00506
he di cronac
Chi cerca la verità
dell’uomo deve farsi padrone del suo dolore. Georges Bernanos
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 6 MAGGIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Imponenti manifestazioni, ma i black bloc incendiano una banca: tra le vittime c’è anche una donna incinta
Si può morire per l’Euro? Sparatorie, roghi, guerriglia davanti al Parlamento: la crisi costa tre vite alla Grecia. La Merkel dice: «Unione a rischio». Si fa drammatico il limite della moneta senza Stato di Alessandro D’Amato
Dopo Scajola guai anche per il coordinatore Pdl
ROMA. Le molotov, gli scoppi, il fuoco. E poi la morte per asfissia. La crisi greca porta la morte nelle strade di Atene.Tre persone, due donne e un uomo, sono decedute in un attacco incendiario contro una banca al centro di Atene ai margini delle manifestazioni e dello sciopero generale contro il piano di austerità varato dal governo. L’incendio è stato provocato da un commando di black bloc che hanno lanciato molotov contro la Marfin Egnatia Bank. a pagina 2
Indagato Verdini Berlusconi: congiura! Fini e Bossi: non è vero ROMA. Un’altra giornata di colpi di scena. Dopo le drammatiche dimissioni di Claudio Scajola, di cui Silvio Berlusocni ha lodato l’«alto senso dello Stato», è tornato nella bufera Denis Verdini, uno dei tre coordinatori del Pdl. La procura di Roma ha reso noto che è inquisito per corruzione nell’ambito di un’inchiesta sullo sviluppo dell’energia eolica in Sardegna. Il reato contestato al coordinatore del Pdl è il «solito» di queste circostanze: favori (anche in denaro) in cambio di appalti. Il premier mastica amaro e lascia trapelare l’idea che la magistratura stia complottando contro il governo ma stavolta sia Fini sia Bossi lo smentiscono: «Le procure fanno il loro lavoro. non c’è nessun complotto» hanno detto stranamente all’unisono.
La strategia tedesca e la revisione di Maastricht
Il conflitto dà una lezione a tutta l’Europa
Il ricatto di Berlino: «Se va male torniamo al Marco»
Senza unità politica saremo tutti sudditi dei tecnocrati
di Enrico Singer
di Gianfranco Polillo
uando Angela Merkel, ieri mattina, ha spiegato di fronte al Bundestag perché era indispensabile che il Parlamento tedesco dicesse “sì” al piano di salvataggio della Grecia, ad Atene i manifestanti cominciavano a radunarsi in centro per dire “no”. a pagina 2
Q
Riccardo Paradisi e Errico Novi • pagine 8 e 9
Napolitano: «Celebrare l’Unità non è inutile»
È ora di tornare a credere nella Nazione di Savino Pezzotta ome sempre la Lega getta il sasso, fa trasparire le sue vere intenzioni, parla al suo popolo e poi si ritrae, facendo comunque vivere il suo messaggio originario. Nel comune linguaggio della politica si afferma che la Lega parla alla “pancia” della gente. Nulla è più falso di questa affermazione. Al contrario, dobbiamo renderci conto che parla alla mente. La scienza della mente ha evidenziato l’esistenza di un vasto panorama di pensiero inconscio. Sembra che una larga parte dell’attività mentale abbia luogo senza che ne siamo consapevoli e che nella maggior parte il pensiero inconscio abbia a che vedere con la politica: la mente gioca un ruolo enorme nel determinare il consenso. La Lega ha costruito metafore e cornici di pensiero molto semplici e di presa immediata che hanno definito il suo essere e il suo progetto e che si sono sedimentate nella mente e nei pensieri, basta poco per richiamale, evocarle e farle rivivere. Quando Roberto Calderoli accende la polemica politica sul centocinquantenario dell’Unità di Italia evoca la metafora della Padania e il contrasto con Roma, che comunque è l’immagine dell’unità d’Italia. segue a pagina 6
C
seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO
I QUADERNI)
contri violenti, città blindate, sangue innocente: questo è lo scenario, oggi, della Grecia. Un copione che si rinnova al di là delle latitudini ogni qualvolta il conflitto sociale deborda dai confini della semplice riaffermazione delle proprie ragioni. Il corollario inevitabile che ha punteggiato la storia del ‘900 e che si sperava potesse finire con le nuove regole della globalizzazione. Il problema è che quetse nuove regole, talvolta, sono decise altrove, rispetto al luogo reale (drammaticamente reale) nel quale scoppiano i conflitti. a pagina 5
S
Parlano Giacomo Vaciago e Bruno Manghi
Il Pil del 2010 crescerà, sì, «ma di poco»
Un fantasma s’aggira per l’Europa: l’esproprio di sovranità
L’Italia promossa a metà: «La ripresa è lenta» dicono i tecnici della Ue
di Franco Insardà
di Francesco Pacifico
mercati, si sa, non sono regolamentati da pulsioni morali. E di conseguenza anche i tre ateniesi morti durante gli scontri di ieri diventano l’ennesimo segnale che intorno al governo greco non c’è il consenso sufficiente per applicare il piano di tagli draconiano da miliardi di euro. Ma il problema è un altro: la politica ecnomica di Atene è dettata da Bruxelles e dal Fondo monetario internazinale. Un caso di sovranità limitata? Abbiamo girato la domanda a Bruno Manghi, ex direttore del Centro studi della Cisl e all’economista Giacomo Vaciago. a pagina 4
I
• ANNO XV •
NUMERO
86 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
econdo i tecnici di Bruxelles il rapporto deficit/Pil dell’Italia rimarrà nel 2010 allo stesso (altissimo) livello del 2009: pari al 5,3 per cento e comunque superiore all’obiettivo del governo di arrivare al 5 per cento. Una soglia che si raggiungerà solo nel 2011. a pagina 3
S
19.30
pagina 2 • 6 maggio 2010
prima pagina
A fuoco una banca: anche una donna incinta tra le vittime
Tre morti ad Atene Così la crisi diventa una drammatica questione nazionale di Alessandro D’Amato
ROMA. Le molotov, gli scoppi, il fuoco. E poi la morte per asfissia. La crisi greca irrompe nelle strade di Atene e, al secondo giorno di sciopero, arriva la morte. Tre persone, due donne e un uomo, sono decedute in un attacco incendiario contro una banca al centro di Atene ai margini delle manifestazioni e dello sciopero generale contro il piano di austerità varato dal governo. L’incendio è stato provocato da un commando di quattro o cinque incappucciati, probabilmente appartenenti al movimento anarchico, che hanno lanciato bombe molotov contro la sede della Marfin Egnatia Bank. Il fuoco, secondo i testimoni oculari, ha subito distrutto la porta in legno dell’istituto di credito estendendosi poi agli appartamenti privati dei piani superiori. Tre persone sono rimaste intrappolate e sono morte per asfissia, mentre almeno una si è salvata lanciandosi dal balcone dell’appartamento. Tra le vittime una donna incinta. Le morti sono avvenute durante una giornata caratterizzata dalla più grande manifestazione mai svoltasi in Grecia, secondo i sindacati, con la partecipazione di decine di migliaia di persone nel quadro dello sciopero generale contro il piano di austerità deciso dal premier Giorgio Papandreou nell’ambito di un accordo con Ue e Fmi «per salvare il paese dalla bancarotta». Durante la grande manifestazione ad Atene scontri sono avvenuti tra gruppi di giovani e la polizia davanti al parlamento. È stato sulla strada di ritorno della manifestazione, e dopo il suo passaggio, che è avvenuto l’attacco incendiario trasformatosi in trappola mortale. L’eco degli incidenti è giunta in Parlamento, dove domani è atteso il voto sul piano di austerità. I deputati hanno osservato un minuto di silenzio. Il portavoce del gruppo parlamentare del Pasok, Petros Efthimoiou ha sottolineato la drammaticità della situazione provocata dai morti, anche se ha detto che «non c’era bisogno di questo per capire che situazione vive il paese». L’ex presidente dell’assemblea Dimitris Siufas ha invitato tutti i deputati a «difendere l’unità della Grecia». Il ministero della Difesa ha annunciato il rafforzamento della sicurezza di edifici e caserme, mentre la polizia è in stato di allerta. I giornalisti hanno sospeso lo sciopero dopo gli incidenti. Il premier greco Giorgio Papandreou ha affermato che le «ingiuste morti» di oggi, durante le proteste per il piano di austerità, sono la conseguenza della «violenza incontrollata e dell’irresponsabilità politica: una manifestazione è una cosa, l’omicidio è un’altra.Tre famiglie vivono oggi un dramma senza motivo». Papandreou ha poi annunciato che intende chiedere nei prossimi giorni un incontro dei capi dei partiti politici sotto la direzione del presidente Karolos Papoulias. E ha poi assicurato che i responsabili verranno assicurati alla giustizia e fatto un appello all’unità nazionale. Secondo fonti giornalistiche, altri incidenti sono avvenuti anche a Patrasso e Salonicco.
Tutti i partiti fanno appello all’unità del Paese contro la violenza. Ma per oggi è in programma un’altra manifestazione
A Salonicco, in una manifestazione che ha riunito 20 mila persone, i poliziotti hanno usato i gas lacrimogeni per fermare una sassaiola contro le vetrine dei negozi. «Un tragico evento, che speriamo sia isolato», ha invece commentato il rappresentante del sindacato greco del settore privato (Gsee), Filippos Thomas a margine del XVI congresso della Cgil. Ma la protesta, aggiunge, va avanti, perché la manovra e il piano di aiuti messi in campo per salvare la Grecia avranno ulteriori effetti depressivi sull’economia del Paese. Per domani pomeriggio alle 18 è in programma un’altra manifestazione.
La cancelliera convince il Parlamento tedesco ad approvare il piano
E Merkel lancia l’allarme: Europa a rischio Il prestito non basterà per salvare l’euro Riforma del Patto o sarà Berlino a lasciare di Enrico Singer uando Angela Merkel, ieri mattina, ha spiegato di fronte al Bundestag perché era indispensabile che il Parlamento tedesco dicesse “sì” al piano di salvataggio della Grecia, ad Atene i manifestanti cominciavano a radunarsi in centro per dire “no”al programma di austrerità del governo Papandreu che è la contropartita imposta da Fmi e Ue alla concessione di quello stesso piano di aiuti. Non c’erano stati ancora gli incidenti con il loro impressionante bilancio di morte. Eppure, già dalle parole del Cancelliere, la gravità estrema della situazione era apparsa chiara. Per la paura di un contagio - «una reazione a catena» l’ha chiamata la Merkel - che potrebbe colpire gli altri anelli deboli di Eurolandia mettendo in pericolo il futuro stesso della moneta comune e innescando una «seconda crisi finanziaria mondiale» che si tradurrebbe in una notevole perdita di ricchezza e in un aumento della disoccupazione anche in Germania. Tutti su una stessa barca, insomma. Sulla quale ci si salva insieme, o si affonda insieme. A meno di scendere su un’estrema scialuppa
Q
di salvataggio che sarebbe la fine dell’euro e il ritorno alla propria moneta nazionale. E, attenzione: il vero rischio non è tanto che la Grecia sia costretta a rifugiarsi nella sua vecchia, debole, dracma, quanto che sia proprio la Germania, alla fine, ad abbandonare l’euro per recuperare il suo forte marco.
Ipotesi estrema che Angela Merkel non vuole - per adesso - nemmeno prendere in considerazione. Ma che è sottintesa e che costituisce un’arma in più nelle mani di Berlino in vista della battaglia che sta per cominciare. Quella per la revisione del Patto di stabilità che è la condizione politica posta dalla Germania per il suo intervento di 22,5 miliardi - il più alto tra i Paesi della zona euro in proporzione al suo Pil - nell’operazione di aiuto alla Grecia. Al punto drammatico a cui è arrivata la crisi, è inutile nascondersi dietro le formule. Per la Merkel l’operazione-salvataggio non si risolve con il prestito ad Atene e nemmeno con le misure che il governo Papandreu sarà in grado di prendere per raddrizzare i
prima pagina
6 maggio 2010 • pagina 3
La Commissione plaude alla stabilità finanziaria ma avverte Roma: crescita bloccata dalla spesa
Italia promossa a metà: «È lenta» di Francesco Pacifico
ROMA. A rallentare la macchina ci sono sempre un debito pubblico esorbitante e la difficoltà di conquistare nuovi mercati. Sono molte le ombre nelle previsioni dell’Unione europea sulla crescita italiane. Perché se il Belpaese regge, il prossimo biennio sarà all’insegna di una ripresa che «guadagna forza lentamente, leggera nel 2010 con un po’ di forza nel 2011». In ogni caso «largamente in linea con la media Eurozona», che non brillerà certo rispetto agli altri quadranti del mondo.
Secondo i tecnici di Bruxelles il rapporto deficit/Pil dell’Italia rimarrà nel 2010 allo stesso livello del 2009: pari al 5,3 per cento e comunque superiore all’obiettivo del governo di arrivare al 5 per cento. Livello che si raggiungerà nel 2011. Per la Commissione, Tremonti dovrà rivedere i suoi progetti, perché a
politiche immutate nell’anno in corso la crescita del Pil non supererà lo 0,8 per cento contro l’1,1 previsto nel programma di stabilità. Eppure le misure previste nel 2009 per contenere la spesa nel 2009 avranno benefici sul saldo primario, che «registrerà un ampio miglioramento, seppur restando marginalmente negativo». Se a questo si aggiunge la spesa per interessi, la bassa dinamica influirà non poco sul debito, già al 115,8 per cento del Pil nel 2009. Per la Ue salirà al 118,2 per cento nel 2010 e al 118,9 nel 2011. Ma il conto la crisi lo presenta soprattutto nel campo della disoccupazione, problema che l’Italia sembrava aver dimenticato dopo l’introduzione delle normative sui contratti atipici. Nel 2009 l’Italia si è ritrovata con un +7,8 per cento, a fine anno si arriverà all’8,8, comunque un punto sotto la media europea. Per l’inversione
conti pubblici del suo Paese. Per la Merkel si evi- Angela Merkel ta il disastro soltanto assicurando stabilità all’eu- ha lanciato un ro. Questa è la vera posta in gioco, questa è l’uni- ultimatum ai ca strada per scongiurare i pericoli di contagio Paesi europei: che potrebbero colpire domani il Portogallo, la «Adesso la Ue è a rischio». Spagna e, chissà, anche l’Italia. Per la debolezza dei loro bilanci, o per la speculazione dei merca- Sopra, Giulio Tremonti, tri internazionali che, ancora ieri, ha fatto tremabacchettato re le Borse e ha indebolito la valuta comune europea nei confronti del dollaro ai minimi storici da Bruxelles. Nella pagina dell’ultimo anno. a fianco, gli scontri L’euro, moneta senza Stato, è un’esperienza di Atene unica al mondo. Alle sue spalle ha una Banca centrale - la Bce - che ne governa i tassi e la difende dall’inflazione, ma non ha un’altrettanto efficace governance sul piano della politica economica comune dei Paesi che fanno parte di Eurolandia. Erano dodici il primo gennaio del 2002, quando entrò materialmente in circolazione l’euro: adesso sono sedici (si sono aggiunti Slovenia, Cipro, Malta e Slovacchia). E ognuno ha i suoi punti di forza e le sue criticità. Fra i Paesi che avevano chiesto l’adesione alla moneta unica sin dal suo esordio, la Grecia - e non è davvero un caso - era l’unica che non rispettava nessuno dei criteri stabiliti a Maastricht. Fu comunque ammessa e adesso non solo non è riuscita a recuperare, ma è arrivata sull’orlo del default. Forse il prestito da 110 miliardi di euro in tre anni costi sociali a parte - potrà metterla al riparo dalla bancarotta. Ma non basterà a restituire all’euro lo slancio iniziale che aveva fatto sperare in una nuova, più forte, Europa politica che sarebbe nata sulla spinta dell’Europa monetaria. E che, al contrario, si trova a fare i conti con un terremoto che scuote l’unico pilasto ancora in piedi dell’unità europea. Ad essere preoccupata non è soltanto Angela Merkel. Anche il francese Dominique Strauss-Kahn, presidente del Fondo monetario internazionale, ha parlato del «rischio del contagio». Il ministro delle Finanze finlan-
di tendenza bisognerà aspettare il 2011, quando i nuovi posti saranno lo 0,4 per cento in più rispetto al 2010.
Se l’Italia si muove con difficoltà, non brillano certo le altre economie di Eurolandia, il cui Pil crescerà nel 2010 dello 0,9 per cento con il deficit a +7. Proprio guardando ai problemi degli altri, in testa il tanto debito accumulato con gli aiuti anticrisi, i tecnici di Bruxelles plaudono al governo italiano per «una politica di bilancio accorta che la rende meno fragile sul fronte della finanza pubblica». Germania e Francia – nonostante una crescita del Pil nel 2010 rispettivamente dell’1,2 e del 1,3 per cento – registreranno disavanzi primari più ampi dell’Italia. Tra i Pigs preoccupano le prospettive di Grecia e Spagna: per loro il 2010 si chiuderà con un -0,9 e un -0,4 per cento.
dese, Jyrki Katainen, è andato oltre avvertendo che le economie di Eurolandia «sono così collegate che i problemi si possono diffondere facilmente da un Paese all’altro». E il premier spagnolo, Luis Zapatero, è stato costretto a scendere in campo personalmente per smentire le voci dei mercati che ipotizzavano l’imminente richiesta di un prestito di 280 miliardi di euro da parte di Madrid.
Domani a Bruxelles i capi di Stato e di governo della Ue si ritroveranno in un vertice straordoinario per dare il via libera ufficiale al piano di aiuti alla Grecia. Doveva essere l’occasione per lanciare un messaggio rassicurante. Sarà condizionato da tutte queste fibrillazioni. E, per Angela Merkel, sarà anche il momento per mettere sul tavolo una richiesta formale di revisione del Patto di stabilità nella direzione di una maggiore severità delle regole da rispettare, come liberal ha anticipato già la scorsa settimana. Il percorso della revisione dei principi fissati a Maastricht non sarà né rapido (perché richiederà una modifica dei Trattati), né facile (perché si scontrerà con l’opposizione di una parte dei Paesi). Ma la Germania sembra ben determinata a imporre il suo piano. Uno dei punti-chiave riguarda il secondo dei parametri del Patto di stabilità: il livello complessivo del debito rispetto al Pil. Attualmente è considerato ideale un rapporto del 60 per cento verso il quale i Paesi della zona euro sono invitati a «tendere» senza particolari procedure vincolanti come quelle previste nel caso di sforamento del primo, e più noto, parametro: il tetto del 3 per cento di deficit dei conti pubblici anno per anno. La Merkel vuole rendere vincolante anche la riduzione della massa del debito con meccanismi ancora da de-
finire. Ma che potrebbero prevedere l’obbligo di chiudere il bilancio con un surplus: in attivo, quindi, e non più con una tolleranza del 3 per cento di deficit. Oltre che della Grecia, sarebbe il caso dell’Italia che, secondo le stime diffuse proprio ieri dalla Ue, ha un debito pubblico destinato a crescere dal 115,8 per cento del 2009, al 118,2 per cento nel 2010 e al 118,9 per cento nel 2011. Questo significa che da un’eventuale, futura, revisione del Patto di stabilità nella direzione indicata dalla Germania, per il nostro Paese si ridurrebbero sensibilmente i margini di manovra economica. Come, per esempio, la possibilità di ridurre le imposte dirette. Ed è prevedibile che sulla ricetta di Angela Merkel per restituire stabilità all’euro ci sarà battaglia.
Un altro punto-chiave è la riforma di Eurostat, l’istituto di statistica dell’Unione europea. La Merkel vorrebbe farne una vera e propria agenzia di rating sul modello delle private Moody’s o Standard & Poor’s. Oggi Eurostat elabora i dati che vengono trasmessi a Bruxelles dai singoli Paesi della Ue senza avere la possibilità - se non in casi eccezionali - di realizzare audit diretti per accertare la veridicità delle cifre dichiarate. Nel caso della Grecia, già sei anni fa, si scoprì che i numeri erano stati alterati per evitare che scattasse una procedura d’infrazione per deficit eccessivo. Dare più poteri a Eurostat metterebbe anche al riparo da un altro rischio, o meglio, da un sospetto: quello che le agenzie di rating internazionali possano in qualche modo entrare nel grande gioco della speculazione sui mercati. Oggettivamente le pagelle che queste agenzie assegnano ai conti pubblici dei singoli Paesi - dalle tre A in giù - influiscono sul comportamento degli investitori quando si tratta di acquistare i bond emessi per finanziare il debito pubblico. Anche se Angela Merkel non ha messo in dubbio la serietà e l’imparzialità di queste grandi agenzie internazionali, la frase che ha pronunciato ieri dopo il discorso al Bundestag è significativa: «Un’agenzia di rating europea potrebbe essere utile». Ma c’è da scommetere che ci sarà battaglia anche su questo capitolo di una possibile revisione del Patto di stabilità e dei mezzi per verificarne l’applicazione. Anche perché - Moody’s o S.&P. a parte - ogni Paese è geloso dell’autonomia dei suoi istituti di statistica.
