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ISSN 1827-8817 00505

he di c a n o r c

I pregiudizi occupano una parte dello spirito e ne infettano tutto il resto Nicolas de Malebranche

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 5 MAGGIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Parte la lotta per prendere il suo posto: in lizza Galan, voluto dalla Lega, e Romani, sostenuto dal Pdl

La casa delle (troppe) libertà Scajola si dimette: «Il mio appartamento forse pagato da altri» Prime ammissioni dell’ex ministro: «Lascio per potermi difendere». I Pm: «Non è indagato». Berlusconi non lo ferma (anzi) ma dice: «Se ne va uno capace, con alto senso dello Stato» di Errico Novi

Quale federalismo fiscale

È il momento di decidere: Italia o Padania di Francesco D’Onofrio

Esce in Italia il nuovo lavoro del filosofo

ROMA. «Devo difendermi, non

Noi, tra il Nulla e Dio

posso abitare in una casa pagata in parte da altri per un motivo che non so»: è ambiguo pure all’atto estremo delle dimissioni, l’ormai ex ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola. Berlusconi gli concede l’onore delle armi («Ha il senso dello Stato»), ma di fatto lo congeda. E ora si apre la corsa alla successione. a pagina 2

Con un crescendo a volte persino tumultuoso ci si sta rendendo conto che la questione del federalismo fiscale non è solo giuridico-economica ma riguarda la trasformazione dell’Italia. a pagina 11

Grecia: crollano le Borse europee

La nuova moda? Dare la colpa a Moody’s e Co. di Giancarlo Galli

di Michael Novak

I perché di una difesa avventata

Tutti i precedenti di un vizio storico

Il misterioso caso del ministro ex-innocente

Potere & Bugie quando il difetto è solo farsi scoprire

di Franco Insardà

di Maurizio Stefanini

L’ex psicologo della Camera Piero Rocchini e l’avvocato di Craxi Giannino Guiso commentano il comportamento “doppio” di Claudio Scajola: «Quella dell’ex ministro è una categoria patologica legata al suo ruolo. Ma la vicenda non ha nulla a che vedere con quella di Mani pulite. Si tratta solo di un narcisista spinto dal potere a non dare valore alle cose normali». a pagina 5

C’è chi dice bugie per puro interesse personale e chi lo fa adducendo improrogabili motivi di Stato. Eppure, la storia è piena di grandi menzogne dette da uomini di potere. Si va da quelle di Cavour per fare l’Italia a quelle di Clinton per non perdere l’America. Almeno in questo, l’ex ministro Claudio Scajola è in buona compagnia. a pagina 4

Una singolare intervista a se stesso per presentare l’edizione italiana del libro “No One Sees God”, per le edizioni liberal • pagina 12 •

L’ex ambasciatore Usa all’Onu attacca Cina e Russia

Confessa il pakistano arrestato dopo l’attentato

Abbiamo perso tempo, l’Iran ha già la bomba

L’uomo di Times Square: «Ho fatto tutto da solo»

di John R. Bolton

di Antonio Picasso

negoziati si trascinano verso una quarta risoluzione di sanzioni contro il programma nucleare dell’Iran, mentre il presidente Mahmoud Ahmadinejad a NewYork insulta l’Occidente. I sostenitori delle sanzioni riconoscono che l’ultimo prodotto del Consiglio di Sicurezza non farà altro che rallentare marginalmente il progresso nucleare dell’Iran. Che ormai è indirittura d’arrivo.

l pakistano Sahzad Faisal, naturalizzato americano dal 2009 ieri ha confessato di essere l’autore del fallito attentato a Time Square. «Ho agito da solo» ha detto subito, ma l’occasione offre l’opportunità di riflettere sulla presenza degli immigrati pakistani residenti negli Stati Uniti: una comunità giovane e multiforme, all’interno della quale ci sono molte contraddizioni.

a pagina 14

a pagina 16

I

Nel Gran Teatro della Finanza mondiale è in cartellone “La crisi di Atene”, con tutti gli ingredienti della tragedia greca. Compreso un clamoroso capro espiatorio: le Agenzie internazionali di rating. a pagina 8 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

85 •

WWW.LIBERAL.IT

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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La caduta. Si è conclusa con una drammatica conferenza stampa la torbida vicenda dell’immobile pagato da Anemone

La resa di Scajola

Dopo lo scandalo, il giallo: è stato Berlusconi a costringerlo all’addio o ha preso lui la decisione finale, malgrado il sostegno del premier? di Errico Novi

ROMA. Nessuno batte Gregorio Fontana, veterano forzista del Pdl: «Le dimissioni di Scajola sono un atto d’amore». Come potrebbe essere diversamente, in un governo che si regge appunto sul partito dell’amore? Ma poi è davvero così? Di certo l’addio del ministro, il secondo della sua carriera, è anche uno dei più paradossali registrati dalla cronaca politico-giudiziaria recente. Intanto perché non nasce da un avviso di garanzia. E anzi nel primo pomeriggio il procuratore capo di Perugia ha avuto molta premura nel ribadire che «Scajola non è indagato». È difficile d’altronde ricordare altri casi del genere di cui fossero già noti così tanti dettagli prima ancora che cominciasse non il processo ma, appunto, l’istruttoria. È anche un atto di dimissioni piuttosto originale per il modo in cui l’interessato lo spiega. «Non posso andare avanti, da dieci giorni vivo in grande sofferenza, pressato da rassegne stampa che non concedono un attimo di respiro. Me ne vado per difendermi meglio». E fin qui siamo alla tesi del «processo mediatico». Ma poi: «Un ministro non può lavorare se sospetta che qualcuno abbia pagato in parte la sua casa». E ancora: «Se dovessi acclarare che qualcuno ha pagato in parte questa abitazione senza che io ne conosca il motivo, l’interesse o il tornaconto, darei mandato ai miei legali di procedere all’annullamento del contratto di compravendita». Non è chiaro cosa Scajola pensi di poter scoprire: se qualcuno gli abbia effettivamente pagato oltre metà del prezzo dell’immobile o semplicemente per quale motivo tale pagamento sia avvenuto.

È la mossa berlusconiana per dirottare almeno parte del fuoco mediatico dal caso Scajola. Segno appunto che il premier coglie tutto il peso della vicenda che ha spinto il suo ministro a dimettersi. Fino a quel momento la giornata trascorre nell’attesa. Attesa che Berlusconi comunichi ufficialmente di aver accolto le dimissioni. Attesa che il ministro dimissionario renda più chiara la sua opinione (cosa che però difficilmente avverà prima del 14 maggio, data prevista per la deposizione in Procura come persona informata dei fatti). Attesa semplicemente di conoscere il nome del successore. Nel frattempo alcune circostanze sembrano destinate a non essere svelate affatto. Prima fra tutte, l’effettiva posizione del premier. Riferiscono fonti a lui vicine: «Già ieri sera (lunedì per chi legge, nda) il presidente ha invitato in modo definitivo Scajola a dimettersi, anche nel suo interesse ovviamente. Lui, il ministro, avrebbe preferito resistere, anche per non avallare in nessun modo le ricostruzioni fatte dalla stampa. Ma poi ha dovuto accettare». Quando in mattinata dunque viene annunciata la conferenza stampa (celebrata alle 11 e 30 al ministero dello Sviluppo economico) ancora

«Devo difendermi, lascio», è la spiegazione. Il Cavaliere: «Dimostra senso dello Stato». Poi attacca i giornali («in Italia c’è troppa libertà di stampa») e gli Usa: «Su Haiti Bertolaso aveva ragione»

Paradosso o no, Berlusconi prende

non è proprio scontato che in quella sede Scajola comunichi l’addio.

terribilmente sul serio la scelta del suo ministro. Si affida a una nota diffusa nel pomeriggio, subito dopo un intenso faccia a faccia: Scajola, osserva, «ha assunto una decisione sofferta e dolorosa, che conferma la sua sensibilità e l’alto senso dello Stato, per poter dimostrare la sua totale estraneità ai fatti e fare chiarezza». Gli rivolge «apprezzamento» per il lavoro svolto, lo ribadisce in un incontro con i rappresentanti del Ppe: «Oggi si è dimesso un ministro molto capace, la verità è che la solita magistratura si accanisce contro di noi». Ma la forma più diretta che il premier offre per attestare il suo contegno arriva nella conferenza stampa convocata a Palazzo Chigi per parlare di terremoto, Protezione civile ed elogi dell’Ocse: «Su una cosa è certa, in Italia c’è anche troppa libertà di stampa». Segue attacco agli Usa: «Su Haiti, Bertolaso (che gli siede a fianco, nda) aveva ragione». Senza pietà anche contro il Consiglio comunale dell’Aquila: «Sulla ricostruzione ha intravisto il business».

Si rincorrono infatti voci di ogni tipo. Dal suo entourage c’è chi per esempio ancora intorno alle 10 di mattina assicura che non solo le dimissioni non ci saranno ma che non si terrà nemmeno lo strombazzatissimo faccia a faccia con il presidente del Consiglio. Poi il fruscio cambia d’intensità e annuncia l’irrevocabile scelta di farsi da parte. Le versioni restano discordanti: quella di Altero Matteoli, per esempio, rovescia il gossip dei berlusconiani: «Fino a ieri sera né il ministro né il premier avevano in considerazione l’ipotesi delle dimissioni. Ho sentito entrambi e non era questo l’orientamento». Cosa sarebbe cambiato dunque durante la notte? «Lo ha detto lo stesso Scajola: sono stati i giornali a costringerlo». Il riferimento è al titolo d’apertura del Corriere della Sera che dà «in bilico» il responsabile dello Sviluppo economico. Ma anche alla posizione del Giornale di Vittorio Feltri che scolpisce: «Scajola chiarisca o si dimetta». Sarà una coincidenza, ma l’atteggiamento del

Da Imperia all’impero del Cavaliere

La carriera di un politico «a rischio» ROMA. Claudio Scajola, ministro nella bufera, è un politico di lungo corso. Nato a Imperia nel 1948, nel 1980 venne eletto al Consiglio comunale di Imperia per la Democrazia cristiana e due anni dopo ottenne l’incarico di sindaco in sostituzione del dimissionario, Renato Pilade, travolto da uno scandalo. Ma dopo solo un anno di mandato, fu costretto a dimettersi a sua volta, a causa di pesanti accuse giudiziarie.Arrestato alla fine fu prosciolto da ogni accusa e dal 1990 al 1995 ricoprì nuovamente la carica di sindaco della città ligure. Aderì a Forza Italia fin dalla fondazione e ottenne l’incarico di coordinatore provinciale, dopo di che alle elezioni politiche del 1996 venne eletto deputato nel collegio uninominale d’Imperia per il Polo delle libertà, guidato da Silvio Berlusconi che lo nominò responsabile nazionale dell’organizzazione di FI. Dopo di che nel 1998, al primo congresso nazionale del partito, Berlusconi lo promosse a coordinatore nazionale. Rieletto alle politiche del 2001, fu nominato ministro dell’Interno del governo Berlusconi e sotto la sua gestione si celebrò il disastroso G8 di Genova del luglio 2001, quello dei disordini e della morte del giovane Carlo Giuliani. L’anno successivo, incautamente Scajola definì Marco Biagi, il giuslavorista ucciso dalle Br, letteralmente «un rompicoglioni» alla presenza di tre giornalisti che, naturalmente, resero pubblica l’ingiuria. Le polemiche che ne seguirono lo portarono alle dimissioni da ministro nel luglio 2002. Ma cadde in piedi: nominato coordinatore della campagna elettorale di Fi per le elezioni amministrative del 2002, nel luglio del 2003 venne reinserito nel governo, come ministro per l’Attuazione del programma di governo e nel 2004 fu nominato commissario straordinario per le “Colombiadi”, le celebrazioni per i cinquecento anni dalla nascita di Cristoforo Colombo del 2006. Nel terzo governo Berlusconi, 2005, passò al ministero delle Attività produttive. Eletto nuovamente alla Camera alle politiche del 2006, viene nominato presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi di sicurezza. Confermato alle politiche del 2008, diventa ministro dello Sviluppo economico nel governo Berlusconi IV.

quotidiano è decisamente più compatibile con la versione fornita negli ambienti vicini al premier.

Proprio amorevole, il clima dunque non sembra. Anche se nella conferenza stampa di Scajola (senza spazio per le domande dei giornalisti) momenti di una certa intensità emotiva pure ce ne sono: dalla frase sulla «politica che, come ho imparato nella mia vita, dà sofferenze» a quella sull’affetto reciproco con il Cavaliere. Da notare anche la presenza in sala dei figli del ministro. Non si può però ignorare l’altra faccia della medaglia: non solo e non tanto le reazioni dell’opposizione (in qualche caso soddisfatte, in altri molto severe, vedi Bersani che ironizza sui «benefattori sconosciuti» e parla di «verminaio»). Colpiscono anche di più gli ondeggiamenti della maggioranza. Isolata sembra la lettura dell’ultragarantista Gianfranco Rotondi, che parla di «concessione alla demagogia». In generale prevale la tesi del «così potrà difendersi meglio», accreditata forse non casualmente da ultraberlusconiani come Quagliariello e Alfano. Molti complimenti per lo «stile» e la «sensibilità», qualche affondo contro la giustizia mediatica (da Fabrizio Cicchitto in primis), iniziali silenzi di personalità notevoli, da Bondi a La Russa. Fino al tono sbrigativo di un legista come Federico Bricolo, capogruppo al Senato: «Sono dimissioni volontarie», dice. E aggiunge: «Da noi del Carroccio ci sono buoni candidati per il suo posto». Non esattamente il massimo, come messaggio di solidarietà.Va bene che Bricolo è notoriamente considerato uno dei più ruvidi, tra gli uomini di Bossi. Ma da lui arriva la conferma che nella maggioranza non si disperano più di tanto. Gianni Letta, intercettato sulla questione a L’Aquila, ben si guarda dal rilasciare dichiarazioni. I finiani ne approfittano per piazzare un paio di colpi: Bocchino ritira fuori il ddl anti-corruzione «che il Pdl ha tutte le carte in regola per sostenere»; Raisi sottolinea con un certo sadismo che quello appena lasciato da Scajola «è uno dei ministeri più importanti»; e infine Ronchi, che pure esprime solidarietà, non trascura di indignarsi per la corsa alla successione subito scattata. Dei due nomi più gettonati per insediarsi allo Sviluppo economico uno, Paolo Romani, respinge le domande definendole «di cattivo gusto», l’altro, Giancarlo Galan, smentisce gli indizi sul suo conto e si dice «non interessato» al ministero. Dice ancora qualche berlusconiano accorto: «Si respira una brutta aria, da delirio di onnipotenza: un po’ come alla fine della Seconda Repubblica, quando la guerra fratricida tra Dc e Psi impedì di scorgere il baratro». E forse la drammatizzazione a cui Berlusconi ricorre nel pomeriggio riflette anche questo tipo di angoscia.


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Si parla anche dell’ex An Saglia. Solo una boutade l’ipotesi Montezemolo

Galan, Romani, Crosetto una poltrona per troppi La Lega vuole l’ex governatore per riavere l’Agricoltura. La scelta difficile può spingere il Cavaliere all’interim di Marco Palombi

ROMA. Formalmente non è il momento giusto, ufficialmente è il giorno della solidarietà «umana e politica», però certo la poltrona lasciata libera da Claudio Scajola fa gola a molti, senza contare che il dolore per la perdita è attenuato parecchio dal fatto che il ministro ligure, nell’area ex Forza Italia, ha qualche amico ma soprattutto molti nemici.Vecchie storie dovute all’attitudine diciamo solitaria con cui guidò il partito qualche anno fa. Giulio Tremonti ad esempio che tra vincoli di bilancio e controllo totale sulla legge di stabilità (la ex finanziaria) aveva scippato a Scajola anche la politica industriale - pare non si stia strappando i capelli. Ora il problema di Silvio Berlusconi è sostituire l’ex dc senza creare scompensi a governo e maggioranza: insomma, come aveva già provveduto a chiarire a tutti lunedì sera, niente rimpasto, né complicati movimenti interni che comporterebbero un effetto a catena difficilmente controllabile. Sostituzione secca, dunque, e se possibile rapida. Non dovrebbe essere un impegno troppo gravoso. La delega – fondamentale - alle Telecomunicazioni è già appannaggio di Paolo Romani e poi Scajola non lascia esattamente dietro di sé la fama dell’insostituibile: la sua permanenza nel dicastero di via Veneto sarà ricordata per qualche piccolo screzio con la Fiat sul tema dell’occupazione, parole alate sulla banda larga seguite da un nulla di fatto, l’incapacità a controllare in qualunque modo il prezzo della benzina, il molto futuro ritorno del nucleare in Italia e il consueto carico di gaffe.

la Lega avrebbe gli uomini e le donne giuste, esperti di azienda e di attività produttive, in grado di portare avanti il ministero».Tra crisi industriali a raffica, politica dei distretti e bollette energetiche c’è da scommettere che un ministro del Carroccio starebbe ogni giorno, se non in trincea, almeno in tv. Altra suggestione che palazzo Chigi ha voluto alimentare in queste ore è il possibile ricorso a Luca Cordero di Montezemolo. In realtà la successione sarà quasi certamente interna al Pdl berlusconiano. E qui cominciano i problemi: tra potenti e competenti la lista è lunga assai e sempre più s’estende col passare delle ore ad opera dei diretti interessati e delle varie “cordate”interne.

Segnalata la sfortuna del finiano Adolfo Urso che, per una volta che gli si libera una poltrona davanti, non è in condizione di partecipare alla gara per una questione di giorni (se solo Fini e il Cavaliere non avessero già litigato…), i nomi che circolano più spesso in queste ore concitate sono quattro, uno dei quali leggermente in vantaggio. Trattasi di Paolo Romani, una vita nelle tv locali prima di approdare in Parlamento, il che – sia detto en passant – gli ha consentito di portarsi così bene nella guerriglia legislativa con un colosso come Sky e nel risolvere l’annosa grana di Europa 7. Romani sarebbe una soluzione indolore, ma ha varie controindicazioni: la sua delega è già ampia e particolarmente cara al premier, senza contare che il nostro non è un esperto di sistemi industriali (non che questo sia per forza un ostacolo). Un nome caro a Tremonti è invece quello dell’attuale sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto: un colosso cuneese esperto d’economia - era responsabile attività produttive di Forza Italia - finito per caso tra i militari. Fosse lui il successore, peraltro, si risolverebbe pure il caso del Pdl piemontese, in fibrillazione da quando la regione è stata regalata alla Lega. Altri “papabili”sono Mario Valducci - presidente della commissione Trasporti della Camera e responsabile enti locali del Pdl, uno dei pochi sopravvissuti della stagione iniziale di Forza Italia - e Stefano Saglia, sottosegretario ex An ma lealista berlusconiano che sta gestendo il dossier del ritorno italiano al nucleare. Qualcuno ieri faceva anche il nome di Fabrizio Cicchitto, ma non sembra ci sia una singola possibilità per il capogruppo. Quanto a Sandro Bondi s’è “convinto” che, dopo «aver affermato la sua assoluta onestà», Scajola «potrà tornare a rivestire» rilevanti responsabilità politiche. Così andò dopo l’affaire Biagi, stavolta però potrebbe non trovare più nessuna sedia libera.

