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ISSN 1827-8817 00507

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Bisogna guardarsi dal giudicare le società nascenti con idee attinte da quelle che non sono più Charles Alexis de Tocqueville

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 7 MAGGIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Giornata nera per i mercati. Le Borse vanno a picco e Milano perde addirittura il 4,26%.Anche la moneta unica è ai minini

Nelle mani di Moody’s L’istituto di rating avvisa anche l’Italia: «Le sue banche sono deboli».Ora l’intera Ue teme il contagio. Tremonti: «Siamo tutti a rischio».O nasce l’Europa politica o saremo sudditi di agenzie e tecnostrutture Lettera comune a “Le Monde”

Terrore in New Hampshire

ROMA. Davanti al Parlamento il ministro

Angela e Nicolas di nuovo insieme per la Maastricht numero due

Tremonti ammette: «Nessuno è immune dai rischi e la soluzione da trovare è tutta politica». È la prima volta che Tremonti lascia trapelare un dubbio nelle sue certezze e forse proprio per questo ha trovato un’oppisizione aperta al dialogo. Il dibattito alla Camera sulle misure da prendere per aiutare la Grecia è arrivato subito dopo un braccio di ferro tra Moody’s e Bankitalia sulla tenuta dei nostri conti. Una sfida che ha provocato, comunque, la caduta delle Borse europee e un ulteriore indebolimento della moneta unica.

di Gianfranco Polillo el vortice della crisi che sta stravolgendo i mercati, si intravedono i primi tentativi di cambiare le regole del gioco. E mentre la Spagna è costretta a rinnovare una tranche del suo debito – circa 2 o 3 miliardi di euro – ad un tasso del 3,58 per cento, contro il 2,85 di qualche mese fa, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, come due amanti che si riconciliano dopo un periodo burrascoso, si fanno di nuovo rivedere insieme. Il luogo della riconciliazione è stato il palazzetto a vetri di boulevard Auguste–Blanqui, a Parigi, dove ha sede il quotidiano Le Monde: da sempre fiore all’occhiello della stampa francese. Un incontro organizzato per scrivere una lettera sul futuro. a pagina 5

ULTIM’ORA

di Francesco Pacifico

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Nuovo allarme negli States: uomo-bomba su un autobus, salvi gli ostaggi

a pagina 2

Nuovi timori per l’effetto contagio

Black-out volontario per protesta

Gli esperti tremano e puntano il dito sui conti del Portogallo

Intanto la Grecia resta al buio per piangere le sue vittime

Alessandro De Nicola e Luigi Paganetto discutono di possibili default e di conti europei deboli

Il Parlamento di Atene approva le dure misure imposte da Ue e Fmi. Ma arrivano nuovi scioperi

Gabriella Mecucci • pagina 4

Alessandro D’Amato • pagina 3

Il premier («interim breve») cerca un sostituto forte, Bossi rivuole l’Agricoltura

Tre Pdl (e la Lega) per un ministero La maggioranza divisa si contende la poltrona di Scajola di Errico Novi

Finiani e “colonnelli” si litigano 300 milioni di euro

ROMA. Le profonde divisioni all’interno della maggioranza e, in particolare, nel Popolo della libertà hanno un nome: ministrero dello Sviluppo economico. L’interim di Berlusconi, infatti, ha i giorni contati ma serve soprattutto a mediare fra le varie anime del Pdl (fedelissimi al premier, uomini d’apparato e finiani). Senza contare gli appetiti della Lega che vorrebbe mandare allo Svilippo economico Galan per riprendersi l’Agricoltura.

A chi il tesoro di An? La guerra degli ex-nemici

a pagina 8

di Riccardo Paradisi

ROMA. Nella guerra generale all’interno del Pdl

Giancarlo Galan, ex governatore veneto, tra i favoriti alla successione

seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

se ne combatte una meno politica e più - come dire? - prosaica: quella per la conquista del «tesoro» di An, la fondazione che gestisce i beni immobili e i rimborsi elettorali dell’ex partito. a pagina 9 NUMERO

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

L’attentatore telefona alla polizia: «Venite, sono pieno di esplosivo» ra terrorismo e mitomania, la giornata di ieri negli Stati Uniti è stato caratterizzato da allarmi bomba. Il primo, all’aeroporto di New York, si è rivelato quasi subito un bluff: l’uomo fermato era semplicemente omonimo di un terrorista inserito nella “black list” dei cieli. Molto peggiore il secondo, che arriva proprio mentre questo giornale va in stampa: un uomo telefona al 911, il telefono delle emergenze americano, e annuncia di avere una bomba e diciassette ostaggi in un parcheggio degli autobus Greyhound di Portsmouth, in New Hampshire. Nel momento in cui scriviamo, i diciassette ostaggi sono stati liberati. Non è chiara però la fine dell’attentatore: secondo fonti Usa, potrebbe essere il complice di Faisal: l’uomo di Times Square.

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 7 maggio 2010

Emergenza. L’Euro e le Borse continuano a scendere (Milano -4,26%). E la Camera affronta il nodo del prestito alla Grecia

Operazione responsabilità Tremonti ammette i rischi e trova un’opposizione disposta al dialogo Botta e risposta tra Moody’s e Bankitalia sulla tenuta del nostro sistema di Francesco Pacifico

ROMA. Con l’esperienza di chi da due anni affronta i mercato a ogni asta pubblica, Giulio Tremonti ha spiegato ieri alla Camera (vuota in verità) che in questa fase sono poche le certezze. «Quanto è successo in Grecia è la dimostrazione che nessuno può dirsi immune da rischi soltanto perché ha il biglietto di prima classe. La crisi è sistemica e la soluzione può essere solo politica». Ed è difficile dargli torto dopo il cambio di marcia di Piazza Affari – che in mattinata era in positivo dello 0,5 per cento e poi ha chiuso con un - 4,27 – registrato dopo un allarme di Moody’s sulla stabilità della banche italiane. Un crollo che ha colpito soprattutto i titoli bancari (Intesa e Unicredit sono arretrate di circa 10 punti) e che è costato agli investitori qualcosa come 17 miliardi. I guadagni degli ultimi dieci mesi. Per la cronaca la replica più risen-

per ora problemi», ha notato il direttore della sede italiana, Marco Cecchi de’ Rossi, «Niente si può escludere in principio, ma a oggi questo effetto non è verificato come probabile da parte nostra». Duro anche Romano Prodi: «Moody’s aveva anche detto che Lehman Brothers meritava dieci e lode, dieci e lode, dieci e lode». A Lisbona, per l’ultimo direttivo della Bce che ha mantenuto il costo del denaro all’1 per cento, Jean-Claude Trichet si è scagliato contro le agenzie di rating, che non poche tensioni hanno alimentato in questi giorni. Il governatore ha soprattutto posto l’accento dei loro potenziali conflitti di interessi delle agenzie di rating. «È una questione globale che richiede risposte globali», ha detto, «Abbiamo una analisi molto profonda a livello globale sulla questione se ci siano o meno fattori di proclicità».

Oggi l’Italia metterà a disposizione di Atene 5,5 miliardi nel 2010. A piazza Affari i timori sui maggiori istituti di credito fanno bruciare 17 miliardi tita e netta è arrivata da Bankitalia. «Il sistema bancario italiano», si fa sapere da via Nazionale, «è robusto. Il deficit di parte corrente è basso. Il risparmio è alto. Il debito complessivo di famiglie, imprese e Stato è basso rispetto ad altri Paesi, il debito netto nei confronti dell’estero è basso.Tutto ciò rende il caso dell’Italia diverso da quello di altri Paesi».

Fatto sta che ieri mattina un report dell’agenzia di rating ha sparso molto panico sui mercati, rilevando «il rischio di un contagio della crisi greca per il sistema bancario di alcuni Paesi europei», e in particolare «relativamente ai profili dei loro crediti sovrani, inclusi quelli di Grecia, Portogallo e in qualche misura l’Italia». Soffermandosi sugli istituti del Belpaese, Moody’s ha sottolineato che «l’Italia è una nazione dove il sistema bancario è stato finora relativamente robusto», ma non immune da contagio «qualora le pressioni dei mercati sui rating sovrani dovessero aumentare». Come dire che i nostri colossi del credito potrebbero pagare la bassa patrimonializzazione a fronte di un’indebolimento dei Btp. A smentire Moody’s l’altra agenzia di rating Fitch«Non ci sono

E pensare che ieri mattina tutto faceva auspicare una giornata all’insegna della stabilità. Lo dimostra anche l’esito più che positivo dell’ultimo collocamento di debito spagnolo: i titoli di stato a cinque anni per un ammontare di 2,34 miliardi di euro hanno registrato una buona domanda (2,36 volte l’offerta) e un rendimento contenuto del 3,58 per cento. Poi ci hanno pensato il report di Moody’s sulla stabilità delle banche e dati peggiori alle previsioni sui sussidi settimanali concessi in America (in calo soltanto di 7mila unità) a invertire il quadro. Soltanto la piazza di Atene ha resistito alle ondate di vendite, guadagnando lo 0,98 per cento. Per il resto, con Milano e Madrid maglia nera grazie rispettivamente a un -4,27 e un -3,50, gli altri listini sono riusciti a contenere le perdite: Londra con il suo -1,37 per cento, Francoforte a -0,81,

Le parole chiave del dibattito in Aula

Il paziente è stabile ma non dite (ancora) che è fuori pericolo «Nessuno è immune dai rischi perché passeggero con biglietto di prima classe, l’estensione della crisi è sistemica e la soluzione può essere solo comune e politica». Così ha risposto il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, nel suo intervento alla Camera sulla crisi della Grecia, e il rischio contagio sollevato da Moody’s. «In Italia non sono possibili errori nei conti pubblici come avvenuto in Grecia, grazie anche all’ottimo lavoro fatto dal centro-sinistra negli anni ’90 sull’assetto finanziario e alla solidità del sistema bancario», rassicura il leader del Pd, Pier Luigi Bersani. Che avverte: «I conti pubblici però, possono stare in equilibrio se c’è una buona crescita. Servono anche investimenti per rilanciare l’economia e favorire la crescita, altrimenti non terremo il passo». «Nessun problema di contagio per la banche italiane. La cosa è totalmente infondata», garantisce il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. Fortemente critico il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro: «Tremonti è lo specchio del suo padrone: uno nega la crisi italiana, l’altro le ricadute di quella greca». Il commissario Ue all’Industria, Antonio Tajani, respinge deciso i rilievi di Moody’s: «Se c’è una situazione che riguarda i mercati e la stabilità economica, va valutata con grande attenzione, e non mi pare che l’Italia sia nella situazione che viene presentata dall’agenzia di rating». Minimizza anche il pd Piero Fassino, che però precisa: «Se l’Italia, di fronte alla crisi della Grecia, mostra una condizione di stabilità maggiore di altri Paesi è anche grazie alle politiche del procedente governo, alle politiche di Tommaso Padoa Schioppa su cui si è ingenerosamente sparato». Anche la Banca d’Italia assicura che «Il sistema bancario italiano è robusto». Tesi condivisa dall’ad di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera: «ll nostro sistema bancario è passato attraverso la crisi finanziaria restando solido, avendo messo da parte liquidità adeguata, e questo anche Moody’s ce lo riconosce. Pungente Romano Prodi: «Moody’s aveva anche detto che Lehman Brothers meritava dieci e lode, dieci e lode, dieci e lode».

Parigi e Lisbona in calo del 2. Tra le vittime delle speculazioni anche l’euro, che dopo un avvio in recupero, ha invertito la rotta iniziando un netto calo, ha chiuso la giornata a 1,2711 dollari. Ancora un record negativo che però non vuol dire l’auspicato riequilibrio rispetto al biglietto verde, ma soltanto realizzi dopo giornate di speculazioni.

In questo clima Tremonti presenterà al Consiglio dei ministri di oggi il decreto legge, per stanziare le risorse necessarie con le quali l’Italia farà la sua parte nel maxiprestito europeo alla Grecia. «La nostra quota», ha spiegato il ministro, «è pari al 18,4 per cento del totale europeo e pari inizialmente a 5,5 miliardi. Il decreto ci consente di intervenire in modo flessibile con emissioni a medio-lungo termine e anticipazioni di tesoreria». Nell’informativa urgente che si è tenuta ieri alla Camera il titolare di XX settembre ha anche ricordato che questo esborso «non avrà effetto sul deficit ma sul debito, perché si tratta di un prestito. Ma di questo effetto si terrà conto nettizzandolo nel quadro del Patto di stabilità». Non dovrebbe, quindi, incedere sul rapporto deficit/Pil. Non è mancato un plauso al governo greco – «Ha finora dimostrato eccezionale determinazione e grande capacità di leadership» - a differenza di un’Europa che non ha saputo comprendere quello che stava succedendo e che ha ritardato a lanciare le contromosse. Le ricette però non sono nuove, perché sono le stesse sulle quali si discute da mesi: coordinamento delle politiche economiche, rafforzamento della sorveglianza, «inclusa la possibile revisione del quadro legale costituito dal Patto di stabilità». L’importante è decidere, perché la lezione della crisi Greca, che «non si tratta di una nuova crisi», ha insegnato che siamo di fronte a una congiuntura «che si è trasformata passando dai debiti privati ai debiti pubblici». Non sono mancati accenni alla si-


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I sindacati interrompono la corrente per protestare

La Grecia resta al buio e piange le vittime Atene in lutto prepara un nuovo sciopero. Verso un vertice maggioranza-opposizione sul piano di Alessandro D’Amato

ROMA. Luci spente in tutte le case per lutto, ma il piano del governo greco passa. Con il black out volontario, i sindacati greci ieri notte hanno voluto ricordare la morte di tre persone durante le manifestazioni contro il piano di austerità di Ue e Fmi accettato dal governo di Papandreu. Sin dalle prime ore di ieri mattina è stato un continuo pellegrinaggio di ateniesi che hanno portato fiori e accenso candele davanti alla succursale della banca Marfin Egnatia sulla centrale via Stadiou nella quale tre impiegati - due donne e un uomo - sono morti a causa del rogo scoppiato dopo il lancio di bombe incendiarie da parte di alcuni anarchici. All’interno dei locali - completamente anneriti dalle fiamme e dal fumo esperti della polizia e dei pompieri sono andati avanti con gli accertamenti. All’esterno, nel frattempo, arrivavano in continuazione persone di ogni età con fiori e foglietti con su scritto messaggi per le vittime che deponevano a terra davanti al portoncino carbonizzato della banca. Nel rogo sono morti tre impiegati della banca: Angeliki Papathanasopoulou, di 32 anni, che era al quarto mese di gravidanza, Paraskevi Zoulia, 35 anni, e Epaminondas Tsakalis, di 36. Nell’ambito delle indagini la polizia ha arrestato sinora 25 persone coinvolte negli scontri di ieri e forse nell’attacco alla banca ed ha reso noto che 41 agenti sono rimasti feriti.

le. Ieri un drammatico appello all’unità politica e sociale era giunto dal presidente della Repubblica Karolos Papoulias il quale aveva avvertito che il paese «è sull’orlo dell’abisso». Il sindacato dei dipendenti pubblici Gsee, denunciando le «tragiche morti» e la «provocazione», assicura che «continuerà la lotta per le giuste richieste» dei lavoratori contro il piano di austerità.

«La violenza non è la risposta» ai problemi del Paese, ha affermato Papandreou, parlando al Parlamento nel dibattito sul meccanismo di sostegno Ue-Fmi. Il premier ha accusato il principale partito di opposizione Nuova Democrazia (ND, centrodestra) di “irresponsabilità”per non essere pronto ad appoggiare il governo nella sua difficile opera di salvare il Paese dalla catastrofe. E ha definito ND “irresponsabile quando era al governo”, per le manipolazione dei dati economici, e “irresponsabile adesso mentre è all’opposizione. O votiamo e applichiamo l’accordo (con Ue e Fmi) o condanniamo la Grecia alla bancarotta», ha detto. Tutti i principali partiti hanno votato no al meccanismo di sostegno, ma il piano è passato lo stesso. Dal canto suo, il leader del principale partito di opposizione (ND, appunto) Antonis Samaras ha accolto l’invito del premier per un vertice. Nei giorni scorsi tutti i partiti avevano rifiutato l’incontro perché convocato dopo la firma degli accordi con Ue-Fmi sul piano di austerità e non prima, come richiesto. Il testo legislativo del piano è stato approvato l’altra notte in Commissione con i soli voti del partito al governo, il Pasok. Ieri è arrivato il voto dell’assemblea unicamerale. La polizia ha fermato 70 persone: 25 sono state poste in stato di arresto per i disordini sfociati nell’attacco incendiario che ha provocato la morte per soffocamento di tre impiegati, due donne di 35 e 32 anni e un uomo di 36, della Marfin Egnatia Bank. Il movimento anarchico, cui esponenti sono accusati del mortale attacco incendiario ad Atene, si è difeso sul web affermando che «nessuno poteva sapere che c’erano persone all’interno della banca» in un giorno di sciopero cui avevano aderito la maggioranza degli istituti di credito. E ha denunciato la campagna politico-mediatica per giustificare una nuova grande «repressione contro il movimento anti-autoritario».

Dopo gli scontri, il Parlamento affronta il nodo delle misure necessarie per andare incontro alle richieste della Ue e del Fondo monetario internazionale

Il ministro Tremonti per la prima volta in Aula ha smesso i tratti della sua proverbiale alterigia. Nella pagina accanto, dall’alto: Piero Fassino, Ferdinando Adornato, Giuliano Cazzola e Jean-Claude Trichet tuazione italiana. Prima di entrare in aula, Tremonti avrebbe tranquilizzato alcuni parlamentari: «Mantenendo la barra dritta», avrebbe detto, «e proseguendo nella strada intrapresa, noi ci poniamo in maniera diversa rispetto ad altri paesi. Bisogna proseguire sul percorso avviato, in questo modo non ci saranno rischi». Se Piero Fassino (Pd) ha chiesto al ministro di riconoscere i meriti del suo predecessore, Tommaso Padoa-Schioppa, nel suo intervento Ferdinando Adornato (Udc) ha sottolineato il tema della «responsabilità. Paghiamo una crisi greca dovuta all’irresponsabilità delle classi dirigenti che si sono alternate alla guida di quel Paese. Ed è il momento che tutti insieme ci assumiamo queste responsabilità di fronte a una fase che è di svolta nella politica europea». Il coordinatore della Costituente di Centro si collega alle ipotesi di riforma del Patto di stabilità. Perché, spiega, «se venisse orientato non più sul rapporto deficit/pil ma sul rientro dal debito pubblico dobbiamo avere dei margini per fare le riforme. Altrimenti la crisi che si è riuscita lei a evitare, si ri-

proporrà tra qualche anno». Di conseguenza per l’Italia è prioritario intervenire «sulle pensione, sul fisco, sulle liberalizzazioni e sulla semplificazione dello Stato cominciando dalle Province che noi abbiamo proposto e delle quali tutti si sono dimenticati». Riforme da fare in Parlamento e non a maggioranza.

Secondo Adornato, l’obiettivo della politica deve essere duplice. In Italia «dobbiamo creare un Paese snello, perché abbiamo il dovere di guardare al futuro e preparare a coloro che vengono dopo un paese che non possa subire queste difficoltà». All’interno della Ue la svolta può avvenire soltanto attraverso la nascita di un’Europa politica e l’introduzione di un maggiore tasso di democrazia nei rapporti tra popoli e i governi. Altrimenti si rischia uno scenario nel quale «il blocco del Nord si distacchi progressivamente dai Paesi del Sud, chiedendo magari qualche porticciolo per andare a fare le vacanze, ma sostanzialmente emarginando la parti più disagiate. E la cosa potrebbe anche riguarda l’Italia».

Intanto, sempre ieri, le banche greche hanno osservato uno sciopero di 24 ore per lutto e protesta dopo quanto accaduto, mentre i sindacati del settore pubblico, Adedy, e privato, Gsee si preparano ad un nuovo sciopero generale la settimana prossima in occasione della presentazione in parlamento del testo di legge sulla riforma della previdenza sociale. Ieri i due sindacati, parallelamente a quello comunista Pame, hanno protestato davanti al parlamento in occasione del voto sul piano di austerità varato dal governo in accordo con UeFmi. Il premier Giorgio Papandreou, da parte sua, si è consultato durante la notte con tutti i leader politici, dopo le tragiche morti di ieri ad Atene, ribadendo la necessità di dare prova di responsabilità, a poche ore dal voto odierno in Parlamento sul patto di austerità. Il premier greco ha ribadito l’invito per un vertice al fine di garantire l’unità del paese in un momento crucia-


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l’approfondimento

Al di là delle contraddittorie pagelle stilate dalle agenzie di rating, vediamo qual è il rapporto fra bilanci e politica

E adesso a chi tocca?