Il rischio del contagio esiste. Per scongiurarlo bisogna cambiare le regole, altrimenti si dovranno moltiplicare all’infinito i finanziamenti e Berlino non è disposta a farlo
pagina 4 • 6 maggio 2010
l’approfondimento
I conti che non tornano. Le opinioni dell’economista Giacomo Vaciago e del sociologo Bruno Manghi
L’esproprio di sovranità
È inevitabile che i greci accettino dei sacrifici. Ma il punto è: devono deciderlo loro o le tecnostrutture europee? Arrivano i primi guai di una moneta unica senza una vera democrazia comune di Franco Insardà
ROMA. I mercati, si sa, non sono regolamentati da pulsioni morali. E di conseguenza anche i tre ateniesi morti durante gli scontri di ieri diventano l’ennesimo segnale che intorno al governo greco non c’è il consenso sufficiente per applicare il piano di tagli draconiano da miliardi di euro. Nessuno ha mai creduto che George Papandreou riuscisse a far passare senza colpo ferire una piattaforma che congelerà il Paese per il prossimo decennio. Ma sono tante le pressioni su Atene perché i suoi attori sociali stringano lo stesso patto che è stato alla base della ripresa della Germania dopo l’89 e dell’Italia nel ’92. Secondo il sociologo Bruno Manghi, ex direttore del Centro studi della Cisl, la moneta unica «è una cosa di grandissimo significato economico e simbolico, però richiede in tempi stretti un governo europeo, ma l’Europa degli Stati non lo consente. Le cose sono peggiorate rispetto a due mesi
fa perché una moneta unica senza governo unico porta a queste conseguenze».
Sulla fragilità del sistema legato all’euro si trova d’accordo anche il professor Giacomo Vaciago, secondo il quale la moneta europea «ha fondazione su un terreno sabbioso. I due regolamenti, dopo il vertice di Amsterdam del ’95, che hanno sostituito il trattato di Maastricht nei confronti dei Paesi membri hanno poco mordente, al punto che anche Francia e Germania hanno sforato il patto di stabilità. È corretta a questo punto la posizione dei tedeschi che chiedono un cambiamento delle regole. Il problema oggi è quello di istituire un’Authority, indipendente dai 16 governi, che certifichi i bilanci e non le so-
cietà private di rating che hanno vidimato anche i conti pubblici della Grecia. Occorre, cioè, un sistema di horny warnings in grado di avvertire prima che accadano dei disastri».
La gestione della trattativa
debiti, oggi possano ripianarli in tre anni. Per questo gli altri Stati non si fidano e hanno imposto delle condizioni molto severe, Non va dimenticato che si parla di patto di stabilità e crescita: due misure strettamente collegate».
da parte del governo di Atene, sempre secondo Vaciago, è criticabile perché «avrebbe dovuto chiudere un accordo per una restituzione del prestito in otto anni e non in tre. È da presuntuosi pensare che, dopo aver vissuto per dieci anni facendo
Le decisioni prese dalle tecnostrutture europee in qualche modo fanno pensare, secondo Manghi, a un «esproprio di sovranità. Basta pensare a quello che ha combinato il Fondo monetario in cinquant’anni in giro
Vaciago: «Berlino deve correre per il bene del Continente non solo per il suo»
per il mondo. Tutte le istanze tecnocratiche sovranazionali che, in realtà sono dominate da interessi nazionali più forti, hanno commesso degli errori strepitosi come, ad esempio, la deriva iperliberista argentina. La casta dei banchieri è peggiore di quella dei politici».
Un governo costretto, quindi, ad accettare le misure sotto dettatura, con margini di negoziato oggi sono pressocché inesistenti fa sembrare lunare la protesta greca, ma per Bruno Manghi «il sindacato deve rispondere alla sua gente, non può far diversamente anche se le cose sono già definite. Il sindacato ha interpretato il sentimento dei greci che si ritrovano costretti a fare grossi sacrifici, mentre i responsabili di questa situazione rimangono impuniti. Non è simpatico per un lavoratore dipendente, con stipendi modesti, perdere la tredicesima». Anche per il professor Giacomo Vaciago la protesta dei greci era inevitabile anche se è dif-
6 maggio 2010 • pagina 5
I drammatici scontri di questi giorni ad Atene devono far riflettere tutti i Paesi d’Europa
Ma senza l’Unione politica siamo sudditi dei tecnocrati
Non c’è (e non ci può essere) dialettica tra chi protesta e chi governa in Grecia, perché le decisioni economiche vengono prese altrove di Gianfranco Polillo contri violenti, città blindate, cortei che arrivano allo scontro fisico con le forze dell’ordine e, purtroppo, i morti: questo è lo scenario, oggi, della Grecia. Un copione che si rinnova al di là delle latitudini ogni qualvolta il conflitto sociale deborda dai confini della semplice riaffermazione delle proprie ragioni. Il corollario inevitabile che ha punteggiato la storia del ‘900 e che si sperava potesse finire con le nuove regole della globalizzazione. Una sorta di eden che i neofiti del mercatismo indicavano come il salto in una nuova dimensione del vivere civile. Non è così, come purtroppo dimostra il clima avvelenato di tante città greche. Migliaia di persone che, da un giorno all’altro, si vedono costrette a immaginare per sé e la propria famiglia un futuro diverso. Non quello dorato di chi si era liberato, almeno parzialmente, dall’assillo dell’indigenza; ma un brusco ritorno a una condizione di minorità economica e finanziaria.
S
Le misure decise a livello europeo somigliano non poco alla promessa di “lacrime e sangue” che Churchill indicò ai suoi concittadini, all’indomani dell’entrata in guerra. Abolire la tredicesima e la quattordicesima mensilità per i dipendenti pubblici, significa un taglio netto dei salari del 15 per cento. L’aumento dell’IVA al 23 per cento comporterà un altro sbrego del 3 per cento. Benzina sul fuoco, mentre cresce l’incertezza per i lavoratori del privato. Sarà più facile procedere al loro licenziamento al fine di consentire a quel poco d’industria manifatturiera di ristrutturarsi e continuare a competere, nonostante il cappio rappresentato dalla moneta unica che non distingue tra economie arretrate e avanzate. Per non parlare, infine, della previdenza e dell’aumento, imposto per legge, dell’età lavorativa. Salvo coloro che sono riusciti a portare fuori i propri capitali – e non sembrano pochi – sarà una bagno di sangue che non risparmierà nessuno. Si spiegano così le reazioni, al di là della posizione dei sindacati, comunque incapaci di arginare la marea. È la rabbia dei sansculottes, che si battono contro un potere che neppure si vede. Almeno, durante la rivoluzione francese, c’era la Bastiglia da conquistare e le Tuilleries da espugnare: i
luoghi fisici dell’assolutismo. Ad Atene si prende, invece, d’assalto il Parlamento, come se fosse quello il luogo effettivo della decisione politica. Altra grande tragica illusione. Il Parlamento avrà l’unica funzione di ratificare quanto deciso altrove. Di opporre il suo timbro sul diktat dei mercati e le concitate riunioni dell’Eurogruppo. Non è la prima volta che questo accade. L’FMI, da che mondo è mondo, ha sempre svolto questo ruolo. Ha dato ossigeno alle economie in crisi, ma ha preteso un prezzo adeguato per il relativo salvataggio. È successo anche all’Italia, quando, durante gli anni ’Settanta, le sue riserve auree erano ipotecate e la perdita di competitività aveva scavato un solco grande quanto un mare. Ma per la Grecia la situazione, almeno in parte, è diversa. E non solo per la durezza dell’intervento. Questa volta la decisione non è stata presa da un organo tecnico, qual è appunto l’FMI, ma dall’Europa in quanto tale. Da un’istituzione che fonda la sua legittimazione sulle regole della democrazia.
Dai tempi della Magna Carta – gli albori del costituzionalismo occidentale – un principio è stato sempre rispettato: «no taxation without representation». Nessuna imposizione fiscale se non accompagnata dalla rappresentanza politica. Il grido che segnò il passaggio dalla monarchia assoluta a quella costituzionale, con il suo immediato corollario:
quello della sovranità popolare. È ancora, questa, la regola europea? Può questo principio essere sostituito dalla semplice imposizione tecnocratica? Questo è l’interrogativo che, al di là della necessaria austerità, fa oggi muovere milioni di cittadini greci ed esaspera il conflitto sociale. Problema da non trascurare. Potrebbe, infatti, riproporsi su scala allargata se il contagio dovesse diffondersi – cosa che non auspichiamo – alle altre capitali europee: a partire dalla Spagna o dal Portogallo. Ed ecco allora le ragioni più profonde di una crisi che non lascia spazio all’ottimismo. Innanzitutto a causa dell’intransigenza dei mercati, che sembrano chiedere di più ad un popolo cui è rimasto ben poco da perdere. Quindi per un dato più politico, che politico non si può. Chi deve governare? Il popolo o lontane tecnostrutture. Chi è il titolare della sovranità?
È il limite di questa Europa incapace di darsi strutture realmente democratiche e partecipate. Lesta nel rincorrere la logica del mercato, ma lenta, come non mai, nel costruire intorno allo scettro del comando effettivo – quello della moneta unica – il tempio della democrazia. Finora si è scelta la strada più indolore. Tanti piccoli passi verso l’unificazione economica e monetaria; ma altrettanti ritardi nell’organizzazione politica. Con alcune fughe, in avanti, come l’allargamento che ha ulteriormente complicato la già fragile linea della governance. Fin quando le cose andavano, queste contraddizioni erano viste esclusivamente da giuristi e politologi, subito tacitati, nelle loro perplessità, dal sano richiamo alla ragion di Stato. Ma, con la crisi, questi problemi, cacciati dalla finestra sono rientrati dalla porta, svelando all’improvviso le fragilità delle soluzioni di compromesso. Dietro la crisi greca questo è l’abisso che s’intravede. Finora il suo impatto è contenuto dalla scarsa dimensione del fenomeno nei grandi equilibri continentali. Il PIL greco è appena pari al 3 per cento di quello dell’eurozona. Un problema che può essere ancora gestito, nonostante le proteste di chi rivendica il rispetto dei propri sacrosanti diritti. Ma che succederà se la macchia si allargherà? Potrà reggere la stessa costruzione economica a quel deficit di politica e di democrazia che ne ha guidato finora la marcia? O non si tornerà indietro, subendo le pressioni derivanti da un cambiamento globale che riguarda i grandi equilibri planetari? Questa è la vera posta in gioco. I morti, in Grecia, un primo campanello d’allarme.
ficile capire contro chi protestano: «I debiti li ha fatti la Grecia, per anni hanno vissuto nella speranza di riuscire a ripagarli. La recessione ha fatto saltare i conti. Nessuno ha pagato al posto loro e ora si trovano in questa situazione ed è normale che la prospettiva di fare la fame fa imbestialire i cittadini. Non va, però, dimenticato che, senza crescita, il debito pubblico aumenta. In questo rapporto la Germania, da sempre considerata la locomotiva europea, deve trainare la ripresa anche dei Paesi in difficoltà. Deve accelerare quando ci sono problemi, ha voluto la Bce a Francoforte e deve prendersi le sue responsabilità».
Il timore che l’onda partita da Atene possa arrivare anche a Madrid e Lisbona è ormai quasi una certezza. «Il termometro della situazione - secondo Vaciago - lo danno i titoli che consentono di cautelarsi da rischi eccessivi. La curva greca di questi indici è andata alle stelle, quella italiana è rimasta stabile, a dimostrazione che non siamo stati contagiati, mentre è in salita per Spagna e Portogallo. Al Fondo monetario il caso Spagna e Portogallo è allo studio e i mercati si stanno preparando, dopo l’allenamento fatto con la Grecia. In Spagna il problema è ancora più grande, ma la soluzione non può essere alla greca. Intendo dire che i debiti vanno ristrutturati, allungate le scadenze e consolidati a un tasso ragionevole del 3 per cento: aumentando l’età lavorativa e riducendo l’onere pensionistico. In questo modo si contribuisce all’aumento del Pil e non, al contrario, lo si impoverisce con gli esborsi pensionistici». Il ruolo della Ue nell’affrontare la crisi e nel sostenere gli Stati in difficoltà viene sottolineata da Bruno Manghi: «Mentre Grecia e Portogallo sono Paesi modesti la Spagna è stato un pilastro di quest’ultimi vent’anni e la situazione diventa davvero seria. Se la Ue non correrà in soccorso di questi Paesi allora è meglio che chiuda. Quando le cose vanno bene è troppo facile parlare di Unione europea. I governi servono proprio ad affrontare i problemi». E a proposito di governi Vaciago dà un consiglio a Bruxelles: «Dovrebbero smetterla di parlare troppo e in tanti: Junker è l’unico titolato a parlare a nome dell’Eurogruppo. In queste situazioni i mercati hanno gioco facile a speculare. L’euro è stato costruito come un processo garantito da due variabili: il bilancio pubblico gestito dai governi e la moneta dalla Bce. L’unione dà dei benefici, ma richiede una disciplina e una regola di maggioranza. Non si possono soltanto avere dei vantaggi senza dare nulla in cambio. Qualcuno, purtroppo, negli ultimi anni ha abusato della Ue...».
pagina 6 • 6 maggio 2010
politica
Unità. Il Senatùr lo bolla come un «evento retorico», il ministro della Semplificazione lo snobba perché «impegnato sul federalismo». Ma l’apertura del 150° ristabilisce la verità
«L’Italia non è inutile» Napolitano, a Quarto, dà il via alle celebrazioni, replicando alle provocazioni dei “lumbàrd” di Francesco Lo Dico
QUARTO. Dopo aver tenuto il popolo italiano con il fiato sospeso, infine il dado è stato tratto. Roberto Calderoli e Umberto Bossi hanno disertato l’apertura delle celebrazioni del 150° anniversario dell’unità d’Italia cominciate ieri a Quarto. C’era invece il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che nonostante le attestazioni di simpatia del Senatùr, deve aver ritenuto il calore umano manifestatogli dal leghista motivo non sufficiente per alzare il telefono e chiedergli l’estremo sacrificio di presenziare a Quarto. A giudicare dal discorso rivolto dal presidente agli intervenuti, da Angelo Bagnasco al leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, dall’ex presidente della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick al democratico Andrea Orlando, c’erano anzi abbondanti motivi perché Bossi senior e sodali restassero a casa propria a lavorare al federalismo.
Dopo aver deposto una corona d’alloro ai piedi della stele celebrativa che commemora la partenza dei Mille da Quarto, il capo dello Stato ha infatti risposto alle polemiche delle camicie verdi, con un discorso che non lascia adito a dubbi. «Le iniziative che festeggiano l’Unità d’Italia – ha detto Napolitano – non sono tempo perso e denaro sprecato, ma fanno tutt’uno con l’impegno a lavorare per la soluzione dei problemi oggi aperti dinanzi a noi». Presa la parola nell’hangar della portaerei Garibaldi, accanto ai presidenti del Senato e della Camera, Renato Schifani e Gianfranco Fini, Napolitano ha lasciato per ora inevase le ansie di una nuova storiografia padana fondata su “Cavour federalista”. «Retorica – ha spiegato il capo dello Stato – è una rappresentazione acritica del processo unitario che ne lascia in ombra contraddizioni e insufficienze per esaltarne solo la dimensione ideale e le prove di sacrificio ed eroismo». Che ha proposito del Cavour in salsa verde nato dalla costola di Bossi ha aggiunto: «Non è retorica reagire a tesi storicamente infondate, come quelle tendenti ad avvalorare ipotesi di unificazione parziale dell’Italia abbandonando il Sud al suo destino», ha chiarito il presidente della Repubblica. Che ha lasciato intendere come le singolari ipotesi risorgimentali su cui si sono esercitate le menti di Calderoli e altri esponenti della Lega «non furono mai abbracciate da alcuna delle forze motrici e delle personalità rappresentative del movimento per l’unità». Napoletano ha ribadito piuttosto come «far rivivere nella memoria e nella coscienza del Paese le ragioni di quell’unità e indivisibilità con cui nacque l’Italia serve a offrire una fonte di coesione sociale come base essenziale di ogni avanzamento, tanto del Nord quanto del Sud, in un sempre più arduo contesto mondiale». Se davvero Camillo Benso, da piemontese falso ma cortese, avesse avuto il proposito di forgiare la Padania, l’impre-
Bisogna contrastare l’uso politico della storia comune fatto dalla Lega
È ora di tornare a credere nella nazione di Savino Pezzotta segue dalla prima Le risposte che le opposizioni hanno dato giudicando “sconcertanti”le parole del ministro della Repubblica, non scalfiscono nulla, anzi finiscono per rafforzare ciò che è stato evocato. Le dichiarazioni del ministro sono furbe e nello stesso tempo mistificanti: «Non lo so, vedremo. Ma penso che la miglior risposta sia realizzare l’unità d’Italia attraverso il federalismo. È inutile parlare di un totem sapendo che ci sono differenze nel paese. La celebrazione in se stessa ha poco senso – ha insistito Calderoli -, trovo che sia meglio dare soluzioni, sollevare la bandiera non basta».
Cerchiamo di analizzare con attenzione com’è stata strutturata l’asserzione. Parte con un «Non lo so, vedremo» dunque mantiene una dimensione d’incertezza che evoca la non presenza, ma che non la esclude. Dipende dalle situazioni che si determineranno ed è come dire che se ci va lo fa perché costretto dalle circostanze, dalla convenienza politica e non dalla convinzione. Poi rimarca «Ma penso che la miglior risposta sia realizzare l’unità d’Italia attraverso il federalismo», dunque, per lui, l’unità d’Italia non esiste ma va realizzata. Ancora una volta si rimarca una negazione «non esiste» e si avanza un’affermazione «ma va realizzata» e conferma che «È inutile parlare di un totem sapendo che ci sono differenze nel paese». Il messaggio che arriva alle persone e che l’unità d’Italia non esiste, è un totem, non è un dato importante, che le celebrazioni non hanno importanza perché parlare di unità della nazione «ha poco senso». Le reazioni a queste affermazioni sono state roboanti, indignate ma mi sono sembrate deboli e non sono state in grado di offrire una metafora diversa che è quella del valore della nazione. Un valore che in qualunque modo è presente nell’inconscio collettivo degli italiani. Dire che quanto ha affermato stride con il
suo ruolo di ministro è giusto e corretto dal punto di vista istituzionale, ma non scalfisce il messaggio. Anzi lo rafforza. Ecco perché è arrivato il tempo di riflettere con molta attenzione sul linguaggio che è usato e sulle metafore che lo veicolano. La Lega quando parla del territorio, usa l’espressione Padania. Una metafora: un concetto astratto (la Padania) che è reso attraverso un concetto concreto (il federalismo o padroni a casa nostra).Tutto questo non è casuale – nulla nel linguaggio leghista è casuale, ma promuove una visione. Le persone, al momento del voto, non analizzano i programmi, come molti di noi illuministicamente pensano, preferiscono votare una rappresentazione o un’identità in cui si fondono valori, messaggi e proposte concrete.
Proporre un percorso diverso da quello della Lega vuol dire, in prima istanza, non inseguirla sul suo terreno. Le persone votano in base ai propri valori, ai sentimenti, alle emozioni e agli interessi per i quali sono disponibili anche a pagare dei prezzi. Abbandonare o annacquare il proprio capitale culturale per inseguire le sollecitazioni leghiste è un errore perché suggerisce l’idea che comunque non abbia tutti i torti. Servono invece percorsi diversi che richiedono la non demonizzazione e la conoscenza delle strategie e del linguaggio, ma soprattutto avanzare sempre la propria prospettiva politica e ideale. Va elaborata una nuova capacità di pensiero e di linguaggio che sia nello stesso tempo complesso, trasversale su problemi e semplice nella declinazione. Soprattutto occorre giocare d’anticipo, con continuità e proporre proprie cornici di pensiero su ogni tema rilevante. Se deve notare la differenza. Se la loro metafora vincente è la Padania e il Federalismo, la nostra deve essere la Repubblica, la Nazione e l’Europa costruendo una metafora tripolare e soprattutto dobbiamo porre le nostre proposte senza essere saccenti ed elitari ma popolari.
Sopra, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. A fianco, il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli. Nell’altra pagina, il ministro delle Riforme Umberto Bossi
politica
6 maggio 2010 • pagina 7
Calderoli: «Senza federalismo, niente da festeggiare»
Lezione di Bossi: «Cavour sono io»
Tutti i leader del Carroccio rispondono da Roma alla celebrazione nazionale di Marco Palombi
sa dei Mille avrebbe dimostrato quanto scarso fiuto avesse il conte per l’arruolamento del personale. Tutti i documenti in nostro possesso e i libri di storia che tendenzialmente, secondo il canone accademico in voga da qualche secolo, su questi si basano, attestano infatti che tra i Mille partiti da Quarto ci fossero 434 patrioti lombardi, 194 veneti, 156 liguri, 78 toscani e una decina di piemontesi.