L’unico veramente tagliato fuori è Adolfo Urso, che paga la sua lealtà a Gianfranco Fini: sarà una partita tra Carroccio e Pdl

Giornata dura, quella di ieri per l’ex ministro Scajola: culminata con la gremitissima conferenza stampa nel corso della quale ha annunciato le proprie dimissioni dallo Sviluppo economico. In queste foto, quattro momenti dell’incontro con i giornalisti

Come che sia, attorno alla poltrona – dopo questi due anni più prestigiosa che di peso – dello Sviluppo economico s’aggirano gli appetiti di molti.Troppi.Tanto che il puzzle eccessivamente complicato potrebbe risolversi almeno all’inizio con Berlusconi che assume la carica ad interim come fece col ministero degli Esteri dopo le dimissioni di Renato Ruggiero nel suo secondo governo (e quell’interim, poi, se lo tenne quasi un anno). In ogni caso, la guerra a bruciare i candidati è già cominciata. Ancora Scajola non s’era dimesso e già circolava il nome di Giancarlo Galan, ex doge appena arrivato all’Agricoltura per sostituire il “comunicatore”Luca Zaia: lui ha subito smentito, ma è vero pure che a suo tempo disse che non sarebbe mai venuto a Roma a fare il ministro. Dalle parti della Lega, invece, dove non hanno complessi di sorta rispetto alle poltrone rivendicano il posto senza paludamenti: “È presto per fare ipotesi – ha spiegato il lumbard in purezza Matteo Salvini - ma è certo che


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l’approfondimento

L’autodifesa a oltranza di Scajola ha molti precedenti. Come se verità e interesse generale non fossero (sempre) sinonimi

Potere & Bugie

C’è chi lo fa per puro tornaconto personale e chi adducendo motivi di Stato. Eppure, la storia è piena di grandi menzogne. Da quelle di Cavour per fare l’Italia a quelle di Clinton per non perdere l’America di Maurizio Stefanini è Claudio Scajola che non ammette di aver detto bugie sul caso Anemone e invece parla di «campagna mediatica» nei suoi confronti, ma comunque si dimette da ministro «per potersi meglio difendere». C’è il governatore del Lazio Piero Marrazzo che a sua volta insiste di non aver detto bugoe su tutta l’intricatissima vicenda dei trans e dei carabinieri, ma che comunque a sua volta ha dato le dimissioni. C’è Silvio Berlusconi che invece non ha dato le dimissioni dopo le vicenda Naomi, anche perché lo stesso Giuseppe D’Avanzo ammette che non ha tanto detto bugie, ma si è limitato a non chiarire; ma d’altra parte un bel po’ di polverone sulla storia lo hanno fatto anche gli anti-berlusconiani, a partire dalla famosa traduzione sbagliata del Times. Ha invece ammesso di dire bugie Ferenc Gyurcsány: primo ministro ungherese dal 2004 al 2009, il capo di governo rimasto più a lungo nell’incari-

C’

co nella storia dell’Ungheria post-comunista. «Ho mentito, abbiamo tutti incessantemente mentito sullo stato della nostra economia: il mattino, a pranzo e la sera, per diciotto mesi» ha detto al congresso del suo Partito Socialista, post-comunista, nel 2006, pensando di non essere ascoltato. Invece lo hanno sentito tutti, ma lui è andato avanti per altri tre anni, sfidanfo manifestazioni di piazza e voti di fiducia. Solo quando ha percepito di essere diventato «un oastacolo alle riforme» si è infine tolto di mezzo.

Non si sa invece chi sia il principale responsabile delle bugie dette dalla Grecia all’Unione Europea sui propri conti pubbici: nel senso che sembrano averle dette un po’ tutti. Là a scontarla sono comunque i lavoratori ellenici, privati di tredicesime e quattordicesime. Ma forse erano state proprio queste bugie a permettere loro di incassarle fino a ora. E c’è pure la questione delle bugie

che George W. Bush e Tony Blair hanno detto sulle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Effettiva disinformazione, per giustificare la guerra? Oppure è facile parlare ora che il bluff di Saddam Hussein grazie a quella guerra è stato infine scoperto? E l’Iran nucleare, chi si sente oggi di dire in piena sicurezza se si tratti a sua volta di un bluff o di una minaccia seria?

«Non si dicono mai tante bugie quante se ne dicono prima delle elezioni, durante una guerra e dopo la caccia» diceva in effetti Otto von Bismarck, Che è un punto di vista. Oggettivo, o presunto tale. «Dire la verità è sempre la politica migliore, a meno che ovviamente tu non sia un ottimo bugiardo» è un secondo punto di vista, di Jerome Klapka Jerome: pragmatico, ma non di un politico. Naturalmente, c’è poi il pesantissimo responso di Niccolò Machiavelli.

«Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede, per esperienzia ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini; et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà». Capitolo XVIII del Principe. «Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare». Che è un punto di vista in teoria opposto a quello di Mak Twain: «C’è chi non è capace di mentire. Io invece sì, ma non lo faccio. I miei principi sono più elevati e nobili». Mark Twain fu però anche colui che nel 1870 scrisse il famoso racconto, Running for

governor, abitualmente reso in italiano con La mia candidatura, in cui si ironizza su un candidato che viene spazzato via dalla campsgna perché non ha la tempra per controbattere a tono alle calunnie sempre più esagerate che gli arrivano dagli avversari. «Al mattino seguente ecco che un altro giornale mise in luce un nuovo orrore, una malignità nuova, e mi accusò sul serio, di aver appiccato il fuoco ad un ospedale di pazzi con tutti i suoi inquilini, perché intercettava la vista della mia casa». «Mi si accusò di aver avvelenato mio zio per usurparne l’eredità, e si domandò categoricamente un’autopsia del cadavere. Fui sul punto di impazzire. Per completar l’opera venni accusato di aver somministrato certi miei vecchi parenti sdentati ed inabili al lavoro, per cibo ai trovatelli dell’ospedale a cui ero preposto!».

Alla fine, per dare le dimissioni dalla candidatura si fir-


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Le opinioni dello psicologo della Camera Piero Rocchini e dell’avvocato Giannino Guiso

Dottor C e Mister S: lo strano caso del ministro ex-innocente

«Ha tenuto un atteggiamento contraddittorio, al limite della patologia come un narcisista spinto dal potere a non dare valore alle cose normali» di Franco Insardà

ROMA. «Come è possibile?». È questa la domanda che molti italiani continuano a farsi da qualche giorno. «Com’è possibile che un ministro della Repubblica possa sostenere di non sapere che l’appartamento acquistato a due passi dal Colosseo sarebbe costato circa un milione e mezzo di euro e non seicentomila euro?». Ed ancora, dopo la conferenza stampa nella quale Claudio Scajola ha annunciato le sue dimissioni: «Com’è possibile dichiarare che “se dovesse acclarare che la mia abitazione fosse stata in parte pagata da altri senza sapere il motivo, il tornaconto e l’interesse”?». Piero Rocchini, per nove anni consulente ufficiale in psicologia clinica a Montecitorio, che ha raccontato le nevrosi del potere viste da vicino in ”Onorevoli sul lettino”, ha una spiegazione per queste esternazioni che lasciano a dir poco perplessi e che aprono una serie di interrogativi sulla personalità del pluridimissionario Scajola. «Molto spesso gli uomini di potere - dice il dottor Rocchini - sono dei narcisisti che si dividono in due categorie: il narcisista motivato al successo e al ritorno d’immagine e l’altro, invece, con motivazione al potere».

A quale delle due categorie si può ascrivere l’ex ministro Scajola? Rocchini non ha dubbi: «Alla seconda perché chi ha una grossa motivazione al potere è efficace sul piano dell’azione è un buon organizzatore, ma spesso dà troppo peso al proprio ruolo. Una sorta di gigante che non vede il sassolino e non valuta la comune realtà, come se avesse la testa oltre le nuvole e, quindi, non vedesse quello che accade sul terreno su cui cammina. Insomma chi è motivato al potere è molto efficace a organizzare gli altri e molto meno a gestire il proprio ambito personale. Ha una naturale tendenza a sopravvalutare il proprio potere, come se questo legittimasse, o cancellasse il valore di alcuni passaggi, sottovalutando una serie di cose assolutamente banali alle quali una persona normale darebbe il giusto valore». Secondo l’avvocato Giannino Guiso, difensore di Bettino Craxi, non si può paragonare questo episodio alle vicende che ebbero per protagonista il leader del Psi. «Per Bettino Craxi - dice Guiso non ci furono delle indagini, ma una persecuzione nei suoi confronti, del gruppo socialista e della Dc. Nel periodo di Mani pulite era molto di moda il “non poteva non sapere” e con questo metodo venne attribuito, per esempio, a Craxi un tesoro che non è mai esistito, il furto di una fontana del Castello Sforzesco che, invece, si trovava in riparazione. Fermo restando la stima nei confronti di Claudio Scajola, va evidenziato che la sua è una vicenda individuale della quale risponderà personalmente e

che non coinvolge l’intera classe politica. Non ritengo giusto, comunque, sottoporre una persona a processi mediatici prima ancora che la magistratura esamini il fatto nelle sedi competenti». Il ”non poteva non sapere”di Mani pulite rimanda alle dichiarazioni di Scajola sul prezzo di acquisto della casa, ma dare un giudizio su questo, secondo l’avvocato Guiso, sarebbe «già una sentenza e non è corretto. È ovvio, però, che chi acquista un bene deve conoscere le modalità dell’operazione e il suo giusto valore di mercato. Si è trattato, invece, stando alle cose che fino a oggi si conoscono, di un atteggiamento tipicamente italiano: quella di comprare un immobile e denunciare un prezzo inferiore per evitare di pagare più tasse. La cosa grave è che questo comportamento lo abbia avuto un ministro e mi stupisce anche che non sappia valutare il valore di un immobile. Scajola con il suo atteggiamento vuole dimostrare che le cose sono state fatte in piena regola. Io glielo auguro».

Ma il dubbio che Scajola stia mentendo resta e il dottor Rocchini cita una riflessione di Lisa Marshall, psicologa della Glasgow University, che «equipara le persone con narcisismo con motivazione al potere alla categoria degli psicopatici di successo. Perché per raggiungere quel livello di potere bisogna saper mentire, avere un senso morale particolare, commisurato all’esito positivo dell’azione. Chi ha queste motivazioni tende a sfruttare il prossimo, non ha un senso di empatia e, solitamente, vista la scarsa considerazione della realtà ha una reazione di sorpresa e di rabbia se qualcuno fa notare delle incongruenze. Mentre il narcisista motivato al successo ha una capacità empatica notevolissima, nel senso che ha la percezione di quello che desiderano gli altri per la loro soddisfazione. Chi ha la motivazione al potere, invece, ha il controllo, non a carisma, ma un atteggiamento più dispotico, circondandosi di persone che non possono fare alla ombra sua persona-

lità. Hanno cioè bisogno di essere soli con il potere». È inconcepibile, poi, secondo il dottor Rocchini, la dichiarazione di ieri di Scajola che un ministro «non può sospettare di abitare in una casa in parte pagata da altri». «C’è una discrepanza incredibile tra la capacità di azione, in parte collegata anche al saper usare e manipolare gli altri e ad avere le stesse caratteristiche di un psicopatico, ma di successo, senza vedere quello che accade al di sotto delle nuvole». Da quest’analisi si può tentare di tracciare una sorta di identikit dei politici e del loro rapporto con il potere che, secondo Piero Rocchini, «manifestano una sensazione di pericolo nel momento in cui c’è, anche lontanamente, la possibilità di perdere il ruolo avuto fino a quel momento». È questa, forse, la ragione principale dell’anzianità della nostra classe politica che«nasce gestendo un potere e continua per tutta la vita. In mancanza di quel ruolo il disadattamento sarebbe quasi totale. Un po’ come i reduci dal Vietnam che, senza armi e divisa, si sentivano ai margini della società». Il potere, insomma, logora chi non c’è l’ha.

merà «Vostro devoto, un tempo uomo onesto, ma ora M.S., L. di M.,V. di S., D.T., S. C., e S. D.». Che sono le sigle dei vari titoli ingiuriosi di cui l’hanno via via ricoperto: Miserabile Spregiuro, Ladro di Montana, Violatore di Sepocri, Delirium Tremens, Sporco Corruttore e Stomachevole Delatore. A un italiano può evocare gli 1On. Cav. Grand. Uff. Farabut. Mascalz. Lup. Mann.» del Fantozzi di Paolo Villaggio: ma Richard all’epoca del Watergate lo avevano sopannominato sul serio «Tricky Dicky», Riccardino l’imbroglione. E ricordate di come dopo che le gesta di Monica Levinsky furono rese note l’Oval Office in cui il Presidente fu ribattezzato «Oral Office»? Più lontano nel tempo, c’è la famosa vignetta in cui il «Let us have the peace», «Lasciateci avere la pace» della campagna elettorale di Grant, era trasformato nel «Let us have a piece», daccene un pezzettino, dell’orda di affaristi all’assalto della torta del potere. Ma Nixon. Clinton e Grant se non altro presidenti riuscirono a diventarci. Gary Hart e Ted Kennedy non arrivarono alla Casa Bianca, proprio perché si fecero prendere in castagna ancora in campagna elettorale. Anzi: Gary Hart aveva sfidato lui i giornalisti, a trovare qualcosa sul suo conto. E quelli lo avevano pizzicato, nella famosa foto con Donna Rice sulle ginocchia.

Ovviam ente, un conto è compromettere la propria onorabilità personale nel nome di interessi di Stato superiori, gli arcana imperii (Cavour lo ammetteva, che pur di unire l’Italia aveva fatto cose che se fatte per interessi privati gli avrebbero ben meritato la galera), un conto ben differente è utilizzare invece la sacralità e il margine di ombra che inevitabilmente resta attorno alle cariche pubbliche, per fare invece poi i propri affari privati. Ma, ad esempio, negli Stati Uniti non è in realtà neanche questione di quello, malgrado tutto quello che spesso si dice sul “moralismo degli americani”. Appunto, come il racconto di Mark Twain dimostrava già 140 anni fa e come era esplorato anche nel famoso film di Orson Welles Citizen Kane, per l’elettore americano lo scandalo, l’accusa e la calunnia sono un vero e propriop strumento di selezione politica. Non importa se quel che viene detto o no: importa il modo in cui il politico sotto esame dimostra di essere in grado di resistere sotto pressione, di conservare il proprio sangue freddo, di sostenere l’insostenibile, e di avere dunque la tempra per poter adempiere con successo al carico cui aspira. Insomma, come diceva in pratica Jerome. La colpa non è mentire: la colpa è di farsi scoprire che si è mentito.


diario

pagina 6 • 5 maggio 2010

L’evento. Oggi il capo dello Stato a Quarto per ricordare l’avvio dell’impresa dei Mille al seguito di Giuseppe Garibaldi

L’Unità che divide Bossi e Fini

Il Senatùr: «Celebrazioni inutili. Non andrò». La replica: «Atteggiamento deprecabile» ROMA. La polemica sul Risorgimento ogni giorno infila le sue perle. Ieri è stato il turno dello scontro fra Bossi e Fini. Divisi in tutto, i due lo sono anche sul giudizio storico di come si arrivò all’unità d’Italia. Già Calderoli c’era andato giù pesante un paio di giorni fa. Ma ora la parola è passata al grande capo leghista che ha deciso di prenderla da lontano. «Cavour era federalista spara il leader della Lega in una intervista a Repubblica la promessa e l’impronta federalista sono state fondamentali nel percorso di unificazione del Paese. Poi il re in qualche modo ha tradito perché ha imposto il centralismo, ma oggi è arrivato il momento di riprendere quella via e di portarla sino in fondo». Che le posizioni di Cavour non fossero propriamente quelle che gli attribuisce Bossi, è cosa certa, ma il senatùr ha sempre usato la storia pro domo sua. Se ne infischia di sostenere tesi che abbiano l’approvazione degli studiosi, preferisce lanciare qualche provocazione per farsi notare e richiamare l’attenzione del suo popolo.

Gianfranco Fini tiene la scena dalla parte opposta a quella del Carroccio. E, mentre Bossi minaccia di non partecipare alle manifestazione per il 150° («Mi sembrano le solite cose un po’ inutili e un po’ retoriche. Non so ce ci andrò, devo ancora decidere... Ma se Napolitano me lo chiede...»), il presidente della Camera rampogna in un’intervista alla Stampa tutti coloro che sparano contro il Risorgimento e se la prende con chi vorrebbe non partecipare alle celebrazioni: «Depreco questo atteggiamento di sostanziale negazione dell’unità nazionale, però non mi sorprendo affatto». E aggiunge: «Considero molto grave che il Pdl non prenda sue iniziative per ricordare l’Unità». I due continuano a duellare a distanza: ormai se uno dice bianco, l’altro risponde nero. Uno mette al centro la Padania e non si commuove né quando suona l’inno nazionale né quando sventola il tricolore, l’altro invece afferra la bandiera del Risorgimento e dei valori nazionali. E quando sente parlare di federalismo fiscale dice che «ancora non sono stati fatti tutti i conti... e che bisognerà vedere quanto

dell’Unità può essere il perno di una riflessione condivisa, perché impatta ad esempio sul tema della cittadinanza e dei nuovi italiani, questione che nel Popolo della libertà viene vista come fumo negli occhi e mi fa mettere all’indice ogni qualvolta la sollevo». Insomma, i due - Bossi e Fini sono agli antipodi. Singolare però che colui che vuol prendere le distanze dal federalismo citi proprio Mazzini, amico di Cattaneo e certamente il più federalista di tutti fra i grandi personaggi del Risorgimento italiano, mentre la Lega scelga Camillo Benso conte di Cavour, l’uomo dell’Unità savoiarda.

di Gabriella Mecucci

costa». Si autocita ricordando che nel suo intervento, alla riunione del parlamentino Pidielle, aveva chiesto che il partito prendesse iniziative autonome per celebrare i 150 anni dell’Unità. «In quella sede aggiunge - ho anche osservato: perché non lo facciamo? Forse perché una simile scelta non sarebbe gradita agli amici della Lega?». A questo punto anche il leader leghista scende dagli empirei della storia e la butta in politica non trascurando un richiamo moraleggiante ai sobri costumi amministrativi: «Se andiamo avanti di questo passo avremo troppi sindaci e troppi presidenti di Regione che buttano via i soldi». E ancora, continuando sullo stesso tasto: «Non possiamo continuare così perché con questo andazzo rischiamo di finire male, come un’altra Grecia, ma di grandi dimensioni. Gli esiti sarebbero disastrosi per tutti». Insomma, da Cavour ad Atene, tutto serve al senatùr per ricordare ad alleati ed avversari che la riforma più importan-

Napolitano: «Dobbiamo avere più orgoglio nazionale, l’orgoglio del passato ma anche di ciò che produciamo oggi»

te da fare è il federalismo fiscale: «Perché così daremo nuove regole sia al Nord che al Sud. Il Nord smetterebbe di pagare e il Sud di buttar via soldi». Partito da molto lontano, Bossi arriva con altre parole al consueto approdo di un Nord che non ne può più di produrre per tutti, né di sopportare “Roma ladrona” e l’inefficienza di “terronia”. Fini, prende il largo verso la storia d’Italia e i suoi personaggi più illustri per stigmatizzare il malcostume della società dell’immagine. Esordisce con un apodittico: «Se la politica perde la dimensione pedagogica, non è più buona politica». E poi l’affondo: «Diritti e doveri, credo che dovremmo rileggere Mazzini, perché qui a volte si ha l’impressione di vivere nella società del Grande Fratello, dove tutto è lecito a condizione di farla franca. Invece dovremmo mostrare ai nostri figli che rende più l’onestà della disinvoltura». E infine: «L’anniversario

In questo scontro a distanza con analiasi storiche un po’ abborracciate, mancava di figurare il terzo “immortale”della nostra rivoluzione nazionale: Giuseppe Garibaldi. Ieri è toccato al presidente Napolitano citarlo. Lo ha fatto parlando a Genova dopo la visita all’Ansaldo Energia. «Sono qui - ha detto - per celebrare domani (oggi, ndr) l’anniversario della partenza della spedizione dei Mille. La visita all’Ansaldo non è però fuori tema. Anzi, quando si ricorda da dove veniamo, è bene aver presente anche dove siamo arrivati». Poi un richiamo allo spirito patriottico e risorgimentale che a Bossi non sarebbe piaciuto: «Ora che il nazionalismo con le sue degenerazioni è alle nostre spalle, possiamo incitare noi stessi ad avere un po’ più di orgoglio nazionale, che è l’orgoglio del passato ma anche di ciò che produciamo oggi, dei nostri tecnici, dei nostri operai». Questa mattina il presidente si recherà alla scoglio di Quarto, da dove partirono i Mille: renderà loro omaggio deponendo una corona d’alloro presso la stele che ricorda l’impresa di quei soldati e del loro generale. Poi, il discorso ufficiale sull’Unità d’Italia a bordo della portaerei Garibaldi. Bossi continua a dire che lui a queste celebrazioni non parteciperà, ma anche che «Napolitano mi è simpatico, me lo è sempre stato, quindi se me lo chiede... Ci penserò». In attesa della riflessione leghista, il presidente ha scelto l’azione più temeraria, più mirabile, più discussa e più decisiva per ricordare l’unificazione del Paese.


diario

5 maggio 2010 • pagina 7

Forte calo congiunturale ad aprile: -5,7% rispetto a marzo

Conflitto nella maggioranza sugli assessorati del Pdl

Inps: frenano le richieste per la cassa integrazione

Alla Provincia di Viterbo è crisi: Meroi di dimette

ROMA. Forte frenata congiun-

VITERBO. È già crisi alla provincia di Viterbo: Marcello Meroi, eletto al primo turno lo scorso 30 marzo, si è dimesso prima ancora di ricevere la «fiducia» dal nuovo consiglio. Le dimissioni del neo-presidente, depositate nelle mani del segretario generale dell’ente, diventeranno operative dopo la comunicazione ufficiale al consiglio provinciale, che dovrebbe riunirsi alla fine della prossima settimana. Dopodiché il presidente avrà 20 giorni di tempo per ritirarle o confermarle. La decisione di Meroi è frutto delle lotte intestine nella maggioranza di centrodestra (Pdl e Udc) sulla composizione della giunta. Meroi aveva assegnato 3 assessorati all’Udc e 3 al Pdl,

turale per le richieste di cassa integrazione ad aprile: rispetto a marzo si è registrato un calo del 5,7%, passando dai 122,6 milioni di ore autorizzate a 115,6 milioni. Più significativa la diminuzione per le autorizzazioni di cassa integrazione ordinaria (cigo): -22,5% rispetto a marzo. E ancora di più nel comparto industria, dove la flessione congiunturale della cigo è stata del 27,3% (solo nell’edilizia si è registrato un lieve incremento: +2,3%). Ad aumentare è invece la cassa integrazione straordinaria (+8% su base mensile, +192% rispetto a un anno prima).

