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Non c’è nulla che sia davvero interamente in nostro potere, se non i nostri pensieri

he di c a n o r c

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Cartesio 9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 8 MAGGIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Wall Street trema, Parigi chiude a -4,87: sono in molti ormai a temere una speculazione sull’Euro

I giorni della verità I leader europei a Bruxelles approvano il salvataggio della Grecia. Ma i mercati scommettono sulla crisi. E le Borse crollano ancora IL VERTICE

NUOVI SCENARI

Nuove regole e nuovi protettorati

E in Italia serve un governo di svolta

Il Quirinale condanna il «tifo selvaggio» che nasce da azioni come quella del capitano della Roma contro l’Inter Francesco Lo Dico • pagina 7

di Enrico Singer

di Enrico Cisnetto

ia libera al prestito alla Grecia. Un messaggio per rassicurare le Borse che continuano a scendere in picchiata. E l’impegno di riformare le regole per aumentare la stabilità dell’Euro. Il vertice straordinario dei capi di Stato e di governo di Eurolandia, ieri sera, ha seguito il suo copione. Ma nella Ue, ormai, ci sono tre Europe. a pagina 2

ecidiamoci. O si va subito a una verifica per capire se ci sono le condizioni per sciogliere le Camere ed anticipare le elezioni, oppure si chiuda la stagione dei veleni e si apra una fase politica nuova in nome dell’emergenza che ci troviamo a dover affrontare per effetto della crisi finanziaria che si è aperta con il “caso Grecia”. a pagina 3

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D

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Tory primo partito senza maggioranza: la Regina rinvia a lunedì il conferimento del mandato

Il caso dei tre sconfitti Londra nel caos dopo il voto. Senza un vero vincitore, si va verso una coalizione. Cameron chiama Clegg: «Troviamo un accordo» ASPETTATIVE DELUSE

PARLA JONATHAN HOPKIN

David, Nick e Gordon a testa bassa

«La minoranza salverà il bipolarismo»

di Andrea Mancia

di Lorenzo Biondi

i può uscire sconfitti dalle elezioni dopo aver guadagnato un centinaio di seggi? Si può essere chiamati perdenti dopo aver “salvato” il proprio partito dall’estinzione? E si può essere considerati un «flop» dopo aver condotto una campagna brillante? La risposta a queste domande è un triplice e squillante “sì”. a pagina 24

LONDRA. «La sensazione è

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seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

Napolitano espelle Totti: «Un gesto inconsulto»

• ANNO XV •

NUMERO

88 •

che si andrà ad un governo conservatore di minoranza. Non credo abbia alcun senso, né per i conservatori né per i liberali una semplice alleanza. I conservatori hanno seggi a sufficienza per formare un governo e superare il Queen’s speech». Parla Jonathan Hopkin, esperto della London School of Economics. a pagina 26

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

personaggio

La maledizione di Bankomon colpì anche Chiamparino Dopo il caso Unipol, quello IntesaSanpaolo: il conflitto tra gli ex comunisti e il capitalismo ha una storia molto antica Antonio Funiciello • pagina 30

su

mobydick

A New York c’è un nuovo Woody Allen. Ma è donna Si chiama Nicole Holofcener e ha diretto un film da non perdere, «Please Give», sui vizi della Grande Mela Anselma Dell’Olio • pagina 11 19.30


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Salvataggi. Prima del vertice, nuova telefonata tra Merkel e Obama: «Siamo d’accordo sulla necessità di una forte risposta»

O le Borse o l’Europa

I leader della Ue a Bruxelles rischiano di dividersi tra ricchi e poveri per riscrivere Maastricht. E i mercati decidono di speculare sull’Euro di Enrico Singer l via libera al prestito di 110 miliardi alla Grecia. Un messaggio per rassicurare le Borse che continuano a scendere in picchiata. E l’impegno di riformare le regole per aumentare la stabilità dell’euro. Il vertice straordinario dei capi di Stato e di governo di Eurolandia, ieri sera, ha seguito il suo copione. Ma nemmeno i sorrisi e le frasi di rito hanno potuto nascondere una realtà che, attorno al tavolo della cena nel palazzo Justus Lipsius, sede del Consiglio europeo, era addirittura tangibile. Nella Ue, ormai, ci sono tre Europe. Una è quella delle sedie vuote, quella che materialmente non era a Bruxelles: l’Europa di chi è fuori dalla moneta comune. Undici Paesi su ventisette, compresa la Gran Bretagna. Più di un terzo dell’Unione, in termini di abitanti, che in queste settimane di sconquasso generale è alla finestra, divisa tra un sentimento di sollievo per non essere nell’occhio della crisi e la sensazione comunque amara di giocare in un altro girone. Ma anche tra i sedici che erano attorno al tavolo c’erano due squadre. C’era l’Europa dei forti e quella dei deboli. Con un confine contestato, perché essere etichettati come deboli non piace a nessuno, ma con obiettivi e preoccupazioni oggettivamente diversi. E che entreranno in rotta di collisione in modo ancora più evidente quando dai provvedimenti d’emergenza, come il prestito per salvare Atene, si passerà a quelli strutturali, come la riforma del Patto di stabilità.

I

Il gruppo dei forti è guidato dalla Germania di Angela Merkel e dalla Francia di Nicolas Sarkozy. Chi aveva frettolosamente dichiarato defunto l’asse Berlino-Parigi proprio per le divergenze emerse tra le due capitali sulla ricetta da applicare al caso-Grecia, è stato smentito. Dall’appello per una Maastricht-due che Merkel e Sarkozy hanno lanciato insieme - volutamente attraverso le colonne di Le Monde per renderlo noto a tutti - e dall’attivismo dimostrato ieri sera a Bruxelles negli incontri a due con gli altri leader europei orchestrati con una sapiente regia quasi fossero loro i padroni di casa. Ed anche dall’appoggio arrivato dall’altra parte dell’Atlantico con la telefonata - la seconda in una settimana - di Obama alla Merkel: «Siamo d’accordo sulla necessità di una forte risposta». Il cardine dell’intesa tra la Merkel e Sarkozy è la convinzione profonda che la crisi non si risolve con finanziamenti-spot. Anche perché, se questa fosse la strada, con o senza la creazione di un Fondo monetario europeo, il risultato sarebbe quello di dissanguare le casse di chi

Trichet difende i piani di José Socrates, che ottiene la fiducia della Francia

Ora tutti dicono: «Lisbona non è Atene» di Alessandro D’Amato

ROMA. È la seconda tessera del domino del debito sovrano, e la sua deadline è il 20 maggio. Quel giorno, il Portogallo dovrà affrontare il mercato per rifinanziare bond da 5,63 miliardi. È l’operazione più cospicua in programma per il 2010, un quarto dei 20-22 miliardi che dovrà raccogliere quest’anno. Il giorno prima toccherà alla Grecia, nel frattempo piombata in pieno disastro, e tutto dipenderà da come prenderanno i mercati la svolta di Atene. Se anche dovesse arrivare uno scricchiolio, questo si ripercuoterà immediatamente su Lisbona. Che a quel punto potrebbe essere costretta a chiedere anch’essa aiuto all’Ue.

Il primo problema del paese è la crescita. Negli ultimi dieci anni il Pil è salito a un tasso medio inferiore all’1% annuo. Il debito pubblico non è a livelli allarmanti, essendo pari al 77% del Pil come quello francese, ma con l’indebitamento delle famiglie e delle imprese, si raggiunge il 236% del Pil, contro il 205% dell’Italia e il 195% della Grecia. Il premier socialista José Socrates ha promesso di tagliare il deficit dal 9,4% del 2009 al 2,8% nel 2013, ma guida un governo di minoranza che ha (e sempre più avrà) vita dura a far passare le misure di risanamento. Qualche settimana fa il Tesoro ha riacquistato bond in scadenza nel mese di maggio per un miliardo di euro garantendo ai sottoscrittori l’incasso degli interessi maturati. L’operazione fa parte di un piano di rientro del valore complessivo di 5,63 miliardi di euro che riguarda anche titoli decennali del Tesoro in scadenza entro fine anno.