L’Europa trema per «l’effetto contagio»: perché le economie si sono esposte in modo da indebolire le proprie banche. Alessandro De Nicola e Luigi Paganetto analizzano conti e prospettive delle vittime possibili. Il Portogallo, per esempio di Gabriella Mecucci

ROMA. «No, che le banche italiane siano in pericolo non ci credo: non stanno peggio di quelle tedesche, anzi queste hanno nei loro portafogli più bond greci. Se sono in pericolo i nostri istituti di credito, vorrebbe dire che sta per saltare tutto. E questo non è vero»: Alessandro De Nicola, economista, presidente del Centro Adam Smith non è d’accordo con l’allarme lanciato da Moody’s che investirebbe anche i nostri istituti di credito. Ma ormai il vero tema riguarda il «contagio greco». Toccherà altri paesi e, se sì, chi è davvero in pericolo? De Nicola mentre si dichiara piuttosto tranquillo sulle banche lo è decisamente meno per quello che riguarda il sistema paese. «Come si fa – osserva – a non avere qualche timore? L’Italia ha un debito fra i più alti del mondo (sfiora il 120 percento); ha un deficit annuale sostanzioso, la sua crescita è pari allo zero virgola qualcosa». A questo va aggiunto che non si vede all’orizzonte «l’ombra di una riforma economica: innalzamento dell’età

pensionabile, tagli alla sanità e altro ancora».

Insomma, il nostro paese non è ben messo né fa nulla per assestarsi meglio. Nonostante ciò, prima che il contagio greco arrivi a noi, «ce ne vuole e ce ne vuole parecchio». Moody’s per la verità, prima di noi vede in pericolo, oltre al Portogallo e alla Spagna, anche l’Irlanda e persino l’Inghilterra. E in particolare «le banche britanniche». Queste ultime – osserva De Nicola – per la verità «hanno molto sofferto anche nella precedente crisi». Oltre Manica inoltre – per guardare più in generale all’intero sistema economico – «hanno uno spaventoso deficit annuale e non hanno elaborato nessun piano di rientro, visto che c’è stata una campagna elettorale e che sapremo solo oggi chi vincerà le elezioni. Il

risultato – osserva De Nicola – di questa consultazione è particolarmente importante ed avrà delle ripercussioni anche su questa crisi finanziaria. Se la vittoria di uno dei contendenti – il più probabile è Cameron – risultasse netta, tanto da assegnargli la maggioranza sufficiente a governare, allora sarebbe certo che il nuovo esecutivo elaborerà rapidamente una efficace strategia di rientro dal deficit e dalla crisi. Se invece si dovesse ricorrere ad un governo di coalizione, tutto diventerebbe più difficile. Le ricette dei

tre contendenti sono fra loro abbastanza diverse e quindi la mediazione risulterebbe difficile. Si correrebbe il rischio di scelte ambigue o di non scelte».

La politica insomma si intreccia sempre di più con questa temperie economica, basta vedere quello che sta accadendo in Grecia. «La reazione popolare, gli scontri, i morti – dice De Nicola – rendono tutto più complicato anche se dovrebbe essere chiaro a coloro che scendono in piazza che,se il governo desse retta a loro e bloccasse le misure

Il risultato delle elezioni in Gran Bretagna peserà moltissimo sul dopo crisi

di austerity, le conseguenze sarebbero ben più drammatiche delle misure prospettate da Papandreu». Per la Grecia ormai l’unica via d’uscita sono pesanti sacrifici e aiuti europei. De Nicola però non è troppo pessimista sul contagio che da essa si potrebbe propagare: «Se Zapatero si muoverà in modo equilibrato, la Spagna ce la farà. Chi invece potrebbe finir vittima dei mercati è il Portogallo». Certo, «se la Grecia crolla, allora si potrebbe sviluppare un pericolosissimo allarme generalizzato». Ma siamo sicuri che ciò che sta accadendo dipenda solo da cause economico-finanziarie, o è lecito il sospetto che la speculazione internazionale si stia accanendo contro l’euro? «I mercati si muovono contro quelle situazioni che percepiscono come deboli. La speculazione vuol guadagnare, il resto sono dietrologie».

Luigi Paganetto, preside della facoltà di Economia di Tor Vergata, vede nella crisi greca «una difficoltà di governance a livello europeo:si è intervenuto tardi e framille tentennamenti, e questo ha


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Dopo il grande freddo durante le trattative per il salvataggio greco, i due leader tornano uniti

Merkel e Sarkozy: il decalogo della Maastricht del futuro

Una lettera alla Ue, anticipata da “Le Monde”, detta le nuove regole: più competitività e rigore etico e statistico contro “i maghi del rating” di Gianfranco Polillo Insomma, ne è venuta fuori una lunga lettera a firma congiunta e inviata al Presidente del consiglio della UE Herman Van Rompuy ed a quello della Commissione europea Manuel Barroso: un testo in cui sono indicati i capisaldi di quello che sarà – o almeno dovrebbe essere – il nuovo credo europeo in tema di stabilità finanziaria e controllo di bilancio. Principi scolpiti sulla pietra: rafforzamento della vigilanza sui singoli Paesi, sanzioni più efficaci in caso di violazione, maggiore attenzione alle questioni strutturali.

L’obiettivo è quello di evitare che, in futuro, possa ripetersi un caso Grecia. Sempre che l’Eurozona possa facilmente uscire dal pantano in cui si è cacciata. Per ottenere un qualche risultato – insistono i due leader – è necessario rafforzare la governance economica. Quindi vigilare meglio sulle poste di bilancio dei singoli paesi, prevedendo sanzioni più efficaci rispetto alle attuali nel caso di deficit eccessivo, per rendere più stringente il Patto di stabilità e crescita. Ma questo non basta. Occorre intervenire anche – noi diciamo soprattutto – sull’economia reale: risolvere i problemi strutturali, accrescere la competitività, vigilare affinchè le raccomandazioni comunitarie producano, poi, i loro effetti. E non rimangano, invece come avvenuto finora, un debole vagito d’impotenza. Occorrerà, inoltre, individuare «le opzioni per la creazione di un quadro robusto per la risoluzione delle crisi nel rispetto del principio di responsabilità del budget di ogni Stato membro». Linguaggio volutamente oscuro. Che non si pensi al caso estremo di un’espulsione dall’euro: opzione oggi impossibile perché non prevista dai trattati? Senonché la prima tavola delle leggi si conclude con due altri comandamenti: stringere sui mercati finanziari e rafforzare la vigilanza sulle statistiche di ciascuno Stato membro (in altre parole: basta “taroccare” i dati, circostanza che ha prodotto il buco della Grecia). Nella seconda parte della lunga lettera, i principali imputati sono le agenzie di rating, da tempo poste sul banco degli accusati. Hanno azzoppato il piano greco,

emettendo un verdetto di down rating ancor prima di conoscerne il contenuto: tuonano i due leader. Devono rinsavire. D’ora in poi si applicherà con maggior rigore il Regolamento europeo. E poi le banche. Basta con il sostegno pubblico. Dovranno poter fallire e comunque essere tassate per contribuire in prima persona al superamento della crisi che i loro comportamenti azzardosi hanno determinato.

Che dire del decalogo? Siamo ancora a livello dei principi in una materia in cui la coda del diavolo si è sempre annidata nei dettagli. Vedremo gli sviluppi in un confronto internazionale che non riguarda solo l’Europa ma tutto il mondo del G 20. Un primo dato balza, tuttavia, all’occhio. Non si parla più di porre un tetto invalicabile alla dimensione del debito. Come dire: ognuno si tiene quello che ha, ma da adesso in poi sarà più difficile accrescerlo con deficit di bilancio fuori controllo. Un secondo aspetto degno di rilievo è il riferimento non solo alla finanza pubblica, ma al complesso di elementi che caratterizza l’economia dei singoli paesi.Temi come quello della competitività, dell’equilibrio dei conti esteri, delle dinamiche salariali, della struttura del welfare escono dal cono d’ombra in cui le regole del vecchio “Patto stabilità” – quello “stupido” secondo Romano Prodi - l’avevano cacciati, per divenire oggetto di una riflessione più ampia. La ciliegina sulla torta è invece data dalla critica alle agenzie di rating, la cui imparzialità e mancanza di conflitto d’interessi, è sempre più messa in discussione. Che quello sia un bosco da potare è fuori discussione. Troppi giochi sono stati fatti per favorire questo o quel concorrente – si pensi alla crisi del sistema bancario – più che per fornire un’informa-

zione corretta ai singoli investitori. Anche se si deve subito aggiungere che quelle strutture sono private. Regolarle con legge non sarà sufficiente se gli Stati non saranno in grado di creare nuovi organismi in grado di contestarne gli eventuali errori di valutazione.

E infine la banche. La rabbia nei loro confronti cresce in tutto il mondo e lascia prefigurare un confronto durissimo con l’establishment politico. Non è solo Giulio Tremonti che vorrebbe castigare comportamenti al limite dell’etica. Negli Usa Barack Obama è stato sconfitto una prima volta, ma punta – si veda il caso di Goldman Sachs – a una rivincita. Ora anche Sarkò e la Merkel si uniscono al coro e meditano interventi che lasciano presagire nulla di buono. Del resto è difficile dar loro torto. Per far fronte ad una crisi in cui il sistema bancario è stato determinante gli Stati hanno immesso nei mercati una liquidità straboccante. Quelle risorse dovevano servire per rilanciare il ciclo virtuoso dell’economia reale. Sono state, invece, utilizzate nel grande risiko della speculazione finanziaria. Un gioco che si ritorce contro gli Stati stessi. La vipera che morde la mano del suo salvatore. Si potrà passare dalle parole ai fatti? Nella clamorosa iniziativa, che utilizza Le Monde come un postino di lusso, c’è un pizzico di malizia. Domenica prossima, in Germania, si andrà a votare. Semplici elezioni regionali, ma dalle conseguenze politiche imprevedibili. Se Angela dovesse perdere, la maggioranza del Bunderat – il Senato delle regioni – verrebbe meno. Ed allora sarebbe tutta un’altra storia. Il che spiega, almeno in parte, l’uso disinvolto di bastone e carota, nella speranza di incantare ancora una volta il suo elettorato.

alimentato la speculazione». Oggi il primo problema è «rimettere in sesto i conti greci ed evitare il peggio. La cura voluta dall’Europa e dal Fondo Monetario è secondo Paganetto «forte come dimensione e molto concentrata nel tempo». Questo potrebbe provocare “un insuccesso”. Per evitare ciò occorre da una parte «dare aiuti, e dall’altra però consentire la ristrutturazione del debito». Se questa sarà la strada imboccata che appare «la più saggia, certamente ci saranno delle perdite per le banche che hanno nei loro portafogli i bond greci e quindi anche per quelle italiane». Il pericolo dunque non è quello che vede Moody’s, ma piuttosto che gli istituti di credito ricevano soldi da Atene più tardi del previsto e che dunque «abbiano delle significative perdite». Questa è la ricaduta della ristrutturazione del debito. È ovviamente un danno serio ma non un disastro. Tutto qui dunque l’effetto contagio? Paganetto lo vede lontano dall’Italia e anche dalla Spagna, l’unico paese che potrebbe esserne toccato e subire una sorte simile a quella greca è il Portogallo. «Ci sono delle somiglianze strutturali con la Grecia – spiega il professore – si tratta di economie piccole, con altissimi deficit e una capacità di risparmio parecchio ridotta rispetto alla nostra». Quindi, non ci sarà una crisi generalizzata da contagio: l’unica a doverla temere è Lisbona.

Eppure il sospetto che ci sia un attacco all’euro voluto e coordinato non è un sogno o un’illazione, in tanti ne discutono, c’è qualche cosa di vero? «Non credo ad una sorta di disegno politico che voglia affossare la moneta europea – risponde Paganetto – i mercati prima di tutto si muovono per guadagnare». «Occorre riconoscere però – prosegue – che l’euro, sin dalla sua nascita, ha una grossa fragilità a tutti noi ben nota: è una moneta senza paese; non c’è un bilancio comune. Questa debolezza è ben conosciuta anche agli speculatori. Nonostante ciò – lo ripeto – il loro fine è il guadagno e non l’attacco di natura politica». La divisa europea rischia di essere affossata? «Non credo – risponde Paganetto – l’euro è stato voluto dalla Germania e dalla Francia e le ragioni che portarono a quella decisione, in primo luogo il gigantesco ampliamento dei mercati, permangono tutte. Berlino e Parigi quindi non torneranno indietro. È vero però – prosegue – che in questa crisi è apparsa evidente l’impreparazione dell’Europa a fronteggiarla. Ciò pone all’ordine del giorno la modifica delle regole di Mastricht: non ci sono infatti meccanismi di difesa già approntati, un apposito fondo, ad esempio, per intervenire d’urgenza. L’Europa è andata avanti giorno per giorno – a questo siamo ormai abituati – la crisi greca ci squaderna sotto gli occhi questo problema. Occorrerà mettersi seriamente a riscrivere le regole».


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pagina 6 • 7 maggio 2010

L’assise. Il leader della Cisl rilancia con forza la coesione sindacale: «Da soli collezioniamo solamente dei fallimenti»

«Condannati a essere uniti»

Bonanni al congresso Cgil. E il segretario chiede scusa per i fischi RIMINI. È stato il giorno del pentimento della Cgil e del riavvicinamento tra il sindacato guidato da Epifani e Cisl e Uil. Ieri il leader della maggiore organizzazione sindacale italiana ha fatto pubbliche scuse per le bordate di fischi che la platea cigiellina aveva riservato mercoledì ai segretari generali di Cisl e Uil al loro arrivo al congresso di Rimini. Una scena vista già molte volte ai congressi della Cgil e nel mirino sono sempre stati (anche in un passato remoto) i “cugini” di Cisl e Uil considerati troppo morbidi con i governi non di sinistra e con le controparti. I fischi di Rimini, comunque, non sono altro che la rappresentazione che è sempre avvenuta e che normalmente avviene nelle aziende e nelle fabbriche quando la conflittualità conosce momenti di alta tensione: da una parte la Cgil e dall’altra le altre due confederazioni. È sempre stato così nonostante i numerosi e ripetuti proclami di unità sindacale che si sono ripetguti negli ultimi decenni. «Ho chiamato ha detto Epifani dal palco - Bonanni e Angeletti per scusarmi per come sono stati accolti. Ma non poteva essere un atto privato, quindi lo dico qui pubblicamente. I fischi sono stati un doppio errore di cui bisogna essere capaci di assumersi la responsabilità». Applausi dalla platea, come prassi e buona educazione comandano. Tutto ciò ha permesso al segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, e a quello della Cisl, Raffaele Bonanni, di intervenire dal palco in un’atmosfera meno tesa rispetto a quella di mercoledì. I contenuti degli interventi, tuttavia, erano tutto sommato prevedibili. Angeletti ha difeso l’accordo del 22 gennaio 2009 sul cambiamento del modello contrattuale. «Un accordo - ha voluto sottolinerare il leader della Uil - che ha salvato i contratti nazionali: non è mai accaduto che i contratti siano stati rinnovati senza scioperi». È un modello «talmente positivo che molti di voi l’hanno condiviso», ha proseguito Angeletti, riferendosi alle categorie della Cgil che hanno sottoscritto rinnovi triennali. I sindacati, infatti, ha sottolineato il segretario della Uil con un po’ di malizia nei confronti di Epifani, non «vengono giudicati per quello che dicono, ma per gli accordi che fanno». Angeletti ha anche affrontato il tema

di Vincenzo Bacarani

della democrazia sindacale, «un argomento che mi sta molto a cuore. Due anni fa abbiamo sottoscritto un accordo in tal senso nel pubblico impiego, che misurava anche il grado di rappresentanza dei sindacati. Oggi bisogna arrivare a una legge sociale sulla rappresentatività, perché pensiamo che l’accordo abbia bisogno di una legge di sostegno. Quel che va superato è il fatto di essere l’unico sindacato al mondo dove i lavoratori non iscritti hanno gli stessi diritti e doveri degli iscritti. Facciamo una legge, un accordo sulla legittimità di chi firma i contratti, un’intesa che stabilisca che il sindacato è un’organizzazione libera, svincolata dalla politica, che tutela i diritti di chi si associa. Questo per noi è un valore assoluto, che legittima il nostro essere sindacato». Dal canto suo, il

Luigi Angeletti (Uil): «Le parti vengono giudicate per gli accordi che fanno, non per quello che dicono»

Corso d’Italia tra Statuto dei Lavori, regole sulla rappresentanza e soliti paletti

La solitudine di Epifani di Francesco Pacifico l prossimo 20 maggio il ministro Maurizio Sacconi presenterà lo Statuto dei Lavori. Quella cornice di norme che – oltre a integrare, se non a sostituire, lo Statuto dei Lavoratori– finirà per superare la distinzione tra dipendenti e autonomi, visto che il riconoscimento avverrà attraverso categorie molto trasversali come la formazione, la sicurezza o l’equo compenso.

I

La Cisl, la Uil, la Confindustria e il mondo delle partite Iva sono già pronti a una sfida che stravogerà le più elementari regole della rappresentanza. Nel suo discorso d’apertura al congresso di Rimini Guglielmo Epifani ha invece chiesto a governo e imprese un patto triennale per l’occupazione, per creare almeno 700-800 mila posti a fronte del milione perso durante la crisi. Pena, un bello sciopero generale. In fondo è proprio da questo iato, dalla distanza tra la Cgil e il resto del mondo, che la futura segretaria Susanna Camusso dovrà partire per riportare al centro del dibattito pubblico corso d’Italia. Mentre la politica e il sindacato hanno fatto di tutto per rafforzare un modello di tutele disegnato sulle esigenze dei dipendenti, la crisi ha finito per scaricare tutta la sua violenza su precari e giovani. E proprio in

questi due fronti – tenuti fuori con sistemi diversi dal mondo del lavoro – si trovano gli skills necessari per rimettere in carreggiata un Paese destinato a ridurre il peso della manifattura a favore di quello dei servizi. Lo Statuto dei Lavori riporta al centro delle trattative quei prestatori d’opera che oggi non hanno voce. E che si vada in questa direzione lo dimostrano sia l’avanzamento del patto del Capranica – l’alleanza in un unico blocco dei rappresentanti di commercianti e artigiani – sia la guerra sempre più palese tra Ordini, sigle autonome e confederali per accaparrarsi iscritti tra i professionisti dipendenti degli studi.

Anche la Cgil si sta muovendo su questo fronte: qualche mese fa Agostino Megale ha dato vita a un tavolo delle professioni. A dirla tutta la mozione congressuale con la quale Epifani ha sbancato gli avversari interni, e forte dell’80 per cento dei consensi, è impregnata di richiami ai nuovi lavori e alla semplificazione delle regole. Eppure quando si arriva al dunque, la Cgil non va oltre la richiesta di piani straordinari e la minaccia di scioperi generali. Come se i posti creati dallo Stato siano eterni. Come se si debba sempre ragionare in termini di emergenza e non di ricostruzione.

leader della Cisl Raffaele Bonanni, in chiusura del suo intervento ha provato a riproporre il tema dell’unità sindacale come unica strada possibile. «Insieme siamo forti - ha detto - da soli collezioniamo solo fallimenti».

