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Il coraggio è la prima
he di c a n o r c
delle qualità umane, perché è quella che garantisce le altre Winston Churchill
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 4 MAGGIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Domani il presidente Napolitano sarà a Quarto da dove partirono i Mille. La Cei: «Basta propaganda sulla storia d’Italia»
Si può dir bene di Garibaldi? Calderoli (pro-federalismo) attacca le celebrazioni dell’Unità. Bondi e Sacconi lo seguono. Una volta era vero il contrario: oggi è “reato”pensare alla nazione come un bene comune CHI NON AMA IL PROPRIO PAESE
di Errico Novi
L’ideologia anti italiana
ROMA. Poche parole. Troppo po-
di Rocco Buttiglione a Lega non vuole celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Noi invece sì. Noi, i cattolici, i papalini, gli eredi degli sconfitti del Risorgimento. Come mai? Per rispondere a questa domanda è necessario spiegare che cosa è una Nazione. Una Nazione è un cammino di speranza che attraversa la storia. È una cultura che ha motivato generazioni di uomini a vivere, a crescere, a lavorare, a innamorarsi e ad amarsi e a generare ed educare figli, a costruire città e opere di ingegno e di arte, ad inventare sistemi di convivenza, leggi e regole via via più umani e capaci di accompagnare lo sviluppo degli uomini… una Nazione è questo e tante altre cose. Amare la propria Nazione è una conseguenza necessaria del semplice fatto di amare noi stessi. Amiamo il coraggio e l’amore di quelli che ci hanno generato, il loro coraggio ed il loro enorme lavoro attraverso il quale abbiamo potuto essere chiamati alla vita e poi allevati ed educati. segue a pagina 3
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La memoria storica ormai è vicina al collasso
Il revisionismo leghista è tutto da rivedere L’identità nazionale non può essere solo tema di piccoli scontri politici. Due studiosi a confronto: Alessandro Campi e Francesco Perfetti Riccardo Paradisi • pagina 4
che, per un giorno del genere. A quarantott’ore dal via alle celebrazioni per l’Unità d’Italia quasi nessuno nella maggioranza trova il modo di zittire il leghista Roberto Calderoli. Anzi, le voci più autorevoli che si levano dal governo confortano addirittura le tesi del ministro lumbàrd. Da Bondi che in un’intervista al Corriere della Sera dice di condividere l’idea leghista del 150esimo anniversario (ossia non festeggiarlo ma lavorare al federalismo) a Sacconi, sulla stessa lunghezza d’onda in nome delle «retoriche sabaude» da rifuggire. Ancora una volta insomma il Pdl è d’accordo sulla Lega. Persino sull’Unità, negata, della Nazione. C’è la bandierina piantata da qualche finiano (Ronchi, Urso), il resto è silenzio o quasi. Persino uno noto per il suo equilibrio come Rotondi preferisce l’autocensura e si limita a dire: «L’importante è che il 5 maggio a Quarto il governo ci sarà, il resto non conta». a pagina 2
L’attacco sventato mirava alla sede della Viacom
Così è nato l’attentato di New York
di Ayan Hirsi Ali
Gli Usa indagano sulla “pista South Park”. La più celebre dissidente araba racconta come è nata la fatwa contro il popolare programma tv a pagina 16
Duro scontro al vertice Onu sul nucleare
Voci di possibili dimissioni del ministro
Un rapporto finora colpevolmente trascurato
Ahmadinejad: «Via le armi Usa dall’Italia». Hillary: «Sanzioni dure»
Scajola sugli assegni: «È tutto falso, lo dirò alla Camera»
L’agenzia per l’energia: si può vivere (felici) senza il petrolio
Il solito comizio del presidente iraniano scatena le ire delle delegazioni occidentali che abbandonano la sala delle conferenze. Duro il discorso del segretario di Stato americano: «Gli ayatollah vogliono negare l’evidenza ancora una volta»
La vicenda della casa che sarebbe stata pagata dal faccendiere Anemone diventa un caso politico. Pd e Udc chiedono un dibattito in Aula mentre Di Pietro vuole la sfiducia. Il Pdl se la prende con il finiano Granata che esprime dubbi: «Traditore»
All’indomani del dramma della Louisiana, rileggiamo il documento con il quale l’Agenzia internazionale per l’energia spiega come sia possibile ridurre (e molto) il consumo di greggio. Auto collettive, eco-drive e soprattutto telelavoro
Vincenzo Faccioli Pintozzi • pagina 14
Marco Palombi • pagina 11
Pierre Chiartano • pagina 18
seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
84 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 4 maggio 2010
Storia. Domani in Liguria Napolitano darà il via alle celebrazioni, improbabile la presenza di esponenti del Carroccio
Il Pdl si arrende a Calderoli Bondi e Sacconi danno ragione al leghista: «Realizzare il federalismo è il modo giusto di festeggiare l’unità d’Italia, no a retoriche sabaude» di Errico Novi
ROMA. Poche parole. Troppo poche, per un giorno del genere. A quarantott’ore dal via alle celebrazioni per l’unità d’Italia quasi nessuno nella maggioranza trova il modo di zittire Calderoli. Anzi le voci più autorevoli che si levano dal governo confortano addirittura le tesi del ministro lumbàrd. Da Bondi che in un’intervista al Corriere della Sera dice di condividere l’idea leghista del 150esimo anniversario (ossia non festeggiarlo ma lavorare al federalismo) a Sacconi, sulla stessa lunghezza d’onda in nome delle «retoriche sabaude» da rifuggire. Ancora una volta insomma il Pdl è d’accordo sulla Lega. Persino sull’unità, negata, della Nazione. C’è la bandierina piantata da qualche finiano (Ronchi, Urso), il resto è silenzio o quasi. Persino uno noto per il suo equilibrio come Rotondi preferisce l’autocensura e si limita a dire: «L’importante è che il 5 maggio a Quarto il governo ci sarà, il resto non conta».
L ’ o rd i ne è ch ia r o : non sollevare un vespaio e lasciar scivolare via la diserzione padana come se niente fosse. Operazione non semplice. Intanto perché se domani, come è ormai probabile, davanti allo scoglio dei Mille davvero non ci sarà nemmeno un dirigente leghista di rango, il caso si aprirà eccome. E poi perché l’indifferenza di fronte alle parole di Calderoli non fa certo la gioia di Napolitano. Già oggi il presidente della Repubblica sarà nel capoluogo ligure per una serie di appuntamenti pubblici (soprattutto incontri con il mondo produttivo). Si porterà dentro l’irritazione per l’ennesimo attacco dell’Italia dei valori: stavolta è De Magistris infatti a dirgli che «non
La pagina de «I Mille» dedicata alla partenza da Quarto, tra il 4 e il 5 maggio del 1860
La ”notte del gran concetto” raccontata da Garibaldi La notte fra il 4 e il 5 maggio del 1860 è quella in cui i Mille si imbarcano da Quarto diretti verso la Sicilia per «fare l’Italia». Il trascinatore di questo manipolo di padani (in maggioranza i Mille erano bergamaschi, bresciani, in parte genovesi e milanesi; solo marginalmente siciliani, toscani, romani e veneziani), Giuseppe Garibaldi, raccontò la sua avventura prima nelle Memorie e poi nel romanzo storico I Mille. Da quest’ultimo, pubblichiamo le righe che illustrano la partenza durante la notte tra il 4 e il 5 maggio: la “notte del gran concetto”, la chiama Garibaldi.
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Eccoli, e maestosi s’avanzavano i due piroscafi, e i gozzi, già preparati, cominciavano ad imbarcare militi, armi, munizioni
notte del 5 maggio rischiarata dal fuoco dei mille luminari con cui l’Onnipotente adornò lo spazio! Bella, tranquilla, solenne, di quella solennità che fa palpitar le anime generose che si lanciano all’emancipazione degli schiavi! Brulicando sul litorale dell’orientale Liguria, silenziosi, cupi, penetrati dalla santità dell’impresa, ma fieri d’esservi caduti in sorte - aspettavano impazienti i Mille succedan pure i disagi o il martirio! Bella! notte del gran concetto! tu rumoreggiavi nelle fila di quei superbi, di quell’armonia indefinita, sublime, edificante, con cui gli eletti della specie umana sono beati contemplando l’Infinito nell’infinito. Io l’ho sentita quell’armonia in tutte le notti che si somigliano alle notti di Quarto, di Reggio, di Palermo, del Volturno! E chi dubita della vittoria, quando essa, portata sulle ali del dovere e della coscienza, questi ti sospingono ad affrontare i perigli e la morte, dolci allora come il bacio delizioso della donna del primo amore? I Mille battono il piede sulla spiaggia, come il corsiero generoso impaziente della battaglia. E dove van essi a battagliare? Han forse ricevuto l’ordine d’un sovrano per invadere, conquistare una povera, infelice popolazione, che, rovinata dalle tasse di dilapidatori, ha rifiutato di pagare il macinato? No! Essi corrono verso la Trinacria, ove i Picciotti, insofferenti del giogo d’un tiranno, si son sollevati ed han giurato di morire piuttosto che rimaner schiavi. «Ma questi piroscafi non si vedono» diceva Nullo ad un impaziente crocchio di volontarii, composto dai Cairoli, Montanari,Tucheri ed al-
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tri, che anelavano di lanciarsi sul seno di Teti, e volare in soccorso dei combattenti fratelli. «Spero saranno piroscafi, non legni a vela: sarebbe troppo noioso il viaggio - soggiungeva il maggiore dei Cairoli colla sua calma angelica - Bixio, Schiaffino, Castiglia, Elia, Orlando, incaricati di condurli via dal porto, non sono uomini da lasciarsi intimorire da minacce o da ostacoli». «Però - ripetea l’eroe della Polonia coll’orologio alla mano - già siamo al tocco, ed alle 3 albeggia in questa stagione: se i legni da guerra ancorati nel porto di Genova giungono a scoprirci, potrebbe andar male per la spedizione.» «Per Dio! che fossimo obbligati anche questa volta a tornarcene a casa» urlava il focoso e prode Montanari. «Sangue della!.... - e non arrivò a dire - Madonna» quando un «Zitto» di Vigo Pelizzari che si teneva sul promontorio di Quarto (ove si trovavano i nostri amici) adocchiando verso Genova «Zitto, non vedete quelle masse nere che celeremente s’avanzano verso di noi?» «Sì, sì, per Dio! son dessi, sono i nostri piroscafi che vengono ad imbarcarci.» Ed un fremito di soddisfatta impazienza s’innalzò in un momento tra quella superba gioventù da non più udire il rumore delle onde che si frangevano contro le scogliere. Eccoli, eccoli, e maestosi s’avanzavano i due piroscafi, e i gozzi, già preparati, cominciavano ad imbarcare militi, armi, munizioni; e la gioia dei giovani volontari, che avrebbero voluto manifestarla almeno con un canto patriottico, era moderata dai più provetti con un «Per Dio! ci fermano se fate chiasso!». Siam tutti a bordo, tutti! nessuno di quella Legione di eletti è rimasto. Alcuni hanno già provato gli effetti dell’instabile elemento, ma niuno si lagna. Essi sono sulla via d’un dovere sacrosanto. Domani daran la vita per l’Italia, ilari e giocondi come nel banchetto nuziale. E che importano loro alcune nausee, i disagi, la morte? I piroscafi sono diretti sopra una luce verso l’ostro - là su d’una paranza sono imbarcate le provviste della spedizione - bisogna prenderle.
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sempre si è comportato da presidente di garanzia», visto che «ha controfirmato più di una legge incostituzionale». Con postilla dedicata dal dipietrista al «comportamento indegno della Lega» che «da anni aspira a colpire l’unità con la pericolosa logica del separatismo razzista». Così le due cose finiscono per mescolarsi. E soprattutto il presidente della Repubblica è costretto vedere una ferita così dolorosa riaperta proprio ad opera dei suoi peggiori detrattori.
Non una giornata facile, per l’unità del Paese e chi la rappresenta. A parziale compensazione arriva l’intervento del presidente della Cei Angelo Bagnasco, che parla proprio a Genova, ad un convegno promosso dal Comitato per le Settimane sociali sul 150esimo anniversario: «L’indifferenza verso le istituzioni è una mancanza grave e crescente, e prelude alle più varie forme di frattura nel Paese». E ancora: «È necessario far riemergere il senso positivo di essere italiani: servono visioni grandi non per fare retorica ma per nutrire gli spiriti e seminare nuovo ragionevole ottimismo». A sua volta Napolitano risponde con un messaggio sul «contributo essenziale dei cattolici in vista delle riforme». Ma attorno al balletto macabro del Carroccio si scorge soprattutto il solito tatticismo verbale. I soli che si rifiutano di ridurre la festa per i 150 anni dell’unità a “pragmatismo federalista” sono i finiani. Dando però l’impressione di scuotersi più per interesse di parte che per convinzione ideale. Secondo Urso per esempio, l’uscita di Calderoli «è la dimostrazione che Fini ha posto un problema reale». Stesso compiacimento da Maria Ida Germontani, senatrice ex An anche lei fedele al vecchio capo: «Quanto affermato da Calderoli nell’intervista a Lucia Annunziata dimostra che il presidente Fini, quando ha posto il tema dell’unità d’Italia alla direzione nazionale del Pdl, ha messo in luce l’ambiguità del comportamento della Lega».
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Giorgio Napolitano avvierà domani a Genova le celebrazioni per il 150esimo anniversario dell’unità d’Italia. In basso a sinistra, il ministro della Semplificazione Roberto Calderoli, che nell’intervista a Lucia Annunziata di domenica scorsa ha dichiarato di non voler partecipare alla commemorazione
Contro l’ideologia degli antitaliani La Lega, come fascisti e comunisti, ridà vita al conflitto tra cittadini di serie A e di serie B di Rocco Buttiglione segue dalla prima Certo, non tutto ciò che è accaduto in questa storia ci piace. Alcune cose che i nostri antenati hanno fatto, noi forse non le avremmo fatte o le avremmo fatte in modo diverso. Tuttavia noi siamo convinti della sostanziale positività di quella storia e siamo grati di essere stati generati in essa e di essere diventati uomini attraverso di essa. Amare la patria significa essere convinti di non essere nati per caso e di essere invece inseriti in una storia di salvezza che viene da prima di noi e si prolungherà anche dopo di noi. Amiamo la patria italiana attraverso le pagine belle ma anche attraverso le pagine brutte della sua storia. Come uno non si sceglie i suoi genitori così non si sceglie neppure i suoi padri della patria. Sono quello che sono, con i loro limiti e con le loro virtù. A loro abbiamo tutti motivo di essere grati. Grazie a loro siamo quello che siamo. In ogni buona famiglia italiana ci sono uno zio massone e uno zio monsignore. Ambedue sono parte della famiglia, della sua cultura e della sua storia.
Spero che si permetta a me che sono notoriamente bigotto di dire che nell’idea di amor di patria c’è un forte elemento provvidenzialista. La Divina Provvidenza guida la storia della nazione verso il bene, nonostante gli uomini facciano di tutto per condurla alla rovina. In Italia molti non amano l’Italia. C’è una classe dirigente che in buona misura si considera non italiana e anti italiana. Sono quelli che si sentono non itaNon mancano certo nelle rivendicazioni dei finiani riferimenti all’importanza dell’anniversario. Ma la sensazione prevalente è che tutto il Pdl abbia smarrito le buone ragioni da contrapporre all’alleato. Tra le repliche più o meno dirette al ministro della Semplificazione mancano quelle capaci di ribattere nel merito. E il discorso vale evidentemente non solo per
liani ma cittadini della modernità, una modernità che fiorirebbe altrove, forse in America o in Francia o in Gran Bretagna o anche in Germania ma che avrebbe invece trascurato e abbandonato l’Italia. C’è un motto di Massimo D’Azeglio, molto popolare ma che io non sono mai riuscito a farmi piacere: «Fatta l’Italia , bisogna adesso fare gli italiani». C’è dentro l’idea dell’Italia come creazione artificiale e non prodotto organico di una storia comune. In modo altrettanto artificiale bisognerebbe adesso fare gli italiani. Il Paese si divide dunque in due parti: quella moderna, europea, e quella arretrata, propriamente italiana in senso deteriore e dispregiativo. I primi hanno il diritto-dovere di “educare” i secondi. Esiste dunque una “parte sana”della nazione che, anche se minoritaria, ha il diritto-dovere di “educare” e trasformare la “parte malata”. Mussolini, come è noto, condivideva questa visione. Sono noti gli aforismi che gli sono stati attribuiti: «governare gli italiani non è impossibile, è inutile», oppure «Questo freddo e questa neve ci vanno benissimo. Così muoiono le mezze cartucce e si migliora questa mediocre razza italiana». Dopo l’8 settembre i fascisti di sinistra che passano all’azionismo e al comunismo portarono con sé questo atteggiamento di disprezzo verso l’Italia che approda alfine nel gruppo Espresso-Repubblica e diventata uno degli elementi caratterizzanti della sua ideologia.
Il fallimento del tentativo fascista di “nazionalizzare le masse”ha lasciato in eredità una forte svalutazione del tema della Nazione che è penetrata forte-
gli ex di via della Scrofa ma anche per i post forzisti. Bondi difende a spada tratta la via padana alle celebrazioni, quasi a rimuovere la catena di addii al Comitato dei garanti (a cominciare dal presidente Ciampi) causata soprattutto dalle contraddizioni nella maggioranza. Sacconi conferma che «il 150esimo anniversario si può completando e celebrare
mente nella nostra cultura popolare. È stato un polacco, Karol Wojtyla, a parlare di nuovo per la prima volta con convinzione ed ingenuità del dovere di amare l’Italia e della bellezza e della fortuna di essere italiani. A lui sembrava naturale ed ovvio che ogni uomo dovesse amare la propria patria. La Lega, adesso, accetta e fa propria la vergogna di essere italiani e cerca di inventarsi una identità popolare fittizia nell’incapacità di riscattare la propria identità popolare reale. Nasce così la Padania per prendere il posto di una Italia abbandonata e ripudiata. In modo diverso è la ripetizione dello stesso errore che abbiamo rimproverato alla supposta “classe dirigente”anti italiana. Si manifesta la stessa alienazione ed insicurezza fondamentale sulla propria identità. Bisogna allora compensare il sentimento profondo di insicurezza e di inadeguatezza con l’invenzione di una identità fittizia. Nel caso del fascismo l’identità fittizia era quella di una antichità romana posticcia, malamente reinventata. Nel caso della Lega si tratta invece di un passato celtico del tutto separato dai processi storici che conducono alla formazione reale della identità culturale del popolo.
cità di amare se stessi, il loro odio per la loro storia ed il loro presente. Dopo gli anni del nazionalismo fascista e quelli poi della snazionalizzazione avremmo bisogno di ritornare alla nazione, ai valori della nazione. Forse è per questo che da un poco di tempo qualcuno di noi parla di “Partito della nazione”. Abbiamo bisogno di tornare ad un giusto e naturale amore a noi stessi e quindi al nostro Paese, ad una consapevolezza fiduciosa della nostra identità. Questo non significa né alimentare complessi di superiorità né ignorare i limiti ed i difetti del nostro sviluppo nazionale. Ma per migliorare l’Italia bisogna cominciare con l’amarla così come è, con la sua storia e la sua cultura. Si superano i lati neri di questa cultura e di questa storia facendo leva sui suoi lati positivi. Amare la nostra storia significa anche riconoscere e amare il ruolo del cristianesimo in questa storia. Si può riconoscere questo ruolo anche senza essere cristiani. Si tratta di riconoscere in ogni caso la positività dei valori che il cristianesimo ha radicato nella nostra storia e che continua a diffondere nella società in cui viviamo. Anche questo è un lato della capacità di amare se stessi e la propria storia. L’ideologia anti italiana della Lega non è la risposta al problema aperto della identità nazionale italiana. Essa è una manifestazione della crisi, non la risposta ad essa.
Molti esponenti della nostra classe dirigente preferiscono dirsi appartenenti a una modernità fiorita altrove
Esiste un problema della identità nazionale italiana? Certo, esiste, ma va formulato in modo del tutto diverso da quello proprio degli “anti italiani”. Il problema degli italiani è proprio il loro complesso di inferiorità, la loro incapa-
rafforzando l’unità d’Italia attraverso il federalismo fiscale». Si augura, certo, che Calderoli e gli altri del Carroccio a Quarto si facciano vedere, ma non solleva scandali.
Non bastano le rimostranze, anch’esse di estrazione finiana, sollevate da Andrea Ronchi, che definisce senza senso le frasi del collega ministro Cal-
deroli. E nemmeno l’editoriale con cui il sito di Italiafutura, la fondazione di Luca di Montezemolo, denuncia «L’estremismo ideologico della Lega». Anche perché dal fronte padano arrivano nuove rivendicazioni, come quelle del deputato lumbàrd Paolo Grimoldi e del sindaco di Verona Flavio Tosi, che si abbandona persino a considerazioni di matrice neo-
borbonica («il Banco di Napoli è stato depredato dai Savoia», «la Sicilia è stata comprata») pur di sostenere che «l’unità d’Italia è stata un fatto positivo gestito però nel peggiore dei modio». Ecco l’ultimo paradosso: la Lega che fa e disfa la storia nazionale a piacimento. Nel silenzio, se non con la complicità, sempre più assordante dell’alleato.