«È la prima volta nel corso del 2010 che le ore autorizzate di cig diminuiscono, mese su mese - commenta il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua - e si nota un comportamento differenziato nelle regioni e nei comparti. Nell’industria, ad esempio e quindi nelle regioni del Nord più industrializzate, il ricorso alla cigo è più basso dello scorso anno». A livello tendenziale infatti la frenata della cigo è ancora più sensibile: -38,1% rispetto ad aprile 2009. Su base annua però le ore autorizzate di cig sono complessivamente aumentate del 52,9% (erano state

Ocse: liberalizzazioni per una crescita boom «In Italia la produttività aumenterebbe del 14%» di Francesco Pacifico

ROMA. Accanto al fisco e agli ammortizzatori sociali l’Ocse consiglia al governo di tenere in considerazione le liberalizzazioni. In un rapporto sulle riforme della regolamentazione presentato ieri in via XX settembre, l’organizzazione dei Paesi più industrializzati ha rivelato che la produttività italiana potrebbe crescere del 14 per cento nei prossimi dieci anni. E in modo molto più semplice e indolore di quanto si possa pensare: tagliando lacci e lacciuoli nel campo del commercio al dettaglio, delle professioni e della distribuzione del gas. Mentre si ritorna a parlare del ritorno delle tariffe minime abolite da Bersani e si paga sulla benzina una tassa occulta dovuta a una rete troppo farraginosa, Il segretario dell’Ocse, Angel Guerria, chiede all’Italia di non fare passi indietro. «Gli sforzi compiuti per ridurre i pesi amministrativi», dice, «hanno permesso l’anno scorso risparmi al mondo delle imprese per oltre 4 miliardi di euro». A dirla tutta Giulio Tremonti, ieri accanto Guerria durante la presentazione del rapporto, non sembra molto interessato all’argomento. Certo, ha ringraziato per il plauso arrivato dall’organismo di Parigi, ma in nome del suo innato antimercatismo si è scagliato contro quella che ha chiamato la «retorica della concorrenza: quando si sentivano dire formule come il“cittadino consumatore”, mi sono sempre chiesto perché il cittadino dovrebbe essere per forza consumatore...». In questa chiave, nella lotta alla strozzatura dell’economia, ha definito prioritaria la riforma del fisco. Anche perché «i paesi meno fortunati hanno problemi di cibo mentre quelli più opulenti hanno problemi di crescita anche per una eccessiva legislazione. Le regole, se eccessive, sono un ostacolo allo sviluppo». Secondo l’Ocse seguire il percorso delle liberalizzazioni sarebbe sufficiente per «rendere l’economia più competitiva e ad accelerare la ripresa economica dalla crisi». Soprattutto in contesto mondiale contraddistinto da un ral-

lentamento della crescita e da un competizione che spinge i vari attori a vere e proprie forme di cannibalizzazione commerciale. Soltanto così l’Italia – come denuncia il rapporto dell’organizzazione – supererebbe i problemi creati dai «tassi limititati di partecipazione al mercato del lavoro. Il tasso di occupazione è ancora ampiamente inferiore alla media del paesi Ocse per diverse fasce d’età, sebbene il tasso di partecipazione sia cresciuto stabilmente e il tasso ufficiale di disoccupazione sia passato da oltre l’11 per cento nel 1998 al 6 per cento dell’inizio del 2008, prima della crisi economica». Liberalizzare il versante dei servizi – soprattutto nei campi del commercio, delle professioni e dell’energia – migliorerebbe la qualità, farebbe abbassare le tariffe, aumenterebbe la domanda e, di conseguenza, amplierebbe la richiesta di prestazioni, con i conseguenti benefici che ne deriverebbero per l’occupazione e i redditi del Belpaese. Invece l’Italia deve fare i conti con «la dimensione ridotta delle aziende italiane, gli ostacoli posti dalla regolamentazione, ad esempio nella distribuzione commerciale, un limitato accesso al capitale esterno e il sottosviluppo degli istituti di ricerca».

Da riformare commercio, professioni e rete del gas. Per Tremonti prioritario è il fisco. Calderoli: taglieremo altre 5mila leggi

75,6 milioni), in gran parte a causa della cassa integrazione in deroga (cigd), che come tutti gli ammortizzatori in deroga fu varata proprio nell’aprile 2009. Nel solo mese di aprile 2010 sono state 25,6 milioni le ore di cigd autorizzate, che valgono quasi il 25% del totale del mese (in leggero calo rispetto a marzo: -5,9%). Per circa due terzi si tratta di ore autorizzate nel comparto commercio e artigianato (rispettivamente il 19,9% e il 44%). «A conferma del fatto che la rete di protezione degli ammortizzatori sociali si è stesa su imprese e settori produttivi che fino all’anno scorso erano privi di sostegno», sottolinea Mastrapasqua.

Da non dimenticare poi i mali della burocrazia, con la necessità di «un rafforzamento dell’efficienza regolamentare tra i vari rami della pubblica amministrazione. Al riguardo Guerria non ha mancato di riconoscere la bontà del lavoro di Roberto Calderoli che in due anni ha portato le leggi italiane da 375mila a 10mila. «È il nostro traguardo», ha annunciato ieri il ministro, «è scendere a 5.000 entro la fine della legislatura». Importante per Guerria anche «dare maggiori poteri e risorse all’Antitrust». Ha preso la palla al balzo Antonio Catricalà, chiedendo la vigilanza sui Trasporti nella prossima legge sulla Concorrenza. Disco verde da Tremonti: «Perché no? È una buona idea».

tutti ex Forza Italia, lasciandone uno a disposizione dei 4 consiglieri ex An. Ma questi ultimi, alleati con l’unico rappresentante del Popolo Etrusco nel Pdl, una declinazione locale dei Popolari-Liberali di Carlo Giovanardi, che avevano presentato una propria lista ottenendo circa il 5%, ritengono di essere stati penalizzati per dare spazio all’Udc, che ha ottenuto il 12% dei voti e 4 consiglieri e si rifiutano di votare la ratifica della giunta in consiglio. Decorsi i 20 giorni, se la maggioranza non si ricomporrà, verrà nominato il commissario prefettizio e poi saranno indette le elezioni anticipate.

Lo stesso Meroi ha spiegato la sua scelta: «L’unica via d’uscita è che le segreterie provinciali e regionali del Pdl e dell’Udc si impegnino per individuare una soluzione che, credo, possa ancora essere trovata». La segreteria regionale del Pdl viene chiamata in causa da Meroi perché «sono stati proprio il coordinatore e il vice coordinatore del Lazio ad aver sottoscritto l’accordo che assegna 3 assessorati all’Udc nel corso delle trattative da cui è scaturito il sostegno dei centristi alla candidata governatrice Renata Polverini».


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grandangolo La campagna internazionale contro le Agenzie di rating

La nuova moda? Dare tutta la colpa a Moody’s

Governi e ministri delle Finanze se la prendono con le società che valutano i bilanci degli Stati. Alcuni arrivano a dire che la responsabilità della crisi greca sia loro. In realtà, sono i leader politici a nascondere i veri conti. Al punto che si pensa a un board di governanti che controllino se stessi di Giancarlo Galli n questi giorni, nel Gran Teatro della Finanza internazionale, è in cartellone “La crisi di Atene”, con tutti gli ingredienti della tragedia greca. Mentre, per la stagione estiva, sia pure con prudenza, vengono annunciate repliche. Pressoché identica la sostanza, ma con variante geografica. Anziché Atene: Lisbona e Madrid; e in autunno, chissà… Intendiamoci bene: la crisi è vera e profonda, minando alle radici la filosofia del capitalismo globalizzato in cui il progresso dipende essenzialmente dal consumismo. Poiché tutto il “sistema”del nostro tempo si regge, avendo il coraggio di osservare la realtà senza fette di salame sugli occhi, su un unico presupposto: consumare sempre di più, correre sempre più veloci e impedire che la macchina finisca fuori strada.

I

Ciò che sorprende, lasciando basiti quei pochi economisti non irreggimentati,refrattari al “politicamente corretto” in omaggio alla vecchia formula «non disturbiamo i manovratori!», è l’atteggiamento dei governi, dei banchieri, della maggior parte delle classi dirigenti: non un cenno di autentica autocritica, bensì la spasmodica ricerca del capro espiatorio. Pare proprio di essere tornati al ‘600 allorché, esplosa la peste

nera, cominciò la caccia agli “untori”, magistralmente rievocata dal Manzoni in un capitolo dei Promessi Sposi. Ora, in un fuoco pirotecnico di analisi, dichiarazioni autorevolissime, gli “untori” sono stati immediatamente individuati e demonizzati: le agenzie di rating, ovvero“di valutazione”(perché non si usano termini comprensibili anche all’uomo delle strada? Viene il dubbio si voglia confonderlo…). Di queste agenzie ve ne sono un paio (Moody’s e Standard & Poor’s), di rilevanza planetaria. Che fanno queste agenzie? Trattasi di società specializzate, private e di lucro, ma universalmente riconosciute per la loro professionalità, cui gli Stati sovrani, le imprese, le banche, riconoscono una superiore capacità di giudizio sullo stato di salute dei loro bilanci. La loro capacità di onorare i debiti al momento di emettere prestiti.

Con regolarità, queste Agenzie stilano pagelle. Che ovviamente pesano parecchio sugli equilibri della finanza: chi ottiene il massimo voto (AAA), ha la certezza di poter collocare a basso costo (in termini di tassi d’interesse) i propri titoli. A mano a mano che la pagella diviene meno favorevole (AA, A, BBB, BB, B, CCC, CC, C sino alla D di de-

fault, sinonimo di bocciatura), chi vuole trovare soldi sui mercati ha da pagare interessi vieppiù elevati. Tutto chiaro, almeno in apparenza; con le Agenzie paragonabili a medici chiamati di volta in volta da chi bussa a quattrini. E che poi sentono il dovere di seguire il paziente, misurandogli la febbre. Se sale il

Pare proprio di essere tornati al ‘600 quando, scoppiata la peste, iniziò la caccia agli untori rievocata da Manzoni termometro del rischio, il voto cala, con quel che ne segue: minor affidabilità, quindi - appunto - maggiori interessi da pagare. Certo, come nella vita quotidiana, può accadere che un medico sia superficiale, o peggio. Ma se un giorno diagnostica una brutta malattia, puoi al massimo lamentarti l’abbia scoperta in

ritardo, non sottoponendoti ai più elementari esami.

Quel che sta accadendo ora, invece, sembra una commedia dell’assurdo. Le Agenzie vengono accusate di avere addirittura causato, con una severa diagnosi, la crisi greca. Concediamolo: l’hanno fatto in ritardo (per incompetenza o subendo pressioni dai parenti di Eurolandia, preoccupati di nascondere l’esistenza di un appestato in casa?), ma ad un certo momento hanno agito. Meglio tardi che mai… Invece, ecco la levata di scudi generali, il pollice verso. Agenzie = Untori, che scatenano il panico, turbano i mercati. Perché mai? La domanda trova una risposta immediata: in questo modo, le Agenzie favoriscono la speculazione! Speculazione: ecco un altro attaccapanni sul quale appendere il bagaglio dei nostri errori. Dalle voragini dei debiti pubblici statali a quelli delle famiglie che spesso hanno perso la consapevolezza dell’antica regola, il “passo mai più lungo della gamba”. La verità potrebbe essere diversa. Le Agenzie arrivano in puntuale ritardo poiché i debitori (Grecia docet) hanno interesse a nascondere le effettive condi-


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Le piazze affari dell’area Euro in picchiata, trascinate dalla caduta di Atene

Il mercato non crede al megapiano di salvataggio europeo La Grecia affonda le Borse di Alessandro D’Amato

zioni di solvibilità. E i Governi, tramite i Ministri delle Finanze che a propria volta passano come burattini telecomandati da un summit all’altro (quando trovano il tempo per studiare i dossier?, viene spontaneo chiedere), battono con la monotonia del disco rotto sul refrain: «tutto va bene, tutto è sotto controllo, carissimi sudditi…». Finché scoppia il bubbone. A quel punto, poiché le leggi del mercato e

Sta per nascere un nuovo carrozzone comunitario destinato a stendere un velo di sodale omertà fra governanti dell’economia sono difficilmente contestabili, al pari di troppe dissennate gestioni dei bilanci pubblici, ecco la necessità di individuare i “veri responsabili”. E dai Palazzi in vetrocemento di Bruxelles e Francoforte, mostruosi santuari delle burocrazie inefficienti e per definizione irresponsabili, si leva alto e forte il grido dei vari Barroso e Trichet: 1Colpa delle Agenzie di rating…». Mentre il francese Dominique Strauss-Kahn chiosa dall’alto della cattedra di direttore generale del Fondo Monetario Internazionale: «Non bisogna troppo credere alle Agenzie». (Le Monde, 3 maggio).

Scenario surreale. Chi avrebbe dovuto sapere e vedere quel che bolliva nel pentalone sotto l’Acropoli, trasformato-

si in Ponzio Pilato, si lava le mani, promuovendo una crociata contro le Agenzie di rating.Verso questi organismi non nutro particolari simpatie, ma chiedo se risponde ad una logica di trasparenza portarle sul banco degli accusati per salvare l’anima e le poltrone dei veri “disattenti”. C’è di più. La proposta è sul tavolo: creare un organismo comunitario di controllo dei bilanci statali. Controllaticontrollori, insomma. Con un “carrozzone” aggiuntivo, destinato a stendere un velo di sodale omertà fra governanti, affinché le pecore nere si trasformino quantomeno in grigie. È accettabile dall’opinione pubblica questa politica che scandalizzerebbe financo gli struzzi? Sarebbe al contrario opportuno che tutte le carte, senza eccezioni, venissero messe sul tavolo: a scongiurare il rischio (più che reale) di altre, amarissime sorprese. Irlanda, Portogallo, Spagna. Nessuno è in grado di valutare il prezzo di un salvataggio di queste economie, ma se per tirare fuori dai guai la Grecia serviranno, ammesso bastino, 120 miliardi di euro, arriveremmo a cifre da capogiro. Insostenibil. Siamo poi così certi della sbandierata solidità dell’Italia? Il ministro Tremonti rassicura; gli osservatori internazionali sono assai più prudenti per via dell’immenso debito pubblico e delle riforme sempre ferme alla fase degli annunci.

Dopo quel che è accaduto ad Atene, tutto può accadere. Per esorcizzare il rischio, un’unica strada: la verità sui conti pubblici, in ogni paese di Eurolandia, Italia inclusa. D’altronde, al di là dell’ufficialità diplomatica, è ben noto che Francia, Germania, Paesi Bassi, puntano su un euro a due velocità. Accadesse, di quale capro espiatorio andremmo alla ricerca?

ROMA. Giù le Borse europee, trascinate dalla crisi greca e dalla debolezza dell’euro. È come se i mercati non credesseo al pacchetto di aiuti per la Grecia da 110 miliardi predisposto domenica da Eurogruppo ed Fmi. In particolare, la moneta unica è scesa sotto quota 1,31 dollari, ai minimi dal 28 aprile 2009, mentre le Borse europee hanno avuto perdite dal 2 al 3 per cento. La performance di Piazza Affari è tra le peggiori perché da noi pesano particolarmente i titoli finanziari, che è in tutta Europa il settore più colpito dalle vendite. Tutto, mentre la Grecia è un paese paralizzato e in ginocchio. Ha preso il via ieri e continuerà fino ad oggi lo sciopero di 48 ore dei dipendenti pubblici greci che protestano contro il piano di austerità concordato dal governo di Giorgio Papandreou con Fmi e Ue per accedere agli aiuti per 110 miliardi di euro. Oggi si uniranno anche i lavoratori del settore privato paralizzando aerei, treni, trasporti urbani, scuole, ospedali, banche e uffici pubblici nel terzo sciopero generale quest’anno. In coincidenza con l’inizio della protesta, alcune centinaia di militanti del sindacato comunista Pame hanno simbolicamente occupato l’Acropoli ateniese sventolando bandiere rosse e appendendo sul Partenone un grande striscione con la scritta ”Popoli d’Europa sollevatevi”. Intanto, il governatore della Banca centrale greca, George Provopoulos, ha detto che l’uscita dall’euro sarebbe «un atto criminale», mentre la Camera dei deputati francesi ha approvato il piano di aiuti. E la stampa ateniese ha puntato il dito contro la Germania: «Papaconstantinou attribuisce alla cancelliera tedesca Angela Merkel la responsabilità di avere ritardato l’applicazione del meccanismo di sostegno», determinando così rischi e costi molto più alti per la Grecia e per l’Europa, si legge sul quotidiano socialista To Vima, che cita un intervento del ministro delle Finanze ad una conferenza ad Atene. Papaconstantinou parlando al Digital Economy Forum, all’indomani dell’accordo con Ue-Fmi, ha detto che solo pochi mesi fa in Europa «si

discuteva di aiuti per 20, 30 o 40 miliardi» di euro, mentre alla fine in un’atmosfera più drammatica il pacchetto è salito fino a 110 miliardi in tre anni. Questo, ha spiegato Papaconstantinou, a causa del ritardo determinato dalle divergenze all’interno dell’Ue tra «paesi con differenti calendari politici ed elettorali».

