) ha pensato di riaprire il caso, quasi fosse un antico evento criminale, presentando diciannove racconti definiti di «fantaresistenza» a mo’ di risposta a una precedente antologia da me curata (Fantafascismo!, Settimo Sigillo, 2000). Ci hanno impiegato appena dieci anni a replicare, ma insomma ce l’hanno fatta grazie alla generosità di una casa editrice, la Bietti, che certo «di sinistra» non si può definire (e mi piacerebbe sapere se sarebbe stata possibile la situazione inversa). Diciannove racconti definiti di «fantascienza politica di sinistra italiana» (anche se non è esattamente così: le storie di Prosperi, Grasso e Cavallotti non mi sembra proprio che possano essere definite tali).

C

Ma il problema non è che sia stata edita una raccolta di racconti così orientata: come vien scritto, «siamo e vogliamo restare in un regime di libertà e pluralismo» (Pizzo) e tutti possono proporre la loro «visione» (della realtà e della fantascienza) ed esprimere chiaramente «con scelte nette e precise, senza mezzi toni»

MobyDICK

ai confini della realtà

I partigiani

della fantascienza di Gianfranco de Turris sceva «non solo dagli interventi critici della frange sinistrorse, ma, specularmente anche e forse più dalle elucubrazioni tradizionaliste e antimoderne - infarcite di riferimenti a Evola e Guénon o, bene che andasse, al Trattato di storia delle religioni di Eliade - con le quali i destrorsi amavano dottamente glossare e commentare testi spesso del tutto estranei alla loro vorace intenzione di fagocitarli e annetterli al magro patrimonio

le citando autori di ogni tipo e non esclusivamente quelli da lui citati con tanto dileggio (Jung, Rank, Zolla, Campbell, Spengler i primi che mi vengono in mente); che in quelle collane non si pubblicava soltanto fantasy e horror ma anche hard science fiction, nonché fantascienza «d’avanguardia» (Spinrad, Dish) al contrario di quel che lui scrive; che nulla vietava e vieta d’interpretare come si vuole un qualsiasi testo; e che nessuno

È possibile disquisire di un genere letterario in termini ideologici? A dar retta all’antologia “Ambigue utopie”, che raccoglie 19 racconti di “fantaresistenza”, pare proprio di sì. Ma la materia del contendere è il “passato che non passa” e che spesso, per ignoranza e protervia, viene equivocato... che si sta «da una parte o dall’altra della barricata … sperando che anche chi non ci condivide apprezzi almeno la sincerità delle nostre intenzioni» (Catalano). Certo che si condivide la «sincerità», quel che non si condivide affatto invece è una ricostruzione di quel «passato che non passa» di soli sette lustri fa assai faziosa e approssimativa. E poiché, bontà loro, son vieppiù volte chiamato direttamente in causa, quasi fossi stato l’unico «colpevole» di quelle preistoriche polemiche, son costretto a mettere qualche puntino sulle «i» per l’intervento di Catalano che è nella sostanza una copia carbone più ampia e polemica di quanto scritto in maniera sintetica da Pizzo. Tanto per cominciare Catalano affema che la «superficiale lettura» dell’epoca secondo cui la fantascienza era «di sinistra» e il fantastico «di destra», na-

culturale della propria parte politica». E quindi seguono le esemplificazioni del «fagocitamento» con Tolkien e Lovecraft, o l’aver «snobbato» la hard science fiction, nelle collane da me curate all’epoca insieme a Sebastiano Fusco. Inoltre, Catalano continua ad affermare con pervicacia degna di miglior causa, che la casa editrice Fanucci «finì per interrompere bruscamente la collaborazione» con il sottoscritto. Dispiace assai che egli sia così smemorato o talmente obnubilato dallo stare orgogliosamente dalla sua parte sinistra, al punto da ignorare molte cose: di allora e seguenti. Ad esempio, che quanto si scrisse in tali collane per tutti gli anni Settanta non aveva nulla a che fare con alcuna «parte politica»; che in esse si effettuava solo approfondimento cultura-

pensò mai di «annettere» alcunché a un «patrimonio» che solo Catalano può ritenere «magro» per pura ignoranza: non se ne aveva bisogno.

Quindi le sue accuse polemiche cadono, per il semplice motivo che noi non si prendeva di petto nessuno (al massimo si replicò alle critiche/accuse). Il fatto vero che nessuno ha mai ancora ammesso, è che il semplice fatto di scrivere analisi letterarie (non politiche) non conformiste, citando autori esclusi dai salotti buoni e radicali della sinistra, in quei bui anni ci assicurò gli strali e le accuse di «fascismo» da parte dei bravi democratici progressisti. Per il dopo: Catalano appare poco o nulla documentato sugli articoli, i saggi, le introduzioni, le interviste in cui si è spiegato a iosa quali erano le nostre intenzioni e riferimenti. In particolare sembra ignorare del tutto quanto scritto nelle introduzioni di Il vento dalle stelle (Agpha Press, 1998), «Albero» di Tolkien (Bompiani, 2007), L’orrore della

realtà (Mediterranee, 2007). Egli sembra fermo a quanto letto, e ai relativi pregiudizi, a metà degli anni Settanta senza ulteriore sforzo informativo. E nemmeno, a quanto pare, ha mai dato un’occhiata alla lunghissima intervista mia e di Sebastiano Fusco sulla rivista telematica Delos nel sito fantascienza.com e, addirittura in forma più ampia, nel sito del Catalogo della Fantascienza del compianto Ernesto Vegetti, per documentarsi sul nostro punto di vista. Così facendo continua a scrivere superficialità, approssimazioni e falsità come quella sulla «brusca interruzione» da parte della Fanucci con il sottoscritto, mentre fui io ad andarmene «bruscamente», come detto in svariate occasioni bellamente ignorate. Insomma, «di parte» ci si proclama e conseguentemente «da partigiani» si opera. Assai meglio, da questo punto di vista, la postfazione di Antonio Caronia animatore negli anni Settanta del fanzine Una ambigua utopia (di cui l’antologia riprende il titolo), il quale però, se dobbiamo seguire le classificazioni di Catalano, appare anch’egli lanciarsi in «elucubrazioni» del tutto antimoderne dato che si dichiara contro la globalizzazione, gli ogm e liberismo. Si meraviglierà Catalano di sapere da che «parte» stiail sottioscritto: proprio dalla sua «parte», in quanto non solo «antimoderno» ma anche «tradizionalista»! Ha un senso ritornare oggi su questo «passato che non passa»? A che pro? A quanto pare Pizzo e Catalano ne hanno sentito l’imprescindibile necessità covata per un decennio. Quindi alla domanda di Catalano: «Un’operazione arretrata e azzardata? Un nostalgismo di vecchi reduci superati dai tempo?». Senza ombra di dubbio la risposta è «sì», a palese dimostrazione che il «nostalgismo» è di una sinistra che vorrebbe che i vecchi bei tempi dell’egemonia non passassero mai…


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando,Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza

Indulgenti con gli assassini. Prepotenti con i non violenti La prepotenza pubblica contro cittadini non violenti si contrappone alla generale indulgenza con rei e perfino assassini. Amministrazioni comunali applicano pesanti multe a cittadini trovati sulla strada a contrattare la prestazione con passeggiatrici. Vengono colpite persone pacifiche, che non violano diritti altrui. Non è condannabile la prostituzione corporale, intesa come scambio libero e spontaneo fra adulti consenzienti. Alla persona razionale, l’amore mercenario appare uno dei tanti rapporti volontari o interazioni fra gli esseri umani. Di regola, la lucciola esercita liberamente la sua attività – dalla quale trae sostentamento – e può abbandonarla, se lo desidera. La presenza di squillo sulle strade può recare disturbo e rischio d’incidenti. Conviene regolare legislativamente la professione della lucciola, che eserciterà in appositi edifici (eros center) sull’esempio di paesi avanzati, non solo europei. Può risultare la soluzione migliore del problema. Operatrici e operatori dell’amore mercenario saranno tutelati come lavoratori, e tenuti a pagare le imposte e tasse. L’aspetto sanitario sarà più curato.

Gianfranco Nìbale

VUOI SUONARE L’INNO NAZIONALE? PAGA 100 EURO ALLA SIAE Sembra incredibile, ma le celebrazioni della liberazione lo scorso 25 aprile hanno fatto emergere ancora una volta l’assurda e anacronistica legge sul diritto d’autore. Goffredo Mameli scrisse il testo dell’inno nel 1847, testo che fu messo in musica da Michele Novaro poco tempo dopo. Il Canto degli italiani, come era chiamato, divenne subito un simbolo dei moti risorgimentali. Subito dopo l’unità d’Italia, Giuseppe Verdi lo scelse al posto della Marcia reale nel suo celebre Inno alle Nazioni. Nel 1946 divenne l’inno nazionale della giovanissima Repubblica italiana. Ebbene, nonostante gli autori del Canto degli italiani siano deceduti da oltre un secolo, non avendo quindi alcun titolo al diritto d’autore, la Siae continua a pretendere 100 euro per il “noleggio dello spartito”, da versare all’editore Sonzogno. Questo anche se quello spartito non è mai stato utilizzato. Il Canto degli italiani non è una composizione sinfonica, ma una melodia che chiunque può arrangiare per il proprio gruppo musicale senza bisogno di spartiti. Uno stratagemma per imporre i diritti d’autore all’infinito. Ma indipendentemente dalle considerazioni legali, è davvero assurdo che per suonare l’inno nazionale in pubblico, magari durante le celebrazioni di momenti essenziali della nostra storia nazionale, sia necessario paga-

re 100 euro. Per fortuna nel 1800 la Siae non esisteva ancora. Siamo certi che neanche Nino Bixio e Giuseppe Garibaldi sarebbero stati risparmiati dalla solerte Società italiana degli autori e degli editori.