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l’approfondimento
Identità. C’era una volta il Risorgimento. Idee un po’ scontate ma costruttive, oggi sostituite dalla vulgata antiunitaria
Un revisionismo da rivedere «La Lega occupa un vuoto lasciato da sempre da tutte le classi dirigenti del Paese. Così la nazione è ormai un concetto abbastanza vuoto». Ma per Alessandro Campi e Francesco Perfetti non si può cedere a questo pericoloso collasso della memoria storica di Riccardo Paradisi hi l’avrebbe mai detto – anche solo una manciata d’anni fa – che proprio l’immediata vigilia delle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia potesse diventare il momento in cui il revisionismo antirisorgimentale si sarebbe trasformato in una nuova vulgata. Eppure proprio in questi giorni la maggioranza di governo discute delle esternazioni di un suo importante ministro – Roberto Calderoli, l’uomo che ha disegnato una nuova bozza costituzionale – a proposito della sua diserzione delle celebrazioni per l’unità d’Italia.
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Il ministro della difesa Ignazio La Russa, ha detto di essere ”lieto”del fatto che il Carroccio voglia marcare una differenza, «così la si smette di dire che siamo a rimorchio della Lega», mentre il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, l’altro triumviro del Pdl insieme a La Russa e Denis Verdini, sostiene che «Calderoli non si è affatto dissociato dalle celebrazioni, ha semplicemente sostenuto che il modo migliore di ricordare l’Unità d’Italia è quello di realizzare il federalismo». Bondi ha anche ricordato che Berlusconi «unitamente al sottosegretario Gianni Letta, ha sempre insistito sulla volontà dell’intero governo di attribuire un alto
valore politico e civile all’anniversario». Sta di fatto che l’anno scorso a una kermesse di Azione giovani, l’organizzazione giovanile della disciolta An, di fronte al ministro della gioventù Giorgia Meloni, il Cavaliere consigliava la lettura di una dura opera revisionista sul Risorgimento per capire quel periodo della nostra storia. Intanto che nel governo si mettano d’accordo su quale sia il vero sentire della maggioranza e lasciando sullo sfondo polemiche quasi surreali – dall’opposizone gli internazionalisti del Pdci hanno invitato Calderoli a dimettersi – si tratta di capire che cosa sia accaduto in questi anni, come sia potuto cioè avvenire che nella mentalità diffusa del Paese sia ormai un automatismo la critica al Risorgimento o il “parlar male” di Garibaldi. Intendiamoci il revisionismo è il sale della storia. Senza revisionismo ci saremmo dovuti sorbire la storia ufficiale delle verità preconfezionate. Grazie al revisionismo conosciamo anche i lati sconosciuti della storia: abbiamo appreso gli errori e gli orrori della Resistenza per esempio, abbiamo anche conosciuto gli errori e gli orrori del nostro Risorgimento, le repressioni spietate, i lager dei Savoia addirittura. Abbiamo scoperto che anche questa celebratissima pagina di storia pa-
tria, come ogni pagina di storia, è una pagina dolorosa e tragica, diversa dalla successione di biografie agiografiche e di eventi edificanti che per più d’un secolo è stata tramandata in chiave pedagogica dalla cultura ufficiale del Paese.
Dunque non è in discussione, e ci mancherebbe, la libertà intellettuale di applicare il metodo revisionista anche al Risorgimento. Però qui assistiamo al rovesciamento di un conformismo, vediamo un revisionismo diventare a sua volta vulgata e discorso politico. Perchè ormai il problema non è più se si può dire male di Garibaldi, il problema è che non si trova in giro più quasi nessuno disposto a dirne bene. Il recente bicentenario garibaldino è stata una faccenda dimessa, celebrata qua e là nella penisola in modo semiclandestino. Mentre parallelamente s’è assistito a un’offensiva culturale leghista importante, declinata con la richiesta del solito e attivissimo Calderoli che nella Costituzione chiedeva pochi mesi or sono venisse inserita la tutela dei dialetti: «Non ci vedo nulla di eversivo – argomentava il ministro della semplificazione – nel ricordare che la lingua italiana è stata creata artificialmente. È stata fatta una piccola truffa nel 1861 per dire che in Italia solo l’1,7%
della popolazione parlava l’italiano: hanno incluso d’ufficio gli abitanti del Lazio e della Toscana. Soltanto nel ’63 si è superato il 50% di coloro che capivano l’italiano. E oggi l’uso del dialetto supera il 40%. Se vogliamo veramente festeggiare la nascita della Nazione non si può chiudere gli occhi davanti alla realtà». E pazienza se una koinè italiana esiste dal medioevo. Una proposta quella del Carroccio su cui convergevano addirittura alcuni esponenti dell’attuale opposizione. Certo, all’interno della maggioranza si levano posizioni critiche su questa tendenza antirisorgimentale. Il presidente della Camera Gianfranco Fini e la sua componente protestano l’importanza dell’unità d’Italia e della solennità del suo anniversario. Repliche opportune anche se un’altra dimostrazione di questa implosione di senso dell’idea di nazione è il fatto che gli ex An parlino ormai di ”patriottismo costituzionale”. Come se la nazione fosse solo una specie di bene giuridicamente protetto, un freddo contratto da sottoscrivere. Ma appunto perché un collasso d’identità e memoria come questo? Alessandro Campi, storico delle dottrine politiche dell’università di Perugia, legge il fenomeno attraverso l’evaporazione della
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La mai risolta questione (né da Gramsci, né da Bossi) della “egemonia culturale”
Il pendolo dell’Italietta: dalla retorica all’invettiva
Il nostro Paese continua a non saper guardare in modo “laico” al suo passato. Ogni ragionamento è sempre schiavo della propaganda di Giuseppe Baiocchi utta colpa di Garibaldi» è stato nelle scorse stagioni uno spettacolo di buon successo, affidato (sui testi di Sergio Fantoni e Nicola Fano) alla versatilità istrionica di Gioele Dix, che ha avuto l’indubbia capacità di leggere glorie e meschinità del Risorgimento con il registro impegnativo e riuscito di una affettuosa comicità. E forse ai teatranti e ai comici (o comunque ai non specialisti) andrebbe messo in mano il compito di rievocare e soprattutto trasmettere alle giovani generazioni il senso ultimo di una storia nazionale, in particolari i momenti fondanti di un destino comune. Già, perché nella tecnica del “saper far ridere” riescono ad esser magari più equanimi e realistici, attingendo ai canoni della sapienza popolare, delle paludate occasioni ufficiali, dove alla fine fa premio comunque un pregiudizio ideologico o una necessità politica, che raffreddano e tengono lontana ogni forma di autentico coinvolgimento.
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D’altronde quel titolo (Tutta colpa di Garibaldi) non è sovrapposto a caso. Esce naturale da un secolare sentire comune. Un modo di dire ampiamente radicato nelle campagne e nelle città del Nord, e soprattutto tra i ceti popolari e subalterni, che indicava il disagio e l’insoddisfazione per gli esiti del processo unitario, e in particolare le ricadute ambigue e deludenti sulla vita e la fatica di tutti i giorni. E in quel bonario borbottìo stava la lontananza emotiva, prima che ancora pratica, dallo Stato, dai suoi interpreti ufficiali e dal suo volto di funzionari, impiegati e questurini. Poco importava che non si potesse mai in pubblico «parlar male di Garibaldi». Semmai, quanto più si comunicava e si imponeva l’oleografia risorgimentale come «pura e perfetta» autobiografia della Nazione (dalle narrazioni scolastiche alla retorica politica fino all’effigie del Condottiero come simbolo della sinistra unita sulla scheda elettorale del 18 aprile 1948), tanto più si manifestava il distacco scettico e diffuso da un possibile amore per le istituzioni repubblicane. E anche la Lega con tutte le sue contestazioni era ben al di là dal venire alla luce. Il “pendolo della Storia” poi, com’è naturale, non smette di oscillare: non è un caso che oggi abbiano più successo e suscitino più curiosità le interpretazioni più critiche e qualche volta distruttive del Risorgimento al di là dei loro meriti storiografici. Sepolte, discriminate e maledette come sono state per decenni e decenni dalla cultura ufficiale ed accademica, si
vanno prendendo una piena rivincita: e proprio quando si fa imminente Centocinquantenario dell’Unità d’Italia, è purtroppo facile prevedere che. anziché leva accettabile di un sentimento di condivisione, fatalmente l’opportunità si configuri come campo di battaglia tra eserciti contrapposti, ognuno dei quali furiosamente impegnato a disconoscere e a dileggiare le ragioni dell’altro. Quello che drammaticamente manca nella cultura, negli ambiti intellettuali, nell’editoria e nella stampa e nelle università umanistiche è un atteggiamento “laico”, davvero e fino in fondo “laico”. Che cioè, libero da occhiali ideologici e deformanti, sappia accettare la revisione, quella storiografica ma anche quella politica, come un “continuum” fisiologico di una demo-
riso il contributo decisivo portato da altre componenti politiche o da militari «senza partito» all’esperienza dolorosa della lotta per la libertà? Oppure, nelle miriadi degli Istituti per la storia della Liberazione e perfino nei libri scolastici si sono cancellati ed espunti perfino i nomi degli artefici non di sinistra: non ammettere che il Cln fu guidato e presieduto per tutto il periodo della guerra dal liberale Alfredo Pizzoni non è stato soltanto un torto inutile alla verità, ma un uno stupido veleno. Che ha finito, man mano che passavano gli anni, col sciupare, con l’immiserire, e addirittura con lo “sporcare” il significato comune dell’unica drammatica esperienza di popolo fondativa della nostra repubblica. Consegnandone il ricordo al corto monopolio di
Che senso ha ricordare il pensiero di Mazzini se si omette che visse nell’Italia unita da latitante ricercato? crazia matura, che metta in gioco per primo le proprie convinzioni, che s’incuriosisce del diverso e sollecita un cordiale confronto e che, soprattutto, non presenti mai nessuna interpretazione, a cominciare da quella che le è cara, come un’apodittica verità altrettanto flessibile della pietra delle Tavole di Mosè.
Nel nostro tempo, carico di macerie ideologiche e di pigrizie intellettuali, si viene scontando fino in fondo la questione dell’«egemonia culturale». Patrimonio vezzeggiato della storia della sinistra e ampiamente incrementato e incattivito dalla lunghissima stagione dell’intellettualità sessantottina. Un esempio illuminante: come si può pretendere proprio oggi di far emergere la Resistenza e la Liberazione come patrimonio prezioso e collettivo della democrazia italiana, quando per decenni si è urlato nelle piazze «La Resistenza è solo rossa e non democristiana» e quando si è sminuito, occultato e de-
una minoranza sempre più piccola e sterile, mentre il Paese reale veniva costretto a cercare altri miti più accessibili e più liberi.
L’«egemonia culturale» alla lunga, anche se occupa cattedre e giornali, fa proprio brutti scherzi e finisce per rivelarsi il contrario di Re Mida. Si spera che non si dispieghi pure sul Risorgimento, anche se molti segnali non sono incoraggianti. Che senso ha, ad esempio, ricordare pensiero ed azione di Mazzini, se si omette che era un condannato a morte per terrorismo e visse, dopo l’esilio, nell’Italia Unita da clandestino e latitante ricercato? Mutilare la Storia e nasconderne le contraddizioni è una visione dal fiato corto, che allontana ed esclude la sensibilità collettiva e un possibile interesse popolare. Non solo: ma consegna alle generazioni future un’Italietta rissosa e disunita, e certamente con un’immagine mediocre, addirittura sicuramente peggiore della realtà.
memoria storica e della tenuta dell’idea di nazione nelle classi dirigenti del Paese. «Una generazione addietro il Risorgimento era patrimonio del senso comune degli italiani: gli eroi, le battaglie del Risorgimento, i padri della patria, erano entrati nella memoria popolare. Quella narrazione s’è interrotta perché hanno smesso di crederci quelli che dovevano alimentarla con un progetto politico. Perché nelle classi dirigenti s’è allentata la tensione dell’idea risorgimentale».
Insomma a collassare, secondo Campi, «è stata un’idea di patria che sia davvero elargitrice di senso, un vuoto su cui s’è inserita la Lega, che invece un’idea di patria ce l’ha, anche se in negativo». In effetti è almeno dagli anni Ottanta che l’identità italiana si riduce al made in Italy della moda e delle automobili. E prima del decennio del riflusso le culture politiche egemoni nel dopoguerra, quella cattolica, quella social-comunista e quella azionista, hanno sempre considerato l’idea nazionale o la patria come concetti pericolosi da maneggiare, come bruciati dall’uso che ne aveva fatto il fascismo. Solo il Msi parlava di nazione, ma appunto nella marginalità politica che di quelle idee perpetuava l’esilio in patria. E del resto è stato il dopoguerra il campo di sedimentazione delle controstorie del Risorgimento, non solo in chiave conservatrice e “neoborbonica” alla Alianello ma anche in chiave neomarxista come negli studi, oggi dimenticati, ma caratterizzanti una stagione storiografica di un Nicola Zitara. Culture che seppure sottotraccia hanno creato l’humus che fornisce oggi argomenti alle spinte antinazionali e antiunitarie che spirano dal nord e dal sud della penisola. Una cultura che si salda con la mentalità dietrologica per cui il Risorgimento sarebbe solo il frutto di congiure massoniche, di trame internazionali, di guerre di conquista pianificate a tavolino. Una visione che sembra il rovesciamento della massima hegeliana per cui ciò che è reale non è razionale. Francesco Perfetti, ordinario di storia contemporanea alla Sapienza di Roma, non sottovaluta il problema ma invita anche a non ingigantirlo: «Non credo ci sia un rovesciamento retorico del Risorgimento. Non mi pare che questa cultura antiunitaria insomma abbia conquistato un’egemonia. Mi pare che l’impatto del discorso leghista sia più che altro dovuto alla sua grancassa mediatica. La questione è che è la memoria e la coscienza del Risorgimento ad essersi molto affievolita nel tempo. Stiamo parlando di un periodo storico che non viene più insegnato nelle scuole secondarie. Nelle università le cattedre di storia del Risorgimento sono schiacciate dalla contemporaneistica. C’è un problema di assenza di memoria storica su cui si innesta la propaganda leghista. Ma le polemiche antirisorgimentali si fondano su culture deboli. La stessa tesi di Gramsci del Risorgimento come rivoluzione fallita è stata confutata da Romeo». In occasione del primo centenario dell’unità, d’Italia nel 1961, fu distribuito ad ogni studente italiano per incarico del ministero della pubblica Istruzione un un libretto sulla storia del Risorgimento. Un volumetto ben fatto, sereno, intitolato Gli ideali del Risorgimento e dell’unità che comprendeva un antologia dei discorsi delle imprese e delle correnti ideali di quel periodo fondativo della nostra storia unitaria e del nostro essere italiani. Non sarebbe una cattiva idea ristamparlo e distribuirlo agli studenti italiani.
diario
pagina 6 • 4 maggio 2010
Equilibri. Il presidente di Cariplo si sarebbe convinto di appoggiare per la guida di Intesa il bocconiano lanciato da Compagnia di San Paolo
Beltratti conquista Guzzetti
«Gli azionisti troveranno le soluzioni migliori con la massima compattezza» ROMA. Che sia Andrea Beltratti o Enrico Salza a presiedere il consiglio di gestione di IntesaSanpaolo, poco importa. Giuseppe Guzzetti, numero uno di fondazione Cariplo e azionista della banca con il 4,3 per cento, è convinto che ormai sia prioritario soltanto evitare che la spaccatura registrata in Compagnia di San Paolo si trasferisca nel comitato di sorveglianza di SanIntesa quando si dovrà scegliere il presidente del Cdg. Perché nuove tensioni finirebbero per arrecare inutili traumi alla gestione dell’istituto, metterebbero sotto l’occhio del ciclone un sistema autoreferenziale e delicato come quello delle fondazioni, con il rischio (sventato soltanto perché in via XX settembre c’è un ministro amico) che lo politica possa cambiare le regole nella formazione degli enti. E per tutto questo si può anche rinunciare al banchiere torinese decisivo nella fusione tra piazza Castello e Ca’ de Sass per incoronare il giovane e preparato bocconiano. Oggi si riunisce il consiglio di sorveglianza guidato da Giovanni Bazoli per nominare il comitato nomine e da qui dare avvio al processo che forse già entro la fine della settimana deciderà i nuovi vertici di Ca’ de Sass. E siccome la personalità da affiancare all’Ad Corrado Passera è soprattutto una figura di garanzia, Guzzetti ieri si è detto «assolutamente sicuro che le fondazioni azioniste troveranno le soluzioni migliori, con il massimo di compattezza, an-
«Ho sempre avuto fiducia», ha detto a margine di una celebrazione per i sessant’anni del sindacato Falcri, «nella saggezza dei colleghi presidenti delle fondazioni. Nei momenti importanti non è mai venuta meno tra noi la solidarietà, anche negli scorsi anni quando si è fatta la fusione».
Chi ha parlato con l’ex presidente della regione Lombardia cresciuto alla scuola di Giovanni Marcora, racconta che fino a qualche giorno fa «il suo obiettivo era sostan-
Oggi si sceglie il comitato nomine. Diminuiscono le possibilità per Enrico Salza di essere confermato ai vertici del consiglio di gestione zi, intendo dire unanimità». La rinuncia di Domenico Siniscalco e un weekend di incontri e consultazioni molto fitti sembrano essere riusciti a far superare le tante incomprensioni sull’asse Torino-Milano. Se una settimana fa Guzzetti metteva nero su bianco in comunicato che la doppia candidatura arrivata da Compagnia di San Paolo era soltanto «da riferire esclusivamente a rivalità, intrighi e contrasti interni al mondo torinese», ieri ha preferito usare toni più suadenti, a lui più consoni.
revole come l’ex ministro dell’Economia. Ma caduta questa candidatura, si può guardare a quella di Andrea Beltratti in una luce diversa. Anche ieri Guzzetti ha riconosciuto la bontà dell’operato di Salza. «Ricordo coloro che sono stati, che sono ancora, al vertice della banca: Salza, Bazoli e Passera. E che ha portato fin qui risultati molto positivi». Eppure se Torino, se l’azionista principale non cambierà idea, difficilmente Milano forzerà per salvare l’attuale presidente del Cdg di Ca’ de Sass.
di Francesco Pacifico
zialmente quello di portare a casa la nomina di Andrea Beltratti». Ben sapendo che al di là dei pasticci fatti dal suo omologo torinese Angelo Benessia, sotto la Mole sono i molti a credere che Enrico Salza non abbia saputo difendere a sufficienza il territorio di appartenza. Eppoi una presidenza Siniscalco avrebbe finito per avere una coloritura politica troppo marcata e per creare tensioni con il capoazienda Corrado Passera, non certo contento di un tecnico così auto-
Senza incentivi crollano le immatricolazioni
Fiat, aprile negativo ROMA. Finiti gli incentivi per la rottamazione il mercato presenta il conto alla Fiat. Ieri il ministero delle Infrastrutture ha comunicato che ad aprile il gruppo torinese ha immatricolato il 26,2 per cento di vetture in meno rispetto a un anno fa. La quota di mercato in Italia è scesa al 30,73 rispetto al 35,15 di aprile 2009. La cosa non ha sorpreso più di tanto gli analisti, e non soltanto perché lo scorso aprile fu un mese record per il settore: non a caso il titolo del Lingotto ha registrato una crescita dello 0,6 per cento, mentre la Exor un +3,90. Eppure la fine degli incentivi ha colpito a livello trasversale tutto il settore. Ad aprile sono state immatricolate 159.971 autovetture, il 15,65 per cento in meno rispetto ad aprile 2009, durante il quale furono 189.661 le nuove autovetture.
Che sia cambiato il trend lo dimostra anche il fatto che nello stesso periodo si siano avuti 414.347 trasferimenti di proprietà di auto usate, con una variazione positiva del 8,30 rispetto ad aprile 2009, durante il quale gli acquisti di auto di seconda mano furono 382.594.
Il direttore del centrostudi Promotor, Gianprimo Quagliano, ha sottolineato: «È il primo effetto del crollo degli ordini che si è manifestato all’inizio dell’anno, prima, per le incertezze su un eventuale rinnovo degli incentivi e poi per la decisione di non concedere alcun aiuto nel 2010. Il calo di aprile colpisce soprattutto le marche che hanno beneficiato degli incentivi nel 2009, mentre le marche che ne hanno beneficiato meno o non ne hanno beneficiato fanno registrare crescite anche significative sul 2009».