Argomento ricordato ai presenti alla cerimonia, dal presidente Napolitano: «erano in grande maggioranza lombardi, veneti, liguri, italiani che si sentivano italiani e che accorrevano là dove altri italiani anda-
«Bisogna reagire a tesi storicamente infondate, come quelle che avvalorano ipotesi di unificazione parziale dell’Italia», spiega il Quirinale vano sorretti nella lotta per liberarsi e ricongiungersi in un’Italia finalmente unificata». Ma il presidente della Repubblica, ha voluto ricordare anche lui, il numero 482 di quell’elenco che vergò di suo pugno: Garibaldi Giuseppe fu Domenico. Prima di partire da Quarto insieme ai suoi 1089 uomini, il generale spiegò così al re la missione che lo avrebbe portato a Marsala: «Il grido di sofferenza che dalla Sicilia arrivò alle mie orecchie ha commosso il mio cuore e quello di alcune centinaia dei miei vecchi compagni d’arme. Io non ho consigliato il moto insurrezionale dei miei fratelli di Sicilia; ma dal momento che si sono sollevati a nome dell’unità italiana di cui Vostra Maestà è la personificazione, contro la più infame tirannide dell’epoca nostra, non ho esitato a mettermi alla testa della spedizione». Poco d’accordo sull’infame tirannide, Roberto Calderoli, che a duecento anni dalla nascita, volle celebrare così tre anni fa, Giuseppe Garibaldi: «Siamo in lutto. L’azione sua e dei Savoia hanno fatto il male della Padania e del Mezzogiorno».
Non a caso, Giorgio Napolitano ha voluto mettere in guardia dalle «grossolane denigrazioni» sul suo conto, ricordando la «capacità di attrazione e di guida», il “coraggio” e la “perizia” del condottiero. «Tra gli eroi improvvisati del nostro tempo e Garibaldi, noi preferiamo Garibaldi e spero che anche Calderoli sia d’accordo», ha commentato il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, parlando con i giornalisti al termine della cerimonia. E se le recenti perplessità suscitate dal demanio federalista hanno riacceso i riflettori sui costi della riforma, il presidente Napolitano ha voluto ricordare come l’Unità abbia rappresentato per la Penisola la base del suo progresso. «Ieri volemmo farla una e indivisibile, come recita la nostra Costituzione, oggi vogliamo far rivivere nella memoria e nella coscienza del paese le ragioni di quell’unità e indivisibilità come fonte di coesione sociale, come base essenziale di ogni avanzamento tanto del Nord quanto del Sud in un sempre più arduo contesto mondiale», ha spiegato il capo dello Stato. Anch’egli presente alla cerimonia, il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha voluto sminuire l’assenza degli esponenti della Lega. «Oggi non c’era Calderoli, ma non c’era neppure la maggioranza dei ministri – ha spiegato il pidiellino – Non capisco questa caccia alle presenze. Alla ricorrenza del 4 novembre non si è mai visto alcun esponente della sinistra, a parte Parisi, e non ci sono mai stati problemi. Se c’è una sensibilità diversa tra Pdl e Lega sulle celebrazioni per l’unificazione d’Italia ben venga, è un arricchimento e testimonianza che nessuno va a rimorchio della Lega».
L’apertura del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ha visto anche la partenza di una regata celebrativa che si concluderà l’11 maggio a Marsala. Lì Umberto Bossi e Roberto Calderoli sono attesi dal sindaco della cittadina siciliana, che ieri ha ufficialmente invitato i due esponenti leghisti. «Potranno salire sulle due barche a vela che stanno ricompiendo il viaggio dei Mille e raggiungerci», ha spiegato.Toccata la terraferma, da quelle parti non si respinge nessuno.
ROMA. «Quelli del Nord volevano la libertà dall’Austria ma avevano mille dubbi sull’unità d’Italia. Si trovarono nei pasticci grazie ai Savoia. Io sono lombardo, quindi ci vado cauto ad esagerare». Umberto Bossi arriva alla Camera per la fiducia al dl incentivi e subito ribadisce le sue tesi per così dire storiografiche sul Risorgimento italiano. Qualche ora prima, davanti alla Commissione bicamerale per il federalismo fiscale, Roberto Calderoli aveva interrotto a metà una frase dopo una mezz’ora di audizione per constatare: «Scusate ma ora devo proprio scappare» (il ministro per la Semplificazione, d’altronde, doveva correre a palazzo Grazioli per discutere con Silvio Berlusconi i destini – ovviamente federali – del Paese). Il leghista ama, quando non ricorre alla violenza verbale, dimostrare plasticamente opinioni e umori al popolo. È così, a colpi di gesti e frasette buttate lì, che il Carroccio svolge la sua controcelebrazione del 150° anniversario dell’unità d’Italia. Poche ore prima, a Quarto, il capo dello Stato aveva inaugurato le celebrazioni dallo scoglio da cui salparono i Mille, proprio davanti alle metaforiche sedie vuote dei ministri leghisti («non ci hanno invitato», ha sostenuto Bossi). Non sono scelte fatte a caso, né semplice scortesia istituzionale: il Carroccio non ha intenzione di farsi scippare quello che è oramai il monopolio della narrazione politica nel nostro paese. Ieri, dopo le frasi pesate ma ferme rivolte loro da Giorgio Napolitano («Festeggiare l’unità non è tempo perso, né uno spreco di denaro»), i vertici lumbard non hanno risposto direttamente, perché il loro vero lavoro si svolge al livello dell’immaginario. È indicativo, sempre dal punto di vista della narrazione, che proprio ieri sulle pagine del Giornale comparisse un’intervista a Stefano Bruno Galli, professore di Storia delle dottrine politiche all’università di Milano e “intellettuale organico” al Carroccio: «Nel 1911, per i cinquant’anni dell’Unità, c’era un’idea guida, l’avvento dell’industria pesante e i progressi economici e sociali. An-
che nel 1961 c’era un pensiero forte, la ricostruzione e il boom economico. Oggi un’idea guida non c’è, c’è solo la ricorrenza anagrafica».
L’idea guida, quindi, ce la mettono loro, i leghisti. Il federalismo ovviamente, declinato a caso. «Un Veneto autonomo in un’Italia federale», scandiva ieri Luca Zaia debuttando davanti al suo consiglio regionale. «C’è poco da festeggiare se non si fa il federalismo», sparava in prima La Padania, il foglio leghista che è una cosa a metà tra un quotidiano di partito e un “giornaletto popolare”destinato a fare cultura di massa. Le linee di propaganda della Lega, all’ingrosso, sono due. La prima è stata esemplificata proprio da Calderoli domenica scorsa: «Non sarò a Quarto, ma a lavorare per realizzare il federalismo». Tradotto: i ladri romani buttano i soldi per fare flanella ai convegni («le solite cose inutili», secondo Bossi) mentre l’operoso politico nordista si consuma gli occhi sulle sudate carte delle riforme. In seconda battuta c’è poi l’occupazione di ogni spazio del racconto pubblico, l’offensiva sull’immaginario nazionale che – trovando a contrastarla il nulla culturale del Pdl e la troppa retorica degli altri – allaga la pianura senza più argini. È storiografia un po’grossier ma alla fine passa: i lumbard s’appropriano del filone federalista del pensiero politico italiano per dare l’idea di esserne i seguaci (ma non smettendo di usare il tricolore come carta da cesso) e riscrivono con gli occhi di oggi i popoli di ieri. Prendiamo il senatur in persona che giorni fa spiegava che la storia patria è «troppo semplificata», perché in realtà «Cavour era federalista, la promessa e l’impronta federalista sono state fondamentali nel percorso di unificazione. Senza questa premessa e senza questa impronta i lombardi non ci sarebbero mai stati a finire sotto il Piemonte. Poi il re ha tradito perché ha imposto il centralismo. Oggi è arrivato il momento di riprendere quella promessa e mantenerla». Eccola la controcelebrazione della Lega, Bossi è Cavour: la festa è ovunque sia lui.
politica
pagina 8 • 6 maggio 2010
Colpo al cuore. In poche ore travolte due figure cardine della macchina berlusconiana, sempre più disarmata nel conflitto interno
Dopo Scajola, Verdini
Inquisito il coordinatore Pdl: «Sono innocente, non mi dimetto» Bossi e Fini (insieme) sconfessano il premier: «Non è una congiura» ROMA. Colpo al cuore del sistema. Doppio colpo, anzi. Nel giro di ventiquattr’ore cadono i due uomini macchina del potere berlusconiano: dopo Claudio Scajola ecco Denis Verdini. I due dirigenti a cui il Cavaliere ha affidato negli ultimi anni lo snodo chiave della sua impresa politica, ossia le candidature. Mentre i pm di Perugia ricostruiscono infatti il percorso del denaro proveniente da Anemone e transitato per casa Scajola, dalla Procura di Roma arriva la notizia che il coordinatore nazionale del Pdl è indagato. Nel suo caso si tratta della seconda inchiesta in poche settimane: dopo quella sulla “cricca”e sulla Protezione civile ecco spuntarne un’altra, imperniata su un giro d’affari in Sardegna. Verdini in particolare avrebbe un posto d’onore in quello che per gli inquirenti è un vero e proprio “comitato”. Tra le altre persone coinvolte c’è il nome dell’intramontabile Flavio Carboni, praticamente il “faccendiere” per antonomasia, ancora sotto processo per le vicende legate al defunto banchiere Roberto Calvi. Compare quindi un costruttore, un consigliere provinciale di Iglesias, un rappresentante dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente di Sanremo e il magistrato tributario Pasquale Lombardi. Tutti insieme si sarebbero adoperati per pilotare l’assegnazione di appalti nel settore dell’ecolico in Sardegna e relativamente al carcere di Sassari. E sullo sfondo pare definirsi anche in questa vicenda un ruolo per l’ormai immancabile costruttore Diego Anemone.
Tg24 il presidente della Camera ascrive al capitolo «conflitto d’interessi» la questione del Giornale di Vittorio Feltri. L’ex leader di An trova lo spazio per affondare tutta una serie di colpi: rivendica il diritto ad avere «opinioni politiche», definisce la Lega un alleato importante ma chiede anche di «non andargli a rimorchio», liquida come «minoritarie» le posizioni di Bossi sull’Italia unita. E soprattutto, colpisce là dove il cofondatore ora è debole: «Il ddl anticorruzione meriterebbe una corsia prefernziale». Un modo come un altro per infierire su punto che vede Silvio assai vulnerabile, dopo le dimissioni di Scajola e la nuova inchiesta su Verdini. Senza i domatori del partito-testuggine il premier non può più liquidare l’ex leader di An come una scoria da smaltire in fretta.
di Errico Novi
Ecco l’orizzonte entro cui va collocata la perquisizione dei giorni scorsi presso la sede della banca presieduta da Verdini, il Credito cooperativo fiorentino: secondo i magistrati romani è da lì che sarebbero passate grandi quantità di danaro impiegate nel giro d’affari. Parte dei soldi sarebbe servita a corrompere altri esponenti politici di rilievo. Insomma una scena e un quadro fosco in cui le brutte sorprese per Berlusconi non paiono esaurite. Poche ore prima che la notizia dell’inchiesta divenga pubblica Verdini raggiunge con Fabrizio Cicchitto la residenza romana del premier. Si fa il punto sui una situazione che diventa pesantissima con il passare delle ore, e rispetto alla quale il Cavaliere esprime da giorni tutta la sua preoccupazione. Non è tanto la direzione particolare che le varie iniziative giudiziarie rischiano di prendere, a giustificare l’ansia del premier, ma – appunto – il fatto che al centro del mirino siano finiti due personaggi cardine, gli uomini a cui il
presidente del Consiglio ha affidato negli ultimi dieci anni la selezione della sua classe dirigente, Scajola e Verdini. Se il primo appasre definitivamente delegittimato, il secondo può farsi scudo solo del fatto di non ricoprire incarichi di governo, ma è in una condizione forse anche peggiore. Che i nervi siano messi a dura prova lo dimostra la replica del coordinatore pdl ai cronisti in Transatlantico: «Non ho alcuna intenzione di dimettermi, non ho questa mentalmità», dice dopo aver assicurato di non conoscere Anemone. Quasi a marcare la distanza dal ministro, e compagno di sventura, dimessosi soltanto poche ore prima.
Con il discredito piovuto sui due big rischia di essere messo in discussione un intero ceto politico, che in buona partre da loro è stato selezionato: da Scajola già a partire dalle Politiche del 2001, quando era ancora coordinatore nazionale di Forza Italia; da Verdini soprattutto nel 2008, tornata in cui gli è toccato il compito di gestire la difficile transizione da FI al listone unico. Di certo il dimissionario ministro per lo Sviluppo economico non ha smesso di dire la sua e far sentire tutta la sua influenza anche negli ultimi anni, in cui è stato solo fisicamente lontano dalla stanza dei bottoni.
Tutto questo indebolisce terribilmente Berlusconi, in una fase decisiva del confronto interno. Vengono di fatto a mancare due cardini indispensabili di quel monolite da cui il presidente del Consiglio pensava di poter escludere, o emarginare, Gianfranco Fini. Nel caos generale oltretutto il Cavaliere trova grande difficoltà per la sostituzione di Scajola: vuole una figura di provata fedeltà, «capace di tenere
Umberto Bossi lo capisce al volo, come al solito: e dice che «non ci sono fratture nella maggioranza». Formula impeccabile per proclamare l’armistizio, per conto della Lega ma di fatto anche a nome di un Berlusconi sempre più disarmato. Su un’altra cosa lui e la Terza carica dello Stato si trovano perfettamente d’accordo: «Non c’è una congiura dietro le inchieste in corso», dicono con perfetta sincronia temporale. È prima di tutto la sconfessione della tesi berlusconiana, sostenuta dal presi-
Dal leader della Lega richiesta d’armistizio con il presidente della Camera. Il Pdl adesso non è più un monolite in grado di espellerlo. Il Cavaliere congela Romani e assume l’interim dello Sviluppo economico testa a Tremonti», come avrebbe detto a un gruppo di senatori ricevuto a cena martedì sera. È per questo che la soluzione a portata di mano, promuovere il viceministro Paolo Romani, non viene afferrata al volo. È questo il motivo che spinge il capo del governo a chiedere e ottenere da Napolitano, nel tardo pomeriggio, l’interim dello Sviluppo economico. Una strada non priva di controindicazioni: come viene fatto subito notare da Pd e Italia dei valori, la gestione di quel dicastero enfatizza enormemente il conflitto d’interessi.
E Fini si inserisce non del tutto volontariamente proprio in questa scia: in un’intervista ricca di spunti mandata in onda da Sky
dente del Consiglio persino con i rappresentanti del Ppe martedì sera. La simultanea presa di distanze certifica l’insostenibilità del conflitto interno per il Cavaliere. Il discorso vale anche per i rapporti con Giulio Tremonti: il quale smentisce di voler imporre la nomina di Romani allo Sviluppo economico. Nonostante le notizie certe di un suo via libera, a riguardo, comunicato personalmente al premier e per telefono alla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. Nel tentativo di Berlusconi di sottrarsi a una scelta fin troppo «comoda» per il debordante ministro dell’Economia c’è d’altra parte tutto il senso del suo affanno. E di un quadro politico in cui appare sempre più accerchiato.
politica
6 maggio 2010 • pagina 9
Ritratto del «Berluschino della Toscana» che comanda a Via dell’Umiltà ROMA. Non sono passate nemmeno 24 ore dalle dimissioni del ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola che a finire nel ciclone politico giudiziario è ora uno dei coordinatori del Pdl Denis Verdini. Indagato per corruzione dalla Procura di Roma in un’inchiesta che muove dagli appalti per l’energia eolica in Sardegna e sul carcere di Sassari, appalto affidato al costruttore Diego Anemone. Inchiesta che vede già indagato l’uomo d’affari Flavio Carboni e il magistrato tributarista Pasquale Lombardi.
Il
L’uomo d’affari del partito del fare Da febbraio è sotto inchiesta a Firenze per le grandi opere della Protezione Civile di Riccardo Paradisi
costruttore Arcangelo
Martino, il consigliere provinciale di Iglesias Pinello Cossu, il consigliere dell’Arpa di Sanremo Ignazio Farris. La replica di Verdini è secca: «Totale estraneità, ad ogni ipotesi di comportamenti penalmente o anche moralmente rilevanti. Continuo ad essere disponibile, com’è mio costume, a favorire nelle sedi opportune il pronto accertamento della verità da parte della giustizia, che metta nel nulla tutta una serie di illazioni, falsità e costruzioni giornalistiche». È la seconda inchiesta dentro cui finisce Verdini. Era il febbraio scorso quando il coordinatore nazionale del Pdl infatti veniva indagato per corruzione nell’ambito dell’inchiesta fiorentina sugli appalti per le grandi opere. Durante gli interrogatori Verdini ammetteva davanti ai pubblici ministeri di Firenze di aver raccomandato l’impresa Btp di Fusi perché avesse “qualche appalto” in Abruzzo. A questo aiutino Verdini adduceva ragioni di buon cuore: il fatto cioè che l’imprenditore
era in un momento difficile, che la Btp era in cattive acque e che trovatosi nella possibilità di aiutare un’impresa con 3 mila dipendenti Verdini lo faceva. Commentando il contenuto complessivo delle dichiarazioni rilasciate da Verdini il gip di Firenze – in particolare in merito alla nomina di Fabio De Santis a provveditore delle opere pubbliche per la Toscana – osservava che il coordinatore del Pdl «non ha negato l’evidenza ma volendo dare una lettura benevola delle sue dichiarazioni commentava che la versione di Verdini faceva «riflettere sulla scarsa consapevolezza, da parte dei soggetti che ricoprono cariche pubbliche e comunque ruoli pubblici molto rilevanti, circa la negatività delle raccomandazioni, specie quando queste riguardano posti di potere e, come nel caso di specie, non di natura politica ma tecnica». Dall’ordinanza emergeva an-
che il ruolo del coordinatore nazionale del Pdl, Denis Verdini, che sarebbe intervenuto per arrivare alla nomina di De Santis ai vertici dell’organismo toscano titolare del potere di assegnazione degli appalti per le opere pubbliche. Ma De Santis è un tecnico e non aveva i requisiti per essere nominato come funzionario; tanto è vero che è stato nominato come esterno. Per quanto riguarda
dalle conversazioni a fine luglio 2008, il coordinatore del Pdl entra direttamente in contatto con Balducci (ex presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici); tra i due si realizza immediatamente una convergenza di interessi. «Verdini – dice sempre il gip – garantisce a Balducci una copertura politica che gli consenta quantomeno di attenuare le resistenze che incontra sul“territorio” nell’esecuzione delle opere concernenti “grandi eventi”. Balducci, inoltre, ottiene facile accesso al ministro Matteoli, con cui Verdini ha uno stretto rapporto. Tra i due nasce subito un feeling».
Il suo nome è stato spesso collegato alle attività di un costruttore lucchese molto chiacchierato: Riccardo Fusi. Così è finito nelle inchieste su Bertolaso ancora il legame tra Verdini e Fusi è vero che i due erano erano legati da un rapporto amicale, ma anche da corposi interessi di natura economica che coinvolgono anche Roberto Bartolomei, vice di Fusi alla Btp. Parlando dell’incontro fra Verdini e Angelo Balducci sempre il Gip di Firenze evidenziava che come risultava
Insomma già da queste carte si prefigura un sistema Verdini articolato, organico, in grado di tenere insieme la dimensione politica e quella economica «Un sistema di potere talmente forte, collaudato, insidioso, in grado di inquinare gli ap-
palti e la concorrenza tra le imprese – così lo descrive il Gip Rosario Lupo. Un meccanismo messo in piedi da imprenditori senza scrupoli e da pubblici funzionari venduti che fa rilevantissimi danni non solo alle casse dello Stato ma anche all’ambiente e alla qualità degli interventi pubblici sul territorio». Nel suo memorandum pubblico autodifensivo Verdini descriveva il meccanismo in un modo diverso: «Il mio amico Riccardo Fusi è persona di cui mi fido, un vero imprenditore con tremila lavoratori alle sue dipendenze. Sono indagato per aver sostenuto una nomina che poteva interessare. Questo ha indotto i magistrati a pensare che ci fosse sotto un reato, ma non è così, non ho mai preso una lira, ma non nasconderò mai che a Riccardo ho presentato il mondo, tutti quelli che mi chiedeva di conoscere».