Un appello destinato a rimanere nel vuoto assoluto, visto che la stessa Cgil fatica a mantenere una unitarietà di intenti e di programmi al proprio interno.Tuttavia il leader della Cisl ha riscosso alcuni applausi quando ha richiamato alla necessità di tornare a percorrere una strada comune. E tuttavia ha avvertito: «Basta con le recriminazioni, ognuno si prenda la proprie responsabilità. La possiamo mettere come vogliamo sulle responsabilità dell’isolamento, ma chi è senza colpa scagli la prima pietra». Da registrare, infine, un acido commento del ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, sulla proposta di Epifani per un piano triennale per l’occupazione che, nel suo intervento di apertura del congresso, il leader della Cgil aveva lanciato. «Epifani - ha detto - non ha la consapevolezza del contesto nel quale ci troviamo».


diario

7 maggio 2010 • pagina 7

Duro il rapporto sugli statali dell’Istituzione di controllo

Approvato in Senato il nuovo codice: ora torna alla Camera

Corte Conti: produttività in cambio di aumenti

Casco in bici e multe nulle dopo due mesi

ROMA. Bisogna valutare bene

ROMA. Via libera del Senato al

la produttività del lavoro da parte dei dipendenti statali, prima di concedere aumenti sulla busta paga. Lo dice la Corte dei Conti nel Rapporto 2010 sul lavoro pubblico. La magistratura contabile evidenzia infatti che alla limitata contrazione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni fa riscontro una crescita del «costo del personale» (+2,8% rispetto al 2006 e +7% rispetto al 2007), con maggiore incidenza nel settore statale. È quindi «ormai ineludibile procedere ad una misurazione della produttività del lavoro pubblico quale parametro di compatibilità economico-finanziaria per la concessione di incrementi retributivi eccedenti il mero mantenimento del potere di acquisto della componenti fisse della retribuzione».

disegno di legge unificato sul nuovo codice della strada, che ora dovrà tornare alla Camera in terza lettura, per l’approvazione definitiva essendo stato modificato al Senato. Il testo rappresenta un «giro di vite» sulle regole della strada in nome della sicurezza e mette in pratica la tolleranza zero, soprattutto verso i neopatentati. I conducenti che hanno meno di 21 anni e chi ha la patente da non più di tre anni, avrà vincoli tutti particolari e molto più restrittivi: il tasso alcolemico, per esempio, deve essere pari a zero. Nel caso in cui sia stato rilevato l’uso di alcool ma non ci siano stati sinistri la sanzione prevista è una multa che può

Neanche il made in Italy è uscito dalla crisi I dati di Unioncamere sulla tenuta delle aziende di Gualtiero Lami

ROMA. Sono 830mila le assunzioni previste Nel Rapporto, la magistratura contabile ricorda che tale voce di spesa stimata per il 2010 è stimata in una percentuale pari all’11,2% del pil. In particolare, al 31 dicembre 2008 i dipendenti delle pubbliche amministrazioni ammontano complessivamente a poco meno di 3.599.000 (tale numero comprende tutti i dipendenti delle amministrazioni statali e non statali, compreso il personale in regime di diritto pubblico e

dalle imprese italiane nel 2010 (50mila in più di quelle messe in conto nel 2009), e le uscite in linea con quelle dello scorso anno. Il risultato è negativo (173mila posti di lavoro in meno, 1,5% il calo atteso per l’occupazione), ma la contrazione dei posti di lavoro dovrebbe essere inferiore a quella del 2009 (quando la flessione prevista ha toccato il -2%). Insomma, la crisi nel 2010 morderà un po’ meno che nel 2009 (anno nerissimo) ma nel complesso la situazione non riparte. E nemmeno il cosiddetto “made in Italy” è rimasto al riparo dalla crisi. Malgrado ciò, sembrano buone le previsioni formulate dagli imprenditori manifatturieri e commerciali, che al secondo trimestre del 2010 guardano con atteggiamento positivo. Questi alcuni dei dati principali che emergono dalla lettura del Rapporto Unioncamere 2010, il dossier sullo «stato di salute» del sistema Paese, diffuso ieri in occasione della ottava Giornata dell’Economia. «Le anticipazioni dei dati sull’occupazione confermano che il punto di maggiore flessione è probabilmente superato e che il sistema, pur continuando ad espellere risorse, sta seguendo una traiettoria più moderata rispetto a quella di Paesi a noi più prossimi», ha affermato il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello. «Registriamo inoltre - ha continuato - una lieve ma apprezzabile ripresa delle assunzioni: 50mila unità in più, con la particolarità che di queste assunzioni aggiuntive, il 42%, oltre 21mila, è destinato a figure ad alta specializzazione professionale. Come dire che le imprese che si stanno rimettendo in moto nel 2010 sono già in cerca di personale».

lo scorso anno), arrivando a un saldo del 1,5%. A ridursi sarà soprattutto l’occupazione delle imprese industriali (-2,5%) rispetto a quelle delle attività terziarie (-0,7%). All’interno della manifattura, il picco più negativo dovrebbe essere quello dell’edilizia: -3,7% la flessione stimata rispetto all’anno scorso. Come detto, sono ancora in difficoltà le imprese del made in Italy come il «sistema moda», l’arredamento, i beni per la casa e il tempo libero, interessate da riduzioni comprese tra -2,7% e il -3%. In linea con la media dell’intero settore manifatturiero dovrebbe, invece, collocarsi la lavorazione dei metalli e della meccanica, mentre inferiore alla media dell’industria (intorno al -1%), è la flessione rilevata in settori che si sono mostrati più al riparo dalla crisi internazionale, come la filiera dell’energia e la chimica e farmaceutica. Miglioramenti all’orizzonte, invece, nel terziario, dove alcuni settori potrebbero far registrare nel 2010 lievissimi incrementi dell’occupazione (tra lo 0,1% e lo 0,8%): si tratta della sanità e servizi sanitari privati, dell’informatica e telecomunicazioni.

Secondo Ferruccio Dardanelli, la ripresa si fa vedere: la disoccupazione cala perché si ricomincia ad assumere

quello in servizio presso le autorità indipendenti, con contratto di lavoro a tempo indeterminato e determinato, compresi i lavoratori interinali, i lavoratori socialmente utili e le persone assunte con contratto di formazione e lavoro). Nel triennio 2006-2008, a causa del «giro di vite», il numero di dipendenti è calato dell’1,3%. Anche i Corpi di polizia, nonostante la possibilità di effettuare assunzioni in deroga ai limiti previsti per la generalità del personale pubblico, si sono visti ridurre il personale di circa 6.000 unità. Ulteriori assunzioni pari a complessive 2.578 unità, sono autorizzate con riferimento al 2009.

Secondo le elaborazioni sui dati dichiarati dalle prime 40mila imprese interpellate nell’ambito del Sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere e ministero del Lavoro, il tasso di entrata si attesterà nel 2010 poco sopra il 7% (era il 6,8% nel 2009), mentre il tasso di uscita si colloca all’8,6% (era l’8,7%

Sul fronte opposto, il più marcato calo occupazionale alle dipendenze è atteso dalla filiera turistica (sfiora il -2% per alberghi, ristoranti e servizi turistici), seguita dagli altri servizi alle persone e dal commercio e riparazione di autoveicoli (rispettivamente -1,4 e -1,3%). Flessioni analoghe o inferiori a quelle medie del settore si dovrebbero infine registrare per le imprese del commercio al dettaglio e all’ingrosso, nonché del credito e assicurazioni (tra il -0,7% e il -0,5%). A livello territoriale, sembra essere il Centro l’area in cui la flessione occupazionale dovrebbe essere più contenuta (-1,3%). Al Nord, invece, dovrebbe attestarsi intorno alla media nazionale (-1,5%), mentre dovrebbe aumentare leggermente nel Mezzogiorno (-1,6%). Piccole e piccolissime imprese, comprese quelle artigiane, mostrano infine la più intensa contrazione di posti di lavoro.

andare da 200 a 800 euro ma la cifra raddoppia in caso di incidente. Sempre per i neopatentati ci saranno limiti di velocità più bassi, da 100 a 90 km/h in autostrada e da 90 a 70km/h nelle strade extraurbane.

Il provvedimento stabilisce l’obbligo del casco per i giovani ciclisti fino a 14 anni, mentre i motociclisti che vogliono portare con sé giovanissimi dai 5 ai 12 anni dovranno dotarsi, secondo quanto stabilirà un decreto ministeriale, di un seggiolino apposito da agganciare alla sella. Poi c’è una stretta sulle microcar: chi le guida deve obbligatoriamente usare le cinture di sicurezza e chi ha la patente ritirata per eccesso di velocità non può usarle. È passata la proposta leghista in base alla quale chi ha avuto sospesa la patente avrà 10 giorni di tempo per ricorrere al prefetto chiedendo una deroga per andare al lavoro o per fini sociali, come il volontariato. Approvato, infine, il divieto per i locali notturni di vendere bevande alcoliche dopo le tre di notte. Un’altra novità per gli automobilisti e i motociclisti, poi, è la decisione di rendere nulle le multe che non saranno notificate entro due mesi dall’infrazione.


pagina 8 • 7 maggio 2010

grandangolo La maggioranza spaccata sul successore di Scajola

Tre Pdl (e la Lega) in lotta per un solo ministero

L’interim del presidente del Consiglio allo Sviluppo economico porta in primo piano un problema irrisolto all’interno del Popolo della libertà: il consolidamento di almeno tre correnti. Quella dei fedelissimi del premier, quella degli uomini d’apparato e quella dei finiani. E tutti devono combattere con il Carroccio che vuole riprendersi l’Agricoltura di Errico Novi

ROMA. Mai si sarebbe immaginato, Silvio, di doversi barcamenare in un frastuono di voci discordanti per risolvere una cosa semplicissima, la sostituzione di un ministro. Invece va così e per la prima volta da quando è sceso in politica il Cavaliere non si sente padrone a casa sua. Almeno fino al tardo pomeriggio di ieri il successore di Scajola non c’è. Allo Sviluppo economico si va avanti con l’interim, come riferito formalmente nell’aula di Montecitorio. Una soluzione di cui Berlusconi si premura di ribadire la brevità («fino alla settimana prossima»), visto l’assillante pressing di Pd e Italia dei valori sul conflitto d’interessi. A sconcertarlo di più però è l’improvviso scenario di ingovernabilità che gli si para davanti. Senza nemmeno tener conto di Bossi – a cui pure sfugge una battuta su un fulmineo trasloco di Galan al posto di Scajola e relativo ritorno del Carroccio all’Agricoltura – nel Pdl ci sono almeno tre aspiranti ministri, uno per corrente. Altro che monolite carismatico incompatibile con l’anomalia finiana: qui il Cavaliere deve sbrogliare una classica matassa da Prima Repubblica. Anime diverse, e ognuna preme per il suo nome alla successione di Scajola.

C’è sul tavolo un’ipotesi che in realtà piace proprio a Berlusconi: Luisa Todini, imprenditrice a lui vicina, in predicato di essere schierata al posto di Renata Polverini fino a gennaio scorso. Nel Pdl ideale che Silvio ha in testa non ci sarebbero mediazioni tra il suo gradimento e la nomina. Non è così stavolta. Il partito freme, sbuffa, scalpita: si invoca

Con il colpo inflitto alle due figure forti della macchina del partito si avvia la disgregazione: nelle mani di Silvio un timone impazzito una soluzione «politica» e «interna», come dice Ignazio La Russa. In pratica uno come Guido Crosetto: berlusconiano sì ma anche espressione di quell’apparato che assomiglia sempre più a un correntone. Con la sua promozione – oggi Crosetto è sottosegretario alla Di-

fesa – verrebbe alleviata una vecchia ferita interna, il malumore dell’ala piemontese che si è sentita penalizzata dalla candidatura di un leghista alla Regione. Basta? Macché. Anche Paolo Romani è entrato nella pole position, inizialmente con le credenziali più alte. A bruciarlo è stato paradossalmente l’eccessivo gradimento di Giulio Tremonti. Al presidente del Consiglio, il ministro dell’Economia ha dato il suo via libera già martedì sera. Ha ribadito gli auspici anche con Emma Marcegaglia.Troppo. I nemici del Professore, sempre pronti a colpire, subito hanno fatto notare al Cavaliere che con una figura scarsamente autonoma come Romani, Tremonti avrebbe campo libero.

Il mare è agitato. In mezzo c’è un arcipelago. Ci sono le correnti, sempre meno inclini a lasciarsi ricondurre all’unico verbo del leader. Ma a manifestare con più evidenza l’incredibile metamorfosi del Pdl è, per Berlusconi, proprio la necessità di farsene una tutta sua, di corrente. All’inizio i Promotori della libertà di Michela Brambilla erano stati pensati come un’avanguardia per colpire Fini e rimettere in riga un partito rissoso, incapace persino di accordarsi sui candidati governatori. Negli ultimi

tempi il Cavaliere ha provato a trasformare la neonata guardia azzurra in una specie di Gladio personale. Vi ha attratto i suoi fedelissimi di sempre, quelli che consulta ogni giorno, da Sandro Bondi ad Angelino Alfano, fino a Rocco Crimi, tesoriere del Pdl, custode della cassaforte. Mossa quest’ultima interpretata ieri dal Foglio come preludio a un possibile strappo verso il voto anticipato, con tanto di acronimo “P.d.l.” da sventolare persino in disaccordo dal politburo di via dell’Umiltà.

Da quelle parti si consolida appunto il partito-apparato. Quello che vorrebbe Crosetto ministro, che si asserraglia attorno a Verdini, che sussume persino la “Nostra destra” di Ignazio La Russa. E che soprattutto vive ormai di un’autonomia politica ben distinguibile dal giro stretto del Cavaliere. Ci sono naturalmente posizioni difficili come quella di Sandro Bondi, da una parte triumviro e dunque parte del correntone “doroteo”, dall’altra leale fino all’ultimo con il Presidente. Ma certo è che quel blocco, maggioritario nel Pdl, non risponde sempre e comunque a Berlusconi. Se n’è avuta prova con l’eresia di Rocco Palese candidato in Puglia nonostante le perplessità del Capo.


7 maggio 2010 • pagina 9

Ex colonnelli e finiani si contendono 300 milioni di euro tra immobili e rimborsi

A chi il tesoro di An? È cominciata la guerra per la fondazione dalle uova d’oro di Riccardo Paradisi

ROMA. Le scosse delle inchieste sui vertici del Pdl – il caso Scajola e poi quello di Denis Verdini – continuano a mettere in vibrazione il sismografo del centrodestra. Inevitabile che buona parte di questa tensione si stia scaricando nella polemica interna con la corrente di minoranza finiana su cui si appuntano in successione gli strali di Bossi e Bondi. Il leader della Lega avverte Fini che «se intende che la Padania è marginale, se ne deve assumere la responsabilità».

L’altro Pdl è quello sempre meno residuale di Gianfranco Fini. Piccolo, ma a sua volta autonomo. Pronto a mettere il veto sull’ipotesi solo remota di un successore leghista per Scajola, vedi le dichiarazioni fatte mercoledì da Bocchino e altri. Rinvigorito dall’altrui debolezza. Eretico ma non più riducibile a fenomeno settario da sedare in fretta. E ci sono poi i sottogruppi, anche questi temibilissimi per il Cavaliere: il gruppone degli ex An non finiani, per l’appunto; e all’interno di questi la corrente sociale di Gianni Alemanno, forse la meglio attrezzata sul piano organizzativo e ideologico, saldamente agganciata al mille-

Il Correntone vuole Crosetto, gli ex An frenano i lumbàrd, il Capo punta sulla Todini. E nota l’inconsistenza dei “Promotori” narismo tremontiano; e ancora, sempre nella galassia “dorotea”che tiene in mano la gestione del partito, non si può dare per estinta la stella di Claudio Scajola, almeno fino a quando non sarà chiaro il destino politico e giudiziario dell’ex ministro.

In un quadro del genere come può il presidente del Consiglio pensare di normalizzare l’anomalia finiana? Non può più, infatti. Da un paio di giorni non a caso ripete a chi lo incontra che «sarà eventualmente Gianfranco a provocare la rottura». Spiazzato com’è dalle disavventure di due uomini macchina come Verdini e Scajola arriva persino a smentire – ieri a Montecitorio – che dietro gli scandali covi una «congiura». Solo

«magistrati politicizzati», dice. Non potrebbe fare altro, visto che persino Umberto Bossi non lo asseconda più sulla teoria complottista. Si può dire però che proprio gli ultimi inciampi hanno fatto saltare la diga, compromettendo la strategia di annichilimento dell’ex leader di An. Se vengono meno gli uomini forti, Verdini e Scajola appunto, quelli che hanno governato il partito negli ultimi dieci anni, che hanno deciso le candidature (anche in autonomia dal Cavaliere), che hanno selezionato la classe dirigente; se vengono meno loro è chiaro che il monolite si sfarina. Tra i parlamentari del Pdl negli ultimi giorni si registra una specie di continuo, rassegnato lamento. È la nenia dei senza patria, di quelli che a cui sembra improvvisamente mancare la copertura gerarchica.

E in un simile disordine, se nessuno tiene più unite le truppe e si incrina l’autorevolezza del comando, ecco che fatalmente la macchina non funziona più, ogni pezzo del motore gira per conto proprio, e Silvio si ritrova tra le mani un timone impazzito. Non bastasse nelle ultime ore ha anche verificato la modesta consistenza dell’operazione Brambilla: difficile resuscitare un’onda movimentista forte, difficile persino organizzare una manifestazione pseudo-spontanea in suo favore, con i numeri insufficienti di cui dispongono i Promotori della libertà. E mentre con i colpi giudiziari si sgretola il blocco del Pdl, Berlusconi scopre anche di avere pochissime facce da spendere sulla platea mediatica. Non a caso negli ultimi giorni è stata inflazionata l’immagine di Maurizio Lupi, uno dei pochi talenti a disposizione del Cavaliere che siano in grado di reggere nelle arene televisive. Martedì sera a Ballarò mentre gli interlocutori di Floris sciorinavano le lacune dell’esecutivo nel contrasto alla crisi, Lupi si passava una mano sulla fronte, effigie dell’imprevisto travaglio politico con cui la corazzata berlusconiana deve misurarsi nonostante la forza dei numeri.

Il coordinatore del Pdl Sandro Bondi invece torna ad attaccare il presidente della Camera replicando le critiche già mosse nei confronti di Fini dal ministro al Turismo Michela Vittoria Brambilla. Fini, secondo Bondi, non porterebbe un “arricchimento” per il partito perché ha inteso il confronto come «lacerazione, rottura e alternativa radicale rispetto a Berlusconi. Sono quindi in mala fede – secondo il ministro – le lagne su un supposto dissenso trattato alla stregua di un’eresia e nascondono la mancanza di coraggio di scelte conseguenti». A innescare gli attacchi contro il presidente della Camera da un lato è stata la polemica sulle posizioni marginali della Lega in merito all’unità d’Italia, dall’altro il recente varo on line fatto dallo stesso Fini della corrente “Generazione Italia”, la componente finiana interna al Pdl organizzata dall’ex vicecapogruppo del partito alla Camera, Italo Bocchino. Mosse dettate a Fini anche dalla necessità di reagire all’offensiva degli ex An ormai lontani da lui, quell’area cioè del Pdl che alla vigilia della direzione nazionale del Pdl firmava il cartello anti-Fini. E che subito dopo costituisce la componente interna“La nostra destra nel Pdl”con l’obiettivo di riprendere a Fini il copyright della destra, di ristabilire ciò che è di destra e ciò che non lo è, e soprattutto di accedere in modo organizzato, assieme alle altre componenti ex An, a quel 30 per cento di rappresentanza interna al partito che Fini vorrebbe invece rinegoziare. Un’operazione naturalmente avallata da Berlusconi che così avrebbe il 30 per cento di ex An cooptati con l’esclusione della minoranza finiana. Formalmente così il Cavaliere rispetterebbe i patti di fondazione con Fini e liquiderebbe il suo dissenso rendendolo politicamente

sterile. Questo è il primo passo della guerra interna agli ex di An. Il secondo è ancora più strutturale, diciamo, e riguarda l’appropriazione e il controllo di quello che è stato chiamato il tesoretto di An. Un patrimonio di circa trecento milioni di euro tra beni immobili e rimborsi elettorali custodito dalla fondazione Alleanza nazionale presieduta dal finiano di ferro Donato Lamorte. Nella fondazione è stato messo al sicuro l’intero patrimonio di An, consentendo al momento della fusione con Forza Italia una divisione dei beni che consentisse a Fini e ai suoi una exit strategy in caso di liti o divorzi. A questo proposito il presidente del comitato dei garanti della fondazione Lamorte aveva visto lungo. Alla vigilia della fusione tra Forza Italia e An si mostrava perplesso per la fretta con cui la destra italiana si andava a sciogliere nel mare berlusconiano: «Io sono stato fidanzato sette anni prima di sposarmi, e ho appena festeggiato le nozze d’oro. Oggi invece si va di corsa all’altare e di corsa si divorzia... Per questo avevo detto tempo fa che, se non ci si poteva sposare tra An e FI, si poteva rimanere fidanzati. Hanno deciso per il matrimonio: bene, speriamo di smentire le mode...».

Per questi timori – giustificati – gli ex An optarono per la divisione dei beni. E per questo la fondazione oggi rappresenta un giacimento di risorse cospicuo e risveglia appetiti potenti. A questa partita per il tesoro di An gli ex colonnelli che non si riconoscono più nella leadership finiana hanno già cominciato a partecipare. Attivandosi nella corsa al tesseramento che si è chiuso appena una settimana fa. Tessere da far pesare nell’assemblea dei soci e nel board della fondazione dove ci si contenderà la maggioranza. Non si sa ancora quali sono i numeri se sono i finiani ad avere la maggioranza o i lealisti berlusconiani. Si deve attendere anzitutto la verifica delle nuove tessere – perché l’iscrizione alla fondazione sia valida si doveva essere tesserati ad An almeno fino al 2008 – e poi fare il nuovo statuto della fondazione. Dalla maggioranza che risulterà dalla conta dipenderà anche l’uso che verrà fatto del tesoro di An.


pagina 10 • 7 maggio 2010

panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Dall’Iran all’Urss, la grande paura atomica l futuro arsenale atomico dell’Iran ci riportati in una stagione della storia e della modernità dalla quale credevamo di essere usciti definitivamente: la guerra fredda. Il mondo occidentale s’indigna e protesta e vede nel regime iraniano un nemico di sconfiggere, con le buone o con le cattive, prima che sia troppo tardi. Tuttavia, la bomba atomica dell’Iran - se ce l’ha e come ce l’ha - è in sé qualcosa di occidentale: il progresso scientifico e tecnologico è qualcosa di esportabile davvero in tutto il mondo, non conosce confini geografici e dissolve i confini culturali. Dell’Iran, in sostanza, non ci fanno paura i missili a testate nucleari, ma l’Iran stesso. Non è la prima volta che questo accade nella storia contemporanea.