Anche il ministro degli esteri italiano Franco Frattini ha attribuito alla eccessiva «prudenza» di Berlino almeno parte della responsabilità nei ritardi degli aiuti che hanno aggravato la situazione e aumentato i costi. Domenica il premier Giorgio Papandreou ha chiamato al telefono il collega italiano Silvio Berlusconi per ringraziarlo della sua posizione, tra le più tempestive all’interno dell’Ue, in favore degli aiuti ad Atene. Papandreou ha quindi ringraziato anche il presidente francese Nicolas Sarkozy. «Il salvataggio della Grecia targato Ue/Fmi non mette la parola fine ai sui problemi di bilancio perché resta da vedere se il Paese riuscirà ad attuare il programma di austerità per riportare sotto controllo il deficit», ha detto in una intervista a Reuters l’analista di Moody’s, Tom Byrne. «Per la Grecia è una transizione moto difficile», ha dichiarato Byrne. «Bisogna vedere se il Paese riesce ad adeguarsi alla nuova realtà e mantenere la propria coesione sociale. Questi sono i due elementi fondamentali da tenere sotto osservazione». E il brutto è che potrebbe non essere finita qui. Il piano di aiuti da 110 miliardi di euro su tre anni non copre completamente il fabbisogno di finanziamento dello Stato ellenico, ha dichiarato il ministro dell’Economia tedesco, Rainer Bruederle, rispondendo alle indiscrezioni di stampa, secondo le quali la Grecia avrebbe bisogno di 150 miliardi. Per questo Berlino si è dichiarata favorevole a una “insolvenza controllata” per quegli stati di Eurolandia che dovessero trovarsi sull’orlo della bancarotta in modo da non mettere in pericolo l’intera zona euro. E la stessa Angela Merkel ha parlato di «insolvenza controllata».


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panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Caro Bondi, c’è qualcuno di destra nel Pdl? rmai nel Pdl non c’è rimasto più nessuno che sia di destra. Il Fondatore non lo è mai stato e qualche tempo fa disse di essere di sinistra, anzi per essere più completo e ricoprire tutto ma proprio tutto l’arco costituzionale disse che Forza Italia - c’era ancora la vecchia Forza Italia, ora c’è la nuova - era un movimento di centrodestra e di centrosinistra. Il co-fondatore, alias Gianfranco Fini, è un liberale: nel tempo ha subito una evoluzione radicale e giustamente Benedetto Della Vedova è schierato al suo fianco. Il portavoce del Pdl - pare che sia portavoce - Daniele Capezzone non è mai stato di destra. I leghisti forse sono di destra ma dicono di non esserlo perché sono leghisti e ci tengono a questa loro identità. Insomma, per trovare qualcuno che si dica di destra bisogna attenere Ignazio La Russa che ha messo su in quattro e quattro otto una sorta di corrente definita proprio così, “La destra nel Pdl”, e la necessità di rimarcare la cosa somiglia un po’ a quelle indicazioni che si chiedono a qualcuno quando ci si trova in un paese sconosciuto e non si sa bene dove andare. Trovare qualcuno che sia effettivamente di destra nel Pdl non è facile.

O

Prendete il caso di Sandro Bondi (c’è sempre un “caso Bondi” in agguato). Con la sua compagna Manuele Repetti, deputata pidiellina, ha rilasciato un’intervista al settimanale A e cosa ha detto? «Io sono di sinistra. Vorrei un partito come quello di Gordon Brown». E la Repetti per completezza d’informazione ha aggiunto: «Scusi, ma lei pensa che io sia di destra? Anche io sono progressista. È patetico, ma quando hanno eletto Obama io ho pianto per la commozione». Non è specificato che abbia pianto anche Bondi, ma non lo si può escludere a priori. Il ministro dei Beni culturali e coordinatore del Pdl ha un suo passato rosso, quindi non ci si può neanche stupire più di tanto della sua dichiarazione. Però, Bondi ha anche aggiunto anche altre due cosette. Andrea Greco che lo ha intervistato gli chiede: e il presidente Berlusconi? «Umanamente è di sinistra. Simpatico, umile, ospitale. Fini invece…». Dove non si capisce bene che cosa significhi l’avverbio «umanamente». Forse, è una licenza poetica. Ma il riferimento a Fini è ancora più interessante: «Fini invece…». Proprio così, Fini non è «umanamente», bensì è disumano. Bondi lo aggiunge subito dopo: «Eh. Lui è autoritario. Perché tanti di An ora sono passati dalla nostra parte? Da noi si respira un’altra aria. Fini invece è un duro. Chiese, e ottenne, la testa di Tremonti. Ha abbandonato il suo portavoce, Sottile. Berlusconi non l’avrebbe mai fatto». Il co-fondatore è diventato in un attimo “autoritario” che è sinonimo di fascista. Come è possibile che il Fondatore, che è di sinistra, e il coordinatore Bondi, che è di sinistra, non si sono resi conto che Fini era autoritario quando hanno fondato con lui il Pdl? Mistero. Ma se il Pdl è di sinistra è bene che il Fini autoritario sia messo alla porta. È la morale della poesia.

I giornali di Ciarrapico Una truffa da 20 milioni? La finanza sequestra i beni del senatore Pdl: «Raggiro allo Stato» di Francesco Lo Dico

ROMA. Giuseppe Ciarrapico indagato dalla Procura di Roma per truffa aggravata ai danni dello Stato insieme ad altre sei persone. Tra queste il figlio Tullio. Secondo l’ ipotesi investigativa, il senatore del Pdl avrebbe incassato indebitamente contributi destinati all’editoria per importi complessivi pari a circa venti milioni di euro dal 2002 al 2007.

Quasi in contemporanea con le dimissioni di Scajola, le notizie a carico dell’ex re delle acque minerali hanno trasformato la giornata degli azzurri in una specie di rappresaglia contro il rasoio di Occam. Il primo atto va in scena a mezzogiorno. L’ex ministro arriva tesissimo in conferenza stampa, si dice vittima di un machiavellico benefattore che gli avrebbe proditoriamente regalato 900mila euro pur di attirarlo in una gabbia dorata con vista Colosseo, e se ne va indignato. Probabilmente a casa. Inevitabile pensare che nel mirino dell’ex ministro, sfuggito ai microfoni dei giornalisti, ci sia il frate francescano che nel 1300 inventò il rozzo metodo di Occam. Forse perché lui, Guglielmo, avrebbe spiegato il generoso “buono casa”di Scajola con un più prudente principio: «È inutile fare con più ciò che si può fare con meno». Il secondo atto della rappresaglia azzurra contro il metodo Occam arriva nel pomeriggio, quando piazzale Clodio fa sapere che la Guardia di finanza ha posto sotto sequestro beni per circa 20 milioni di euro tra immobili, quote societarie ed una imbarcazione di lusso facenti capo a Giuseppe Ciarrapico. Un sequestro preventivo, quello eseguito tra Roma, Milano e Gaeta dal Nucleo speciale di Polizia valutaria su disposizione del pm romano Simona Marazza, resosi necessario per «gravi fatti di fraudolente percezioni di contributi all’editoria per importi complessivi pari a circa 20 milioni di euro dal 2002 al 2007. Ma anche – attenzione – «per analoghi tentativi susseguitisi fino all’anno in corso, in danno dello Stato - presidenza del Consiglio dei ministri - dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, da parte delle società editrici Nuova Editoriale Oggi Srl ed Editoriale Ciociaria Oggi Srl». Ci si potrebbe aspettare una letale presa di posizione contro la magistratura eversiva. E il senatore del Pdl, Giuseppe Ciarrapico, non si sogna neppure di cambiare una virgola al tradizionale format azzurro: «Un avviso di garanzia non invecchia mai e può far sempre comodo se si tratta di un senatore del Popolo della li-

berta», commenta nel pomeriggio. A scorrere il casellario giudiziario di Ciarrapico, la tentazione di dargli ragione è fortissima. Si parte dal 1974, con una multa di 623.500 lire che il pretore di Cassino gli infligge per aver violato per quattro volte la legge che tutela “il lavoro dei fanciulli e degli adolescenti”. Arrestato nel 1993 per lo scandalo Safim Leasing-Italsanità (per vari miliardi di lire avuti dalla Safim Factor scontando titoli di credito inesistenti dopo aver affittato suoi immobili a Italsanità). Nel 1995 viene condannato con rito abbreviato per falso in bilancio delle Terme Bognanco. Nel 1998 viene condannato in Cassazione a 4 anni e 6 mesi per la bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano. Altra condanna definitiva nel 1999, tre anni per il crac da 70 miliardi della società che controllava la “Casina Valadier”, celebre ristorante liberty romano. Prescrizione nel ’99 (reato depenalizzato) per emissione di assegni a vuoto. E prescrizione nel 2000 per la condanna in primo grado a causa della violazione della legge sulle assunzioni obbligatorie di invalidi. Nel 2002 il Tribunale di Roma lo condanna a 1 anno e 8 mesi per truffa e violazione della legge sulle trasfusioni: circa cinquanta pazienti erano stati sottoposti a veri salassi da 3-400 mila lire ciascuno. Del marzo 2010 è invece il rinvio a giudizio per “stalking a mezzo stampa”: tramite il suo quotidiano Nuovo Molise Oggi, il senatore-editore avrebbe condotto una campagna diffamatoria giornaliera, prevalentemente a sfondo sessuale, contro la giornalista Manuela Petescia, direttrice dell’emittente Telemolise e moglie di un altro senatore del Pdl, Ulisse Di Giacomo. Un congegno denigratorio tale, che Ciarrapico si è conquistato un posto d’onore tra gli accademici di Cambridge. Il reato configurato era talmente innovativo, che il pool di studiosi britannici ha voluto studiarlo.

«Un avviso di garanzia non invecchia mai e può fare sempre comodo se si tratta di uno di noi», commenta l’editore

E siamo di nuovo a bomba. La procura di Roma contesta a Ciarrapico il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato. Ciarrapico contesta alla procura di Roma di essere un senatore del Pdl. Un’indagine vecchia, dice lui. Un’indagine «per analoghi tentativi susseguitisi fino all’anno in corso», dice la Procura. La giustizia farà il suo corso, certo. Ma intanto bisogna accontentarsi di quel maledetto frate Guglielmo e di quel suo rozzo rasoio: «A parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire».


panorama

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Con un colpo solo, e con una sola norma, si vuole scardinare l’impianto dello Stato di questi centocinquant’anni

E adesso: o l’Italia o la Padania Nelle pieghe della riforma fiscale in discussione appare la vera strategia leghista di Francesco D’Onofrio on un crescendo a volte persino tumultuoso ci si sta rendendo conto che la questione del federalismo fiscale non è una semplice, tecnica e organizzativa questione giuridico-economica ma è di fatto la questione di fondo della trasformazione dell’Italia da Stato tendenzialmente centralizzato a Stato prevalentemente delle autonomie e persino federale.

C

Sarebbe stato certamente opportuno se della trasformazione dell’Italia in senso federalistico si fosse adeguatamente trattato quantomeno durante la cosiddetta Bicamerale D’Alema o, se si vuole, al tempo della riforma costituzionale approvata nel 2005 e bocciata dal referendum popolare del 2006 o, infine, al momento in cui – nel 2008 - il Parlamento conferì delega al governo per attuare proprio il federalismo fiscale, per tale intendendosi il nuovo ordinamento tributario e di spesa dell’intero sistema delle autonomi locali, regioni innanzitutto incluse. Purtroppo non vi fu adeguato dibattito sul tema della trasformazione federalistica dell’Italia al tempo della Bicamerale D’Alema. E d’altra parte, malauguratamente la riforma costituzionale approvata nel 2005 fu respinta dal referendum popolare del 2006 più per ragioni di lettura costituzionale delle origini della Repubblica che non per la questione strutturale del mutamento dello Stato in senso asseritamente federalistico. E vale la pena ricordare che purtroppo – infine – soltanto l’Udc votò contro la delega al governo sul cosiddetto federalismo fiscale e allora non fu mai seriamente approfondita la questione del perché soltanto l’Udc si comportasse in quel modo: non si trattava infatti di avversione di principio alla trasformazione federalistica dello Stato – come pure è stato detto – ma di una impostazione del tutto razionale della questione fiscale nuova. L’Udc chiese infatti allora: chi paga (e come) il debito pubblico accumulato dallo Stato italiano?; se non

si conoscono ancora in via ragionevolmente compiuta le funzioni dei comuni, delle regioni e dello Stato, come si può procedere a distribuire le risorse finanziarie tra questi medesimi soggetti?; che fine fanno le Province – della cui soppressione si era pure ufficialmente parlato in campagna elettorale da parte soprattutto del Pdl-?; cosa sono le fantomatiche “città metropolitane”di cui pure si parla nell’ormai famigerato Titolo V della Costituzione approvato dal

domande poste da noi all’epoca si sta rispondendo con vere e proprie “affabulazioni retoriche”: si dice che non vi è questione di incremento della spesa perché il federalismo fiscale comporterebbe addirittura una riduzione complessiva della spesa medesima; si dice che si passerà dalla spesa storica considerata quasi una sorta di vergogna nazionale a mitici costi standard, che rappresentano il più mostruoso fatto di centralizzazione che l’Italia abbia mai conosciuto; si dice che gli amministratori che non rispetteranno i nuovi costi saranno puniti con il divieto di rielezione: ma su questo punto nulla si dice su come garantire questo principio di buona amministrazione. Siamo finalmente al passaggio della verità e della serietà.

La questione di fondo era e rimane la stessa:

no venute modellando non soltanto decisioni concernenti i costi degli apparati amministrativi pubblici ma anche e soprattutto le stesse culture civili di fondo?

Allorché dunque si finisce con il ritenere che la spesa storica è di per sé un fatto di spreco si deve essere consapevoli che in essa vi è certamente un prezzo dovuto alle tutele delle classi dirigenti – politiche ma non solo – che va oltre i servigi da esse resi alle popolazioni locali, regionali e nazionali amministrate, ma che non si può certamente affermare che la storia italiana è complessivamente una storia di sprechi. Non si tratta della tradizionale contrapposizione tra Nord e Sud dell’Italia, ma dei modi con i quali le diverse parti del territorio italiano si sono rapportate proprio alla centralizzazione sabaudo-francese che prevalse al tempo dell’Unità d’Italia sulle proposte federalistichecomunque minoritarie- soprattutto di Gioberti e di Cattaneo. Si può certa-

Il nodo non è la contrapposizione tra Nord e Sud, ma il modo in cui le diverse parti del territorio italiano si sono rapportate alla centralizzazione si vuole comunque attuare una qualche separazione dallo Stato italiano per dar vita ad una sostanziale pluralità di aggregati istituzionali dotati di risorse in modo tale da sconfessare sostanzialmente l’intera storia nazionale unitaria che è tale dal 1861 ad oggi o si vuole – come pur si dice soprattutto da parte della Lega Nord – una nuova articolazione fiscale dello Stato che pur rimanendo unitario

centro sinistra sul finire della legislatura 1996-2001? Nessuna risposta fu data allora all’Udc e non risulta che su questo silenzio drammatico per le sorti stesse dell’Italia si siano registrate analisi rigorose ed approfondite da parte di studiosi o di autorevoli quotidiani.

Siamo dunque ora a registrare finalmente con soddisfazione che stanno venendo al pettine tutti i nodi che solo l’Udc aveva evidenziato, perché alle

si riconosce in una pluralità di istituti territoriali regionali e in una miriade di unità territoriali comunali? Insomma, al dunque la questione di fondo rimane la stessa: quale è l’idea complessiva di Italia che si ha in mente? Si è consapevoli che questa idea complessiva ha convissuto per centocinquanta anni con una struttura sostanzialmente centralizzata, sicché su questa struttura si so-

mente trarre dalla Costituzione italiana una indicazione favorevole al potenziamento quantitativo e qualitativo di tutto il sistema delle autonomie locali – regioni comprese – come l’insegnamento sturziano ci mostra, e non solo in riferimento alla Sicilia. Si tratta dunque di una scelta di fondo: tra Padania e Italia occorre definitivamente decidersi.


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il paginone

Il filosofo e teologo americano intervista se stesso s

Noi, tra il Nulla Credenti e non credenti attraversano la stessa “notte oscura”. È diverso l’approccio nei confronti dell’ignoto di Michael Novak in questi giorni in libreria il nuovo libro di Michael Novak Nessuno può vedere Dio. Il destino comune di atei e credenti (liberal edizioni, 358 pagine, 22,00 euro). Per presentarlo ai lettori, l’autore ha scelto una forma inedita: un’intervista a se stesso che qui di seguito proponiamo. Qual è la questione centrale del tuo libro? Il primo punto è che la conoscenza di Dio dipende in larga parte dalla comprensione di se stessi, e il secondo è che possiamo e dobbiamo avere un dibattito ragionato e civile su questi argomenti, dando spazio alla testimonianza di tutti. Se si ritiene che Dio non significhi nulla nella propria vita si hanno molte più probabilità di interpretare l’esistenza totalmente al di fuori del suo sapere e della sua presenza. Steven Pinker, ad esempio, dice di essere un materialista e che nel suo mondo Dio non ha importanza, mentre altri sentono una grande forza dentro se stessi che pone loro sempre ulteriori quesiti, e riflettendo su questo giungono alla conclusione che questa pulsione illimitata sia un’apertura interiore all’infinito e al trascendente. Negare questo fatto non lascia la coscienza

È

tranquilla, dunque l’esperienza mostra ancora una volta che la conoscenza di sé ha un grande impatto su ciò che individui diversi pensano liberamente di Dio. Se è dentro di te, puoi gradualmente diventare consapevole della sua presenza, riflettere su ciò che implica e studiare come gli altri abbiano capito questo tratto della natura umana. Ha scritto Thomas Jefferson: «Il Dio che ci ha dato la vita ci ha donato, allo stesso tempo, la libertà», e dunque ognuno di noi deve chiedersi: «Chi sono io, sotto questo cielo?». Da come si risponde a questa domanda dipende molto di ciò che si pensa di Dio; su questi argomenti nessuno ha prove schiaccianti, ognuno di noi giudica nel modo più ragionevole possibile, ma tutti possono constatare quanto sia facile giungere a conclusioni opposte. Nella vita di oggi molti credenti diventano atei e tanti atei si convertono; ognuno fa queste scelte sulla base di fatti che rimangono fortemente impressi perché nessuno coglie segni diretti di Dio. La nostra conoscenza a riguardo proviene dal peso delle nostre personali esperienze di vita, inclusa quella del mondo naturale, della coscienza, l’impulso interiore a fare domande fin da piccoli, l’intenso piacere della conoscenza e la riflessione su cosa realmente facciamo quando stabiliamo che qualcosa sia vero, buono o bello. Quali riflessioni facciamo sulla nostra esistenza, anche nel semplice atto di valutare se qualcosa sia


il paginone Da sinistra: un ritratto di Michael Novak e tre quadri che rappresentano i concetti espressi nel nuovo libro (in basso la copertina) del filosofo e teologo americano: “La Trinità” di El Greco; “Persistenza della memoria” di Salvador Dalì e “L’incredulità di San Tommaso” di Caravagio

sull’uscita del suo nuovo libro

e Dio vero, buono, migliore o reale? Questo libro inizia con un’auto-scoperta ma va aldilà di una ristretta percezione di sé, e la conclusione è affidata ad un capitolo sulla fine del mondo laicista. Ci sono molti libri su fede e ateismo che invadono il mercato. In cosa si differenzia il tuo? No One Sees God probabilmente cercherà di trovare il suo particolare pubblico, grande o piccolo, tra le persone impegnate nella riflessione su ragione e libertà e quelle che, grazie a determinate esperienze personali, sono in grado di simpatizzare sia con quelli che credono in Dio che con coloro che lo cercano senza trovarlo. Questo libro guarda ai lettori che credono nei benefici di una conversazione ragionata, specialmente quelli che danno il meglio perché colpiti simultaneamente da opposte correnti. A volte nella mia vita sono stato portato verso l’ateismo; lo desideravo, vivevo la notte della reli-

gione e non sentivo niente, ma nessuno dei vari ateismi che ho incontrato (e sono stati tanti) mi è sembrato intellettualmente soddisfacente. Li sentivo evasivi; ogni tipo di curiosità che li mettesse sotto pressione veniva semplicemente definita inesistente, o al limite trattata come irrilevante. Per esempio, una domanda sul problema dell’assenza del nulla veniva scartata come un quesito che non poteva essere soddisfatto dalla scienza e dunque privo di significato, ma così è troppo facile, ed è la stessa cosa per altre domande esistenziali. Molti dei libri che si oppongono al nuovo ateismo sono nati dall’evangelismo o da altre tradizioni che fondano il loro credo sui sentimenti o su esperienze di conversione. Non ho mai trovato questo approccio utile al mio caso; io voglio andare tanto lontano quanto la ragione mi consentirà di arrivare, ed è questa la principale differenza tra il mio libro e quelli degli altri; io cerco una via razionale, una strada fondata sulla ragione, un percorso attraverso la reale struttura, costituzione e metodo della comprensione umana. Ritengo che la nostra comprensione di Dio nasca dalle domande che ci poniamo sulla nostra personale capacità di capire. È evidente che la nostra coscienza provenga da una luce sulla quale non esercitiamo alcun potere, una luce più grande di noi che spesso biasima il nostro basso comportamento, indegno della nostra razionalità, ed è evidente che il dubbio sulle nostre