In via Romagnosi si sarebbe iniziato a studiare il curriculum di Beltratti. E l’avere a che fare con un economista di un’importante università milanese (la Bocconi), esperto di rischi finanziari e risparmio, con esperienza manageriali in Eurizon, avrebbe spinto anche Guzzetti a dare il suo via libera. Senza contare che una personalità simile potrebbe facilitare il dialogo tra il territorio e i vertici della banca, superando l’annosa guerra che ha visto contrapposti gli ex amici Benessia e Salza. Il presidente di Fondazione Cariplo ha messo tutta la vicenda nelle mani di Giovanni Bazoli, spiegando che non sono in programma ulteriori incontri tra gli azionisti. «Spetterà al consiglio di sorveglianza decidere. Il presidente ha diffuso una lettera e noi siamo molto rispettosi». Nella missiva Bazoli ha chiesto agli azionisti di fornire suggerimenti al consesso. Ma se come è facile ipotizzare questa mattina entrerà nel comitato l’economista Elsa Fornero, cioè una delle principali fautrici della candidatura Beltratti, allora è facile pensare che il bocconiano avrà ancora la strada più spianata. In ogni caso, ha promesso Guzzetti, «dietro a questa governance ci saranno tutti gli azionisti, non solo noi Fondazioni, perchè l’assemblea ha espresso una rappresentanza a Generali, ad Assogestioni, al Credit Agricole. Quindi le Fondazioni faranno perno insieme a questi azionisti perché, come per il passato, il futuro di Intesa Sanpaolo sia un futuro tranquillo che faccia lavorare bene i nostri dipendenti innanzitutto e i nostri manager, che hanno portato fin qui dei risultati molto positivi».
diario
4 maggio 2010 • pagina 7
Fusione da 30 miliardi di dollari, ma si aspetta ok dell’antitrust
L’ordinanza del sindaco leghista Giordano punisce un’islamica
Ecco United Continental, nuovo gigante voli Usa
Alle Poste con il burqa, multa di 500 euro a Novara
WASHINGTON. Dopo le indi-
NOVARA. Dovrà pagare una
screzioni, ieri è arrivata la conferma: United Airlines e Continental, compagnie leader del trasporto aereo americano, hanno ufficialmente annunciato la fusione in United Continental Holding, un’unica colossale compagnia aerea destinata a diventare il numero uno mondiale del settore. La maxi-operazione, che entrerà a pieno regime a partire dal quarto trimestre del 2010, prevede secondo quanto riferito dall’agenzia Bloomberg sinergie comprese tra un miliardo e un miliardo e duecento milioni di dollari, per un aumento di ricavi calcolato tra gli ottocento e i novecento milioni di dollari.
sanzione di cinquecento euro, perché trovata a portare il burqa mentre si trovava all’interno dell’ufficio postale. È questo il provvedimento elevato dai carabinieri di Varese nei confronti di una donna islamica fermata e identificata alle Poste della città piemontese con indosso il tradizionale velo arabo integrale che copre anche gli occhi.
L’accordo sancisce che gli azionisti di Continental riceveranno 1,05 azioni United per ogni azione in loro possesso, mentre a United sarà destinato il 55 per cento del capitale del nuovo gruppo. A conti fatti, la new-company potrà contare su un fatturato complessivo da ventinove miliardi di dollari l’anno. L’amministratore delegato sarebbe l’attuale ceo di Continental, Jeffery Smisek, mentre la presidenza andrebbe all’ad della United, Glenn Tilton. Nel comunicato diramato dai due vettori statunitensi, si precisa che la fusione è vinco-
Fini lancia i circoli di Generazione Italia Poi attacca «la politica che si basa solo sui sondaggi» di Andrea Ottieri
ROMA. Gianfranco Fini lancia la campagna acquisti o, meglio, l’operazione consolidamento per la sua corrente nel Pdl. E lo fa con un video per cercare sostenitori sul territorio, preferibilmente giovani e rigorosamente volontari. A dieci giorni daIlo scontro frontale in direzione, il presidente della Camera parla dal sito di Generazione Italia, la fondazione promossa e diretta dal suo fedelissimo Italo Bocchino. L’intervento – anticipato dalla versione on line di Repubblica - ha tutte le caratteristiche di un appello a partecipare alla creazione di una corrente interna del Pdl. Insomma, non più solo la battaglia condotta al vertice tra ”cofondatori”, ma anche una rete di circoli sparsi per l’Italia e targati Generazione Italia. «Generazione Italia ha l’obiettivo primario di garantire in tutto il territorio nazionale la presenza di tanti circoli, composti da volontari, la politica non può essere solo un mestiere, la politica deve essere innanzuttito partecipazione, anche piena di di passione, per fare in modo che il futuro sia migliore del presente e in particolar modo il futuro dei più giovani» è la frase chiave dell’appello lanciato da Fini.
Ieri mattina, intanto, il presidente della Camera, parlando ad un convegno organizzato dalla sua fondazione e dalla fondazione ResPubblica ha voluto alzare un altro significativo steccato “culturale”fra se stesso e il premier, sia pure senza mai nominarlo personalmente. «Soffriamo - ha detto il presidente della Camera di uno schiacciamento sull’immediato, la cultura del sondaggio è l’unico strumento di strategia politica: per uscirne è necessaria una cultura rinnovata e strategica capace di pensare alle ricadute della politica sul futuro, una cultura libera dall’immobilismo, dalla paura dell’altro e del nuovo». Fini poi ha richiamato l’importanza dei partiti politici: «È importante il ruolo svolto dai partiti politici perché se è vero che i partiti-chiesa sono tramontati in maniera irreversibile è vero anche che oggi hanno la responsabilità importante di fornire ai cittadini gli strumenti per concretizzare il loro impegno politico attraverso la partecipazione elettorale».
E l’ex fedelissimo La Russa lancia l’ultimo anatema: «L’ho difeso per quatto anni, ma ormai non ha più niente di destra»
lata al parere positivo delle autorità antitrust. Opinione pubblica, stampa ed esperti, sembrano intanto mostrare molte riserve in merito all’operazione: alcune stime accreditano infatti al nuovo gigante dei cieli risultante da United Airlines e Continental, il potenziale controllo del ventuno per cento del trasporto passeggeri americano, con paventate ricadute sulle tariffe (rivedute al rialzo in regime di monopolio) e sulla qualità dei servizi (al ribasso a causa della minore competizione). Tra i passeggeri americani è ancora vivo il ricordo di un’addizionale imposta da una compagnia low-cost per il bagaglio a mano.
All’origine del fermo, l’ordinanza firmata all’inizio dell’anno dal sindaco di Novara, Massimo Giordano, leghista che ha di recente aggiunto all’incarico quello di assessore regionale allo Sviluppo economico nella giunta del nuovo governatore del Piemonte, Roberto Cota.
Insomma, il lavoro di consolidameno dell’area dei dissidenti finiani prosegue su più binari. Sono arrivati a quota 500 gli amministratori locali che in queste settimane hanno manifestato consenso alla battaglia interna al Pdl dell’ex leader di An. L’obiettivo è arrivare a quota mille per poi radunare assessori e consiglieri pro-Fini in una convention nazionale a Roma. Intanto, ha toccato le 50 mila adesioni la pagina di Facebook dedicata al presidente della Camera, pagina creata da alcuni suoi supporter che fino al 22 aprile, giorno dello scontro totale in direzione, era sostanzialmente statica e ferma agli auguri di fine anno. I fuochi d’artificio della sfida all’auditorum della Conciliazione di Roma hanno rivitalizzato l’interesse e alcuni dei nuovi aderenti sollecitano Fini a diventare protagonista anche sul social network.
Sul fronte opposto, l’attacco degli ex fedelissimi a Fini si fa sempre più pesante. Dalle colonne del quotidiano Libero, poi, ieri è stato il ministro della Difesa e coordinatore del partito, Ignazio la Russa, a prendere nuovamente le distanze dal suo ex segretario. «Fini dice che la sua è la destra del futuro?», chiede il giornalista. «La nostra è quella del presente replica La Russa - e con tutto il rispetto, è difficile assimilare le posizioni di Gianfranco ad altre esperienze europee». «Dico di più - ha continuato il ministro della Difesa - onestamente le posizioni di Fini, di FareFuturo, del Secolo d’Italia... Sì insomma, stento a chiamarla destra». «Sono quattro anni - ha proseguito l’ex colonnello di An - che mi arrampico sugli specchi per provare a coprire le differenze tra le posizioni di Gianfranco e quelle del partito», ma «oggi non sono più obbligato a rincorrere Gianfranco per tenere unita An. Rimango fedele all’identità, quella della nostra destra, e al progetto del partito unico».
Vagliato nei mesi scorsi dal ministero degli Interni, il testo del provvedimento mette all’indice dai luoghi pubblici alcuni accessori e capi di vestiario. «L’applicazione di questa ordinanza è l’unico modo a nostra disposizione per ovviare a comportamenti che rendono ancora più complesso il già difficile percorso d’integrazione», ha spiegato Giordano. «C’è ancora qualcuno – ha proseguito il primo cittadino – che non vuole capire che la nostra comunità novarese non accetta e non vuole che si vada in giro in burqa». I carabinieri di Varese hanno raccontato così il fermo della donna islamica alle Poste: «Avevamo in corso una serie di controlli e abbiamo così fermato questa donna che era coperta integralmente. L’abbiamo identificata e ora valuteremo come procedere». La vicenda passa ora nelle mani del comando della polizia municipale, che provvederà a stilare il verbale di sanzione. Giordano, ad ogni modo, ha espresso vivo rammarico per l’accaduto: «È chiaro che mi auspicavo che non sarebbe stato necessario passare all’esecutività del testo e che il buon senso di tutti avrebbe garantito una convivenza più tranquilla».
pagina 8 • 4 maggio 2010
grandangolo Vi ricordate quando Grecia e Spagna erano dei modelli? La crisi europea e le previsioni sbagliate
Fino a pochi anni fa (assieme a Portogallo e Irlanda) erano considerate esempi da seguire. Prima la vittoria di Zapatero a Madrid e poi le Olimpiadi di Atene fecero addirittura gridare al miracolo. Ma le cose sono andate a finire molto diversamente… Ecco come è stato possibile che nell’economia internazionale siano “passate” teorie così grossolane di Carlo Lottieri a storia economica europea dell’ultimo ventennio sembra caratterizzata da una serie di falsi boom e svolte epocali (e qui non ci si riferisce al “Rinascimento partenopeo” di Bassolino...) che il più delle volte, però, finiscono nel nulla. In fondo è significativo che tutti i quattro Paesi dell’acrostico che più fa discutere,“Pigs”(dove P sta per Portogallo, I per Irlanda, G per Grecia e S per Spagna), in passato siano stati osannati come modelli da imitare e come economie di successo, mentre ora – in linea di massima – patiscono tantissimo e in qualche caso rischiano un vero e proprio default.
L
Nel 2004, in occasione delle Olimpiadi tenutesi ad Atene, non mancò una certa enfasi trionfalistica per descrivere l’evoluzione in atto nel Paese mediterraneo. In realtà, archiviati Platone e Alessandro Magno, la Grecia è da secoli e con una certa malinconica stabilità un Paese economicamente piuttosto modesto. La lunga occupazione turca, in particolare, ha lasciato il segno e non è un caso se le comunità greche più dinamiche e intraprendenti – per molto tempo – siano state lontane dal Peloponneso: nelle città mercan-
tili del Mediterraneo orientale, in particolare. Molte più parole, invece, si sono spese per celebrare la crescita irlandese: ed è facile capire il perché. A lungo vittima dell’oppressione inglese, l’isola britannica
Non siamo abituati a considerare che ogni caso è differente dall’altro: per esempio, Dublino uscirà dalla crisi sicuramente meglio degli altri Paesi – che nella parte settentrionale continua a fare i conti con la difficile convivenza tra la comunità cattolica e quella protestante – ha avuto uno sviluppo notevole. E se è oggi è in crisi, pure bisogna sempre ricor-
dare che il Pil pro capite irlandese (dati del 2008) è di 51 mila euro, contro i 35 mila dell’Italia. Quindici anni fa il rapporto era rovesciato, poiché gli italiani erano significativamente più ricchi degli irlandesi: 21 mila dollari a testa contro i loro 18 mila dollari. Oggi però anche a Dublino la crisi morde e i conti pubblici, in particolare, sono in sofferenza. Ugualmente al centro di molto trionfalismo sono stati i due Paesi iberici: non tanto il Portogallo, quando invece la Spagna. L’argomento spesso usato a spiegare la crescita di Madrid è che spagnoli e irlandesi avrebbero saputo usare meglio di noi e, in particolar modo, del nostro Sud, quei fondi europei che, secondo vari commentatori, avrebbero fornito le premesse allo sviluppo di questa Europa per tanto tempo un poco “minore”.
Oggi le trombe tacciono e sembra che ogni analisi degli scorsi anni su Grecia, Spagna o Irlanda sia da buttare. In realtà non è così, anche se bisogna introdurre qualche distinzione. In primo luogo bisogna tenere presente che una cosa sono gli Stati (Spagna, Irlanda, ecc.) e un’altra cosa le economie nazionali. È del tutto chiaro che un sistema produttivo ha tut-
to da guadagnare da uno Stato con i conti in ordine, e al contrario un’economia sana non può reggere se l’apparato pubblico è in dissesto. Ugualmente la distinzione va fatta, anche perché se non si facesse sarebbe impossibile capire come mai il Portogallo non ha mai avuto grandi problemi quando si è trattato di ottemperare alle condizioni per accedere all’euro, e invece l’Italia sì. Il nostro Paese (inteso come economia) era ed è più ricco, ma la costruzione della moneta unica prendeva in esame essenzialmente i dati riguardanti la sfera statale.
C’è poi un’ulteriore questione da prendere in esame: e cioè la differente natura dello sviluppo conosciuto dai vari Paesi. Contrariamente a quanto si ripete troppo spesso, l’avanzata dell’Irlanda non è stata dettata in primo luogo dai soldi di Bruxelles. Il modello della “tigre celtica”non può essere ridotto ad amministratori onesti che usano bene i soldi dei tedeschi e dei danesi per costruire nuove strade, dove altri – noi, in primo luogo – si sono limitati a intascare i soldi e moltiplicare le clientele. C’è molto altro e di più. All’origine, infatti, vi sono riforme strutturali che hanno attratto capitali e stimolato
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Il Paese in piazza contro l’austerity. La Merkel avvisa: «È il tempo di agenzie Ue»
Atene, la Bce sospende i limiti di rating ma l’Europa teme l’effetto domino di Alessandro D’Amato
ROMA. La Bce sospende i limiti di rating sui titoli greci, la Germania dice ok al piano di aiuti e Papandreou ringrazia l’Italia e Berlusconi. Ma tutto questo non basta ai mercati. Che ancora scricchiolano nonostante le rassicurazioni della politica.
gli irlandesi a intraprendere. Ryanair era ed è una delle espressione più straordinarie di quella nuova dinamicità, e ogni volta che ci spostiamo con poche decine di euro da un capo all’altro del Vecchio Continente, molto si deve proprio alla trasformazione in senso liberale dell’economia dell’Eire.
Le riforme, quindi, ci furono e furono anche molto importanti: a partire da quel 1981 in cui fu creata la Shannon Free Zone, una zona franca di circa 250 ettari, non distante dall’aeroporto, su cui oggi si trova un enorme parco industriale con molte aziende multinazionali. Dopo quel primo esperimento anche il resto dell’Irlanda ha cominciato a reclamare una tassazione moderata, al punto che l’aliquota del 10 per cento ha finito per interessare una buona quota dell’economia; fin quando il ministro laburista Ruairi Quinn a metà anni Novanta ha applicato l’aliquota del 12,5% a tutti i redditi commerciali e ne ha fatto l’aliquota standard per la maggior parte delle attività. Chi conosce la tassazione italiana, francese o tedesca ha presente l’importanza di una scelta siffatta. Questa politica caratterizzata da bassa tassazione ha favorito il ritorno a casa di molti emigranti e grazie al ministro Charlie McCreevy (del Fianna Fail) si è proseguito su tale strada: nonostante il contrasto di Bruxelles, che avrebbe voluto un’Irlanda più in linea con le scelte di politica economica del resto del continente. Accusata di iper-liberismo, la piccola isola ha proseguito imperterrita e ha progressivamente raccolto i frutti. Oggi anche a Dublino c’è molta apprensione, ma sono le paure che può avere una società ormai ricca: gli stessi timori, insomma, che vi sono a Londra e a New York. Mai nulla di simile si è invece visto a Madrid e tanto meno ad Atene. La Grecia fu accolta nell’Unione europea nonostante molte opposizioni, dettate so-
prattutto dal suo essere assai lontana dalla situazione economica degli altri Paesi europei. L’argomento decisivo che giocò a suo favore – può parere assurdo, ma è così – fu l’appello alle radici dell’Europa: alla poesia omerica e alla filosofia ateniese. I greci sono quindi entrati a dispetto di tutto in questa strana entità in fieri che è l’Europa e fatalmente hanno giocato, né sarebbe potuto essere diversamente, un ruolo abbastanza parassitario. I sistemi politici contemporanei sono quasi tutti redistributivi e perciò è inevitabile che un’area povera tenda a vivere alle spalle degli altri.
Il caso spagnolo è un po’diverso, dato che all’indomani della fine del franchismo in quel Paese si è avuta una voglia di tornare a vivere che ha fatto ricordare l’Italia e la Germania degli anni Cinquanta. Ma gli errori commessi sono stati molti ed è che questo spiega – come ha mostrato, tra gli altri, l’economista Gabriel Calzada – l’incredibile bolla immobiliare (paragonabile solo a quella americana) che prima ha fatto schizzare verso l’alto i costi delle abitazioni e poi, con il ritorno alla realtà, ci ha consegnato una realtà urbanistica con un numero esorbitante di case vuote. In qualche caso è perfino possibile imbattersi in “new town” quasi interamente deserte, frutto di politiche bancarie e sociali che si sono sottratte a ogni logica di mercato. All’interno della società iberica, anche sulla base delle spinte localiste, la spesa pubblica è finita fuori controllo, con la conseguenza che gli spagnoli hanno iniziato a vivere al di sopra delle loro possibilità. Per questo motivo, al di là della cronaca e delle enfasi dell’ultima ora, bisognba evitare di omettere le differenze. Anche perché è ragionevole attendersi che l’Irlanda uscirà da questa crisi assai meglio della Grecia, ovviamente, e anche della Spagna.A Dublino riforme importanti sono state fatte e questo può solo giocare a loro favore.
La prima a parlare nell’ennesima giornata della tragedia greca è la Banca Centrale Europea, che annuncia di aver sospeso in mattinata il requisito di un rating minimo sui titoli accettati come collaterale nelle operazioni di rifinanziamento pronti-contro-termine per il debito sovrano del paese. La mossa assicura che i titoli greci possano essere utilizzati come collaterale per ottenere liquidità anche in caso di ulteriore taglio al rating sovrano ellenico. E servirà come il pane in un momento in cui il paese rischia il tracollo totale. Ma non farà bene né all’Ue né all’euro. Nel frattempo, il gabinetto del governo tedesco convocato dal cancelliere Angela Merkel, ha approvato il provvedimento che consente alla Germania di dare il suo contributo al piano di salvataggio della Grecia. Ora la legge dovrà essere approvata dal Parlamento. Il governo punta a un iter rapido che dovrebbe concludersi questa settimana, mentre mercoledì il cancelliere riferirà al Bundestag, dove i liberali sono comunque pronti a dare battaglia. Ma la situazione in Grecia si fa sempre più esplosiva. Il sindacato dei dipendenti pubblici Adedy ha annunciato 48 ore di sciopero a partire da oggi, invece delle 24 previste per mercoledì, contro le «crudeli e brutali misure senza precedenti» annunciate domenica dal governo in cambio di 110 miliardi di aiuti UeFmi. Mentre lunedì scioperano contro il piano di austerità da 30 miliardi in 3 anni i dipendenti municipali, il Consiglio esecutivo di Adedy invita i Greci a “rispondere con forza” da martedì al “saccheggio dei redditi e dei diritti dei lavoratori sia nel settore pubblico che privato”. Mercoledi 5 maggio lo sciopero di Adedy confluirà in quello generale, il terzo contro il piano di austerità, cui partecipano anche il sindacato del settore privato Gsee e quello comunista Pame. Resteranno paralizzati nell’occasione il traffico
aereo, terrestre e marittimo. Saranno inoltre chiusi ospedali, scuole e uffici pubblici. Il premier Papandreou ha affermato che le nuove misure sono l’unico modo “per salvare il paese dalla bancarotta». Sindacati e opposizione lo accusano invece di spingere il paese verso una «profonda recessione» e una «esplosione sociale». Intanto cominciano a uscire particolari del piano di salvataggio. «Lo scopo del piano d’aiuto è di consentire ad Atene di non ricorrere al mercato per 18 mesi”, ha detto in un’intervista al quotidiano Le Monde il direttore generale del Fondo monetario internazionale (FMI), Dominique Strauss-Kahn. Dovrebbe essere superiore a 8,2 miliardi di euro la prima ’tranche’ dei prestiti Eurozona e Fondo monetario alla Grecia e nel corso dell’anno ne sono previste in tutto tre, secondo fonti Ue. Il 19 maggio scadono titoli greci per 8,2 mld ed è per dare al governo di Atene più margine a breve termine che si prevede una ’tranche’ di valore più alto. Secondo Radiocor, il tasso di interesse sarà grosso modo «equivalente» a quello praticato dai governi dell’ Eurozona. Il tasso di riferimento per l’Eurogruppo resta «attorno al 5 per cento». È possibile che per prestare denaro fresco alla Grecia alcuni paesi debbano indebitarsi a un costo superiore al 5 per cento: attualmente in questa situazione si trova il Portogallo.