Pietro Yates Moretti

LE “BAD COMPANY” RIDUCONO IL LIVELLO OCCUPAZIONALE L’esternalizzazione è un processo attraverso cui aziende, società ma anche pubbliche amministrazioni si rivolgono a imprese esterne per lo svolgimento di alcune fasi del lavoro, con l’obiettivo di perseguire una maggiore efficienza ed efficacia nei risultati e nell’economia dell’impresa stessa. Ma non sempre gli intenti delle aziende & Co sono nobili e puliti. La notizia relativa all’esternalizzazione messa in atto dalla Telecom ha suscitato non poco clamore. Dai primi giorni di maggio, infatti, 2150 lavoratori di Telecom Italia spa, appartenenti al settore informatico dell’azienda, verranno trasferiti in una bad-company srl, di proprietà al 100% Telecom ma in pesante passivo. Sempre più frequentemente e sempre più lavoratori vengono parcheggiati in queste che vengono definite “bad company”, letteralmente cattive compagnie. Sono, in realtà, zone o aree in cui collocare personale in esubero, attività da dismettere e i passivi di un’impresa. Oltre alla Telecom esempi illustri degli anni precedenti sono la Parmalat, Alitalia e, recente-

L’IMMAGINE

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SIDNEY. Soldi, malavita e un’insana passione per il defunto Michael Jackson. Potrebbe riassumersi così, almeno stando all’ultimo passaggio terreno, la vita di Carl Williams, boss della malavita australiana che ha terrorizzato Sidney per tutti gli anni Novanta. Che ieri si è fatto seppellire in una bara d’oro massiccio, dal valore di 30mila dollari, mentre risuonava la hit di Tina Turner “Simply the Best”. Il modello della bara è esattamente quello del “re del Pop”, morto alcuni mesi fa. Presenti alle esequie circa cento persone e dodici poliziotti, impiegati per mantenere la quiete pubblica. Appena defilata, ma comunque presente al funerale, Judy Moran: a questa donna Carl Williams fece uccidere marito e figlio. Judy ha partecipato (a debita distanza) alla cerimonia portando con sè le ceneri dei suoi cari. La polizia ha comunque aperto un’inchiesta: Williams infatti è stato ucciso in uno dei carceri di massima sicurezza del Paese da un compagno di cella, con un manubrio da pesistica. Il boss era stato condannato a tre ergastoli per un quintuplo omicidio, tutti nell’ambito della malavita locale. Presenti commossi dopo il saluto della nipotina, che ha detto: «Quando mi è caduto un dente, mi hai dato 500 dollari».

mente Eutelia. E in questi casi sappiamo tutti come è andata a finire per i lavoratori: licenziamenti e cassa integrazione a pioggia. Si verificherà la stessa situazione per gli assunti dalla Telecom? Non vorremmo infatti che il trasferimento dei 2000 e passa informatici nella “bad company” di cui sopra, fosse il preludio al licenziamento o alla cassa integrazione. Il mercato del lavoro accusa più che mai il duro colpo assestato dalla crisi economica. I dati Istat parlano chiaro, purtroppo. Nel 2009 sono stati 10mila i posti fissi persi nel Lazio mentre sono 79.756 lavoratori in cassa integrazione. La perdita nazionale è di oltre 500.000 posti di lavoro: agricoltura, industria e servizi i settori più colpiti. Dal momento in cui i cittadini si indebitano sempre più per l’acquisto della casa con mutui anche trentennali, la sicurezza dell’entrata mensile è più che mai necessaria. La moda delle esternalizzazioni apre scenari che non ci convincono. A raccontarlo sono i fatti e la storia di molte imprese.

PERICOLOSE OTTURAZIONI DENTARIE

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e di cronach

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Bara d’oro per il boss australiano

Valentina Coppola

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LE VERITÀ NASCOSTE

Un Grande Grande Canyon Il “Dead Horse Point State Park”, nello Utah, è uno dei posti più straordinari per osservare il corso del Fiume Colorado. L’area, nel 1991, fu utilizzata per girare la scena finale del film “Thelma & Luoise”

Si è costituito, a palazzo Marini, un comitato volto a evidenziare la tossicità delle otturazioni dentarie in amalgama, contenenti mercurio e, di conseguenza, a bandirne l’uso su territorio nazionale. È assodato e dimostrato scientificamente che l’amalgama è fonte di numerose sindromi e patologie, anche gravi, soprattutto a carico del sistema nevoso centrale, con un carico tossico trasmissibile anche da madre a nascituro. Si evidenzia la necessità di rimuovere le otturazioni in amalgama solo attraverso un protocollo di rimozione protetta, affinché tale manovra non rappresenti un ulteriore danno per l’organismo dei pazienti già intossicati.

Domenico


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il saggio

Economia e morale. La ricetta del filosofo americano per superare la recessione mondiale e ritrovare lo spirito del libero mercato

Tre passi oltre la crisi

Tornare al capitalismo etico e battere la povertà: investire su istruzione e creatività, incentivare la nascita di piccole aziende, rendere più accessibile il credito di Michael Novak segue dalla prima Tra i vantaggi economici riscoperti nel ménage familiare, c’è l’impegno della coppia a pagare i debiti; la propensione dei parenti acquisiti a dare una mano con i bambini e mettendo a disposizione abitazioni senza far pagare l’affitto. Questi piccoli grandi mutamenti ripropongono le domande che Daniel Bell si pose, nel 1976, ne Le Contraddizioni Culturali del Capitalismo. Secondo Bell, la capacità del capitalismo a produrre ricchezza in tutta la società danneggia il sistema morale (che pur tuttavia ha reso il capitalismo possibile). In particolare, Bell afferma che i sistemi capitalistici si basano su tre sistemi sociali strettamente correlati, ma tuttavia distinti, così sintetizzabili: sistema politico, sistema economico e sistema morale/culturale. Il fatto che siano distinti l’uno dall’altro, fa si che l’equilibrio sociale fra i tre sia variabile e che in maniera ciclica un sistema diventi più forte degli altri due. Si potrebbe ipotizzare che per la crescita improvvisa dell’industria americana su scala nazionale provocata dalla grande Guerra Civile (1861-1865), specialmente dopo la proliferazione delle ferrovie nella parte orientale del Paese, la lobby industriale divenne più unita e potente rispetto al sistema politico e a quello morale/culturale. E che al tempo del Social Gospel e dei Movimenti Progressisti nella prima metà del Novecento - e sulla spinta delle due Guerre Mondiali – la classe politica, cui vennero conferiti poteri straordinari, prese il sopravvento. E infine, che con l’enorme crescita delle nuove tecnologie nel campo delle comunicazioni (radio, cinema,riviste patinate, televisione, telefoni cellulari, computer, Internet, Twitter, ecc.), l’élite delle idee, dei simboli e dell’espressione pubblica abbia preso il sopravvento e guadagnato così tanto terreno da mettere in ridicolo antichi e basilari valori in nome di una nuova moralità. Comunque sia, il punto è che i tre sistemi sono necessari l’uno all’altro per il mantenimento dell’equilibrio e del controllo reciproco. E che, secondo Bell, c’è una contraddizione di fondo: alla base dei tre sistemi c’è una componente morale che il successo improvviso e sconvolgente del capitalismo (economicamente parlando) tende a indebolire. Quest’ultimo è un sistema fondato sulla testa (come suggerisce il termine stesso), vale a dire, basato sull’invenzione, la scoperta, sull’organizzazione e sulla propensione a rinunciare a piaceri momentanei per risparmiare e investire (con un certo rischio) nel futuro, in modo profondamente diverso rispetto al passato.

Tuttavia, le sue trasformazioni sociali piuttosto veloci incoraggiano le generazioni più recenti a vivere semplicemente a spese dei profitti del passato, a sacrificarsi meno, a vivere più per il presente e a dissipare

facilmente le proprie risorse e le proprie energie. In questo modo, il sistema economico del capitalismo tende a indebolire quel sistema morale/culturale da cui ha preso forma. Ciò che suggerisce uno studioso come Kevin Ryan (fondatore e direttore del Center for the Advancement of Ethics all’Università di Boston), viceversa, è che la crisi del capitalismo costringa i cittadini a fare marcia indietro verso abitudini culturali e impegni morali che avevano messo il sistema capitalistico al primo posto. Può esserci una dose di verità in questo, e il suo suggerimento intuitivo potrebbe condurre a ulteriori indagini empiriche.

Secondo Ryan, la crisi finanziaria globale «iniziata con il crollo dei prezzi del mercato immobiliare Usa, si è diffusa attraverso le banche centrali e le borse in tutto il mondo, provocando una perdita di quindicimila miliardi di dollari della ricchezza dei consumatori». Un tesi sulla quale tutti sembrano d’accordo. Ma cos’è stato a provocare tale

gresso desiderava che un bacino sempre più ampio di persone a basso reddito potesse ottenere mutui e comprarsi una casa.Tuttavia, gli effetti non previsti sono stati quelli di permettere agli speculatori di richiedere questi mutui convenienti e garantiti per acquistare una seconda casa. Era più probabile che riuscisse a beneficiare di tali vantaggi il ceto medio ricco, piuttosto che le famiglie a basso reddito che fino a quel momento non avevano mai avuto la possibilità di possedere una casa. Inoltre questi “secondi mutui”, venivano garantiti dal governo, come nessun alto istituto di credito poteva fare. Queste pesanti conseguenze non previste, naturalmente, non erano limitate soltanto al mercato immobiliare. Le banche private di tutto il mondo avevano acquistato mutui erogati dalla Fannie Mae e dalla Fannie Mac (che in effetti erano i veri garanti dei mutui, ma non i detentori a lungo termine).