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profonde convinzioni e l’indagine inesorabile della nostra comoda visione di noi stessi provengano sì da qualcosa di interiore, ma più grande di noi e non soggetto alle nostre personali illusioni. È infine evidente che siamo parte di una conoscenza più grande di noi stessi. I filosofi lo hanno giustamente capito fin dai tempi di Platone, e chiunque lo può sperimentare nella sua personale esperienza, quindi il mio è un libro di ricerca razionale di Dio, per capire se in questo compito la ragione ha possibilità di successo o è destinata a fallire. La cosa che mi ha incuriosito di più: perché hai trovato l’ateismo insoddisfacente? Prendi il tipico ateismo di un professore universitario o del mondo letterario. Perché non ti conquista? A me sembra una contraddizione insistere che tutte le cose provengano dal caso per poi dirsi razionalista. Gli atei sono irrazionali sulle grandi domande, razionali sulle cose aperte alla scienza ed “emotivi” in materia di scelte pratiche ed etiche. Nella perenne ricerca umana questo insieme non aggiunge nulla. Io posso capire perché gli atei inventino un’immagine eroica di se stessi - Prometeo per Bertrand Russell, Sisifo o la Furia contro la notte di Dylan Thomas e persino il riferimento di Milton a Lucifero che si rifiuta di essere “servo” – ma tutto questo sembra utile

Gli atei sono irrazionali sulle grandi domande, razionali sulle cose aperte alla scienza ed “emotivi” in materia di scelte pratiche ed etiche

ad una prosa letteraria d’effetto che deve coprire il vuoto di significato della vita umana. Al di là di un generico senso di ribellione per il linguaggio ambiguo, il ruvido Lincoln trovava qualcosa di concreto e reale nella propensione verso “i migliori angeli della nostra natura”. In ciò che alcuni vedevano come un sacrificio inutile – la morte durante la battaglia di Gettysburg – egli vedeva un nobile significato, in linea con la storia e il destino dell’umanità.Trova-

Nelle librerie la traduzione italiana di “No One Sees God” edita da liberal

La fede completa l’uomo Osservando il panorama religioso contemporaneo, la divisione tra atei e credenti sembra rigida. Essendosi a lungo interrogato sul fine dell’esistenza e sul significato della sofferenza, Michael Novak considera la realtà della vita spirituale molto diversa dalle descrizioni fornite dagli atei di successo e dai difensori della fede che a loro si oppongono. In Nessuno può vedere Dio. Il destino comune di atei e credenti - in questi giorni in libreria per i tipi di liberal Edizioni (358 pagine, 22,00 euro) - Novak rimodella brillantemente lo stanco dibattito che oppone la fede alla ragione. Sia atei che credenti attraversano la stessa “notte oscura” nella quale la presenza di Dio sembra assente, argomenta l’autore; e il conflitto tra fede e dubbio non proviene da differenze oggettive, ma dalle diverse attitudini nei confronti dell’ignoto. Forte della sua antica passione

per la filosofia e del suo impegno personale a favore della fede, egli dimostra che lungi dall’essere irrazionale, la prospettiva spirituale di fatto fornisce le risposte più soddisfacenti alle eterne domande sul senso dell’esistenza. La fede attualmente è una sfida, ma cionondimeno offre l’unico e coerente esito all’esperienza umana. Infine, Nessuno può vedere Dio offre a credenti e non credenti la possibilità di scoprire un terreno comune attraverso il quale riconoscere la complicata realtà dell’umana lotta con il dubbio. Novak difende il punto di vista cristiano senza i toni petulanti che così spesso caratterizzano il dibattito sulla fede; il suo nuovo modo di ragionare fa sperare che si possa trovare un diverso tipo di confronto nell’autentico rispetto della libertà.

re una scintilla divina in se stessi, secondo la maggioranza di coloro che hanno attraversato i secoli, è il difetto della razza umana. Le cose sembrano avere più senso in questo modo, ma rimane possibile pensare che la maggioranza sbagli. Pensi che l’ateismo (laicismo?) sia in ripresa? Sono rimasto sorpreso dal titolo del tuo ultimo capitolo: “La fine dell’Era laicista”. L’idea mi è stata suggerita da due scrittori agli opposti su molte questioni che hanno la capacità di capire i tempi, Irving Kristol in America e Jurgen Habermas in Germania. Kristol osserva che mentre il laicismo continua ad avanzare nelle istituzioni della vita quotidiana, il cuore delle sue convinzioni è esaurito, morto, infruttuoso. Ogni movimento che privi gli esseri umani di qualsiasi significato della loro vita alla fine si auto-condanna, mentre il professor Habermas scrive che gli attentai dell’11 settembre lo hanno scioccato al punto di riconoscere che il laicismo rappresenta una piccola isola in mezzo al mare turbolento della religione. Perfino nel mondo sviluppato, come gli Stati Uniti, la religione prospera, mentre alcuni settori della società europea sembrano essere eccezioni, ma per quanto potranno resistere? Si è notato che le coppie laiche quasi ovunque tendono ad avere pochi figli (a volte nessuno), e quindi a provocare una crisi demografica, e le società laiche sembrano ledere la fiducia in se stesse di intere culture, spingendole a pensare di essere indegne di sopravvivere rispetto a dei rivali più dinamici, in rapida crescita e persino violenti. Detto in altro modo, le società laiche mostrano una pronunciata tendenza verso il relativismo morale, e non hanno sufficiente senso comune per distinguere la decadenza morale dalla “liberazione”, o il progresso morale dal declino. Se non c’è Dio rimangono solo i criteri razionali, ma alla domanda “Perché essere razionale?” è sempre più difficile rispondere. L’Ebraismo e il Cristianesimo, lungo i millenni, hanno dimostrato una notevole abilità nel generare Grandi Risvegli in intere culture; non è chiaro se qualsiasi società laica possa fare altrettanto. Un ammirevole umanesimo laico prospera ancora tra noi, ma sembra limitato a piccole oasi ed è difficile pensare che possa diffondersi. Peraltro, gli esempi offerti da queste società laiche - che hanno ostentato cerimonie alla moda, liturgie e grandi manifestazioni per rendere l’ateismo appetibile all’immaginazione ed alla sensibilità della gente - non sono incoraggianti. L’umanismo laico sembra più adatto a pochi e forti individui e a quei rari gruppi onesti che ci sono tra le elite, piuttosto che ad una cultura intesa come un tutto, perché si fonda sulla percezione della mancanza di significato della vita umana ed offre solo il senso che i singoli individui possono darle, oppure la sua rapida negazione.


mondo

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Accuse. L’ex ambasciatore Usa all’Onu punta il dito contro le diplomazie di Russia e Cina (e spera in Israele)

Sì, hanno la Bomba Il mondo ha perso troppo tempo Prepariamoci a un Iran nucleare di John R. Bolton negoziati si trascinano verso una quarta risoluzione di sanzioni contro il programma nucleare dell’Iran, stabilita nel corso del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, anche mentre il presidente Mahmoud Ahmadinejad arriva a New York per prendere la parola nella conferenza sul Trattato di Non Proliferazione. I sostenitori delle sanzioni riconoscono che l’ultimo prodotto del Consiglio di Sicurezza non farà altro che rallentare marginalmente il progresso dell’Iran. Al Congresso, la legislazione sulle sanzioni scricchiola, ma anche questo non è altro che parte del processo meccanico. La Russia e la Cina hanno già rifiutato le proposte chiave: limitare l’accesso dell’Iran ai mercati finanziari internazionali e arrestare l’importazione di prodotti petroliferi raffinati, le cui scorte sul loro piano nazionale sono scarse. Qualsiasi nuova proposta di legge statunitense verrebbe ignorata ed evasa, dando quindi un ampio segnale simbolico. E nonostante questo, il presidente Obama si è opposto alla legge, obiettando che l’azione unilaterale degli Stati Uniti potrebbe far deragliare i tentativi del Consiglio di Sicurezza. Continuare a perseguire le sanzioni equivale a non far niente. Soste-

I

Il Medioriente intero sarà colpito dalla novità atomica: Arabia Saudita, Egitto e Turchia faranno di tutto per avere subito armi in grado di rispondere nere queste politiche va a vantaggio del solo Iran, perché gli permettono di continuare verso il suo obiettivo nucleare. Questo crea la confortante illusione di “fare qualcosa”. Proprio come la “diplomazia”aveva concesso precedentemente all’Iran il tempo e la legittimità di cui aveva bisogno, il chiacchierare sulle sanzioni adesso ha lo stesso risultato. Anche speculare su un cambiamento di regime che interrompa il programma nucleare dell’Iran nel tempo è una distrazione. Il pugno di ferro della Rivoluzione islamica, e l’intenzione di usarlo contro i dissidenti attualmente in agitazione, significa che non potremo sapere se e quando cadrà il regime.Tentativi a lungo termine di cambiare il regime, per quanto siano auspicabili, non eviteranno in tempo utile che l’Iran produca armi nucleari con il conseguente rischio di ulteriore proliferazione nella regione. Ci troviamo quindi di fronte ad una realtà dura e poco attraente. Esistono due sole opzioni: che l’Iran avrà le sue armi nucleari o che qualcuno userà la forza militare preventiva per interrompere il ciclo nucleare dell’Iran e per paralizzare i suoi programmi, almeno provvisoriamente. Non ci sono possibilità che l’amministrazione Obama userà la forza, nonostante la sua confusa e cangiante

formula sull’opzione militare sia sempre “in agenda”. Questo non riguarda Israele, che l’amministrazione sta implicitamente minacciando di non rifornire con aerei e armi perduti negli attacchi all’Iran, quindi rendendo Israele vulnerabile a potenziali rappresaglie da Hezbollah e da Hamas.

L’unica conclusione possibile è che l’amministrazione Obama è rassegnata al fatto che l’Iran abbia armamenti nucleari. Mentre i politici statunitensi non accoglieranno benevolmente questo risultato, certamente spereranno come corollario che l’Iran possa essere contenuto e trattenuto. Avendo escluso la sola alternativa immediata – la forza militare – adesso saranno senza dubbio impegnati a preparare una bella limonata da questo mucchio di limoni. La probabile strategia di Obama su contenimento/deterrenza porterà garanzie di sicurezza ai paesi vicini e promesse di attacchi americane se l’Iran userà le sue armi nucleari. Sfortunatamente per questa retorica apparentemente muscolare, il semplice fatto che l’Iran abbia armamenti nucleari da solo potrebbe alterare drammaticamente e irrimediabilmente l’equilibrio di potere del Medio Oriente. L’Iran non deve realmente usare le sue capacità per migliorare la sua influenza ne’a livello regionale ne’ a livello mondiale. Facili analogie con la deterrenza della Guerra Fredda restano dubbie, con il dato non documentato che i calcoli nucleari dell’Iran siano vicini a quelli dell’Unione Sovietica. Il regime teocratico dell’Iran e l’elevato valore riposto sulla vita nell’aldilà rende questo assunto esageratamente pericoloso. Anche se il contenimento e la deterrenza avessero più successo contro l’Iran di quanto si suggerisce, la proliferazione nucleare non si ferma con Tehran. L’Arabia Saudita, l’Egitto, la Turchia e forse altri Paesi cercheranno sicuramente, e molto velocemente, di avere armamenti nucleari in risposta. Quindi, ci troveremmo immediatamente di fronte ad un Medio Oriente multipolare nucleare che aspetta solo che qualcuno lanci la prima pietra o trasferisca le armi ai terroristi. Ironicamente, un simile attacco coinvolgerebbe anche Israele solo come spettatore innocente, almeno all’inizio. Dovremmo riconoscere che un uso israeliano della forza militare non sarebbe ne’ precipitoso ne’ sproporzionato, ma sarebbe solo un ultimo ricorso ad un’autodifesa anticipata. I governi arabi hanno già capito questa logica e la condividono ampiamente. Un simile attacco farebbe procedere gli interessi di sicurezza degli Stati Uniti e di Israele e di tutti gli Stati arabi. Ciò nonostante, è necessario che gli americani e il Congresso capiscano meglio il caso intellettuale di un simile attacco al fine di assicurare una reazione solidale da parte di Washington. Senza un’azione di Israele, nessuno dovrebbe basare i propri piani futuri su qualcosa che non sia far fronte ad un Iran nucleare.

In televisione le ragioni del Segretario di Stato di Obama

«Ma rischiamo anche a Kabul e Khartoum» Hillary Clinton spiega: «Non possiamo pensare soltanto a Teheran. Serve l’Onu» di Massimo Fazzi a presenza americana nel mondo è «vasta e articolata. Ecco perché non ci si può concentrare su un unico fronte: si rischia di lasciare che nuove falle si aprano da altre parti del mondo». Hillary Clinton, capo della diplomazia americana nell’amministrazione Obama, ha le idee chiare: l’Iran «è un problema, ma non può e non deve essere l’unico alla nostra attenzione». In effetti, a guardare la cartina del mondo, si rimane impressionati: se si mette una bandierina lì dove sono presenti truppe americane, si capisce quanto sia estesa la mano di Washington nel mondo. Se poi alle bandierine “militari” se ne aggiungono quelle che rappresentano gli interessi economici degli Stati Uniti, non rimane più spazio. Parlando allo storico “Meet the Press”, l’appuntamento domenicale della Msnbc in cui i leader politici ed economici si “confessano” davanti alle telecamere, il Segretario di Stato americano ha spiegato quali siano le priorità del governo. Lanciando anche segnali invitanti alla Cina, gigante con i piedi d’argilla che detiene di fatto l’indice della politica economica mondiale. Tuttavia non è la finanza l’argomento con cui si scal-

L

dano i motori del dialogo (talmente franco che fa paura a chi è giornalista oggi in Italia): si parte dalla guerra. E sull’Afghanistan, il Segretario di Stato parla abbastanza chiaramente. Subito dopo la grande offensiva contro la roccaforte talebana di Kandahar, la visita di Karzai e i problematici rapporti con il Pakistan, la situazione delle forze armate statunitensi appare infatti ancora più in bilico.

Non aiuta neanche il nuovo rapporto del Pentagono, che denuncia la capacità degli estremisti di infiltrarsi all’interno delle strutture governative nonostante gli sforzi americani, e attacca: «Nel sud del Paese, non siamo in grado di fermare i sostegni della popolazione e del governo locale ai fondamentalisti. Non possiamo fermarli: dobbiamo cercare di contenere le loro minacce, che potrebbero far crollare il governo legittimo di Kabul». Per la Clinton, «non è pensabile un’apertura ai talebani del governo. Ma vorrei chiarire che il rapporto va inserito nel proprio contesto, che a livello temporale va da ottobre a marzo dello scorso anno. Ma la nuova strategia americana riguardo l’Afghanistan è stata presentata al-


mondo

l’Accademia militare a fine dicembre: sappiamo tutti che i talebani sono una minaccia per noi e per il governo locale, ma ci stiamo attrezzando». Incalzata sul “patto di stabilità” che il presidente di Kabul vorrebbe stringere con gli “studiosi del Corano”, la Clinton ha aggiunto: «Credo che dovremmo innanzi tutto chiarire cosa significa stabilità. Noi parliamo di riconciliazione e reintegro, che possono suonare parole uguali ma hanno dietro concetti differenti. Il reintegro riguarda la ‘fanteria’ talebana, quei giovani che sempre di più vengono da noi e dicono di lottare perché pagati. Il generale McChrystal e i suoi ufficiali sul campo conoscono questa realtà e stanno cercando di fare il possibile per risolvere la situazione. La questione più complessa è invece quella della riconciliazione. Non conosco alcun conflitto, avvenuto nei tempi recenti, che non si sia potuto risolvere con una dinamica politica: le persone si stancano di combattere e decidono di lanciare un processo di pace. Quello che dice Karzai, un concetto che noi sosteniamo, è che è necessario guardare cosa e chi sia riconciliabile. Non tutti lo sono: non pensiamo che il mullah Omar possa venire fuori e dire che lascia al Qaeda. Ma esistono alcuni leader talebani che sono invece pronti a cambiare mentalità. E quando questo avverrà, dovranno rinunciare ad al Qaeda, alla violenza, alle armi. E sostenere la Costituzione del proprio Paese». Una posizione abbastanza netta, ma che di fatto non fornisce elementi per chiarire meglio la politica statunitense nel Paese asiatico.

sti, un nuovo segnale della discrepanza fra il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca. Sarebbe quest’ultima l’unica autorizzata a discutere del conflitto di Baghdad. Il capitolo successivo dell’intervista riguarda un altro “buco” nello scacchiere internazionale: il Sudan. Gregory, fissando la Clinton, chiede infatti: «Nel Paese africano si sono svolte le elezioni, vinte per l’ennesima volta dal

sto dove l’Occidente rischia parecchio». La situazione, a sentire la Clinton, non è rosea. Ma, con il tipico candore americano, il Segretario di Stato parla di una nuova cooperazione mondiale per rispondere a queste crisi. La cooperazione, ovviamente, deve passare da Pechino.

E, secondo la Clinton, anche da un nuovo modo di intendere la diplomazia: «Oggi, questa non significa più un rapporto fra governo e governo. Una parte del mio lavoro fino a oggi è stato esattamente quello di ricostruire l’immagine, la presenza e la leadership americana nel mondo. E il presidente Obama è il campione più forte che abbiamo, in questo campo. Ma non puoi ottenere un risultato del genere semplicemente dicendo cose sensate, o facendo discorsi importanti. Devi iniziare a metterti in contatto con i popoli di altre nazioni. E in questo senso, vorrei che questo avvenisse in tutto il mondo». Per semplificare meglio, un esempio che è anche un invito: «Prendiamo ad esempio lo Shanghai Expo. Vi parteciperanno circa 70 milioni di persone, per la maggior parte cinesi. In questo modo verranno a contatto anche con la nostra esperienza, un modo per arricchirci tutti». E per cercare di tirare dalla propria parte della scacchiera uno dei giocatori più importanti.