Dimettersi da coordinatore? si chiedeva poi Verdini nella sua arringa difensiva «Non mi passa neanche per l’anticamera del cervello – rispondeva – Certe cose sono roba da asilo infantile. Siamo un sistema di potere? Scoperta dell’acqua calda. Quando c’è discrezionalità si apre la porta ad un sistema. Il punto è se è legittimo o illegittimo». Ed è un punto che fa molta differenza evidentemente. Chissà se ora però, dopo le dimissioni di Scajola, date per l’alto senso dello Stato come hanno dichiarato a ventaglio molti esponenti della maggioranza, almeno l’ipotesi delle dimissioni ha preso parte in qualche parte del cervello di Verdini.
pagina 10 • 6 maggio 2010
panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Quei consigli alla scuola libera di Luigi Einaudi a mostra dedicata a «L’eredità di Luigi Einaudi» a Napoli ci offre l’occasione per chiederci se dell’eredità facciano parte le celebri «prediche inutili». In particolare, penso alla predica per l’abolizione del valore legale del titolo di studio - raccolta con altri scritti nel libro La libertà della scuola (liberilibri) che permetterebbe di riportare il dibattito sulla scuola ai “fondamentali”: la certezza di uno Stato che garantisca il diritto all’istruzione e un sistema di scuole libere dalla volontaria servitù statale generata dal monopolio. Vediamo.
L
L’abolizione del valore legale dei “pezzi di carta” è vista come una cosa strana. Ieri ce n’era un cenno nella rubrica delle lettere del Corriere della Sera curate da Sergio Romano e l’ex ambasciatore ribadendo di condividere la giusta proposta di Einaudi ha aggiunto, per rassicurare e non scandalizzare il suo lettore, che conosce l’importanza di una laurea soprattutto se rilasciata da un’università dove si studia seriamente. L’abolizione del valore legale del titolo resta avvolta in una nebbia e non si capisce bene cosa significhi. È naturale che ciò accada perché per gli italiani la scuola di Stato è l’unica esperienza di studio. Nella formula «abolizione del valore legale del diploma» ci soffermiamo su “abolizione” e ci allarmiamo, mentre se vogliamo capire Einaudi dobbiamo, oltre che leggerlo, chiederci cosa significhi “legale”. I diplomi scolastici e universitari in Italia sono legali perché lo Stato li utilizza come modo per accedere agli uffici e introdurre un principio di gerarchia nella pubblica amministrazione. Lo Stato dovrebbe organizzare i suoi uffici secondo efficienza e sicurezza e scegliersi dei buoni dirigenti, ma non riesce a farlo in maniera autonoma e si rivale sulla scuola e l’università attribuendo un valore legale ai titoli e facendo corrispondere ai curriculum professioni e mansioni. Ma chiediamoci: il fine della scuola e dell’università è quello di allevare dirigenti e impiegati per lo Stato o non è piuttosto l’educazione e il sapere e quindi la libertà? Il monopolio statale dell’istruzione snatura insieme sia lo Stato sia la scuola: la scuola è asservita allo Stato e lo Stato che di fatto diventa “etico” non svolge più la sua funzione di garanzia.
Abolire il valore legale, dunque, non significa, come si tende a credere, mortificare la scuola o la legalità, ma, al contrario, significa esaltarle. Ciò che si abolisce è solo l’ingerenza dello Stato - ossia partiti, governi, maggioranza, sindacati - nel sapere. Infatti, per avere dirigenti e impiegati, peraltro migliori, non è necessario avere titoli legali, ma basta che lo Stato organizzi un suo rigoroso sistema di esami extrascolastici. La predica di Einaudi non è una provocazione ma un’idea più libera e giusta della democrazia. La fonte dell’idoneità del sapere non è il sovrano ma il sapere stesso. Invece oggi nessuno chiede alla scuola il sapere, ma solo il diploma. Luigi Sturzo lo diceva così: gli italiani non saranno liberi fino a quando la scuola non sarà libera. Gli italiani, purtroppo, non sono gli eredi di Einaudi.
E i precari rovinano la festa di Epifani Al congresso della Cgil fischi per tutti: da Bonanni a Sacconi di Vincenzo Bacarani
RIMINI. Con il solito rituale di bordate di fischi ai rappresentanti di Cisl e di Uil (i segretari generali Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti), al ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, e al nuovo presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, ex-leader del sindacato Ugl, si è aperto ieri nella città della riviera romagnola il sedicesimo congresso della Cgil. La contestazione ai sindacati rivali è una prassi ormai consolidata delle assise della più grande organizzazione sindacale italiana che ne conferma la forte connotazione ideologica e ne ribadisce la ritrosia a qualunque forma di unità o unitarietà sindacale con le altre due maggiori confederazioni. Ma una contestazione c’è stata anche nei confronti del segretario generale, Guglielmo Epifani, da parte di un gruppo di lavoratori precari che non si sentono tutelati a dovere dalle organizzazioni sindacali. La Cgil coglie l’occasione - con questo congresso anche per “festeggiare” un aumento degli iscritti nel 2009 rispetto all’anno precedente: sono infatti circa 5 milioni e 800 mila i tesserati, 3 milioni dei quali però (cioé più della metà) pensionati. Per la verità ultimamente il sindacato guidato da Guglielmo Epifani ha cercato di rivolgere l’attenzione verso nuove categorie di lavoratori attivi cercando di iscrivere i cosiddetti “atipici”.
rittura a tutelare iridologi, pranoterapeuti, astrologi, ma non si occupa - se non a livello marginale - di quelli che invece rappresentano oggi la vera, nuova realtà (positiva per alcuni, negativa per molti altri) del mondo del lavoro: i precari. Una categoria che la cospicua relazione di Epifani ha, a malapena, sfiorato.
Il leader della Cgil ha parlato di un piano triennale per il lavoro che nella pubblica amministrazione permetterebbe «la creazione di 400 mila posti». Il piano di Epifani - che dovrebbe ridurre la disoccupazione dal 10 al 7,5 per cento - prevede «la sospensione per tre anni (dal 2011 al 2013) dei tagli al pubblico impiego e alla scuola con lo sblocco pieno del turn over». E ancora il segretario generale della Cgil ha proposto «un impianto di politica industriale sostenuto da meccanismi di incentivazione come sgravi fiscali e crediti d’imposta». A tutto questo va aggiunta quella che Epifani ha chiamato «la riconversione verso la green economy». Il segretario generale ha anche denunciato che è in atto «lo smantellamento dell’accordo sul welfare» firmato dai sindacati e dalle imprese con il governo Prodi. Un primo passo - secondo il leader della Cgil - di un disegno «di controriforma dei diritti». Va tuttavia precisato che quell’accordo lo stesso Epifani non lo voleva firmare e che lo ha firmato obtorto collo - prendendone ufficialmente le distanze - per non far cadere il governo allora considerato “amico”. Al congresso Cgil è intervenuta anche Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, che si è detta d’accordo sulla riduzione delle tasse per i lavoratori e per le imprese, ma che ha sottolineato come questa operazione debba tener conto del debito pubblico «che non può aumentare» e si è pertanto dichiarata contraria allo sblocco del turn over nel pubblico impiego. Marcegaglia ha tuttavia apprezzato il fatto che «ci sia stato stato un richiamo al ritorno alla crescita» condividendo «anche che ci sia una maggiore attenzione al mondo giovanile, all’integrazione europea» sottolineando infine «la volontà da parte della Cgil di tornare a lavorare per ritrovare l’unità per la riforma del modello contrattuale».
È intervenuta anche Emma Marcegaglia, che si è detta d’accordo sulla riduzione delle tasse per lavoratori e imprese
Ma la Nidil-Cgil - l’organizzazione di categoria che li vuole rappresentare - ha per larga parte fra gli iscritti (che sono circa 42 mila) artigiani e piccoli liberi professionisti con partita Iva. I lavoratori precari, quelli che non hanno partita Iva perché magari non possono permettersi di pagare un commercialista, quelli che leggono tutte le mattine gli annunci di offerte lavoro sui giornali o su internet, rimangono ancora ai margini dell’organizzazione, sono fuori dai contratti di lavoro collettivi, vengono considerati insomma lavoratori di serie B. Quantomeno non c’è in vista, almeno al momento, una strategia efficace di tutela in questa direzione e comunque 42 mila iscritti “atipici” sono comunque pochissimi. La Cgil non è tuttavia la sola organizzazione che - per motivi forse strutturali o forse metodologici - trascura la parte più debole del mondo del lavoro. La Cisl, ad esempio, che ha voluto creare la categoria Felsa (unendo altre due sigle) arriva addi-
panorama
6 maggio 2010 • pagina 11
Colpevoli anche altre sette persone. L’ex governatore, oggi di nuovo in Regione, fa sapere che ricorrerà in appello
“Laziogate”, condannato Storace 18 mesi di carcere per l’intrusione nei pc dell’anagrafe a danno della Mussolini di Francesco Capozza
ROMA. Otto condanne, tra cui quella dell’ex presidente della Regione Francesco Storace e del suo ex portavoce Nicolò Accame, e un’assoluzione. Si è chiuso così davanti al tribunale monocratico di Roma il cosiddetto processo “Laziogate”, relativo all’incursione illecita nella banca dati dell’anagrafe del Comune e all’attività di spionaggio compiuta ai danni di Alternativa Sociale. Storace è stato condannato a un anno e mezzo di reclusione, Accame a due. Scopo delle incursioni fu tentare di danneggiare il movimento guidato da Alessandra Mussolini che nella primavera del 2005 si presentò alle elezioni regionali. «Complimenti, questa è la giustizia italiana», ha detto Storace dopo la lettura della sentenza. Dal canto suo il legale del leader La Destra, Giosuè Naso, ha aggiunto che quella di oggi (ieri, ndr) «è una sentenza politica come purtroppo temevamo. Si tratta di una decisione sconcertante in un processo politico durato 43 udienze in tre anni di dibattimento. Proporremo appello». «La giustizia ha lavorato bene, avevo ragione io, peccato che non si farà neppure un giorno di prigione» ha detto la Mussolini. «È bene che chi ha compiuto questi fatti riceva una sentenza di condanna, purtroppo però in Italia è così, Storace non andrà in galera. Ma è un monito che questo non capiti mai più». Poi, scherzando ma non troppo, ha aggiun-
to: «Il mio commento, dal momento che Storace siede di nuovo in Consiglio regionale, è solo uno: “stateve accuorte”». La sentenza è stata letta ieri mattina dal giudice monocratico Buonaventura, della quarta sezione del Tribunale di Roma. A Storace, allora presidente della Regione Lazio, è stato contestato il ruolo di «determinatore o istigatore dell’azione delittuosa materialmente commessa da Nicolò Accame, Nicola Santoro, Mirko Maceri e
Daniele Caliciotti». Quest’ultimo, difeso dall’avvocato Capozzoli, è stato però assolto. L’intromissione avvenne, secondo quanto ha sostenuto l’accusa, il 9 marzo 2005 per raccogliere dati relativi a numerosi elettori. Obiettivo della vicenda, sempre secondo la Procura, era quello di ottenere l’esclusione dalle elezioni regionali della lista Alternativa Sociale facente capo alla Mussolini. Per questa vicenda, nel marzo del 2007, patteggiarono la pena davanti al gup del Tribunale di Roma, il collaboratore dell’ex presidente della Regione, Dario Pettinelli (3 mesi di reclusione poi convertita in sanzione pecuniaria) e l’investigatore privato Gaspare Gallo (10 mesi di reclusione). Fabio Sabbatani Schiuma, predecessore di Piso alla vicepresidenza del consiglio comunale, fu invece prosciolto dalle accuse in sede di udienza preliminare. Il pm Ciardi, al termine della sua requisitoria, aveva chiesto la condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione per l’allora portavoce di Storace, Accame, tre anni per Mirko Maceri ex direttore tecnico della società Laziomatica.
Nel 2005, tramite violazione del sistema informatizzato, si boicottò con firme false la lista Alternativa sociale
Maceri, Reboa, Storace, Accame e Santoro sono stati condannati a risarcire la Lait (all’epoca dei fatti Laziomatica) in sede civile. Condannati Accame e Pasqua a risarcire, sempre in se-
de civile, Alternativa sociale. I reati contestati agli imputati, a seconda delle singole posizioni processuali, erano: accesso abusivo a sistema informatico, violazione della legge sulla privacy, favoreggiamento, falso, interferenza illecita nella vita privata altrui. Nell’ambito di questa stessa vicenda, nel marzo 2007, davanti al gup patteggiarono la pena rispettivamente a tre mesi di reclusione, convertiti in una multa pari a 3.420 euro il collaboratore dell’ex governatore Dario Pettinelli, e a dieci mesi di reclusione l’investigatore privato Gaspare Gallo. In sede di udienza preliminare fu invece prosciolto dalle accuse Fabio Sabbatani Schiuma. Per l’investigatore privato Pierpaolo Pasqua il magistrato ha chiesto 2 anni e due mesi di carcere mentre per Vincenzo Piso, all’epoca dei fatti vicepresidente del consiglio comunale, il pubblico ministero aveva sollecitato l’assoluzione «perché il fatto non sussiste». La condanna a 8 mesi di Piso ha colto il suo difensore, l’avvocato Vincenzo Moneta Caglio, di sorpresa: «Sono sbalordito». Condanna a 2 anni era stata chiesta, invece, per Tiziana Perreca, che ha avuto 8 mesi; Nicola Santoro e Romolo Reboa. I reati ipotizzati a seconda della posizione andavano dall’accesso abusivo al sistema informatico del Comune di Roma, al falso, interferenza illecita nella vita privata altrui e al favoreggiamento.
Business. Autostrade si dice pronta a mettere al bando le opere oggi affidate in house al suo costruttore Pavimental
Manutenzioni, una corsia d’oro di Francesco Pacifico
ROMA. Con 25 miliardi di euro da investire nei prossimi dieci anni, è difficile dare torto a Gianni Castellucci quando dice che «Autostrade rappresenta il primo investitore privato del paese». Ma di questa cifra ai costruttori interessa soprattutto quella destinata alle manutenzioni, che per il 60 per cento il gruppo affida in house al suo braccio operativo Pavimental. Dopo le pressioni dell’Ance, ieri, durante il seminario ”Infrastrutture: Eppur si muovono”, Castellucci si è detto pronto ad aprire alla concorrenza l’assegnazione di questi appalti. «Ma le imprese che possono fare il lavoro si dovranno assumere ogni responsabilità. E solo allora non saremmo costretti a fare anche i costruttori». C’è chi ipotizza un business annuo vicino al miliardo. Senza dimenticare che da questo sistema restano fuori le aziende di taglia media visto che nei grandi lavori autostradali possono entrare soltanto i colossi del settore, mentre per i subappalti si preferisce guardare ai più piccoli.
Non va dimenticato il ruolo sempre più attivo di Pavimental, che non si accontenta più del “nero” (la pavimentazione) tanto da aver realizzato negli ultimi anni l’ampliamento a quattro corsie della Milano-Bergamo-Brescia o alcuni dei principali collegamenti con il polo fieristico di Rho-Pero. L’azienda garantisce al gruppo controllato
glio «migliorare la legislazione ordinaria piuttosto che ricorrere a strumenti straordinari», ha posto soprattutto due paletti. In primo luogo si soffermato sulla necessità di norme che permettono al committente di «premiare» i costruttori senza dover scegliere soltanto in base ai ribassi. Quindi ha auspicato «un trasferimento della responsabilità e del rischio all’esecutore e una moratoria sulle continue modifiche additive alle normative tecnico-ambientale».
L’ad Gianni Castellucci conferma investimenti pari a 25 miliardi di euro per il prossimo decennio. Ma chiede in cambio regole certe sugli appalti dai Benetton un risparmio di soldi e tempi pari al 50 per cento rispetto alle opere affidate all’esterno. Proprio per la valenza strategica dell’asset Aspi a usare questa apertura come merce di scambio al tavolo che vede riuniti ministero delle Infrastrutture, costruttori e progettisti per modificare le regole degli appalti. Castellucci, da sempre convinto che è me-
Misure che permetterebbero ad Aspi di risparmiare su costi come quelli legati al collaudo, ma anche di scoraggiare le tante imprese che una volta vinti gli appalti si affidano alla riserve legali per ritardare l’apertura dei cantieri ed evitare grosse penali.
pagina 12 • 6 maggio 2010
e còlta nella prospettiva del tempo e dello spazio quella che comunemente viene chiamata l’anomalia italiana - l’antipolitica al governo, il populismo mediatico, la teorizzazione della leadership carismatica, la crisi dei partiti tradizionali - è, a ben vedere, e fatte le debite proporzioni, il tratto generale della vicenda politica contemporanea. È l’intero paradigma politico contemporaneo ad apparire come anomalo rispetto al paradigma politologico di derivazione illuminista che ha plasmato la coscienza contemporanea dal costituzionalismo fino ad oggi malgrado le lunghe e tragiche parentesi novecentesche dei totalitarismi europei. Non a caso ormai da almeno un decennio la scienza e la filosofia politica mettono a tema la questione della post-democrazia, del potere sfuggente delle nuove elite sottratte al controllo popolare, della personalizzazione dell’autorità politica e della democrazia dinastica. Ma si tratta di anomalie che la politologia ha sempre tenuto presenti come potenzialità specifiche della stessa dimensione politica moderna. La ragione e la passione (Il Mulino) il ponderoso e denso studio di Paolo Pombeni dedicato all’approfondimento dell’evoluzione della politica nell’Ottocento e nel Novecento in Italia e in Europa, dimostra proprio questo assunto attraverso un’analisi che passando attraverso l’evoluzione del sistema costituzionale europeo nell’Ottocento e dell’entrata in scena del partito politico sfocia nella crisi contemporanea della politica, nella dialettica tra autorità politica e autorità sociale, nell’avvento del nuovo populismo e dell’ingresso sulla scena di nuove leadership carismatiche. Pombeni muove la sua indagine dal fenomeno che ha mutato il quadro di riferimento della politica occidentale, dall’avvento cioè del costituzionalismo come rappresentazione del patto fra sovranità e popolo e garanzia che questo patto non fosse un patto leonino a favore della sovranità. Il cuore della politica moderna è tutto qui, anche se - ed è il tema che abbiamo posto all’inizio di questa riflessione sullo studio del politologo bolognese - «le declinazioni tecniche e le formule trovate dall’inventiva umana per dare forma a questo equilibrio sono state molteplici e hanno travagliato la storia di due secoli». È stato però l’elemento della ragione a mettere in moto il fenomeno della Costituzioni, la razionalità illuminista, il cui fine è sin dall’inizio, quello di rendere accettabile l’equilibrio politico, un’operazione che, avverte Pombeni, non si riesce a fare senza ottenere un consenso per adesione.
S
il paginone
La storia del Vecchio Continente raccontata lungo la linea sottile della ric
La politica tra rag Dalle costituzioni al populismo: l’Ottocento e il Novecento in un’Europa sospesa tra Stato e società civile nel nuovo libro di Paolo Pombeni di Riccardo Paradisi potere in modo tale da evitarne la concentrazione in una sola sede mettendo in competizione sedi diverse».
Insomma una costruzione razionale, un’ideale regolativo che costringeva tutti a lavorare come se fosse possibile avere una sua piena realizzazione. Ecco, e torniamo alla questione dell’anomalia politica attuale, «oggi noi assistiamo a una messa in crisi di quella sistemazione perché si sono logorate alcune basi di quella razionalità, anche se non sono all’orizzonte reali alternative che consentano l’impianto di forme diverse di razionalità». Una razionalità peraltro sostenuta sempre meno dalla passione, dall’adesione se non entusiasta almeno convinta, legittimante un’autorità che in fondo si sente amica. Un deficit pericoloso e foriero di conseguenze sulla tenuta politica e sulle fonti della sua legittimità, «perché la politica - nota Pombeni - ha da sempre conosciuto questa necessità della passione, perché tende a formarsi sulla capacità di suscitare una cerchia del noi». E del resto la vicenda politica europea si è sempre snodata lungo la linea sottile della ricerca d’un equilibrio e di un’inte-
Gli anni Sessanta sono la fonte battesimale di quella che verrà chiamata, dopo Kennedy, la personalizzazione del potere e della leadership politica
«Il costituzionalismo ha rappresentato il grande sforzo di razionalizzare il meccanismo di inclusione politica dei soggetti all’interno di uno spazio pubblico delimitato: ha offerto garanzie alle posizioni degli individui e delle loro libertà, ma al tempo stesso li ha legati a delle “obbligazioni politiche” che andavano oltre il puro dovere di fedeltà al sistema. Ha organizzato l’esercizio del
grazione fra la sfera della ragione e la sfera della passione «nel quadro di una dimensione pubblica che diventava sempre più dominante nel cercare i destini anche privati dei suoi membri». Pombeni individua nel partito politico uno dei principali strumenti della ricerca di questo equilibrio politico. È nella forma partito moderna che si sono compensati sia gli aspetti della razionalità la partecipazione, la discussione, la difesa della costituzione come equilibrio sia gli aspetti della passione, in quanto i partiti «sono agenzie di identificazione e istituzioni che chiedono la disponibilità al sacrificio». Ecco, la generale crisi dei partiti nell’Europa attuale deriva an-
che dal fatto che essi si sono molto allontanati da questi ruoli.Talmente tanto da far dimenticare che i partiti sono stati prima in embrione la causa e poi il frutto della rivoluzione borghese per due motivi sostanziali: «sono il derivato naturale dell’ideologia illuministica dell’opinione pubblica» da un lato e sono, dall’altro «il frutto della disgregazione dello stato assoluto promossa dal costituzionalismo liberale», che è un sistema di valori oltre che una diversa forma di organizzazione del potere politico.