I

Quando finì la Seconda guerra mondiale e il mondo si divise a Yalta in due sfere di influenza, quella americana e anglosassone del mondo della libertà e quella sovietica del mondo della illibertà, il regime comunista non aveva ancora la bomba atomica. Ma lavorava per averla. Il 29 agosto 1949, nella distesa di Semipalatinsk, l’Unione Sovietica sperimenta la sua prima bomba atomica, una copia perfetta di Fat Man, l’ordigno americano lanciato su Nagasaki il 9 agosto 1945. Da quel giorno gli Stati Uniti perdono il loro primato nucleare e la presunzione di invulnerabilità: è uno choc che attraversa tutto quel grande Paese, mentre il presidente Truman, il Pentagono, i servizi segreti si domandano come sia potuto accadere, chi può aver trafugato e trasmesso ai russi e ai capi comunisti i piani dell’arma nucleare di cui l’America libera aveva l’esclusiva. Due anni dopo i presunti colpevoli sono alla sbarra davanti a un tribunale di New York: Julius ed Ethel Rosenberg, Anatoli Yakovlev, David Greenglass, Morton Sobell. Ma è soprattutto sui primi due che l’America si dividerà, su quella coppia un po’ dozzinale di ebrei senza fortuna che sembrano aver cambiato da soli il corso della Storia. Finiranno dopo anni di processo sulla sedia elettrica.“Vittime innocenti”, secondo molti, “spie perfette” secondo l’FBI. Questa storia è raccontata per filo e per segno, con dovizia di particolari, documenti, foto, retroscena da Giorgio Ferrari nel libro Ombre Rosse. Il caso Rosenberg e la guerra fredda, edito da Book Time. È una storia del passato, ma anche del presente. Perché proprio come ieri, oggi è tornata non solo la paura della bomba atomica, ma anche la paura del traditore, della spia, dell’infiltrato. E non è una paura facile da controllare, può facilmente assumere i caratteri della caccia alle streghe. I due anonimi ebrei newyorkesi, i coniugi Rosenberg, vennero accusati di cospirazione e spionaggio a favore dell’Unione Sovietica e mandati a morire sulla sedia elettrica. La loro storia si intreccia con la “Red Scare”, la Grande Paura Rossa, la stagione del maccartismo e della guerra fredda. Oggi la Grande Paura, indipendentemente dal colore, è tornata.

E il Mezzogiorno scopre l’email certificata Le prime risposte alla riforma della posta elettronica pubblica di Lucio Lussi

ROMA. Si scrive Pec, si legge Posta Elettronica Certificata. L’ultima trovata del Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione Renato Brunetta è stata annunciata come una riforma epocale. Si tratta di uno strumento telematico che agevola il dialogo tra cittadino e Pubblica Amministrazione. Da fine aprile, dunque, ogni cittadino, collegandosi al sito www.postacertificata.gov.it potrà attivare una casella di posta elettronica certificata, utile per trasmettere informazioni e documenti in formato elettronico con la possibilità di certificare l’invio e l’avvenuta consegna del messaggio. Effettuata la “prenotazione”on line, il cittadino potrà recarsi dopo 24 ore, e comunque non oltre tre mesi, presso uno dei 6100 uffici postali, munito di documento di identità e codice fiscale per l’identificazione e la conferma dell’attivazione. Tutti i passaggi sono gratuiti e per informazioni sono attivi il numero verde 800.104.464 da rete fissa (199.135.191 da rete mobile), e il numero verde gestito da Formez PA 800.254.009.

portale, ad una settimana dal Pec-Day 107.084 italiani hanno attivato una casella di Posta Elettronica Certificata. Ora toccherà alla Pubblica Amministrazione dimostrare lo stesso impegno, altrimenti i buoni propositi della riforma svaniranno nel nulla. E del resto è già stata stilata una lista di “buoni” e “cattivi”, con le amministrazioni che hanno, e non hanno, attivato una casella di Pec, e per i dirigenti delle amministrazioni inadempienti, Brunetta ha anche minacciato la riduzione di bonus e incentivi. Poiché un luogo comune vuole il Sud poco attento alle innovazioni, andiamo a vedere come hanno reagito a questa. Tra le regioni brilla la Basilicata, che ha attivato 8 caselle di Pec, in Calabria ne sono attive due, una a testa per Puglia e Campania, mentre Sicilia e Molise si sono impegnate ad attivare una casella nei prossimi giorni. Poco virtuosa, invece, la situazione delle 29 amministrazioni provinciali. Poco meno del 50%, solo 13 province, hanno attivato almeno una casella di Posta Elettronica Certificata. Spicca la Provincia di Catania, con 30 caselle. Sette province si sono impegnate ad attivare la Pec nei prossimi giorni (Catanzaro, Crotone, Enna, Isernia, Matera, Ragusa,Taranto), mentre sono ancora nove quelle prive di una casella, circa il 31% (Bari, Campobasso, Caserta, Foggia, Messina, Vibo Valentia, Barletta-Andria-Trani e Benevento).

Tra le regioni brilla la Basilicata, che ha attivato 8 caselle. Due Pec in Calabria e una a testa per Puglia e Campania

Una sferzata di innovazione in una burocrazia oberata dalla carta e strozzata dalla macchinosità. «È una riforma che avrà lo stesso impatto dell’introduzione del divieto di fumare nei locali pubblici», ha promesso Brunetta con il suo consueto entusiasmo: «Ora ci chiediamo come era possibile fumare nei cinema. La stessa cosa avverrà con la Pec». Niente più file negli uffici pubblici, addio alle raccomandate per partecipare ai concorsi, niente più stress e inutili dispendi economici. L’email inviata dalla casella di Pec avrà il valore legale della raccomandata con ricevuta di ritorno e con essa sarà possibile richiedere un certificato di residenza al proprio Comune, prenotare una visita medica, richiedere documenti al Catasto, consultare la pagella on line, controllare le assenze dei figli più indisciplinati, gestire i ricorsi e i pagamenti delle multe e, presto, pagare tasse e bollette. «La Posta Elettronica Certificata permetterà a chiunque di rivolgersi alla pubblica amministrazione da casa propria, con il proprio computer - ha spiegato il ministro - avendo poi diritto da parte della Pubblica Amministrazione ad una risposta con la stessa modalità e lo stesso valore legale». Nonostante qualche problema di connessione al

Non brillano per eccellenza nemmeno i 32 comuni capoluogo. Poco meno del 50% non ha attivato la Pec, tra questi i Comuni di Napoli, Brindisi,Vibo Valentia, Campobasso e Caltanissetta. Solo in 17, invece, hanno attivato una Pec o hanno avviato la procedura di attivazione. Tra questi ultimi figurano Avellino, Bari, Lecce, Catania, Cosenza, Matera e Isernia. La palma di P.A.“poco comunicatrice”spetta, invece, alle Aziende Sanitarie Locali. La Asl di Trapani è l’unica ad aver attivato una casella Pec, Enna e Potenza lo faranno nei prossimi giorni. Dura vita anche per gli studenti intenzionati a comunicare telematicamente con le proprie università. Risultati eccellenti a Napoli, dove ben tre università hanno una Pec, la Federico II, la Parthenope e la Seconda, bene anche gli istituti di Benevento e di Reggio Calabria, mentre è ancora tabula rasa per le altre università meridionali.


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7 maggio 2010 • pagina 11

Le critiche e le proposte dell’Udc per migliorare il decreto della maggioranza sulla devolution demaniale

Federalismo: non svendiamo l’Italia I centristi si dichiarano disponibili al dialogo, ma avvertono: attenti al divario Nord-Sud di Franco Insardà

ROMA. Questo federalismo targato Lega all’Udc non è mai piaciuto, al punto che i centristi hanno espresso chiaramente in Aula la loro posizione quando, unico partito, votarono contro la legge delega. Passate le Regionali il Carroccio ha ripreso a spingere per definire, attraverso i decreti attuativi, la riforma voluta dai padani e a questo punto l’Udc, responsabilmente, ha deciso di dichiararsi disponibile al confronto con la maggioranza perché, come ha detto Pier Ferdinando Casini durante la conferenza stampa di ieri, «non ci serve e non ci interessa la polemica fine a se stessa, ci interessano i fatti. Il testo sul federalismo demaniale è sbagliato, ma siamo disponibili a cambiare idea a patto che il

governo sia pronto al confronto. Questo federalismo - secondo l’ex presidente della Camera - deve far funzionare meglio le cose. Abbiamo ancora tutti davanti agli occhi le immagini degli scontri ad Atene e per questo vogliamo risposte serie che finora non ci sono state, anzi sta accadendo quello che avevamo denunciato votando contro la legge: non conosciamo l’entità economica della riforma e la maggioranza ci sottopone all’approvazione un decreto sul federalismo demaniale».

Bicamerale sul federalismo, che ha avvertito: «Non siamo disponibili a dare cambiali in bianco perché stiamo parlando di norme che possono avere conseguenze sulla tenuta sociale del Paese. Esiste prima di tutto un problema etico legato al fatto che si dismette un patrimonio, i cui debiti verranno ereditati dalle nuove generazioni. Non è pensabile trasferire i beni patrimo-

E il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, ha aggiunto: «Si parta dal federalismo, poi si affrontri il riassetto delle autonomie locali e infine il federalismo demaniale. Oggi, invece stiamo parlando di piccoli aspetti mentre non sappiamo come è inquadrato il tema generale del federalismo. Anche perché questo sarà l’unico argomento che questo Parlamento affronterà». Cesa, partendo dal federalismo e dalla Lega, non ha mancato di lanciare una frecciatina anche sulle polemiche per le celebrazioni dell’Unità d’Italia: «A Borghezio preferiamo Garibaldi e alle ronde padane i mille di Garibaldi». Secondo l’Udc i decreti legislativi per l’applicazione

Galletti, che «l’orientamento delle scelte degli enti locali venga destinato esclusivamente agli immobili più redditizi lasciando a carico dello Stato gli immobili meno valorizzabili. La questione aperta non è solo la garanzia del debito pubblico, ma anche la dismissione di un patrimonio, i cui debiti verranno ereditati dalle nuove generazioni. Perciò proponiamo la creazione di un fondo perequativo per coprire il 40 per cento del debito nazionale». L’importanza della creazione di un fondo perequativo è stato ribadito da Pier Ferdinando Casini: «È necessario intervenire sulla moltiplicazione dei centri di spesa, sui costi e sul rischio di fare confusione, ma soprattutto è obbligatorio non cadere nella trappola della “disomogeneità territoriale”: non è pensabile che un bene di tutti i cittadini italiani che si trova a Milano venga dismesso e ci sia un vantaggio soltanto per i milanesi». Il timore dell’Udc, da sempre critica sull’articolazione del provvedimento, è che ci possa essere, in pratica, un allargamento del divario tra Nord e Sud.

Anche per Savino Pezzotta è necessario chiarire «il disegno complessivo che la maggioranza ha sul federalismo, ma non è pensabile partire dal demanio». E l’ex leader della Cisl si è detto molto preoccupato «per la tensione che aumenta nel nostro Paese e soprattutto in quelle zone industrializzate che hanno dato tanti consensi alla Lega. Nel momento in cui gli ammortizzatori sociali termineranno e le industrie non ripartiranno bisognerà stare molto attenti». Gian Luca Galletti ha anche sollevato la questione dei fondi immobiliari. «Bisogna rivedere la norma che li regolamenta, perché così com’è comporta dei benefici enormi e non giustificati per i privati. Costoro, infatti, avrebbero la possibilità, investendo in un fondo immobiliare, di ottenere plusvalenze generate dalla vendita dei beni, senza che lo Stato abbia più controlli e garanzie sul debito pubblico». Il messaggio dell’Udc al governo è chiaro: pronti a collaborare e confrontarsi a patto che vi sia la volontà di apportare modifiche al testo in esame e agli altri decreti attuativi della legge 42 del 2009. E a chi chiede all’Udc se tale apertura al confronto non debba allargarsi necessariamente anche al ministro dell’Economia, Casini replica con una battuta: «Quando parliamo della Lega, parliamo anche di Tremonti...».

Casini: «Questa riforma deve far funzionare meglio le cose. Abbiamo ancora tutti davanti agli occhi le immagini degli scontri ad Atene e per questo vogliamo risposte serie che finora non ci sono state» del federalismo fiscale vanno corretti, ma Casini ritiene che «occorre prendere atto che è finita la fase della contrapposizione da campagna elettorale tra noi e la Lega. Chiediamo un confronto aperto a tutti, a partire dal ministro Calderoli. Ci diano garanzie e noi siamo disponibili a discutere, a cambiare idea rispetto al voto contrario dato alla legge quadro, non solleviamo questioni ideologiche, né siamo contro qualcuno qui si tratta di temi concreti». Le critiche e le proposte dell’Udc sono state illustrate da Gian Luca Galletti, componente della

niali dallo Stato agli enti locali, senza definire le funzioni». Il testo predisposto dal ministro Calderoli prevede, infatti, il trasferimento a Comuni, Province e Regioni di beni del demanio marittimo e idrico, caserme e aeroporti, oltre a monumenti vincolati, fatti salvo quelli appartenenti “al patrimonio culturale nazionale”.

Le proposte dell’Udc al testo sul federalismo demaniale sono cinque: il varo del codice delle autonomie e le funzioni da attribuire agli enti locali, la previsione di modalità di valorizzazione del patrimonio demaniale che siano “eque e razionali”. Ma anche la definizione di una clausola di salvaguardia sul contenimento dei costi, la destinazione delle risorse risparmiate dallo Stato nel trasferimento dei beni una parte a copertura del debito pubblico locale e l’altra per quello nazionale attraverso un Fondo perequativo nazionale. La necessità di impedire ai comuni di scegliere quali beni acquisire per evitare, come ha spiegato


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ei quattro Padri della Patria (Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Mazzini, Cavour), quello che può contare sul minor numero di fans è sicuramente l’ultimo. Il primo re d’Italia gode ancora delle simpatie e dell’affetto dei nostalgici della monarchia (in fisiologica caduta verticale, con il tempo che passa, ma ancora non a rischio di estinzione, come dimostrano i successi raccolti nel mondo dello spettacolo dall’ultimo rampollo della Casata). Garibaldi non si discute, è ancora vietato“parlarne male”: è l’icona dell’eroismo nazionale, con le sue camicie rosse, i pantaloni jeans, la barba fluente, il coraggio inesauribile, la leggenda che - in Italia - ancora resiste al fascino di Che Guevara. Mazzini resta l’idolo delle signore dei salotti politically correct: è l’ideologo dal volto emaciato, che sopravvive al perenne conflitto del vorrei ma non posso, il missionario incompreso e inflessibile, una via di mezzo fra Gerolamo Savonarola e Ugo La Malfa, l’ultimo erede pessimista e inascoltato, rimpianto anche da quelli che non sopportavano il suo rigore, e ne avevano le scatole piene della sua pedante “coscienza critica”.

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Cavour - poverino - non ha i fans club (come gli altri, più o meno palesi e dichiarati) perché il ritratto che ci è stato tramandato dalla storiografia ufficiale è quello di un aristocratico cinico e arido (come tutti i cinici), un tessitore e un calcolatore senz’anima e privo di sentimenti: l’uomo che cercava la quadra (come direbbe Bossi) fra gli interessi del regno di Sardegna e le aspirazioni unitarie degli italiani: diplomatico astuto, politico diabolico (come un qualunque Andreotti, honny soit qui mal y pense: ce ne vorrebbero, anche ai giorni nostri), capace persino di infilare nel letto dell’imperatore di Francia una sua lontana cugina, che non era comunque un fiore di purezza. Le moltissime biografie che gli sono state dedicate da centocinquant’anni a questa parte non gli hanno reso giustizia. Hanno dimostrato che il merito dell’obiettivo raggiunto (l’unità nazionale) va attribuito a lui più che agli altri tre messi insieme. Ma questo non è sufficiente per renderlo simpatico e popolare. Troppa pancetta nei ritratti ufficiali (e nelle silhouette che lo ritraggono di profilo), troppa nobiltà, scarsa conoscenza della lingua italiana (avrebbe fatto brutta figura persino misurandosi con certi chiacchieratissimi politici d’oggi). Gli occhialetti da intellettuale, gli intrighi di corte, e la diplomazia spregiudicata, non sono certo argomenti vincenti per entrare nel cuore dell’opinione pubblica. Eppure – fin dal giorno della sua morte (prematura: aveva appena superato i cinquanta, e da pochissimi mesi era nato il regno d’Italia, al quale mancavano ancora il Veneto e la Capitale) - gli elogi (e il rimpianto) si sprecarono. Persino nel nostro Paese - che lui non conosceva (non si era mai spinto più a sud di Pisa e Firenze) e che sostanzialmente disprezzava («Meno male», confidò al suo segretario, «che abbiamo fatto l’Italia prima di conoscerla») - ci si domandava se i traguardi raggiunti sarebbero stati messi in discussione dalla scomparsa del maggior artefice dell’unità e dell’indipendenza.Torino indossò il lutto stretto: le botteghe erano chiuse, e dalle strade erano scomparse le carrozze. Il parlamento

il paginone Non ha la “buona stampa” di altri padri della patria come Vittorio Emanuele

Camillo Benso, C La vita privata di Cavour - tra conquiste sentimentali, tensioni familiari e amore per la buona tavola - nella biografia di Viarengo di Massimo Tosti sospese i propri lavori per tre giorni dopo la comunicazione di Urbano Rattazzi che definì la morte del Primo ministro «una catastrofe nazionale». Molti deputati erano in lacrime, e i lavori furono sospesi per tre giorni. L’Opinione, il giornale più vicino a Cavour, pianse il trapasso di una persona la cui autorità e il cui prestigio avevano ottenuto molte cose che sarebbero state altrimenti impossibili: la sua mente potente aveva posto nell’ombra tutti coloro che gli erano stati vicini. Giuseppe Verdi lo commemorò come «il Prometeo del nostro movimento nazionale». Lo storico George Trevelyan lo definì il più saggio e benemerito statista del suo secolo, «se non di ogni tempo». E tutti i biografi si sono profusi in lodi sperticate per la sua abilità politica, per il pragmatismo (Sergio Romano), per il virtuosismo con il quale seppe imporre la sua «rivoluzione conservatrice» (Denis Mack Smith), per la duttilità con la quale cambiava alleanze in parla-

mento per raggiungere lo scopo desiderato (Rosario Romeo). La storiografia più recente attribuisce a Cavour persino il merito di aver immaginato una struttura federale per lo Stato, come mezzo per unire gli italiani, e non limitarsi a unificarli. L’ultimo (in ordine di tempo) studioso che si è gettato anima e corpo nell’impresa di raccontarci il conte Camillo Benso è Adriano Viarengo, condirettore della Rivista Storica Italiana, autore di una biografia fresca di stampa (Cavour, Salerno edi-

Gli occhialetti da intellettuale, gli intrighi di corte e la diplomazia spregiudicata, non sono certo argomenti vincenti per entrare nel cuore dell’opinione pubblica tore, 564 pagine, 28 euro) che promette «un affresco completo del nobile piemontese», non tralasciando «di presentare le tensioni familiari e il temperamento autoritario, la

tenace aspirazione al cambiamento, le fragilità, le incertezze» e «l’agitata vita sentimentale, i flirt con le dame dell’aristocrazia torinese, e la passione per una nobildonna genovese, l’amore di una intellettuale francese e di una attrice italiana».

Queste premesse sono parzialmente tradite nella lettura del ponderoso volume: chi si attendesse una dose massiccia di gossip sulla vita privata del conte rimarrebbe deluso. Le signore sedotte da Camillo ci sono più o meno tutte. Ma il racconto delle avventure è fugace e (legittimamente) superficiale. Alcune sono appena citate Melania Costa Ghighetti, Emilia Nomis di Pollone, Clementina Guasco. Si trattasse di un politico a noi contemporaneo, i settimanali rosa (e persino i quotidiani autorevoli) avrebbero versato fiumi d’inchiostro su ciascuna di quelle storie. E - per le più corpose - avrebbero rivolto con insistenza (per mesi e mesi) dieci domande al premier, affinché spiegasse dettagli, circostanze, fornendo i necessari alibi e le doverose credenziali. Nei salotti bene di Torino, ovviamente, erano tutti al corrente degli amori del conte. Ma al di fuori di essi nulla trapelava, se non qualche divertita annotazione sui diversi gusti


il paginone II, Garibaldi o Mazzini, ma l’unità d’Italia fu raggiunta soprattutto grazie a lui

Conte del gossip femminili di Sua Maestà e del Primo Ministro. Vittorio Emanuele era un uomo semplice, rustico persino.

Correva appresso alle campagnole, e una di esse giunse persino a sposarla (con nozze morganatiche): Rosa Vercellana, la bella Rosin, che aveva appena quattordici anni quando fu sedotta dall’allora principe ereditario, e che gli rimase al fianco fino alla morte (di lui). Niccolò Tommaseo, testimone del tempo, raccontò (nella Cronichetta) che «quando, per andare ai colloqui del re, si doveva passare dalle stanze dove co’ figliuoli si trovava la troppo nota Vercellese, il Ricasoli, il Cavour, il Rattazzi tenevano diversa maniera: il barone, senza salutare, passava alla larga, quasi scappando; il conte faceva un inchino senza parola, e andava oltre; l’avvocato faceva sosta per accarezzare i bambini».

lunga e sottile, ricchissima di uova, condita con ragù di frattaglie), il minestrone di fagioli, il pollo all’aglio, le lumache, la cacciagione, pur apprezzando le ricette sofisticatissime dello chef di Corte, Antonio Vailardi. Cavour era aristocratico sia a letto che in camera da pranzo. Una buona forchetta, ma dai gusti raffinati. In Piemonte circolano ancora nei ristoranti molte ricette “alla Cavour”: risotti, agnolotti. Ripeteva spesso: «Plures amicos mensa quam mens concipit» (cattura più amici la mensa che la mente), ed era tal-

Nei salotti bene di Torino, tutti erano al corrente delle sue avventure amorose. Ma al di fuori di essi nulla trapelava. A parte qualche paragone con il Re...