Quel che è peggio, tali mutui per abitazioni private, non soggetti al rigoroso, stret-

La maggior parte dei nuovi posti di lavoro vengono creati da imprese che impiegano dalle tre alle venticinque persone crollo? È questa la domanda più importante. Le due gigantesche imprese finanziate dal governo (Ifg), la Fannie Mae e la Freddie Mac, hanno erogato centinaia di miliardi di dollari in mutui garantiti dal governo per ipoteche“subprime”, mentre i regolatori delle banche hanno fatto pressione sulle stesse perché riducessero drasticamente i prestiti ordinari e aumentassero le ipoteche. I due giganteschi istituti di credito, Fannie e Freddie, appunto, hanno ricevuto troppi encomi pubblici (anche da parte mia, purtroppo), per aver erogato mutui a milioni di famiglie a basso reddito, consentendo loro di diventare proprietarie delle proprie abitazioni. Ciò che si è trascurato, è il fatto che in realtà i proprietari delle case erano le banche ed altri istituti, e che le famiglie si erano fatte carico di debiti più alti di quanto fossero in grado di sostenere una volta scesi i prezzi delle case, come naturalmente poi è accaduto. Intendiamoci: le intenzioni di queste leggi federali erano del tutto “morali”. Il Con-

to controllo che avveniva in passato, non venivano venduti singolarmente a banche ausiliarie. Piuttosto, venivano venduti in “pacchetti”anonimi. Poi, quando i mutui individuali hanno iniziato ad andar male, i neo-proprietari di questi pacchetti di mutui non avevano modo di sapere quanti di quel pacchetto che possedevano sarebbero andati male. Dall’essere in possesso di un certo reddito su cui poter contare da mutui ben sostenuti, si sono trovati a dover affrontare lo shock di un’incertezza finanziaria e a una svalutazione cospicua delle proprie risorse. Intanto, altri colleghi dell’Ifg hanno esaminato accuratamente il grosso calo del numero di persone al mondo che guadagnano meno di un dollaro al giorno. Nel 1970, erano 968 milioni. Nel 2006 erano scese a 350 milioni. In quel periodo la popolazione mondiale era aumentata di tre miliardi. Ciò nonostante il numero dei poveri si era ristretto del 64 per cento. Se i leader politici, intellettuali e i capi della Chie-

sa riusciranno a sviluppare questo processo per altri trent’anni, i rimanenti 350 milioni dovrebbero essenzialmente tolti dallo stato di povertà.

La Cina e l’India sono state protagoniste di quasi tutto questo miglioramento delle condizioni di vita. I due Paesi, non molto tempo fa, erano quelli con il numero più alto di poveri. A partire dal 1980, invece, hanno portato più di mezzo miliardo di persone dallo stato di povertà a un rango superiore, se non al ceto medio, rivaleggiando con il grande successo materialistico dell’Europa tra il 1800 e il 1900. Durante quel secolo, il reddito di un lavoratore inglese era aumentato del 1600 per cento. Cibi, bevande e tessuti che prima di allora non erano reperibili neppure per i più abbienti, entrarono a far parte della vita quotidiana dei lavoratori. Nel caso della Cina e dell’India, tali risultati sono stati il frutto dello spostamento da un’economia governata dal socialismo a una fondata sulla proprietà privata, sui mercati aperti e sull’impresa personale. La stessa linea che ha migliorato tanto sensibilmente il tenore di vita in Europa nel 1900. In altre parole, l’improvvisa prosperità degli Stati Uniti subito dopo la scoperta, si sta replicando ora in Asia. Una volta l’Asia era il continente con il maggior numero di poveri. Oggi invece è l’Africa che detiene questo triste primato insieme alle regioni più remote dell’America Latina. Molte regioni remote (ma non tutte), stanno “fuori dal circolo dello sviluppo” che si espande all’esterno dai sistemi economici liberi. La strada da fare è ancora lunga. Ma non c’è niente di più saggio che prendere spunto e incoraggiamento in questo compito difficile, dai successi ottenuti di recente. Si può trovare un altro esempio formidabile del miglioramento delle condizioni dei poveri negli ultimi quarant’anni nello studio recente condotto dall’Ufficio Americano per il Censimento sulle Condizioni di Vita negli Stati Uniti, del 2005, con rapporti dettagliati sulla Percentuale di Nuclei Familiari in Materia di Beni di Consumo Durevoli. Questa indagine conoscitiva mette a confronto i risultati del 2005 con quelli del 1971, in base a un certo numero di caratteristiche selezionate, tra cui famiglie al di sotto della soglia della povertà. Il mio collega Mark J. Perry riassume l’indagine nel modo seguente: «Certi “comfort”come l’aria condizionata, l’asciugatrice, la tv a colori e la lavastoviglie che nel 1971 erano considerati un lusso e che solo un numero esiguo di famiglie americane possedeva, nel 2005 divennero talmente alla portata di tutti che la maggior parte dei nuclei familiari li aveva tutti. Altri articoli come il forno a microonde, il videoregistratore, il computer e il telefono cellulare che effettivamente nel 1971 non


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esistevano nemmeno, divennero così a buon mercato che più di due famiglie americane su tre li possedeva».

«Se dipendesse da lei, quali programmi proporrebbe per porre fine alla povertà, così come la si è vista di recente in Bolivia e in Brasile (o in altri posti)?», mi ha domandato più di una volta a tavola, durante una cena nei suoi appartamenti Papa Giovanni Paolo II. Ho ricordato a lui e all’arcivescovo Dziwicz che non sono un economista.Tuttavia, ho sempre dato tre semplici consigli fondamentali: 1) Poiché la forma di capitale più dinamica è il capitale umano, bisogna investire il denaro pubblico nella divulgazione e nel miglioramento dell’istruzione. A questo si deve aggiungere un nuovo accento sulla creatività economica, sull’impresa, l’ingegno e l’inventiva (che nel Centesimus Annus il Santo Padre individua come fonte principale della ricchezza odierna delle Nazioni); 2) Per mettere a disposizione i milioni di posti di lavoro di cui i disoccupati hanno disperato bisogno in molti Paesi poveri, occorre facilitare la possibilità per loro di fondare piccole aziende, con la copertura di passività limitate. Ciascun Paese che intende sfuggire alla povertà deve contribuire a promuovere la creatività economica dei poveri. In realtà, escludere i poveri dal diritto di creare associazioni di aziende è veramente un crimine, come lo è il fatto di non poterlo fare in modo veloce ed economico. La maggior parte dei nuovi posti di lavoro vengono creati da piccole nuove imprese che impiegano dalle tre alle venticinque persone. Per questo motivo la giusta linea di condotta è quella di fare in modo che queste nascano facilmente, velocemente e con la minima spesa. È molto improbabile che una Nazione riesca a uscire dalla povertà senza aumentare velocemente l’occupazione nel settore privato. 3) Poiché i poveri non dispongono di capitale personale per acquistare materiali o per pagare collaboratori prima di iniziare le operazioni, il governo deve dare loro un aiuto creando istituti di credito di supporto in ciascuna località, che offrano consigli pratici così come finanziamenti anticipati, a tassi più bassi possibile. Tali istituti di credito offrono consigli perché vogliono che chi chiede prestiti riesca nell’impresa e che in questo modo sia in grado di restituire con regolarità i soldi. In questo modo, si possono riciclare i mini prestiti per passarli ad altri imprenditori. L’Arcivescovo Mark Mc Grath, figura di un L’economia «dovrebbe essere certo rilievo al Concilio Vaticaconcepita come un esercizio delno II, a Panama ha elaborato la responsabilità umana, intrinuno schema simile di recupero secamente orientata alla promodi piccoli prestiti, ottenendo rizione della dignità della persosultati notevoli. In altre parole, na, la ricerca del bene comune e i governi dovrebbero impelo sviluppo integrale degli indignarsi a preparare e sostenere vidui, delle famiglie e delle somolte donne e uomini in camcietà». Con queste parole il Papa po aziendale, in special modo ha aperto i lavori della 16esima tra i poveri. Un simile progressessione plenaria della Pontifiso che parte dal basso è il mecia Accademia delle scienze sotodo migliore per portare i ciali sul tema “Crisis in a Global frutti della nuova ricchezza al Economy. Re-planning the Jourlivello della gente comune. Del ney”, ha cui partecipa anche Miresto, il Signore ha sparso dapchael Novak, con la relazione pertutto talenti in campo ecoche pubblichiamo in queste panomico così come il contadino gine. Benedetto XVI ha sottoliha sparso i suoi semi. Da oltre neato come l’attuale crisi abbia 180 anni, a partire da quando «messo in luce la natura essenKarl Marx rese popolare il terzialmente etica dell’economia, mine e gli attribuì un significacome una attività dell’uomo e to spregiativo, importanti forze per l’uomo» . intellettuali nel mondo denigrano la parola capitalismo. Di

Il convegno del Vaticano

solito, questo succede perché si vuole incrementare una forma di economia rivale, con parole più semplici. Se ciascuno di noi mettesse da parte una moneta per ogni volta che il termine capitalismo viene usato in senso spregiativo, saremmo ricchissimi. Nel periodo in cui il capitalismo iniziò a prendere piede nella storia dell’umanità, nei secoli XVII e XVIII, la motivazione corrente per denigrarlo era dovuta al fatto di voler concentrare maggior potere nelle mani dello Stato. La razionalizzazione consueta per questa collettivizzazione è di regolamentare, correggere e indirizzare il mercato. Fino a un certo punto, per l’economia stessa è un vantaggio che ci sia una certa regolamentazione e lo stesso vale per le aziende, proprio com’è necessario che nello sport esistano regole chiare stabilite in anticipo. Però, se la regolamentazione è eccessiva ciò diventa un danno. Proprio gli interventi congressuali sul mercato immobiliare hanno portato con sé una serie di crolli in altri mercati finanziari. Le società avvedute prendono serie precauzioni contro quei gruppi politici che vogliono esercitare un sempre maggior potere sull’attività economica. Ai nostri giorni, nuovi miti come il raffreddamento globale negli anni Ottanta e il riscaldamento globale negli anni Novanta, hanno fatto si che il governo pretendesse il controllo sull’attivismo e la creatività economica. Si dice che le motivazioni siano buone, semplici e accettabili.