Ma se i partiti sono il frutto del pensiero e delle rivoluzioni moderne le declinazioni di questo pensiero sono state diverse nei due epicentri delle grandi rivoluzioni politiche europei. In Inghilterra la rivoluzione è sempre stata letta come una rivoluzione conservatrice che ristabiliva gli antichi diritti contro i tentativi di usurpazione: «la gloriosa rivoluzione venne sempre più presentata come la
vendetta della società contro la politica mentre in Francia la dinamica è stata opposta: qui la rivoluzione aveva costituito programmaticamente il superamento dell’antico regime e la sua pretesa era stata quella di una società politica, «essendo il politico la rivoluzione, ed essendo la rivoluzione il regime nuovo».
Sta qui, peraltro, fa notare Pombeni, la radice della teoria leninista del partito unico che si fonda su un marxismo inteso come sviluppo della rivoluzione dell’89. Il costituzionalismo ha riguardato anche la Germania naturalmente ma qui Pombeni individua una via prussiana alla costituzionalizzazione del politico, nel senso che il pensiero tedesco si preoccupa del fatto che lo stato debba continuare a essere lo strumento per il disciplinamento sociale, una prospettiva lontanissima da quella inglese. Resta tuttavia il problema dell’equilibrio tra passione e ragione, tra
il paginone
cerca d’un equilibrio tra la sfera dell’ideologia e quello del pragmatismo
gione e passione Paolo Pombeni. A destra, dall’alto: Silvio Berlusconi; Amintore Fanfani e Nicolas Sarkozy In apertura, un ritratto della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America
non ci si mette all’interno di quest’ottica. Insomma diventa molto difficile comprendere il carattere totalitario dei partiti fascisti e il consenso che essi hanno indubbiamente avuto senza capire la loro pretesa di rendere istituzionale un dato normale della forma partito contemporanea, di sussumere il partito unico nello Stato. Ma non c’è solo questa sostanza di destra del fascismo. Pombeni indica in esso anche un elemento di sinistra utile a spiegare la sua capacità di presa: «La forma partito alla socialista è uno degli elementi cardine che portarono gli esclusi da questa tutela a reclamare a un tempo l’eliminazione dei partiti per tornare all’antico rapporto sovrano-cittadino e la creazione, anche per essi, di analoghe forme di tutela politica». Come scrive nel 1928 Sergio Panunzio in un articolo sul Popolo d’Italia: «Il diritto di ieri fu la scheda elettorale, il diritto di oggi è la tessera. La tessera è il simbolo di una società politica organica in cui ogni componente non è parte a se stessa, ma in tanto è qualcosa, conta e pesa qualcosa in quanto tesserato».
Con la sconfitta militare del fascismo e il ritorno delle libertà costituzionali si torna alla ricerca di un equilibrio tra autorità politica e sociale. Anche se restano elementi di continuità tra il fascismo e la repubblica democratica evidenti a chiunque voglia vederli. «Le costituzioni postfasciste - sottolinea infatti Pombeni - pur negando la legittimità di strutture a partito unico, sono basate su partiti che rappresentano un ideal-tipo non troppo dissimile a quello dei partiti fascisti». A reincarnarsi infatti è l’idea che la fedeltà politica passi per la mediazione legittimante del partito «con il solo limite del pluralismo e della competizione dei partiti». Un condizione che genera un paradosso che Pombeni definisce sconcertante: ossia che i partiti fascisti che volevano restaurare lo Stato, hanno aperto ai partiti la via del dominio della sfera pubblica mentre il risultato dell’azione dei partiti antifascisti, restauratori della democrazia, è consistito nell’aver confermato il ruolo dell’ideologia come fondamento del diritto politico. Contraddizioni che proseguono in tutta la storia del dopoguerra italiano. Infatti se è vero che la costituzione italiana si propone di legare la presenza dei partiti ai diritti individuali dei cittadini - «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti» - è altrettanto vero nota Pombe-
A differenza che in Francia, in Inghilterra la rivoluzione è sempre stata letta come una ribellione conservatrice che ristabiliva gli antichi diritti contro i tentativi di usurpazione ordine sociale e libertà individuali: come dice Tocqueville resta il problema di come difendere la società dalla demagogia mediante la migliore organizzazione della democrazia.
Il partito, si diceva, è stato lo strumento principale della ricerca di questo equilibrio, ma il partito è stato anche lo strumento con cui questo equilibrio si spezza. I partiti fascisti nascono esattamente come risposta alle sfide che la crisi politica poneva. E non si comprenderebbe, dice acutamente Pombeni, lo straordinario fascino che il fascismo esercitò su tante persone di alta cultura - da Carlo Schmitt a Vilfredo Pareto - se
ni che quell’articolo della Costituzione descrive in maniera piuttosto esplicita la centralità dei partiti.
Insomma, i partiti sono l’unica via riconosciuta come efficace perché un cittadino possa entrare nel meccanismo del governo. E infatti ogni partito italiano del dopoguerra si preoccupa di tenere assieme il senso dello stato e il suo particulare ideologico che ha dello stato una concezione spesso incompatibile con quella dei partiti concorrenti. Una doppia morale forse inevitabile dentro un sistema ad alto tasso ideologico come quello dell’immediato dopoguerra. Ideologia da cui non è esente nemmeno la Democrazia cristiana che deve assorbire la spinta valoriale cattolica e quella della cultura conservatrice. Come la critica di Augusto del Noce alla società secolarizzata del benessere e dei consumi. La Dc però uscirà da questa impasse muovendosi, con grande naturalezza, su una linea molto pragmatica «che la porta come forza cardine del governo a farsi collettore delle istanze sociali che emergono dalla nuova società dominata dai ceti medi diffusi e dalla loro domanda di consumi, senza porsi alcun problema particolare di orientamento di questa trasformazione». La nascita del centrosinistra in Italia - anche nell’area socialista avviene qualcosa di simile alla secolarizzazione ideologica avvenuta nella Dc - è la linea di confine tra il tramonto d’una società ideologica e l’avvento postideologica. Si incontrano tradizioni politiche che non si pongono più il problema della fedeltà alle radici ma si volgono a investire d’una nuova azione politica un paese che attraversa i mutamenti epocali del mercato monetario e sta per entrare nella rivoluzione dei costumi. Gli anni Sessanta sono anche la fonte battesimale di quella che verrà chiamata la personalizzazione del potere e della leadership politica. Ciò avviene col dispiegarsi del mezzo televisivo ma non solo. «Il personality show che si presentò con forza sempre maggiore a partire dagli anni Sessanta con il diffondersi del mito di John F. Kennedy - dice
6 maggio 2010 • pagina 13
Pombeni - è un fenomeno che ha avuto una sua incidenza non tanto nell’evoluzione quanto nella crisi della forma partito classica». Personalizzazione che torna a braccetto col populismo «come tecnica di raccolta del consenso politico, che invece da parte sua non era estraneo a rilanciare talune forme di aggregazione». Il populismo dunque, il fenomeno da cui siamo partiti in questo viaggio dentro la riflessione di Paolo Pombeni, un trend culturale che investe un’area più vasta della realtà italiana. Un tema ritenuto marginale dalla politologia fino a pochi anni fa «in quanto relegato a fasi molto precoci del processo di democraticizzazione come nel caso storico del populismo americano o a fasi di reazione alle rigidità elitiste di sistemi costituzionali importanti».
Pombeni definisce il populismo come «quell’ideologia che propone di far risiedere la legittimazione politica nell’esistenza di una consonanza fra le sedi del potere politico e il popolo che viene programmaticamente considerato come un qualcosa di diverso dalle istituzioni che raccolgono e rappresentano il consenso delle componenti politiche». Noi stiamo dunque assistendo al ritorno su scala occidentale di leadership personali e carismatiche, al cesarismo mediatico, allo svuotamento dei parlamenti in nome della necessità della decisione resa indispensabile e necessariamente veloce dell’accelerazione del tempo soggettivo della vita sociale e dal principio di competizione generato dalla globalizzazione. La direzione che questa transizione attraverso il nuovo populismo potrà prendere dipenderà dalle nuove forme della rappresentanza che saprà elaborare la cultura politica. Dai campi di tensione su cui si ristabilirà o no l’equilibrio che da secoli l’Europa cerca tra l’autorità e l’ordine. Quello che è certo - come dice Pombeni - è che l’autorità politica «è impensabile nei tempi moderni senza un sistema completo e complesso di leadership, prodotto in parte a livello sociale e in parte a livello politico». La dialettica tra autorità politica e sociale sembra insomma destinata a proseguire a lungo. In forme imprevedibili, che potrebbero sorprenderci e che dipenderanno, come ogni fatto politico, dalla risultante delle volontà degli attori politici e sociali in campo.
pagina 14 • 6 maggio 2010
mondo
Analisi. L’integralismo islamico prende piede nella classe media, un tempo roccaforte nazionalista. È la morte delle ideologie, che apre la via alla violenza
L’America che si odia L’attentatore di New York è solo l’ultimo di una serie di cittadini che hanno bruciato la propria bandiera di Ishrat Saleem
Q
uando gli Stati Uniti decidono, per un motivo o per l’altro, di impegnarsi in avventure militari in giro per il mondo, la popolazione americana reagisce. Chi vive in America è influenzato in maniera diversa, ma sempre di più, dal modo in cui la propria nazione viene vista e considerata nel resto del mondo. Nonostante abbia messo in piedi e potenziato con forza un apparato di sicurezza estremamente sofisticato, infatti, gli Stati Uniti continuano a essere terrorizzati dallo spettro di un attacco terrorista sul proprio suolo nazionale. Al momento attuale, sembra inverosimile anche soltanto l’idea di poter organizzare un attacco all’interno del Paese senza il coinvolgimento di cittadini americani. È affascinante notare questa nuova inversione di tendenza: invece di essere attirati e coinvolti nel “sogno americano” di una vita migliore, più ricca e più felice – lo slogan che attualmente affascina milioni di cittadini di tutto il mondo – cittadini naturalizzati e persino americani ma di origine musulmana si fanno attrarre da un’ideologia militante.
Che sposa il terrore e la violenza come mezzi primari per raggiungere i propri obiettivi. E questo è dimostrato dal fatto che, in più di un’occasione, i cittadini americani sono rimasti coinvolti in attività che, secondo il nuovo lessico americano, si iscrivono nella categoria del delitto più grave: il terrorismo. Il recente tentativo di far saltare in area la storica Times Square di New York, e l’arresto di un cittadino americano con origine pakistana, ci costringono a fare una riflessione: perché un cittadino, felicemente inserito in società, si sente spinto a portare avanti un piano di distruzione di massa? Ovviamente non si vuole sostenere che siano soltanto gli americani a vivere questo fenomeno: la crescita dell’estremismo militante è emersa come un fenomeno globale, che continua a ispirare altre persone sparse per il globo. Ma colpisce che proprio negli Stati Uniti, con la loro storia di libertà e tolleranza, siano oggi il bersaglio di alcuni loro figli. Di americani che odiano l’America. I casi più recenti sono ancora nella memoria di tutti: Nidal Malik Hasan e David Headley sono americani che hanno praticato attività terroristiche in patria. Hasan era addirittura un ufficiale dell’esercito statunitense, che lavorava come psichiatra nella base militare di Fort Hood, in
Texas. Ha aperto il fuoco contro i colleghi, uccidendone tredici e ferendone altri trenta nel novembre del 2009. Di origine palestinese, Hasan è nato e cresciuto negli Stati Uniti. Così come David Headley, noto anche come Daood Sayed Gilani, nato nel 1960 da madre americana e padre pakistano: per lui, però, abbiamo un’educazione in Pakistan. Subito dopo il divorzio dei genitori, infatti, segue il padre nella terra natia. Headley
Malcolm X e le sue Pantere nere nascono durante la guerra del Vietnam, così come l’Iraq ha scatenato i fondamentalisti interni: quando il nemico non è chiaro, il popolo non lo odia è accusato di aver progettato i sanguinosi attentati di Mumbai del 2008 e di aver fornito supporto tecnico e sostegno materiale al Lashkar-e-Tayyaba, organizzazione terroristica di Islamabad. È quasi sconvolgente osservare come la frenesia irresponsabile e irrazionale della violenza islamista avvolga e coinvolga persone perfettamente sane e istruite con i migliori strumenti del democratico Occidente. Ma se si guarda l’immagine da una prospettiva più lontana, e quindi più ampia, la nebbia inizia a diradarsi. Le politiche estere delle nazioni occidentali prese nel loro complesso, e nel particolare quelle operate negli ultimi decenni dagli Stati Uniti, hanno causato rabbia e risentimento nelle popolazioni del Terzo mondo per molto tempo. E questo nonostante il fatto che il governo statunitense si sia comportato in una maniera relativamente buona, quando ha espresso nel
mondo
6 maggio 2010 • pagina 15
nio. La crescita di un’ideologia militante straniera, se la si guarda da quest’ottica, diventa dunque perfettamente comprensibile. Sorprende invece che siano anche gli americani, però, a farsi influenzare dalla stessa ideologia. Ma anche questa reazione ha dei precedenti nella storia moderna. Durante il lungo conflitto del Vietnam, combattuto nel tempo nonostante crollasse il sostegno della popolazione americana, sono nati e cresciuti movimenti interni agli Stati Uniti, il più delle volte gestiti da giovani, che si sono ribellati alla guerra. E senza questi movimenti, i vietnamiti non avrebbero mai vinto. Bruciare le bandiere in piazza, nascondersi al reclutamento e movimenti come le Pantere Nere sono tutte reazioni a quell’atteggiamento militarista da cui Eisenhower aveva messo in guardia la nazione, un atteggiamento che in Indocina ha mostrato per anni la sua faccia più brutale.
1918 il proprio sostegno alla de-colonizzazione. Fu il presidente americano Woodrow Wilson ha mettere nero su bianco il diritto all’auto-determinazione delle nazioni colonizzate, nei suoi celebri Quattordici Punti: eppure, con l’avanzare del tempo, sempre più persone si sono convinte che il vero motivo dietro alla stesura di un documento così rivoluzionario fosse quello di abbattere il vecchio ordine mondiale per crearne uno nuovo, con gli Stati Uniti a giocare il ruolo più importante. L’obiettivo di Wilson, in poche parole, era quello di espandere l’influenza statunitense in tutto il globo, controllando di fatto un sistema neo-coloniale più “leggero” sulla carta ma ugualmente ingombrante per i popoli. La grande transizione dopo questo periodo rivoluzionario si è verificato negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, quando la potenza militare americana è apparsa in tutto il suo vigore. Prima, durante e dopo la Guerra Fredda, in maniera particolare, l’aspetto primario della politica neo-coloniale americana cambia e, da influenza relativa, si trasforma in una serie di aggressive campagne militari e di invasioni. Tutte mascherate da “sostegno”più o meno conclamato a governi stranieri di tipo diverso.
Dall’America Latina all’Indocina, passando per il Medioriente e l’Asia sud-orientale, gli interventi militari americani si sono mostrati in tutta la loro ferocia, lasciando ferite e scatenando odio feroce nei popoli del Terzo mondo. Senza fare distinzione alcuna per religione, cultura, affiliazione etnica e luogo geografico di appartenenza. Questo
è un punto che va approfondito: la cultura militare americana è incidentale o nasce da un’aberrazione voluta? Contrariamente a quanto i liberali americani amano pensare, la questione militare è parte integrante del tanto celebrato “sistema statunitense”. Senza contare poi quanto l’indotto di divise e Difesa sia rilevante in campo economico.
Persino una figura del calibro del’ex presidente Dwight D. Eisenhower – che nessuno potrebbe accusare di radicalismo – mise in guarda il proprio Paese dai rischi connessi all’esercito. In un celeberrimo discorso pronunciato nel 1961, Eisenhower disse: «Dobbiamo guardarci dall’acquisire un’influenza che non sia garantita, voluta o non voluta, da parte del complesso sistema militare e industriale. Il potenziale per una disastrosa crescita di poteri occulti, che siano una risposta a questa influenza,
Un artificiere di New York disinnesca l’autobomba a Times Square. A destra Hasan, attentatore di Fort Hood. Nella pagina a fianco, il leader nero Malcolm X contraddizione che si annida in questa economia è che la capacità produttiva di questo settore è ampiamente maggiore rispetto alla domanda del mercato: ecco perché si fa di tutto per fare in modo che aumenti la domanda, e quindi scoppino altre guerre. In tutto questo periodo neo-coloniale, conflitti armati e movimenti politici (conditi da altre forme di resistenza) si sono schierati contro l’egemonia americana e il suo atteggiamento militare troppo aggressivo. All’estero come anche in patria. Vista dal mondo straniero, la questione palestinese ha offeso e colpito profondamente l’opinione dei musulmani: questi accusano gli Stati Uniti di sostenere Israele nella sua aggressione contro i palestinese e in generale contro gli arabi che vivono nelle sue periferie. I sentimenti già colpiti del mondo islamico si sono aggravati dopo le invasioni – recepite come “senza senso” – di Afghanistan e Iraq, all’inizio del nuovo millen-
Persino Eisenhower, di certo non un radicale, mise in guardia il Paese dalla troppa ingerenza militare nel resto del mondo: «Rischiamo di scatenare un mostro che dorme al nostro interno» esiste e rimarrà sempre nel tempo». E chi ha pronunciato queste parole: l’ex Comandante supremo delle Forze alleate in Europa, che più tardi divenne il Comandante supremo dell’Alleanza atlantica nel 1951. Il “sistema statunitense”ha bisogno di guerre, che producano la vendita di armi a potenze straniere, che a sua volta genera altre guerre. È un serpente che si morde la coda, e che così facendo mantiene viva l’economia. La
La politica aggressiva dell’esercito americano, hanno iniziato a dire gli americani stessi, è sistemica e non accidentale. La società statunitense – o almeno una sua parte, in crescita, ha iniziato a mostrare le ingiustizie seguite a quegli interventi aggressivi: le foto dei soprusi di Abu Ghraib ne forniscono un esempio. La maggiore opposizione alla guerra americana è avvenuta nel sistema democratico americano, che l’ha usata per cercare di incanalare in senso elettorale quel risentimento. Ma oggi assistiamo all’emergere di una nuova forma, estremamente radicale, a cui l’impegno politico non basta più. Perché sono emerse queste nuove realtà, così diverse dal loro inizio? Perché la classe media degli Stati Uniti, un tempo nerbo della società, sembra avvicinarsi quanto meno alle cause dell’estremismo islamico? La risposta si nasconde nel mercatino delle idee e delle ideologie, dove la militanza violenta e l’estremismo sono gli unici articoli in vendita. Sono questi concetti ad aver riempito il vuoto causato dalla caduta delle ideologie. La percezione comune è che si tratti di idee vecchie, che non soddisfano più nessuno: la liberazione nazionale, il socialismo, il non allineamento hanno fallito. I concetti che hanno caratterizzato il mondo post-conflitti mondiali non esistono più. Le persone cercano un modo nuovo per esprimere il loro sentimento, e l’islam radicale fornisce loro la risposta. Questa è la periferia, ed è da qui che parte la resistenza. Ma gli americani che odiano l’America sono mossi esclusivamente dal fatto che non ci sono più ideali dietro l’odio e la violenza. Come nella guerra del Vietnam, che ha creato manifestazioni e rabbia, ci troviamo davanti all’Afghanistan: quando invece, durante la Guerra Fredda, la società americana era una e compatta. La mancanza di valori ha ucciso il mondo moderno, ma rischia di scatenare il terrore ovunque. Anche nella culla della democrazia dove, se non è ben chiaro, il nemico non viene odiato. Perché gli americani, o almeno una parte considerevole di quella popolazione, è sempre proiettata nella comprensione del nemico. Ma se il nemico ha le spirali e il fascino dell’islam radicale, e la propria terra non riesce a spiegare perché lo si sta combattendo, il rischio è che nasca un matrimonio molto pericoloso.
pagina 16 • 6 maggio 2010
quadrante
I volontari pronti a ripulire le coste del Messico dal petrolio
Il regime degli ayatollah contro giornalisti e dissidenti
Marea nera in Louisiana, chiusa una delle tre falle
Teheran, nuova ondata di arresti e violenze
Chiusa una delle tre falle - la più piccola - sul fondo del Golfo del Messico a circ 1.500 metri di profondit, dalle quali da venti giorni escono almeno 5 mila barili di petrolio al giorno. Lo ha annunciato la Bp, proprietaria del pozzo. Un portavoce della Guardia Costiera statunitense ha aggiunto che questo non cambia la quantità del flusso di petrolio immesso in mare, ma semplificherà le operazioni di contenimento. «Robot teleguidati hanno tagliato una sezione del tubo, usato per portare il petrolio dal pozzo alla piattaforma, tappandolo con una valvola», è stato reso noto in un comunicato.