«La speculazione finanziaria contro il Portogallo non ha alcuna giustificazione e alcun fondamento economico», ha dichiarato ieri a Parigi il primo ministro portoghese, José Socrates. A qualche ora dal vertice tra i capi di Stato dei Paesi dell’Eurozona, a Bruxelles, Socrates ha espresso anche la sua preoccupazione «per l’Europa e l’euro», invitando tutti i Paesi a difendere, congiuntamente, la propria moneta. E incassando il sostegno di Fillon e Sarkozy. Ma intanto, a causa delle tensioni sui mercati e del rischio che la crisi possa colpire anche Lisbona, il governatore della Banca del Portogallo, Vitor Constacio, ha chiesto al governo di ”rinforzare” il suo programma di austerità.

Il problema è la credibilità degli impegni presi. Non convinta delle capacità di Lisbona, Standard & Poor’s ha declassato di due gradi (ad A-) il rating del debito portoghese. Intanto, sono stati anticipati a quest’anno interventi fissati per il 2011, come alcuni tagli alla spesa pubblica, la tassa sui capital gain e l’introduzione del pedaggio sulle autostrade. Moody’s ha invece precisato, nel suo annuncio dell’altroieri che ha gettato nel panico i mercati, che la decisione su un eventuale downgrading (il primo mai realizzato da questa agenzia sul debito di Lisbona che è arrivato ad Aa2 nel 1998), verrà presa dopo aver esaminato il nuovo pacchetto anti-deficit. L’agenzia ha anche messo sotto osservazione in vista di un possibile declassamento tutte le dieci banche portoghesi che hanno un rating. Eppure a dire che il Portogallo non è come la Grecia ci si è messo anche Jean Claude Trichet, l’altroieri. La rassicurazione è servita nel breve a calmare i tumulti finanziari, anche se lo spread con il bund continua ad essere preoccupante. Ma in realtà sarà soltanto alla fine di maggio che sapremo la verità. Per quella data, scopriremo se Atene sarà costretta a restituire il favore a Lisbona. E anche chi sarà il prossimo.

è ancora in attivo favorendo la speculazione internazionale che, dopo la Grecia, potrebbe mettere un altro Paese nel mirino. Germania e Francia vogliono restituire forza all’euro dando finalmente sostanza alla “e” dell’Uem: la parte economica di un’Unione che finora si è sviluppata solo sul versante monetario (la “m”).

Paradossalmente le tensioni sui mercati di questi ultimi giorni, con il calo dell’euro e il crollo delle borse di giovedì e di ieri, sono la migliore arma nelle mani di Angela Merkel e di Nicolas Sarkozy per spostare la barra su quelle che lo stesso presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, ha definito le «lezioni da trarre dalla crisi per il futuro dell’Unione economica e monetaria», in altre parole, le soluzioni da proporre per costruire davvero quella governance economica dell’eurozona che esiste sulla carta, mentre nella realtà gli Stati

Già mercoledì prossimo la Commissione europea lancerà un suo piano per rivedere regole e meccanismi del Patto di stabilità che potrebbe spaccare Eurolandia membri continuano a custodire gelosamente le loro prerogative nazionali in fatto di fiscalità (terreno espressamente lasciato all’autonomia dei Paesi di Eurolandia), ma anche di bilanci, di competitività, di riforme strutturali, di politiche macroeconomiche. Non è un caso che proprio Herman Van Rompuy abbia dichiarato che «la riforma delle regole dell’eurozona è necessaria e noi la faremo». Come è presto per dirlo, anche se le linee generali proposte dall’Europa dei forti sono ormai note: rafforzare la sorveglianza preventiva dei bilanci pubblici dei Paesi dell’eurozona, sanzioni più efficaci per chi è in deficit eccessivo, rafforzamento del Patto di stabilità, allargamento della sorveglianza multilaterale alle questioni strutturali e di competitività e agli squilibri macroeconomici. Ieri sera questi temi sono stati soltanto messi sul tavolo, ma c’è già un appuntamento concreto in vista: il prossimo 12 maggio il commissario agli Affari economici e monetari, Olli Rehn, presenterà un suo piano di revisione delle regole attuali che prevede anche l’aumento dei poteri di Eurostat, considerata una risposta alle polemiche sullo strapotere delle agenzie di rating.

Il crollo delle Borse di ieri, per la verità, è stato innescato non soltanto dalla crisi della Grecia, ma anche da quanto è successo a Wall Street sulla base degli ultimi dati sullo stato di salute dell’economia americana. Un intreccio avvelenato che ha avuto punte di perdite molto pesanti nel corso della giornata: Londra - 4%, Parigi - 5,3%, Francoforte - 4%, Milano, dopo un fermo tecnico di mezz’ora per un guasto, era arri-


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Un progetto per tutti quanti credono nella possibilità di una vera ripresa

Italia, un nuovo governo per evitare il contagio L’emergenza non può essere affrontata con questo esecutivo sempre più ingessato dai conflitti interni di Enrico Cisnetto ecidiamoci. O si va subito a una verifica per capire se ci sono le condizioni per sciogliere le Camere ed anticipare le elezioni, partendo dal presupposto che questa maggioranza pur essendo più che larga in Parlamento non regge alle spinte centrifughe che vengono dal dissenso interno al Pdl, dal coinvolgimento di molti suoi esponenti in inchieste giudiziarie e dai problemi di equilibrio politico tra Pdl e Lega. Oppure si chiuda la stagione dei veleni e si apra una fase politica nuova in nome dell’emergenza che, nostro malgrado, ci troviamo a dover affrontare per effetto della crisi finanziaria che si è aperta con il “caso Grecia”, e che se anche non dovesse coinvolgere l’Italia direttamente – facciamo gli scongiuri – già lo ha fatto in quanto paese partecipante al club dell’euro. Tertium non datur. In particolare, è “non datur” che tutto resti così com’è per un mortificante effetto di trascinamento per mancanza di alternative: non solo perché per il Paese sarebbe una tragedia – vi immaginate tre anni, ma anche solo un anno, di legislatura esclusivamente sotto il segno del “tutti contro tutti” come è stato nei primo biennio e come sempre più continua ad essere, anche ora che sono passati 40 giorni dalle elezioni regionali? – ma anche perché il succedere degli avvenimenti porterebbe comunque il governo a cadere, prima o poi.

D

vata a perdere il 5,13%. C’è stata, poi, una limitata ripresa: così Milano ha chiuso con un - 3,27%, Londra con un - 2,11%, Francoforte - 2,83%, mentre Parigi è rimasta la più negativa a - 4,87%. Sono dati che hanno fatto arrivare al vertice straordinario dei capi di Stato e di governo dell’eurozona un brutto segnale. I mercati non sono convinti che il prestito alla Grecia basterà a chiudere la crisi.

Per la Merkel e Sarkozy è la controprova che si deve aprire una fase di interventi strutturali. A sentire le dichiarazioni ufficiali di ieri, tutti ne sembrano convinti. Silvio Berlusconi ha detto che «l’obiettivo del governo italiano è quello di raggiungere una soluzione comune e condivisa, in grado di mettere l’Europa nelle condizioni migliori per fronteggiare la crisi». Anche lo spagnolo Luis Zapatero ha insistituo sull’unità dell’Europa di fronte alla crisi. Ma non era, certo, il vertice straordinario il momento di dividersi sulla sostanza delle riforme del Patto di stabilità che tutti richiedono, ma che non tutti interpretano allo stesso modo. Quando la discussione entrerà nel vivo - già a partirte dal piano che Olli Rehn presenterà mercoledì prossimo l’Europa dei forti e quella dei deboli potrebbero parlare due linguaggi diversi perché la maggiore severità chiesta dai “forti” si tradurrà in minori margini di manovra per i “deboli”. Chi sono? La classifica di Eurolandia non è un segreto: in testa c’è la piccola Slovacchia con una crescita prevista al 2,7 per cento. Poi ci sono il Lussemburgo (+2), Francia e Germania sono a +1,3 e +1,2 come Austria e Belgio. Negativi sono Gracia, Spagna, Irlanda, Cipro. L’Italia, con una previsione di crescita dello 0,8 per cento è in mezzo al guado.

non rimarrebbe che lo spariglio come unica alternativa all’agonia. Un governo di larga coalizione, in nome dell’emergenza finanziaria, o meglio delle scelte forti che dovrebbero essere fatte per evitare che il contagio del virus greco ci appesti. Si badi bene, non un governo tecnico – anche se molti tecnici dovranno farne parte – ma una coalizione di soggetti politici consapevoli che occorre unire le forze per fare quelle riforme strutturali che né centro-destra né centro-sinistra sono fin qui stati capaci di realizzare. Un’opzione che non credo rientri tra quelle immaginabili da Berlusconi, e che se anche lo fosse verrebbe snaturata da una concezione tutta mercantile della politica. Dunque, se non può essere il premier a farsi promotore di un’iniziativa in questa direzione, occorrono altri facitori. Chi? Ovviamente chi parte per primo, la strada è sgombra. Ma volendo incitare i potenziali promotori, azzardo qualche nome e un percorso da seguire.