La nostra presenza nel mondo è molto articolata. Se ci concentriamo soltanto su alcuni fronti si può aprire una falla pericolosa da altre parti. Ecco perché abbiamo bisogno di Occidente e Cina

Nell’intervista, poi, mancano totalmente riferimenti alla guerra in corso in Iraq: secondo alcuni anali-

presidente Bashir. Secondo il Dipartimento di Stato, il Sudan è uno dei Paesi che sostiene il terrorismo. Il New York Times ha scritto nei giorni scorsi che, sin da quando è arrivato alla Casa Bianca, il presidente Obama ha più volte detto che gli Stati Uniti sarebbero intervenuti con forza per evitare una catastrofe umanitaria, in Darfur e altrove. Ma questo non è avvenuto. Bashir, ricercato per crimini contro l’umanità, ha dichiarato che l’America è nel suo taschino. Cosa ne pensa?».

Il Segretario di Stato ha risposto: «Innanzi tutto, non credo si possa prendere seriamente quello che dice il presidente Bashir. Quanto meno, io non lo prendo sul serio: voglio dire, parliamo di un criminale di guerra. Ma riguardo a quello che avviene nel Paese, va guardato con rispetto: parlo del processo elettorale. Quando sono entrata in carica, Bashir aveva buttato fuori dal Paese tutte le Organizzazioni non governative: questo avrebbe creato una crisi umanitaria senza precedenti. Noi siamo riusciti a rimettere tutto a posto, ma Khartoum rimane un po-

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l’approfondimento

Focus. Avrebbe agito da solo Shazad Faisal, arrestato ieri al John Fitzgerald Kennedy a bordo di un aereo diretto a Dubai

I trecentomila di Faisal Come vive e cosa pensa la comunità pakistana negli Usa che, dopo la confessione dell’attentatore di Times Square, è finita sotto i riflettori della polizia e del mondo intero imputazione contro il pakistano Sahzad Faisal, naturalizzato americano dal 2009 e da ieri reo confesso del fallito attentato a Time Square, offre l’opportunità di riflettere sulla presenza degli immigrati pakistani residenti negli Stati Uniti. Si tratta di una comunità relativamente giovane, insediata nel nuovo continente dopo la disgregazione dell’Impero britannico, nella seconda metà degli anni Quaranta del secolo scorso. Le statistiche più recenti (2007) parlano di circa 280mila unità, pari all’1 per cento della popolazione degli Usa. In questi sessant’anni di radicamento nel Paese, la comunità pakistana ha generato una seconda e una terza generazione, perfettamente integrate nel melting pot statunitense. Anzi, i “pakistani d’America” sono stati assorbiti con maggiore facilità rispetto ad altri popoli. Il loro bilinguismo, impostato sugli idiomi locali e sull’inglese - che resta tuttora madrelingua anche in Pakistan - ha permesso agli immigrati da Islamabad, Karachi oppure Lahore di evitare il pri-

L’

di Antonio Picasso mo grande ostacolo che si incontra nello sbarcare sulle coste degli Stati Uniti. Oggi, secondo i rilevamenti dell’Us Census Bureau, questa realtà di quasi 300mila persone non sembra essere un soggetto demograficamente in crescita. I nuclei della maggiore concentrazione sono gli Stati di NewYork, dove sono presenti circa 70mila pakistani, l’Illinois e il New Jersey, entrambi con 30mila abitanti, la California (25 mila) e il Texas, dove c’è una comunità pakistana di 20mila persone. Il resto è distribuito in modo disomogeneo negli altri Stati dell’Unione. C’è un motivo particolare che spiega la densità immigratoria in queste specifiche aree piuttosto che in altre. Tendenzialmente gli Stati sulla costa sono più popolati, rispetto a quelli all’interno del Paese.

Da un punto di vista socio-culturale, questi ultimi costituiscono la cosiddetta God’s belt, una fascia geografica che si estende dai confini con il Canada e scende fino al Messico ed è abitata da una popolazione di maggioranza bianca, di stampo ultra-conservatore e quindi poco incline a ricevere flussi migratori provenienti da Paesi tanto diversi, com’è il Pakistan. La scelta degli Stati appena elencati è connessa con gli spazi offerti dal mercato del lavoro. Nella maggior parte

Dopo le Twin Towers, gli esuli hanno fatto di tutto per evitare relazioni pericolose

dei casi si tratta di individui privi di una specializzazione professionale e disposti a entrare nel mondo del lavoro come operai e braccianti agricoli. I bacini industriali di New York-New Jersey e quello di Chicago (Illinois) occupano i primi posti della classifica. Il Texas ha saputo impiegare gli immigrati pakistani nelle sue sterminate aziende agricole. Si registra inoltre una immigrazione “di settore”, in parte fatta da professionisti (medici e ingegneri), concentrati soprattutto in Ca-

lifornia e ancora una volta New York, e per il restante composta da pakistani che hanno avviato una propria attività commerciale di vario tipo, in particolare i 24h market e ristoranti. Dal punto di vista economico, si tratta di una comunità più che benestante. La presenza negli Usa da circa sessant’anni ha permesso ai pakistani di disporre una forte solidità economica. In cifre questo si traduce in una media di 50mila dollari di reddito pro capite annuo. Questo ha permesso alla maggioranza dei pakistani statunitensi di dotarsi di un adeguato patrimonio immobiliare, di essere inserita nella complessa rete assicurativo-sanitaria nazionale, ma al tempo stesso non ha fatto rinunciar loro alle“rimesse”nella madrepatria. Nel biennio 20072009, la comunità pakistana negli Usa ha girato a parenti e amici rimasti nel Paese di origine circa 1,72 miliardi di dollari. Questo porta a due conclusioni. Da una parte si è di fronte a una ingente liquidità monetaria. Il caso esemplare si è avuto cinque anni fa, in occasione del terremoto che devastò il Pakistan e


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Situati nel nord dell’isola, sono legatissimi alle loro radici e all’islam sunnita radicale

E ora il problema si sposta nell’Inghilterra di Benazir Bhutto Gli anglo-pakistani sono tanti, ricchi e socialmente influenti. E durante l’esilio dell’ex primo ministro hanno preso contatti con i talebani di Vincenzo Faccioli Pintozzi enazir Bhutto è morta, e su questo non c’è dubbio alcuno. Uccisa dall’allora presidente Musharraf, uccisa dai talebani di Mehsud, uccisa dal marito Asif Ali Zardari: su questo non c’è unanimità. Resta però, a sua imperitura memoria, l’eredità che ha lasciato al proprio Paese – quel Pakistan che la celebra come una martire – e all’Occidente. Che forse non l’ha venerata ma di certo l’ha pianta: alta, bellissima, colta, di impronta inglese e figlia di un eroe. Si è gettata un’ombra pietosa sul suo esilio, imposto dal governo pakistano del 1999, e sull’impronta imposta sulla comunità pakistana in Gran Bretagna. Parliamo del diciassette per cento della popolazione, economicamente molto influente e socialmente parte integrante della ripresa della “Perfida Albione”. Sotto la sua egida, hanno preso l’avvio alcune delle attività destinate ad aggiungere il suffisso –stan nel vocabolario british. La Bhutto ha consigliato ai suoi concittadini l’acquisto del libro dal titolo Comunità musulmane in Stati non musulmani, in cui il Consiglio musulmano d’Europa spiegava quali dovevano essere gli obiettivi degli islamici nel Vecchio Continente. Nel capitolo I problemi delle minoranze musulmane e le loro soluzioni, l’imam Ali Kettani chiedeva ai confratelli che vivono in Paesi non musulmani di riunirsi e organizzarsi al fine di stabilire una comunità basata su principi islamici. Li invitava a fondare moschee, centri sociali e scuole coraniche. E a resistere all’integrazione o all’assimilazione con il resto della popolazione, a meno che ciò avvenisse al fine di diffondere il messaggio dell’islam. L’obiettivo ultimo di questa strategia, scriveva l’autore, «è quello di diventare maggioranza e governare il Paese in cui ci si trova secondo la legge musulmana». Da allora, in Gran Bretagna, la presenza islamica è andata aumentando in modo considerevole, arrivando a 1, 6 milioni di persone secondo le stime ufficiali (ma si parla di tre milioni). Ed è cresciuta anche la determinazione di almeno alcune frange di imporre la propria cultura e i propri costumi. Il primate della Chiesa Anglicana, Rowan Williams, ha sconcertato il Paese sostenendo che è ormai inevitabile adottare alcuni aspetti della shari’a, la legge coranica che domina i Paesi musulmani. Eppure, l’acceso dibattito scaturito dal suo intervento ha faticato a prendere atto di una realtà che già esiste in Gran Bretagna da più di vent’anni: quella delle corti islamiche. Gli Islamic Councils si occupano di risolvere dispute relative a controversie familiari dei musulmani britannici, se-

B

condo quanto dettato dalla legge islamica. Di solito hanno sede all’interno di moschee, scuole coraniche o associazioni e decidono prevalentemente in materia di divorzio, questioni finanziarie o ereditarie. Non esistono solo nella tollerante e multiculturale Londra: sono presenti in tutto il Paese. La più importante, il Consiglio della shari’a islamica, si trova a Leyton. La più controversa è a Dewsbury, nel West Yorkshire, città di Mohammed Siddique Khan, il kamikaze principale responsabile dell’attentato a Londra del 7 luglio 2005, in cui persero la vita 52 persone. La corte islamica di Dewsbury risiede all’interno di quello che un tempo era un tradizionale pub inglese ed è registrata ufficialmente come ente benefico per godere di esenzioni fiscali. Non sono solo i cristiani ad opporsi a una legislazione a due corsie.

Il Consiglio musulmano della Gran Bretagna, un’organizzazione non sempre moderata nelle sue prese di posizione, si oppone al sistema duale. «L’islamizzazione dell’Europa sta diventando inarrestabile», denuncia Patrick Sookhdeo, canonico anglicano, difensore dei cristiani perseguitati nel mondo con la sua associazione Barnabas, consulente dell’esercito britannico e della Nato. «Alcuni cristiani - sottolinea Sookhdeo, che è nato in una famiglia islamica e solo in età matura si è convertito - dicono che è troppo pessimista chi predice un passaggio del Continente alla religione musulmana entro la fine del secolo. Ma non si può dimenticare che le regioni oggi comprese nei confini dell’Afganistan e del Pakistan erano un tempo cristiane, così come il nord Africa. L’avanzata dell’Islam ha completamente sradicato la Chiesa da quelle zone. Sarebbe dunque molto azzardato pensare che una cosa del genere

non possa mai accadere in Europa». E prosegue: «I musulmani non vogliono integrarsi, puntano a prendere il controllo della società. È per questo che tendono a stabilirsi in determinate zone e a raccogliersi in moschee finanziate da ricchi uomini d’affari sauditi dove ascoltare la predicazione di imam che giungono qui dai Paesi islamici». In Gran Bretagna, la comunità è concentrata nel NordOvest, nelle Midlands e a Londra. Alcune di queste zone sono off limits per i non musulmani; in altre, cristiani quotidianamente subiscono minacce verbali e aggressioni. Nella terra di Sua Maestà, l’islam sta muovendo passi particolarmente rapidi perché è aiutato anche da un atteggiamento molto british, che ha origine nel timore di violare il codice della correttezza politica. Basti qualche esempio: nelle scuole, negli ospedali e nelle prigioni, viene spesso servita a tutti carne halal (macellata secondo il rito musulmano) per non urtare gli islamici; in classe, le ragazze musulmane, a differenza della Francia, possono indossare il velo; nel quartiere londinese di Tower Hamlets sono stati cambiati i nomi di alcuni distretti perché quelli originali avevano «ascendenze troppo cristiane». In molti istituti statali lo studio delle origini dell’islam ottiene spesso la precedenza rispetto al cristianesimo. Non solo: un numero sempre maggiore di università del Regno Unito riceve fondi dall’Arabia Saudita a condizione che gli atenei promuovano una certa linea di pensiero in sintonia con la fede musulmana. Londra o Londonistan, com’è spesso chiamata per la deriva islamica - è una città in cui hanno trovato a lungo asilo esponenti del terrorismo internazionale. Con l’aiuto della povera Benazir.

provocò 79mila morti. In quella occasione dagli Usa giunsero i fondi più cospicui. Dall’altra abbiamo la conferma del tuttora attaccamento al Paese d’origine per gli immigrati, ma anche per le generazioni successive. L’identità pakistana viene conservata nell’ambito religioso e culturale. La maggior parte degli immigrati infatti è rimasta fedele all’islam, in particolare quello sunnita. Gli sciiti, i cristiani e gli zoroastriani presenti negli Usa sono per lo più rifugiati politici, scappati dall’instabilità religiosa che il Pakistan continua a presentare. Una differenza importante riguarda invece le tensioni etniche e tribali. La convivenza impossibile che si vive in Pakistan fra sindi, punjabi, pashtun e balochi - fonte strutturale degli scontri armati in seno al Paese non è stata “importata”in America. La frammentazione c’è, ma non si corre il rischio che essa sfoci in confronti diretti, in quanto ciascuna realtà tiene le debite distanze dai propri avversari.

Ogni comunità etnica ha copiato in modo speculare quella originaria in Pakistan. Il leader locale svolge le funzioni di capo tribù, mantiene i contatti con le singole famiglie, ne segue la loro condizione economica e l’educazione dei figli, ma soprattutto gestisce i contatti con la madrepatria. È un fenomeno che si riscontra anche nelle comunità pakistane d’Europa, nella fattispecie quella italiana di Brescia.Vista da questa prospettiva l’integrazione c’è ed è solida. Lo dimostra anche la presenza di una lunga serie di organizzazioni e associazioni pakistane, riconosciute dalle leggi federali Usa e attive nei settori professionali, per esempio l’Association of Pakistani Physicians (App) e la Us-Pakistan Business Council (Uspbc). Altre sono state istituite a scopo benefico e si concentrano nell’ambito della educazione, mettendo a disposizione borse di studio universitarie sia per i giovani pakistani con cittadinanza americana sia per quelli che intendono immigrare negli Usa. È probabile che Sahzad Faisal abbia usufruito di queste agevolazioni per raggiungere New York. La solidità di questo sistema è stato messo a dura prova dopo l’11 settembre 2001. La psicosi collettiva di identificare in ciascun musulmano un potenziale terrorista si è diffusa nel cuore della società americana. Dalla tolleranza si è passati alla diffidenza. Nella loro generalità tuttavia, i pakistani naturalizzati negli Usa hanno dimostrato fin da subito di volere e potere contribuire alla prevenzione di attacchi terroristici alla pari delle altre comunità. Per questo, il fatto che Faisal sia cittadino degli Stati Uniti da solo un anno, lascia presupporre alcune falle nel sistema di controllo sia da parte delle Autorità Usa sia all’interno della comunità pakistana, la quale nutre tutto l’interesse a evitare di passare come filo-talebana.


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Africom. Sotto il nuovo comando del Pentagono, prime manovre congiunte mericani, africani ed europei insieme per combattere il terrorismo. Sono partite in Burkina Fasu e Mali le manovre militari sotto l’egida di Africom il neonato comando militare del Pentagono per l’Africa che ha varato una nuovo concetto operativo. Si tratta della condivisione del comando tra Pentagono e dipartimento di Stato, una ripartizione di responsabilità tra civili e militari che accorcia molto la catena di comando, portandola direttamente sul campo d’azione. Si chiama Flintlock 10 Excercise e coinvolgerà i Paesi dell’area del Sahara-Sahel nella parte occidentale del continente nero fino al 23 maggio. Proprio la zona dove da diversi anni ha messo radici l’organizzazione Al Qaeda in the islamic Maghreb (Aqmi), ma non mancano neanche problemi legati al traffico di esseri umani e di droga. Non contenti degli impegni in Medioriente e Centrasia gli americani, nel 2007, hanno varato un’altra iniziativa. Il dipartimento della Difesa, ancora sotto l’amministrazione G.W. Bush, decise di costituire dal nulla un nuovo comando militare per l’Africa: Africom.

A

Il primo ottobre del 2008 il comando divenne operativo nella sede di Stoccarda in Germania. Molti Paesi africani, soprattutto quelli della fascia subsahariana hanno temuto un ritorno della politica neocoloniale, al traino degli uomini in divisa. Per non parlare degli obiettivi della missione che, secondo Foreign Policy, non sarebbero chiari a tutt’oggi. Uno di questi sarebbe quello «di combattere il terrorismo» e «condurre programmi e attività militari, e altre operazioni militari dirette a promuovere un ambiente stabile e sicuro in Africa a sostegno della politica estera degli Stati Uniti». Per capire questa iniziativa bisogna pensare alla concorrenza con la Cina per le risorse energetiche, e alle considerazioni operate dall’Intelligence per cui l’Africa fornirà all’America del Nord il 25

Usa ed Europa contro il terrorismo “nero” Truppe speciali per combattere salafiti, traffico di droga e di esseri umani di Pierre Chiartano

gio, Olanda, Francia, Spagna e Inghilterra. Uno degli obiettivi delle manovre è quello di sviluppare l’interoperabilità tra le forze armate dei vari paesi partecipanti. La struttura a rete del nuovo comando del Pentagono per l’Africa, oltre ad avvalersi di tutte le ambasciate disseminate nei 40 Stati africani e delle missioni militari già esistenti, ha un suo quartier generale.

Si tratta della base di Stuttgart-Moehringen in Germania, dove lavora uno staff di circa 1.300 uomini, al comando di cui metà sono civili appartenenti al dipartimento di Stato e altre agenzie governative non legate agli uomini in divisa. Il lavoro principale è quello di coordinamento con le ambasciate e gli uffici della Defense cooperation per migliorare i rapporti bilaterali con le strutture militari dei Paesi africani. E naturalmente il perseguimento della lotta al terrorismo e al controllo sulla diffusione. Le risorse finanziarie messe a disposizione di questa nuova struttura sono state di 50 milioni di dollari per il 2007, 75,5 milioni nel 2008 e di 310

Flintlock 10 exercise coinvolge i Paesi dell’area del SaharaSahel nella lotta all’estremismo per cento di petrolio entro il 2015, come si può leggere sul documento – già datato – della Direzione nazionale dell’intelligence Usa «Global Trends 2015». L’Africom – al cui comando si trova il generale William ”Kip”Ward – riguarda tutti i Paesi del continente, tranne l’Egitto. Alle manovre appena iniziate prenderanno parte circa 1.200 militari, compresi 600 uomini delle forze speciali Usa, 400 delle forze armate africane e 150 militari europei. Alle manovre partecipano anche l’Algeria, il Marocco, la Mauritania, la Nigeria, Il Senegal, il Chad e la Tunisia. Dall’Europa i contingenti provengono da Bel-

I fondamentalisti tra gli obiettivi primari

L’al Qaeda d’Africa Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (Gspc) è un gruppo terrorista islamista nato negli anni Novanta, nell’ambito della guerra civile algerina con lo scopo di ribaltare il governo ed istituirvi uno Stato islamico. Con il declino del Gruppo islamico armato (Gia), il Gspc restava il maggiore gruppo ribelle, con circa 300 guerriglieri nel 2003. Nel 2005 si è affiliato ad Al-Qaeda, rinominandosi «Al Qaeda nel Maghreb islamico» (Aqim). Il punto di svolta era stata la presa in ostaggio di 32 turisti nel Sahara algerino, nel marzo 2003. L’esercito algerino avrebbe liberato uno dei due gruppi in maggio, mentre l’altro gruppo si sarebbe rifugiato in Mali e avrebbe rilasciato gli ostaggi in agosto dietro paga-

mento di 5 milioni di euro di riscatto. Entro la fine di gennaio 2004, le forze algerine e maliane sostenevano di aver stanato il Gspc dal Mali e di averli inseguiti fino al massiccio del Tibesti in Ciad, dove in tre giorni asserivano di aver ucciso 43 terroristi. Il loro capo Saifi Ammari, detto Aberrazak ”El Para”, sarebbe sfuggito, finendo ostaggio nelle mani dei ribelli ciadiani, e attraverso mediazione libica riconsegnato poi all’Algeria, dove era stato già condannato all’ergastolo in contumacia. L’apporto americano all’operazione militare, inizialmente smentito, venne poi quantificato dal dipartimento di Stato in cento soldati e un velivolo di supporto, più dell’equipaggiamento per le forze del Ciad.

milioni nel 2009. E l’amministrazione Obama ha fatto una previsione di spesa di 278 milioni di dollari per il 2010.Tra le componenti militari c’è la 17ma Air Force, riattivata nel 2008 dopo essere stata sciolta nel 1996. È attualmente dislocata nella base tedesca di Ramstein. Attualmente è composta dal 42mo Expeditionary Airlift Squadron, con un paio di C130 Hercules. Poi c’è la nuova componente dei marines, al comando del generale di brigata Tracey Garrett. Si tratta dello Us Marine Corps Forces Africa (MarForAf), attivato nel novembre del 2008. Nel dicembre del 2008, il Pentagono aveva annunciato che sia il comando dello Us Army che quello della Navy di Africom sarebbero stati installati in Italia. Rispettivamente a Vicenza (fatto che provocò le note polemiche sulla base Dal Molin) e a Napoli. Esiste anche un comando per le operazioni speciali (Socafrica) che prederà il controllo delle già esistenti task force per l’area subsahariana e per il Corno d’Africa.