Sembra che non manchi mai qualcuno ha voglia di soffocare i creatori di nuova ricchezza con la scusa di volerli aiutare. L’esperienza però ci fa vedere metodi di regolamentazione accorti e metodi azzardati, distruttivi e creativi. Nel modo più realistico possibile e riferito all’esperienza, non dobbiamo smettere di domandarci cos’è che potrebbe affrancare i poveri dalla loro condizione di miseria e dalla disoccupazione. A lungo andare, non può essere lo Stato. Storicamente, niente come l’attività economico creativa ha il potere di eliminare la povertà. Fino ad oggi, l’incremento della popolazione e l’affrancamento dalla povertà sono andati di pari passo, grazie ai prodigi del miglioramento delle conoscenze mediche e grazie alla tecnologia medica. Tali progressi, a loro volta, sono stati possibili grazie alla nuova ricchezza realizzata attraverso invenzioni sorprendenti in Paesi a volte denigrati come capitalisti. Sarebbe meno offensivo essere denigrati se si mostrasse di aver compreso quel dato sistema e capito come funziona. Si tratta di un sistema con gravi pecche. Un sistema mediocre, fino a quando lo si confronta con gli altri. Non ha però eguali nel togliere i poveri del mondo dalla loro condizione. È stato soltanto duecento anni fa che l’Occidente Cristiano si è mobilitato contro Malthus per eliminare l’orribile fardello della povertà dall’intera razza umana. Lo scopo costante era quello di aiutare i poveri attuali a raggiungere un tenore di vita che nel 1776 era impensabile anche per i più abbienti. All’epoca, il sogno di un benessere universale venne auspicato per la prima volta, nel suo piccolo, da Adam Smith e allora la sua Scozia non era molto ricca. L’idea dello sviluppo economico per abbattere la povertà nacque da lì. Per fortuna, nello studio approfondito condotto in Centesimus Annus, Papa Giovanni Paolo II ha riconosciuto il giusto ruolo del mercato (specialmente nelle sezioni 31-42). Lui ha fatto molto, dall’alto della sua posizione, per essere testimone della speranza per i più poveri del mondo.


mondo

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Regno Unito. Dal declino del 1910 all’attuale leadership di Nick Clegg. Ecco come la “terza forza” britannica è sopravvissuta al bipartitismo

La rivincita dei cent’anni Ascesa, crollo e speranze del Liberal Party dopo un’irrilevanza politica lunga un secolo di Maurizio Stefanini el 1914 era al potere un Governo Liberale. Dieci anni dopo, il Partito Liberale era ridotto a circa quaranta deputati e quasi tutti questi, ovviamente, dovevano la loro elezione al fatto che avevano avuto conflitti diretti con l’uno o l’altro dei Partiti avversari». Così inziava nel 1971 la classica The History of the Liberal Party 1895-1970 di Roy Douglas, suggerendo che i misteri erano in realtà due. Primo: come aveva fatto un partito tanto forte a declinare in tempi così rapidi? Secondo: come aveva fatto quel partito ridotto ai minimi termini, però, a sopravvivere comunque nelle proibitive condizioni dell’uninominale secco a un turno?

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All’epoca di quel libro, aveva solo 4 anni quel Nick Clegg che dopo un secolo si propone come primo leader liberale britannico in condizioni per diventare Primo Ministro. Il che, aggiunge a questo punto un terzo mistero: come ha fatto un partito ridotto ai minimi termini a risollevarsi a quel modo? Nel 1906 i liberali avevano conquistato per l’ultima volta la maggioranza assoluta, con ben 397 eletti su 670. Ma era entrata per

la prima volta alla Camera dei Comuni anche una consistente pattuglia di 30 deputati laburisti. Per prevenire una loro ulteriore ascesa, nel 1909 il Cancelliere dello Scacchiere David Lloyd George aveva presentato un «bilancio di guerra per raccogliere fondi per muovere una guerra implacabile contro la poverà e lo squallore», finanziandolo con massicci aumenti fiscali. La Camera dei Lord, che aveva ancora un diritto di veto sulle leggi dei Comuni, lo aveva opposto, con 350 voti contro 75. Il premier Herbert Henry Asquith aveva allora indetto elezioni anticipate, fidando di essere plebiscitato nel nome della democrazia contro il

servatori. All’inizio, la Prima Guerra Mondiale fu paradossalmente per Asquith un sollievo. Non era certo il caso di scatenare crisi di governo nel momento in cui i tommies si stavano recando a morire nelle trincee di Francia e Belgio, e i conservatori bilanciarono col loro appoggio esterno quello dei laburisti. Ma la pressione dei conservatori per avere ministri crebbe, specie quando iniziarono le polemiche sul modo in cui la guerra stava venendo condotta. In più, i liberali erano un partito la cui storia più recente era pacifista, e che dunque sui problemi della gestione bellica iniziarono a spaccarsi in continuazione. Partico-

Nel 1906 aveva conquistato per l’ultima volta la maggioranza assoluta, con ben 397 eletti su 670. Ma era entrata per la prima volta alla Camera anche una consistente pattuglia di 30 deputati laburisti... privilegio nobiliare. Invece nel gennaio del 1910 i liberali erano stati ridimensionati a 275 eletti contro 273 conservatori, 40 laburisti e 82 nazionalisti irlandesi. Grazie ai laburisti e a una parte degli irlandesi la legge sul bilancio era stata infine approvata, ma per risolvere i due problemi della richiesta di autogoverno da parte degli stessi irlandesi e dell’abolizione del diritto di veto dei Lord si era provato a indire una Conferenza Costituzionale tra i grandi partiti, il cui fallimento aveva però condotto a un altro voto anticipato, ad appena 12 mesi dal precedente.Troppo poco tempo perché il risultato potesse cambiare di molto: 272 liberali, 272 conservatori, 42 laburisti e 84 irlandesi. Asquith era riuscito a far passare la riforma che riduceva i poteri dei Lord a una pura formalità, ma era restato premier semplicemente perché laburisti e irlandesi preferivano lui ai con-

larmente lacerante, in particolare, fu l’introduzione della leva obbligatoria. Ma il punto di svolta fu il disastro di Gallipoli, che portò il Primo Lord del Mare ammiraglio Fisher a dimettersi per protesta, andando poi a lamentarsi direttamente col leader consevatore Andrew Bonar Law. Questi minacciò la crisi, e così il 19 maggio nacque il Coalition Government. Premier sempre Asquith, coi 34 liberali entrarono così 27 conservatori. Ma ci furono pure tre laburisti, che fecero così il primo loro storico ingresso nella stanza dei bottoni.

L’11 novembre un ministro senza portafogli conservatore presentò a titolo personale un memorandum in cui chiedeva un negoziato con la Germania. Il ministro della Guerra Lloyd George, che con impetuosità tipicamente gallese da pacifista arrabbiato ai tempi della guerra coi boeri si era ora trasformato in super-falco, temendo che Asquith accettasse, propose il 1° dicembre l’istituzione di un comitato ristretto con poteri eccezionali, con sé stesso presidente. Asquith cercò di guadagnare tempo, Lloyd George scrisse a Bonar Law, e il 3 dicembre i conservatori chiesero ufficialmente al premier di dimettersi, o si sarebbero dimessi in massa loro. Lo scontro divenne personale,


mondo

126 deputati liberali si schierarono con Lloyd George e i conservatori, e il 6 dicembre del 1916 nacque il nuovo Coalition Government, che però stavolta aveva all’opposizione la metà del Partito Liberale fedele a Asquith. Dopo l’armistizio Lloyd George provò a ricostruire l’unità liberale, offrendo a Asquith la carica di Lord Cancelliere, ma ottenne un rifiuto. Fu confermato premier al voto del 14 dicembre, a poco più di un mese dalla fine della guerra. Ma la sua Coalizione ebbe 332 conservatori contro solo 127 liberali e 14 di altri gruppi, mentre all’opposizione si schierarono 57 laburisti, 50 conservatori antiCoalizione e 36 liberali di Asquith, oltre a 17 deputati di gruppi minori e a 73 indipendentisti irlandesi del Sinn Féin, che però erano ormai in piena lotta armata, e rifiutarono di sedere ai loro seggi. Alla fine, come Asquith, anche Lloyd George fu travolto da un rovescio turco: stavolta dell’esercito greco, cui Londra aveva dato un incauto appoggio per un tentativo espansionista in Anatolia. Nel 1922 grazie alla divisione tra i 62 liberali di Asquith e i 53 di Lloyd George i laburisti divennero per la prima volta secondo partito, mentre a Downing Street entrava Bonar Law. E nel 1923 con i eletti 191 laburisti furono in grado di formare per la prima volta un governo, con l’appoggio esterno dei 158 liberali intanto riunificatosi: il LibLab, come fu chiamato.Tra 1924 e 1929 tornarono al potere i conservatori; nel 1929 ridivenne premier di minoranza il laburista MacDonald: 287 laburisti contro 260 conservatori, con l’appoggio esterno di 59 liberali. Ma la crisi seguita al crollo di Wall Street costrinse il premier a fare una politica di tagli e austerità che il suo stesso partito cassò. Espulso, creò A sinistra l’ultimo dibattito televisivo fra Gordon Brown, David Cameron e Nick Clegg. Nella pagina a fianco David Lloyd George, ultimo premier liberale. A destra i quattro leader Alleati (Italia, Inghilterra, Stati Uniti e Francia) durante la Conferenza di pace post Prima guerra mondiale

con i suoi seguaci un National Labour Party con cui formò un nuovo governo di unità nazionale assieme ai conservatori e alle due fazioni in cui si era di nuovo diviso il Partito Liberale, dventate addirittura tre per l voto del 1931. Da una parte i 35 nazional-liberali di John Simon, che da allora avrebbero continuato a schierarsi con i conservatori, fino ad esserne infine anche formalmente assorbiti nel 1966. Dall’altra una fazione personale di Lloyd George, con quattro deputati: lui, suo figlio Gwilym, sua figlia Megan e il marito della sorella della moglie di Gwilym. Dall’altra ancora i 33 liberali doc di Herbert Samuel, con i quali il gruppo di famiglia di Lloyd George si sarebbe riunito nel 1935, ottenendo 21 deputati

Da qui inizia il partito di Clegg. Che partecipò l’ultima volta al governo nazionale con il War Cabinet di Winstopn Churchill: sei ministri, tra cui il leader Archibald Sinclair come il Segretario di Stato all’Aria. Ma nel 1945