Di fronte alla necessità di grandi e gravi decisioni l’Udc dovrebbe prendere l’iniziativa unendo un arco che va da Tremonti a D’Alema a Maroni

Angela Merkel e Nicolas Sarkozy sono sempre più protagonisti assoluti del salvataggio della Grecia. Ieri sera a Bruxelles i leader della Ue hanno approvato il piano di aiuti ad Atene. A destra, Silvio Berlusconi. Nella pagina a fianco, José Socrates, premier portoghese che ieri ha incassato l’appoggio dell’Unione Europea in generale e di Sarkò in particolare

Sappiamo che delle due ipotesi, Berlusconi considera solo la prima. È dall’anno scorso che pensa di risolvere il logoramento cui lui personalmente e il suo governo sono sottoposti attraverso le elezioni anticipate. Ci ha provato in autunno, ma ha dovuto desistere. Ora le ha di nuovo evocate, e ancor più fatte evocare dai suoi, seppure – sembrerebbe – con molta meno convinzione. Probabilmente qualcuno gli ha spiegato che Napolitano non scioglierebbe mai le Camere senza aver verificato l’esistenza di alternative, e che tanti parlamentari del Pdl sono pronti a passare armi e bagagli con Fini e con l’Udc se intorno a questi due soggetti si raggruppassero le forze moderate contrarie alle elezioni. E per il Cavaliere andare alla conta e perdere sarebbe la fine. Dunque, prima di tentare questa strada fino in fondo ci penserà bene. Diciamo che è ragionevole pensare che solo una clamorosa sottovalutazione del partito anti-elezioni, magari per colpa di qualche consigliere stolto, o una sua condizione di disperazione politica, potrebbero indurlo al grande passo. Nell’incertezza, c’è solo da auspicare che decida al più presto: ora o mai più. In caso di scelta negativa,

L ’i ni zi a t iv a po tr e bb e e dovrebbe prenderla l’Udc. Casini, nella misura in cui lavora a costruire un partito nuovo per la Terza Repubblica, deve però giocare una partita attiva nell’attuale scenario politico. Di fronte ad una situazione che richiede grandi e gravi decisioni – un intervento coraggioso su pensioni e sanità, la semplificazione delle amministrazioni pubbliche, in particolare quelle del decentramento, una riduzione una-tantum del debito pubblico, una riforma radicale della giustizia – l’Udc mostrerebbe di avere senso dello Stato e fiuto politico se decidesse di abbandonare i banchi dell’opposizione. Non per entrare in questo governo, ma per allargare la maggioranza. Allargarla non tanto in termini di numeri – che non ne ha bisogno – quanto in termini qualitativi e di agenda politica. Fino a modificarne il dna. Per farlo dovrebbe porre condizioni, aprire tavoli di negoziato. Interlocutori? Tremonti, in primis. E poi Fini, D’Alema, Maroni e chi tra i berluscones se la sente di fare da pontiere con il Cavaliere. E fuori dal mondo politico in senso stretto? Draghi, qualche esponente di Confindustria non necessariamente del presente o del passato prossimo, personalità di cerniera come Ferrara e Mieli. Sono solo esempi, naturalmente, quello che conta è il metodo. Vogliamo provarci? Vuoi vedere che laddove non sono riusciti altri in altre circostanze, riescano Moody’s e le altre agenzie di rating a creare le condizioni per scrivere la parola fine in calce a questo strazio di Seconda Repubblica? (www.enricocisnetto.it)


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l’approfondimento

Le agenzie di rating ormai hanno acquisito un potere enorme, tanto da poter condizionare le politiche degli Stati

L’uomo ombra

Si chiama Raymond W. McDaniel, è il capo di Moody’s e uno dei manager più pagati e temuti al mondo. Da lui (e dai suoi computer) dipende la stabilità dei nostri mercati. Ma ieri, sui conti italiani, ha fatto una mezza marcia indietro di Francesco Pacifico

ROMA. Chissà se anche questa volta Raymond W. McDaniel jr sarà costretto a prendere carta e penna e scusarsi con i mercati. L’ultima volta, era il 2008, dovette intervenire dopo che i suoi analisti avevano sbagliato a calcolare il rating su alcuni bond. Poca cosa rispetto al pasticciaccio dell’altro ieri. Stavolta la sua Moody’s l’ha fatta davvero grossa denunciando, dopo il crack greco, il possibile contagio sul debito sovrano e sulle banche di Portogallo, Spagna, Regno Unito e Italia. Ipotesi che ha fatto crollare le Borse e soltanto a Piazza Affari bruciare 17 miliardi. Cioè i guadagni di dieci mesi.

Ieri il responsabile italiano di Moody’s, Alexander Kockerbech, ha fatto retromarcia: «Roma è vaccinata in questa situazione di crisi». Fatto sta che l’agenzia che vede tra i suoi soci il guru Warren Buffett, non è nuova a certi scivoloni. Al suo attivo ci sono le promozioni dei Tango bond, di Fannie Mae o di Lehman Brothers. Ma stavolta, toccando un tema delicato come la stabilità bancaria a mercati aperti, si è acuita una ferita da chiudere soltanto

con un intervento legislativo. scienze politiche. È entrato gioVa da sé che tanto basta a met- vanissimo nell’ufficio del procutere a rischio l’indipendenza di ratore di NewYork, dal 1987 è in un settore che per quanto legato Moody’s, dove è partito dal basa tre sole realtà – Moody’s, so per arrivare in alto. In questi Standard & Poor’s e Fitch – fa- 23 anni ha girato per il mondo rebbe molti più danni se passas- (la vecchia Europa, gli emergense sotto l’egida pubblica. Fosse ti di America e Asia), ha imparaanche sotto forme dell’agenzia to a parlare con le istituzioni e a sovranazionale e terza ipotizza- leggere i bilanci pubblici. L’eta in ambito Ue. sperienza gli è servita per imEd è proprio quando finisce nel plementare nuovi modelli e mirino l’autonomia del settore, strumenti di ricerca sulla cresciche scendono in campo perso- ta delle economie ricche e povenaggi come McDaniel. Uomo da re. L’ha forgiato per la comples5,4 milioni di dollari (dei quali sa partita a poker che sta giosoltanto 936mila attraverso il cando da due anni con le istitusalario), cinquantenne in forma zioni americane. Gli Usa, senza bigrazie a tanto sogno di prove, sport, proprio hanno sentenziapartendo dal suo to che non è stata curriculum si trasparente l’opecomprende perra delle agenzie ché gli azionisti di rating. Ma non l’abbiano scelto hanno la forza di per guidare comminare la peun’azienda nata na né di imporre i un secolo fa per correttivi. valutare la stabiNel 2008 il manalità delle emisger non ha avuto sioni delle ferroproblemi ad amvie. McDaniel si Il ceo di Moody’s, mettere alla Caè laureato brillantemente in Raymond W. McDaniel jr. mera «che la spinA destra, il politologo ta al profitto allegge e si è speEdward Luttwak l’interno del suo in cializzato

gruppo ha messo a rischio la qualità dei rating». Un anno dopo, e davanti al House Committee on Oversight and Government Reform assieme con i suoi colleghi Deven Sharma (Standard & Poor’s) e Stephen Joyint (Fitch) si è detto sorpreso di quanto stava accadendo, respingendo però ogni responsabilità sul buco nei subprime. «Siamo continuamente beccati da banchieri, assicuratori e investitori», spiegò, «Abbiamo cambiato le nostre procedure rafforzando gli standard, oltre ad aver assunto altri analisti per la sorveglianza». Non è più tempo di ammende. Al netto delle differenze sulla riforma della finanza, in Europa tutti i governi marciano verso un’agenzia di rating pubblica. Michel Barnier, commissario europeo alle Finanze, ha detto che il settore è in balia di «poche, poco diversificate e tutte americane realtà». Accusate, se non bastasse, di «aiutare Wall Street a scommettere al ribasso contro il ventre molle dell’Ue e contro l’euro».