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Il premier: «Votate LibDem per impedire un governo Tory»

Ma il mondo critica le frasi del direttore generale, cinese

Un’altra gaffe di Brown chiude la campagna elettorale

L’Oms loda la sanità nordcoreana: «Invidiabile»

LONDRA. Ultime battute della

SEOUL. Le dichiarazioni del direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità sullo stato del servizio sanitario in Corea del Nord «servono soltanto ad accreditarsi con il dittatore di Pyongyang, Kim Jong-il, in visita ufficiale in Cina. Il fatto che il direttore sia una signora cinese, Margaret Chan Fung Fu-chun, non è un caso e dimostra come Pechino sfrutti ogni palcoscenico internazionale e ogni carica che ottiene per fini propri». Lo dice all’agenzia AsiaNews un operatore della Caritas coreana, anonimo per motivi di sicurezza: ogni due mesi, infatti, gli viene permesso di entrare nell’ultimo regime comunista del mondo per portare aiuti sanita-

campagna elettorale britannica prima dell’apertura delle urne di giovedì: i Labour, sotto il peso dei sondaggi che li danno in caduta libera, hanno deciso di giocarsi la carta della disperazione: il “voto tattico” per tentare di strappare consensi ai conservatori di David Cameron spostandoli verso i liberaldemocratici di Nick Clegg. A sostenere apertamente la nuova strategia è stato il ministro dell’Istruzione laburista, Ed Balls.

Il Daily Mirror, notoriamente vicino ai laburisti, ha dedicato la sua prima pagina a una guida anti-Cameron dal titolo: «Come salvare la Gran Bretagna dall’incubo dei Tory». La nuova tattica laburista potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio, perché sono ormai settimane che la strategia dei conservatori è basata proprio sullo slogan «un voto per i Lib-Dem è come un voto per Gordon Brown». Infatti il candidato conservatore, prima di volare in Scozia per un appuntamento elettorale, ha sottolineato il paradosso di una strategia ormai adottata scopertamente. «Quello che sembra stia avvenendo è che i laburisti dicono: se vuoi riportare Brown a Downing Street, devi votare liberal-democratico», ha spiegato Came-

Thailandia, accordo fatto (ma con riserva) Il premier e le Camicie rosse verso la riconciliazione di Osvaldo Baldacci

BANGKOK. Accordo fatto. Dopo mesi di tensione la Thailandia rimanda la crisi. Per ora. Perché per dire che è archiviata bisognerà aspettare i prossimi mesi, le elezioni anticipate, il loro esito e soprattutto come esso verrà accolto dalle parti in causa. Ieri le camicie rosse, l’opposizione da mesi in piazza, hanno risposto positivamente alla proposta del premier in carica Abhisit. Hanno però dichiarato di non voler metter fine ancora alle manifestazioni di massa nel cuore della capitale chiedendo al premier di sciogliere subito il Parlamento per annunciare nuove elezioni. Il piano di riconciliazione nazionale presentato da Abhisit prevede di andare a nuove elezioni il 14 novembre, con un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale del mandato del governo nel dicembre 2011. Abhisit ha sottolineato che sarebbe stato appropriato concludere la protesta entro oggi, anniversario dell’incoronazione dell’82enne re Bhumipol. Parlando alla nazione in tv però, ha precisato che la sua proposta è vincolata a un piano di riconciliazione in cinque punti, intorno a cui ci dovrà essere consenso comune. Le cinque condizioni sono il rispetto della monarchia, più uguaglianza sociale, media imparziali, una inchiesta indipendente sulla crisi politica e un confronto sulle riforme costituzionali. Le camicie rosse - i sostenitori dell’ex primo ministro Thaksin Shinawatra - hanno accolto la proposta ma senza rinunciare a manifestare alcune perplessità. «Ci può andar bene partecipare a un processo di riconciliazione nazionale, ma vogliamo più chiarezza», hanno detto Nattawut Saikua e Veera Musikapong, due dei leader del movimento, dal palco eretto presso la Ratchaprasong Interestection, nel centro della capitale. «La riconciliazione non può essere imposta - ha aggiunto Jatuporn Prompan, un altro dei capi - Vi faremo vedere le foto dei soldati attorno a Ratchaprasong, se pensate che questa sia Riconciliazione». I capi dei “rossi” hanno inoltre specificato di non essere in cerca di un’amnistia, sfidando però il governo ad ac-

cusarli di «terrorismo e attentato alla monarchia», come più volte ventilato dalle autorità di Bangkok. Un’altra richiesta riguarda la sospensione del blocco contro i media vicini al movimento, tra cui una tv e diversi siti Internet oscurati nelle ultime settimane. L’ex premier thailandese - ancora amato dai manifestanti antigovernativi di cui è considerato il sostenitore neanche tanto occulto - ha dichiarato di considerare positivo il piano di riconciliazione. Intervenendo con una telefonata a una riunione del partito Pheua Thai, che riunisce i suoi fedelissimi, Thaksin - in autoesilio dopo il colpo di stato che l’ha deposto nel 2006 - ha detto che «per il movimento delle camicie rosse, il momento è propizio per accettare la proposta del primo ministro». Da anni la Thailandia è divisa tra le camicie rosse e le camicie gialle. Le prime sono legate alle genti rurali e alle classi meno avanzate, e hanno riposto la loro fiducia nel magnate Thaksin Shinawatra, tycoon tv, che stravinse le elezioni e fu primo ministro fino al 2006, quando dopo una serie di crisi e accusato di corruzione venne deposto e fuggì in esilio.

Risposta positiva dell’opposizione al piano del governo che prevede di andare a nuove elezioni il 14 novembre

ron. Il premier, intanto, ha fatto sapere che si assumerà la «piena responsabilità» sull’esito delle elezioni e ha sottolineato che i giochi sono ancora aperti: «Migliaia di persone devono ancora decidere» per chi votare, ha assicurato Brown che deve fare i conti anche con il “fuoco amico”. Uno dei candidati laburisti per la circoscrizione del North-West Norfolk, Manish Sood, ha parlato di lui come del «peggior primo ministro che la Gran Bretagna abbia mai avuto». «È una disgrazia ha detto in un’intervista al quotidiano locale Lynn News Brown è una vergogna e dovrebbe chiedere scusa al popolo britannico e alla regina».

La giunta che seguì andò a nuove elezioni che il partito dei rossi vinse di nuovo, ma altri problemi portarono alla cacciata del nuovo premier e al ribaltone in Parlamento con l’attuale maggioranza, in parte espressione delle camicie gialle che erano gli oppositori di Thaksin, legati alle classi urbane del Paese. La monarchia e l’esercito, elementi fondamentali dell’equilibrio politico, hanno cercato negli ultimi anni di mantenere una certa neutralità, anche se è evidente che gli alti quadri non hanno grande simpatia per i rossi, che però sono popolari fra i soldati semplici. La crisi si è accentuata da novembre, con le proteste dei rossi a Bangkok, con una grave accelerazione da marzo, con l’assedio al Parlamento, l’occupazione del centro della capitale, i manifestanti accerchiati dai blindati, lo stato d’emergenza proclamato per la quarta volta dal 2008, e scontri che hanno causato 27 morti e mille feriti.

ri e alimentari. Il riferimento è alle dichiarazioni rilasciate dalla Chan dopo una visita ufficiale in Corea del Nord.

Dopo un viaggio di due giorni e mezzo, in cui ha visitato quasi esclusivamente la capitale, il funzionario ha definito il servizio sanitario del Nord «invidiabile. Molti Paesi in via di sviluppo non hanno l’abbondanza di medici che si può permettere la Corea. Parliamo di un medico ogni 130 famiglie, quasi un record per la regione asiatica». Il rappresentante dell’Oms non ha specificato però che Pyongyang non permette a nessuno di abbandonare il suolo nazionale.Inoltre, spiega la fonte di AsiaNews, «parliamo di medici quasi esclusivamente fatti di carta straccia. In Corea del Nord basta un diploma quasi regalato per dichiararsi medico, e i figli dell’elite che decidono di studiare Medicina sono molti, proprio per la facilità degli studi. Lo dimostra il fatto che, quando la situazione nel Paese si fa veramente grave – per epidemie di tubercolosi o di altre malattie infettive – il regime permette ai medici della Caritas del Sud di entrare nel Paese e portare un vero aiuto alla popolazione».


società

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Miti incrollabili. Viaggio nelle straordinarie imprese agonistiche, ma anche umane, dell’uomo-simbolo che ha incarnato in tutto e per tutto lo spirito di un’epoca

Dieci anni senza Bartali Moriva il 5 maggio del 2000 il grande “Ginettaccio”, intramontabile icona del ciclismo italiano (e non solo) di Massimo Tosti o stesso giorno di Napoleone, il 5 maggio. Ma lui, Ginettaccio, era di tutt’altra pasta. Vinceva, come Bonaparte, ma non covava ambizioni imperiali. Una volta - nel 1948 - gli fu offerta una candidatura a Montecitorio dalla Democrazia Cristiana. Lui rispose alla sua maniera, scuotendo la testa: «A ciascuno il suo mestiere». “Ofelè fa el to mestè”, dicono i milanesi: pasticciere, fa il tuo mestiere. L’originale sarebbe apparso improbabile nella sua bocca da toscano purosangue, nato a Ponte a Ema, sobborgo fiorentino, il 18 luglio 1914. Se ne andò in punta di piedi il 5 maggio del 2000, dieci anni fa. Ma gli italiani soprattutto i meno giovani - lo conservano stretto nella memoria, insieme con il suo rivale Fausto Coppi. Con un ricordo differente, anche se l’Italia degli anni Cinquanta era divisa a metà, fra bartaliani e coppiani.

L

campi di concentramento. Corse grossi pericoli, ma nella penombra, senza mai tradire il suo carattere schivo. Tant’è che ci vollero molti anni perché venisse alla luce la consistenza del ruolo da lui svolto. Nel 2005 gli fu conferita, alla memoria, dal presidente della Repubblica Ciampi la medaglia d’oro al merito civile per aver salvato circa ottocento cittadini ebrei, collaborando «con una struttura clandestina che diede ospitalità e assistenza ai perseguitati politici e a quanti sfuggirono ai rastrellamenti nazifascisti dell’alta Toscana». Quando - negli anni

più tardi, «c’era il verde dei campi. Le strade che vi arrivavano erano tutte a saliscendi: percorsi invitanti per chi avesse potuto pedalare. Così la mia passione per la bici mi portò a usarla per andare a scuola, tutti i giorni, con i compagni del paese e di altre frazioni limitrofe. Prendevamo sempre la strada più lunga e la sera, al rientro in famiglia, avevo nelle gambe almeno una ventina di chilometri. Naturalmente durante la “gita” con i compagni di classe, e anche in quelle che facevo per passione, alla domenica, nasceva spontaneo l’agonismo. Nelle piccole batta-

glio del 1931. Alla partenza, raccontò ad alcuni rivali che il giorno prima aveva festeggiato il compleanno. Arrivò al traguardo con un buon distacco. Gli consegnarono la coppa e un mazzo di fiori, ma pochi minuti dopo si ripresero l’una e gli altri. La corsa era riservata ai ragazzi fino ai sedici anni. Gli sconfitti fecero la spia, e gli organizzatori lo squalificarono. A Gino dispiacque soprattutto per i fiori: «Peccato per la mamma» raccontò al fratello minore Giulio: «Erano per lei».

Giulio seguì le orme di Gino, diventando ciclista anche lui. Morì nel 1936, investito da un’automobile mentre correva in una gara regionale per dilettanti. Anche in questo dolore familiare, Bartali e Coppi si trovarono uniti. Nel 1951 morì il fratello minore di Fausto, caduto nella volata finale al giro del Piemonte. Giulio fece appena in tempo a godersi la prima vittoria del fratello maggiore al Giro d’Italia: ma si perse le due imprese epiche: i successi al Tour de France nel 1938 e nel 1948, a dieci anni di distanza l’una dall’altra (un record mai uguagliato da nessun altro corridore). Quello del 1938 lo ripagò delle amarezze dell’anno precedente, quando da Roma gli giunse l’ordine di ritirarsi, dopo che una caduta disastrosa (era finito in un torrente, rischiando di morire annegato) sembrava aver compromesso la sua classifica. Il regime preferiva un ritiro a una sconfitta a Parigi. Quello del 1948 è passato alla storia per via dell’attentato a Togliatti (che aveva scatenato la piazza rossa) e dell’euforia che invase le stesse piazze alla notizia del suo trionfo. È probabile che la rivoluzione non ci sarebbe stata neppure se Bartali fosse uscito sconfitto dal Tour, ma le leggende non vengono mai imbastite sulle mezze figure. Bartali era uomo da leggenda, come Coppi, e come la storia (che li accomunò) della borraccia al Tour del 1952. Chi l’aveva offerta e chi l’aveva ricevuta? Il ciclismo, oltretutto, era a quei tempi enormemente più popolare di oggi, anche perché le bici-

Non solamente la sua indiscutibile classe in bicicletta, ma pure la sua ostinata tenacia e la sua incorruttibile onestà lo portarono a vincere più volte Giro d’Italia e Tour de France

Fausto è rimasto per tutti il campionissimo su due ruote, con una fama non offuscata dalle vittorie successive di Eddy Mercx. Gino è qualcosa di diverso (e di più). La sua classe in bici non si discute: se la guerra non l’avesse privato (appiedandolo) dei sei o sette anni della maturità atletica, probabilmente sarebbe passato alla storia come il più grande di sempre: dei Binda e dei Girardengo che l’avevano preceduto, di Coppi che gli si affiancò nella seconda parte della carriera, del cannibale belga che venne dopo. Ma proprio la guerra mise in luce le sue qualità umane, superiori persino alle capacità agonistiche. Gino non era uomo da compromessi. Negli ultimi anni del fascismo aveva mostrato in più occasioni la sua insofferenza per le direttive del regime, che coinvolgevano anche gli sportivi di successo. E qualche gerarca se l’era legata al dito, ostacolando - per quanto possibile - la sua carriera di campione. Quando l’Italia scese in guerra, Bartali non si tirò indietro quando gli fu chiesto di aiutare gli ebrei che rischiavano di finire nei

immediatamente successivi al conflitto - trapelarono le prime notizie sul suo contributo umanitario, a chi gli manifestava ammirazione (o gli chiedeva di raccontare quel che aveva fatto) rispondeva di «aver fatto solo il suo dovere». Quello di eroe non lo considerava il “proprio mestiere”. Lui era un ciclista, e niente di più. La sua vocazione la scoprì da bambino: merito di una bicicletta usata, praticamente un ferrovecchio, regalatogli dal padre. «Intorno a casa nostra», raccontò tantissimi anni

glie di emulazione, ebbi modo di emergere spesso sugli altri».

La stoffa c’era. A 13 anni, abbandonata la scuola, Gino si offrì come apprendista meccanico nella bottega artigiana di un certo Oscar Casamonti, che sarebbe stato il suo talent scout e il suo primo direttore sportivo (oltre che il suo primo sponsor: fu Casamonti a regalargli la prima bici da corsa). Bartali vinse la prima corsa alla quale prese parte a 17 anni. Anzi - per la cronaca, e per la storia - a 17 anni e un giorno. Era il 19 lu-

clette - prima degli scooter e delle automobili - avevano ingorgato le strade della Penisola. Lo stesso anno del secondo trionfo di Ginettaccio al Tour e dell’attentato di Pallante Vittorio De Sica girò Ladri di biciclette: il furto di una bici era il paradigma della condizione di miseria dell’Italia di allora.

Molti anni più tardi, Paolo Conte avrebbe alimentato ulteriormente le leggende cantando: «Oh, quanta strada nei miei sandali / quanta ne avrà fatta Bartali / quel naso triste come una salita / quegli occhi allegri da italiano in gita / e i francesi ci rispettano / che le balle ancora gli girano... Io sto qui e aspetto Bartali / scalpitando sui miei sandali / da quella curva spunterà / quel naso triste da italiano allegro tra i francesi


società

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Dalla “volata sulle Alpi” all’Inno di Mameli al Parco dei Principi

Quando Gino, da Parigi, fermò la “rivoluzione”

Nel 1948, la sua spettacolare vittoria in Francia impedì il degenerare delle proteste dopo l’attentato a Togliatti di Leone Piccioni ventidue anni, nel ’36, Gino Bartali vinse il Giro d’Italia. Si ripeté nel ’37. Nel ’38 si preparò per il Tour de France e lo vinse. Già l’anno precedente era stato in testa alla corsa francese ma dovette ritirarsi a causa di un incidente provocato - pare - dai tifosi d’Oltralpe. Al Giro d’Italia nel ’40 compare Fausto Coppi, ventunenne, che vinse anche con l’aiuto del suo compagno di squadra Bartali che lo spronò in un momento di crisi nel quale Coppi voleva ritirarsi. Se si fosse corso negli anni della guerra, tra il ’41 e il ’45, Bartali avrebbe vinto tutto e si confermò infatti vincitore alla ripresa della corsa nel ’46.Vengono poi i trionfi di Coppi che vinse altri 4 giri d’Italia e tre Tours de France. Bartali era profondamente onesto, di grande umanità, cattolico, un po’ brontolone come risulta dal suo detto divenuto proverbiale: «Tanto è tutto sbagliato». Detto in fiorentino puro. Bartali non si è mai dopato. Nel periodo della guerra aiutò con grande coraggio un gruppo di ebrei ricoverati in un convento: senza dare nell’occhio, con la sua bicicletta nella zona di Firenze, come se fosse in allenamento, portava messaggi e aiuti ai perseguitati. Cambiamo scena. È il 14 luglio del 1948. Da poco la Democrazia cristiana ha vinto le elezioni politiche conquistando la maggioranza assoluta con i comunisti sonoramente sconfitti. Un estremista di destra, tale Pallante, con un’azione folle e solitaria attese in piazza Montecitorio a Roma l’uscita di Togliatti, capo del Pci, dal Parlamento e gli sparò.

A

Gasperi andò a visitarlo. Notizie di minuto in minuto erano trasmesse dalla radio, allora unico e formidabile mezzo di comunicazione che di continuo informava sulla salute del leader comunista. Grande folla di gente si radunò, specialmente nei bar, per seguire passo per passo le condizioni di salute di Togliatti.