Al di là delle simpatie personali, è evidente che gli aristocratici mal sopportavano la presenza di quella popolana, figlia di un tamburo maggiore dei granatieri di Sardegna, che aveva catturato il cuore di Vittorio Emanuele II. Una ragazza che era analfabeta, non conosceva le regole della buona società, parlava solo in dialetto; aveva «un tratto alla mano, un tanto di rustico, nessuna posa e un carattere giocondo», caratteristiche fondamentali per piacere al principe, il quale ne sottolineava i pregi, dicendo: «Almeno dalla Rosina si può desinare in maniche di camicia».Vittorio Emanuele era ruspante sia negli amori che a tavola, dove amava i cibi semplici (in particolare i “tajarin” delle Langhe, una pasta fresca,

mente convinto delle virtù diplomatiche di un buon pranzo e di una buona bottiglia che, quando un suo diplomatico partiva per una capitale straniera, si accertava che nel bagaglio ci fosse anche qualche bottiglia di Barolo. La sera del 29 aprile 1859, respinto l’ultimatum dell’Austria che intimava al Piemonte di smobilitare, e date le ultime istruzioni al generale Govone, si racconta che disse: «Alea iacta est, e adesso andiamo a mangiare».

Tre signore - fra le tante - coprirono un ruolo importante nella vita di Cavour: Anna Schiaffino Giustiniani, Bianca Ronzani

e Virginia Oldoini, moglie del conte Francesco Verrasis di Castiglione. Virginia fu uno strumento diplomatico nelle mani di Camillo (suo cugino alla lontana) che la spedì a Parigi con l’incarico di conquistare e sedurre Napoleone III pensate cosa scriverebbero oggi i giornali se trapelasse una storia simile a questa). La contessa eseguì il compito assegnatole: sedusse l’imperatore, ma i risultati diplomatici non furono pari alle attese. Uno storico illustre (biografo dei Savoia e di Cavour), Francesco Cognasso, liquida la questione in poche righe: «La bella Nicchia, che era già piaciuta al re, aveva avuto a Torino istruzioni sul modo di comportarsi con Napoleone, attirandolo in accordi di simpatie e di condiscendenze. La Castiglione comparve quindi alle feste, ai balli, ai concerti delle Tuileries, fu a SaintClaud e, se piacque all’imperatore, non ottenne il suo scopo. Napoleone si stancò presto di quella bellezza a cui mancava la spiritualità che poteva dominare l’imperatore. Questi la giudicò così: Elle est très jolie, mais elle n’a pas de charme (è molto carina, ma è del tutto priva di fascino)».

La marchesa Anna Schiaffino, sposata con un gentiluomo di camera di Carlo Felice, Stefano Giustiniani, era una signora anticonformista ma anche irrimediabilmente romantica, protagonista ideale di un melodramma di Verdi o di Puccini, op-

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pure di una fiction nazionalpopolare da mandare in onda su Raiuno. La loro - scriveViarengo - fu «una relazione sentimentale, con molti colori del tipico amore romantico, al quale si coniugava – ma non da parte di lui – un grado di follia e di sentimento di morte. Relazione nella quale è difficile stabilire il livello di coinvolgimento di Camillo, certo infinitamente minore di quello di Anna o Nina, come la chiamavano amici e familiari». Lui si comportava da mascalzone, e da maschilista (qual era) intrecciando altri legami, mentre lei soffriva. Quando avviò una relazione con la marchesa Clementina Guasco, scrisse sul proprio diario: «Sono un indegno, un infame, la mia condotta è orribile». Lei, Nina, dopo aver tentato altre due volte il suicidio, si uccise nel 1841 gettandosi dalla finestra della sua camera, nel Palazzo Lercari a Genova. Lasciò un’ultima lettera indirizzata all’amato: «Io non so nulla tranne d’amarti tanto. Tu sei tutto per me. Sei un essere soprannaturale.Tu assorbi tutti i miei pensieri, tu mi domini...Voglio la tua felicità prima della mia... Camillo, sono tua per sempre». I testimoni del tempo raccontano che Cavour non provò né rimorsi né rimpianti. In quel periodo aveva un’amica assidua nella signora Emilia Nomis di Pollone. La donna che gli fu più vicina negli ultimi anni fu Bianca Ronzani. Bianca era una “velina” o una “letterina” dei giorni nostri. A quei tempi le chiamavano “ninfe ballanti”. Lei si esibiva nei palcoscenici di Torino, dove era approdata nel 1856, «quando il marito, Domenico Ronzani, originario di Trieste, mimo e coreografo, aveva assunto la gestione del Teatro Regio». Del passato di lei (che aveva allora ventotto anni, e fra i propri spasimanti aveva annoverato anche il re Vittorio Emanuele) si sa poco o nulla. Chi diceva che fosse tedesca, chi polacca, chi ungherese. Ronzani si trovò carico di debiti, e Bianca si rivolse allora a Cavour, che era ministro delle Finanze. Anche questa è una storia che oggi farebbe la fortuna di fotografi d’assalto, giornalisti gossipari e magistrati intercettatori. Alle preghiere di lei che sollecitava indulgenza per il marito (già fuggito in Sud America, pare che il conte rispose: «Non so resistere alle preghiere di una bella donna in lacrime». Il loro rapporto durò fino alla morte di lui, che si rivelò generoso con Bianca, comprandole una villa sulla collina torinese. Ma non la sposò (a differenza di quanto fece il re con la Vercellana). Non intendeva sposarsi per una ragione che spiegò a un suo vecchio amico, Ruggiero Gabaleone di Salmour. Un eventuale matrimonio lo avrebbe costretto a lasciare spesso la moglie sola, dati i suoi impegni politici. «Tuttavia ella sarebbe stata comunque tenuta a adempiere agli obblighi sociali della sua posizione anche da sola. Non sarebbe stato così possibile impedire che venisse corteggiata da personaggi i quali avrebbero puntato, attraverso di lei, a influenzare il potente marito. Ciò avrebbe rischiato di farlo passare, anche involontariamente, “come minimo per cornuto”, con una conseguente perdita di prestigio che si sarebbe riflessa sull’efficacia della sua azione politica». Ognuno giudichi come meglio crede queste giustificazioni e, più in generale, i comportamenti del Padre della Patria. Mascalzone, fedifrago, opportunista, cinico, sfacciato e immorale. Ma sicuramente più umano del personaggio imbalsamato che ci hanno raccontato gli storici paludati. E, forse, più simpatico del monumento in marmo che domina tante piazze italiane.


mondo

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Londra. Da oltre due secoli residenza ufficiale del Primo Ministro e del Cancelliere, è il cuore del paese. Ma non basta più...

Benvenuto al numero 10 Troppi uffici e sale anguste. Ecco cosa troverà il nuovo inquilino di Downing Street di Anthony Seldon l portone nero con affisso il numero 10 è di sicuro il più rinomato della Gran Bretagna e fra i più famosi del mondo. Ma cosa avviene al suo interno? Vi è un improbabile ufficio per il primo ministro, in cui il XVII secolo incontra il XXI. Nel 1997 un membro dello staff di Tony Blair, abituato agli uffici senza pareti divisorie del quartier generale Labour, giudicò Downing Street «un luogo eccessivamente diviso in compartimenti» per gestire le trasformazioni del Paese. E Stephen Carter, chiamato da Gordon Brown nel 2008 per dirigere Downing Street, rifletteva sul fatto che il design dell’edificio fosse «fatto per il mistero e l’intrigo». La verità è che il suo labirinto di piccole stanze - luoghi d’incontro e residenza della prima famiglia del

I

È nell’ala sinistra del palazzo che risiede il vero potere, in due piccoli vani vicini all’ufficio di gabinetto. Queste sono le stanze più ambite paese - si rivela inadeguato al suo compito. Ed è facile prevedere che dopo queste elezioni si ridefinisca, per l’ennesima volta, il cuore del potere britannico. Sappiamo molto su ciò che un primo ministro fa, ma poco sugli individui che a ciò lavorano. Nel suo memoriale di quasi mille pagine, Harlod Wilson (primo ministro tra il 1964 ed il 1970) non fa menzione alcuna di Marcia Williams, il suo onnipresente segretario politico. La stessa cosa può essere detta della politica d’oggi, in cui figure potenti ma poco conosciute operano dietro il famoso portone.

Entrando nell’edificio ci si imbatte in un salone, con un caratteristico pavimento di marmo bianco e nero a scacchi. Il corridoio sulla sinistra conduce ai numeri 11 e 12. Sulla destra si può ammirare la stanza con finestre ad arco un tempo occupata da Alistair Campbell, ora dimora di consiglieri stampa meno importuni e di un team di comunicazione che negli ultimi 30 anni si è considerevolmente ampliato. Segue un secondo, più piccolo salone, quindi il corridoio che conduce all’anticamera dell’ufficio di gabinetto, dove i ministri si radunano prima della seduta di consiglio. La vista che si gode attraverso i saloni è impressionante, ed è qui, su entrambi i lati di tale lungo passaggio, che lo staff si raduna per dare l’ultimo saluto ai primi ministri che si congedano da Downing Street. Ma è a sinistra che risiede il vero potere, in due piccoli uffici vicini all’ufficio di gabinetto. Queste sono le stanze più ambite di Downing Street, occupate in tempi recenti da Gavin Kelly, vice dello staff di Brown, e da un funzionario pubblico, Jeremy Heywood: la figura più

autoritaria a Downing Street dopo il primo ministro, di cui presiede l’ufficio privato. Heywood, il cui titolo ufficiale è quello di segretario permanente dell’ufficio del primo ministro, si è fatto un nome lavorando per i Cancellieri dello Schacchiere Norman Lamont e Kenneth Clarke, prima che Blair lo portasse con sé al numero 10. Descritto dai colleghi come “stacanovista” - arriva alle 8 del mattino, se ne va alle 8 della sera, e trascorre le serate e le vacanze a lavorare con il suo BlackBerry - Heywood unisce una mente brillante a una profonda conoscenza dell’economia, della politica nazionale e di Whitehall. Niente di più probabile che venga riconfermato anche a questo giro.

Superato il covo di Heywood troviamo l’ufficio di gabinetto, praticamente una stanzetta rimasta identica da 200 anni. Al suo interno ancora le sedie utilizzate sia da Gladstone che da Disraeli. L’iconico tavolo “a forma di bara” costituisce un’aggiunta rara, introdotta da Harold Macmillan per controllare i propri ministri. È qui che, negli ultimi secoli, si sono prese le decisioni più importanti. Ed è in questo piccolo edificio che i diversi livelli di potere si confrontano: il partito al governo, l’amministrazione statale e i funzionari delle ambasciate inglesi all’estero – tutti insieme, in teoria, attorno a un tavolo o divisi in varie commissioni, che si riuniscono nell’ufficio accanto. Tuttavia, lungi dall’immagine di macchina ben oliata e diversamente dalla Casa Bianca, l’Eliseo e ogni altro edificio simile destinato ai capi di governo, le limitazioni fisiche di Downing Street hanno per lungo tempo prodotto una premiership modellata sullo spazio disponibile, piuttosto che il contrario. Gordon Brown ha saputo individuare alcuni punti deboli della struttura, ma la sua ispirazione per un diverso metodo di lavoro deriva da una fonte alquanto insolita: una visita a New York con annesso incontro con il sindaco Michael Bloomberg, nell’aprile 2008. Brown rimase estasiato dalla gestione dell’ufficio del primo cittadino newyorkese, in particolare dalla sua abitudine di sedersi alla testa di un tavolo a forma di ferro di cavallo, con i suoi assistenti su entrambi i lati. Brown copiò l’idea per il proprio ufficio privato e per i suoi assistenti, radunando i suoi più im-

In alto, l’inconfondibile ingresso di Downing Street, una delle 15 case terrazzate costruite nel 1680, a basso prezzo e su un terreno paludoso, da George Downing, all’epoca fra i primi laureati di Harvard. A destra, una pianta della casa. Segnaliamo: la stanza del Primo ministro (12) e a fianco la sala del consiglio di Gabinetto (13). A destra, Gordon Brown

portanti funzionari e consiglieri in un unico luogo, mentre in precedenza questi si incontravano solo a seconda dei casi, o nei quotidiani incontri mattutini. In questa nuova sistemazione, Heywood siede immediatamente alla sinistra di Brown, affiancato dal direttore della comunicazione Simon Lewis e Kirsty McNeill, il giovane di Glasgow a capo degli affari esteri. Alla destra siede (dovrei già dire sedeva) l’esperto per le comunicazioni Justin Forsyth, assieme al consigliere per gli affari esteri Tom Fletcher, e Gavin Kelly. Il ferro di cavallo ha portato fortuna a Brown, in quanto ha migliorato le comunicazioni interne e posto fine alle diatribe campanilistiche.

Ciononostante, anche questo piccolo stratagemma nella geografia dell’ufficio non ha potuto celare interamente il teso equilibrio di potere, proprio dei pochi uffici di Downing Street, tra funzionari di ruolo e coloro che si trovano ad operare


mondo La staffetta fra i due leader ha penalizzato il partito

Blair & Brown, la difficile arte di uscire di scena Antonio Funiciello

LONDRA. La storia del New Labour

per nomina politica. La maggior parte di coloro che siedono attorno al ferro di cavallo sono funzionari, ma un gruppo di potere separato, con diversi obiettivi politici, risiede al secondo piano, nel labirinto fatto di sei piccoli uffici che ospitano la cosiddetta Policy Unit. Di nuovo al piano terra, passata una porta comunicante con l’edificio adiacente, troviamo il feudo di Gus O’Donnell, il Segretario di Gabinetto. Cameron, se eletto, potrebbe adottare un approccio ulteriormente diverso: la sua concenzione dei funzionari è stata plasmata da Oliver Letwin e Francis Maude. Entrambi rievocano l’età dorata e superefficiente dell’era Thatcher, e si ribellano contro la percepita microgestione di stampo laburista, in buona parte figlia di Downing Street. Downing Street fu una delle 15 case terrazzate costruite negli anni ’80 del XVII secolo, a basso prezzo e su un terreno paludoso, da George Downing, un laureato di quella Harvard University inaugurata poco tempo prima. I due edifici furono uniti solo dopo che Giorgio II offrì la proprietà a Robert Walpole, generalmente riconosciuto come il capostipite dei primi ministri britannici. Ulteriori migliorie vennero apportate sotto William Pitt il Giovane, colui che per più tempo risiedette nell’edificio, e che nel 1783 decise di ristrutturare quella “goffa casa” che al tempo stava già iniziando ad affondare nelle sue fondamenta fangose. Da allora, i lavori di ristrutturazione non sono mai cessati.

Nelle stanze vicine al giardino sono ospitate le cosiddette “Garden Room Girls”, le segretarie che operano sul lato ufficiale del numero 10. Sullo stesso piano, direttamente sotto l’ufficio di gabinetto, un team di ricerca composto da funzionari pubblici e incaricati per nomina politica raccolgono informazioni per le domande del primo ministro. Al piano superiore e lontano dagli amministratori,

cominciò sedici anni fa al ristorante Granita nel quartiere londinese di Islington. All'alba del 12 maggio 1994 era morto il leader laburista John Smith, ch'era succeduto a Neil Kinnock, dopo l'ennesima sconfitta del 1992 contro i Tory. Nei due anni in cui Smith aveva guidato il Labour, era proseguito quel progressivo allontanamento dal radicalismo degli anni '70. Certo Smith non aveva la tempra e il carisma di Kinnock, ma questi aveva deciso che la seconda sconfitta personale alle elezioni, dopo quella del '87 contro la Thatcher, stavolta per giunta contro John Major, lo obbligava a passare la mano. Eppure, negli anni della sua direzione del Labour, il partito conobbe un profondo cambiamento di posizionamento politico generale. Kinnock aveva compreso che, per produrlo, si doveva decisamente corroborare le vecchie risorse umane con una nuova schiatta di giovani dirigenti. Prima Brown, e poi Blair, furono scelti da Kinnock proprio con questo intento. Quando l’infarto si portò via Smith, il Labour era pronto a diventare il New Labour proprio grazie al lavoro di Neil Kinnock. Al Granita, il 31 maggio del 1994,Tony Blair e Gordon Brown si accordarono per una successione dolce della nuova generazione alla vecchia, che aveva fatto la traversata nel deserto (i wilderness years). Il famigerato patto della granita (Granita Pact) prevedeva per Blair la leadership del partito e la candidatura a premier; per Brown, carta bianca sulla politica economica e la successione in tempi che non sono mai stati chiariti. Il patto resse per tre vincenti elezioni: una permanenza tanto duratura al governo per i laburisti non si era mai registrata, in quella che pure resta la più antica democrazia parlamentare del mondo. Mai il Labour aveva registrato una tale sintonia col paese, come negli anni blairiani. La sintonia comincia a incrinarsi nel 2003, con la scelta di Blair d’essere accanto a Bush nell’invasione irachena. Manco a farlo apposta, nel 2003 chiude anche il Granita, rilevato dai gestori della catena di ristoranti turchi Sofra. Oggi che la stagione del New Labour ha chiuso i battenti, nei locali che ospitavano il Granita ha sede un ristorante messicano chiamato Desperados. Disperati non possono certo considerarsi oggi i laburisti, dopo la più entusiasmante stagione politica della loro già gloriosa storia. Blair e Brown non hanno, infatti, lasciato il partito senza una guida matura per i duri tempi che spettano nei prossimi anni al Labour. Come Kinnock lasciò crescere una nuova generazione che potesse giovarsi del

lavoro di rinnovamento da lui condotto, così Blair e Brown lasciano la guida del Labour a un bel numero di quarantenni (non solo i brillanti fratelli Miliband) già ben testati in posizione di comando, istituzionale e politico. Eppure avrebbero potuto gestire meglio la loro uscita di scena. Si sa che i rapporti tra Blair e Brown non sono oggi quelli di vent’anni fa, quando andarono a studiare da Clinton come vincere le elezioni a casa loro. Blair ha colpevolmente ritardato il passaggio di mano, pregiudicando fortemente anche un possibile utilizzo della sua leadership in altri contesti.

Tant’è che finora non gli è riuscito quanto riuscì al suo maestro Kinnock, che dopo le dimissioni ebbe fortuna come membro autorevole della Commissione Europea, ai Trasporti con Santer e vice presidente con Prodi. Brown non è stato più lucido di Blair. Chiaramente inadatto alla leadership politica, ha preteso di sostituire ad ogni costo Blair per condurre, dopo tre rimpasti di governo, il partito alle elezioni. Ha lasciato che si montasse il tribunale di carta pesta dell’Iraq Inquiry, la commissione d’inchiesta che doveva scaricare su Blair tutte le responsabilità dell’intervento militare. Malgrado la intelligente gestione della crisi economica internazionale, non è riuscito a imporre il suo stile e il suo approccio. Certo non è possibile paragonarlo ad Al Gore, che nel 2000 per vincere contro Bush non doveva fare nient’altro che ricordare d’essere stato il vice di Clinton. Cioè esattamente quanto decise di non fare. Eppure la conduzione della campagna elettorale ha spesso ricordato l’imbarazzo provato da Gore, sospeso tra il non voler rivendicare il recente passato e l’impossibilità di caratterizzarsi in termini di discontinuità. Uscire di scena è la cosa più complicata per un politico, se è vero che anche i migliori hanno parecchio faticato proprio a gestire l’inevitabile addio. Il blocco Blair-Brown avrebbe dovuto gestire meglio la chiusura del loro ciclo, per dare ai laburisti la possibilità di sognare di prolungare la loro stagione di governo. Se Blair e Brown si fossero fatti da parte assieme, lasciando il timone ai quarantenni da loro cresciuti, le elezioni di ieri potevano conoscere forse un esito diverso.

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una grande scalinata conduce ad un’area dedicata per lo più all’accoglienza. I visitatori che si recano al piano superiore possono ammirare i ritratti di ogni primo ministro a partire da Walpole. Proseguendo al primo piano, con le finestre che si affacciano sull’Horse Guards Parade, si aprono tre sale di rappresentanza collegate utilizzate per ricevimenti formali. Di seguito si possono ammirare due sale da pranzo, la più grande delle quali viene utilizzata per i grandi eventi, come la cena di “pensionamento” di Churchill nel 1955. Tuttavia anche quella stanza è scomoda quando gli ospiti sono più di 50, e contrasta con le più ampie sale da pranzo di Buckingham Palace o del ministero degli Esteri lì accanto. L’ultima peculiarità di Downing Street può essere rinvenuta sul retro, al secondo piano: l’entrata dell’appartamento utilizzato dai primi ministri e dalle loro famiglie. Questo è uno dei pochi luoghi in cui, tra costanti tensioni, le consorti dei primi ministri possono ritirarsi. La pressione sulla famiglia del primo ministro venne avvertita da Cherie Blair, ma fu riassunta nel modo più celebre da Clarissa Eden, la quale nel 1956 disse: «Durante le scorse settimane ho percepito più volte il Canale di Suez scorrere attraverso il mio salotto».