Anche Oltreoceano il tema è centrale. Ma nella riforma della finanza in discussione al Sena-

to non ci sono i paletti che si auspicavano. Carl Levin, democratico alla guida di una sottocommissione inquirente per fare luce sul monopolio di S&P’s, Moody’s e Fitch, ha affermato che «hanno permesso a Wall Street di lasciare la sua impronta sulle loro analisi, sulla loro indipendenza e sulla loro reputazione di serietà». Dubbi poi dall’altra sponda finanziaria dell’Atlantico, la City di Londra. Tony Barber sul Financial Times di ieri, si è scagliato contro «le ignoranti élite della Ue che fumano di fronte ai mercati» e ha bollato l’agenzia europea di rating come un ostacolo agli «investitori reali che gestiscono soldi reali di gente reale». Nel 2008 però McDaniel conquistò il plauso e il rispetto di stampa, operatori, e autorità facendo ammenda sui giudizi dati ad alcuni bond europei. Tutto nacque da un’inchiesta del Ft, che scoprì triple A immeritate verso prodotti strutturati quali i Cpdo (constant proportion debt obbligation). Il manager prese carta e penna e scrisse a tutti i suoi clienti ammettendo le falle nel modello matematico utilizzato. «Ma


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Gli Stati Uniti riprendono a crescere: che succederà adesso se gli alleati cedono?

«Il crollo dell’Europa può essere il vero Afghanistan degli Usa» Edward Luttwak è pessimista: «Non c’è, nella Ue, una vera leadership in grado di imporre subito una patrimoniale o l’uscita dall’Euro» di Pierre Chiartano a cancelliera Angela Merkel ha lanciato l’allarme: la crisi greca mette a rischio la tenuta dell’intera Europa. Ma la situazione è considerata grave anche a Washington. La turbolenza di Wall Street e l’apprensione della Casa Bianca ne sono il sintomo, visto anche che difficilmente la classe politica europea sarà in grado di varare le politiche di rigore necessarie per fermare il contagio. Liberal ha chiesto a Edward Luttwak, esperto di politica internazionale e ottimo conoscitore dell’Europa e dell’Italia, cosa rischia Eurolandia dalla crisi ellenica. «La Grecia è solo il primo vagone che è entrato nel tunnel. La crisi è molto grave. Atene fin dalla sua entrata nell’euro ha sofferto per lo squilibrio dei conti. Ha falsificato i dati finanziari fin dall’inizio. C’è una serie di Paesi, inclusa l’Inghilterra, che hanno debiti pubblici eccessivi. Il debito pubblico, a meno che non sia il residuo di un conflitto bellico – che poi si smaltisce – dovrebbe corrispondere a delle infrastrutture utili. Infrastrutture che poi rendono e aiutano a ripianare il buco di bilancio di uno Stato. In Grecia, come in Spagna, Portogallo e Italia, il debito pubblico è l’accumulo di una spesa statale eccessiva. Prima di tutto verso i propri dipendenti: una spesa a cui non corrisponde alcuna forma di produttività. Non siamo ancora entrati veramente nella crisi, siamo in pre-crisi. Nessuno parla delle uniche due soluzioni che abbiamo davanti. La prima è una grande tassa patrimoniale che riporti i soldi dalla società allo Stato, per liquidare questi debiti. La seconda è uscire dall’euro e permettere che l’inflazione eroda i titoli del debito pubblico. Il fatto che neanche se ne parli di queste due soluzioni vuol dire che non siamo ancora entrati nella fase della gestione della crisi».

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Luttwak, poi, entra a gamba tesa nel merito della situazione italiana: «Ci sono pensionati della Regione Sicilia che prendono mezzo milione di euro all’anno. Il presidente della provincia di Bolzano ha uno stipendio mensile 25mila euro. Facciamo i conti al governo del Molise. Ha un decimo della popolazione della città di Houston nel Texas, però ha bisogno di un presidente di regione, di due presidenti di pro-

vincia e relative giunte, più i comuni e le comunità montane. Houston è governata da un sindaco e dodici cancellieri». Ma la cura che Luttwak prefigura è una rivoluzione copernicana che prevede una classe politica europea all’altezza del compito. Specialmente in Italia. «Nel caso italiano non sono stati all’altezza in passato e non lo sono ora. Basta guardare le giovani generazioni: sono demoralizzate. Un fatto ben misurato dal drammaticamente basso livello di natalità. Una mancanza di fiducia nel futuro che non è d’origine emotiva, ma si basa su fatti concreti.Vivono in una società paralizzata. Il debito del passato si somma al debito del presente, perché si continua a spendere male. Qualche anno fa in Italia è stato pubblicato un libro sugli sprechi della “casta”. Nulla è cambiato da allora. Se la città di Houston volesse investire un paio di miliardi di dollari in un centro di ricerche mediche dove poter impiegare i giovani laureati, lo può fare. Perché non deve utilizzare le risorse finanziare per pagare le pensioni di quelli che non hanno lavorato». E la differente matrice etica e culturale – protestanti da una parte latini dall’altra – non convince il professore statunitense. «L’Italia della Prima Repubblica si è auto-traghettata, con un po’ di aiuto e un minimo di investimento straniero, dalla povertà verso la ricchezza. Lo ha fatto molto rapidamente, facendo i giusti investimenti e so-

prattutto senza gli esosi pensionamenti della Regione Sicilia». Però quelli erano i tempi di Alcide De Gasperi e dei primi governi di coalizione. «Comunque erano i tempi precedenti a questa degenerazione. Prima che la classe politica italiana moltiplicasse i posti inutili per mantenersi in vita. Il Friuli era una terra poverissima, quando ero bambino e vivevo in Italia. E sono riusciti a passare dalla povertà alla ricchezza».

Se l’Italia si agita in acque stagnanti, fra mille e giuste recriminazioni su passato e presente, e sulle occasioni mancate, non è facile abituarsi a una Germania “spaventata”, visto che è sempre stata la locomotiva d’Europa. «Se la Grecia non esce dall’euro lo potrebbe fare la Germania. Questa idea sta già circolando a Berlino. C’è un brutale problema politico. Se tu sei il cancelliere tedesco, indipendentemente dalla tua personalità politica, e devi spiegare ai tuoi concittadini che devono prestare soldi ai greci per pagare le loro baby pensioni – come gli impiegati della Banca d’Italia, pensionati a 51 anni – come fai? Come fai a spiegare ai tedeschi che lavorano fino a 65 anni – con un progetto di allungare fino a 70 anni la longevità lavorativa – un fatto simile? Non è possibile. Neanche un genio politico ci riuscirebbe». Ora le ansie di Eurotower sono concentrate su Atene, ma quale altro tassello del domino delle finanze disastrate sarà il successivo? L’elenco non è corto e la prognosi è ancora riservata. «Serve guardare i numeri, cioè crescita e debito. In America il debito è molto alto, per cui le prossime elezioni di medio termine in novembre, avremo risultati drastici. Per fortuna abbiamo elezioni ogni due anni per la verifica di governo. Chi verrà eletto sicuramente promuoverà numerosi tagli. Però dobbiamo ricordarci che gli Usa sono di nuovo in crescita. Siamo sopra il tre per cento di pil. E chi cresce rapidamente smaltisce i debiti. In Europa invece si fanno solo tagli a casaccio senza riforme strutturali. L’Europa ha scelto di non avere un governo forte. Ora è più difficile affrontare una situazione di crisi, dove invece servire una vera leadership. Uscire da una simile situazione contraendo altri debiti non può funzionare. Ma questa crisi preoccupa enormemente gli Usa. La politica americana responsabile ha sempre favorito un’Europa forte e unificata. La gente seria a Washington ha sempre voluto avere una controparte europea solida». E con la Germania fuori dall’euro – se mai dovesse avvenire – per gli Usa il problema sarebbe enorme «altro che il pantano dell’Afghanistan!».

nessun cambiamento verrà approntato se non per migliorare l’accuratezza del calcolo».