Ma la domanda che serpeggia in tutte le cancellerie europee è un’altra: basterà? Ieri Christine Lagarde è tornata a chiedere a nome del governo francese di cambiare il patto di stabilità, mentre Angela Merkel ha chiesto la nascita di agenzie di rating europee. Ma lo scetticismo dei mercati per ora resta, soprattutto intorno a un piano così pesante come quello accettato da Atene: non tutti sono convinti che la Grecia riuscirà a rispettare le tremende misure imposte da Ue e Fmi. E se ciò non dovesse accadere, a quel punto l’aiuto europeo dovrebbe essere negato, a rigor di logica. Con il risultato di aver posticipato oggi quello che accadrà lo stesso, magari tra un anno.
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panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Se l’auto blu del Dott. Cav. Uff. non ha limiti agioniamo, mantenendo la calma, sulle auto blu. Al Senato si discute un emendamento del senatore del Pdl Cosimo Gallo che propone l’esenzione degli autisti di auto blu dal ritiro dei punti della patente. In altre parole, per gli autisti delle auto blu il codice della strada non vale. L’intenzione del senatore è buona perché mira a tutelare gli autisti delle auto blu che a volte sono solo i conducenti dell’automobile ma non decidono percorso e velocità. Ma se non è sanzionato l’autista chi sarà sanzionato al suo posto? Ed è possibile sanzionare un’altra persona anche se non è al volante? «Io non voglio difendere nessuna casta», ha dichiarato il senatore, «intendo solo proteggere dei povericristi». Appunto, l’intenzione è buona, ma l’applicazione è pessima oltre che dubbia. Perché, infatti, per le auto blu il codice della strada dovrebbe essere messo tra parentesi? Il problema si complica se si considera l’altissimo numero di auto blu che ci sono in Italia.
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Mantenetevi forte: negli Stati Uniti ci sono 72 mila auto blu; in Francia si arriva a 61 mila; nel Regno Unito a 55 mila e 54 mila in Germania. In Italia? Oltre 600 mila. Non si tratta di un numero esorbitante, ma di un numero ingiusto. Come è possibile che in Italia ci sia bisogno di oltre 600 mila auto blu? Immaginate che cosa accadrebbe se queste 600 auto blu potessero circolare senza dover rispettare le regole del codice della strada. È stato calcolato che 600 mila auto blu è esattamente la metà delle automobili che circolano a Milano. Le esemplificazioni stravaganti potrebbero continuare per un bel po’ per far risaltare la totale anormalità italiana. Tuttavia, proprio questo è il punto: vuoi vedere che non si tratta di un’anormalità ma della più semplice normalità tutta italiana? Se, infatti, avessimo fin da subito percepito la cosa come anormale non saremmo mai arrivati al numero esorbitante delle oltre 600 mila auto blu. Pur considerando le necessità istituzionali - soprattutto quelle necessità che riguardano la protezione dal rischio del crimine organizzato - non si potrà mai giungere oltre il mezzo milione di vetture. Allora, per capire il caso si dovrà battere un’altra strada. Il numero esageratissimo delle auto blu si spiega con la fissazione italiana per i titoli, i riconoscimenti, gli attestati, i simboli. In ogni italiano c’è la smania di mostrare il proprio potere, piccolo o grande che sia. E il potere passa per l’esibizione dei privilegi: dalla tessera per il cinema gratis all’auto blu. Una volta Luigi Einaudi scrisse un’invettiva contro la mania dei titoli: Dott. Prof. Ing. Cav. On. Grand. Uff. E si potrebbe continuare a lungo. Gli italiani, diceva e faceva giustamente notare Einaudi, non sanno più chiamarsi tra loro: “ritorniamo al signor”. L’esortazione einaudiana bisognerebbe adottarla per le auto blu e dire: «Ritorniamo sui nostri passi». Ma è la solita predica inutile. Ciò che conta non è il potere, ma la sua ostentazione e nessuno da noi rinuncia non al potere, ma a ostentarlo.
I Comuni inventano il “federalismo” biologico Sono 29 le amministrazioni che permettono il “testamento fai-da-te” di Angela Rossi
ROMA. Mentre in Parlamento l’iter legislativo langue, sul testamento biologico alcuni comuni si lanciano in repentine fughe in avanti. L’ultima in ordine di tempo è quella di Reggio Emilia e risale a qualche giorno fa. La giunta ha infatti approvato all’unanimità l’istituzione del bio-registro, ossia il registro dei testamenti biologici, su proposta dell’assessore al Welfare Matteo Sassi. «Si tratta di un atto politico rilevante e di una delibera che rispetta le indicazioni del Consiglio e lo stretto legame tra la libertà personale e la responsabilità delle persone, intesa come autodeterminazione di sé e del proprio corpo», è la dichiarazione ideologicamente inappellabile dell’assessore. Fin dai primi giorni di giugno i cittadini del capoluogo emiliano potranno depositare presso uno sportello del Comune la propria dichiarazione anticipata di trattamento sanitario. Un documento con il quale potranno attestare il «rifiuto a essere sottoposti a cure invasive o a forme di accanimento terapeutico» e nel quale ognuno potrà «esprimere liberamente la propria volontà», depositando copia dello stesso testamento biologico anche da un notaio.
se non per disposizione di legge e che la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Si tratta in ogni caso di iniziative dal valore approssimativo giacché non vincolanti in assenza di una legge ordinaria che colmi il vuoto.
Più una provocazione, sulla scia delle iniziative radicali, per attirare l’attenzione su una materia delicatissima. D’altronde se ne contano già numerose: sono esattamente 29 le amministrazioni locali che si sono mosse sul testamento biologico. Da Firenze a Bologna, da Narni a Budrio, ad Alba, Curti (in provincia di Caserta). Senza contare le decine di notai già disponibili, pur in assenza di una legge nazionale, ad accogliere e certificare le volontà degli iscritte, e con l’associazione Luca Coscioni che continua incessantemente a raccogliere firme a sostegno di una legislazione molto “spinta”sul diritto alla sospensione delle terapie. A dar forza a questo trasversale e variegato fronte favorevole a un testamento biologico molto aperto contribuiscono d’altronde le posizioni di Gianfranco Fini: «Uno Stato autenticamente liberale», ha ripetuto appena mercoledì scorso il presidente della Camera, «ha un unico obbligo: legiferare nell’assoluto rispetto delle libertà individuali e della dignità della persona. La condizione del malato morente costringe tutti, società civile, istituzioni, il mondo scientifico e religioso, a indagare nel modo più profondo una condizione che assume implicazioni filosofiche e culturali: indagare e decidere sulla vita che non è più vita e sulla morte che non è ancora sopraggiunta». Fino al giudizio esplicito sul testo ancora in discussione in Parlamento: «Sono del parere che il disegno di legge sul testamento biologico debba evitare l’intromissione del pubblico giudizio nelle vite morenti. Se si eviterà questo, si scriverà una pagina di grande civiltà giuridica». Non c’è dubbio che le posizioni del presidente della Camera registrino su questo punto scarsa popolarità tra i moderati, ma proprio l’assenza di una norma che invece ponga un argine alla gestione arbitraria di malattie terminali e stati vegetativi rischia di favorire iniziative autonome, pur estemporanee, delle amministrazioni locali.
In assenza di una norma nazionale, a Reggio la giunta ha approvato all’unanimità l’istituzione di un “bio-registro”
È un provvedimento che ha dunque tutta la pretesa di coprire un vuoto normativo, su una materia che però non è evidentemente a disposizione di giunte locali. Ne è prova la previsione della delibera secondo cui chiunque depositi il documento deve nominare un fiduciario - medico, notaio o familiare - che sarà quindi la persona incaricata di far rispettare la volontà espressa nel testamento. Ma è chiaro che senza una legge nazionale un’indicazione del genere non è vincolante per i medici. «A oggi non esiste una legge che disciplini la materia, come ha mostrato il caso Englaro», ammette Sassi, «ma è altresì vero che non vi è alcuna disposizione normativa che vieti di esprimere le proprie volontà». E dunque a Reggio Emilia, come è avvenuto in altri comuni, giunta e consiglio sembrano assurgere al rango di un Parlamento che codifica questioni eticamente sensibili. Nella delibera si fa riferimento all’articolo 13 della Costituzione, con il quale viene sancito che la libertà personale è inviolabile e alll’articolo 32, dove si stabilisce che nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario
panorama
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L’interessato nega la storia degli assegni di Anemone per la casa al Colosseo. Mozione di sfiducia di Di Pietro
“Trasloco” in vista per Scajola? Prima le voci di dimissioni, poi il ministro annuncia: «Spiegherò tutto alle Camere» di Marco Palombi
ROMA. Come in privato vanno dicendo autorevoli consiglieri berlusconiani, la poltrona traballa sotto Claudio Scajola - fino a oggi impegnato in Tunisia - e le scosse potrebbero disarcionarlo a breve. Il ministro dello Sviluppo economico, però, ha trovato un alleato insospettabile: Antonio Di Pietro. Mentre infatti la tela dei riscontri d’indagine e le relative notizie sui giornali continuavano a inguaiare giorno dopo giorno l’ex democristiano, il leader di Italia dei Valori, insieme al capogruppo alla Camera Massimo Donadi, s’affrettava ad annunciare la presentazione di una mozione di sfiducia contro il ministro che ha finito per ricompattare, almeno esteriormente, tutto il centrodestra: «Ci auguriamo che le altre forze politiche non si tirino indietro - hanno scritto i due in una nota -. È la richiesta di un’assunzione di responsabilità». Parlando a braccio, invece, l’ex pm di Mani pulite s’è buttato sugli usuali toni sobri: «Usciamo dal ridicolo e dall’ipocrisia. Mi pare che ci siano elementi tali per cui, a prescindere dal fatto giudiziario, ci sia una responsabilità politica grossa come una casa. Politicamente parlando, è stato preso col sorcio in bocca».
cioli (con un mutuo), i pm che indagano sugli appalti del G8 a Perugia dicono che oltre al mutuo il nostro avrebbe girato alle due proprietarie 900mila euro in assegni circolari emessi da Diego Anemone, il capo della “cricca”, che comunque nega tutto proprio come il ministro: «Vengo infangato, sono sottoposto a un processo mediatico – ha sostenuto in un comunicato - che si basa su dichiarazioni di terzi il cui contenuto mi è ignoto», l’unica cosa certa è che
«non sono indagato» e quindi da adesso ci penseranno i miei legali.
Il Partito democratico a quel punto, dopo essersi sonnacchiosamente asserragliato sulla linea «Scajola riferisca in Parlamento», ha dovuto fare un aggiornamento pro-dimissioni (per quanto in politichese) dopo che Di Pietro gli aveva di nuovo scippato l’agenda politico-mediatica: «Dopo aver formalizzato ai presidenti di Camera e Senato la nostra richiesta di invitare Scajola a riferire alle Camere – hanno scritto quindi Franceschini e Finocchiaro - i gruppi del Pd, qualora si trovassero di fronte ad una reiterata indisponibilità del ministro, adotteranno ogni necessaria iniziativa parlamentare» (l’interessato ha fatto sapere che, semmai, parlerà in Parlamento dopo averlo fatto coi magistrati il 14 maggio). Specularmente dall’area del centrodestra sono partite le difese d’ufficio: solidarietà al più famoso cittadino di Imperia è arrivata dai ministri Frattini («gli credo senza riserve»), Rotondi («polverone strumentale») e La Russa, per non parlare delle difese appassionate della truppa parlamentare a colpi di «si pesca nel torbido», «complotto dei soliti ignoti», «questa storia puzza» e via dubitando fino al coupe de théatre della show girl Lory Del Santo intervistata da Alfonso Signorini (nel senso del direttore di Chi, nuovo stratega
E nel Pdl comincia la caccia a Fabio Granata, che ha espresso dubbi sulla difesa della maggioranza
Il sorcio, si ricorderà, è il grande appartamento vista Colosseo acquistato da Scajola nel 2004: il ministro sostiene di aver fatto l’affare del secolo pagando 180 metri quadrati 600mila euro e spic-
mediatico del Cavaliere): «All’epoca dell’acquisto l’appartamento del ministro valeva meno della metà di quello che si legge sui giornali perché era in stato deperimento. È una casa al primo piano senza balconi, apparteneva alle persone più povere del palazzo». Nonostante questa autorevole testimonianza a supporto, però, la ricostruzione angelicata di Scajola fa acqua. Nicola Porro, vicedirettore de Il Giornale, che l’aveva riportata in un’intervista venerdì, ieri scriveva secco sul suo blog: «Non gli credo: quello non è il prezzo di mercato».
Su una vicenda così scabrosa non poteva mancare nemmeno il fantasma del complotto“finiano”.Visto che Fabio Granata, deputato vicino al presidente della Camera, ritiene che un chiarimento alle Camere non sia una cattiva idea – come d’altronde l’Udc e anche il Pd prima della mossa del cavallo di Idv – la guardia berlusconiana l’ha accusato di «farsi dare la linea da Di Pietro» (Lehner) e cominciato a diffondere voci su un voto anti-Scajola dei finiani sulla mozione di sfiducia. Fesserie, ma le fibrillazioni del Pdl non risparmiano nulla. Intanto nel Palazzo viene diffusa, sempre via centrodestra, anche un’altra teoria per così dire giuridica: la procura di Perugia evita di formalizzare le accuse contro Scajola perché aspetta le dimissioni del nostro per non dover spedire gli atti a Roma, al Tribunale dei ministri.
Calcio moderno. Il giorno dopo le polemiche su Lazio-Inter tornano quelle su Caressa “fazioso”
Il telecronista-tifoso abbassi la voce di Pier Mario Fasanotti i parla tanto dei telegiornali faziosi. Una volta si diceva: be’, basta con queste balle, vediamoci un po’ di sport. Ora non è più possibile. E non parliamo delle polemiche post-partita di Lazio-Inter, con il sospetto che la squadra romana abbia voluto favorire i nerazzurri per non fare un dispiacere ai propri tifosi e farne uno ai “cugini” romanisti. Parliamo, invece, di Sky-calcio. E più precisamente del telecronista Fabio Caressa, in odore di innamoramento interista, uomo il cui equilibrio cardio-vascolare viene messo in pericolo ogni qualvolta un suo (ripetiamo: suo) beniamino va a fare gol.
S
Suppongo che in quel preciso momento ingoierebbe anche il microfono tanto spalanca la bocca. Meglio non immaginare la sua pioggia salivare. È il più scalmanato tra gli agitati di tutte le curve di stadio, la sua gioia si trasforma in qualcosa che sta tra la catarsi orgasmica e l’affanno a cercare parole diverse da “gol”e “rete”, però non le trova, mica è Gianni Brera, quindi ci am-
mazza le orecchie col tripudio delle sue tonsille, che girano più veloci dei “cabasisi” del commissario Montalbano, per poi passare a un reiterato elogio verbale dei bomber che “hanno fatto l’impresa”. I decibel hanno un picco straordinario se i goleador sono nerazzurri. Uno dei pochi che ha avuto il coraggio di mettere su carta l’apoplet-
questo caso Brera è sideralmente distante), la coppia giornalistica di Sky ha stracciato la correttezza descrivendo gli spagnoli come i soliti latini furbi e imbroglioni, simulatori e piagnoni. «Comincia la battaglia» hanno annunciato, e non solo in quell’occasione ci sono stati riferimenti gladiatori e volgarmente guerreschi, così “educativi”per i ragazzi, ai quali si indica un nemico da irridere e da abbattere e non un semplice avversario in mutande, da rispettare sempre).
Ci voleva Aldo Grasso per denunciare il modo apoplettico e isterico di raccontare la partita che ha reso “celebre” il commentatore tico e isterico modo di raccontare una partita è stato il critico televisivo del Corriere della Sera, Aldo Grasso. Il quale, senza tanti giri di frase, ha suggerito a Caressa di riflettere sul proprio ruolo, che non è appunto quello del fantasista Lionel Messi.
E a proposito del Barcellona, sconfitto dal “wall” dell’interista Samuel (anche in
Da europeo, e da padre, mi sono vergognato. E ho deciso di spegnere la televisione quando il calcio è lanciato come un giavellotto nel bilioso cielo (sky, in inglese) di un’emittente sempre più rauca e ridicola.
il paginone
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Epurazione dei dissidenti: quali esperienze storiche richiamano le attuali controversie nel Pdl? Molti pensano al modello Pcus… di Franco Insardà
ROMA. «Italo Bocchino non è Trotsky», sentenzia Biagio De Giovanni, filosofo del diritto cresciuto alla scuola di Giorgio Amendola. Un altro orfano del migliorismo, e con un passato da membro del comitato centrale del Pci e da direttore dell’Unità, Emanuele Macaluso, aggiunge: «Oggi siamo di fronte a un partito personale e padronale, con un populismo fondato esclusivamente sul capo. Ma il paragone è improponibile». Italo Bocchino, sostiene di essere vittima di «una vera e propria epurazione. Berlusconi voleva la mia testa, ha colpito me per educarne cento». E nelle parole dell’ex vicecapogruppo vicario del Pdl alla Camera il Cavaliere non è più il campione delle libertà che ha salvato l’Italia dai comunisti, ma il perfetto erede di una tradizione che ha sulla coscienza milioni di morti. Un parallelo che fa sorridere Biagio De Giovanni. «Le purghe staliniane», ricorda, «hanno fatto alcuni milioni di morti. Qui, al limite, si tratta della morte politica di una persona. Di Italo Bocchino. Che continuerà tranquillamente a fare la sua vita, a candidarsi, a essere rieletto in Parlamento».
Ancora più preciso Emanuele Macaluso nel frantumare le velleità di martire del deputato campano: «Dopo il 1936 nel partito bolscevico furono abolite le regole che prima esistevano. Con Lenin c’erano correnti e posizioni diverse. Del resto lo stesso Stalin fu eletto segretario dopo alcuni contrasti, e all’epoca Trotzky e gli altri c’erano ancora. Stalin era un
ni perché si tratta di due cose storicamente e politicamente diverse». Aleksandr Solzenicyn nel suo “Arcipelago gulag” spiegò come era facile finire nei campi di concentramento. Bastava essere troppo: troppo attivi, troppo intelligenti, troppo appariscenti. In sostanza tutti coloro che il regime di Stalin riteneva potenziali oppositori. L’ideale per la sopravvivenza, insomma, era la mediocrità. Finire nel gulag era molto facile e il regime stalinista colpì qualunque gruppo di potenziali oppositori, anche al di fuori dello stesso partito comunista e dell’Armata Rossa. Forse, se si fosse tenuto il famoso direttivo nel quale il Pdl avrebbe dovuto mettere in minoranza Bocchino, Farefuturo avrebbe dedicato la sua webzine al processo che nel 1938 vide sul banco degli imputati Bucharin. Con quello che era stato uno dei grandi leader della Rivoluzione d’Ottobre e unico potenziale rivale di Stalin, accusato di deviazionismo di destra e di trotzkismo, accuse che gli valsero la fucilazione.
Forza Italia è stata spesso definita un partito stalinista. La restaurazione dei berluscones custodi dell’ortodossia del Predellino poi fa apparire la dissidenza finiana alla stregua del fronte antistaliniano. Eppure De Giovanni e Macaluso consigliano di non farsi prendere la mano. Certo c’è il partito monolitico, il Pdl, il satrapo, Silvio Berlusconi, le vittime e i carnefici agli ordini del capo. Ma la storia non deve lascia il campo a sovrapposizioni così ardite. «Quello di Berlusconi», dice Macaluso, «è un
EMANUELE MACALUSO SU SILVIO BERLUSCONI «È comprensibile che Berlusconi parli di sgarbo: Bocchino non soltanto dissente, ma si è permesso di fare battute e prendere posizioni non gradite pubblicamente. Questo non è sopportabile in un aggregato in cui tutti sono ossequiosi e riverenti nei confronti del capo»
dittatore che aveva una storia rivoluzionaria e politica, ma la regola divenne una soltanto: la fedeltà, misurata anche attraverso il sospetto del capo». Detto questo, «oggi nel Pdl non c’è lo stalinismo, non ci sono i gulag, né le fucilazioni, c’è un regime democratico. Non faccio assimilazio-
partito padronale dove non sono previste posizioni e opinioni diverse. E non c’è l’abitudine e la possibilità di regolare un rapporto tra le forze interne. Cose del genere avvenivano nella Democrazia cristiana e nel partito socialista con le correnti. Nel partito comunista si risolvevano
Biagio De Giovanni ed Emanuele Macaluso analizzano le vice
I bonsai d
questi problemi attraverso il centralismo democratico: le varie posizioni erano regolate all’interno degli organismi, anche pubblicamente, come le riunioni del Comitato centrale, e anche negli stessi congressi. Basta ricordare l’undicesimo congresso del Pci con Ingrao che aveva opinioni molto diverse rispetto a quelle di Amendola e a quelle di Longo».