TEHERAN. Il regime degli ayatollah ha disposto una nuova ondata di arresti a carico di professori, attivisti, studenti e giornalisti iraniani. È quanto afferma il sito dissidente Rooz on-line secondo cui i fermi - eseguiti nei giorni scorsi - testimoniano la linea dura imposta da Teheran contro quanti lottano per la democrazia e il rispetto dei diritti umani nella Repubblica islamica. Intanto la mancanza di notizie sulla sorte del regista Jaafar Panahi desta preoccupazione fra i familiari e gli amici. Per la sua liberazione si è mobilitata anche Hollywood, con una lettera di protesta firmata da diverse stelle del cinema. Il primo maggio scorso le forze di sicurezza hanno arrestato
«Mentre questo ha bloccato una delle tre falle, il petrolio continua a riversarsi nel Golfo del Messico a una velocità di circa 5mila barili al giorno». Nel frattempo, sono decine ormai i siti online americani che chiamano a raccolta i volontari che vogliono dare una mano a pulire le coste del Golfo del Messico quando arriverà la marea nera. «Siamo in contatto con il Comando unificato per seguire i loro ordini per dove e quando entrare in azione», dicono al Mobile Bay National Estuary Program, in Alabama. «Nel frattempo incoraggiamo i singoli che vogliono partecipa-
Alla parata di Mosca torna Josip Stalin Riuniti al Cremlino gli ex membri dell’Urss di Antonio Picasso
MOSCA. Con l’avvicinarsi del 9 maggio Mosca si rifà il trucco. Domenica verrà celebrato il 65 esimo anniversario della vittoria dell’Unione Sovietica sulla Germania nazista. La fine della “Grande guerra patriottica”, come l’hanno sempre chiamata al Cremlino, sia durante la guerra fredda sia dopo il crollo dell’Urss. Per il Presidente russo, Dimitri Medvedev, ma soprattutto per il suo Primo ministro,Vladimir Putin, si tratta dell’ennesima occasione per sfoggiare la ritrovata grandezza della “Santa Madre Russia”. La parata militare di domenica, come da tradizione, si svolgerà sulla Piazza Rossa. Quest’anno però ci si attende molta più retorica rispetto alle manifestazioni precedenti. Per la prima volta dal 1945 a oggi, all’evento saranno invitati sul palco d’onore i massimi rappresentanti di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, le altre potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, sul cui impegno nel conflitto Mosca non ha mai prestato la debita importanza. Finora il Presidente francese, Nicolas Sarkozy, è l’unico ad aver confermato la sua presenza. Washington non ha ancora sciolto la riserva su chi invierà, mentre da Londra si è in attesa di sapere il verdetto elettorale. Putin ha preteso che vi siano anche il Cancelliere tedesco, Angela Merkel, e il Presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi. Questi sostanzialmente dovrebbero ricordare il ruolo delle nazioni sconfitte, presenti adesso in nome della pace e della concordia tra i popoli.
ca subìta nel corso dei decenni e spacciandoli come fantocci di immacolato eroismo. Del resto non è una novità per il Cremlino quella di rivisitare in senso dogmaticamente positivo la storia nazionale, per rivaleggiare contro gli avversari stranieri e rinforzarsi di fronte all’opinione pubblica interna. L’operazione propagandistica e di revisionismo condotta da Medvedev e Putin segue un fil rouge che in Russia è antico più di quattro secoli. Le rivoluzioni orchestrate da Pietro il Grande e da Lenin sono due passaggi isolati di contrasto nella continuità di una politica caratterizzata da anacronistiche rivisitazioni.
Gli zar si riconoscevano eredi dell’Impero bizantino e avevano trasformato la loro Russia nella Terza Roma. Stalin tornò a parlare di Santa Madre Russia e di Guerra patriottica appunto per contrastare il nazismo. La tattica odierna del Cremlino appare simile a questi precedenti. La storia viene utilizzata come uno strumento di potenza. Ciononostante resta il dubbio sul futuro che seguirà Medvedev e Putin, i quali non potranno alternarsi alla leadership del Paese per tanto tempo. La dinastia dei Romanov credeva di poter regnare in eterno su“tutte le Russie”. Il Pcus nutriva velleità simili, se non addirittura più estese in termini geografici. L’internazionalismo era infatti un obiettivo della filosofia comunista. La forza della monarchia veniva fatta discendere dal diritto divino. La solidità del Partito comunista risiedeva nella sua nomenclatura. In entrambi i casi era prevista una successione di lungo periodo e una mobilità dei quadri direzionali capace di evitare pericolosi vuoti di potere. Qual è invece la strategia tracciata dalla Nuova Russia per il suo futuro? I ritratti di personaggi a dir poco compromessi con la storia del ’900 fanno da maquillage provocatorio e grottesco, ma non dimostrano nulla che sia concretamente rilevante nella proiezione della Russia del domani. Gli attuali inquilini del Cremlino però sanno da chi verranno sostituiti tra vent’anni?
Per la prima volta dal 1945, alla sfilata per la fine della II Guerra mondiale invitati anche i rappresentanti di Usa e Gb
re alla pulizia a contattarci in modo tale che saremo pronti quando ci sarà l’emergenza». Sul sito si possono trovare le informazioni di cosa fare se si trovano animali coperti di petrolio («non toccateli, possono esserci rischi per la salute, chiamate i centri specializzati»), e consigli pratici. C’è anche un sito semi-ufficiale, creato apposta dopo il disastro al largo della Louisiana: il Deepwater Horizon Response, con tutti gli aggiornamenti su come stanno procedendo le operazioni. Al lavoro anche le più famose associazioni ambientaliste del Paese, che denunciano una strage fra gli animali locali, sia terrestri che di mare.
Approfittando della densità di Capi di Stato, il Cremlino ha deciso che le strade di Mosca e di San Pietroburgo sfoggino i ritratti dei vincitori della guerra di 65 anni fa. Il popolo russo torna quindi a osservare con nostalgia i volti ieratici dei protagonisti vittoriosi nella battaglia di Stalingrado. Tuttavia è sconcertante che a fianco di questi eroi dell’Urss torni a primeggiare il volto “baffuto”di Josip Stalin. La Russia moderna, per ribadire la sua forza, non si fa scrupoli nel mostrare al mondo i suoi scheletri del passato, depurati dalla critica politico-stori-
Maryam Abbasinejad, attivista studentesca e membro consiglio centrale dell’Associazione islamica dell’Università di Teheran. La giovane avrebbe inscenato manifestazioni di protesta in occasione della visita a sorpresa del presidente Ahmadinejad nell’ateneo.
Ahmadinejad era intervenuto per partecipare a una cerimonia di commemorazione dell’ayatollah Morteza Motahari, ucciso nei primi anni della Rivoluzione islamica del ’79. Egli doveva tenere un discorso alla facoltà di medicina. Un gruppo di studenti ha intonato cori e slogan, fra cui “morte al dittatore”,“libertà o morte” e “Ya Hossein, Mir Hossein”. Maryam Abbasinejad è stata fermata la notte seguente. Il 2 maggio le autorità hanno imprigionato Mazyar Khosravi, giornalista e direttore di Ham-Mihan, in seguito a una denuncia presentata dal rappresentante legale dell’Università di Teheran, facoltà di giurisprudenza. Il giornalista avrebbe pubblicato un lungo articolo su un raid compiuto da agenti in borghese e forze della sicurezza iraniane nel dormitorio dell’ateneo. Il primo maggio è stato arrestato Mohammad Olyaifard, avvocato, ora rinchiuso a Evin.
DOSSIER ELEZIONI
6 maggio 2010 • pagina 17
Gli analisti inglesi di fronte al rischio di un “Parlamento appeso”
Dieci ipotesi per la nuova Londra di Massimo Fazzi e Guglielmo Malagodi
Tutti gli scenari possibili del voto più incerto della storia d’Inghilterra ggi, dalle sette alle ventidue, la Gran Bretagna affronta le urne più complicate della sua storia contemporanea. La crisi economica e finanziaria che ha colpito il mondo, dicono gli analisti, spiega la variazione elettorale che i sondaggi presentano da alcune settimane a questa parte. Ma allora cosa succederà? In caso di “hung Parliament”- quel Parlamento “appeso”di cui la storia britannica ha già narrato le gesta - cosa può succedere? Fondamentalmente, sono dieci le opzioni più accreditate. Patti elettorali, governi di coalizione, compravendita di parlamentari irlandesi: ma anche vecchi trucchi della politica, come far aspettare alcuni mesi la regina, prima di rispondere al discorso con cui incarica il nuovo governo. Sono tutti scenari possibili, ma va anche analizzato il dato del “crollo”della politica inglese: se la più vecchia democrazia al mondo arranca, forse è il caso di ripensarla.
O
DOSSIER ELEZIONI
pagina 18 • 6 maggio 2010
1 Uno dei partiti
riesce a formare un governo stabile Mai come in queste ultime settimane - vista l’estrema incertezza della competizione elettorale - la Gran Bretagna è stata invasa dai sondaggi. Almeno una decina di istituti di ricerca hanno effettuato rilevazioni periodiche. E 2-3 di essi sono riusciti a mantenere un ritmo quotidiano. Malgrado questa overdose di dati, però, nessuno è in grado di prevedere se nella prossima House of Commons uno dei partiti in lizza sarà in grado di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi. Andando “per esclusione”, però, gli scenari probabili del postvoto si possono ridurre a due: i Tories superano (di poco) il “numero magico” di 326 e riescono a formare autonomamente un governo; i Tories ottengono la maggioranza relativa dei voti, ma restano al di sotto della maggioranza assoluta dei seggi (hung parliament). Mentre quasi tutti gli analisti sembrano scommettere su questo secondo scenario, che a sua volta apre la strada a molteplici soluzioni, qualcun altro non sembra ancora disposto ad escludere la possibilità che, alla fine, David Cameron riesca a trascinare i conservatori verso una risicata maggioranza assoluta. Tanto che i bookmaker londinesi continuano a considerare un governo Tory come la probabilità più alta (anche se di pochissimo, al 53%) rispetto a tutte le altre. Un altro segnale positivo per i conservatori potrebbero essere considerati gli ultimissimi sondaggi, che vedono i Tories in leggero rialzo e un (ancora più lieve) recupero dei Labour a danno dei LibDem. Anche in questo caso, però, bisogna decidere di chi fidarsi. PerYouGov, che da mesi conduce un tracking-poll quotidiano, i Tories (35%) hanno solo cinque punti di vantaggio sui Labour (30%) e più di dieci nei confronti dei LibDem (24%). Per ComRes, però, il vantaggio salirebbe a 8 punti (37%-29%) con i LIbDem al 26%. Si tratta di due scenari estremamente diversi, anche se quasi identici sotto il profilo puramente stati-
stico, perché nel secondo caso i Tories potrebbero essere vicinissimi a quota 326, mentre nel primo un hung parliament sarebbe di fatto inevitabile. Un altro motivo di “scontro” tra gli analisti, poi, è la trasposizione di queste percentuali in seggi. Molti, in Gran Bretagna, utilizzano il metodo (semplice ma dalla dubbia efficacia) dello uniform national swing: partono cioè dal presupposto che lo spostamento di voti sia uniforme su tutto il territorio nazionale. I metodi più sofistic«ti, invece, si concentrano sui “seggi marginali”, in cui il distacco tra conservatori e laburisti nel 2005 era minimo, e in questo caso i Tories sembrano godere di un piccolo vantaggio aggiuntivo che potrebbe avvicinarli alla conquista della maggioranza assoluta. C’è poi chi, come l’americano Nate Silver di Fivethirtyeight.com, preferisce un metodo misto che al momento pronostica i Tories al 34,2% (contro il 27,5% dei LibDem e il 26,3% dei Labour) con 308 seggi. In questo caso basterebbe a Cameron una percentuale intorno al 36 per diventare premier. In caso contrario, niente potrebbe evitare il “parlamento appeso”.
2 Gordon Brown cambia idea e si dimette
Se i Tories non riuscissero a conquistare la maggioranza assoluta alla Camera dei Comuni, ma potessero comunque contare su una solida maggioranza relativa dei voti e dei seggi, è possibile che Gordon Brown malgrado le ultime dichiarazioni in senso contrario di qualche giorno fa - si decida comunque a rassegnare le sue dimissioni da primo ministro. In questo caso, molto probabilmente la Regina chiamerebbe David Cameron - in qualità di leader dell’attuale opposizione parlamentare - per provare a formare un nuovo governo. Lo scenario, a questo punto, cambia in base a quanti siano i voti di distanza dei Tories da quota 326. Con più di 300 seggi, Cameron potrebbe provare a formare un governo di minoranza, magari
concedendo qualcosa alle formazioni regionali scozzesi, gallesi o irlandesi in cambio di un appoggio esterno. Altrimenti, l’unica strada sarebbe quella di un governo di coalizione, magari con i LibDem, sulla base della promessa di una riforma del sistema elettorale.
3 Un accordo
Cameron-Clegg per l’emergenza Anche se qualche analista favoleggia di una Grosse Koalition alla tedesca, con un governo di emergenza nazionale formato da Tories e Labour per fronteggiare la crisi economica e finanziaria, uno scenario molto più probabile sembra quello di una coalizione tra i conservatori di David Cameron e i lib-dem di Nick Clegg. Sotto il profilo prettamente politicoideologico, per la verità, i due partiti sono forse addirittura i più distanti tra loro (con l’eccezione di forze minori di estrema destra o estrema sinistra). Malgrado la progressiva marcia d’avvicinamento dei Tories verso il centro, con il ripudio pressoché totale della tradizione thatcheriana da parte di Cameron, i conservatori restano tutto sommato il partito del taglio delle tasse, del primato del mercato sullo stato, di una politica estera “muscolare”e dell’intransigenza sul fronte della sicurezza. E si tratta soltanto di qualcuno dei mille issue sui quali un’alleanza organica con i Lib-Dem - che si sono sempre di più spostati a sinistra negli ultimi anni - sembra teoricamente impossibile. Il partito di Clegg, però, anche se fieramente contrario alle guerre in Medioriente e sempre più “liberal” (e sempre meno “liberale” sui temi della politica economica), ha un “soft spot”, una debolezza, che i Tories potrebbero sfruttare per garantirsi il loro sostegno sia a un governo di minoranza che a un governo di coalizione: la riforma del sistema elettorale. Il classico metodo del “first past the post” che ha ancora tanti estimatori fuori e dentro la Gran Bretagna, ha praticamente tagliato fuori i LibDem da
qualsiasi possibilità di influire sulla politica britannica degli ultimi decenni. Il partito di Clegg, da sempre, è un forte sostenitore di una riforma in senso proporzionale del sistema elettorale. Una riforma a cui i conservatori sono contrari, ma non così contrari come in passato. Soprattutto se si rivelasse l’unico metodo per porre fine a oltre un decennio di dominio laburista. Negli ultimi giorni, da parte di Cameron e di alcuni esponenti di alto livello dei Tories, è arrivata addirittura qualche timida apertura alla riforma. L’analista della Bbc James Landale, per esempio, spiega che i conservatori potrebbero accettare l’ipotesi di un referendum sul sistema elettorale, lasciando la decisione finale all’elettorato e magari riservandosi il diritto di fare “campagna contro”. Secondo Bale, però, in questo scenario sono molto poche le possibilità che questo accordo (o questa coalizione) riesca a durare troppo a lungo. «Non ci sarebbe un margine sufficiente di voti - spiega l’analista della Bbc - per permettere all’esecutivo di attraversare indenne passaggi difficili come quelli che si potrebbero presentare nel caso di un aggravarsi della crisi economica e finanziaria. E come potrebbe, un governo strutturalmente così debole, riuscire a far passare “pezzi” di legislazione particolarmente controversi, come i tagli alle spese statali e al welfare che molti ritengono praticamente obbligatori per il prossimo governo della Gran Bretagna?».
4 La crisi
“congela” Downing Street In caso di risultato incerto delle urne, la storia della Gran Bretagna fornisce alla classe politica soltanto cinque esempi in cui il primo ministro in carica cerca di resistere a un voto non troppo favorevole. I cinque casi si sono verificati tutti durante crisi economiche di grande portata: secondo gli analisti, questo si spiega con il fatto che l’economia preoccupa i cittadini più di ogni altra cosa. Ma l’elettora-
to, che non ha grosse conoscenze accademiche in materia, non riesce a decifrare le proposte politiche e vota sostanzialmente a caso. In questo modo si forma un equilibrio disastroso. Brown potrebbe dunque cercare di rimanere al suo posto, approfittando della mancanza di maggioranza assoluta. L’esempio più recente è quello del 1974, governo conservatore del premier Edward Heath. Il voto assegnò ai conservatori 300mila voti in più rispetto ai laburisti, ma quattro seggi in meno. I lib-dem, con 14 seggi, non permettono a nessuno dei due schieramenti di ottenere la maggioranza assoluta. Heath cerca di tirare in barca gli Unionisti dell’Ulster, ma il tentativo fallisce dopo soltanto quattro giorni. La situazione, per Brown, è identica.
5 Una coalizione tra LibDem e Laburisti
Lavorare con tutti, anche con lo spazzino: l’importante è che non ci sia anche Brown nel mezzo. Nick Clegg è stato abbastanza chiaro, e dopo aver escluso nei giorni scorsi la possibilità di stipulare accordi con il Labour, è tornato sui suoi passi. Aprendo a trattative con il partito al governo, ma senza Gordon Brown: «Credo che se il Labour arrivasse terzo in termini di voti, allora la gente troverebbe assurdo che Gordon Brown continuasse a fare il primo ministro. Ho detto con molta chiarezza, molto più di quanto abbiano fatto David Cameron e Gordon Brown, che lavorerò con chiunque. Anche con l’uomo della luna, non importa, con chiunque sia in grado di fare quelle cose giuste che credo la gente voglia». E se è certamente più naturale un’alleanza lib-lab rispetto a quella che vede i liberal-democratici al fianco dei “nuovi conservatori” di Cameron, la condizione di Clegg è l’allontanamento di Brown. «Non credo che il popolo inglese accetterebbe di vederlo ancora come primo ministro - ha osservato - che è ciò che le convenzioni della vecchia politica impongono quan-
DOSSIER ELEZIONI do, o piuttosto se dovesse perdere le elezioni in un modo così spettacolare». Per i contenuti, invece, ci sarà da aspettare: Clegg ha più volte chiarito che la sua priorità è quella di cambiare la legge elettorale, ma in un sistema come quello britannico si tratta di una rivoluzione copernicana.
6 I termini
per la formazione dell’esecutivo Tecnicamente, non esistono tempi di legge per la formazione del governo. Esso esercita il potere esecutivo, ma è ancora il monarca a nominare il Primo ministro. Per convenzione, riceve la nomina il membro della Camera dei Comuni che ha più probabilità di formare un governo col supporto della Camera stessa, cioè il leader del partito di maggioranza. Il Primo ministro sceglie quindi gli altri ministri che formeranno il governo e saranno posti a capo, quali responsabili politici, dei vari dipartimenti governativi. Per convenzione costituzionale, i ministri sono scelti tra i membri della Camera dei Comuni o tra i pari della Camera dei Lord. In totale, i membri del governo sono circa un centinaio. Quelli preposti ai dipartimenti più importanti formano il Gabinetto ed attualmente sono circa una trentina. Come negli altri sistemi parlamentari, il potere esecutivo impersonato dal governo - deriva dal Parlamento ed è responsabile di fronte ad esso. Il successo di una mozione di sfiducia costringe il governo a dimettersi, oppure a indire nuove elezioni. In pratica, i membri del parlamento aderenti ai partiti maggiori sono attentamente controllati dai c.d. Whips, ossia i capigruppo, i quali si adoperano affinché i voti espressi seguano la politica promossa dal partito. Se il governo dispone di una larga maggioranza, quindi, è improbabile che non riesca a far approvare i disegni di legge proposti. Margaret Thatcher nel 1983 e Tony Blair nel 1997, ad esempio, furono portati al potere da maggioranze così ampie da assicurare la
vittoria praticamente in tutti i voti parlamentari, anche in presenza di minoranze dissenzienti nei loro partiti. Questo permise loro di attuare radicali programmi di riforma e innovazione. Governi con minori margini o sostenuti da coalizioni sono maggiormente vulnerabili. In questi casi, può essere necessario ricorrere a misure ”estreme”, come portare a votare anche i parlamentari ammalati, per raggiungere l’indispensabile maggioranza. I governi con una maggioranza ridotta che, come quello di John Major, possono facilmente perdere votazioni se un numero relativamente piccolo di parlamentari loro sostenitori non approva le proposte di legge governative, trovano quindi maggiori difficoltà ad attuare programmi forieri di contrapposizioni e sono spesso costretti a trattare i loro programmi con le varie correnti del partito che li sostiene, o a cercare appoggi tra i parlamentari dell’opposizione. Non esistono tempi tecnici obbligatori, derivanti dalla legge, per la formazione del governo: per consuetudine, però, esso deve entrare in carica con il voto favorevole del Parlamento prima del primo discorso del monarca post-elezioni.