Scelta che confermò il suo piglio di decisionista, evitò l’apertura di un’inchiesta da parte della Sec, la Consob americana, calmò le ire di alcuni investitori (tanti quelli con perdite pari al 60 per cento) e frenò le accuse di chi, come il Wall Street Journal, parlava del trasferimento di funzionari troppo pignoli rispetto ai desiderata di clienti bancari. Non contento il ceo di Moody’s ha anche approfittato della cosa per fare un profondo repulisti di alti dirigenti e di semplice impiegati, rei di «aver violato le regole interne di condotta». Ma tutto questo era due anni fa. Accanto alla guerra con le istituzioni c’è una battaglia, non meno strategica, per recuperare le perdite inanellate nel biennio 2008-2009 e salvare quello che rimane del buon nome della casa. Perché fino ad allora la gestione McDaniel è stata una tra le più remunerative. Ma se il boom avvenuto tra il 2000 e il 2007 (profitti superiori al 53 per cento rispetto alla media) è avvenuto con le cartolarizzazioni fatte da grandi banche come da piccoli enti locali, la tendenza è cambiata quando la crisi ha fatto crollare il numero di emissioni e la conseguente richiesta di rating. I profitti infatti sono precipitati del 30 per cento e soltanto nel primo trimestre 2010 si è rivisto un segno positivo. Va da sé che tanta debolezza ha finito per portare alla luce un sistema dove non tutto risponde a logiche economiche. Al riguardo, dalle colonne del Corriere della Sera, Federico Fubini ha raccontato che queste realtà «con i governi non fanno soldi. Probabilmente ne perdono: le commissioni pagate da Roma o Berlino per farsi giudicare non coprono né il salario degli analisti coinvolti né le loro spese». Eppure lavorare con gli Stati val bene una perdita in bilancio se da questo business deriva «molto del potere delle agenzie di rating su banche e fondi d’investimento, e molta della loro visibilità». Ma se le cancellerie pagano male e tardi, non lesinano risorse clienti come banche o assicurazioni, gli stessi che direttamente o indirettamente investono sulle monete oppure emettono bond che sono giudicate proprio dalla agenzie di rating. Inutile dire che si sfiora il conflitto d’interessi per l’intreccio tra chi dà i giudizi su bond emessi da quelle banche e da quelle imprese che hanno permesso a Standard & Poor’s, Moody’s e Ficht di mettere a bilancio grandi profitti. In fondo il compito più difficile di McDaniel è di evitare che qualcuno rompa il giocattolo.


diario

pagina 6 • 8 maggio 2010

Il caso. Ancora giochi di correnti interne al partito dietro all’esclusione (improvvisa) dell’ex vicepresidente Federico Gelli

Il Pd e la Giunta della discordia Ridimensionata l’area cattolica del “governo” toscano guidato da Rossi

FIRENZE. Sa molto di riunione carbonara quella che ieri ha visto allestire tavolate e palchi per i franceschiniani a Cortona. L’ala moderata del Pd doveva parlare del proprio futuro alla luce dell’investitura unanime - veltroniana soprattutto - del nuovo leader, ovvero Nichi Vendola a capo della sinistra liquida. Una sinistra non priva di contraddizioni a partire dagli stessi moderati cattolici. Dopo che i rutelliani sono stati emarginati e praticamente fuoriusciti, Fioroni ha minacciato la scissione, dopo che i lettiani stanno facendo il brutto e il cattivo tempo, resta da capire come doversi interfacciare con quella è l’anima ex-diesse del partito, ovvero quella che fa direttamente capo a Bersani, uno che pare navigare a vista... Cattolici nel caos, dunque. Un esempio tra tutti è quello della composizione della Giunta regionale toscana, che sì ha raggiunto la quadra nelle settimane scorse, ma attorno alla quale non si fermano le polemiche di ritorno. Siccome il “partito liquido” auspicato dal lìder màximo Veltroni è un’impostura cui nessuno all’interno del loft ha mai creduto, più che mai in Toscana - regione chiave dell’espressione politica della sinistra nazionale - bisogna fare un po’di chiarezza e raccontare come si può sacrificare un poverocristo di estrazione Margherita. Ci si riferisce in particolare alla vicenda di Federico Gelli, ex vicepresidente della Regione durante l’era Martini, e attualmente disoccupato della poli-

di Matteo Orsucci

lata, Gelli dentro. E Gelli lo sapeva pure, di starci dentro insomma, e come dire, per uno che aveva lavorato pure bene a fronte di un Governatorato Martini che onestamente non ha lasciato chissà che cosa, beh è un bel punto a suo favore. Poi però succede un patatrac... Le buone maniere di mantenere due assessorati per la Margherita all’interno dell’area diessina dovevano essere rispettate. Infatti c’erano Gelli e Salvadori in lizza. Ma ai cattolici stavolta è andata un po’ peggio e una telefonata

«Mi hanno avvertito la mattina dopo: che cosa sia accaduto e perché, proprio non lo so», dice il leader locale della minoranza democrat tica. Il neo-governatore, Enrico Rossi s’è trovato costretto, suo malgrado, a farlo fuori. Sono i rumors che circolano con insistenza e che le maledette malelingue delle stanze del Pd non cessano di alimentare. Ma come si fa a non mettere in giunta uno come lui? Ma perché? Che si saranno detti? Forse una mezza parola di troppo... Macché. Rossi lo aveva inserito all’interno della propria giunta. Figurarsi se uno come il dolce Enrico alla guida della Toscana se ne sarebbe privato. Giunta compi-

dell’ultimo momento ha fatto fuori Gelli. Le solite malelingue illustrano un Franceschini atto ad alzare cornetta e comporre il numero. Del resto si sa come vanno certe cose: c’è questo che è amico di tizio, ma tizio è molto amico di caio, per non parlare di sempronio... Di fatto l’area cattolica s’è presa un assessorato regionale all’agricoltura con Salvadori, e Gelli è tornato col camice bianco nell’azienda ospedaliera di Pisa, ovvero il suo vecchio lavoro, ovvero la società civile, giusto per scomodare la

Il seminario dei franceschiniani a Cortona

Dario alla riscossa CORTONA. «Serve un cambio di passo, non solo nella gestione ma nel modo di essere del Pd». Lo ha detto Dario Franceschini alla convention di Area Democratica, la corrente di mioranza che ieri si è riunita a Cortona. L’ex segretario del Pd ha sottolineando che «è tempo di un riformismo coraggioso, se non ora quando? Quando verrà il momento del coraggio riformista se non ora che siamo all’opposizione? che non abbiamo imminenti appuntamenti elettorali? Non possiamo dare - ha concluso - l’impressione di essere sempre quelli che giocano in difesa».