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que deputati. Erano già in corso trattative per una confluenza nei conservatori quando il 21 marzo 1958 Mark Bonham-Carter, un nipote di Asquith, vinse a sorpresa un’elezione supplettiva a spese degli stesso Tories, a Torrington. Fu il segno di una ripresa all’inizio espressa solo in voti: 5,9% e 6 deputati nel 1959. Poi anche in seggi: 11,2% dei voti e 11 deputati nel 1964; 8,5% e 12 deputati nel 1966. Dopo la battuta d’arresto per la vittoria laburista del 1970, 7,5% e 6 deputati, il febbraio 1974 vide uno strepitoso 19,3%, con 14 eletti. Per l’unica volta dal 1929 si ebbe un parlamento senza maggioranza: Hung Parliament, “Parlamento Appeso”. E per l’ultima volta i Liberali appoggiarono dall’esterno un governo nazionale. Ma il LibLab durò solo fino alle elezioni anticipate di ottobre, in cui i laburisti ottennero la maggioranza assoluta, e i liberali persero un seggio: 18,3%, 13 eletti. Stessa percentuale nel 1979, ma con soli 11 deputati. Come hanno ab-

Dopo un secolo da outsider, il partito potrebbe tornare protagonista. La crisi della sinistra e una ripresa dei consensi offrono ora a Clegg la storica opportunità di passare a una nuova fase il Partito Liberale scese da 21 a 12 seggi, pur aumentando nel voto popolare, dal 6,7 al 9,04%. Nel 1950 cadde a 9, pur manenendo il 9,1%. E nel 1951 precipitò a 6, col 2,5%. Il vincitore Churchill offrì comunque al leader liberale Clement Davies il ministero dell’Educazione, ma il partito gli impose di rifiutare, nel timore di una manovra annessionista. I 6 seggi e 2,7% del 1955 dimostrarono che quello era lo zoccolo duro: la quota minima di resistenza, destinata però a lenta estinzione. Peraltro i liberali erano riusciti a presentare candidati solo in 110 circoscrizioni, e dei sei collegi vinti tre erano in Galles, uno nel remoto arcipelago scozzese delle Orcadi e Shetland, uno nella zona rurale dello Yorkshire, e solo uno in una zona urbana di Manchester. Nel 1956, alla morte di uno dei deputati gallesi, alle supplettive si presentò coi laburisti la figlia di Lloyd George Megan: il fratello era intanto andato con i conservatori. E la sua vittoria portò il partito alla quota minima di cin-

bondantemente spiegato i politologi, i liberali riuscirono in questa fase a sopravvivere e a riprendersi con lo specializzarsi nel ruolo di Terzo Partito. Una metamorfosi che affiancò al residuo elettorato identitario e spesso rurale un nuovo elettorato invece in gran parte urbano e giovanile, interessato a temi che invece finivano per essere emarginati nel dibattito politico tra i due grandi partiti che si alternavano al governo: dai diritti civili in campo interno e internazionale a un proto-ecologismo... Un po’il tipo di agenda che di lì a poco avrebbe portato avanti in Italia il Partito Radicale. Il problema è che questa immagine condannava a un ruolo di eterni oppositori, destinati a essere ridimensionati al minimo segnale di riavvicinamento al potere.

Con la vittoria di Margaret Thatcher viene la terza fase: dopo ripiegamento identitario e Terzo Partito libertario, l’Alternativa di Centro. La sterzata a destra dei conservatori è infatti

accommpagnata da una sterzata a sinistra dei laburisti, che porta alla scissione di un Partito Socialdemocratico con cui i liberali si federano nell’Alleanza. E all’inizio degli anni ’80 i sondaggi danno l’Alleanza addirittura al primo posto, anche se poi la Guerra delle Falkland permette alla Thatcher di recuperare. A ogni modo nel 1983 arrivano il 25,4% dei voti e 23 eletti, di cui 17 liberali. E nel 1987 l’arretramento dovuto al ripiegamento moderato dei laburisti conferma comunque il 22,6% e 22 eletti. Nel 1988 il Partito Socialdemocratico però si dissolve: parte torna coi laburisti, parte confluisce coi liberali nel nuovo partito dei Social and Liberal Democrats, divenuti poi Democrats e infine dall’ottobre 1989 Liberal Democrats. La sigla attuale. Dopo un crollo alle Europee del 1989, dove il nuovo partito precipita al 6%, il voto del 1992 registra un recupero e l’assorbimento di una quota di elettorato socialdemocratico: 17,8%, 20 eletti. La quarta fase inizia nel 1997, quando il ciclone Blair spazza via un Partito Conservatore in crisi di logoramento per 18 anni di governo ininterrotto. In realtà i liberal-democratici come consensi scendono a loro volta: il 16,8%. Ma il collasso tory permette per la prima volta di competere veramente in una serie di collegi dove fino ad allora la corsa dei liberali era stata meramente simbolica, e gli eletti passano a 46. Un trend confermato nel 2001: 16,8% di voti, ma 52 eletti. E anche nel 2005: 18,3%, 62 eletti. Cioè, i liberali hano in realtà meno voti che negli anni ’80, ma si sono ormai radicati nei giochi di potere locali in modo da poter pesare come non ci riuscivano più dagli anni ‘30. Oltretutto con la devolution coalizioni Lib-Lab hanno governato in Scozia dal 1999 al 2007, in Galles dal 1999 al 2003. La crisi dei laburisti e una ripresa dei consensi offrono ora a Nick Clegg la storica opportunità di passare a una quinta fase: la sfida per il ritorno alla stessa Downing Street. Tant’è, che per la prima volta il leader liberale ha ottenuto la possibilità di affrontare alla pari gli altri leader in tv. Ma l’evoluzione di questi dibattiti ha pure dimostrato le incognite del ritrovarsi di nuovo dopo un secolo da outsider a protagonisti.


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Lingua. La crisi economica accentua dappertutto la voglia di secessione elgio e Spagna, dove i vicini non si parlano, e se lo fanno non si capiscono. La maledizione di Babele si abbatte sull’Europa. Mentre il continente cerca la sua unità, i localismi mettono a rischio la stabilità. È difficile trovare un equilibrio tra il rispetto delle esigenze delle popolazioni e l’interesse a un quadro più ampio che deve vedere un fronte comune in un’epoca di globalizzazione. L’Europa è un continente ricco di cultura, e la cultura si esprime attraverso le lingue, che vanno tutelate, anche le più residuali. Ma allo stesso tempo occorre rilanciarsi su lingue capaci di esprimere la modernità, e non di chiudersi sul linguaggio limitato di un dialetto che serviva a rappresentare un mondo chiuso, piccolo, semplice. Un difficile punto di equilibrio, con cui più di tutti deve fare i conti l’Unione Europea, che è composta da 27 Stati ma anche da infinite minoranze che parlano una pluralità di lingue anche antiche e nobili. E questa tensione rischia di causare sconquassi.

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Spagna e Belgio bloccate dalle etnie Fiamminghi contro valloni. Baschi contro tutti. Le identità affondano l’Ue di Osvaldo Baldacci

Partiamo da Bruxelles. Il Belgio è diviso tra un 60 per cento di fiamminghi che parlano una lingua parente stretta dell’olandese, e una restante popolazione vallone che parla il francese. Le divisioni tra queste due realtà sono molto forti e il Belgio ne risente da molti decenni, e siamo arrivati al punto che si parla di possibile secessione, benché si debba tener conto che le due popolazioni, per lo più nettamente distinte, sono invece mescolate a Bruxelles. Perché queste due popolazioni così chiaramente diverse sono state messe insieme e vi sono rimaste così a lungo? Molto è dipeso dalle vicende storico-politiche, ma c’è una

ta quasi due anni, un record per l’Europa. Solo il democristiano Van Rompuy era riuscito alla fine a trovare le giuste mediazioni per sbrogliare la matassa, ma poi le sue qualità lo hanno portato ad essere scelto presidente dell’Unione Europea, con il successore Leterme che si è trovato il cerino in mano ed ha retto appena pochi mesi.

Già pronta l’approvazione finale del testo

Il burqa al Senato belga Seppur in piena crisi politica, il Belgio sembra avviarsi ad essere il primo Paese europeo a vietare per legge il velo integrale per le donne. Il voto su burqa, niqab e simili nei giorni scorsi era stato rinviato a

È impossibile pensare di costruire un’unità continentale quando le autonomie di zona arrivano a bloccare persino i Parlamenti locali ragione più profonda, identitaria: il Belgio è nato per dare una casa comune ai cattolici delle Fiandre, in contrapposizione ai protestanti olandesi. Con la secolarizzazione che avanza, le paure della globalizzazione, gli egoismi economico-localistici, ecco che l’identità cristiana si è indebolita e il Belgio si ritrova senza un collante e a rischio spaccatura. Negli ultimi anni il Belgio ha conosciuto più anni di crisi politica che di governo. La presedente crisi politica era dura-

Ora le elezioni anticipate sono dietro l’angolo, probabilmente a metà giugno, nonostante in luglio inizi il semestre europeo di presidenza belga. E senza nessuna certezza che le elezioni risolvano la crisi. Infatti le divisioni non sono solo politiche, ma appunto anche comunitarie: esistono dc valloni e dc fiamminghi, socialisti francofoni e socialisti fiamminghi, e così via. Lo stesso Senato federale non è mai riuscito ad avere un ruolo risolutivo, composto secondo un preci-

causa delle dimissioni del governo, ma ieri la Camera si è pronunciata. Con solo due astensioni, è sta approvata la proposta che prevede un’ammenda da 15 a 25 euro e/o una settimana di detenzione per chiunque si presenterà in un luogo pubblico col volto coperto o mascherato in tutto o in parte in modo da rendere impossibile l’identificazione.