Dieci anni fa assieme al mio collega Dennis Kavanagh scrissi che Downing Street doveva essere purtroppo trasformata in un “museo dei primi ministri britannici”, e che il primo ministro dovesse trasferirsi altrove. Oggi ho rivisto la mia posizione e credo che si possa procedere all’ampliamento delle sue strutture. Il primo ministro potrebbe rimanere ai numeri 10 e 12, ma riprendersi altresì il lato di Downing Street adibito al ministro degli Affari Esteri, con un nuovo “ponte dei sospiri” di collegamento, simile al corridoio costruito per unire gli edi-

Al piano superiore e lontano dagli amministratori, una grande scalinata conduce a tre sale di rappresentanza e due magnifici saloni da pranzo fici un tempo separati di Downing Street. Negli Stati Uniti, l’ufficio esecutivo del presidente opera a stretto giro con l’adiacente Casa Bianca. I membri del gabinetto si incontrerebbero ancora nell’ufficio apposito, gli uffici dei funzionari rimarrebbero ancora al vecchio numero 10, e il primo piano e le sale da pranzo potrebbero essere ancora utilizzate per funzioni minori. Il numero 12 continuerebbe ad operare come ufficio senza spazi divisori per il primo ministro, ma l’ulteriore spazio d’ufficio per i media e per altre funzioni potrebbero essere ritagliati dal ministero degli Esteri, mentre le sue splendide stanze Locarno fornirebbero degli spazi d’intrattenimento più grandi e larghi di cui il primo ministro avrebbe bisogno. È singolare che il grande ministero degli Esteri progettato da George Gilbert Scott, con il suo ruolo enormemente diminuito dai giorni della grandezza imperiale e del potere mondiale, debba sminuire il prestigio del numero 10. Dopo 275 anni di sciocchezze e dilazioni è arrivato il momento di rendere l’ufficio di Downing Street un luogo consono a un primo ministro.


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Proposte. I colloqui di pace sono tempo perso: ci sono troppe diversità el corso di questo mese il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak ha dichiarato che Israele deve ritirarsi dai territori palestinesi. «Il mondo non è disposto ad accettare - e noi non cambieremo questo nel 2010 - la prospettiva che Israele governi un altro popolo per altri decenni. È qualcosa che non esiste in qualsiasi altra parte del mondo». Ha ragione? La pace è ancora possibile? E se sì, che forma dovrebbe assumere un accordo finale? Il mio piano di pace è semplice: Israele sconfigge i suoi nemici. Solo la vittoria crea delle circostanze che contribuiscono al raggiungimento della pace. Le guerre terminano, e la documentazione storica lo conferma, quando una parte ammette la sconfitta e l’altra vince. Questo è ovvio, dal momento che la battaglia continua o potenzialmente può riprendere fino a quando entrambe le parti aspirano a realizzare le loro ambizioni. L’obiettivo della vittoria non è esattamente qualcosa di nuovo. Sun Tzu, l’antico stratega cinese, consigliava: «Che [in guerra] il vostro maggiore obiettivo sia la vittoria». Raimondo Montecuccoli, un austriaco del XVII secolo, diceva che «in guerra l’obiettivo è la vittoria». Karl von Clausewitz, un prussiano del XIX secolo aggiungeva che «la guerra è un atto di violenza per costringere il nemico a eseguire la nostra volontà». Winston Churchill ha detto agli inglesi: «Voi chiedete: qual è il nostro obiettivo? Posso rispondere con una parola. È la vittoria.Vittoria a tutti i costi, vittoria malgrado qualunque terrore, vittoria per quanto lunga e dura possa essere la strada». Dwight D. Eisenhower ha osservato che «in guerra non c’è nulla che possa sostituire la vittoria». Queste intuizioni di epoche precedenti resistono ancora nel tempo, ma per quanto le armi cambino la natura umana rimane la stessa.

N

Vittoria significa imporre la propria volontà al nemico, obbligandolo a desistere dai suoi obiettivi strategici. La Germania, costretta alla resa nella Prima guerra mondiale, non ha perso di vista l’obiettivo di dominare l’Europa e alcuni anni dopo ha fatto affidamento su Hitler per raggiungere questo obiettivo. I pezzi di carta siglati hanno importanza solo se una parte si arrende: la Guerra del Vietnam si è apparentemente conclusa grazie alla diplomazia nel 1973, ma entrambe le parti hanno continuato a cercare i loro obiettivi strategici fino alla vittoria finale del Nord nel 1975. La for-

Israele vuole la pace? Vinca la sua guerra Da Sun Tzu a Churchill, la storia insegna che i conflitti si combattono di Daniel Pipes

za di volontà è la chiave: abbattere aeroplani, distruggere carri armati, esaurire munizioni, far fuggire i soldati e confiscare le terre non sono di per sé azioni determinanti, ma devono essere accompagnate da un crollo psicologico. La disfatta subita dalla Corea del Nord nel 1953, da Saddam Hussein nel 1991 e dai sunniti iracheni nel 2003 non si è tradotta in disperazione. Al contrario, i francesi si sono arresi in Algeria nel 1962, malgrado sovrastassero i loro nemici a livello numerico e in armamenti, come hanno fatto gli americani in Vietnam nel 1975 e i sovietici in Afghanistan nel 1989. La Guerra Fredda si è conclusa senza vittime. In tutti questi casi, i perdenti hanno mantenuto grandi arsenali, eserciti ed economie funzionanti. Ma hanno esaurito la forza di volontà. Nello stesso modo, il conflitto israelo-palestinese sarà risolto solo quando una parte si arrenderà. Fino a ora, attraverso una guerra dopo l’altra, entrambe le parti hanno mantenuto i loro obiettivi. Israele combatte per otte-

nere l’approvazione dei suoi nemici, mentre questi stessi nemici combattono per eliminare Israele. Quegli obiettivi sono crudi, immutabili e opposti. L’approvazione o l’eliminazione dello Stato ebraico sono le uniche condizioni di pace. Ogni osservatore deve optare per l’una o per l’altra soluzione. Una persona civile vorrebbe che sia Israele a vincere, poiché il suo obiettivo è di na-

vello economico, per limitare diplomaticamente le sue difese, per demoralizzarlo con atti di terrorismo e per minacciare la sua popolazione con le armi di distruzione di massa. Se i nemici di Israele perseguono i loro obiettivi con fermezza e determinazione, essi hanno però conseguito pochi successi. Paradossalmente, gli israeliani col passare del tempo hanno reagito agli incessanti

Per i palestinesi, abbandonare l’idea irredentista sarebbe un’opportunità per curare il proprio giardino, sviluppando il loro sistema politico tura difensiva: tutelare un Paese esistente e prospero. L’obiettivo di distruzione dei suoi nemici equivale a pura barbarie. Da quasi sessant’anni i negazionisti arabi, ai quali ora si sono aggiunti i loro omologhi iraniani e della sinistra, tentano di eliminare Israele attraverso una serie di strategie: essi operano per minare la sua legittimità attraverso la propaganda, per sopraffarlo demograficamente, per isolarlo a li-

attacchi contro il loro Paese perdendo di vista la necessità di vincere. La destra ha elaborato delle strategie per maneggiare la vittoria, il centro ha sperimentato appeasement e unilateralismo e la sinistra si è crogiolata nei sensi di colpa e nell’auto-recriminazione. Sono troppo pochi gli israeliani che comprendono il rischio di lasciare incompiuta la vittoria, quanto sia importante piegare la volontà del nemico e indur-

lo ad accettare l’esistenza dello Stato ebraico. Fortunatamente per Israele, basta sconfiggere i palestinesi e non l’intera popolazione araba o musulmana, che alla fine seguirà l’esempio palestinese accettando Israele. Sempre per fortuna, anche se i palestinesi sono conosciuti per la loro capacità di resistenza, essi possono essere sconfitti. Se i tedeschi e i giapponesi hanno potuto essere costretti alla resa nel 1945 e gli americani nel 1975, perché mai i palestinesi possono essere esenti?

Naturalmente, Israele affronta degli ostacoli nel conseguire la vittoria. In genere, il Paese è soffocato da aspettative internazionali (da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ad esempio) e in maniera specifica dalle politiche del suo principale alleato, il governo americano. Pertanto, se Gerusalemme deve vincere, che s’inizi con un cambiamento nella politica degli Usa e di altri paesi occidentali. Questi governi dovrebbero spingere Israele a cercare la vittoria, convincendo i palestinesi del fatto che hanno perso. Il che significa eliminare l’impressione che Israele sia debole, impressione che si è rafforzata durante il processo di Oslo (1993-2000) e poi nei due ritiri dal Libano e da Gaza (20002005). Gerusalemme sembrava di nuovo essere vicina alla vittoria durante i primi tre anni di governo di Ariel Sharon, dal 2001 al 2003, e la dura presa di posizione del premier israeliano ha poi segnato dei veri progressi nello sforzo bellico dello Stato ebraico. Solo quando è divenuto chiaro, alla fine del 2004, che Sharon preparava realmente il ritiro unilaterale da Gaza, il malumore palestinese si è riacceso e Israele ha smesso di vedersi vincente. Al debilitante premierato di Ehud Olmert è stato solo in parte posto rimedio da Binyamin Netanyahu lo scorso anno. Ironia della sorte, una vittoria israeliana apporterebbe tuttavia maggiori benefici ai palestinesi piuttosto che a Israele. Gli israeliani beneficerebbero del fatto di essersi sbarazzati di una guerra atavica, certo, ma il loro Paese è una società moderna e funzionante. Per i palestinesi, al contrario, abbandonare il sogno irredentista di eliminare il loro vicino finirebbe per offrirgli un’opportunità di curare il loro bislacco giardino, di sviluppare il loro sistema politico, la loro economia, la società e la cultura che soffrono di gravi carenze. È così che il mio piano di pace pone fine alla guerra e al contempo procura notevoli vantaggi a tutti quelli direttamente coinvolti.


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Il “gemello” raccoglie 1.650.000 firme, ma Komorowski resta favorito

Il dittatore nordcoreano ha incontrato Hu Jintao

Kaczynski ancora indietro nei sondaggi

Kim Jong-il in Cina: «Tratteremo il disarmo»

VARSAVIA. Jaroslaw Kaczyn-

PECHINO. La Corea del Nord è

ski, fratello gemello del presidente della Repubblica della Polonia morto nel disastro aereo del 10 aprile scorso, ha raccolto circa 1.650.000 firme nella sua campagna per le elezioni presidenziali. «Voglio ringraziare di cuore tutti coloro che hanno raccolto le firme, quelli che hanno firmato e quelli che mi hanno espresso sostegno e affetto», ha dichiarato Kaczynski ai giornalisti in quello che è stato il suo primo discorso politico dal giorno della tragedia aerea in Russia. «Siamo uniti dalla convinzione che la Polonia ha il diritto di sognare che diventerà un Paese forte, che conterà nel panorama mondiale e sarà giusto e orgoglioso», ha poi aggiunto.

pronta a tornare al tavolo del disarmo nucleare, i colloqui a sei per la denuclearizzazione della penisola interrotti un anno fa, e si candida a divenire il primo partner commerciale della Cina. È quanto trapela dall’incontro bilaterale che si è svolto ieri a Pechino fra il dittatore di Pyongyang, Kim Jong-il, e il presidente cinese Hu Jintao: oltre quattro ore di colloquio privato, in cui i due - che non si vedevano da quattro anni - si sono molto probabilmente accordati sulla gestione dell’atomica da parte del regime stalinista. Il 68enne figlio di Kim Il-sung è arrivato in Cina lunedì per una visita di Stato dall’insolito alto profilo. Arri-

Kaczynski, che ha annunciato la sua candidatura il 26 aprile scorso, avrebbe dovuto raccogliere un minimo di 100mila firme entro questa settimana. Le elezioni presidenziali sono fissate per il prossimo 20 giugno, giorno in cui si voterà per eleggere il successore di Lech Kaczynski, morto nel disastro insieme ad altre 95 persone, tra cui molti esponenti di primo piano della vita politica, economica e militare polacca. A sfidare il fratello dell’ex pre-

Condannato alla forca l’attentatore di Mumbai Amir Kasab è l’unico terrorista preso vivo nel 2008 di Vincenzo Faccioli Pintozzi

MUMBAI. È stato condannato a morte, il primo a ricevere questa sentenza dal 2004. L’unico attentatore di Mumbai catturato vivo, definito “una macchina programmata per uccidere”, è stato ritenuto colpevole di ottanta capi di imputazione: per questi, un tribunale indiano ha disposto la sua impiccagione. Ora il ventiduenne pakistano Mohammed Ajmal Amir Kasab - giudicato colpevole di omicidio e di aver partecipato a un’azione di guerra contro l’India per le stragi del novembre 2008 che fecero 166 morti nella capitale economica del Paese - spera di presentare un ricorso (dato già per perso) presso la Corte Suprema di Delhi. Al termine di un processo durato un anno, il tribunale speciale di un carcere di Mumbai ha accolto la richiesta dell’accusa che aveva definito il giovane “una macchina per uccidere, che non si è fermata nemmeno davanti a donne e bambini”. Respinto invece l’argomento della difesa, che sosteneva che Kasab fosse stato spinto ad agire dall’indottrinamento religioso e che fosse quindi ancora recuperabile. Lunedì scorso Kasab era stato giudicato colpevole di ottanta capi di imputazione per aver fatto parte del commando dei dieci militanti islamici che per sessanta ore hanno seminato il terrore a Mumbai attaccando alberghi, una stazione ferroviaria, un ristorante e un centro ebraico. Il giovane era stato arrestato subito dopo le stragi di Mumbai, il 26 novembre 2008. Il fatto che il commando appartenesse al gruppo pakistano del Kashmir Lashkar-e-Toiba (LeT) aveva portato a una crisi diplomatica tra New Delhi e Islamabad. Soddisfatto il pm, Ujjival Nikam, che all’uscita dell’aula ha fatto il segno di vittoria.

commentato la sentenza in attesa che i suoi esperti la esaminino in dettaglio, ma un portavoce del ministero degli Esteri, Abdul Basit, ha sottolineato che Islamabad ha già condannato gli attentati e che «è importante che i colpevoli vengano portati davanti alla giustizia». Il diverso atteggiamento nei confronti della sentenza dimostra come la pace fra le due nazioni confinanti non sia ancora piena. Islamabad non ha ancora aderito alle richieste indiane di aprire i confini agli uomini dei servizi segreti di Delhi, che citano a loro favore fonti e testimoni in grado di indicare le roccaforti del LeT.

Secondo il Pakistan, l’ingresso di uomini armati indiani sul territorio nazionale sarebbe una provocazione insopportabile: non si deve dimenticare che i due Paesi non hanno ancora digerito la divisione e l’esodo della comunità musulmana. Una divisione che il gesto di Kasab certamente non ha aiutato a pacificare del tutto. Lui, Kasab, scalzo e con indosso la lunga tunica bianca, ha ascoltato in silenzio la lettura della sentenza, portandosi le mani sulle orecchie. Poi si è commosso e ha asciugato qualche lacrima. Il caso passa ora automaticamente all’Alta Corte, che dovrà riesaminare la condanna, ma è possibile un ricorso alla Corte suprema che allungherebbe il procedimento di anni. L’avvocato di Kasab ha riferito che il suo assistito non ha ancora deciso come procedere. Il governo ufficialmente sostiene la pena di morte solo in alcuni “rarissimi casi”. L’ultima esecuzione risale al 2004, quando una guardia fu giustiziata per lo stupro e l’omicidio di una bambina. La precedente risaliva addirittura al 1995. Anche se sulla carta l’India sembra virtuosa, nel campo della pena di morte, va detto che Delhi utilizza alcuni stratagemmi per abbassare la percentuale di condanne a morte - comminate ed eseguite - per non essere censurata dalla comunità internazionale. Per quanto non pubblicizzato, infatti, le detenzioni preventive finiscono molto spesso con un suicidio.

Ritenuto colpevole di tutti gli 80 capi d’accusa, il 22enne presenterà ricorso alla Corte Suprema di Nuova Delhi

sidente sarà il capo della camera bassa (Sejm) e presidente ad interim Bronislaw Komorowski, candidato del partito liberale Piattaforma Civica (Po). Secondo gli ultimi sondaggi, Komorowski otterrebbe al primo turno un 45% di voti, contro il 30% di Kaczynski (Diritto e Giustizia: PiS). Lontanissimi gli altri candidati: il piu forte tra di loro, il candidato della Sinistra, Grzegorz Napieralski, arriva al 5%, mentre il 7% degli intervistati dichiara di non aver ancora deciso per chi votare. La speranza, per Kaczynski, è quella di incercettare i residui dell’“onda emozionale” che ha seguito la morte del fratello Lech.

Per il ministro degli Esteri indiano, S.M. Krishna, si tratta della soluzione «più appropriata» per la questione: il titolare del dicastero ha poi rinnovato la richiesta a Isalamabad di estradare i complici del commando, tra cui il comandante del LeT e il cervello dell’attacco, Zakiur Rehman Lakhvi. Il Pakistan non ha

vato a Dalian con il suo treno speciale, ha scelto per la propria permanenza il Furama Hotel: l’albergo è il migliore della città e ospita regolarmente i summit internazionali che si tengono nel Paese asiatico. L’ultimo Forum di Davos si è tenuto proprio lì.

Contrariamente agli ultimi tre viaggi ufficiali in Cina, caratterizzati da segretezza quasi patologica, la delegazione nordcoreana e lo stesso leader hanno accettato di incontrare gli altri ospiti dell’albergo. La struttura ha bloccato le prenotazioni, ma per la prima volta non ha impedito l’accesso neanche ai comuni turisti. Per aggiungere “colore” al suo viaggio, inoltre, Kim ha portato con sé le cantanti liriche dell’opera Phibada (v. foto), che questa sera canteranno a Pechino il classico dell’opera cinese “Sogno della camera rossa”, tradotta in coreano. Questo modo di fare, spiegano gli analisti, indica la necessità da parte di Pyongyang di sottolineare “l’eterna fratellanza” fra le due nazioni. Piegato dalla crisi economica, da una disastrosa riforma valutaria e da un’epidemia di tubercolosi nel sud del Paese, il dittatore ha estremamente bisogno dell’appoggio di Hu Jintao.


cultura

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Lirica. Stasera in scena al Teatro alla Scala di Milano il “Boccanegra” di Giuseppe Verdi che ha suscitato al debutto la contestazione dei loggionisti

Il danno di Simone Scelte arbitrarie ed eccessi di enfasi: Daniel Barenboim dirige l’opera italiana concedendosi molte licenze di Jacopo Pellegrini

MILANO. Due premesse lunghe, sgradevoli ma indispensabili, prima di entrare in argomento: 1) Il pubblico del Teatro alla Scala, quello che soggiorna in piccionaia almeno, è il più screanzato al mondo. Quando contesta (reazione del tutto lecita, alle volte sacrosanta), mira a creare scompiglio, a mettere in difficoltà gli interpreti: è ciò che ha tentato di fare anche in occasione del presente Simon Boccanegra, contestando (nella serata del 4 maggio, ma stasera c’è una replica, ndr) il direttore d’orchestra Daniel Barenboim non a fine recita, ma al suo ritorno in buca prima dell’Atto II. 2) Il Simon Boccanegra Verdi lo compone nel 1857 per La Fenice di Venezia, dove però non ottiene alcun successo; e anche altrove (con l’eccezione di Reggio Emilia e Napoli) l’opera non piace, tanto che viene messa a dormire negli scaffali di Casa Ricordi. Passano gli anni, più di venti, e, proprio su pressione dell’editore milanese, Verdi si lascia convincere a rimettere le mani sullo spartito. In vista d’una ripresa alla Scala, nella Stagione di quaresima 1881, decide, tra le altre cose, di sostituire il secondo Quadro dell’Atto I (una festa per il Doge all’aperto) con una scena al chiuso, nella «Sala del Consiglio nel Palazzo degli Abati», giusta la didascalia preparata da Arrigo Boito (che aggiustò il libretto steso in origine da Francesco Maria Piave). Verdi, l’‘incolto’ Verdi tramandatoci da una vulgata critica stantia, si «sovviene di due stupende lettere di Petrarca, una scritta al Doge Boccanegra, l’altra al Doge di Venezia» per scongiurare «una lotta fratrici-

da» tra italiani; e mentre nel parlamento del giovane stato unitario Destra e Sinistra si sono appena scannate per l’abolizione della tassa sul macinato, chiosa rapito: «Sublime questo sentimento d’una patria italiana in quell’epoca!». Il riferimento a Petrarca finisce dun-

Placido Domingo corregge il libretto e spiattella in faccia un «Francesco Petrarca» che rende esplicito ciò che era allusivo... que nel testo, ma sotto forma di allusione, dapprima come «romito di Sorga», poi come «cantor della bella Avignonese».

Oggi alla Scala, nel Primo Teatro Lirico del mondo (se-

condo loro), in un luogo d’elezione del melodramma italiano (secondo tutti), Placido Domingo, passato dalla corda tenorile a quella baritonale per impersonare il doge-corsaro, correg-

Nella foto grande, Placido Domingo e Anja Harteros, interpreti del “Simon Boccanegra” di Giuseppe Verdi in scena alla Scala di Milano per la direzione di Daniel Barenboim. In basso, alcuni momenti dell’opera che il compositore italiano rimaneggiò nel 1868 a causa di una fredda accoglienza. In basso, alcuni momenti dello spettacolo

ge Boito e Verdi e, al posto della prima espressione, ci spiattella in faccia un «Francesco Petrarca», che rende esplicito ciò a cui gli autori intendevano invece riferirsi soltanto in forma indiretta (nessuno avrebbe loro impedito di fare nomi e cognomi, se avessero voluto). Parlare di tradimento sarebbe forse eccessivo; diciamo allora una scempiaggine ammantata di buone intenzioni (chiarire il sottinteso a uso del pubblico). Mi sono permesso di accennare alla questione col direttore Barenboim in camerino, dopo lo spettacolo. Ha fatto spallucce, visibilmente infastidito; giurerei che ha pensato: «Fisime da intellettuali». Afferma egli di nutrire un amore particolare per il Simon Boccanegra. Non ho ragione di dubitarne; ma allora, perché non rispettare l’umile documento della volontà loro (di Boito e di Verdi)? E veniamo finalmente all’argomento centrale dell’articolo: la relazione musicale intercorrente tra Daniel Barenboim e Giuseppe Verdi. Dopo questo Simon Boccanegra a Milano (e prima a Berlino), dopo Messa

I risultati, va detto, non paiono accontentare parte del pubblico meneghino, prodigo di buu e contestazioni ogniqualvolta il Maestro scaligero (bella trovata ’sta carica concepita con scarsa deferenza per la lingua italiana: in sostanza, Barenboim fa e disfa senza però essere vincolato a doveri o responsabilità) osa accostarsi al

da requiem e Aida la primavera scorsa, ancora alla Scala e in tournée, dopo La traviata e Otello più indietro nel tempo a Berlino, ce n’è abbastanza per tentare un bilancio: a quali criteri di cultura e di stile obbediscono le scelte del direttore, a quali esiti pervengono?