Prima di lui, a infiammare la platea di Cortona ci aveva pensato il politologo Roberto D’Alimonte per una disanima del voto che non ha risparmiato scudisciate ai dirigenti democratici, nessuno escluso: sia quelli dell’area oggi maggioranza del partito. Sia quelli che oggi sono in minoranza dopo aver guidato Largo del Nazareno. «Il dato del 2008 – ha detto D’Alimonte - mostra che la diffe-

renza tra Pdl e Pd nelle 13 regioni andate al voto nel 2010 era di 700mila voti. Si tratta di 10milioni 300mila voti che è un risultato straordinario. Ma è stato buttato via». A questo punto D’Alimonte è stato interrotto da un prolungato applauso ed è stato lui stesso a chiedere di poter finire la frase. «Fatemi finire perché questa frase

me la sono preparata bene: quel risultato straordinario è stato buttato via da chi ha denigrato quel risultato fin dal giorno dopo le elezioni, ma anche da chi questo risultato non l’ha saputo difendere». Anche in questo caso D’Alimonte ha raccolto un applauso; ancora più lungo e più forte del primo.

lingua di legno della Serracchiani... Il Pd in Toscana gioco forza è il bacino di voti di riferimento, hanno banche, capitali coraggiosi e via andare... I cattolici, la cosiddetta area moderata, ha però subìto in questi mesi duri colpi. Il caso Gelli è l’ultimo della serie: «Sono stato avvertito la mattina seguente della composizione della Giunta - spiega Gelli a liberal - e appunto ho appreso che non avrei fatto parte della squadra del presidente». Già, fatto fuori da tutti gli uomini del presidente... «L’ultima parola spetta a Rossi, questo è ovvio, però cosa sia accaduto nelle ore tra il mio ultimo contatto con lui, quando ancora ero dentro, e la mattina io onestamente non lo so, posso solo fare supposizioni». Gelli le supposizioni le fa, si è esposto anche troppo, ha parlato lui stesso di telefonate e linee che scottavano, manco stessimo parlando di Calciopoli e scudetti di cartone... Ma Gelli, dal suo studio e in camice bianco, ha anche la serenità del personaggio civile: «L’area cattolica rischia di diventare qualcosa di marginale, di residuale all’interno del Pd. Se penso anche ai nomi nazionali che sono fuoriusciti dal partito ne trovo conferma...». Al di là delle analisi di ampio spettro, qui il germe cova una febbre latente: Rossi, sotto Martini, è stato quello che ha detto che la kill pill Ru486 doveva essere assunta solo in ambito ospedaliero, altro che aborto chimico prèt-à- porter...

Linea formigoniana, insomma. Cosa che ai radicali non è piaciuta molto. Nei giorni di Eluana la difese dall’impeto eutanasico del dottor Srebot, papà della Ru486 guarda un po’, e che si era prodigato per toglierla di mezzo quale affermazione dei diritti assoluti dell’uomo e tutte quelle simpatiche cose dei relativisti sempre a un passettino dal baratro nichilista. Insomma, Rossi si destreggia bene sull’etica, ma i cattolici sono poco rappresentati. Curioso poi che Rossi sia un bersaniano, ma risponda anche ai tiramenti di Franceschini. Gelli intanto è tornato a fare il medico «perché mi sembra il minimo, non voglio incarichi o prebende, stimo chi vive di politica ma io ho la mia vita al di fuori di essa, e resto a disposizione di Enrico con le mie competenze».


diario

8 maggio 2010 • pagina 7

Dopo Novara e Varallo prosegue l’offensiva lumbàrd

Non colpevoli Carboni, Calò e Diotallevi, come nel 2007

La lega replica, anche Biella dichiara guerra al burqa

Caso Calvi, tutti assolti in Appello gli imputati

BIELLA. Dopo Varallo e Nova-

ROMA. La Corte d’Assise d’Ap-

ra, anche Cossato risponde al precetto leghista. A cerchi sempre più concentrici, la guerra padana contro il burqa ha conquistato ieri anche il piccolo centro del biellese, in virtù di una delibera del primo cittadino locale, che prevede una multa compresa tra i venticinque e i cinquecento euro per chiunque sia sorpreso a volto coperto. Claudio Corradino, sindaco leghista di Cossato, ha firmato un’ordinanza che sanziona chiunque, per strada, indossi un copricapo o un casco che impedisca l’individuazione del soggetto.

pello di Roma presieduta da Guido Catenacci ha confermato ieri l’assoluzione di Flavio Carboni, di Pippo Calò e di Ernesto Diotallevi dall’accusa di essere i responsabili della morte del banchiere Roberto Calvi, trovato impiccato a Londra sotto il Ponte dei Frati Neri il 18 giugno dell’82. La sentenza pronunciata ieri ricalca quella del 6 giugno del 2007. Allora il pm Luca Tescaroli, ieri di nuovo in aula come pg, sollecitò quattro condanne all’ergastolo, oltre a quella dei tre imputati assolti ieri, anche per Silvano Vittor. Chiese, invece, allora, l’assoluzione per Manuela Klenszig e di conseguenza per lei non ci fu appello. In aula non

ll documento approvato dalla maggioranza, non fa riferimenti precisi al burqa o indumenti simili, ma a giudicare dal clima tardo-primaverile, non si allude certo a incauti residenti che sfidano le prime calure al riparo di passamontagna. Nè tantomeno è plausibile, ritenere che qualcuno che non sia un rapinatore faccia la fila alle poste, con il casco integrale ben calcato sul viso. A vigilare sul rispetto dell’ennesima normativa a tolleranza zero, saranno chiamate tutte le forze dell’ordine. D’altra parte, il primo cittadino leghista fa sapere che «a Cossato non c’è un’emergenza sicurezza, la mia non è un’ordi-

«Quel calcio di Totti, una cosa inconsulta» Napolitano contro il gesto del capitano giallorosso di Francesco Lo Dico

ROMA. Espulsione diretta mercoledì scorso. Accuse di razzismo giovedì, e biasimo più o meno collettivo previsto per tutto il week-end. Poi si riparte di slancio lunedì prossimo con squalifica di tre giornate (probabile) e deferimento (più o meno certo). Il calcione rifilato sulle natiche di Balotelli nel corso dell’arroventata finale di Coppa Italia contro l’Inter, ha stretto intorno a Francesco Totti una marcatura mediatica senza precedenti. Non ultimo, arriva il cartellino giallo del Presidente. Non nel senso di Rosella Sensi, ma di Giorgio Napolitano. A margine della presentazione dei candidati ai David di Donatello, il capo dello Stato ha ieri sanzionato il brutto fallo del capitano giallorosso come «una cosa inconsulta». «Ci sono forme di tifo selvaggio che danno luogo a violenze intollerabili, che oggi si esprimono negli stadi – ha spiegato l’inquilino del Quirinale – ma domani chissà dove possono arrivare. È un fenomeno preoccupante e le società calcistiche dovrebbero reagire di più». Violenze intollerabili negli stadi come in campo. L’associazione con il raptus del numero dieci è scattata inevitabile tra gli astanti, e il presidente non si è sottratto alla richiesta di un commento: «È un fatto che rientra proprio in questo panorama, ed è una cosa inconsulta».

sto, rinfocolando anzi le cronache sportive e gli animi dei tifosi di ulteriori motivi di battaglia. «Chi mi conosce – si è schermito il Pupone – sa perfettamente che una mia reazione viene sempre generata da una provocazione. Sentire che un calciatore alle prime armi, ma con grandi doti, offenda ripetutamente i miei tifosi, la mia città, il mio senso di appartenenza a Roma, oltre a me personalmente, dicendomi che sono finito, è insopportabile. Non si può tollerare che ’lui’ abbia sempre la possibilità di provocare tutti, compresi i suoi tifosi e quelli avversari e nessuno prenda in considerazione preventivamente i suoi atteggiamenti». Parole che, seppur umanamente condivisibili, hanno scritto altri caratteri di fuoco sul canovaccio barbarico dell’appartenenza, a uso e consumo dei tifosi. «Durante la gara, ”lui” – ha scritto il capitano giallorosso rivolgendosi a Balotelli come a una specie di “principale esponente dello schieramento avversario” – ha avuto nei riguardi dei miei compagni un atteggiamento provocatorio e questo è avvenuto anche in passato contro di noi. Certo, ho sbagliato nel commettere quel fallo, ma io sono sempre stato il primo a riconoscere i miei errori e a giustificare chi contro di me ha compiuto falli di gioco che mi hanno procurato anche infortuni gravi». Sarebbe stato meglio per il capitano, e soprattutto per il calcio, chiudere la coda polemica. Se l’eccesso di foga agonistica a un campione può essere perdonato, non così accade dopo il novantesimo.

«Ci sono forme di tifo che danno luogo a violenze intollerabili, le società devono reagire», commenta il Quirinale

nanza contro qualcuno. Voglio però sottolineare che chi viene nel nostro Paese ha diritti, ma anche doveri. Ci sono delle regole che devono essere rispettate. È un diritto poter conoscere l’interlocutore, italiano o straniero, in ogni circostanza: in banca, negli uffici pubblici, al mercato o per strada. Mi sembra solo un concetto di trasparenza e di sicurezza, nulla più». Stessa attenzione alla sicurezza e alla trasparenza anche a Novara, dove nei giorni scorsi una donna islamica è stata fermata dalla polizia e costretta a pagare una multa di cinquecento euro perché sorpresa a fare la fila alle Poste con indosso il burqa.