7 Il ruolo chiave dei “tecnici” della nazione
Nei primi giorni e nelle prime settimane dei negoziati, il ruolo dei “tecnici” della burocrazia (civil servants rende molto meglio l’idea) sarà essenziale per “addolcire” i passaggi più delicati dei colloqui tra i leader del partito. A loro non dovrebbe essere consentito di fornire consigli “politici” in senso stretto, ma - secondo il professor Robert Hazell dell’Institute of Government, si tratta di tecnici molto efficienti che si stanno preparando da mesi all’eventualità (rarissima nella storia della Gran Bretagna) di un hung parliament. All’inizio del 2010, il segretario di gabinetto Gus O’Donnell ha preparato un documento-guida su come i civil servants dovranno rendersi
utili durante negoziati che potrebbero rivelarsi lunghi e snervanti. Secondo Ruth Fox, Hansard della direttore Society, i funzionari dello stato hanno sempre svolto un ruolo (oscuro ma importantissimo) in questo tipo di discussioni, ma in molti oggi ritengono che il loro compito sia andato progressivamente espandendosi in assenza di un governo formalmente insediato. C’è da aspettarsi, in ogni caso, che le polemiche sul ruolo dei “tecnici”siano destinate a crescere nel tempo, in caso di assenza prolungata di un governo chiaramente espresso dal corpo elettorale.
8 L’isola verde
potrebbe essere ago della bilancia Secondo qualcuno l’accordo sarebbe già stato siglato. Tanto che David Cameron potrebbe diventare primo ministro, nel caso in cui gli mancassero soltanto pochi seggi per raggiungere la maggioranza assoluta alla House of Commons, grazie all’appoggio dei partiti unionisti del Nord Irlanda. Il tutto, in cambio di una promessa elettorale dello stesso Cameron che si sarebbe impegnato a non effettuare i tagli alla spesa pubblica per la provincia irlandese già programmati quest’anno dal governo guidato dal laburista Gordon Brown. Tagli che sono stati stimati intorno ai 200 milioni di sterline. A rivelarlo è stato per primo il quotidiano conservatore (ma non esattamente filocameroniano) Daily Telegraph. Il Partito unionista democrati(Democratic Unionist co Party: Dup), sarebbe dunque pronto a entrare in un governo di coalizione con i Tories nel caso in cui Cameron dovesse vincere le elezioni, senza avere però una maggioranza assoluta. Cameron, ricorda il giornale londinese, è stato il primo leader politico tra i tre candidati delle elezioni britanniche a visitare l’Irlanda del Nord durante la sua campagna elettorale. E ha promesso che la provincia nordirlandese avrà finalmente un ruolo “mainstream” nella politica del Re-
gno Unito. In dote, gli unionisti potrebbero portare dai 9 ai 10 seggi, visto che secondo l’ultimo sondaggio disponibile (Inform Communications per il Belfast Telegraph), il Dup (27%) avrebbe scavalcato anche il Sinn Fein (25%) e un altro paio di seggi potrebbero arrivare dall’Ulster Conservatives and Unionists New Force (13%), che è l’alleanza tra l’Uup e la sezione nordirlandese del partito conservatore. C’è almeno un esponente di alto livello dei Tories però, che si è già espresso negativamente su questa (per ora solo presunta strategia) di Cameron. Si tratta di Kenneth Clarke, pluriministro nei governi di Margaret Thatcher e John Major e attualmente ministro-ombra di Cameron per Business, Innovation and Skills. «Non vorrei - dice Clarke - che ci trovassimo di fronte ad una situazione in cui ai piccoli partiti venga garantita un’influenza sproporzionata rispetto alla loro consistenza numerica. Alla fine potrebbe essere sempre possibile trovare un accordo con un Ulsterman, ma non è questo il modo di governare una società moderna e sofisticata». Sarà pure poco sofisticato, ma alla fine - per i Tories - potrebbe rivelarsi l’unico modo efficace di formare un governo senza essere costretti a negoziare una riforma del sistema elettorale con i LibDem di Nick Clegg.
9 L’incognita:
il discorso di Elisabetta II Nelle monarchie del Commonwealth, il Discorso dal trono è l’orazione che viene pronunciata dal sovrano prima dell’inizio della legislatura. Il discorso viene pronunciato davanti alle Camere riunite. Al discorso segue tecnicamente un dibattito e un voto collegiale: formalmente, nel primo si incarica il presidente della Camera alta di ringraziare con un altro discorso il re, mentre nel secondo si vota per chi è d’accordo nel farlo. In realtà, con la parlamentarizzazione delle monarchie assolute, il dibattito si è
6 maggio 2010 • pagina 19
trasformato in un momento in cui il governo che cerca di entrare in carica espone le proprie politiche e conta i parlamentari disponibili ad accordargli la fiducia. Se questa non dovesse essere assicurata, per un esito incerto delle urne, è anche il momento in cui si cerca di mettere insieme un governo di coalizione di tipo tecnico, che il più delle volte cerca di tenere la rotta fino a nuove elezioni. Il “trucco”sta nel fatto che – fra il discorso e la risposta – possono passare anche mesi: è in questo che spera Brown. Nel tempo tecnico di attesa si può cercare di salvare il salvabile a livello di seggi parlamentari, assicurandosi la maggioranza.
10 Si torna al voto. Tutto da rifare in giro per il Paese
Se non si raggiunge alcun accordo fra i partiti in competizione, e nessuno governo possibile riesce a ottenere il sostegno del discorso della regina, si deve inevitabilmente tornare alle urne. Tuttavia, i leader delle tre maggiori compagini politiche non vorranno una nuova tornata elettorale, se i sondaggi non indicano un cambiamento marcato nell’elettorato britannico. I politici sostengono da sempre che le elezioni costano troppo, agli elettori e al governo. Nessuno, dicono gli analisti inglesi, perdonerebbe il sistema politico se costringesse il Paese a votare di nuovo: una mancata assoluzione che li costringerà a tornare al tavolo delle consultazioni. Qui è in gioco l’intero sistema politico della Gran Bretagna, un sistema penalizzante per i partiti piccoli ma che in cambio ha sempre permesso brevissime elezioni e formazioni di governi forti in quasi tutte le occasioni. Molti puntano il dito contro la crisi finanziaria internazionale, il vero motivo alla base dell’incertezza popolare davanti all’urna. Altri parlano di leader di scarso calibro, costretti a una campagna elettorale lunga – nei fatti – quasi due anni. Ma il “secondo turno” non si è mai verificato e non si verificherà.
cultura
pagina 20 • 6 maggio 2010
Papa Giovanni Paolo II usa un laptop per inviare in Australia, grazie a internet, l’Ecclesia in Oceania. L’esortazione, che chiede scusa agli aborigeni per alcuni abusi compiuti da sacerdoti cattolici, è stato promulgato via email da un portatile con le insegne della Santa Sede. In basso la copertina di “Chiesa e Internet”, edito da Academia
ino a ieri il cosiddetto mondo dei media poteva essere guardato come un mondo a parte e persino con sufficienza. «In fondo - si sarebbe potuto dire- sono solo canzonette». Ma oggi non è più così. Media e new media stanno diventando un elemento costitutivo del mondo di tutti, un ambiente, rispetto al quale possiamo atteggiarci in modo più o meno consapevole, più o meno partecipativo, ma col quale non possiamo non fare i conti, visto che ci siamo letteralmente dentro. Tutto ciò comporta, come sappiamo, una serie di cambiamenti profondi nel nostro universo relazionale. Cambiano le relazioni educative, sia perché ciò che passa nei media diventa sempre più decisivo nella formazione della personalità dei bambini e degli adolescenti, sia perché nell’uso dei nuovi media spesso sono i figli a dover alfabetizzare i genitori, non viceversa; cambiano le relazioni amicali, dal momento che si può dar vita a comunità di “amici” che non abbiamo mai incontrato faccia a faccia, ma soltanto in rete; cambiano le relazioni politiche, dal momento che, anche in Paesi dove esistono regimi polizieschi, si possono organizzare grandi manifestazioni di piazza e far conoscere a tutto il mondo ciò che il governo non vorrebbe che venisse conosciuto (a ragione qualcuno proponeva di assegnare a internet il premio Nobel per la pace); cambiano le relazioni economiche, se pensiamo alle enormi potenzialità che si stanno aprendo proprio nella rete; cambiano infine le stesse relazioni mediali, visto che con l’avvento del cosiddetto Mobile 2.0, tanto per fare un esempio, si può essere contem-
F
Libri. Un nuovo studio analizza il magistero cattolico ai tempi di Internet
Se la Chiesa pesca uomini nella Rete di Sergio Belardinelli poraneamente fruitori e creatori di contenuti, in un contesto sempre più personalizzato (a differenza del tradizionale computer il dispositivo mobile è sempre più collegato ai gusti e ai desideri del possessore), privo di vincoli di luogo (lo si porta con sé) e di tempo (si è sempre connessi). Il cosiddetto mondo del Web sta diventando insomma il nostro nuovo mondo. “Esperta di umanità”, la Chiesa non poteva restare in-
nell’ambito del Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, ha potuto osservare il problema dal di dentro in tutti i sensi, se così si può dire. Grienti, infatti, conosce bene sia il mondo della Chiesa, sia il “continente digitale” di cui parla. E questo si vede, non soltanto dalla evidente partecipazione intellettuale, direi quasi, passione, ma anche dalla competenza e
sempre in agguato, specialmente per quanto riguarda il rischio di perdere il senso della realtà, a tutto vantaggio di relazioni meramente “virtuali”. Ep-
Oggi il Web ha bisogno soprattutto di viaggiatori che siano “produttori” di messaggi; questo, in fondo, il senso delle parole rivolte da Benedetto XVI ai giovani differente a questi cambiamenti. L’attenzione particolare ai rischi (realissimi!) di un uso dei media tradizionali, di internet e dei new media irrispettoso della dignità dell’uomo non ha mai impedito al magistero di vederne le enormi potenzialità positive. Bene ha fatto dunque Vincenzo Grienti in questo suo libro a passare in rassegna gli interventi magisteriali di questi ultimi dieci anni in ordine al mondo del Web.
Ne esce un rapporto tra Chiesa e Web per molti versi inedito e sorprendente. L’autore, giornalista di rango e di lungo corso, tra l’altro assai attivo
lucidità con le quali egli affronta i diversi temi. Grazie a questo libro, il lettore può entrare così nei meandri del rapporto tra Chiesa e mondo del Web, prendendo confidenza con i documenti magisteriali, col contesto socio-culturale nel quale essi nascono, nonché col contesto antropologico che essi tentano di delineare, forse il capitolo più interessante del libro, sempre al servizio dell’uomo e della sua dignità. Le relazioni umane che si creano e si intersecano oggi nella rete sono le più diverse; i pericoli, specialmente per gli adolescenti, sono
pure non c’è soltanto questo. C’è, ad esempio, anche la possibilità di soddisfare davvero il sempre più diffuso bisogno di amicizia, di vivere l’ambiente virtuale come uno spazio per scambi sociali ricchi di significato. Non ci sono soltanto “comunità di fantasia”, funzionanti secondo le modalità “astratte” tipiche dei giochi di ruolo; ci
sono anche “comunità di relazione” fondate sull’importanza che viene assegnata all’identità reale dell’individuo; comunità che spesso diventano, non a caso, uno strumento per creare relazioni anche off line. Siamo dunque di fronte a una strutturale ambivalenza, una compresenza di luci e di ombre, che costituisce un po’ la caratteristica tipica di tutto ciò che è umano.
Ai cristiani il compito di diventare operatori di bene anche nell’universo del Web. I tempi della passività, della semplice fruizione dei messaggi che passano in rete, per giunta elaborati da “altri”, sono ormai alle spalle, dobbiamo buttarceli alle spalle. Oggi il Web ha bisogno soprattutto di viaggiatori che siano “produttori” di messaggi; dobbiamo pertanto diventare sempre di più “produttori” delle nostre idee. Questo, in fondo, il senso delle parole di Benedetto XVI, allorché, rivolgendosi recentemente ai giovani, li esortava «a portare nel mondo digitale la testimonianza della loro fede». Al nostro mondo “reale”, lo abbiamo già detto all’inizio, appartiene ormai anche il cosiddetto mondo “virtuale”. Evangelizzare quest’ultimo equivale pertanto a fare del nostro meglio, affinché nel mondo che abitiamo sia viva la presenza di Dio e, con essa, il rispetto della dignità di ogni uomo, anche di quegli uomini (soprattutto giovani e adolescenti) che navigano spaesati nel cyberspazio, magari in attesa di incontrare qualcuno o qualcosa che possa accendere una speranza. Aver richiamato l’attenzione su queste tematiche, mi sembra che rappresenti il merito principale di questo libro.
spettacoli
6 maggio 2010 • pagina 21
Musica. Stasera al Blue Note il quartetto dei Manhattan Transfer presenta il nuovo album “The Chick Corea Songbook”
New York approda a Milano di Valerio Venturi
MILANO. I Manhattan Transfer portano New York a Milano. Il quartetto vocale più famoso al mondo, reso celebre dal personale riadattamento del brano Birdland, presenterà al pubblico del Blue Note il nuovo lavoro intitolato The Chick Corea Songbook, realizzato in collaborazione col grande pianistatastierista statunitense di jazzfusion. L’appuntamento di questa sera è dei più attesi, i biglietti per il primo dei due spettacoli, quello delle ore 21, sono esauriti da tempo; ma ci sono speranze per lo show delle 23, quindi i temerari si presentino all’ingresso del tempio del jazz milanese incrociando le dita. D’altrocanto, questi superamericani sono molto amati anche dalle nostre parti: il seguito ce l’hanno eccome. Combo fondato nel 1969 da Tim Hauser (Troy, New York City 12 dicembre 1941) insieme alla vocalist Laurel Massè, dal 1998 entrato a far parte della prestigiosa “Vocal Group Hall of Fame”, i Manhattan hanno sbancato soprattutto negli anni Ottanta, vincendo un premio dopo l’altro e imponendosi come gruppo vocale per eccellenza, spaziando nel repertorio e lo stile dal jazz al pop. Il primo passo della formazione è però “antico”: il gruppo scelse il nome negli anni Sessanta, dal titolo di un omonimo romanzo pubblicato nel 1925 dallo scrittore americano John Dos Passos e dedicato alla NewYork degli anni Venti. Una cronaca drammatica, poliedrica e futuristica della metropoli americana e dei suoi protagonisti, che si agitano e si perdono nell’ansia di starne al passo: come la Parigi di Baude-
laire, la Londra di Eliot, la Berlino di Doblin, la città di Dos Passos è un universo realistico e fantastico, che tanto piacque in Europa e anche ai lettori ideologizzati di casa nostra.
La Manhattan umana e ricca del lavoro di Doss Passos, romanzo fondamentale della narrativa americana del Novecento, è raccontata negli intenti dalla pasta vocale di Hauser e co. Il loro primo lavoro viene pubblicato nel 1971: si intitolava Jukin’ e fu un discreto successo. Qualche settimana dopo l’uscita del vinile, Hauser incontrò ad un party Janis Siegel (Brooklyn, New York 1952): sebbene lei facesse parte di un’altra formazione musicale, la convinse ad entrare a far parte dei MT. Dopo qualche tempo, Hauser conobbe Alan Paul (nato Newark, New Jersey, il 23 novembre 1949), in quel periodo tra i protagonisti a Broadway del celebre musical Grease. Hauser fece la sua pro-
Sopra e in alto, i Manhattan Transfer, stasera al Blue Note di Milano per presentare il nuovo album “The Chick Corea Songbook”
I biglietti per il primo dei due show, quello delle ore 21, sono esauriti da tempo; ma, fanno sapere, ci sono ancora delle speranze per lo spettacolo delle 23 posta indecente e anche Alan Paul accettò di far parte della compagnia, portando in dote una gestualità e una mimica da musical poi apprezzatissima e caratterizzante: i Manhattan Transfer divennero in quel momento una band vera, pronta a catturare consensi. I “ragazzi” inizialmente si occuparono prevalentemente di riproporre classici del jazz degli anni Quaranta. La loro cover del 1977 di Chanson D’Amour arrivò al primo posto nel Regno Unito. La scalata al successo iniziò però nel 1975 con l’album The Manhattan Transfer, che ottenne consensi soprattutto il Europa. I successivi album Coming Out (1976), Pastiche (1978) e The Manhattan Transfer Live (1978) ottennero ancora buoni riscontri, ma nel 1978 Laurel Massè ebbe un gravissimo incidente stradale e decise di lasciare il gruppo; venne sostituita dalla voce di Cheryl Bentyne, classe 1954, di Seattle - la Massè tornerà poi sulle scene ma come solista.
La cavalcata dei Transfer continua nel 1979 con l’album Extension: la consacrazione, il definitivo successo, bissato nel 2981 con Mecca for Moderns.
Gli spettacoli dal vivo diventano sold-out, anche per un’incredibile capacità teatrale, di interpretazione e mimica del quartetto statunitense. In Bodies and Souls, del 1983, i MT virano verso il jazz: i critici apprezzano, loro continuano sulla “retta via” sincopata e pubblicano Vocalese e Bop Doo Wopp, del 1985. Vocalese fu candidato ai Grammy Awards in ben 12 categorie, ma in quell’anno sbancò Thriller del compianto fenomeno-monstrum Michael Jackson. Nel 1987 uscì l’ellepì Brasil, un nuovo successo mondiale. Nel 1992, il gruppo tentò una revisione del proprio stile con The Offbeat Of Avenues, ultima registrazione in studio prima di una lunga serie di album live,“best of”e singoli - come Tonin’ del 1995, Swing del 1997 e Vibrate, di sei anni fa. Tutti prodotti di qualità, frutto di grande tecnica vocale. «La chiave dell nostre interpretazioni - spiegarono qualche anno fa - è quella di rivolgersi innanzitutto allo strumentale: bisogna ascoltare gli strumentisti, perché sono loro che costruiscono le fondamenta per il “vocalese”. E il lavoro del vocalist che si cimenta nel “vocalese” è quello di interpretare le emozioni di ciò che
sta dicendo il brano strumentale. Jon Hendricks, che noi consideriamo nostro padre spirituale per quanto riguarda questo tipo di musica, diceva: I testi sono superflui, i testi non sono importanti. Io scrivo una storia, e se la gente vuole conoscere ciò che ho scritto, allora basta che osservino lo spartito e la possono leggere; ma la cosa più importante è che quando voi cantate, vi sentiate come si sente il musicista che esegue».
Ben tornati Manhattan Transfer. A Milano arrivano per presentare il cd The Chick Corea Songbook, che contiene interpretazioni di alcuni classici del pianista di origini italiane - il cui nome completo e’ Armando “Chick”Corea, da vent’anni devotissimo seguace di Scientology - ed anche l’inedito Free Samba, scritto appositamente da Corea. Un omaggiarsi a vicenda tra “numeri uno” della scena musicale, che si sono imposti negli anni ’70 e ’80 e che ancora oggi fanno il pieno di spettatori con i live. Tra i musicisti che hanno partecipato a The Chick Corea Songbook nei negozi di dischi da qualche mese - ci sono anche Alex Acuna, Christian McBride, Fred Hersch, Edsel Gomez, Lou Marini oltre allo stesso Corea. Nella capitale lombarda Janis Siegel, Tim Hauser, Alan Paul e Cheryl Bentyne saranno accompagnati da quattro ottimi musicisti: Yaron Gershovsky al piano, Steve Hass alla batteria, Gary Wicks al basso ed Adam Hawley alla chitarra.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Bella vita per i 400mila politici, per i quali di sicuro non c’è mai crisi Non c’è crisi per i politici italiani. Non diminuisce il loro numero eccessivo (almeno 400mila). Non calano i loro pingui compensi, i privilegi, l’assenteismo e il camaleontismo. La loro bella vita è pagata da Pantalone. Molti politici - anche locali - compiono grandi viaggi turistici (specie all’estero), che spacciano per mansioni d’ufficio. La supercasta politica e la connessa elefantiasi burocratica costano un’enormità al comune cittadino, che è costretto all’amministrazione oculata e ristretta delle sue cose. «Mi sono dato alla carriera partitica, perché assai più redditizia dell’utilizzo libero professionale del mio sapere», ha riconosciuto un politico. Mentre i politici stimabili dovrebbero accontentarsi d’emolumenti contenuti ed imitare la vita parca di grandi statisti, come Alcide De Gasperi. Evitando l’egoismo, sarebbero credibili e coerenti con le loro esortazioni solidariste. In contro tendenza, Cota - neo presidente del Piemonte - ha annunciato di rinunciare all’auto blu (e ai relativi autisti). I rimanenti 626.759 utilizzatori d’auto blu dovrebbero imitarlo, per ridurre lo sperpero pubblico.