Bussetano. Inutile cercare lumi in proposito sulla critica milanese: per lo più allineata sull’elogio incondizionato, in pochi, sparuti casi (quelli non troppo bendisposti) sorvola, magari ricorrendo a espressioni vaghe o ambigue. Ma a comprendere le ragioni che innescano codeste dimostrazioni negative nemmeno ci prova. Da un interpre-

te provetto del repertorio sinfonico austro-tedesco, da Mozart a Mahler (senza dimenticare Berlioz, Ciajkovskij, Musorgskij…), ci si potrebbe attendere un Verdi in chiave sinfonica; e tale in effetti, almeno per certi versi, è. Ma la definizione è troppo vaga per valere al di là

d’una elementare segnaletica: funziona anche per il Verdi di Karajan e di Solti, di Gatti e di Abbado. Barenboim, è vero, tende in superficie alla continuità tra numeri e sezioni di numeri (Simone, Atto I: transizione dal Duetto Simone-Amelia al recitativo Simone-Paolo;


cultura

Aida: prima parte dell’Atto I), ma poi imposta l’articolazione interna su una ‘legge del contrasto’, che si direbbe ispirata da certe osservazioni critiche del suo aureo modello d’interprete, Wilhelm Furtwängler.

L’improvvisa eruzione di fortissimo violenti, col timpano che infuria e tempesta sul capo

le II; vari episodi di Otello, che però conosco solo dal dvd), ottengono tuttavia l’effetto contrario rispetto a quello che è presumibile si fossero preposto. Non essendo inserite in una logica unitaria profonda – quella che Toscanini otteneva per virtù di ritmo, Furtwängler di fraseggio, – le deflagrazioni dilui-

degli spettatori, il suono deliberatamente aspro di questi scoppi (Simone: Stretta del Duetto Amelia-Gabriele; crescendo all’attacco di «Plebe! Patrizi!… Popolo»; scoppi talora francamente volgari. Aida: chiusa del «Guerra, guerra»; coda della Marcia trionfale, eccentrica anche negli stacchi di tempo; strappate degli ottoni nel Fina-

scono invece che incrementare la tensione narrativa, smorzano quell’elettricità che sospinge in avanti la musica, la tiene desta e vibrante (da qui l’efficacia relativa della marcetta nel Prologo del Simone, del Kyrie nel Requiem, del «Nume, custode, vindice», del Duetto Aida-Radamès e di altri luoghi in Aida).

Ovviamente, non tutti i momenti agitati e convulsi sforano il tessuto sonoro o sembrano impressi a freddo: quando occupino da soli la scena, senza trapassi repentini da o verso zone calme e intime, Barenboim riesce spesso a individuare il clima giusto (maledizione

nel Finale I e monologhi di Paolo, Atti II e III, del Simone; tempesta dell’Otello; invettiva di Amneris nell’Atto IV di Aida; «Tuba mirum» del Requiem).

La sensazione di frammentarietà (forse un po’ indotta anche dalla cura capillare dei

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particolari timbrici e dinamici, sovente splendidi) e di limitato calore espressivo, che alle volte colpisce l’uditorio in maniera poco favorevole, direi dipenda da una non completa padronanza del canto (nelle voci e in orchestra, beninteso) alla maniera italiana dell’Ottocento. Canoni e convenzioni del fraseggiare melodico melodrammatico non sono né ignoti né estranei a quel portento di musicalità ch’è Barenboim; egli, però, inclina a rubati e mutamenti di tempo che tolgono naturalezza e spontaneità al fluire della musica e rischiano di rompere l’incanto (un limite fatale per La traviata, che suonò tutta spigoli e isterie). Partiture d’un colore più uniforme, introverso e ombroso come il Requiem (raccolto sotto voce placato) e, soprattutto, il Simone (laddove la cantabilità appare meno effusiva) si addicono assai più al suo temperamento, e in esse – checché ne pensino certe frange del loggione – ottiene risultati encomiabili. A par-

italiani non troppe giornate di lavoro: la Scala non è un teatro di repertorio, e accontentarsi di un’unica prova filata da cima a fondo per un’opera come il Simone, assente da quasi trent’anni e pertanto pressoché ignota alle masse artistiche, può rivelarsi un azzardo bell’e buono. Ma anche tra i cantanti non sono mancate le eccezioni positive, e solo a quelle sarà dunque il caso di riservare qualche nota. Anzitutto, nella Messa, il lavoro col coro: l’attacco in più che pianissimo di «Requiem», il digrignare dei denti sulla consonante liquida iniziale, quell’umanissimo mordere la paura e il dolore della morte. Sempre nella Messa il mezzosoprano Sonia Ganassi e, in special modo, il basso René Pape, un prodigio nel cantar sommesso. Solide, attendibili, non fascinose,Violeta Urmana e Luciana D’Intino in Aida (che ancora in una delle ultime repliche accusava scompensi nella tenuta dell’insieme). Quanto al Simone, Anja Harteros è una grande Maria/Amelia, tale da reggere il confronto con Mirella Freni. Giusto un paio di acuti in piano un po’ fissi, alla tedesca; per il resto, pur con un timbro non particolarmente bello, tecnica dizione e impatto emotivo di prim’ordine. E Domingo, il vecchio Domingo che pur di non smettere sceglie di farsi baritono, beh, che volete che vi dica, il colore è certo chiaro, non ha più tanto fiato, se deve declamare in zona alta («E vo gridando: pace! E vo gridando: amor!») lo fa sbattendo il piede sul piancito per darsi slancio, ma insomma fa tutto quello che deve fare, e lo fa con piena cognizione di causa, da artista vero.

ziale giustificazione di questa italianità imperfetta, di questo sguardo non ancora a fuoco sul mondo verdiano, si potrebbero addurre le compagnie di canto tra il modesto e il calamitoso, con le quali Barenboim s’è spesso trovato a dover lavorare. E un po’ anche la cattiva abitudine – almeno a Milano – di dedicare ai titoli

Nulla da dire sugli allestimenti scenici che hanno accompagnato le imprese verdiane di Daniel Barenboim a Milano: i nomi di Zeffirelli (Aida) e Tiezzi (Simon Boccanegra) sono di per sé una garanzia. In che senso? Ma in quello evangelico: perdonate loro, non sanno (più) quello che fanno.


cultura

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In questa pagina, alcuni dei reperti egiziani esposti, fino al prossimo 25 luglio, al Palazzo Blu di Pisa nell’ambito della mostra “Lungo il Nilo”, curata da Marilina Betrò, professoressa di egittologia presso l’Università di Pisa

Mostre. A Pisa, fino al 25 luglio prossimo, l’esposizione “Lungo il Nilo” dedicata all’archeologo toscano Ippolito Rosellini

L’Egitto trasloca a Palazzo Blu di Rossella Fabiani er tre mesi il fascino dell’antico Egitto rivivrà nei saloni di Palazzo Blu, sul lungarno di Pisa. Fino al 25 luglio la mostra Lungo il Nilo racconterà la vicenda dell’archeologo pisano Ippolito Rosellini (1800-1843). L’esposizione, curata da Marilina Betrò, professore di egittologia all’università di Pisa, presenta oltre 200 pezzi tra reperti egizi, disegni e manoscritti scelti tra quanto di più bello e significativo Rosellini riportò in Italia dalla spedizione franco-toscana del 1828-1829. L’impresa fu voluta dal Granduca Leopoldo II e dal re di Francia Carlo X e vide il giovane egittologo italiano affiancare Jean-François Champollion, cui va il merito di avere decifrato nel 1822 la Stele di Rosetta, che ha aperto la strada agli studi sull’antico Egitto.

P

Detentori unici di quella chiave preziosa, lo studioso francese e il giovanissimo professore di lingue orientali all’università di Pisa, Ippolito Rosellini, partono nel 1828 alla volta dell’Egitto, ac-

compagnati da sei francesi e sei toscani. Tra avventure e difficoltà d’ogni tipo, viaggeranno per sedici mesi riportando un tesoro di annotazioni, scoperte, meravigliosi disegni ad acquerello copiati dalle scene rappresentate sulle pareti di tombe e templi, casse di statue, bassorilievi, sarcofagi e oggetti rinvenuti nel corso degli scavi intrapresi in quella terra o anche ac-

scoperta di una tomba intatta nella necropoli tebana, è affiancato dagli oggetti stessi di quel ritrovamento, ovvero il corredo della nutrice della figlia del faraone Taharqa.

Gli stupendi acquerelli dei bassorilievi di Abu Simbel, disegnati al lume delle fiaccole, sono esposti insieme alle lettere e ai diari che descrivono le

verso l’Egitto, il nastro del Nilo accompagna il visitatore della mostra nella sua sezione centrale, lungo un percorso simbolico da Alessandria fino ad Abu Simbel e alla seconda cataratta. Da qui inizia il viaggio di ritorno, con la lunga sosta a Tebe, l’antica capitale dell’impero egiziano che impressionò la spedizione con le sue inesauribili meraviglie. Un’appo-

Più di 200 reperti tra disegni e manoscritti ripercorrono la vicenda del grande studioso e della spedizione realizzata tra Alessandria e Abu Simbel insieme con Jean-François Champollion, il decifratore della stele di Rosetta quistati. È il viaggio che è alle origini di tutto quanto oggi sappiamo su quella civiltà.

Il percorso espositivo ricalca alcune delle sue tappe più importanti. In mostra si possono vedere i disegni e gli acquerelli dei pittori della spedizione, accostati alle note rapide sui taccuini, alle lettere, agli oggetti. Il brano di un diario che narra, con parole emozionate, la

condizioni di lavoro in cui furono realizzati. I documenti che registrano le incombenze quotidiane, le liste degli oggetti personali - libri, strumenti scientifici, pennelli e colori ma anche armi - sono accostati ai campioni di piante raccolti dal naturalista della spedizione, Giuseppe Raddi, oltre alla piccola collezione etnografica raccolta in Nubia da Gaetano Rosellini, ingegnere della spedizione e zio di Ippolito, e ai vasi raccolti negli scavi e documentati con precoce e moderna sensibilità archeologica.Dopo un’introduzione dedicata alla genesi dell’idea e al tragitto

sita sezione racconta proprio il soggiorno a Tebe - prima nella “principesca” dimora della tomba di Ramses IV e poi in una vera casa sulle colline della necropoli - durante il quale fu raccolta una messe ricchissima di oggetti, disegni e quaderni manoscritti.

L’ultima parte della mostra è dedicata al ruolo di Rosellini nella diffusione della scienza egittologica: con la morte precoce di Champollion a 42 anni, lo studioso italiano - che a sua volta morì a soli 43 anni - ne restò infatti l’unico erede scientifico. Alla sua opera si deve la

formazione di grandi egittologi, come il tedesco Richard Karl Lepsius, e la nascita dell’egittologia italiana.

Dall’Ottocento, l’egittologia ha compiuto grandi passi e gli studi si sono allargati al Sud, nella confinante terra sudanese che in antico accoglieva la gente di Nubia e che ha prodotto anche il potente e ricco regno di Kush prima e di Meroe dopo; a Est, nella prospicente penisola arabica che fece da ponte con il lontano Oriente e ad Ovest nel deserto libico, terra di viaggiatori e di mercanti che lasciarono tracce importantissime nelle oasi ricche di templi e di palazzi non solo egiziani, ma anche persiani, e romani e, infine, nelle grotte del deserto bianco e del deserto nero ricchissime di affreschi, alcuni oggi in uno stato di degrado molto preoccupante, altri - più sconosciuti - ancora in buone condizioni. Accompagna la mostra un catalogo di Giunti. I pezzi esposti provengono dalle collezioni della Biblioteca universitaria di Pisa, dal Museo egizio di Firenze, dalle collezioni egittologiche dell’ateneo pisano, dal Museo dell’Opera primaziale pisana e dal Museo botanico di Pisa.


cultura

7 maggio 2010 • pagina 21

In libreria. Da Einaudi arriva “Josefine e io” di Hans Magnus Enzensberger na delle maggiori qualità di Hans Magnus Enzensberger sta nel saper trasferire la propria limpida intelligenza saggistica all’interno dei generi letterari più diversi - poesia, narrativa, teatro - sottoponendoli così a una torsione sottile, a una parodia che li strania senza sfigurarli. Si tratta di un tipo di contaminazione opposto a quello esibito dagli ircocervi postmodernisti: è una miscela che alleggerisce le strutture anziché appesantirle, un montaggio ecologico e selezionatore. Enzensberger reinterpreta l’idea brechtianobenjaminiana, secondo cui l’intellettuale deve operare una scelta politica tra i materiali della tradizione letteraria, in un contesto che non consente illusioni palingenetiche; e declina al dettaglio l’eredità critica francofortese con una mossa contraria alla generica universalizzazione che ne ha ricavato Habermas.

U

Quasi in ogni suo libro, insomma, il più versatile degli scrittori tedeschi contemporanei “decentra” alcune prospettive tipiche della modernità estrema, per rappresentare la società del benessere virtuale e dell’immensa piccola borghesia che l’epoca postideologica ha lasciato padrona del campo. Anche Josefine e io, uscito in Germania nel 2006 e pubblicato ora da Einaudi, s’inscrive in questa prassi di utilizzo obliquo dei generi letterari: è un diario e un dialogo saggistico appena travestito da romanzo breve. Un romanzetto dialettico, dove i leitmotiv enzensbergeriani vengono filtrati attraverso due maschere: quella della vecchia cantante Josefine (che allude alla protagonista di un famoso racconto di Kafka) e quella del trentenne economista Joachim, il quale, dopo averla salvata da uno scippo, inizia a frequentare la sua casa-rigatteria della Kastanienallee, introdotto ogni settimana dall’enigmatica serva Fryda. Il libro coincide col diario che Joachim ha tenuto apposta per annotarvi le conversazioni con l’anziana signora, e che viene da lui ritrovato quindici anni dopo. Si tratta perciò di un rapporto che si è sviluppato tra il 1990 e il 1991, più o meno nell’arco di un anno scolastico: e così, tra una chiacchiera frivola e un litigio, tra una discussione sui massimi sistemi e un attestato di complicità segreta, i due hanno avuto occasione di scambiarsi rapidi pareri anche sull’unificazione tedesca e la prima guerra irachena. Josefine è la portavoce di una dote che in Enzensberger può diventare perfino una tentazione un po’ diabolica, cioè quella di render per così dire tascabili i problemi più difficili («Se le va

Le due maschere del “contaminatore” di Matteo Marchesini

A sinistra, lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger. Qui sopra, la copertina del suo romanzo “Josefine e io” , uscito in Germania già nel 2006 e pubblicato di recente in Italia dalla casa editrice Einaudi

Lo scrittore tedesco, attraverso i dialoghi tra un’anziana cantante e un giovane economista, torna a rappresentare i propri leitmotiv sulla modernità a genio, fa appello alla logica; se no, no»); mentre Joachim, col suo goffo culto della complessità, funge da correttivo a ogni aforisma troppo risolto o troppo sornione. Ma la decrepita cantante lirica dal fastoso passato è ben più di una portavoce. Chi conosce Enzensberger troverà in lei moltissimi tratti tipici dell’autore. Josefine è infatti «uno strano tipo di anarchica», che detesta le pomposità burocratiche e vorrebbe uno stato ridotto a «guardiano notturno». Contro ogni mistificazione del «merito», crede nel peso della fortuna. La sua salute «patologica»

(è una malata che si ostina a credersi sana, e Joachim conia per lei il neologismo «epicondriaca») sta in una astuta smemoratezza, in una sapiente capacità di rimozione e in una pigrizia coltivata. È nel placido fluire della chiacchiera che Josefine tira fuori di colpo, dal groviglio dei cliché, il bandolo definitorio capace di lasciare il segno sul suo interlocutore. Un esempio: «L’ateismo lo trovo sciocco. Le persone seriamente convinte che non esistano poteri superiori a loro stesse sono un po’ suonate. La nostra specie annaspa in preda a una disperazione tale, che trovo incomprensibile come possa venire in mente un’idea così megalomane. Preferisco qualsiasi forma di superstizione». Un altro esempio: «Lei, come la maggior parte dei tedeschi, non ha una buona opinione dell’opportunismo. Trovo invece che bisognerebbe difenderlo. Perché all’opportunista si può sempre far cambiare idea, a chi agisce per principio no». Certe annotazioni di Joachim sulla sua amica potrebbero poi

venir subito tradotte in termini di ars poetica: «È come una gazza. Raduna le sue saggezze rubate qua e là e ci costruisce il nido»; oppure: «Nega il progresso e se ne serve allo stesso tempo». Josefine incarna insomma il carattere cinico-scettico, ma anche curioso e polemico dello scrittore. Come lui, mena stoccate a destra e a manca. Ce l’ha con statisti e gli stilisti megalomani, coi miti della creatività e dell’originalità. Censura tutte le forme fanatiche di ascesi (dalla santità al fitness alle diete), i curricula scolastici (uno spreco di tempo compensato però, le ricorda Joachim, dall’apprendimento di alcuni trucchi “politici”) e anche gli intellettuali che fanno gli alternativi ma cercano poi a ogni passo la protezione economica dell’industria culturale (però lei può permetterselo perché un tempo, nella Germania nazista e adenaueriana, è stata «la musica»: ossia perché ha avuto successo in un’epoca in cui il successo valeva ancora qualcosa; e non a caso la sua carriera termina negli anni ’60,

gli anni della massificazione neocapitalista e dell’infanzia di Joachim). Josefine si contraddice spesso, né pretende di evitarlo. Il suo è un invito allo spregiudicato magistero della ragionevolezza: propone una «empatia flessibile», e rifiuta di ritenersi un’eccezione rispetto ai suoi “peggiori” contemporanei del ’900. Ha un fiuto quasi infallibile per le amplificazioni retoriche: e stigmatizza tra l’altro la «fissazione» su Hitler, weilianamente suggerendo che «di certe figure non va serbata memoria», se si vuole sottrar loro l’aura del mito. Come Joachim, evita ciò che non sopporta, anziché sbraitarvi contro in pubblico rischiando di farsene contagiare. Il suo motto araldico è: «Sempre meglio di niente». Manifesto di uno scetticismo fragile, di chi vorrebbe non dovere niente a nessuno e non essere creditore di nessuno, ma sa tuttavia che la vera vita è ferita continua, continua dipendenza (come ricorda con la sua sola presenza l’ebrea Fryda). La cantante l’ha imparato a sue spese: e adesso, se è ancora disposta a dilapidare il denaro, consiglia invece al suo giovane amico di non sprecare le emozioni. Del resto, i due s’incontrano proprio sul terreno della “gratuità”: non hanno debiti con cui ricattarsi. Intrattengono un rapporto in apparenza simile a quello che Joachim ha stabilito con la sua nipotina, e in cui l’unica regola sembra quella di non annoiarsi a vicenda. In questo senso la casa della Kastanienallee è un luogo di pausa dialogica rispetto allo scorrere drammatico del tempo.

Ma in realtà anche un simile spazio è letteralmente sottoposto a ipoteca, come l’economista capirà troppo tardi: in realtà la vita “vera”, la morte, i traslochi incombono su tutto. Alla fine, dei mesi passati ad ascoltare la voce rauca di Josefine - troppo intelligente e dialettica anche per perdersi nella perfezione del canto - resta la tensione quasi utopica verso uno spazio in cui poter preservare una dose accettabile di ragionevolezza, pur sapendo di non essere mai immuni dal caos e dagli errori più volgari. L’altro tema tipicamente enzensbergeriano su cui si trovano d’accordo le due maschere è infatti quello della «potenza divina» della stupidità, colta in tutte le sue innumerevoli sfumature. Ma da questo punto di vista, Josefine e Joachim sanno almeno di esser composti da un’oraziana miscela di imbecillità e d’intelligenza assai distante da quella degli odierni «professionisti della dissennatezza»: cioè da quell’unilateralismo estremista e fanatico che resta sempre il primo bersaglio di Enzensberger.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Il Pd allo sbando si aggrappa al sondaggio senza valore statistico Risvegliatosi per un giorno dal suo perenne letargo politico, il Pd si aggrappa a un sondaggio senza alcun valore statistico per attaccare il sindaco Alemanno. Come al solito, l’opposizione allo sbando, ormai inesistente sul piano delle proposte, sceglie la via della demonizzazione per recuperare un briciolo di visibilità. I risultati più che positivi conseguiti da questa giunta sono sotto gli occhi di tutti. Per la prima volta sono state affrontate in modo sistematico problematiche che la sinistra aveva semplicemente rimosso, seppellendole sotto le allegre passerelle del cineasta Veltroni. Dalla sicurezza al piano nomadi, dalla riqualificazione delle periferie alla lotta contro la prostituzione, sono stati messi a punto interventi finalmente concreti ed efficaci per dare un nuovo volto alla città. Per non parlare della riforma di Roma Capitale, un obiettivo storico raggiunto grazie all’impegno costante e pervicace del sindaco Alemanno. Naturalmente c’è ancora molto lavoro da fare e il debito ereditato dalla sinistra, unito alla pesante contingenza economica, non aiuta. Ma i numerosi progetti messi in cantiere dall’amministrazione comunale possono costituire un’opportunità davvero importante per la città e il suo sviluppo.