Per l’ex direttore dell’ Unità la differenza tra ieri e oggi sta nelle «regole che garantivano la vita di partiti con le loro storie». Ma su questo punto la lettura di De Giovanni è diversa. Perché il filosofo si sofferma e parte dalla netta differenza tra quella che è l’attuale natura dei partiti della Prima Repubblica e il Dna di quelli che li ha sostituiti: «Non possiamo più parlare di partiti nel senso classico del termine. Perciò non si possono applicare gli stessi criteri di un tempo, nel cen-
trodestra quanto nel centrosinistra. Non ha senso fare il paragone con quello che avveniva nella Democrazia cristiana e nel Pci. Si tratta di strutture e sistemi politici completamente differenti: la dimensione partito è scomparsa dalla scena effettiva della società. Confronti con il passato non se ne possono fare e occorre ragionare sul presente fatto da aggregazioni e non da partiti». Emanuele Macaluso va oltre: «Il Pdl non è un partito. A un aggregato personale, quello di Berlusconi, si è associato Alleanza nazionale che era un partito vero ed è rimasto tale, almeno secondo la percezione di alcuni. Il progetto di Berlusconi è sempre stato quello di assimilare nel suo aggregato anche An. Con alcuni c’è riuscito e ha allargato il suo seguito, altri hanno, invece, posto il problema di non volersi aggregare e di voler creare una corrente politica alternativa».
il paginone capo». A ben guardare le disgrazie del colonnello che negli anni di An era vicino ai berluscones Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa e oggi è il finiano per eccellenza, ha precedenti illustri. Come quello di Saverio Vertone, Giorgio Rebuffa o di altri professori che nella seconda legislatura di Berlusconi furono mandati in Parlamento sotto le insegne di Forza Italia. Gente che, ricorda il direttore delle Nuove Ragioni del socialismo, «si trovarono in profonda contraddizione con questa idea di gestione del partito e furono messi nella condizione di allontanarsi».
ende che hanno fatto parlare di repressione nel centrodestra
di Trotsky La vicenda che ha avuto per protagonista Italo Bocchino viene letta esclusivamente come una battaglia interna al Pdl. Ma secondo De Giovanni è inutile «cincischiare sulle regole, o chiedersi se si tratti o no di un’epurazione. Siamo di fronte a una lotta politica che contrappone avversari, ormai anche nemici, senza esclusione di colpi e che non può avere delle regole». Regole che per Macaluso sono comunque centrali per dirimere la faccenda: «Su quali regole Bocchino poteva essere cacciato o doveva dimettersi? Quali regole doveva seguire per essere considerato ortodosso o eterodosso? Il giudizio è sempre del capo e del suo seguito fatto di coordinatori, ministri, sottosegretari, presidenti dei gruppi che stanno in questo meccanismo dove l’unica regola valida è la fedeltà». Seguendo questa la logica, la
Biagio De Giovanni ci tiene però a sottolineare che epurazioni e allontanamenti non sono abitudini in uso soltanto alla corte di Arcore. «Nel centrosinistra e in altri partiti», nota, «cambia la forma, ma non la sostanza. Quando Massimo D’Alema ha deciso che Walter Veltroni avrebbe dovuto lasciare la guida del Pd, lo avrà fatto forse in maniera meno plateale, attraverso un lavorio sotterraneo, ma il risultato è stato identico. Forse la differenza è che il Pdl è più delle altre forze politiche soggetto al carisma
BIAGIO DE GIOVANNI SU ITALO BOCCHINO «La vicenda di Bocchino è un caso specifico, ma è evidente che ci sono forze che vogliono arrivare a uno scontro grosso. Non ci si può limitare ad affermare che vogliono discutere nel partito, l’obiettivo è un altro: le elezioni anticipate»
conclusione è «che è comprensibile che che Berlusconi parli di sgarbo: Bocchino non soltanto dissente, ma si è permesso di fare battute e prendere posizioni non gradite pubblicamente. Questo ovviamente non è sopportabile in un aggregato in cui tutti sono ossequiosi e riverenti nei confronti del
del capo. Ma questo ormai è assodato, non dovrebbe meravigliare più nessuno». Quest’equazione non convince del tutto Emanuele Macaluso. «È vero», ammette, «che il Pdl non è un partito mentre il Pd un partito mai nato, ma tra le due forze politiche vanno fatti dei distinguo. Intanto al
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Nazareno non c’è un padrone, tanto è vero si sono fatte le primarie, che hanno eletto segretario Pier Luigi Bersani, e ci sono delle regole. Quella che manca è soprattutto una base comune politico-culturale, dovuta alla fusione a freddo di Ds e Margherita. E alla quale non è seguita una ricerca e una battaglia politico-culturale per definire e vedere su quali basi si aderisce a questo partito. Di più, dissento da alcune reticenze che, invece, vorrebbero avallare la convivenza di persone così distanti ideologicamente e culturalmente. Il partito è un qualcosa che sta insieme se c’è una somma di valori, di ideali e di culture che sfociano in un programma politico. Ma la differenza dal Pdl, appunto, c’è: perché per il Pd non parliamo di un aggregato basato su un populismo padronale».
Nemmeno si può trascurare che dopo le Regionali pure nel Pdl siano emerse nette divisioni. L’affermazione elettorale della Lega e la rivendicazione di nuovi equilibri hanno fatto da detonatore. Per Macaluso quella di Fini è «la presa d’atto che tutta una serie d’idee, maturate anche per il percorso fatto dal suo partito, erano messe in discussione: prima su tutte l’unità nazionale. In Italia, e non soltanto da noi, la destra storica ha sempre avuto l’unita nazionale come punto fondante. Da qui la critica che ha sempre fatto – da una parte ai socialisti e dall’altra ai cattolici – di non avere mai avuto un’idea di patria, di nazione». Ma rispetto al passato, e a tutto questo, si è aggiunta «come elemento scatenante la presa di coscienza che a prevalere nella maggioranza è sempre più la Lega, passata da forza ausiliaria e di supporto a forza egemone. Se a questo si aggiunge che il Cavaliere nel suo Dna ha alcuni cromosomi uguali al Carroccio, il conto è presto fatto. A questo punto l’idea di una destra europea, nazionale, con propensione a guardare con occhi diversi i problemi dell’immigrazione, della modernità, della bioetica è entrata in contraddizione e ha posto la questione del riconoscimento di una posizione apertamente diversa nell’aggregato del Pdl. Ma Berlusconi un atteggiamento simile non lo consentirà mai e da qui è partito lo scontro». Una situazione del genere pone degli interrogativi importanti sugli scenari futuri della coalizione e sulla tenuta della maggioranza. L’opinione del professor De Giovanni è molto chiara: «Secondo me si va a elezioni anticipate nel giro di sei mesi, perché questa situazione non può durare. La vicenda di Bocchino è un caso specifico, ma è evidente, senza entrare nel merito della questione, che ci sono forze, del quale lui è stato in questi mesi un rappresentante di punta, che vogliono arrivare a uno scontro grosso. Non ci si può limitare ad affermare che vogliono discutere nel partito, l’obiettivo è un altro: le elezioni anticipate».
mondo
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Summit. Durante l’intervento iraniano, che riafferma il diritto al nucleare, si allontanano le delegazioni di Roma e Washington
Sfida all’Onu Corral Ahmadinejad: «Via le armi Usa dall’Italia» La Clinton: «Pronte nuove, più dure sanzioni» di Vincenzo Faccioli Pintozzi
NEW YORK. «Abbiamo lanciato la palla nel campo di chi ci accusava. Ora tocca a loro». Ha i toni di un duello all’ultimo sangue l’incontro a distanza che si è svolto ieri fra il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad e il Segretario di Stato Usa Hillary Clinton. I due, nell’ambito della giornata inaugurale del vertice sul Trattato di Non Proliferazione - un patto che Washington e Teheran si accusano reciprocamente di violare - si sono scontrati su modi, tempi e filosofia degli accordi internazionali. Arrivando a nuove vette nel confronto: Ahmadinejad ha definito “ingiusta” la presenza di armi nucleari statunitensi nelle basi Nato europee e giapponesi, citando proprio l’Italia come esempio della sua recriminazione. Ma non si è fermato qui. Mentre alcune delegazioni occidentali (tra cui America e Italia) lasciavano l’aula, ha continuato a reclamare quelli che considera diritti di nascita.
Parlando all’assemblea riunita nel Palazzo di Vetro, il presidente iraniano Ahmadinejad ha detto: «L’Iran non rinuncerà a nessuno dei suoi diritti inalienabili sul nucleare. Abbiamo accettato lo scambio di materiale nucleare da trasferire all’estero, come proposto a suo tempo dall’Aiea, e in materia nucleare abbiamo passato la palla ad altri. Quello scambio noi l’abbiamo accettato fin dall’inizio, per noi è un affare fatto». Non ha aiutato certo il fatto che il programma nucleare iraniano - che l’Occidente sospetta avere per obiettivo la produzione di armi atomiche è stato e sarà uno dei temi più caldi dibattuti a margine della conferenza per la revisione del Trattato. L’Iran, che si propone come capofila della resistenza anti-americana, si è presentato all’appuntamento convinto che questo trattamento speciale gli dia lo status di “nemico numero uno”, indispensabile per sollevare il resto del mondo “non atlantico”. E il vertice - che durerà quasi un mese e che si tiene ogni cinque anni per valutare il rispetto degli obiettivi e i problemi - è una di quelle passerelle occidentali che Ahma-
dinejad predilige per i suoi show. Ieri non ha fatto eccezione. I diplomatici occidentali di stanza a New York avevano previsto che Ahmadinejad avrebbe segnato l’avvio della conferenza accusando gli Stati Uniti e i loro alleati di utilizzare il timore della proliferazione
via di sviluppo, che rappresentano la maggioranza dei 189 firmatari dell’accordo sul controllo delle armi del 1970. Il Trattato punta a bloccare la diffusione di armi nucleari e chiede a coloro che dispongono di testate nucleare di rinunciarvi. Alcuni inviati occidenta-
Il Segretario di Stato americano attacca in anticipo e accusa: «Gli ayatollah vogliono ancora una volta negare l’evidenza: sono loro che hanno infranto i patti stretti con il resto del mondo» come un pretesto per negare alle nazioni in via di sviluppo l’accesso alla tecnologia nucleare per scopi pacifici, violando così il Trattato. Previsione, in effetti, abbastanza facile: il cavallo di battaglia di Teheran è un argomento già sentito in passato da parte di Paesi in
li dicono che il loro timore sull’Iran è oggi condiviso da molti Stati arabi e da altri Paesi in via di sviluppo. Usa, Gran Bretagna, Germania e Francia stanno negoziando con Russia e Cina su un possibile nuovo round di sanzioni Onu contro l’Iran sul programma nucleare,
L’impegno di Roma per il Tnp La Farnesina ha creato nel corso del tempo uno staff piccolo ma utile di Mario Arpino rande fermento delle diplomazie alla vigilia della Conferenza 2010 per la revisione del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp), in atto a New York tra il 3 e il 28 maggio. Per i meno introdotti, possiamo dire che il Tnp è l’elemento cardine di un sistema mondiale noto come “regime di non proliferazione”, che è un complesso variegato di organizzazioni internazionali, trattati, intese bilaterali o multilaterali più o meno vincolanti, politiche nazionali, leggi, azioni coordinate tra gli Stati e risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. C’è davvero da perdersi. Se centriamo il fuoco sul Tnp, si può dire che era stato firmato a Londra, Mosca e Washington il primo luglio 1968, per entrare poi in vigore il 5 marzo del 1970. Il Trattato riconosce solo cinque Stati come “militarmente nucleari”, avendo questi condotto test atomici antecedentemente al primo gennaio 1967. Sono gli stessi che fanno parte come membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ovvero Stati
G
Uniti, Russia (prima Unione Sovietica), Gran Bretagna, Francia e Cina.
Nel tempo, hanno firmato o ratificato il Trattato 191 Stati, ma ora sono 190 perché la Corea del Nord - caso unico e precedente pericoloso - si é ritirata nel 2003, dichiarandosi autonomamente potenza militare nucleare due anni dopo. Una curiosità: i cinque componenti del Consiglio di Sicurezza, pur essendo gli unici ad essere sta-
tato. L’Iran (alcuni lettori forse si meraviglieranno) è uno degli Stati firmatari. Il Tnp si basa su tre pilastri. Il primo è il divieto per i Paesi militarmente non nucleari di compiere qualsiasi azione per rendersi tali (non-proliferazione orizzontale). Il secondo impegna gli Stati militarmente nucleari riconosciuti e firmatari a frenare la corsa agli armamenti e a ridurre gli arsenali in previsione di un disarmo completo (non-proliferazione verticale). Il terzo pilastro stabilisce che gli Stati militarmente non nucleari acquisiscano, in cambio della rinuncia, il diritto all’accesso alle tecnologie nucleari per uso civile. Il Trattato prevede che l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) verifichi - in forza di accordi di tutela obbligatori o di protocolli aggiuntivi adottati su base volontaria la natura pacifica e non militare dei programmi atomici degli Stati non militarmente nucleari. Su base quinquennale, allo scopo di fare il punto sullo stato di attuazione relativo ai tre pilastri, vengono
Il Trattato riconosce solo cinque Stati come “militarmente nucleari”, avendo questi condotto test atomici prima del 1967. Si tratta dei membri stabili del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ti dichiarati “potenza militare nucleare”fin dall’inizio, hanno aderito al Trattato soltanto nel 1992. India, Pakistan e Israele le prime due sono potenze militari nucleari “non riconosciute”in quanto hanno condotto i propri esperimenti dopo il 1° gennaio 1967, mentre l’ultima non si è mai dichiarata tale - non hanno aderito al Trat-
mondo che secondo Teheran ha solo scopi pacifici, per la produzione di energia elettrica. Un diplomatico iraniano di stanza nella Grande Mela ha voluto sottolineare l’importanza della presenza del proprio presidente: «Questa partecipazione al più alto livello è una dimostrazione del fermo impegno dell’Iran per il Trattato e per il successo della conferenza di revisione». Come se gli ayatollah avrebbero potuto mandare qualcun altro. Scaldando i muscoli in vista del match, la Clinton aveva dichiarato la settimana scorsa che il presidente iraniano non avrebbe ricevuto una calda accoglienza a New York, puntando il dito contro «il record di violazioni del Trattato da parte dell’Iran, un fatto innegabile». Due giorni fa, parlando ai giornalisti, l’affondo più duro: «Io non so cosa voglia affermare Ahmadinejad con la sua presenza a New York. Lo scopo della Conferenza di rinnovamento del Trattato di non proliferazione è quello di riaffermare l’impegno della comunità internazionale verso tre scopi precisi: disarmo, non proliferazione, uso pacifico dell’e-
indette le cosiddette “conferenze di riesame”, che non possono modificare il Trattato, ma completarlo con nuove adesioni e protocolli aggiuntivi di varia natura. Ad esempio, la conferenza del 1995 aveva approvato l’estensione a tempo determinato della durata. Rientrano nell’ambito della non-proliferazione verticale (o disarmo) anche tutta quella serie di trattati - spesso bilaterali - quali la riduzione degli armamenti nucleari a raggio intermedio (Inf), quello sulle armi strategiche di recente rinnovato (Salt) e quello sulla riduzione delle armi offensive (Sort). I punti di debolezza del Trattato sono noti e riguardano sopra tutto la posizione delle potenze nucleari non-Tnp, la debolezza del mandato e dei parametri di verifica concessi dallo statuto dell’Aiea per valutazioni più certe e approfondite e le discordie sui regimi di sanzioni previsti per i firmatari inadempienti (o presunti tali).
In questo complesso contesto l’Italia si sta muovendo bene e, attraverso una preparazione costante, si è ritagliata un ruolo di rilievo. In primo luogo, dispone di risorse umane esperte, credibili e come tali riconosciute sull’arena internazionale. Negli anni, il nostro ministero degli Affari esteri ha saputo creare, con lungimiranza,
la disponibilità di un nucleo di esperti piccolo, ma estremamente attivo ed efficace. In secondo luogo, il sottosegretario Vincenzo Scotti, che ai lavori appena iniziati a New York guida la delegazione italiana, ricopre anche l’incarico di Vicepresidente della Conferenza. Va poi rimarcata la re-
cente nomina dell’ambasciatore Carlo Trezza a presidente del Comitato consultivo dell’Onu per gli Affari del Disarmo, cosa che non mancherà di consolidare un nostro ruolo nel sottogruppo che si occupa del secondo pilastro del Trattato, ovvero proprio il disarmo. Se la Conferenza del 2005 è stata deludente a causa dello stallo delle relazioni tra Russia e Stati Uniti (ritiro Usa dal Trattato Abm nel 2002 e conseguente blocco russo allo Start 2),
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nergia nucleare. La stragrande maggioranza delle nazioni che vi partecipano sono qui per vedere che progressi possiamo fare: questa è una delle maggiori priorità del presidente Obama. È per questo che ha spinto così tanto per firmare, insieme al presidente Medvedev, il Trattato Start. È per questo che è intervenuto al Summit sulla sicurezza nucleare per sottolineare la minaccia del terrorismo nucleare. È per questo che abbiamo iniziato a
Hillary Clinton. A sinistra, Mahmoud Ahmadinejad. In basso, missili iraniani sfilano a Teheran
secondo il ministro Filippo Formica, esperto e collaudato sherpa italiano, le previsioni per il 2010 sembrano moderatamente ottimiste.
Alcuni giorni or sono, reduce dalla Conferenza preparatoria dei 47 a Washington, nel corso di un incontro all’Istituto Affari Internazionali si è detto convinto che oggi le condizioni, certo per merito dei nuovi rapporti Usa-Russia, ma anche per la paziente opera di tessitura italiana nelle varie sottocommissioni preparatorie (di norma iniziano a lavorare due anni dopo l’ultima Conferenza), siano completamente diverse rispetto al 2005 e possano consentire sensibili passi avanti su ciascuno dei tre pilastri. Le difficoltà ci sono, e tra queste potrebbero essere fattori negativi la contemporaneità della Conferenza Tnp con la discussione di nuove sanzioni all’Iran al Consiglio di Sicurezza e la debolezza fisiologica della presidenza libanese nella prima fase. Nel settore “disarmo”, poi, potremmo essere coinvolti, assieme ad altri, nella vexata quaestio delle armi nucleari tattiche. Ma è un problema Nato e il 23 aprile scorso, al vertice di Tallinn, il consenso si era formato proprio attorno ad una proposta avanzata dall’Italia.
lavorare a degli accordi con l’India e altre nazioni, affinché usino i loro atomi in maniera pacifica. Se l’Iran venisse a dire che è pronta a sottostare al Trattato sarebbe un’ottima notizia. Ma io non penso che sia così: credo che vengano per creare confusione sull’argomento e spostare l’attenzione su altro. Ma non c’è alcuna confusione in materia: hanno violato i termini del Trattato, nonostante il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite li abbia costretti a ogni sorta di restrizione e obbligo nei confronti dell’Agenzia internazionale per l’Energia atomica. Non permetteremo all’Iran di cambiare le carte in tavola: sono stati loro a non rispettare i patti. Ed ecco perché cercheremo in ogni modo di ottenere dal Consiglio di Sicurezza una forte risoluzione, che li isoli ancora di più e imponga delle serie conseguenze per chi li segue su questa strada». La Clinton ha poi voluto sottolineare la netta inversione di tendenza della politica nucleare statunitense da quando Barack Obama è divenuto presidente. Obama ha indicato sia la non-proliferazione che il disarmo nucleare come priorità della sua agenda politica, a differenza del predecessore George W. Bush, che invece aveva negato l’impegno del 2000 di Washington e di altre quattro potenze nucleari a ridurre le testate atomiche.