Non si parla esplicitamente di velo islamico, ma il bersaglio è chiaro. Entro l’estate i veli più evidenti potrebbero sparire da strade, parchi, ristoranti, ospedali, impianti sportivi, scuole e tutti gli edifici destinati al pubblico. Uniche eccezioni previste, quelle di Carnevale, se ci saranno ordinanze comunali in proposito. Un altro dubbio è il trattamento che sarà riservato ai caschi integrali, situazione non chiarita nel provvedimento. Il consenso sul provvedimento è unanime, quindi non si prevedono sorprese al prossimo passaggio al Senato. Il problema semmai sta nella tempistica: in piena crisi di governo con il re che ha accettato le dimissioni del premier, le elezioni anticipate potrebbero essere fissate per metà giugno, motivo per cui le Camere potrebbero essere sciolte prima che il Senato approvi la norma sul burqa. Se ci riuscirà, batterà sul tempo la Francia, che l’ha in programma a maggio. (O.Ba.)

so sistema di quote secondo le articolazioni delle comunità linguistiche. Leterme, padre vallone e madre fiamminga, è nuovamente caduto su una vicenda simbolo della crisi belga: la soluzione della situazione della circoscrizione Bhv, BruxellesHalle-Vilvorde, il “casus belli” per eccellenza fra fiamminghi e francofoni, querelle sullo status linguisticoamministrativo della forte comunità francofona alla periferia di Bruxelles. In questa circoscrizione, l’unica in tutto il Belgio, vige un doppio regime linguistico ed in alcuni comuni i francofoni, dove sono la maggioranza che costituisce un’enclave nella maggioranza fiamminga, hanno la possibilità di usufruire di scuole in lingua e di documenti amministrativi nella due lingue del Paese. I fiamminghi insistono nel preservare l’identità del territorio e dicono che i francofoni che vivono nelle Fiandre devono imparare il fiammingo. I valloni sostengono che vanno rispettati i loro diritti individuali.

Su questo i liberali fiamminghi hanno fatto cadere il governo, e gli estremisti fiamminghi sono tornati a chiedere formalmente la secessione. E in questo clima che va avanti da anni si andrà al voto. Ma quello belga è un caso unico in Europa? No, tutt’altro. A titolo di esempio prendiamo un’altra notizia recente, una notizia apparentemente positiva ed esempio di come si possano risolvere certe situazioni. La Spagna ha appena approvato l’uso in Parlamento di cinque “lingue” sullo stesso livello: castigliano, catalano, basco, valenciano e galego. La proposta è venuta da gruppi autonomisti ed è stata sostenuta dai socialisti, contrario il Partito popolare, che spiega «la Spagna non è un Paese multilingue, sono bilingue alcune sue regioni». Il punto è un po’ questo: la Spagna ha un sistema di autonomie locali molto forti, cui si sommano le questioni linguistiche e identitarie, fino agli eccessi dell’irredentismo nazionalista. Secondo diversi osservatori, la crescita esponenziale dei poteri locali, le rivalità regionali, le rivendicazioni specifiche, inserite in contesti di grande crisi economica come quella che la Spagna sta attraversando (20 per cento della disoccupazione) potrebbero causare persino la divisione del Paese. Anche se la prospettiva è per ora meno imminente che in Belgio.


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Il facente funzioni di presidente accompagnerà Jaruzelski

Il primo ministro indiano Singh accetta l’invito a Islamabad

Komorowski sarà a Mosca per la parata dell’8 maggio

“Scongelati” i rapporti tesi fra l’India e il Pakistan

VARSAVIA. Il presidente del Sejm Bronislaw Komorowski, facente funzioni del capo dello Stato dopo la morte di Lech Kaczynski nella sciagura aerea del 10 aprile a Smolensk, in Russia, andrà a Mosca per l’8 maggio assieme al generale Wojciech Jaruzelski per la grande sfilata militare in occasione del 65esimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale del 1945. Lo ha confermato Komorowski stesso in un’intervista all’emittente privata Zet. A giudizio di Komorowski, che è candidato alle presidenziali anticipate a giugno del partito di Piattaforma Civica (Po) del premier Donald Tusk, la visita è importante anche in prospettiva di un miglioramento dei rapporti bilaterali, profilatosi «paradossalmente dopo il dramma di Smolensk, vicino alle fosse di Katyn».

THIMPHU. Incontro riservato di 90 minuti ieri tra il premier indiano Manmohan Singh e quello pakistano Yousuf Raza Gilani, nel corso dei due giorni di riunioni dell’Associazione del Sud Asia per la Cooperazione Regionale (Saarc) in corso a Thimphu (Bhutan). Dopo gli attentati a Mumbai nel novembre 2008 i rapporti tra i 2 Stati sono stati tesi e scarsi e analisti sperano che ci sia ora la possibilità di una ripresa dei colloqui bilaterali. Nel primo loro colloquio diretto da 9 mesi, i 2 leader si sono detti d’accordo a lavorare per riprendere i dialoghi di pace, hanno giudicato l’incontro “positivo” e hanno incaricato i rispettivi ministeri degli Esteri di concordare le linee per futuri

Komorowski ha precisato che dopo l’invito giunto da parte dalle autorità di Mosca al generale Wojciech Jaruzelski gli ha proposto di prendere lo stesso volo per Mosca. Jaruzelski, 86 anni, responsabile durante il regime comunista dell’imposizione della legge marziale nel dicembre del 1981, è stato invitato alla parata in veste sia di ex presidente polacco (1989-1990) che ex combatten-

Il tango pericoloso di Hillary in Arabia La Clinton smentisce il suo presidente e irrita gli ospiti di Antonio Picasso

DAMASCO. La crisi degli Scud è l’ultimo tranello posto dal destino contro il sogno del Presidente Usa, Barack Obama, di risolvere in tempi brevi il processo di pace in Medio Oriente. Secondo le fonti israeliane, Hezbollah sarebbe venuto in possesso di una partita di missili a lunga gittata, grazie all’intercessione della Siria. Damasco ha smentito seccamente il suo coinvolgimento nella questione. Già mesi fa comunque la stampa croata aveva denunciato il traffico di armi dalla Russia verso il Medioriente, via Balcani. Il reportage, passato nell’ombra, parlava di razzi Katyusha e di grossi rifornimenti di munizioni che, attraverso le mafia kosovara, defluivano verso il Libano e la Striscia di Gaza. Il servizio quindi non parlava né di Scud né menzionava la Siria. Ieri però il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha evocato l’atteggiamento siriano come una minaccia alla stabilità regionale. Una dichiarazione, la sua, pronunciata di fronte a un pubblico “di parte”. La Clinton infatti era ospite dell’American CommisJews sion, la Conferenza degli ebrei statunitensi. Con le elezioni di midterm che si avvicinano, è facile che la sua presa di posizione avesse una valenza elettorale interna agli Usa, piuttosto che in ambito diplomatico. Ma è anche vero che Washington, nelle ultime settimane, ha assunto un atteggiamento molto più in linea con quello di Israele. Soprattutto dopo le profonde divergenze che avevano caratterizzato i mesi di febbraio e marzo. L’opinione pubblica israeliana teme una guerra. Il governo Netanyahu, dal canto suo, sta facendo ben poco per placare gli animi. Al tempo stesso, al di là delle frontiere si riscuote un speculare incremento di intransigenza. L’Autorità Palestinese, separata nel suo interno, non intende riprendere i negoziati con un esecutivo a suo giudizio oltranzista com’è quello attuale in Israele. La Siria, che negli ultimi due anni ha compiuto sforzi concreti per riacquistare la credibilità presso la comunità internazionale, ha anch’essa deciso di bloccare le trattative. A

Beirut nel frattempo, il Presidente libanese Michel Suleyman è tornato a decantare le lodi della capacità operativa di Hezbollah, lasciando intendere che un eventuale scontro fra il “Partito di Dio” e Israele, questa volta, verrebbe interpretato come un attacco all’intero Paese. Suleyman ha così ribadito l’equazione tra la forza combattiva sciita e la resistenza nazionale contro il nemico israeliano. Nemico di tutto il Libano e non solo di Hezbollah. Certo, tenendo conto dell’approssimarsi delle elezioni amministrative in Libano a giugno, anche questo atteggiamento potrebbe essere legato più alle questioni del voto che a quelle della sicurezza regionale.

D’altra parte declassare tutta la crisi ai singoli interessi elettorali, sia sulle coste del Mediterraneo sia oltre Atlantico, appare riduttivo. Il congelamento delle attività diplomatiche offre invece un agile spazio di manovra per coloro che non hanno nulla da guadagnare dal processo di pace, bensì premono sui nervi scoperti di ambo le parti affinché le frizioni diplomatiche si in trasformino un’instabilità effettiva e magari si arrivi allo scontro diretto. Esattamente undici mesi fa, Obama pronunciava il suo famoso discorso all’Università islamica del Cairo, al Azhar. Un discorso di ottimismo e di pace. Oggi siamo molto lontani da allora e da quelle buone intenzioni. Washington ha chiesto che il mondo arabo si spenda all’unanimità per riavviare i colloqui di pace. A suo tempo Bush fu accusato di unilateralismo nel fare la guerra. Per alcuni aspetti si può dire altrettanto di Obama nel tentativo di fare la pace. La concertazione con la Lega Araba - che si riunisce oggi - è una richiesta concreta proprio di Obama. La Clinton ha anche detto che la pace si raggiunge «grazie al rafforzamento degli scambi commerciali e all’abbattimento delle barriere». Un messaggio forse diretto anche a Israele, affinché cooperi allo sviluppo della società palestinese. Perché anche questa è una possibile strada per la pace.

A undici mesi esatti dal discorso presso l’università islamica di al Azhar, i buoni propositi di Obama sembrano svaniti

te nella seconda guerra mondiale nel corpo militare polacco che affiancò i sovietici nella guerra di liberazione dall’occupazione nazista. Per la prima volta, alla sfilata di Mosca prenderanno parte anche due plotoni di 75 soldati polacchi, partiti stamane da Varsavia verso Russia, in rappresentanza dell’esercito polacco alla cerimonia sulla Piazza Rossa. Nel frattempo, la Polonia entra in pieno clima pre-elettorale: i motori li ha scaldati l’ex presidente Lech Walesa, che ha accusato il suo sindacato Solidarnosc di aver tradito la linea tradizionale sostenendo la candidatura del gemello Kaczynski sopravvissuto.

colloqui. Le parti appaiono desiderose di riprendere il dialogo, senza per ora risolvere i contrasti derivati dagli attentati di Mumbai. Nirupama Rao, segretario del ministero indiano degli Esteri, ha detto che «si vuole portare avanti un colloquio effettivo su tutte le questioni di reciproca preoccupazione». Il ministro pakistano degli Esteri Shah Mehmood Qureshi si è felicitato della reciproca volontà di affrontare questioni diverse dal terrorismo e dall’estremismo islamico.