Barbara

CHI HA PAURA DELLA PATRIA Egregio Novi, la sua indignata reazione all’indifferenza che la Lega mostra per i festeggiamenti dell’Unità d’Italia lascerebbe supporre, da parte sua, un alto e nobile attaccamento alla patria e ai suoi valori. Forse è l’indulgenza verso la sinistra a impedirle di accorgersi che è proprio quest’ultima ad aver fatto a pezzi il sentimento di amore e di orgoglio per l’Italia, attraverso l’azione metodica e prolungata con cui, esaltando l’internazionalismo, è riuscita nel disegno osceno di identificare bandiera nazionale e fascismo autoritario. O ha forse ha dimenticato l’indifferenza con cui la Dc ha assistito a quel massacro? Non ricorda di quando esporre alla propria casa la bandiera italiana era un’iniziativa rischiosa? Non intendo fare l’apologia di un “padanesimo”, che è nato come abile pretesto per affermare un’identità inesistente,

avendo perso perfino l’apparenza di movimento separatista. È chiaro che la Lega deve continuare il cambiamento per diventare un grande partito: ma a costo di scioccare e d’indignare tutti i nuovi patrioti che spuntano in questi giorni, dirò che tra una sinistra allo sbando e un centro più o meno democristiano e con “lo sguardo a sinistra”, non solo il Pdl ma la stessa Lega, col suo slancio e le sue idee sono oggi, al di là dello scandalo per le parole di Calderoli e dei bei discorsi retorici, le sole realtà che permettono agli italiani di conservare un sentimento di orgoglio e di speranza per la loro nazione.

Carlo Signore

(risponde Errico Novi) Egregio signor Carlo, mi perdoni ma non ci riesco: non riesco proprio a vedere una speranza, nel Calderoli che definisce l’unità d’Italia «una questione» per la quale

Burqa blu, moschea blu Una donna in burqa passa davanti alla moschea blu di Mazar-e Sharif, in Afghanistan, uno dei pochi luoghi dove si riesce a dimenticare, almeno durante la preghiere, la divisione etnica e religiosa tra sunniti e sciiti

va trovata «la soluzione» (e la soluzione sarebbe il federalismo). Ma scherziamo? L’unità travisata come un problema da sciogliere, un impaccio da rimuovere? Sarà un problema per lui. Ho ben presente il danno esiziale arrecato alla coscienza storica di questo Paese dall’antifascismo ideologico. Né mi sfuggono le responsabilità dei cattolici, la cui inerzia è stata complice. Mi permetto di segnalarle che il nostro giornale e la nostra fondazione hanno affrontato temi del genere anche di recen-

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

te, per esempio con il convegno del 30 e 31 ottobre scorsi intitolato “Di cosa parliamo quando diciamo Italia”. Vi hanno partecipato anche esponenti dell’attuale maggioranza come Sandro Bondi, oltre al presidente Ciampi, a Casini, Buttiglione, Folli, Biagio De Giovanni e altri studiosi. Le assicuro che le autocritiche, da parte cattolica, si sono sentite eccome. Non sembra di poter scorgere altrettanta lucidità in quel Pdl che quasi si vergogna di essere patriottico per non dar fastidio a Bossi.

da ”Le Figaro” del 06/05/10

Scatole nere in avvicinamento di Bastien Hugues razie alle nuove analisi fatte sui tracciati sonar effettuati poche settimane dopo il disastro del volo Air France 447, la Marina francese ha affermato di avere individuato le scatole nere. Si tratta del cosiddetto flight recorder dell’Airbus precipitato, il primo giugno del 2009, nelle acque dell’Oceano Atlantico al largo del Brasile. Un meccanismo automatico che regsitra tutti i parametri di volo, dotato di batterie proprie e sistema anti-shock che gli permette di operare in qualsiasi condizione. Anche quando un aereo precipita. Rimane però un atteggiamento prudente sulla fattibilità di un loro recupero, secondo le fonti ufficiali del governo. La notizia è giunta al canale France-Inter attraverso il ministero della Difesa e il Bea, l’agenzia che investiga sull’incidente aereo. Le ricerche della scatola nera che ha fotografato i dati degli ultimi istanti dell’Airbus A330 dell’Air France erano ripartite in marzo.

G

L’aereo era scomparso nelle acque brasiliane il 1 giugno dell’anno scorso, uccidendo nel disastro 228 persone. Le autorità francesi avevano annunciato la ripresa delle ricerche per scoprire quali siano state le cause dell’incidente più grave nei 75 anni di storia della compagnia aerea di bandiera. Le due precedenti battute di caccia non avevano portato risultati di rilievo. Erano stati recuperati solo alcuni frammenti dell’aereo, tra cui il grande timone direzionale di coda. Le nuove ricerche avevano coinvolto un centinaio di persone che avevano operato su due imbarcazioni, una americana e una norvegese, equipaggiate con attrezzature so-

fisticatissime che includono sonar e robot sottomarini. I parenti delle vittime hanno da sempre incolpato alcuni sensori di velocità dell’Airbus, che non avrebbero segnalato alcuni malfunzionamenti negli istanti precedenti l’ammaraggio.

Gli investigatori hanno lavorato sul materiale per così dire “vecchio”, registrato dai robot sul fondo marino già poche settimane dopo la scomparsa del volo di linea. Le scatole nere dovrebbero trovarsi a circa cinque chilometri dalla zona dove furono ripescati alcuni frammenti del relitto. La nuova analisi sarebbe stata resa possibile da un software fornito da una società del gruppo Thales. Ora si tratta di inviare un robot per verificare visivamente il posizionamento delle scatole nere. Il generale Christian Baptiste, portavoce aggiunto del ministero della Difesa ha voluto però sottolineare che averli individuati nei tracciati sonar «non significa che poi riusciremo a trovarli materialmente». «Dobbiamo vedere se è possibile recuperare queste scatole nere, scoprire quanto in profondità si trovino, in quale zona precisa ... Vorrei, per il momento, rimanere estremamente prudente», ha affermato durante una conferenza stampa il portavoce del governo, Luc Chatel. Prima di aggiungere che «sarebbe ovviamente una grande notizia per tutti. In primo luogo, per le famiglie delle vittime del disastro e poi per tutti noi, perché è da quasi un anno non vediamo l’ora di sapere cosa

realmente sia accaduto sul volo Rio-Parigi». Da domenica, è stata esplorata di nuovo una superficie di circa 2mila chilometri quadrati, situata a 600 miglia nautiche al largo della costa del Brasile. Questa era una ulteriore estensione della terza ricerca del relitto, cominciata alla fine di marzo. L’operazione dovrebbe avere termine il 25 maggio prossimo. Secondo la Bea, solo le scatole nere potrebbero aiutare a capire le cause esatte dell’incidente, che, ricordiamo ha provocato 228 morti.

L’agenzia tecnica che si occupa degli incidenti di volo ritiene che un difetto alle sonde Pitot, che servono per la misurazione della velocità, non poteva di per sé spiegare il disastro. L’accusa contro la scarsa affidabilità degli anemometri era stata lanciata da due piloti della compagnia aerea. Anche il direttore generale di Air France-Klm. Pierre-Henri Gourgeon, aveva dichiarato di non essere convinto che il difetto ai tubi di Pitot potesse essere la causa dell’incidente dell’Airbus.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Così è nata la preziosa amicizia con Mario Tobino Carissimo, la penna di Liliana scrive per me perché dopo cenato i miei nervi non reggono allo sforzo e la notte mi verrebbero incubi e convulsioni! Incontro con Mario Tobino a Lucca: è venuto a prenderci lui stesso in albergo, grande, forte, sessantenne, sorretto da un antico bastone, e insieme siamo stati al vecchio caffè Gilli a prendere un tè. Tobino parlava di Manzoni, di psicofarmaci e di Stendhal. Dopo abbiamo raggiunto in taxi la sede fiorentina della Rai, costruita come una pittura di Dalì, Tobino ha soffiato nel microfono la sua angoscia di scrittore e il suo disgusto per la conservazione in vita a prezzo di eccessivo soffrire dei malati finiti. Ci siamo riveduti poi a cena insieme ai redattori del «Mondo»: Tobino mangia qualsiasi cosa e detesta i vegetariani. Il vino era cattivo. Pochi giorni dopo ci ha mandato con buona dedica le sue «Libere donne di Magliano». Così è nata una preziosa amicizia. In questi giorni ho anche conosciuto Guido Piovene e Eugenio Montale. Per finire ti getto questa notizia: dovremmo andare a Torino entro marzo e siamo risoluti, si Dios quiere, a venire da voi per una fuggitiva ma intensissima visita. Un abbraccio, un arrivederci, un moto del cuore a te e alla grande Laura Guido Ceronetti a Arturo Bersano

LE VERITÀ NASCOSTE

Il bimbo sopravvive grazie alle orecchie PECHINO. Un bambino cinese di sei anni è stato salvato da una morte certa dalle sue orecchie. Il ragazzino era caduto in una grata sospesa di un palazzo all’ottavo piano e sarebbe precipitato nel vuoto se non fosse stato fermato dalle sue orecchie, rimaste incastrate nelle sbarre. Il piccolo è rimasto così, penzolante, per circa un’ora e le sue grida hanno richiamato l’attenzione dei passanti, che hanno chiamato i soccorsi. Una volta giunti sul posto, i vigili del fuoco hanno forzato le sbarre, salvando lo spaventatissimo bambino. Dopo aver effettuato il salvataggio, i vigili hanno tentato di ricostruire la dinamica che ha portato all’incidente. Sembrerebbe che il bambino sia stato lasciato a dormire solo dal nonno che si era allontanato per una commissione e svegliatosi si sia quindi messo nei guai. «Il bambino avrebbe potuto schiantarsi per terra o restare soffocato» la dichiarazione di un vigile del fuoco. I minori abbandonati dai parenti sono sempre di più un problema per la Cina moderna. Fece scandalo, un mese fa, la fotografia di un bimbo di cinque anni legato con una catena a un palo della luce. Il problema nasce dall’uso del lavoro dei migranti, cittadini interni costretti a spostarsi dalle campagne alla città in cerca di occupazione. Data l’altissima percentuale di sparizioni di minori - spesso destinati al mercato del sesso o a quello del traffico di organi - i genitori che vanno a lavorare sono costretti a ingegnarsi per salvaguardare i propri discendenti. In Cina vige infatti una legge - detta “del figlio unico” - che impone alle coppie di dare alla luce un solo bambino. Per questo, il piccolo viene considerato un principe in famiglia. Spesso sono proprio i nonni a occuparsi di lui, quando i genitori sono a lavoro.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

RISPETTO E APPLICAZIONE DELLA LEGGE SULLA PUBBLICAZIONE DELLE CONSULENZE Alcuni articoli scandalistici si occupano di suocere, nuore, fidanzate e di quanti contratti queste abbiano firmato con la Rai. A me poco interessa il caso specifico e mi scandalizza di più che ci si occupi di singoli casi, che rappresentano un po’ il famoso dito sulla luna. È in vigore una legge, la n. 244 del 2007, che permetterebbe di vedere la luna invece del solo dito o, ancora peggio, della sola unghia. La legge n. 244 del 2007 obbliga alla pubblicità dei contratti di consulenza stipulati con enti pubblici. Nessun atto comportante spesa, ai sensi dei precedenti periodi, può ricevere attuazione se non sia stato previamente reso noto, con l’indicazione nominativa dei destinatari e dell’ammontare del compenso attraverso la pubblicazione sul sito web dell’amministrazione o del soggetto interessato, nonché comunicato al governo e al parlamento. Sempre secondo la legge, in caso di violazione, la Rai e gli stessi consulenti sono tenuti al rimborso, a titolo di danno erariale, di una somma pari a 10 volte l’ammontare della somma illegittimamente erogata. Bene, dal 2007 è stato attivato il sito www.contrattidiconsulenza.rai.it ma, cliccando su di esso, appare la scritta “lavori in corso”. Per questi motivi il 17 giugno 2008, rivolsi un’interrogazione al ministro dell’Economia e delle Finanze dove chiedevo se il ministro fosse a conoscenza di ciò e cosa intendesse fare al riguardo, ancora oggi attendo risposta.

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

APPUNTAMENTI MAGGIO 2010 LUNEDÌ 17 ORE 11.30, SALERNO, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI, AULA SP/6

Convegno: “Il Presidenzialismo all’italiana”. Conclude l’onorevole Ferdinando Adornato GIOVEDÌ 20 ORE 16, TODI, HOTEL BRAMANTE

Consiglio Nazionale Circoli liberal

SEMINARIO TODI 2010 20, 21 E 22 MAGGIO TODI - HOTEL BRAMANTE

Inizio lavori giovedì 20, ore 16,30 SEGRETARIO

Donatella Poretti

Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak

LA CALABRIA E I CALABRESI REAGISCONO ALLA ‘NDRANGHETA E ALLA MALAVITA Il Movimento giovanile dell’Udc calabrese si schiera a fianco delle forze dell’ordine, agli uomini della sezione “catturandi”, al questore di Reggio Calabria, Carmelo Casabona, e al capo della polizia, Antonio Manganelli, complimentandosi con loro per la cattura del boss della ‘ndrangheta, Giovanni Tegano, inserito nell’elenco dei trenta latitanti più pericolosi. La cattura di Tegano rappresenta un duro colpo per la ‘ndrangheta calabrese, l’ennesima dimostrazione di come le forze dell’ordine stiano conducendo una seria e concreta lotta di contrasto alla criminalità organizzata, frantumandone le radici ben salde in gran parte del territorio. È doveroso anche stigmatizzare e prendere le distanze da quei cittadini, che nulla hanno a che vedere con il vero popolo calabrese, riunitisi dinanzi la questura per applaudire lo stesso Tegano. Una scena triste, vergognosa e amara, che non può in ogni caso interessare né i cittadini di Reggio Calabria né i calabresi per bene, che incoraggiano l’operato di chi è in trincea per estirpare il cancro della malavita. Coloro i quali applaudivano il boss Tegano, nulla sono in confronto alla gente che è stanca dell’oppressione mafiosa e dell’immagine negativa che la ‘ndrangheta dà della nostra regione. Né, tantomeno, quanto accaduto dopo l’arresto del noto latitante può minare la storia, la sensibilità e la voglia di riscatto di una Calabria che non vuole e non deve essere equiparata a terra di nessuno o a una terra di mafia e di anarchia. Lo Stato, in Calabria, c’è! Si evince un risveglio delle coscienze che deve fare breccia nel muro dell’omertà e dell’ignoranza. A tal proposito, è scontato sottolineare la disponibilità dei Giovani Udc ad affiancare e promuovere ogni iniziativa possibile affinché, allo Stato, alla magistratura e alle forze dell’ordine si dimostri vicinanza, sostegno e riconoscenza, per quanto si sta concretizzando nella lotta alla criminalità. I nostri applausi, e quelli di milioni di cittadini, vanno a loro… Giovanni Folino G I O V A N I UD C CA L A B R I A

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ULTIMAPAGINA

Eventi. Ormai in Italia è tutto un fiorire di feste enologiche. Da domani, un nuovo festival nella Capitale

E Roma diventò una città di Livia Belardelli na due giorni di degustazioni enogastronomiche per un nuovo festival sul vino. Si chiama Roma Wine Festival e porta il marchio del crostaceo più conosciuto, il Gambero Rosso. Domani e domenica la Città del Gusto di Roma apre le porte alla terza edizione della manifestazione ideata e curata da Marco Panella. A meno di un mese dal Vinitaly ecco l’ennesima, stavolta – è chiaro – meno faraonica, maratona di degustazione. La dimostrazione che il vino, crisi o non crisi, attrae e seduce moltiplicando i grandi eventi a lui dedicati. Così, mentre la Città del Gusto presenta il proprio festival, altri lavora-

U

mincia con uno sguardo oltre i confini con I più celebri vini dolci del mondo alla presenza di Bérénice Lurton, presidente del Syndicat des Vins de Sauternes et Barsac e titolare del celebre Chateau Climens.

Scavalcando le Alpi si prosegue con il nord Italia, con le atmosfere fresche dell’Alto Adige dove svettano vini eleganti e minerali per una degustazione che va dall’Oltradige fino alla Valle Isarco. Si resta in zona con la degustazione sulle bollicine trentine, condotta dal presidente del Consorzio del Trento Doc, Fausto Peratoner e il sommelier e giornalista Marco Sabellico. Si continua col confronto tra Italia e Rodano sulle vie del Syrah ma, se si vogliono affrontare rossi di

da BERE no per la prossima kermesse romana, il Vinòforum, che comincerà a fine mese. Questo soltanto nella capitale perché in questi giorni si conclude Squisito, straordinaria manifestazione organizzata a San Patrignano. Ma oggi è il turno del Gambero. E allora proviamo a inoltrarci in una Città del Gusto ancora dormiente, come ladri gourmand, per curiosare tra i saloni di design ancora bui, scivolando nel Teatro del Gusto prima che il sipario venga aperto, prima che l’eno-massa romana calpesti spaesata ogni centimetro alla ricerca di un vino o di una nuova emozione.

Sul palcoscenico dei sapori 11.000 bottiglie, 190 aziende per circa 700 etichette – contro le 500 dell’anno precedente – e tanti workshop per approfondire l’Italia del vino. Più delle etichette e della marziale sfilata di bottiglie sono proprio le degustazioni (l’elenco completo su www.romawinefestival.com) guidate dagli esperti del Gambero Rosso il punto forte della manifestazione. «Abbiamo voluto rappresentare la geografia di eccellenza del vino italiano ma soprattutto enfatizzare la promozione del vino non in quanto tale ma per la cultura che rappresenta» spiega Marco Panella. «Vogliamo focalizzarci su cosa c’è dietro la bottiglia, sulla storia delle aziende, sugli uomini che fanno le imprese del vino, storie di passione e dedizione che saranno al centro della manifestazione». Allora, domani dalle 16 si co-

degna come moderni e ciondolanti Ulisse per I rossi delle Isole alla ricerca di vini che solo lì, ad esempio alle pendici di un vulcano come per il nerello o in terra sarda per il carignano, danno vita ad espressioni particolari dovute a terroir caratteristici.

Uno sguardo all’ambiente è possibile entrambi i giorni con I tre bicchieri verdi, vini biologici e biodinamici premiati nella Guida del Gambero Rosso 2010 e già presentati con successo al Vinitaly in una bella degustazione alla riscoperta di aromi autentici. Proprio le due degustazioni “ecocompatibili” sono fondamentali per Panella che spiega come tale filone sia importante al punto da destinare un award proprio alla produzione sostenibile. Come per ogni festival che si rispetti ci saranno infatti dei premi, awards destinati a valorizzare professionalità e passione di uomini e donne del vino. Cinque le categorie, dal miglior “vestito” (etichetta e linea grafica) alla comunicazione più efficace in tv, radio, stampa, web e blog passando appunto per la viticoltura sostenibile, il miglior rapporto tra qualità e prezzo e il miglior sito web creato dalle aziende per comunicare il proprio prodotto. Di fronte a quest’esplosione di degustazioni ed eventi la domanda sulla crisi del settore sembra ancora più ingarbugliata. Crisi o non crisi? È l’anno della ripresa oppure no?

Nella sede romana del Gambero Rosso ci saranno lezioni, incontri e soprattutto degustazioni: una moda sempre più diffusa per consumare ma anche per modificare gusti e abitudini. E a fine mese sarà la volta di Vinòforum

struttura, l’appuntamento è per domenica. Nella seconda giornata del festival c’è spazio per il seminario su Roero, Barbaresco e Barolo per entrare in terra di Piemonte e scoprire le declinazioni del nebbiolo oppure scendere in Toscana per la degustazione sul Brunello di Montalcino e restarci per Il supertuscan è morto. Evviva il supertuscan dove si affronta la presunta crisi degli ex “vini da tavola” attraverso assaggi che, probabilmente, mostreranno il contrario. Abbandonata la Toscana è tempo di salpare per le isole e veleggiare tra Sicilia e Sar-

Per chi vuole arrivare al festival più preparato, basta anticipare di un giorno. Oggi sarà infatti il turno del convegno Lo stato del vino che, alla presenza di diversi esperti del settore, da Piero Antinori a Riccardo Cotarella, rifletteranno sullo scenario della produzione e del commercio. Intanto Panella sottolinea che la manifestazione quest’anno ha raddoppiato il numero delle aziende, «un dato positivo in un mercato che risente della condizione generale, sia dalla parte dei consumi che della produzione». Così non resta che assediare la Città del Gusto e scoprire cosa si nasconde dietro la bottiglia.


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