Ma quello che sembra uno splendido sogno è stato definito più volte, da diversi lati della scacchiera, «una pericolosa utopia». I repubblicani, commentando la firma dello Start, hanno innanzitutto notato come questo non abbia ridotto in maniera significativa il numero - e tanto meno la potenza distruttiva - delle testate in possesso delle due nazioni. E poi hanno ricordato alla Casa Bianca l’importanza delle strategie di deterrenza, che si basano di fatto sul trasferimento di ordigni nucleari in basi vicine agli Stati canaglia. In un intervento alla radio nazionale, un deputato indipendente si è spinto fino a ricordare l’operazione “Cappello a Cilindro”: il trasferimento, alla fine della Seconda Guerra mondiale, di bombe nucleari in basi inglesi. All’epoca, il bersaglio era l’Unione Sovietica di Josip Stalin. Usa, Gran Bretagna, Francia, Cina e Russia - i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu - sono autorizzati dal Trattato a mantenere il proprio arsenale nucleare, ma si sono impegnati ad avviare negoziati per la riduzione delle armi. Gli Stati che non dispongono di armi atomiche lamentano però che le cinque potenze non hanno fatto abbastanza per il disarmo. Non è credibile pensare che, fino a che sono questi i leader in circolazione, si possa giungere a una vera pax atomica.
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l’approfondimento Un’immagine pubblicitaria di South Park, serie tv satirica a cartoni animati. Creata e doppiata da Matt Stone e Trey Parker (in basso a destra), viene distribuita da Comedy Central. Trasmessa per la prima volta nel 1997, la serie è giunta alla sua quattordicesima stagione. South Park narra le avventure di Stan, Kyle, Eric e Kenny, quattro ragazzi che frequentano la scuola elementare e vivono nella piccola città di South Park, sulle Montagne Rocciose, in Colorado. Sotto: Hirsi Ali
Stati Uniti. La più celebre dissidente musulmana racconta i retroscena dell’attacco a Times Square
Così è nato l’attentato di NY Un cartoon famosissimo, South Park, che ironizza su Maometto. Un giovane americano convertito all’Islam che lancia una fatwa. Ecco come si costruisce un attacco a settimana scorsa, Zachary Adam Chesser un ventenne convertito all’Islam che ora si fa chiamare Abu Talhah Al-Amrikee - ha pubblicato un post sul sito RevolutionMuslim.com dopo aver visto il duecentesimo episodio di South Park, il cartone animato prodotto da Comedy Central. Nell’episodio, dove si ironizza su molte celebrità (peraltro già finite nell’occhio sarcastico della serie altre volte), “figura” anche il Profeta Maometto: lo si può sentire una prima volta parlare dall’interno di un camion e una seconda volta da dentro un costume da orso. Per tale apparente blasfemia, il giovane Amrikee ha annunciato che Trey Parker e Matt Stone, co-autori del cartone «faranno probabilmente la fine di Theo Van Gogh». Van Gogh, i lettori ricorderanno, era il regista olandese che venne brutalmente assassinato nel 2004 per le vie di Amsterdam. Fu ucciso per aver girato assieme a me Submission, una pellicola che denunciava il ruolo di subordinazione a cui sono condannate le donne islamiche. Si è molto discusso in questi giorni sul tipo di attenzione che
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di Ayan Hirsi Ali Stone e Parker dovrebbero prestare a un minaccia postata via web. Ecco il punto di vista del ventenne Amrikee: «Non si tratta di una minaccia, ma è sicuramente una prospettiva molto realistica» ha affermato su Foxnews.com. «Per farla breve - ha continuato - il duo è finito sulla lista nera di un numero cospicuo di musulmani. Questa è la realtà». Infine, il giovanotto ha pubblicato gli indirizzi di casa e dell’ufficio di Stone e Parker, così come le immagini del cadavere di Van Gogh. Sotto un profilo meramente tecnico, gli esperti del Primo Emendamento sostengono che la pubblicazione di simili affermazioni non rappresenti una minaccia. Amrikee e i suoi compari, insomma, sarebbero semplicemente degli estremisti delusi dalla politica estera statunitense e il loro“sdegno” merita poca considerazione. Ma questo pone un interro-
gativo: quanti danni può arrecare una frangia estremista islamica a una società libera? La risposta è: molti. Mohammed Bouyeri, un musulmano marocchino-olandese considerato inizialmente come un personaggio minore all’interno dei circoli radicali, uccise Theo Van Gogh. Solo nel corso delle indagini emerse come egli fosse a capo del Gruppo Hof-
stad, un’organizzazione terrorista che era stata tenuta sotto controllo dai servizi segreti olandesi. Del tutto simili appaiono le vicende riguardanti il caso delle
vignette danesi sul Profeta Maometto. Ideate da Kurt Westergaard, queste vennero pubblicate nel settembre 2005 e suscitarono poche attenzioni; ma cinque mesi più tardi l’episodio si tramutò in un dramma internazionale con tanto di scontri e roghi di bandiere. L’uomo dietro a tale campagna d’odio era Ahmed Abu-Laban, un imam radicale di origini egiziane. Prima di quella conflagrazione, Abu-Laban era considerato una figura marginale. Tuttavia la sua campagna finì per costare alle attività commerciali danesi circa 170 milioni di dollari nell’estate del 2006. E tale cifra non include i costi per la ricostruzione delle proprietà distrutte e la protezione dei vignettisti.
Quanto dovrebbero dunque preoccuparsi gli autori di South Park per i “soggetti marginali” che ora li minacciano? Molto. Perché le invettive del giovane Amrikee rappresentano, di fatto, una fatwa informale. Ecco come funziona: esiste un principio basilare nelle scritture islamiche - sconosciuto al-
la maggior parte dei musulmani non proprio osservanti e dei non-musulmani - chiamato “comanda ciò che è giusto e vieta ciò che è sbagliato”. Esso obbliga i maschi musulmani ad un comportamento poliziesco nei confronti di ciò che viene considerato contrario ai dettami coranici e ad impartire personalmente la giusta punizione, come sancito dalle scritture. Nella sua forma più lieve, il fedele consiglia amichevolmente di astenersi da ogni condotta fuorviante. Meno tenue è la pratica in virtù della quale gli uomini afghani si sentono in diritto di picchiare le donne che non indossano il velo. Pubblicizzando i presunti peccati di Stone e Parker, Amrikee ritiene indubbiamente di aver compiuto il proprio dovere: comandare ciò che è giusto e vietare ciò che è sbagliato. Il suo messaggio non è semplicemente un’opinione. Riscuoterà consensi tra quelli che, come lui, rappresentanto sì una minoranza, ma costituiscono comunque un gruppo sufficientemente grande per portare a compimento la punizione divina. A dimostrazione di ciò, basta ricordare quel somalo che lo scorso gennaio irruppe
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Si cerca un uomo di 40 anni ripreso da una telecamera. Ma spunta anche un secondo sospetto
Bomba nella Grande Mela, è caccia all’uomo bianco
Rafforzata la sicurezza negli aeroporti. Si indaga sulla pista televisiva. E in un filmato riappare Meshud. Bloomberg: «Non è al Qaeda» di Luisa Arezzo caccia. E questa volta caccia all’uomo bianco, di circa quarant’anni e colto da una telecamera a mezzo isolato da Times Square mentre, muovendosi in modo sospetto, si sfila una camicia scura (lasciandosene una di colore rosso sotto) in un vicolo nei pressi del Suv con a bordo l’ordigno, per infilarla poi in un sacchetto e gettare uno sguardo veloce verso il veicolo prima di allontanarsi. La polizia è in possesso anche di un video registrato da un turista della Pennsylvania che ritiene di aver catturato le immagini del sospetto nella sua macchina fotografica, mentre sabato sera si trovava nella zona. Prende corpo, intanto, l’ipotesi che si sia trattato dell’azione di un cane sciolto la cui inesperienza di esplosivi ha permesso alla polizia di sventare l’ennesimo piano terroristico contro la Grande mela dopo l’11 settembre. Il capo della polizia di New York, Raymond Kelly, ha riferito che all’interno del Suv-bomba (ovviamente rubato, ieri è stato rintracciato il legittimo proprietario) gli artificieri hanno trovato una cassa metallica con otto borse di una sostanza identificata come un fertilizzante, reperibile in qualsiasi negozio, ma innocuo. Vi erano anche bombole di propano - ma con le valvole serrate - taniche di benzina, e due orologi collegati a mortaretti che avrebbero dovuto fungere da innesco. Non è chiaro se tutto fosse realmente in grado di funzionare. «In questo caso ci sarebbe stata una grande palla di fuo-
È
co e un gran numero di vittime», ha detto Kelly. Nella vettura si cercano eventuali impronte digitali, capelli e materiale organico di eventuali occupanti che possano rivelare nuovi indizi. Soprattutto sul movente, che genera molti dubbi. Al momento, il luogo in cui è stato parcheggiato il Suv, alimenta altri sospetti sulle cause dell’attacco.
Siamo a Broadway, sulla 45esima Strada, nel distretto della vita notturna newyorkese, a due passi dall’edificio in cui ha la propria sede Viacom, il colosso dell’intrattenimento che nei giorni scorsi aveva trasmesso la puntata di South Park in cui si vede Maometto con le fattezze di un orso. La tesi della ritorsione contro Viacom è stata rilanciata già domenica dal deputato repubblicano Peter King, uno dei membri della Commissione Intelligence della Camera. Ma fonti del Bureau confermano che l’Fbi sta seguendo proprio questa pista. Dopo essere stata minacciata dai fondamentalisti, Viacom aveva depurato il cartone animato da qualsiasi riferimento al Profeta dell’Islam. Ma questo - evidentemente - potrebbe non essere servito. Interrogato dalla polizia, Abu Talhah Al-Amrikee (vedi articolo a fianco, ndr), il militante islamico che ha postato una fatwa contro gli autori del cartoon su un sito integralista musulmano, nega ogni coinvolgimento nel fallito attentato, anche se ha ammesso di essersi trovato a Times Square nel momento in cui è stata rinvenuta l’autobomba. «Che credete, che ho ordinato a qualcuno di far saltare in aria un palazzo nel mezzo di Times Square? - ha dichiarato l’uomo intervistato dal Daily News questa storia non ha niente a che vedere con la controversia per South Park, non era un attacco contro Viacom». Nonostante l’incertezza, dunque, la polizia sembra comunque propensa a dare poca credibilità alla rivendicazione di un’organizzazione di taleban pachistani, Tehrik-e-Taliban, per vendicare la morte di Abu Ayuub al Masri, il
capo di al Qaeda in Iraq. Smentiscono anche gli stessi Talebani che, tramite il loro portavoce Azam Tariq, intervistato in esclusiva dall’agenzia tedesca Dpa, sostengono di «non sapere nulla del video» con cui è giunta la rivendicazione. La notizia semmai, è che Tariq conferma invece l’autenticità di un secondo video di nove minuti, individuato sul web ieri notte ma girato il 9 aprile, in cui appare il leader talebano Hakimullah Mehsud, dato per morto in raid Usa a gennaio, che incita i suoi a colpire obiettivi americani. Il leader talebano era stato dato per morto in un attacco di un drone statunitense il 9 gennaio, ma i guerriglieri talebani avevano sempre negato la sua morte. Nel video il temibile comandante militare non fa alcun riferimento all’attentato nel cuore di Manhattan ma minaccia attacchi contro le città Usa «nei giorni e mesi a venire». «È vicino il momento in cui i nostri fedayeen (guerriglieri) attaccheranno gli Stati americani nelle maggiori città», dice Mehsud, fiangheggiato da due uomini armati e mascherati. Se la notizia fosse confermata, gli Usa non farebbero certo una gran bella figura.
Ieri, intanto, la sicurezza negli aeroporti della East Coast americana è stata rafforzata. Aumentati anche i controlli agli imbarchi sia dei voli interni che internazionali. Una delle paure evocate dagli investigatori è di un bis di quanto nel 2007 accadde in Gran Bretagna quando dopo la scoperta di due autobombe a Londra, quattro asiatici si lanciarono contro il terminal degli arrivi dell’aeroporto di Glasgow a bordo di una jeep Cherokee di colore verde che, secondo un testimone, aveva a bordo alcune bombole di gas. L’auto esplose al momento dell’impatto contro l’edificio: in pratica era un’autobomba fabbricata artigianalmente. «La cosa importante da ricordare - scrive il britannico Telegraph – è che, dal punto di vista dei jihadisti, il vero campo di battaglia è New York, Londra o Parigi». Il fallito attentato al Volo Delta del Natale scorso, l’arresto di Najibullah Zazi che preparava un attacco alla metropolitana di New York, quello di Wesam El-Hanafi e Sabirhan Hasanoff (avvenuto la settimana scorsa) due “colletti bianchi” entrambi cittadini americani accusati di aver ricevuto assistenza tecnica da Al Qaeda via Yemen, e quello di Hosam Mather Husein Smadi, un clandestino proveniente dalla Giordania accusato di aver preparato un attentato a Dallas, sono solo gli ultimi casi che dimostrano come, dieci anni dopo l’11 Settembre, l’America sia ancora sotto tiro. I terroristi che vogliono colpirla non hanno bisogno di un comando centrale. Sono soldati che si muovono da soli in attesa che venga il loro momento. E questo non fa certo dormire sonni tranquilli ad Obama.
nell’abitazione di Kurt Westergaard brandendo un’ascia ed un coltello. Ogni musulmano, uomo o donna, consapevole che “un’offesa”è stata arrecata, può decidere di compiere il proprio dovere, ovvero uccidere chi ha insultato il profeta. Parker e Stone, per dirla tutta, vanno aiutati. Ma come? Per prima cosa, i due autori devono rivolgersi ai servizi di sicurezza.Vivere sotto scorta, come faccio io a Washington, priva di molte libertà. Ma probabilmente è il male minore. Bisogna però vedere se il governo statunitense è preparato a contribuire alla loro tutela. Secondo il governo danese, la protezione di Westergaard costa ai contribuenti 3.9 milioni di dollari, escluse le spese per le attrezzature tecniche: una spesa ingente in tempi di elevata pressione fiscale.
Un modo per ridurre i costi è quello di organizzare una campagna di solidarietà. Il mondo dello spettacolo, in special modo Hollywood, è una delle industrie più ricche e potenti al mondo. Seguendo l’esempio di Jon Stewart, che nel suo show della scorsa settimana ha utilizzato il primo segmento di South Park a difesa del cartone, altri produttori, attori, scrittori, musicisti e rappresentanti del mondo dell’intrattenimento potrebbero compiere un simile sforzo. Un’altra idea è inventare storie su Maometto e far circolare la sua immagine il più possibile. Queste non devono necessariamente risultare negative od offensive, ma solo “spalmare”il rischio. L’obiettivo è mettere i musulmani più estremisti davanti a un tal numero di casi da non poterli realisticamente prendere di mira. Una simile campagna farebbe oltretutto abituare i musulmani a quel tipo di satira a cui i seguaci di altre religioni sono da tempo abituati. Dopo l’episodio di South Park, non è arrivata infatti alcuna minaccia da parte di buddisti, cristiani ed ebrei - per non parlare dei fan di Tom Cruise e Barbra Streisand - che avrebbero ben più motivi dei musulmani per dichiararsi offesi. Gli islamisti cercano di sostituire lo stato di diritto con quello del comandare ciò che è giusto e vietare ciò che è sbagliato. Con oltre un miliardo e mezzo di persone che vedono in Maometto la propria guida morale, è indispensabile esaminare le conseguenze di tale guida, iniziando dalla nozione secondo cui coloro che disegnano la sua immagine o contestano i suoi insegnamenti devono essere puniti. In South Park tale dittatura tirannica è argutamente evidenziata da Tom Cruise che chiede: «Com’è possibile che Maometto sia l’unica celebrità protetta dal ridicolo?». Ora sappiamo perché. © American Enterprise Institute
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il rapporto
Ambiente. Disastri ecologici e caro-benzina spingono i governi verso soluzioni che limitino la dipendenza dall’oro nero
Come vivere senza petrolio Auto collettive, eco-drive e telelavoro tra le soluzioni per ridurre i consumi proposte nel documento dell’Agenzia internazionale per l’energia di Pierre Chiartano entre l’America affoga nel petrolio del Golfo, arriva la ricetta per la buona pratica sui consumi energetici. Dal lavoro svolto a casa propria – senza dover andare in ufficio – alla condivisione dell’auto, tanti i suggerimenti per essere meno schiavi dell’energia. Infatti la macchia di petrolio greggio che si allarga sul Golfo del Messico, fino a lambire le coste della Louisiana, è un’immagine che rimanda ad un pianeta in piena crisi. Era già successo col disastro della petroliera Exxon Valdez, nel 1989, tanto per fare un esempio, ma oggi l’incidente alla piattaforma della British petroleum avviene in un momento di contingenza fortemente negativa. Crisi di modello di crescita (troppo legato alla finanza) crisi di modello energetico (troppo dipendente dall’oro nero). Ma è proprio vero che non si può fare niente per ridurre consumi, ed essere meno schiavi degli idrocarburi? Una prima risposta positiva è arrivata da un documento della International energy agency (Iea) che raccoglie 28 Paesi tra i più sviluppati.
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Almen possiamo ridurre i consumi, se non è possibile ancora liberarsi dalla dipendenza da greggio. Nell’analisi si fa riferimento a uno studio del 2005 per una immediata applicazione di forme di risparmio facilmente praticabili. Un lavoro che parte dall’esperienza della crisi petrolifera del 1973, dove l’Occidente subì il ricatto dell’Opec e applicò le prime leggi per la riduzione della domanda. Il campo dove intervenire è quello dei trasporti, dove i Paesi più sviluppati che aderiscono alla Iea consumano circa metà del fabbisogno di oro nero. Inoltre politiche di riduzione della domanda d’idrocarburi sono state già applicate in vari periodi, come abbiamo anticipato. Per cui anche l’accettabilità sociale di queste norme è ampiamente collaudata. In primis, perché migliora la qualità del-
l’aria che si respira nei centri urbani più congestionati, poi perché in periodi di prezzi al consumo esosi, diventa naturale ridurre la spesa per la benzina, ad esempio. Di solito le politiche d’intervento sui consumi nel settore trasporto comprendono delle iniziative che ne riducano il fabbisogno sul medio lungo termine, oppure ne valutino l’impatto ambientale, si legge nel rapporto Iea. Questa volta si è scritto un manuale di pronto impiego. Una delle domande che si pone lo studio è perché i governi dovrebbero intervenire sulla domanda in una fase critica di approvvigionamento energetico. La prima risposta riguarda il mantenimento delle scorte strategi-
Sui trasporti si potrebbero risparmiare fino a 2 milioni di barili al giorno di greggio nei 28 Paesi aderenti alla Iea che. La seconda, investe le regole del mercato e i meccanismo della formazione dei prezzi. Un significativo calo della domanda, potrebbe incidere sulla dinamica dei costi al consumo. Chiaramente l’efficacia di queste norme è legata anche alla capacità dei governi di sopperire con servizi di trasporto alternativi alla riduzione dell’utilizzo privato delle vetture, oltre alla promozione di comportamenti legati all’eco-driving e al car-pooling (condivisione di un auto tra
un gruppo di persone). Anche se i costi legati a una minore mobilità - ad esempio meno merci che viaggiano - non sono ancora stati risolti, si può ovviare a quella delle persone. Un più efficace utilizzo dei mezzi di comunicazione e il lavoro svolto a casa, ci renderà meno schiavi degli orari d’ufficio. Alla base dello studio dell’agenzia internazionale c’è una buona pianificazione preventiva. Un lavoro che tenga conto dell’intervento governativo da un lato e della sua accettabilità pubblica e sociale dall’altro. Una buona comunicazione può essere fondamentale per la riuscita dell’iniziativa. Sono sette i punti dell’analisi.