Peraltro Singh ha ribadito la richiesta indiana al Pakistan «di agire in modo concreto per mettere sotto controllo ed eliminare» i focolai terroristi nel Paese. Gilani ha ribattuto che il Pakistn è a sua volta vittima del terrorismo, come l’India. Non è stata fissata alcuna agenda, ma solo preso il reciproco impegno di incontrarsi “il più presto possibile”. Singh ha accettato l’invito di Gilani a una visita in Pakistan, che sarà la prima per un premier indiano dal 1999. Per gli attacchi di Mumbai che hanno causato circa 170 morti, l’India accusa il gruppo estremista islamico Lashkar-e-Taiba e rimprovera a Islamabad di consentirgli di avere basi militati nel suo territorio.


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il personaggio della settimana Il figlio di Umberto di fronte a una grande sfida: dimostrare di valere oltre il casato

Il ragazzo che deve battere il suo cognome

Dai dissapori con John Elkann sulla gestione finanziaria del gruppo Fiat, alla nomina al vertice della vetrina di famiglia: la Juventus. Storia di Andrea Agnelli, il nuovo viceré di Torino di Gabriella Mecucci ome suo padre, come suo zio e soprattutto come suo nonno. Andrea Agnelli diventa presidente della Juve, richiesto a gran voce dai tifosi, che lo invocano come il loro «unico condottiero». E in effetti il 35enne figlio di Umberto ha tutti i galloni per guidare i bianconeri in uno dei momenti più bui della loro straordinaria storia: di calcio se ne intende; e parecchio. Ama andare allo stadio insieme alla moglie Emma Winter, ed entrambi se c’è da sostenere la squadra, non si tirano indietro. Dulcis in fundo, è grande amico di Giraudo e di Capello. Quest’ultimo, Andrea lo incontra spesso nei suoi numerosi viaggi a Londra (la moglie è inglese) e anzi c’è chi dice che Agnelli jr abbia chiesto al ct della nazionale inglese di tornare a fare l’allenatore della Juve. Per il momento avrebbe ricevuto un cortese no. Ma non è detto che la trattativa finisca così. L’alternativa sarebbe – come è noto – Benitez.

di Allegra Caracciolo. Da piccolo – dicono gli esperti di casa Agnelli – era un bambino timido e taciturno. I genitori l’hanno educato con rigore e semplicità. Stile Umberto, molto diverso dallo stile Gianni. Il padre, che aveva accumulato ricchezze più copiose di alcuni altri fratelli e sorelle, non amava le sbruffonerie e preferiva una vita campagnola e un po’ spartana: la sua casa era fuori città, alla Mandria, dall’altro lato di Torino rispetto all’abitazione di Gianni. Il giovane Andrea doveva rientrare per cena alle 19,45: ora canonica in cui la famiglia si metteva intorno al tavolo. Gli veniva concessa una franchigia di un quarto d’ora. Se faceva tardi, era obbligato a telefonare e a scusarsi. Insomma, poca mondanità e in più con i genitori informati e consenzienti. Un modo diverso di vivere rispetto a quello dell’avvocato, di sua moglie Marella e dei loro due figli, Margherita ed Edoardo. Del resto i due fratelli erano opposti quasi in tutto e Umberto aveva lungamente sofferto di un complesso d’esclusione: il nonno aveva deciso che il re fosse Gianni concedendogli la quota doppia nell’ accomandita di famiglia.

Ma chi è questo gio-

Allegra Caracciolo, madre di Andrea, cugina di Marella, persona equilibrata e di carattere fermo, sposò Umberto dopo che questi si era separato dalla prima moglie Antonella Bechi Piaggio. Con quest’ultima aveva avuto un figlio: il mitico (e molto mitizzato) Giovannino. Il ragazzo era l’erede designato dall’avvocato per succedergli alla guida della Fiat, ma morì, quand’era ancora molto giovane, per una forma rara e terribile di cancro. Si era sposato da poco e la figlioletta non era ancora nata. Del ramo facente capo a Umberto era lui che avrebbe dovuto emergere. Andrea e sua sorella Anna, oggi regista e pubblicitaria di gran fascino, sarebbero stati un po’ più defilati. Il tragico destino del fratellastro ha però imposto alla ribalta questo giovane uomo, poco più che trentaquattrenne. Del resto, gli Agnelli somigliano un

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vin signore che ha accettato una sfida difficile ed esaltante: riportare cioè i bianconeri agli antichi splendori e soprattutto ripristinare quello stile Juve, da troppo tempo tristemente tramontato? È l’ultimo erede che porta il nome Agnelli (gli altri sono Elkann): un segno questo dell’inossidabile attaccamento della famiglia alla squadra. Nato nel 1975, è figlio di Umberto e

po’ ai Kennedy: sono una grande famiglia, la cui vita è stata segnata dalla ricchezza, dagli amori, dalle avventure e dal successo, ma anche dalle tante tragedie. Il nonno Edoardo, padre di Gianni e Umberto, morì a 43 anni in un incidente con l’idrovolante, la nonna Virginia se ne andò a 46, schiacciata da un camion dell’esercito americano nei pressi di Forte dei Marmi. Giorgio, uno dei sette fratelli, finì misteriosamente: forse si trattò di suicidio. E poi c’è stata la tragedia del giovane Edoardo e quella, sia pure affatto diversa, di Giovannino.

«Ricordati che sei un Agnelli»: diceva l’istitutrice inglese ai sette fratelli e il monito, scendendo giù per li rami, è arrivato anche ai figli di questi. Dell’essere Agnelli fa parte anche la capacità di resistere al dolore e di rilanciare. Adesso, tocca ad Andrea e lui – dicono in famiglia – si era ben preparato a sfruttare l’occasione quando gli si sarebbe presentata. Nel privato ha una vita semplice, un po’come il padre. Si è sposato nell’agosto del 2005, in forma molto riservata, appunto con l’inglese con Emma Winter. Lui aveva 30 anni e lei 28. La cerimonia venne celebrata nella chiesa di Villar Perosa, una cappella che domina il piccolo paese della Val Chisone, feudo storico degli Agnelli: la vecchia villa venne acquistata dal fondatore della Fiat, il mitico senatore Giovanni. Emma è una bella ragazza che Andrea ha incontrato in Svizzera, quando lavorava alla Philip Morris: è laureata in filosofia, con una tesi in ingegneria comportamentale. È una supertifosa della Juve e non trascura di dimostrarlo tutte le volte che va allo stadio. Da questo punto di vista è dunque una moglie ideale. La coppia ha già avuto una bella bambina, di nome Baya e non sembra intenzionata a fermarsi qui. Andrea, quasi coetaneo di Jaki, è serio e posato come lui: l’esatto contrario di Lapo che infiamma le cronache mondane di tutto il mondo e qualche


1 maggio 2010 • pagina 31

volta lambisce anche la cronaca nera. La nuova generazione degli Agnelli ne ha per tutti i gusti, come del resto la vecchia. Anche per questo forse sono una sorta di famiglia reale italiana: perché hanno al loro interno un po’ tutti i caratteri e le tipologie dei loro connazionali. In questo panorama, il figlio di Umberto è, almeno in apparenza, proprio un bravo ragazzo. Ottimo studente: ha frequentato Oxford e la Bocconi. E ha iniziato a lavorare molto pre-

Andrea, dopo la morte di Umberto, ha giocato un ruolo molto importante: è diventato il punto di raccordo di tutti gli scontenti e i delusi della gestione Gianni: nel 2004 infatti la Fiat era alla catastrofe e ancora non si sentiva l’effetto Marchionne. Che cosa accadde? Alla vigilia della riunione dei membri dell’accomandita in cui si doveva decidere di riportare la quota degli Agnelli in Fiat al di sopra del 30 per cento, Andrea rilasciò un’intervista in cui espresse la

Fino a oggi aveva fatto parlare di sé solo per la grande ricchezza personale ereditata dal padre e per la sua grande sobrietà. Ma soprattutto per quella vecchia ostilità con Jaki sto. Dopo un’esperienza alla Ferrari e una alla Philip Morris, ha lavorato nell’area sviluppo strategico di Ifil. Poi l’ha lasciata per dar vita ad un suo fondo d’investimento. È tutt’ora consigliere di amministrazione della Fiat e si occupa di una delle ricchezze più consistenti della famiglia. Non solo la quota in accomandita – quasi il 10 per cento (valore intorno ai 200 milioni di euro) – ma anche l’enorme patrimonio personale ereditato dal padre.

propria contrarietà all’operazione. Sosteneva in pratica che in quel momento di particolare debolezza alla famiglia sarebbe convenuto, anziché tirare fuori altri soldi, fare un accordo con le banche per assicurarsi una buona posizione difensiva. Il suo timore era quello che nascesse un’opa ostile che avrebbe spezzato le fragili paratie degli Agnelli.