L’intervento del Presidente sul caso Totti, e non ad esempio sulla gragnuola di insulti che il giovane Mario Balotelli ha riversato secondo le ricostruzioni dell’attaccante all’indirizzo del popolo romanista, non va letto però come attestato di disistima o presa di posizione a favore di una parte o di un’altra. Il commento del Quirinale prende le mosse dalla considerazione che il capitano giallorosso infatti è una figura di spicco dell’establishment sportivo, una delle poche icone pulite dell’immaginario nazionale, e un alfiere quanto mai indispensabile nel portare la bandiera del fair-play dal basso del rettangolo verde agli spalti italiani sempre più esplosivi. E a caldo, Francesco Totti non aveva saputo prendere le giuste distanze dal suo ge-

Ma tra le tante, troppe cose, che Francesco avrebbe fatto meglio a pensare senza dire, una è sacrosanta. Al netto delle critiche piovutegli addosso dalla politica (visto il “problema sicurezza”, e il suo ruolo nel calcio, ci stanno tutte), Totti ha spiegato che anche vip a vario titolo, «personaggi» che «dal calcio traggono solo vantaggi e visibilità» hanno inzuppato il proprio pezzetto di pane nella vicenda. Più che della pedata di Francesco al popò di Balotelli, meglio avrebbero fatto a occuparsi delle proprie.

era presente Flavio Carboni, che invece ha seguito tutte le udienze precedenti. Presente al contrario Diotallevi.

La sentenza è stata accolta con soddisfazione: «Anche se fa un certo effetto essere assolti da un suicidio - hanno detto i penalisti - siamo molto contenti perché nei confronti di questa vicenda e di Carboni negli anni si è scatenata una sorta di persecuzione giudiziaria, elevando a rango di prove o di indizi congetture e sospetti di carattere romanzesco. Due Corti d’Assise di grande rigore hanno fatto giustizia e ci auguriamo davvero che non si proceda sulla strada dell’accusa». Per il pg Tescaroli, «la sentenza pur assolvendo gli imputati conferma che Calvi è stato assassinato». «La sentenza - ha detto - va rispettata in quanto espressione di democrazia, ma bisogna riflettere perché, nelle prospettive dei familiari del banchiere, questa pronuncia lo uccide due volte. Ricordiamo che i congiunti hanno dovuto attendere 18 anni prima che venisse riconosciuto il reato di omicidio volontario. Ora valuteremo se presentare ricorso in Cassazione; leggeremo le motivazioni di una sentenza che comunque convalida il lavoro fatto».


politica

pagina 8 • 8 maggio 2010

Leader. Vertice tra il premier e il ministro dell’Economia: sul tavolo, le strategie Ue e la successione a Scajola

Il dilemma di Silvio Per non cadere tra crisi e scandali, è più importante difendersi da Fini o da Tremonti? di Errico Novi

ROMA. Tutto chiaro? Quasi. Al presidente del Consiglio diventa ogni giorno più evidente il nesso tra la forza politica della sua leadership e la vulnerabilità del Paese al fuoco degli speculatori. Più diminuisce la prima, più è fragile la maggioranza da lui tenuta insieme, e più l’Italia soffre le montagne russe dei mercati. Così sostengono almeno nell’entourage di Berlusconi: «La caduta registrata giovedì a Piazza Affari dipende dal momento difficile del Pdl, colpito al cuore dalle inchieste e dagli scandali». Può darsi. Ma è anche vero che a rimodulare le pessime intenzioni di Moody’s ha contribuito un vigoroso sbilanciamento di Bankitalia sulla solidità del sistema bancario e sul «deficit corrente basso», obiezione quest’ultima che richiama direttamente al buon lavoro svolto finora dal ministro dell’Economia. C’è insomma davanti agli occhi del Cavaliere uno scenario in cui le disavventure dei suoi uomini macchina, Verdini e Scajola, aprono la crepa, e la credibilità di Tremonti la ricompone. Non è il massimo, per il Cavaliere, tutt’altro. Si avvicina lo spettro di un suo personale declassamento a variabile secondaria del sistema. È l’effetto della crisi che impone priorità diverse per il prosieguo della legislatura: ci sarà forse meno spazio per un robusto riassetto costituzionale della forma di governo, della giustizia; passano al primo punto dell’agenda politica, oltre al federalismo su cui vigila Bossi, gli interventi strutturali per sostenere la ripresa. Giulio Tremonti ha sempre più il centro della scena. Il Cavaliere può concedersi al massimo una parte da garante della maggioranza. Non molto di più. Con una simile ombra sullo sfondo, Berlusconi prende da parte il ministro dell’Economia e, per parlare da solo con lui, fa slittare di due ore il Consiglio dei ministri. Al chiuso dello studio presidenziale di Palazzo Chigi, gli chiede un prospetto completo sulla crisi finanziaria, sulle possibili nuove scivolate dei mercati. Prepara con cura il vertice dei Capi di Stato e di go-

verno europei previsto per la serata, confronta con il responsabile di via XX Settembre gli esiti delle conversazioni intercorse nelle ore precedenti tra Palazzo Chigi e diversi leader dalla Ue: da Nicolas Sakozy a Zapatero, dal presidente della commissione europea Barroso al vertice del Consiglio dell’Unione Van Rompuy. Colloqui di cui Berlusconi dà anche notizia con una nota diffusa in mattinata. Ma tra il Capo del governo e Tremonti si discute anche

che Romani non potrebbe assumere. Al momento infatti il fedelissimo del premier già occupa la carica di viceministro e detiene le competenze sulle Comunicazioni, materia che ovviamente sta molto a cuore al presidente del Consiglio. Quelle resterebbero nel portafoglio di Romani anche in caso di promozione a ministro. Ma proprio per questo altre deleghe lasciate in eredità da Scajola dovrebbero essere trasferite a un nuovo viceministro: per

«C’è il rischio che le scosse nella maggioranza favoriscano l’aggressione degli speculatori al nostro Paese», dicono dall’entourage di Berlusconi. Che però teme soprattutto il rafforzarsi di Giulio e della Lega della successione di Claudio Scajola. Argomento rispetto al quale il Cavaliere non può allontanare il fantasma evocato da molti gossip: il suo nome preferito, quello di Paolo Romani, farebbe felice Tremonti in quanto piuttosto debole. Anche se fonti della maggioranza spiegano lo stallo sulla nomina allo Sviluppo economico in modo diverso: il vero problema riguarderebbe alcune deleghe

esempio l’Industria e, dicono alcuni, anche il nucleare.

Qui entrano in gioco le ambizioni del Carroccio. Preso atto di non poter ottenere un nuovo ministero (né quello allo Sviluppo economico né il dicastero dell’Agricoltura) il partito di Bossi intende giocare le proprie fiches su quella poltrona di vice che, con il nuovo assetto dato al ministero di via Veneto,

diventerebbe assai prestigiosa. Nomi peraltro è difficile farne: c’è Giancarlo Giorgetti, ma la sua posizione di presidente della commissione Bilancio di Montecitorio viene ritenuta troppo strategica da Bossi per pensare di metterla in gioco. Tocca in ogni caso a Berlusconi decidere se assecondare le richieste della Lega o lasciare inalterate le bandierine, con lo Sviluppo economico tutto in mano all’ex Forza Italia. È anche vero però che il dubbio dimostra ancora una volta al Cavaliere quante siano le voci da ascoltare, e assecondare nella sua maggioranza: Tremonti, Fini, Bossi, il correntone degli uo-

mini apparato, gli altri ex di An, e l’elenco degli azionisti può continuare.