Aumento dell’utilizzo dei mezzi pubblici di trasporto, del car-pooling, del telecommuting (cioè del lavoro domiciliare), del cambiamento degli orari di lavoro, dell’introduzione di divieti e restrizioni alla circolazione stradale e di limiti di velocità, fino all’eco-driving con i consigli per una guida taglia-emissioni e consumi. La Iea ha diviso queste categorie d’intervento in quattro gruppi. Una divisione effettuata in base all’efficacia che queste azioni hanno sull’obiettivo finale: consumare di meno. Nel primo gruppo troviamo il car-pooling e i divieti alla circolazione stradale che sono quelli dalla maggiore impatto (very large). Si calcola che per i Paesi Iea il risparmio possa raggiungere il milione di barili al giorno. Per incentivare la condivisione dell’auto i governi dovrebbero promuovere iniziative come l’istituzione di corsie preferenziali e parcheggi dedicati. Per i divieti viene invece riproposta la ben nota - per i cittadini italiani - politica delle targhe alterne. Nel secondo gruppo a minore incidenza (large) ci sono i limiti di velocità sulle autostrade, con un rafforzamento dei dispositivi di prevenzione e controllo. È previsto che, nell’area Iea, la riduzione dei consumi di carburanti possa raggiungere il mezzo milione di barili al giorno. Sempre in
questa categoria troviamo altre iniziative come il trasporto pubblico gratuito e un vasto programma di telecommuting supportato da incentivi e una campagna d’informazione pubblica. Le ore lavorative settimanali concentrate in pochi giorni, sempre per ridurre le necessità di spostamento degli impiegati. Una diversa forma di divieto di circolazione, questa volta basato sulle patenti, una specie di diritto di guida a punti. E infine l’ormai famoso eco-driving che oltre a una buona pratica di come condurre un auto col ”piede leggero” sull’acceleratore, promuove anche una corretta manutenzione del mezzo, sempre finalizzata al risparmio energetico. Nella terza fascia d’impatto, definita dai tecnici dell’agenzia internazionale come «moderate» troviamo le iniziative legate al trasporto pubblico: le corse gratis e l’aumento del servizio durante i weekend e i giorni «non di crisi», con un incremento delle corse del 10 per cento nei periodi di picco. La riduzione calcolata? Circa centomila barili di greggio quotidiani. Nel quarto gruppo, quello a minore incidenza di risparmio, c’è la conversione delle corsie preferenziali a favore di un servizio pubblico ventiquattr’ore su ventiquattro. Il risparmio dei consumi sarebbe simile al gruppo precedente. Ma vediamo ora nello specifico come dovrebbero funzionare tutte queste applicazioni salva-consumi. Innanzitutto dovrebbe esserci un’applicazione differente, anche in maniera sensibile, a seconda delle regioni prese in esame. Ciò è naturalmente causato dal differente impatto del traffico e dalle modalità organizzative di questo. Città caotiche come Napoli, ad esempio, non possono avere le stesse modalità applicative di posti come Berlino, dove il problema traffico non esiste. Le conclusioni del rapporto sulle modalità d’intervento si possono riassumere brevemente. La restrizione più impopolare è sicuramente quella legata alla circolazione
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limitata, del tipo «giorni pari o dispari». Ma è quella che garantisce i migliori risultati, in termini di risparmio dei consumi. È una norma che perde efficacia nel tempo, perché gli automobilisti si attrezzano a trovare il modo per aggirarla, come al solito. Il car-pooling se ben programmato ha un impatto immediato, ma molto dipende dal tipo d’incentivi che garantisce agli automobilisti. In pratica si deve giostrare tra popolarità ed efficacia, dove l’una non include necessariamente l’altra.
Nel nostro Paese esiste un progetto simile sponsorizzato da Autostrade spa, con un sito (www.autostradecarpooling.it) dove ci si registra e poi si inserisce un percorso con una data e il sistema ti presenta le varie opzioni di viaggio. Gli incentivi in questo caso sono degli sconti sul pedaggio e le piste dedicate ai caselli. Sempre in ambiente autostradale risultano molto efficaci i limiti di velocità per risparmiare carburante. Sia le auto che i camion subiscono un forte incremento del consumo nel rapporto chilometro-litro, quando viene superata la velocità di 90 chilometri orari. Come tutte le leggi diventa fondamentale un rafforzamento dei controlli e in alcuni casi è risultato sufficiente un maggiore rispetto dei limiti già esistenti per raggiungere dei buoni risultati. Come la maggior parte delle politiche mirate all’induzione di comportamenti collettivi, anche questa è condizionata dal clima generale. Un’atmosfera di crisi e di emergenza può aiutare a meglio sopportare ashington conferma alcune limitazioni che altriche ci vorranno tre menti avrebbero bisogno di mesi per tappare le un sistema coercitivo più eftre falle sottomarine ficiente. Anche norme che da cui fuoriescono 5 mila barili puniscano i mezzi con un sodi petrolio al giorno. Intanto tra lo occupante potrebbero aiu6-8 giorni arriva la «cupola» per tare, ma dovrebbero essere cercare di bloccare la fuoriuscita accompagnate da una politidi greggio sotto il mare. Le critica di incentivi e mezzi alterche del New York Times a Obanativi di trasporto. Uno di ma: «Si è mosso in ritardo». Per questi è l’azzeramento o la bloccare la perdita si sta pensanforte riduzione del costo dei do di scavare un secondo pozzo trasporti pubblici nei periodi che intercetti il flusso del primo. di crisi più forte, anche se è In una breve conferenza stampa, stato calcolato il minore imBarack Obama ha detto che quepatto di questa scelta. Un sto «è il peggior disastro ambuon esempio è quello della bientale di sempre». Obama ha città australiana di Camberchiarito che la perdita di greggio ra. La scelta di annullare il è «potenzialmente un disastro costo del biglietto ha provoambientale senza precedenti». cato un aumento esponen«La Bp è responsabile di questa ziale dell’utilizzo di tram, perdita – ha detto il presidente – bus e metro. Il costo per le e la Bp pagherà il conto». casse pubbliche su base decennale sarebbe minima. Te-
Obama «la Bp pagherà il conto»
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nendo anche conto che il 20 per cento delle entrate viene speso per mantenere il sistema di riscossione e controllo dei biglietti. L’obiettivo della capitale australiana è quello di catturare, entro il 2020, il 50 per cento del trasporto privato. Compito non semplicissimo, ma abbordabile, visto il buon avvio del progetto. Passiamo al punto successivo più conseguente dell’elenco delle buone pratiche stilato dalla Iea: l’aumento della frequenza del servizio pubblico. Più tram e bus nelle strade. Tenendo conto che gli obiettivi per il 2025, secondo l’associazione internazionale del trasporto pubblico (Uitp), sarebbero di raddoppiare la popolazione degli utenti dei mezzi collettivi, si può comprendere come questa scelta possa essere meno efficace sul breve periodo, ma molto di più al di là dell’orizzonte temporale di un’emergenza consumi. La politica di fondo sarebbe quella di far diventare il settore trasporto pubblico un campo interessante per gli investimenti. Questo è un discorso che esula dall’analisi della Iea, ma che da la cifra di cosa aspetta i governi che vogliano realmente metter mano a un sistema trasporti moderno. Oggi, i 28 Paesi membri dell’agenzia per l’energia si accontentano di questo prontuario taglia-consumi di utilizzo immediato. Uno degli aspetti più interessanti, anche per le sue ricadute di tipo sociale e che incide sullo stile di vita cui siamo abituati da secoli, è il telecommuting. Dietro questa parola anglosassone si celano diverse tipologie di un diverso stile di lavoro. E-work, telework, working at home (Wah) sono alcuni dei modelli che esprimo la massima flessibilità nel lavoro permessa dalla tecnologia. L’obiettivo? Abbattere drasticamente la popolazione di pendolari (commuter) che quotidianamente affolla treni, bus e metropolitane nei grandi centri urbani. Un evento che prevede il passaggio dalla cultura manageriale che i tecnici chiamano d’osservazione, ad una definita per obiettivi.
Si stima che già 50 milioni di cittadini americani appartengano a questa nuova categoria di impiegati (dati del 2008). Negli Usa il telecommuting ha acquisito una certa importanza dopo il varo del Clear air act, una legge che considerava proprio la riduzione delle emissioni di CO2 legata al movimento pendolare. L’eco-driving o guida ecocompatibile si basa sul limitato consumo di carburante e le basse emissioni di CO2 e comincia dall’acquisto della vettura e dalla sua corretta manutenzione. Ma soprtattutto dal minimo utilizzo della propria quattroruote.
cultura
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Libri. Mondadori rimanda in stampa uno dei migliori racconti di Saul Bellow: “L’iniziazione”, ovvero “Qualcosa per cui ricordarmi”
Un genio ancora incompreso
di Antonio Funiciello nche in Italia, da quando cinque anni fa venne a mancare, Saul Bellow è ormai trattato come un classico della letteratura mondiale. Già in vecchiaia in verità, a Bellow erano stati tributati tali e tanti riconoscimenti da renderlo un classico vivente, con buona pace di certa critica di sinistra che gli rimproverava d’essere ormai diventato un trombone reazionario. Anche la bella riedizione Mondadori di queste settimane del suo racconto migliore, Something to remember me by (1991), ovvero Qualcosa per cui ricordarmi (anche se in Italia ci si ostina a ripubblicarlo col titolo L’iniziazione), dà prova della classicità di Bellow. Che come ogni classicità finisce per essere un po’ conformista anche quando è acuta e meticolosa, come nel caso della cura del racconto da parte di Alessandra Calanchi. Il suo apparato critico-bibliografico al testo non riesce a non accompagnarsi con una bizzarra cronologia, per la quale negli ultimi anni si rivelerebbe in Bellow: «L’insorgere di una nevrosi che si traduce in un progressivo sbilanciamento verso una destra reazionaria, misogina e razzista».
A
Sono gli anni di Ravelstein (l’ultimo capolavoro) e della prefazione a The closing of american mind dell’amico Allan Bloom. Gli anni in cui Bellow, incalzato da un giornalista del New York Times Magazine su multiculturalismo e ameni affini, risponde che davvero vorrebbe conoscere il nome del Tolstoj degli Zulù o del Proust
della loro leadership morale come forza rappresentativa del bene in tutto il mondo». L’accusa di proto o tardo fascismo, che proveniva (e proviene) da sinistra, non teneva (e non tiene) conto che per Bellow, Bloom e Huntigton, pur variamente, non c’è alcuna ossessione per il destino minoritario che attende i wasp, gli ebreiamericani e gli altri nel nuovo secolo. Il centro della loro riflessione era (e resta oggi) non la popolazione anglo-protestante, ma la civiltà anglo-protestante. Il timore che quell’orizzonte ideal-valoriale, proprio della liberaldemocrazia,
Con buona pace di certa critica di sinistra che gli rimproverava d’essere diventato un trombone reazionario, lo scrittore rimane un classico vivente dell’isola di Papua, per poterli leggere («Who is the Tolstoj of the Zulus? The Proust of the Papuans? I’d be glad to read him»). Anni in cui il vecchio leone della narrativa nordamericana più che nevrastenico era preoccupato, e molto, della piega che gli eventi stavano prendendo: della lenta liquidazione «di quei valori anglo-protestanti che - per dirla con l’Huntigton de La nuova America, Garzanti 2005 - per tre secoli e mezzo sono stati accettati e rispettati dagli americani di tutte le razze, di tutte le etnie e di tutte le religioni e che hanno costituito la fonte della loro libertà, della loro unità, del loro potere, della loro prosperità e
che tra le altre cose ha pure prodotto la società multi-culturale, possa essere rigettato in favore di non-si-sa-bene-che. Anche in Something to remember me by lo sfondo della rimembranza della voce narrante è in fondo quello di questo problema fondamentale. Un padre che racconta a un figlio in che razza di guai si è andato a cacciare durante gli anni della depressione, in una fredda e inospitale Chicago invernale. Così il racconto finisce per essere una confessione sulla vicenda personale della voce narrante, che cela però in sé la fatica generazionale di chi ha fatto a caro prezzo, cioè vivendolo, il Novecento e lascia in
nista del racconto, ndr - era dentro un ripostiglio. Philip, che era un tipo che non si formalizzava, faceva talvolta la pipì nel lavabo. Era una bella camminata arrivare fino alla toilette al capo opposto dell’edificio, e il corridoio era stretto fra due pareti - un tunnel ricoperto di intonaco con una guida bordata da due strisce di ottone. Philip detestava andare fino in fondo al corridoio».
eredità un mondo di cui ignora prospettive future e - perché no - destino. Il titolo italiano, L’iniziazione, allude alla vicenda narrata nel racconto del vecchio padre: in un inverno dei primi anni Trenta, nei giorni in cui un tumore al seno divora la madre, un giovane adolescente incontra per la prima volta la rudezza della vita quando, adescato da una prostituta, viene derubato dei suoi preziosi vestiti e lasciato vagare per Chicago vestito da donna. Questa l’iniziazione. Che però, eletta a titolo del racconto, finisce per disorientare il lettore elevandosi ad un grado di significanza che non le appartiene. D’altronde nella prosa di Bellow accade - mediamente - molto poco e quel poco che accade occorre all’autore soltanto per dire la sua. Questo splendido racconto non è da meno. Più che i fatti nudi e crudi, è la versione degli stessi che s’impone alla lettura. Il realismo di Bellow non ha nulla di naturalistico: è un realismo intellettuale ed esistenziale, per cui i pregiudizi della coscienza valgono al posto dei giudizi della realtà. Vai a capire se tutto questo sia politicamente corretto o scorretto, o se piuttosto non sia un insulto leggere Bellow (e qualsiasi altro scrittore che valga la pena leggere) ponendosi simili problemi.
Due esempi di pregiudizi che s’impongono sui giudizi. Il primo letterario (direttamente dal racconto): «Il laboratorio del dentista - cognato del protago-
Sopra, lo scrittore Saul Bellow e la copertina del suo libro “L’iniziazione”, Mondadori, Milano 2010. In alto, un disegno di Michelangelo Pace
Il secondo dalla vita dello scrittore. In Russia, all’inizio del secolo scorso, agli ebrei era proibito risiedere fuori dalla Zona d’Insediamento: un pezzo di Russia che da Baltico scendeva al Mar Nero. A meno di non avere una speciale autorizzazione, che il papà di Saul Bellow non aveva e aggirò corrompendo un po’ di funzionari. Prima che Saul nascesse, i Bellow o, meglio, i Belo (cognome originario equivalente a byelo, che in russo significa bianco) se ne stettero per un po’ clandestinamente a Pietroburgo. Quando la corruttela venne alla luce, al papà di Saul toccò scegliere tra la Siberia o il Canada, per poi riparare dopo pochi anni negli States. I Belo finirono così in Canada e lì divennero i Bellow, per opera di un funzionario della dogana di Halifax che, come tutti i doganieri di quel periodo, si divertiva come un nuovo inconsapevole Adamo a ribattezzare chi gli capitava a tiro. Saul fu l’unico tra i quattro fratelli a nascere nel nuovo mondo. L’unico a nascere pregiudizialmente Bellow.
spettacoli iamo reduci di recente dalla lettura di Potere Assoluto. Un mattone di 900 pagine, ormai con qualche annetto alle spalle (è della fine degli anni Novanta). Lo firma quel geniaccio di Tom Clancy. Nato a Baltimora 63 anni fa, Thomas Leo Clancy jr. aveva un grande sogno: quello di poter intraprendere la carriera militare. È stato fermato da una banalissima miopia, che ha frantumato sul nascere il sogno di poter esibire mostrine e stellette sul proprio abito di lavoro. Ma il giovane Clancy non si perse d’animo, e continuò a coltivare la propria passione per l’esercito e le strategie militari. Laureatosi brillantemente alla John Hopkins University, nel 1984 l’evento che cambiò la vita di quello che era nel frattempo diventato un giovane assicuratore. Nei mari della Svezia, infatti, una fregata sovietica tentò la diserzione. Era l’Urss di Andropov e Cernenko, ancora lontana da quella ventata di freschezza che avrebbe portato l’ascesa al potere di Gorbacev. La Russia dei gerontocrati, il partito che avrebbe voluto riportare l’ultra-novantenne Molotov nel Politbjuro, quello dell’accordo con Hitler di quarant’anni prima, per intenderci. Una Russia nella quale il dissenso era palpabile, nella quale le figure nobili di ufficiali alla Marko Ramius erano conosciute anche oltrecortina.
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Tom Clancy prese spunto da quell’episodio e, forte di una competenza maturata da anni e anni di studio personale delle dinamiche militari, scrisse quel piccolo gioiello che è La grande fuga dell’Ottobre Rosso, sottomarino nucleare sovietico che tentò - e nella finzione narrativa riuscì - a disertare dalla gloriosa Armata Rossa. In men che non si dica, il clamoroso successo editoriale venne trasformato in un film. Alec Baldwin, Sean Connery e Sam Neill, sotto la direzione di John McTiernan diedero vita ad una delle più avvincenti spystory ambientate nei bui giorni della Guerra Fredda. Per l’autore fu solo l’inizio. Scrittore prolifico, dotato di una grandissima inventiva, che sa miscelare accuratamente con una sapienza tecnica del mondo militare e delle relazioni diplomatiche che l’ha portato a svolgere la funzione di consulente per l’esercito, Clancy ha da quel giorno dato vita ad una linea narrativa che lo vede oggi come indiscusso maestro del genere. Criticato da molti per la superficialità e l’aridità di volumi che stentano ad allontanarsi dall’intrattenimento allo stato brado, per una prolissità spesso considerata eccessiva e ridondante, per i fan, sempre più nu-
Rumors. In lavorazione un film sul libro “Potere assoluto” di Tom Clancy
Sorpresa: torna il papà dell’«Ottobre Rosso» di Pietro Salvatori merosi, è un genio capace di far avvicinare anche il lettore più distratto ad un aspetto del mondo contemporaneo, quello degli intrighi politico-militari, così presente eppur così sconosciuto dai comuni cittadini.
Ma oltre a questo, Clancy ha avuto, ed ha, una grandissima capacità di focalizzare e rendeIn alto, da sinistra: un’immagine dello scrittore Tom Clancy; la locandina del film “Caccia a Ottobre Rosso”; il regista JJ Abrams. A destra, l’attore Chris Pine, che nel nuovo “Star Trek” interpreta il capitano Kirk
re argomento di narrazione avvincente i più grandi problemi geopolitici del mondo contemporaneo. In Potere Assoluto, pubblicato, si badi bene, nell’ormai lontano 1999, troviamo un kamikaze che si schianta sul palazzo del Congresso di Washington, la Russia alle prese con il problema della definizione della propria collocazio-
La pellicola si occuperà di un Jack Ryan all’opera nelle vischiose trame di Wall Street, e Roma sarà tra le locations principali ne sullo scacchiere internazionale (con l’Occidente o contro di esso?), l’ombra inquietante della “Cindia”, pronta a far valere il proprio, crescente, peso nel mondo. E non solo. Tra le pagine del libro troviamo anche la dissoluzione del regime baathista di Saddam Hussein, un Iran fondamentalista che cerca di accreditarsi come leader del Medioriente, un Pakistan sempre più ambiguo nel suo schierarsi al fianco degli Stati Uniti.
A gestire la situazione, in veste di Presidente degli Usa, quel Jack Ryan che ai tempi
dell’Ottobre Rosso era un “semplice” 007 dei servizi segreti, eterno eroe e trait d’union dell’immensa produzione clancyana (e protagonista di fortunate serie di videogiochi, come Raimbow Six e Splinter Cell). Alla luce di tutto questo, si spiega la spasmodica attesa del mondo dei fans, ma non solo, allorché dalla Paramount sono trapelati i primi rumors: l’autore di Baltimora sta lavorando ad una sceneggiatura per il cinema.
Nella major hollywoodiana le giacche sono ancora abbottonate, le bocche cucite. È emerso che la pellicola si occuperà di un Jack Ryan all’opera nelle vischiose trame di Wall Street, e che la città di Roma sarà tra le locations principali nelle quali si dipanerà l’azione. A dare il volto a Jack Ryan, sarà Chris Pine, lanciato da JJ Abrams quale giovanissimo capitano Kirk nell’ultimo Star Trek. Pine sarà il quinto a prestare il volto dell’eroe di sempre dell’universo di Tom Clancy. Prima di lui si sono avvicendati Alec Balwin il primo a portare sul grande schermo il personaggio, nel 1990, proprio con Caccia a Ottobre Rosso. Poi è stata la volta di Harrison Ford, per ben due volte: nel 1992, in Giochi di potere e, nel 1994, in Sotto il segno del pericolo; infine Ben Affleck è stato Ryan nel 2002 in Al vertice della tensione. «I film di Jack Ryan non sono mai stati degli action movies. Sono dei thriller psicologici», mettono le mani avanti quelli della Paramount. Ma se vi dicessimo che tra i papabili alla regia, si vocifera di Tony Scott, il re dell’azione hollywoodiana per eccellenza?
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Caso Cucchi. Un voto per la trasparenza e la pubblicità degli atti La commissione d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale ha finalmente proceduto al voto definitivo, con cui vengono finalmente desecretati tutti i documenti e le audizioni in merito al caso di Stefano Cucchi. Un meritorio atto di trasparenza che gioverà alle istituzioni; tutto il materiale sarà infatti disponibile sul sito Internet e consultabile da tutti i cittadini, che potranno leggere uno spaccato impressionante sull’assistenza sanitaria, e non solo, ad un detenuto. Unico neo della decisione, che avrebbe potuto essere presa all’unanimità, è stata la contrarietà di alcuni deputati del Pdl guidati dalla senatrice Laura Bianconi e dal senatore Michele Saccomanno. Quest’ultimo ha cercato, fino all’ultimo, di evitare la decisione sulla pubblicità degli atti, paventando un possibile stallo dei lavori della commissione per il resto della legislatura. La Lega Nord si è astenuta, solo sei senatori del Popolo delle libertà hanno votato contro, gli altri non sono venuti, e dieci hanno votato a favore (Pd, Idv, Io Sud).