La proposta di Andrea nasceva, oltre che dalla valutazione della situazio-

ne finanziaria e di mercato del gruppo, anche da un oculato calcolo di potere. L’unico discendente col cognome Agnelli si trovava all’interno dell’accomandita in netta minoranza. A prevalere era il blocco Elkann, capeggiato da Jaki. Se l’accomandita non fosse risalita, avrebbe contato di meno e la posizione dei cugini si sarebbe indebolita. Per Andrea avrebbe potuto aprirsi un ruolo da pontiere fra la famiglia e qualcuno dei nuovi soci bancari. Ci furono momenti di altissima tensione: La Stampa, quotidiano di proprietà degli Agnelli, scrisse in modo scorbutico che quella del figlio di Umberto era una posizione squisitamente personale. La seconda, fortissima, frizione fra cugini si ebbe proprio sul destino della Juventus. Il fatto è che la squadra era stata padrona del campo calcistico per molti anni, ma, prima la parentesi Inter, e poi, soprattutto, il caso Milan con alla testa Berlusconi, avevano segnato un brusco cambiamento d’epoca. Quando Umberto si trasferì all’Ifil, decise di intervenire drasticamente sulla società per rafforzarla: piazzò così ai vertici Moggi e Giraudo. Chiese loro di riportare i bianconeri agli antichi splendori, ma senza contare sui soldi delle finanziarie di famiglia. Il duo, al quale poi si aggiunse Bettega, riuscì a centrare l’obiettivo. Ma – e questa è storia di ieri – pestò parecchi piedi e commise più di un’illegalità sportiva.

Oggi sappiamo che probabilmente non erano i soli, ma furono i primi sui quali si scatenò la reazione del sistema-calcio. La trimurti (così fu chiamata con un certo sprezzo dai tifosi avversi) venne fatta fuori in quattro e quattr’otto. E iniziò la grande tensione fra cugini: gli Elkann non mossero un dito per difendere la squadra e la lasciarono andare in serie B senza alzare la voce. Gli “umbertini”, invece - Andrea in testa - non erano d’accordo con questo atteggiamento troppo arrendevole. E soprattutto dissentivano totalmente

Una poltrona nella cassaforte di famiglia Andrea Agnelli è nato a Torino nel 1975. Attualmente, oltre ad essere presidente della Juventus di freschissima nomina, è consigliere d’amministrazione di Exor e Fiat, vale a dire i due gioielli di famglia. Figlio di Umberto Agnelli e Allegra Caracciolo, Andrea si è formato accademicamente al St Clare’s International College di Oxford ed alla Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano. Dal 2001 al 2004 ha lavorato alla Philip Morris International. Nel 2007 ha costituito una sua holding finanziaria, la Lamse S.p.A, di cui è amministratore delegato. Ha anche coltivato la propria passione per il golf diventando nel 2008 A.D. del Royal Park Golf & Country Club I Roveri. Il 29 settembre 2008 è stato nominato consigliere federale della Federazione Italiana Golf. Accanto a questa carriera, Andrea ha mantenuto stretti legami con il mondo Fiat. Dal 2005 al 2006 ha avuto mansioni di sviluppo strategico all’interno della Ifil. Dal 30 maggio 2004 è consigliere d’amministrazione di Fiat e dal 2006 lo è diventato di Ifi (divenuta poi Exor), la società che controlla l’intera galassia Fiat: la cassaforte di famiglia, insomma. Al vertice della Juventus è il quarto Agnelli, dopo il nonno Edoardo, il padre Umberto e lo zio Gianni.

dalle decisioni degli Elkann sulla nuova dirigenza juventina. Un tiro alla fune che all’inizio Jaki sembrò vincere, ma poi è arrivata la catastrofe del campionato in corso. A questo punto, il neo presidente della Fiat si è visto costretto ad ascoltare “gli umbertini”, anche perchè i tifosi sono schierati tutti dalla loro parte. E così Jaki non ha altra strada che andare a Canossa ed invitare il cugino Andrea, adorato dalle “curve”, a diventare presidente della Juve. La società verrà dotata per l’anno prossimo di un bel po’di soldi, potrà prendersi un grande allenatore e qualche giocatore di prim’ordine.

Insomma, è arrivata la prima grande occasione per il figlio di Umberto. Se ne uscirà bene, la sua credibilità in famiglia crescerà in modo assai consistente. È già, di fatto, il numero due e non è detto che non possa aspirare anche a poltrone più importanti. Per il momento, il timone Fiat è saldamente nelle mani del duo Elkann-Marchionne, e Andrea resta l’outsider, ma è un outsider di lusso e che si chiama Agnelli. Se facesse il miracolo di suo nonno Edoardo... Se reinventasse uno squadrone blasonato, allora, chi sa? Del resto, già una volta era stato indicato come super erede un figlio di Umberto. Potrebbe anche riaccadere di nuovo. Il ramo Elkann, infine, non è esente da critiche. E che dire di Margherita, madre di Jaki, che ha combinato quella valanga di sciocchezze da far tremare la famiglia e la memoria dell’Avvocato? Ora Andrea comincia a tessere la sua tela. In maglia bianconera.


ULTIMAPAGINA

Eventi. Fuochi d’artificio, piramidi rovesciate, arresti e lager: dopo Pechino, la Cina presenta al mondo Shanghai

Un Expo davvero poco di Vincenzo Faccioli Pintozzi ata come passerella dell’amicizia fra i popoli, l’Esposizione universale che si è aperta nella notte a Shanghai ha molto poco di universale: assomiglia più a una manifestazione di forza bruta e opulenza da parte del regime cinese, che cerca di accreditarsi una volta per tutte fra le grandi nazioni del pianeta. Dopo anni di preparazione, si è aperta ieri sera l’esposizione mondiale, che rimarrà aperta dal 30 aprile fino al 31 ottobre. La cerimonia di apertura prevede fuochi d’artificio sul fiume Huangpu, e a detta di tutti sarà uno spettacolo dalla regia internazionale, molto più maestoso dell’apertura delle Olimpiadi di Pechino del 2008. All’Expo partecipano 192 nazioni con enormi stand e padiglioni, dove presentano le ultime novità delle loro industrie, intelligenze e storia. Fino ad ottobre gli stand presenteranno spettacoli, conferenze e incontri economici fra businessmen cinesi e internazionali. L’importanza della Cina nel mondo economico si vede dal fatto che alla cerimonia iniziale saranno presenti leader internazionali: il francese Nicolas Sarkozy; il coreano Lee Myung-bak; l’europeo Jose Manuel Cardoso. Ogni nazionale porta il meglio di sé per attirare l’attenzione sulle proprie qualità e il proprio mercato. La Danimarca ha deciso di trasferire a Shanghai per questi mesi la famosa Sirenetta di Copenhagen; l’Italia un’esposizione su Caravaggio e una su Matteo Ricci; la Francia opere di pittori impressionisti e dello scultore Rodin; l’India porta un gruppo di star di Bollywood; il Canada il Cirque du Soleil; il Giappone dei robot che suonano il violino. Il padiglione cinese presenta una “piramide rovesciata”, che in realtà è un enorme tetto di una costruzione cinese antica (un temoio o una porta). La spesa per tutte le infrastrutture si aggira ufficialmente sui 400 miliardi di yuan (circa 40 miliardi di euro), ma si dice che il costo è di molto superiore.

N

Per l’occasione Shanghai si è trasformata: il Bund, l’antico quartiere coloniale sulla riva del fiume, è stato restaurato; sono state costruite centinaia di chilometri di nuove linee metropolitane, facendo diventare Shanghai la

prima città al mondo per estensione del metro; due nuovi terminal aeroportuali. Il tema dell’Expo è “Una città migliore, una vita migliore”, tenendo d’occhio anche il problema ecologico e dell’urbanistica. Quella di Shanghai è l’Expo più costosa della storia, distribuita su oltre 5 chilometri quadrati di superficie sui due lati del fiume, fra la città e Pudong. Si attendono circa 100 milioni di visitatori, dei quali solo il 5 per cento stranieri. Per garantire la sicurezza, da settimane vi sono controlli simili a quelli durante le Olimpiadi: militari, polizia e “volontari” agli incroci. Alle stazioni di metro e degli autobus sono stati posti metal detector e nelle scorse settimane sono state arrestate almeno

dell’Expo, ora sono stati allontanati. In marzo Yan Chengzhong, membro del parlamento cinese, aveva espresso preoccupazioni per “incidenti dannosi all’immagine della Cina e di Shanghai”ad opera dei migranti.

Per questo lui consigliava di trascinarli fuori città e farli lavorare nelle periferie, in cantieri chiusi, fuori dalla vista degli altri, magari a costruire gallerie per la futura metropolitana. Per preparare l’evento, le autorità hanno ordinato la requisizione forzate di palazzi e terreni; cacciato cittadini scomodi che hanno perso il lavoro; imposto una nuova e più feroce restrizione sui mezzi di comunicazione. Il timore è

UNIVERSALE La Danimarca ha portato la Sirenetta di Copenhagen; l’Italia un’esposizione su Caravaggio; la Francia i pittori impressionisti e Rodin; l’India le star di Bollywood seimila persone. La città è stata ripulita dei lavoratori migranti, considerati una visione troppo povera della Cina e per timore che essi compiano manifestazioni. Dopo che essi hanno lavorato giorno e notte per le costruzioni

che, alla presenza dei leader mondiali presenti per l’inaugurazione dell’Expo, la comunità dissidente possa denunciare le numerose violazioni ai diritti umani che avvengono nel Paese. Il Chinese Human Rights Defender riporta l’arresto di Feng Zhenghu, che da anni lotta contro le falle nel sistema giudiziario proprio a Shanghai. Feng stava preparando uno “Shanghai Expo contro i processi ingiusti”; la notte del 19 aprile, la polizia è entrata nella sua casa, ha sequestrato il suo computer e lo ha portato via. Gli agenti hanno minacciato di «farlo sparire come Gao Zhisheng» se avesse parlato durante l’incontro internazionale. Il riferimento è all’avvocato cristiano, attivista per i diritti umani, sparito nel nulla per un anno prima di riemergere con una condanna penale. Almeno altri sei noti attivisti sono stati inoltre condannati alla “rieducazione tramite il lavoro” in vista dell’Expo. Altri quattro sono stati arrestati, sempre per lo stesso motivo.Tong Guojing, ad esempio, è stato condannato a 18 mesi di lavori forzati dopo che la demolizione forzata della sua casa lo ha trasformato in un attivista. La pubblica sicurezza ha diramato poi agli attivisti delle province circostanti “l’invito” a non presentarsi a Shanghai: la pena è l’arresto.


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