Al giro di Francia intanto s’era svolta una tappa di montagna sulle Alpi nella quale Bartali prese venti minuti di vantaggio su Bobet che guidava la classifica. L’indomani la tappa decisiva dei Pirenei con altri importanti valichi montani da superare. Bartali è in corsa: scatta a ripetizione in salita e se ne va. Resta solo al comando. Al giornale radio della Rai sono assai pochi i redattori in servizio a causa dello sciopero: i pochi che sono entrati al lavoro (tra i quali io) sono stati insultati e irrisi dagli scioperanti che misero sotto assedio la sede della Rai a Via Asiago. Quei pochi per entrare al lavoro erano protetti dalla polizia. È presente il direttore del giornale radio Antonio Piccone Stella. Troviamo le prime notizie della entusiasmante corsa di Bartali. Suggeriamo al direttore di dare molto spazio alle sue imprese ciclistiche, bilanciando le informazioni su Togliatti. Le edizioni si infittiscono, le notizie confermano la grande volata di Bartali: è ancora in corsa, già maglia gialla. Poco alla volta, in un incredibile crescendo si rinnovano i capannelli di gente entusiasta che si raccoglie attorno alla radio per seguire la corsa. L’interesse generale sulla corsa la vince sulle condizioni di Togliatti, che del resto sta meglio, e dice parole di pace. Si inneggia a Bartali. La tensione cala in tutto il Paese. De Gasperi telefona a Bartali in Francia e lo ringrazia. Al Viminale, intanto, un membro del governo, d’accordo con De Gasperi, convoca Di Vittorio. Gli parla con pacatezza ma con grande tensione interiore e gli chiede di revocare lo sciopero generale entro 24 ore. In caso contrario il governo sarà costretto a fare entrare in azione le forze armate, specie nei luoghi dei più aspri scontri. Uscendo dal Viminale il membro del governo, per la grande tensione, ha un lieve malore. L’indomani Di Vittorio revoca lo sciopero. Cala la tensione, torna la pace. Bartali ha vinto il tour e al Parco dei Principi, a Parigi, si suona l’inno di Mameli.

Durante la corsa, la tensione calò a poco a poco in tutto il Paese, fin quando tornò la serenità. De Gasperi lo chiamò e lo ringraziò

A destra, Bartali vince il Tour de France del 1948. A sinistra, con Fausto Coppi che, qui sopra, gli passa la borraccia sulle Alpi che si incazzano / e i giornali che svolazzano». Nessun campione dei giorni nostri (neppure Valentino Rossi, o il Tomba degli anni d’oro, o Maradona quand’era Maradona) potrà competere in popolarità con i grandi del passato, che entravano nella mitologia come i grandi divi del cinema, e per le stesse ragioni. Perché erano distanti e inavvicinabili. Perché le corse (come le partite di calcio) non si vedevano in televisione, ma si ascoltavano alla radio, e le gesta atletiche erano raccontate da Niccolò Carosio o dalle penne illustri di Bruno Roghi o di Emilio Colombo, che aggiungevano l’epica al gesto atletico, facendo sognare le folle. Da quel piedistallo, Gino Bartali

scese a carriera finita, quando divenne famoso (oltre che popolare) per via - appunto - della televisione.

Quando fu ospite (insieme a Fausto Coppi, nemmeno a dirlo) del Musichiere di Mario Riva, o quando scrollava il capo al Processo alla tappa di Sergio Zavoli, ripetendo che «gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare». O, addirittura, quando (nel 1991) Antonio Ricci lo scritturò per condurre Striscia la notizia. Anche lì ripeteva che era tutto sbagliato e tutto da rifare. E anche lì non smentiva la sua ironia da toscanaccio, facendo capire - mentre leggeva le notizie - che quello non era il suo mestiere.

Grande emozione, grande turbamento e la violenta reazione della sinistra. Si arrivò alla proclamazione dello sciopero generale indetto da Di Vittorio, segretario generale della Cgil. La violenza scoppiò nel Paese: c’era chi parlava di rivoluzione. Ci furono molti conflitti armati, specie nel Nord e nella zona dell’Amiata. In una piccola cittadina come Pienza, ad esempio, sopraffatto il piccolo nucleo dei Carabinieri, si ebbero molti casi di violenza contro persone, democristiani, liberali, ex fascisti. Ai preti fu ordinato di non uscire di casa. Togliatti in clinica era curato dal professor Valdoni e le sue condizioni rimanevano gravi con qualche spiraglio, però, di miglioramento. De


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

“Le vie del Signore sono infinite” e i luterani benedicono le coppie gay Si dice «Le vie del Signore sono infinite». Quelle di alcuni suoi discepoli, divulgatori del “verbo”, a volte, sono geniali. Succede che la minoranza religiosa dei luterani in Italia ha deciso di benedire le coppie gay che definiscono “unioni di vita”. Che il tema stesso dell’omosessualità sia sentito dal clero luterano, lo narrano molte cronache, tanto che, qualche anno fa, la conferenza episcopale della chiesa luterana di Norvegia votò perché i suoi pastori gay potessero svolgere il ruolo di cappellani, pastori, diaconi, vescovi. Per questi motivi di incompatibilità con le Sacre Scritture, molti luterani si sono “convertiti” al cattolicesimo. D’altra parte i vangeli parlano chiaro «né sodomiti, né effemminati… erediteranno il regno dei cieli». Ma il fatto grave, non sta tanto nel “verbo” omofilo elevato a dignità di fede, ma nel fatto che la curia scaligera ha affittato, nei giorni scorsi, una struttura cattolica (Centro Mons. Carraro) ad una confessione, il cui motto dice «pecca fortiter», cioè «sii peccatore e pecca fortemente». Sarà sufficiente alla chiesa veronese, invocare la “giustificazione”dell’ecumenismo per dimenticarsi che Lutero: entrò in convento per salvarsi dall’omicidio di un suo collega di studi, bruciò la bolla di condanna inflittagli dal papa Leone X e infine morì suicida dopo un’ennesima orgia serale?

Gianni Toffali - Verona

COLLEGATO LAVORO: MESSE A PUNTO NORME PIÙ FORTI E OPERATIVE

Matrimonio colorato

LA VALENZA DEI RIFERIMENTI

L’approvazione del «collegato lavoro» da parte della Camera costituisce un risultato positivo per la politica sociale del governo. Gli ostacoli che il provvedimento ha incontrato sono la prova di quanto sia complicato in Italia portare avanti idee nuove nel campo del lavoro. Le difficoltà hanno comunque consentito di mettere a punto delle norme che saranno più forti e operative perché più condivise. Il Pdl esprime piena fiducia nel ruolo che le parti sociali sapranno svolgere nell’individuazione, nella contrattazione collettiva, di forme di risoluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro, in grado di modernizzare il nostro sistema di relazioni industriali e di rendere più rapida ed equa la stessa giustizia del lavoro.

G.C.

I riferimenti spirituali del nostro secolo sono gli unici che ci possono aiutare nel computo delle difficoltà quotidiane. Queste ultime sono troppe, e rischiamo di “irrigidire” la nostra anima nel confronto con gli altri, dando spazio a diffidenza e dissidi. In politica ciò si traduce nell’equilibrio etico, ma nel contempo, nell’osservanza delle richieste dell’elettore. La fede è fondamentale e si deve confidare nell’aiuto celeste. Il senso della vita si racchiude in questo, perché è la via attraverso la quale l’amore riesce a avere un senso: riuscendo a comprendere le ragioni altrui. Noi italiani ci siamo sempre lamentati dell’ingerenza ecclesiastica nella vita sociale e politica, ma non capiamo quanto sia rafforzativa di una integrità di valori e diritti che ci distingue da molti Paesi europei.

Bruno Russo

Donne in sari durante un matrimonia a Mandawa, nello stato indiano del Rajasthan. Il Rajasthan è lo stato più grande dell’India. Terra un tempo divisa tra i principati dei raja in guerra fra loro, di pastori nomadi, fortezze, tradizioni antiche, è un baluardo del tradizionalismo indiano

QUALE RIFORMA FEDERALISTA L’attesa riforma federalista in senso fiscale è materia ancora vaga nei suoi contorni e negli effetti che dispiegherà sull’intero territorio nazionale. I decreti attuativi arriveranno in autunno, mentre già a giugno avremo il quadro del nuovo assetto federale, con la definizione delle risorse per ciascun livello di governo. Il coordinamento nazionale “per il Sud” ritiene necessario che l’impostazione della legge “Delega al governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’art.

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

119 della Costituzione”, di là dall’annunciato miracolismo e vagheggiamento di riforma federalista a costo zero, non venga a tradursi perfidamente in una serie di costi ulteriori e di riparto delle risorse fiscali del Paese, che privilegiano chi del federalismo ha da tempo assunto il ruolo di nume tutelare. Si vanificherebbe il vero significato che il federalismo fiscale potrebbe assumere: stimolo e incentivo ad un efficace buon governo che esalti la produttività del Sud.

Domenico

da ”The Indipendent” del 04/05/10

Professione reporter di Jerome Taylor

Q

uando ci ripenso mi viene in mente quanto ingenui siano stati i miei aggressori. «Che stai facendo?» mi aveva domandato, con tono inquisitorio, uno dei due ragazzi di origine asiatica. Si trattava di due teen ager che si erano avvicinati mentre mi trovavo in un vicolo senza uscita di Bow, nell’East London. «C’è stata una fotografa qui intorno la conosci?» aveva aggiunto il ragazzo. Non la conoscevo, ma avevo aggiunto di essere un reporter dell’Indipendent e che dovevo intervistare una persona che abitava nei paraggi. Era un candidato per le elezioni amministrative locali con un’accusa di frode elettorale.

«Possiamo vedere il tuo bloc-notes?» avevano continuato i due ragazzi. Col mio rifiuto arrivava anche il primo pugno da parte degli aggressori. Uno diretto sul naso che faceva schizzare sangue un po’ dappertutto sulla faccia. A questo ne segui un altro e poi ancora un altro, in una lunga serie di colpi. Ho tentato di difendermi, ma in un attimo sono sbucati dal nulla un altro gruppetto di assalitori. Penso fossero quattro o sei, non ricordo bene. Finito a terra, ho visto uno di questi afferrare un cono da segnalazione stradale e colpirmi ripetutamente sulla testa. Mentre i loro calci e pugni mi colpivano pensavo solo al consiglio che una volta mi aveva dato un’amica. «Qualsiasi cosa succeda non buttarti a terra». Era una donna paramedico abituata a vedere e curare ferite da rissa. «Finire sul pavimento è molto più pericoloso» mi aveva spiegato. Anche se in quel momento mi sembrava un’assurda considerazione. «Facile da dire per te» pensavo. «Come diavolo

avrei potuto restare in piedi». Non ho idea di quanto sia durato il pestaggio – forse solo un minuto – ma sono stati sessanta secondi lunghissimi. Non ricordo che quei ragazzi abbiano detto qualcosa di particolare durante l’aggressione. Il primo rumore che ricordo è stato il clacson di un’auto e le urla di una donna. Il trambusto ha fatto uscire un uomo da un vicino blocco di caseggiati. Senza curarsi del possibile pericolo si è buttato contro quei teppisti per difendermi, fino a quando non sono scappati. Non so proprio cosa sarebbe potuto succedere se quell’uomo non avesse avuto tutto quel coraggio, per cui non mi stancherò mai di ringraziarlo. Passato il primo momento di shock mi ha dato una bottiglia d’acqua per pulirmi il viso dal sangue e mi ha mostrato un cellulare, probabilmente perso da uno degli agressori e che in seguito è stato consegnato alla polizia. La sua testimonianza ha confermato che almeno un paio dei ragazzi sono poi corsi via entrando nella casa del «candidato» che avrei dovuto intervistare. Quello che mi aveva condotto nel quartiere di Bow lunedì, erano i sospetti sollevati su di una frode elettorale per registrazioni espresse via posta. Entrambi i candidati delle due principali liste locali avevano un eccessivo numero di votanti adulti con lo stesso indirizzo. Quella zona è a prevalenza di oriundi bengalesi e questo tipo di truffe elettorali è sfortunatamente fin troppo diffusa. In alcuni casi sono stati scoperti domicili dove una ventina di bengalesi avrebbero dovuto vivere in un appartamento di due o tre stanze. Parliamo di un collegio dove esiste un certo equilibrio tra i principali partiti e dove di conseguenza poche centinaia

di voti possono fare la differenza. Così Scotland Yard si è messa ad investigare su 28 casi di questo tipo. In più le famiglie bengalesi sono famose per essere veramente numerose, per cui il problema sta diventando veramente serio.

Ripensando a questa esperienza forse ho peccato di avventatezza anche se io stesso abito nell’East London, non avrei dovuto avventurarmi da solo in quella zona. Né ho mai temuto la minoranza bengalese che in genere è estremamente educata e gentile, come lo sono i miei vicini di casa. I paramedici che mi hanno curato però mi hanno detto che non vanno mai da quelle parti senza la scorta della polizia. Intanto la municipalità sta pensando di cambiare le regole per la registrazione al voto, proprio per evitare la piaga dei votanti fantasma.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Cara, ecco due righe per accompagnarvi verso casa

AUTHORITY SICUREZZA ALIMENTARE CLASSIFICATA COME “ENTE INUTILE” Il ministro per la Semplificazione legislativa, Roberto Calderoli, ha classificato come “ente inutile” l’Agenzia nazionale per la sicurezza alimentare, che avrebbe dovuto avere sede nella città di Foggia. Dunque Authority tagliata. Avevamo già commentato negativamente il tentativo dell’ex ministro Luca Zaia, allora in campagna elettorale come candidato alla presidenza del Veneto, il quale tentò di portare l’Authority nella sua Verona, e oggi un altro ministro leghista compie l’ennesimo scippo ai danni del Mezzogiorno. Francamente tra tanti enti realmente e indiscutibilmente “inutili”, l’Agenzia per la sicurezza alimentare assumeva un ruolo e un significato di rilevante importanza: promuovere e proteggere il made in Italy, effettuare ricerche sulla salute e sulla dieta alimentare mediterranea, e assumere il ruolo di garante della sana nutrizione, grazie alla competenza e alla professionalità di esperti in campo alimentare. Tutto questo ora non sarà più possibile.Constato ancora una volta quanto le volontà della Lega Nord

Cara Mrs. Ford, queste sono solo due righe per accompagnarvi verso casa con la mia benedizione e allo stesso tempo con l’applauso più intenso che un unico paio di mani amiche può offrire. Come riconoscere con sufficiente «generosità» il modo splendido in cui ve la siete cavata in queste spossanti settimane? Mi rallegra che i poveri libri vi abbiano un poco aiutata. Ma a nulla vi sarebbe servito se voi non foste stata innanzitutto un’eroina perfetta e non foste rimasta magnificamente su di morale fino all’ultimo termine. Penso a voi mentre vi avviate fluttuando leggera verso casa, passando da un letto etereo all’altro, mentre Francis fa una bellissima figura nell’immagine dando fiato al suo fischietto da guardia - e in affettuosa partecipazione e immaginazione, passo con voi sotto ognuno degli archi trionfali, decorati di fiori e frutta, che abbelliranno le vie del vostro avvicinarsi. Non appena potrò io stesso ritornare a casa furtivamente e modestamente, dovrò venire da voi per abbeverarmi intensamente agli ultimi sviluppi. Possano questi essere i più succulenti! Molto fedelmente vostro Henry James a Mrs. Ford

LE VERITÀ NASCOSTE

Dubai depenalizza le “coccole” in macchina ABU DHABI. La Corte d’Appello di Dubai ha assolto ieri una coppia dall’accusa di atti osceni in luogo pubblico perché la macchina nella quale facevano l’amore, con i vetri oscurati, «è una proprietà privata». La sentenza, in controtendenza rispetto al tentativo di moralizzazione intrapreso dall’emirato, ribalta il precedente verdetto del Tribunale: la coppia pachistana, regolarmente sposata, era stata infatti condannata in primo grado ad un mese di reclusione seguito da espulsione. Manifestazioni di carattere sessuale in pubblico, inclusi baci ed abbracci, sono vietate secondo la shari’a, la legge coranica vigente negli Emirati Arabi Uniti. Dubai è il più liberale tra i sette emirati che costituiscono la Federazione ma sta tentando di riportare i costumi sociali pubblici ad una più rispondente condotta islamica. Nel 2008, due casi conquistarono i titoli delle cronache locali ed internazionali: una coppia di inglesi e due donne, una ungherese, l’altra libanese, furono condannate a tre mesi di carcere e poi espulse per aver avuto rapporti sessuali sulle spiagge dell’emirato. L’aspetto più importante di questa piccola notiziola è però un altro: il fatto che una Corte secolare abbia di fatto invertito il senso di una sentenza emessa da un tribunale con impostazione religiosa. Se la shari’a prevede infatti pene durissime per chi indulge in pubblico in manifestazioni d’affetto, essa andrebbe infatti inserita nel contesta in cui è stata scritta: una società di pastori nomadi, dove la promiscuità o il pubblico manifestarsi dell’amore coniugale poteva scatenare vere e proprie battaglie fra i membri delle famiglie dei due. L’emirato conferma dunque la sua spinta liberale, che si inserisce in un generale ripensamento della cultura, anche giuridica, dell’islam.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

SOLO LA LEGA PUÒ CAMBIARE IL PAESE Di perdere la testa, rischia solo chi non ha ancora capito che ogni parola e mossa di Bossi è concertata e studiata con Berlusconi, e che l’alleanza Lega-Pdl è un fatto irreversibile. Oggi, in Italia, la novità politica e il potere di attrazione appartengono alla Lega, al movimento che col suo slancio propulsivo e le poche idee chiare e concrete, esercita una sempre maggiore forza di convinzione nei confronti di un sempre maggiore numero di italiani. Ne sono attratti quanti non sopportano più l’indecente teatrino della politica, quello delle continue beghe personali, che i politicanti di mestiere (alla Fini) si compiacciono a suscitare senza sosta, abili nel demolire, ma incapaci di costruire, privi di una visione politica che superi il ristretto orizzonte dei loro interessi personali o di partito; oppure sono stanchi del teatro tragicomico di coloro che continuano ad abbaiare alla luna, paventando fascismo dappertutto e avendo, come unica ambizione, quella di inchiodare il Paese all’immobilismo, dettato dalle loro paure. La Lega si afferma sempre più come la sola forza con la capacità di cambiare le cose nel paese. Questo sentimento non è solo quello dei leghisti o della gente del Nord, ma è un sentimento sempre più diffuso in Italia, al punto, forse, di potersi dire irreversibile. Non solo la Lega non rappresenta più un pericolo per l’unità del paese o per la solidarietà tra i cittadini, ma appare come la sola forza capace di rompere con la politica del passato e dare agli italiani, innanzitutto col suo esempio, la speranza di un nuovo modo di intendere la politica e i suoi rapporti coi cittadini.

Carlo Signore

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

influenzino l’operato politico-amministrativo del governo nazionale ai danni, come sempre, del Sud. Sergio Adamo U D C MO V I M E N T O GI O V A N I L E - ME Z Z O G I O R N O TRANI NON SARÀ SPETTATRICE In questa situazione di stasi amministrativa e di mancata presa di responsabilità da parte del governo provinciale, non capisco perché Trani debba fare da semplice spettatrice. Alla luce dell’assenza di proposte da parte della maggioranza in Provincia, mi impegnerò a formulare e presentare un emendamento o un ordine del giorno per promuovere Trani quale sede legale dell’ente. Reputo però alquanto incomprensibile e inspiegabile questo immobilismo da parte della maggioranza, pur essendo stata delegata a assumere decisioni concrete in tempi ragionevoli. Carlo Laurora U D C - CI T T À D I TR A N I

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Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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