Gianfranco Nìbale
UNA DOMANDA CALDEROLI
TRAGICA DIMENTICANZA
Vorrei rivolgere al ministro leghista Roberto Calderoli una semplice domanda: perché il governo, di cui fa parte, invece di discettare sul federalismo fiscale, di là da venire, non inizia a fare una cosa semplice che è quella di diminuire le tasse ai cittadini e alle imprese?
Ho letto l’articolo di Del Valle sulla Turchia attuale di Erdogan e vi assicuro, avendo vissuto in Turchia per tre anni, che il vostro opinionista ha inquadrato perfettamente la situazione rischiosa e pericolosa che sta correndo il suddetto Paese. Pericolosa in primis per la Turchia ma, in seguito, anche per noi europei. Mi sono sempre meravigliata della cecità politica di tanti cosiddetti “statisti”. La Turchia è un meraviglioso Paese, per bellezze naturali ed anche per molti interessanti luoghi culturali di antiche civiltà. I turchi lo hanno conquistato trovandosi così in possesso dei residui di popoli che lo avevano abitato. L’impero ottomano ha contribuito ad abbellirlo vieppiù costruendo il Topkapi, il Dolmabahçe e qualche moschea qua e là. Ma la sua stessa elefantesca struttura, unita ad una burocrazia che non aveva eguali, hanno contribuito alla sua caduta. Ataturk ha cercato di indirizzarlo verso l’Occidente, cambiandone
Lettera firmata
METTIAMOCI A LAVORO Il primo maggio è andato, e con esso anche le possibilità di fare della piazza il luogo principale della comunicazione e del confronto. Il lavoro in Italia è critico, perché al di là delle problematiche classiche, occorrono nuove regole sul lavoro scritte da destra con il concorso di tutte le forze sociali, per la ridefinizione dei tasselli che oggi rendono critica l’applicazione e il miglioramento di quella fervida operosità, che nacque dalla riforma del lavoro targata Biagi.
Br
Quando il leone era americano Dopo la tigre, il leone (Panthera leo) è il più grande dei quattro grandi felini del genere Panthera. Il suo habitat, esteso in tempi storici a gran parte dell’Eurasia e dell’Africa, è oggi ridotto quasi esclusivamente all’Africa subsahariana. In tempi preistorici, però, il leone abitava anche in America
la scrittura e dando libertà alle donne, ma purtroppo è morto giovane, lasciando un’eredità di libertà ai militari dei quali faceva parte. Nutriva un fiero disprezzo per gli arabi, che giudicava codardi e infidi. L’Ue ha giudicato con estrema superficialità il fermo proposito dei militari di mantenersi sul cammino dettato da Kemal, strillando quando vi fu il terzo colpo di Stato organiz-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
zato dai generali nell’80 per cercare di impedire la querelle fra Demirel ed Ecevit. La buona fede dei militari fu provata quando fu restituito al Paese un governo civile. L’Europa ha dimenticato le parole di Erdogan quando questi proclamò che avrebbe conquistato l’Occidente usando i ventri delle donne e i minareti come baionette.
Magda Meschini
da ”Asharq Alawsat” del 03/05/10
La lezione di Zebari di Ma’ad Fayad eritocrazia, parsimonia ed efficienza, sembrano concetti calati da una sana cultura calvinista, invece vengono da un’amministrazione irachena e da un suo ministro. È il filo rosso, la linea di continuità, la memoria storica della politica irachena del dopo Saddam Hussein. Si chiama Hoshyar Zebari ed è ancora per qualche giorno il ministro degli Esteri di Baghdad. Il più longevo rappresentante delle feluche irachene, dal momento che ha mantenuto quell’incarico nonostante i cambi di governo fin qui avvenuti. È quindi depositario di tutte le vicende di quel martoriato Paese, della complessità e delle speranze della politica dalla caduta del dittatore ad oggi. Ben quattro amministrazioni si sono succedute con lui, a partire da quella di Paul Bremer il governatore civile statunitense. Possiamo affermare dunque che Zebari sia l’architetto e il maggiore artefice della politica estera del Paese. Da non dimenticare la sua appartenenza alla minoranza curda, è infatti un membro di spicco del Kurdish democratic party (Kdp). È il secondo gruppo etnico del Paese, il che ha reso il suo compito ancora più complesso, visti i legami «privilegiati» – come lui stesso li ha definiti – che sono stati allacciati con la controparte araba. Durante la sua visita privata a Londra il ministro ha rilasciato questa intervista ad Asharq Alawsat. Oggi, sta terminando il proprio mandato, in attesa che si insedi il nuovo governo uscito dalle urne, ma resterà nel parlamento, dove è stato eletto per l’Alleanza per il Kurdistan. «Quando presi l’incarico, nel settembre del 2003, lo Stato era distrutto. Le nostre ambasciate erano isolate, sotto assedio o in completa rovina. Abbiamo dovuto ricominciare da zero» spiega Zebari. «Il
M
principio della riconciliazione nazionale» era alla base di ogni azione di governo, anche di quella diretta all’estero. «All’inizio il mio ministero comprendeva 1.200 persone, diplomatici e personale amministrativo compresi, integrati con ex membri dell’intelligence e del disciolto partito Baath» spiega il politico iracheno. Naturalmente si era resa necessaria un’operazione di ripulitura dei ranghi in cui «550 funzionari» dell’epoca di Saddam era stati epurati. Un’azione necessaria perché sotto la dittatura «il ministero faceva parte dell’apparato di sicurezza di Saddam». È vero che Zebari aveva già avuto esperienze di relazioni internazionali per conto del Kdp, «ma operare per una parte è molto diverso che farlo ufficialmente per un Paese intero» sottolinea il ministro. In più ci fu una rivoluzione culturale all’interno degli Esteri, che cessò di essere un approdo per i figli della classe dirigente e di potere, «per aprirsi a tutte le classe sociali».
«Due anni dopo la partenza fummo in grado di bandire un concorso per diplomatici, dove ogni iracheno che rispondesse ai requisiti avrebbe potuto partecipare». Oltre questa medaglia il ministero degli Esteri ne porta anche un’altra, quella della parsimonia. «Con meno di duemila dipendenti siamo la struttura di governo con il minor numero dipendenti in assoluto, tenendo conto della delicata attività che svolgiamo».
Non solo, ma hanno spedito all’estero circa 1.200 funzionari ad imparare le lingue, con risultati «che ci vengono invidiati da tutti i Paesi arabi». Zebari confessa anche l’ostacolo maggiore che sono riusciti a superare in questa operazione di rifondazione strutturale: un problema di mentalità legata a una cultura feudale nei rapporti di lavoro. «I funzionari tendevano a comportarsi come schiavi dei propri superiori» spiega il ministro. «Siamo riusciti ad introdurre una nuova mentalità e nuovi comportamenti nei rapporti di lavoro». Oggi l’amministrazione può vantare 83 missioni diplomatiche in giro per il mondo, di cui 67 ambasciate e 16 consolati. Pur avendo ereditato dal passato una serie di limitazioni internazionali «siamo riusciti a svolgere un ruolo attivo – afferma Zebari – nelle vicende regionali, come nel caso del problema palestinese, dando il giusto supporto all’Anp». Ma non nasconde che uno dei principali problemi sia stata l’indisciplina politca.Tutti dichiaravano su tutto.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog
dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Spargerò su di te baci brucianti come il Sole dell’equatore Non ti amo più; al contrario, ti detesto. Sei una disgraziata, realmente perversa, realmente stupida, una vera e propria Cenerentola. Non mi scrivi mai, non ami tuo marito; tu sai il piacere che le tue lettere gli procurano eppure non riesci nemmeno a buttar giù in un attimo una mezza dozzina di righe. Che cosa fate tutto il giorno, Signora? Che tipo di affari così vitali vi privano del tempo per scrivere al vostro fedele amante? Quale pensiero può essere così invadente da mettere da parte l’amore, l’amore tenero e costante che gli avevate promesso? Chi può essere questo meraviglioso nuovo amante che vi porta via ogni momento, decide della vostra giornata e vi impedisce di dedicare la vostra attenzione a vostro marito? Attenta Giuseppina; una bella notte le porte saranno distrutte e là io sarò. In verità, amor mio, sono preoccupato di non avere tue notizie, scrivimi immediatamente una lettera di quattro pagine con quelle deliziose parole che riempiono il mio cuore di emozione e di gioia. Spero di tenerti tra la braccia quanto prima, quando spargerò su di te milioni di baci, brucianti come il sole dell’equatore Napoleone Bonaparte a Giuseppina Beauharnais
LE VERITÀ NASCOSTE
India, record di poveri: sono 100 milioni in più DELHI. Un Paese dai mille volti, patria della spiritualità, della natura e della lebbra. Oggi l’india detiene un nuovo, discutibile record: secondo una nuova classifica ci sono infatti 100 milioni di poveri in più da sfamare con i sussidi alimentari proposti dal governo. I nuovi criteri adottati dalla Commissione nazionale della pianificazione prendono in considerazione non solo il reddito necessario per comprare il cibo, ma anche la spesa per la salute e l’istruzione. Sulla base di questa nuova classificazione la popolazione definita “al di sotto della soglia di povertà”sale dal 27,5% al 37,2% (42% per le aree rurali). Secondo gli esperti, i poveri saliranno quindi a 372 milioni, ovvero 97 milioni in più rispetto al numero stimato in precedenza. La modifica era stata richiesta nell’ambito di un disegno di legge, noto come National Food Security Act, che prevede la distribuzione di 25 chili di riso al mese per ogni famiglia indigente al prezzo sussidiato di 3 rupie al chilo (circa 5 centesimi di euro) e che deve essere ancora approvato dal governo, il quale dovrà ora reperire le risorse finanziarie necessarie. Il provvedimento è una delle priorità dell’agenda anti povertà di Sonia Gandhi, ma era stata criticato perché andava a vantaggio solo di una piccola percentuale di famiglie al di sotto della soglia di povertà secondo una valutazione basata esclusivamente sull’apporto calorico giornaliero. I criteri oggi in vigore, fissati nel 1998, prevedono che una famiglia urbana di cinque persone sia considerata povera quando il suo reddito mensile è inferiore a 2.200 rupie (36 euro), mentre una rurale lo è sotto le 1.650 rupie (27 euro). La nuova classifica, che comprende anche la spesa per le medicine e la scuola, aumenta questa soglia minima a 3.000 rupie.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
FEDERALISMO FISCALE E REGIONALISMO Il federalismo fiscale è il cavallo di battaglia della Lega (governo di centrodestra). Si basa sull’idea che larga parte delle risorse restino là dove si producono, anche attraverso il trasferimento della capacità impositiva dallo Stato alle regioni. Tale concetto è stato codificato con il nuovo articolo 119 della Costituzione, modificato nel 2001 dal governo di centrosinistra, con la riforma del Titolo V. La norma che ne dà attuazione è una legge delega e occorre, quindi, predisporne i decreti attuativi per la elaborazione dei quali è stata istituita una commissione bicamerale. Le risorse, come è noto, si producono prevalentemente nel centro-nord dell’Italia. In questo modo il Sud si troverebbe in serie difficoltà economiche. Come potrebbe uscirne? La fantasia non manca e il ragionamento, per esempio, potrebbe essere questo: visto che una serie di gasdotti, attuali e futuri, passano per le regioni meridionali, si potrebbe istituire una tassa aggiuntiva al costo del gas poiché gli impianti gravano sul territorio regionale costituendone una servitù. Ogni regione potrebbe aggiungere una propria tassa, sicché il gas che arriverebbe in Lombardia sarebbe caricato di costi tali da renderlo oneroso per i cittadini e le imprese. Gli esempi si potrebbero moltiplicare: ogni regione, provincia e comune d’Italia avrebbe qualche rivendicazione fiscale da attuare. Se il problema è quello di una eccessiva tassazione ai cittadini e alle imprese, perché non si diminuiscono le tasse?
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
APPUNTAMENTI MAGGIO 2010 LUNEDÌ 17 ORE 11.30, SALERNO, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI, AULA IMBUCCI
Convegno: “Il Presidenzialismo all’italiana”. Conclude l’onorevole Ferdinando Adornato GIOVEDÌ 20 ORE 16, TODI, HOTEL BRAMANTE
Consiglio Nazionale Circoli liberal
TODI 2010 20, 21 E 22 MAGGIO TODI - HOTEL BRAMANTE
Inizio lavori giovedì 20, ore 16,30 SEGRETARIO
Primo Mastrantoni
Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak
MOLFETTA, NUOVE NOMINE NEL DIRETTIVO CITTADINO Robert Amato è il nuovo commissario dell’Udc molfettese. Sarà affiancato da due vice: Doriana Carabellese e Domenico Minervini. Il coordinamento dei giovani invece è stato affidato a Saverio Digioia. Robert Amato ha le idee ben chiare sul futuro del partito: «Nostro compito costante sarà quello di essere tra la gente, ascoltarne le istanze, le problematiche e le urgenze. Intendo coinvolgere i giovani, mostrando loro che la politica non è sporca o corrotta, e che c’è una faccia pulita, attenta, seria, competente, onesta». Entrambi concordi i due vice commissari Carabellese e Minervini sul fatto che «grande e ambiziosa è la sfida che attende l’Udc molfettese, poiché si stanno ponendo le basi per la costruzione di una nuova classe dirigente. È rilevante che nella nostra città, per la prima volta alla guida di un grande partito, ci sia un giovane al quale sono riconosciute capacità professionali e entusiasmo di operare al servizio del territorio». Digioia lancia un invito alle sezioni giovanili degli altri partiti «a incontrarsi e confrontarsi sulle problematiche della città, in quanto solo le occasioni di incontro e confronto segnano la reciproca crescita umana e politica». L’Udc è un partito che crede nei giovani, ai quali dà fiducia e responsabilità. Se poi aggiungiamo che le ragazze e i ragazzi dell’Udc come Robert hanno un humus di preparazione culturale, politica e civica, questo ci inorgoglisce e ci motiva a far bene. Sostegno alla famiglia, alle politiche ambientali e giovanili, al lavoro, alla sicurezza costituiscono i temi prioritari dell’agenda politico-amministrativa del partito. Il neocommissario cittadino accenna anche a eventuali alleanze amministrative: «Valuteremo i programmi, noi restiamo al centro, ascolteremo i programmi e se convergeranno con i nostri siamo disponibili a dialogare con tutti». Amato è anche l’unico candidato per il Sud Italia dell’Unicentro per il Consiglio nazionale degli studenti universitari (Cnsu). Sergio Adamo U D C MO V I M E N T O GI O V A N I L E - ME Z Z O G I O R N O
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1
Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
John R. Bolton, Mauro Canali,
Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,
Franco Cardini, Carlo G. Cereti,
Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana,
Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,
Roselina Salemi, Katrin Schirner,
Angelo Crespi, Renato Cristin,
Emilio Spedicato, Davide Urso,
Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano
Francesco D’Agostino, Reginald Dale
Marco Vallora, Sergio Valzania
Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”
Abbonamenti
06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
e di cronach
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it
Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
ULTIMAPAGINA Riti estivi. Dal 18 giugno, al via il festival dei Due Mondi in Umbria
Lo spettacolo internazionale fa la passerella di Diana Del Monte iamo alla 53esima edizione. Sono 53 anni che sia pure con alti e bassi il Festival di Spoleto si distingue a livello internazionale per originalità e qualità e il programma di quest’anno, presentato ieri a Roma dal direttore artistico Giorgio Ferrara sembra continuare a puntare al recupero dei fasti di una volta, quelli che Ferrara ha cercato di recuperare (spesso con successo) dopo la lunga parentesi buia seguita alla morte del fondatore, Giancarlo Menotti. Insomma, il Festival di Spoleto è tornato ad essere un contenitore di eventi di alto livello, e questa è certamente una buona notizia.
S
«In questo particolare momento storico» è stato più volte ricordato durante la conferenza «è importante sottolineare che il successo internazionale del festival è legato all’Italia e alle sue eccellenze». Prossimi, oramai, al 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, infatti, è impossibile non andare a cercare subito i membri della “squadra di casa”. Scorrendo il programma, dunque, la componente nazionale si rivela nei nomi, tra i tanti, di Eugenio Bennato e dell’Orchestra Popolare del Sud; di Ernesto Ragazzoni, a cui l’Associazione Culturale Harvey ha dedicato un omaggio; di Italo Moscati, che a Spoleto presenterà nove film che documentano lo spettacolo italiano dal novecento ad oggi; di Sebastiano Lo Monaco che nella cittadina Umbra presenterà in scena il libro del procuratore nazionale Antimafia Pietro Grasso, Per non morire di mafia. Ma il Festival di Spoleto è anche, e da sempre, una finestra aperta sul panorama internazionale, un momento di scoperta e prezioso arricchimento per il pubblico italiano; approdano, così, sulle scene umbre John Malkovich con The infernal comedy. Confession of a serial Killer, «fortunosamente rapito per una sola serata», ha spiegato ieri a Roma Ferrara;
Diego Matheuz, venticinquenne direttore d’orchestra e violinista che rappresenta uno degli esiti più felici del ben noto ”Sistema” venezuelano e che si è recentemente imposto come uno dei talenti più promettenti; Marionette Theatre Youkiza, il più antico teatro di marionette giapponese, fondato da Youki MagosaburouI nel periodo Edo; The Hamburg Ballet che, diretto da John Neumeier dal 1973, incarnerà sul palco
to accompagnato da Rufus Wainwright, compositore canadese, con Shakespeare sonetto. In questo lavoro, Wilson ha voluto cogliere la sfida di portare in scena uno dei rari scritti non pensati dal drammaturgo inglese espressamente per il teatro. Andato in scena per la prima volta a Berlino nel 2009, in occasione del quarto centenario della pubblicazione dei sonetti shakespeariani, Shakespeare sonette porta sul palco una selezione di venticinque tra gli oltre centocinquantaquattro sonetti pubblicati, scelti dallo stesso Wilson.
L’apertura del 2010 , invece, è affidata ad un’opera contemporanea dai risvolti cu-
a SPOLETO In cartellone anche una nuova produzione di Peter Brook, uno show di John Malkovich e il ritorno di Bob Wilson con una suite dedicata ai Sonetti di Shakespeare il mondo del suo coreografo con lo spettacolo intitolato, appunto, The world of John Neumeier.
In qu es t a ediz ion e , inoltre, si rinnova il binomio, felicemente avviatosi due anni fa, tra il Festival di Spoleto e Bob Wilson; l’anno scorso la rassegna aveva espressamente commissionato un’opera all’artista americano, commissione che aveva portato alla messa in scena di Giorni felici di Samuel Beckett e L’ultimo nastro di Krapp, interpretato dallo stesso Wilson. Ora, mentre gli altri due spettacoli vengono richiesti dai palcoscenici di tutto il mondo, Wilson si presenta a Spole-
pi, Gogo no eiko di Hans Werner Henze. Tratta dall’omonimo libro di Yukio Mishima, il lavoro è stato composto da Henze nel 1988 in lingua tedesca; dodici anni più tardi, però, il compositore decide di riportare il libretto alla sua lingua originale, per non perdere la qualità espressiva del giapponese, ovviamente lontanissima da quella tedesca. Questa nuova versione ha avuto un primo debutto concertistico nel 2003 a Tokyo, dove ha riscosso un grande successo, e, sempre in forma concertistica, è stata trasmessa nel 2006 dalla Rai, eseguita dall’Orchestra Sinfonica Nazionale; ora, a Spoleto, viene rappresentata per la prima volta arricchita da tutto il suo impianto scenico, cantata da un cast interamente di madrelingua.
Il Fes ti val s i ap ri rà il 18 giugno e andrà avanti fino al 4 luglio; nel momento d’avvio sarà impossibile non pensare all’ultima grande attesa, sfortunatamente mancata: quella di Pina Bausch. La coreografa, infatti, mancò proprio pochi giorni prima del suo arrivo a Spoleto, tappa amata sia da lei che dalla sua compagnia. Perché Spoleto, in fondo, è anche un luogo di eventi, scoperte che passano attraverso l’arte e gli spettacoli, che siano questi di debutto o di addio.