Donatella Poretti
I PILOTI DEPRESSI E IN CURA POTRANNO VOLARE I piloti potranno presto volare sotto l’effetto di potenti psicofarmaci. La Faa (Federal aviation administration) ha appena abolito il divieto che da 70 anni impediva ai piloti americani sotto trattamento di prestare servizio. La regola era stata imposta a causa dei gravi effetti collaterali, stanchezza, difetti di visione e giudizio. Sono 4 gli antidepressivi consentiti: Prozac, Zoloft, Celexa e Lexapro. Fred Tilton, medico della Faa, ha detto che anche altri psicofarmaci potrebbero venire approvati. I piloti che li usano sono tenuti ad effettuare una visita psichiatrica ogni sei mesi. Tutto ciò nonostante le black box (etichette di avvertimento) approvate dall’Fda sul rischio di suicidio nei bambini e negli adulti, oltre a una lunga serie di pericolose reazioni, comprese: aggressione, ostilità, disinibizione, impulsività e manie. Con gli an-
tidepressivi, la guida spericolata è una delle reazioni più comunemente segnalate. Che cosa potrebbe mai fare un pilota di aereo sotto l’effetto di simili sostanze? L’Faa dice di non poter stimare il numero di piloti interessati, ma crede che la percentuale di piloti depressi non sia dissimile da quella della popolazione, da loro stimata al 10%. Ecco arrivare una nube ben più scura e fosca di quella del vulcano islandese: ad esserne coinvolte non saranno le sole compagnie aeree.
Davis Fiore
Stormo al tramonto Uno stormo si riposa al tramonto nelle paludi del Pantanal, nello stato del Mato Grosso, nel Brasile centro-occidentale. Il nome dello stato, in lingua portoghese, significa ”giungla fitta”
vinose. È successo alla Dc e le conseguenze si sono viste.
Gennaro Napoli
QUESTIONE DI FEELING Il correntismo all’interno di un Partito può esserci, anzi è sinonimo della oggettività democratica e costitutiva del partito stesso, ma attenzione a farne delle radici che si diversificano e vanno a cercare l’acqua in punti di ristagno talmente differenti e lontani, da lasciare tracce ro-
UN SOLO TRICOLORE Dire che certi comportamenti di Fini siano di sinistra, vuol dire che una cultura sbagliata ha accreditato molte posizioni moderne agli schemi della sinistra, che poi neanche sono messi in pratica, come l’accoglienza, il femminismo, l’attenzione al
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
sociale e quanto altro. La contrapposizione alla Lega, poi, mette in luce una realtà che dipende dai numeri e non dalle ipotesi: da Roma in giù manca una Lega sud e molti esponenti vicini a Fini sono meridionali, e ciò rappresenta l’attenzione che il gruppo di An ha da sempre posto sia alle problematiche del Mezzogiorno che alla necessità di una unità d’Italia sotto l’egida di una sola bandiera, di un solo tricolore.
Lettera firmata
dal ”New York Times” del 27/04/10
Un canestro di rubli per la Nba di Howard Beck ikhail D. Prokhorov vale 17,8 miliardi di dollari. Un somma sufficiente per comprare tutte le squadre della Nba – la lega professionisti del basket Usa – riempirle di stelle dello sport e portarle a spasso per un giro del mondo a bordo del suo yacht da sessanta metri. Forse il problema è che non ci sono sul mercato abbastanza nomi importanti per essere all’altezza di tanto denaro da iniettare nel basket. Quando un personaggio ipercompetitivo ha a disposizione un conto bancario, in apparenza, senza fondo può succedere anche questo. E fortunata è la squadra che lo incontra. Il quarantaquattrenne Prokhorov è il secondo uomo più ricco di Russia, sta per diventare il proprietario della squadra dei Nets. Ne si avrà la conferma nelle prossime settimane e sarebbe il passaggio di consegne più pubblicizzato nella storia dell’Nba. Il russo è giovane, alto, atletico e di fascino, e non manca di spirito d’avventura. Rappresenta una sorta di moderno uomo del Rinascimento, ammantato da un’aura da guerra fredda. Potrebbe passare per un “cattivo”dei film di James Bond, oppure un agente doppio dei racconto di Tom Clancy. Il blog dei Nets lo ha definito «l’uomo più interessante del mondo». Il suo arrivo ha ispirato speranze e meraviglia. Un modo per distrarsi dalla peggiore stagione dei Nets conclusa con ben 70 incontri persi. Ma creare interesse potrebbe rivelarsi la parte più semplice del lavoro che il magnate russo dovrebbe portare a termine. A cominciare da uno spogliatoio assolutamente demotivato, e ormai privo di quegli elementi che trascinano una squadra alla vittoria. Per non parlare dell’umore dei tifosi, ormai
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delusi dalle prestazioni della loro squadra. Prokhorov può fare conto sul pubblico di due città. La prima è Newark, dove la squadra verrà spostata il prossimo autunno. La seconda è Brooklyn, dove la squadra del russo dovrà vedersela con il locali Knicks e il loro presidente, James L. Dolan. Insomma sarà una vera battaglia per conquistare il cuore e le menti dei newyorkesi. Il portafoglio gonfio e l’aura di mistero dell’uomo d’affari russo potranno servire fino ad un certo punto.
Le regole della Nba che pongono dei limiti agli ingaggi dei giocatori, insieme a molte altre restrizioni, limiteranno molto il potere dei soldi di Prokhorov che da solo non potrà garantire il successo della squadra. E c’è un precedente calcistico, come la sorte del Cska di Mosca dimostra. Nonostante la campagna acquisti faraonica e i denari investiti proprio dal tycoon dei Nets. E arrivano anche i suggerimenti di altri proprietari di squadre della lega basket americana. Uno di questi è Mark Cuban dei Dallas Mavericks: «se il carattere di Mikhail sarà all’altezza del suo portafoglio e saprà essere disponibile verso i tifosi dei Nets, allora lo ameranno e verranno a vedere le partite della sua squadra». E Cuban può essere considerato un esperto di come fondere passione e redditività nel mondo della pallacanestro. Quando nel Duemila giunse a Dallas, investì l’inverosimile per ricostruire da zero la squadra. A cominciare da un nuovo palazzetto dello sport, con spogliatoi avvenieristici
e schermi al plasma messi un po’ dappertutto. Persino le vecchie e tradizionali panchine di legno vennero sostituite con sedute in pelle. La campagna acquisti poi, fu di quelle memorabili, con un’attenzione verso i giocatori che portò il coach ad avere ben 13 assistenti. Nonostante i successi raggiunti e il fatto che i Mavericks siano ancora uno dei team che meglio retribuisce i propri giocatori, Cuban si convertì a più miti consigli. Capì che non sempre «più» è sinonimo di «meglio». E che spesso sono i «mezzi non tradizionali» che possono far conquistare risultati importanti. Stare in mezzo ai propri tifosi e rendersi «avvicinabile» è una caratteristica che il patron russo sembra possedere fina dai tempi del Cska, quando nelle finali di Champions league si faceva vedere con la maglia della squadra dialogare a bordo campo con reporter e tifosi. Insomma i Nets sembra abbiano incontrato un cavaliere della porta accanto.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Torna presto che l’Italia è sempre il meglio paese
LEGA: VIVACE, FATTIVA, SIMPATICA
SUBITO AL LAVORO PER IL BENE DELLA PUGLIA Vorrei porre alcune considerazioni sulle scelte delle nomine del presidente Nichi Vendola per la formazione della giunta regionale. La giunta è composta da personalità dal profilo professionalmente indiscutibile e elevato per cui nulla da eccepire nel merito. Stona un po’ e spiace la tendenza troppo “a sinistra” relativamente all’appartenenza politica di gran parte degli assessori. Abbiamo altresì accolto con grande piacere la decisione, giunta da parte di Vendola, di incontrare la senatrice Poli Bortone e l’on. Sanza per illustrare loro strategie e programmi che il presidente intende adottare nell’immediato futuro. Vendola non dimentichi mai di tener conto della rilevanza politico-culturale del partito dell’Unione di centro, portatore delle istanze moderate, cattoliche e centriste che non fanno altro che bene nell’ottica della crescita e dello sviluppo del territorio regionale. Nominata pertanto la giunta, serve ora mettersi subito al lavoro per garantire alla Puglia cinque anni di dinamismo, di sensibilità verso le politiche giovanili e di attenzione a temi quali la famiglia, l’ambiente, l’occupazione e la formazione.
È possibile che ci sia una parte d’illusione nell’immagine positiva che la Lega riesce a dare di sé, dovuta al fatto che essa è nata e s’è sviluppata nelle regioni del Nord, quelle più ricche e più dinamiche del Paese, le quali rappresentano, naturalmente, un buon esempio da imitare. È possibile che il successo che la Lega conosce, lo si possa in parte spiegare col modo nuovo di agire e di parlare dei suoi rappresentanti, che li distingue dall’immagine poco attraente che dà di sé la nostra classe politica tradizionale, parolaia e inconcludente, al pari di larga parte dei nostri giornali d’informazione. Ciò, tuttavia, non toglie nulla allo slancio e alla forza effettiva che la Lega possiede e alla simpatia che essa riesce a suscitare. In Italia nessuna iniziativa politica riuscirà ad affermarsi senza o contro la Lega, e ogni tentativo di fare astrazione della sua forza e delle sue idee è destinato a fallire. Così come illusorio si rivelerà il tentativo di rompere l’alleanza consolidata tra tra la Lega e il Pdl. Che piaccia o meno, così vanno le cose. Chi vorrà consolarsi, potrà sempre correre a offrire la propria preziosa adesione al nascente Cln che, con Beppe Grillo, Marco Travaglio, Michele Santoro, Vendola, Franceschini, Pecoraro Scanio, Rosy Bindi, Bersani, e forse domani Fini, raggruppa tutti gli strenui partigiani e i sinceri democratici del paese, decisi, ancor più di Don Chisciotte alle prese coi mulini a vento, a sbarrare la strada al fascismo!
COGLIERE PRESTO IL TRENO DEI FINANZIAMENTI EUROPEI Sono state programmate una serie di iniziative volte a favorire opportunità professionali e di sviluppo, attraverso la cooperazione all’estero, con particolare attenzione al programma della regione autonoma della Sardegna denominato “Master and Back”, che prevede il finanziamento di borse di studio per la formazione d’eccellenza post-laurea nei paesi di nuova adesione Ue. Ciò non segna solo l’avvicinamento culturale e di bagaglio di esperienze tra due regioni, ma l’unione di due aree rilevanti e delicate per il Paese: il Sud e le Isole. Dal confronto e dalla fusione delle reciproche esperienze, potremo cogliere occasioni importanti per la crescita culturale e professionale dei nostri giovani. Compiacimento e gratitudine sono stati mostrati dai giovani Udc sardi all’indirizzo dell’esperienza politico-amministrativa pugliese e del dinamismo del movimento giovanile Udc. Sono andato in Sardegna per incontrare il movimento giovanile sardo, attivo e dinamico, e per portare l’esperienza pugliese in Sardegna, l’esperienza del bando “Ritorno al Futuro”, analoga al programma sardo “Master and Back”. La formazione d’eccellenza, lo studio, l’immediata e consapevole entrata nel mondo del lavoro sono argomenti che stanno a cuore a noi giovani dell’Unione di centro. Se poi pensiamo che sia la Puglia sia la Sardegna sono regioni classificate dall’Unione europea “Obiettivo 1”, allora dobbiamo mobilitarci per non perdere il treno dei finanziamenti a queste terre destinati. Un treno che serve prendere entro il 2013, dunque occorre far presto. Sergio Adamo U D C MO V I M E N T O GI O V A N I L E - ME Z Z O G I O R N O
Carissima Ludovica, prima di tutto grazie del bellissimo pacco, che ho trovato a casa al mio ritorno dall’Inghilterra e che mi ha fatto un grande piacere. Il vestito è molto bello, ma purtroppo ora non posso metterlo perché mi sta stretto, perché aspetto un figlio, però lo metterò appena sarò magra di nuovo. I rossetti sono una meraviglia. Io ti voglio scrivere da un pezzo, ma sai come succede. Mi sono sposata il primo d’aprile (però non era uno scherzo) e sono andata in Inghilterra, che è un paese odioso, di gente odiosa, perbene ma odiosi. Poi adesso siamo qui, anche Gabriele, e non sappiamo bene cosa faremo, perché può darsi che andiamo a vivere in Inghilterra per due o tre anni. Può darsi, io spero di stare qui, però se devo andare là ci vado, perché la moglie deve seguire il marito. Tu come stai? Penso che fra poco tornerai. Io ho molta nausea specialmente la sera. Il figlio lo faccio in gennaio. Gli altri stanno bene, finiscono le scuole in questi giorni. Prima mio marito aveva la barba, adesso non ce l’ha più. Pavese sta bene, credo delr esto che t’abbia scritto anche lui (è stato felice del pull-over, perché adesso tiene molto all’eleganza). Ti abbraccio cara Ludovica, torna presto che l’Italia è sempre il meglio paese Natalia Ginzburg a Ludovica Nagel
LE VERITÀ NASCOSTE
Il Kuwait protesta. Contro il petrolio KUWAIT CITY. Il vecchio adagio, anche questa volta, si dimostra veritiero: chi ha il pane non ha i denti, e chi ha i denti non ha il pane. Sembra assurdo, in un periodo di crisi finanziaria internazionale, ma la popolazione del Kuwait meridionale ha lanciato uno sciopero generale di due giorni contro il petrolio. L’oro nero, che nella zona abbonda in maniera quasi incredibile, è alla base della ricchezza nazionale: ma i locali pensano evidentemente che questo non valga i grandi sacrifici che sono costretti a subire per la presenza di raffinerie e trivelle. Ahmad al Shuraian, leader della Commissione per la protezione ambientale dell’area, spiega: «Questa volta lo sciopero è stato totale. Tutti i 15mila studenti della zona sono rimasti a casa». I residenti della zona sono in totale 45mila. Secondo i dati ufficiali del governo, però, si è verificato un preoccupante aumento delle malattie collegate all’inquinamento proprio sul posto: nel 2009, ultimi dati disponibili, si sono verificati circa 8mila casi di problemi respiratori. Il numero rappresenta il 18 per cento della popolazione, ed è di diciannove volte maggiore rispetto alla media nazionale. Nel 2005 i casi erano appena 1.399. Il problema sembra però essere più interno che altro: nel 1994, infatti, una commissione aveva chiesto al governo di non costruire nella zona, proprio per il rischio di malattie collegate alla presenza del petrolio. Secondo al Shuraian, «il governo ha ignorato i suggerimenti. Il problema è rappresentato dalle 156 industrie chimiche che emettono gas tossici: ora ci devono dare nuove case». Nonostante la sua esigua dimensione, il Kuwait è il quinto Paese al mondo per produzione petroliera: il 10 per cento del fabbisogno energetico, con 2,3 milioni di barili estratti al giorno.
e di cronach di Ferdinando Adornato
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ULTIMAPAGINA Ritratti. Il mare, i romanzi, i trionfi: il re di Coppa America ci riprova e si racconta
La sfida infinita di un velista di Dianora Citi
rovare sulla terraferma Vincenzo Onorato, un uomo con il mare negli occhi, non era facile. Ma posso dire di essere stata fortunata. L’ho raggiunto all’Elba, dove spesso si trova per motivi di famiglia. Gentile, allegro, una splendida voce con un accento di gran classe, ancora spruzzato da dolci toni napoletani. Anche lui, nella vita, è stato fortunato. È bastata un’estate per cambiarne il corso. Un’estate bellissima, di tanti anni fa, quando suo padre, armatore e uomo di mare d’altri tempi («non come i capitani di oggi che non distinguono tra poppa e prua»), lo “rapì” alla sua vita fatta di libri e studio e per tre mesi gli fece girare in barca tutto il Mediterraneo.
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lui fece suo padre (prendere un figlio e tenerlo, volente o nolente, sul mare per tre mesi) la risposta è stata dubbiosa: «Non so se l’avrei fatto. Qualcosa ho provato per avvicinare i miei figli al mare, ma oggi non è la stessa cosa. Credo che ciascuno di noi abbia un destino: i miei ragazzi, al contrario di me, che pure ho “subito”il mare da parte di mio padre ma, alla fin fine,“in positivo”, il mare lo hanno patito in negativo. Era quell’oggetto che gli portava via il padre per molte domeniche.“Dov’è papà? È sul mare a fare la regata”: così, spesso, si sono sentiti rispondere. Non dimentichiamo che il lavoro e la vita di oggi non mi avrebbero per-
sta ragione che il suo ultimo impegno letterario come scrittore lo ha portato a questo romanzo ( Quando saremo vento sulle onde del mare, Mondadori Editore, pp. 372, Euro 19,00), composto da racconti di grande emozione, forza e durezza, che generano una riflessione interiore. «I racconti di questo libro hanno indubbiamente una base legata all’esperienza personale. Il resto nasce dalle cronache del mare, da ciò che viene detto e passa di bocca in bocca nei porti e sulle navi». Gli epici racconti dei duri uomini di mare, oseremmo dire. «Ma la motivazione più profonda e più vera di questa ultima mia opera sta nella volontà del-
MASCALZONE
Da quel momento o meglio in quel momento è nato l’uomo di mare Vincenzo Onorato. Ma lui stesso racconta che della bellezza di quella estate se ne rese conto dopo. «All’inizio per me fu uno shock enorme, un trauma terribile: fino a quel momento la mia vita si era svolta tra la casa e la scuola. E sempre con mia madre vicina, mio unico punto di riferimento familiare. Le mie sorelle, infatti, nate da un precedente matrimonio di mio padre, sono molto più grandi di me. Ero già stato in barca con lui ma al massimo qualche fine settimana per delle gite nelle acque vicine a Napoli e sempre con mamma presente. Avevo solo otto anni e non ero pronto ad un rapporto così profondo con mio padre. E lui invece mi portò via. In tre, noi due e un marinaio, abbiamo solcato il Mediterraneo per tre mesi sulla sua barca di allora, uno splendido Cutter con fiocco bomato». Con il senno di poi l’adulto riconosce uno shock metabolizzato “in positivo”: «Tornati a casa e ripresa la vita quotidiana, nelle lunghe giornate invernali, mentre studiavo sentivo la nostalgia di quelle distese di mare luccicante, degli spazi a perdita d’occhio, del sole così forte, dei profumi e dei rumori… A quell’epoca, e sto parlando della metà degli anni ’60, le distese marine erano veramente vuote, niente è paragonabile ad allora». Onorato ha avuto tanto tempo, dopo quell’estate, e, per sua ulteriore fortuna, tante possibilità, per costruire la sua vita futura indirizzandola e finalizzandola al mare. Facendo di tutto, sia ben chiaro, non prendendo nessuna scorciatoia: scuole di vela e regate, lavori come mozzo e laurea in Economia marittima. Infine quello che si potrebbe definire il traguardo, imprenditore armatore e velista di grande successo. Alla domanda se anche lui abbia mai pensato di fare con i propri figli, uno qualsiasi o tutti e cinque, ciò che con
messo un’assenza prolungata. Per mio padre fu diverso: lui era armatore di navi da carico, che salpavano per l’Indocina, l’India, l’Africa. Dopo qualche mese arrivava un telegramma, si preparava un altro carico. I tempi erano dilatati… ». Abbiamo detto grande velista: nel suo medagliere ci sono sei vittorie ai campionati del mondo in varie classi e nel 2007 fu no-
la memoria. Mi sono reso conto che un certo tipo di idea del mare stava scomparendo e ho voluto rendere testimonianza di quel mondo, di quel vissuto che oggi non esiste più. I ricordi negli anni si perdono se non sono sostenuti dalle tracce scritte». C’era forse meno tecnica, meno sicurezza, ma certo più sogni e più avventure. Qui, per la prima volta, nella scrittura di Onorato il protagonista è il mare, il mitico e affascinante elemento acqueo.
«Qualcosa ho provato per avvicinare i miei figli al mondo nautico, ma oggi non è la stessa cosa», spiega l’armatore. «Credo che ciascuno di noi abbia un destino: i miei ragazzi, al contrario di me, hanno patito in negativo l’idea di navigare» minato velista dell’anno. Non trascuriamo d’altronde il suo essere diventato anche apprezzato scrittore: fino ad oggi sono usciti ben otto suoi romanzi di cui solo in uno, Rosso colore oceano, il mare è presente, solo però sullo sfondo. Il mare è una grande fonte di ispirazione e solo chi lo vive e lo ama veramente riesce a capirlo e a comunicarne il fascino. È per que-
Ma il velista non si ferma, è già al lavoro sulla sua nuova fatica: sta per terminare la stesura di una commedia. C’è il mare? «No, questa volta no. Il mio secondo figlio ama il teatro e credo che abbia anche talento. Anche il mio primogenito, trovo, sia portato per fare l’attore ma in senso diverso: ho ricavato per lui una parte più comica». Ma ha dimenticato il mare? No, certo che no. «Le sto rispondendo dall’Elba, dove mi trovo per motivi familiari», ci dice quando lo chiamiamo. «Nei prossimi giorni sarò a Roma per una conferenza stampa sulla 34° Coppa America». Il suo team, che fa capo al Club Nautico di Roma, sarà lo sfidante per la prossima coppa che si disputerà nel 2013 o 2014. E le sue passioni quali sono? «Dopo il lavoro, le regate, c’è la scrittura». È quasi impossibile pensare di trasmettere una passione. Se questa c’è, la si sente improvvisamente crescere dentro. E Onorato non si ferma e non ostacola le sue passioni.