La Lega cresce e si avvantaggia delle tensioni nel Pdl. Destinate peraltro a non attenuarsi, a guardare il tono del dibattito di ieri. Il berlusconiano doc Gaetano Quagliariello rilancia i dubbi del premier sulla presenza dei finiani nelle trasmissioni televisive («nei dibattiti il partito dovrebbe avere un unico rappresentante»), gli uomini del presidente della Camera replicano con la richiesta di spazi equamente distribuiti. È però un livello di scontro ormai residuale. Non sembra avere più

Parla Landolfi, uomo forte in Campania dell’area che fa capo al sindaco di Roma: «Con noi tanti amministratori»

E il caos regala spazi ad Alemanno di Angela Rossi

ROMA. Quella finiana, quella più berlusconiana che annovera avanguardie come Michela Brambilla e il “correntone” del partito-struttura, con l’ampio sottogruppo degli ex An larussiani. Il Pdl appare così formato da macro aree all’interno delle quali però si è andata formando e consolidando un’area di consenso che si riconosce in Gianni Alemanno e che oggi pare forse la più organizzata sia dal punto di vista operativo che ideologico. Gli alemanniani si arricchiscono di scambi con altre espressioni autorevoli del Pdl, a cominciare da Maurizio Sacconi, ma si fanno forti soprattutto dell’assonanza culturale con le visioni di Giulio Tremonti. Forte e numerosa, la componente lavora, costruisce e coagula intorno a sé consensi e adesioni, anche grazie al vantaggio strategico di porsi al di fuori dei conflitti interni esplosi nelle ultime settimane tra i cofondatori del partito, Fini e Berlusconi. Un tempo in An la Destra sociale era una componente dalla forte identità ma minoritaria. Oggi, nel Pdl, gli spazi so-

no più ampi rispetto ad allora e quindi la corrente alemanniana, che può anche contare su una solida rete di amministratori locali, si aggrega su un piano trasversale rispetto agli altri schieramenti interni.

Storicamente nasce in un tempo non recente, dato che «affonda le sue radici culturali nel rautismo, riferimento non in senso progettuale», sostiene l’ex ministro delle Comunicazioni Mario Landolfi, che della corrente è uno dei nomi più noti. «Dell’area rautiana Alemanno riprende la suggestione dell’anima sociale. Rauti la concepì per tentare lo sfondamento a sinistra, Alemanno lo ha fatto per bilanciare una possibile deriva liberista di Alleanza nazionale e del centrodestra nel suo complesso. Ma è improprio parlare di correnti». Al di là della terminologia, però, il gruppo di coloro che si riconoscono in Alemanno è nutrito e forte. Soprattutto in Campania dove oltre a Landolfi si registra l’adesione del maggior nu-


politica

8 maggio 2010 • pagina 9

Dopo il tentativo di mediazione fatto giovedì dal Cavaliere

Si fa presto a dire tregua. Ecco le condizioni di Fini Il presidente della Camera chiede rappresentanza e garanzie. E un dibattito sui costi del federalismo di Riccardo Paradisi

margine, il Cavaliere, per intraprendere una guerra di sfinimento con Gianfranco Fini. E anzi la polemica sollevata ieri sullo spazio nei talk-show svela anche un altro allarme, per Berlusconi: l’assenza di personale politico all’altezza, in grado di condurre una credibile campagna contro il presidente della Camera. La questione non riguarda tanto Quagliariello, che fa esplodere il caso ma che in genere ha un altro tipo di mission nella compagine berlusconiana, né l’instancabile Maurizio Lupi, fin troppo esposto negli ultimi tempi. Il problema è generale, e le vicende poco edificanti in cui sono rimasti

coinvolti Verdini e Scajola non fanno altro che ricordarlo continuamente, al presidente del Consiglio. Scopertosi improvvisamente privo di una corazza affidabile, Berlusconi non può che osservare il contegno istituzionale con cui Tremonti, in Consiglio dei ministri, ricorda che sul provvedimento per gli aiuti alla Grecia ha potuto cogliere, giovedì, «il sostegno del Pd, dell’Udc e dell’Italia dei valori». Un profilo, quello del leader capace di garantire la coesione, che soprattutto l’Unione di centro ha riconosciuto al ministro. E nel quale Berlusconi intravede il rischio di un personale indebolimento.

mero di sindaci. Invece, tanto per fare qualche nome noto, al di fuori dei confini campani, all’area alemanniana appartengono ad esempio Alfredo Mantovano, Maurizio Castro e una deputata spesso annoverata anche nel campo dei finiani come Barbara Saltamartini. «C’è un’area di consenso», continua Landolfi, «che è diventata qualcosa di più della Destra sociale, definizione che rimanda agli assetti di An. Oggi invece è di più soprattutto alla luce della vittoria al Comune di Roma. Facile argomentare che anche questa area si arricchirà delle contaminazioni all’interno del Pdl. In questo senso», dice ancora il parlamentare campano, «ci sono già stati contatti, in senso culturale e progettuale, con il ministro Sacconi e grande attenzione è riservata al ministro Tremonti. Diciamo che la nascita del Pdl scompagina e riaggrega in forme nuove quelle che erano le correnti di An, e la cosa riguarda tutti gli ex».

Un’anima che, anche attraverso la Fondazione Nuova Italia, da anni ramificatissima macchina organizzativa degli alemanniani, farà sentire tutto il suo peso nel primo congresso dalla nascita del partito unico, previsto entro la fine dell’anno. Modi e tempi dell’evento sono però ancora tutti da definire. «Dopo la direzione nazionale», conclude Landolfi, «c’è la consapevolezza che bisogna stare nel Pdl senza farsi affliggere dal torcicollo, senza tenere la testa voltata all’indietro, guardando avanti con contaminazioni culturali tra le diverse anime e lavorando per far diventare il Pdl un partito vero. Ricordiamo che ha solo quindici mesi di vita ed è nato dalla fusione di più partiti, quindi questo comporta problemi di amalgama. Ma in nessun modo la fusione può diventare confusione».

ROMA. Si fa presto a dire tregua. Più difficile immaginare su quali basi, su quale terreno politico concreto dovrebbe cominciare a distendersi il rapporto tra il premier Silvio Berlusconi e il presidente della camera Gianfranco Fini. Nella riunione di giovedì con gli ex leader di An – che hanno ancora aperto un ponte levatoio con Fini – il Cavaliere ha chiesto di cercare un negoziato di non belligeranza col presidente della Camera. Perchè è vero che le forze di cui dispone Fini sono esigue – in fondo una ventina di deputati alla Camera e una quindicina al Senato – ma si tratta di un contingente sufficiente a destabilizzare seriamente un equilibrio governativo minacciato dal vento greco e dalla spada di Damocle delle inchieste giudiziarie che sembra sospesa sul Pdl. Il punto è: su quali basi concrete potrà fondarsi questo patto? Non è semplice infatti per i cosiddetti pontieri individuare una piattaforma plausibile. A parte l’idiosincrasia personale tra Fini e Berlusconi ci sono strategie diverse che confliggono. Da un lato il premier ha bisogno del massimo d’unità e deve mantenere con la Lega un asse di interlocuzione privilegiato, essendo Bossi un architrave fondamentale della maggioranza; dall’altra Fini e la sua componente hanno bisogno, per esistere, di continuare a essere visibili rivendicando le posizioni che hanno portato al confronto interno e con esse differenziandosi: dalla battaglia parlamentare per la cittadinanza agli immigrati al Ddl anticorruzione, dalla rinegoziazione delle quote di rappresentanza interne al partito al vaglio attento di costi sul federalismo fiscale. Posizioni irriducibili su cui Berlusconi e la sua maggioranza non possono concedere troppo terreno. Anche se lo stesso Fini ha ora necessità, dopo aver marcato il suo statuto di oppositore interno, di fare economia di scontri. Per non indebolire la sua posizione istituzionale a vantaggio di quella meno autorevole e meno credibile di capocorrente di minoranza e per non accelerare una crisi che se dovesse portare a elezioni anticipate lo vedrebbe ancora impreparato alla navigazione solitaria. Queste sono le intenzioni: ma tra la ricerca d’una tregua e la sua realizzazione c’è di mezzo la fisiologia dello scontro interno al Pdl ormai divenuta coazione. Ai motivi della guerra permanente nel Pdl ora si aggiunge infatti il fronte mediatico. L’innesco della nuova polemica è una riflessione del vicepresidente vicario dei senatori Pdl Gaetano Quagliariello sul tema delle presenze degli esponenti del Pdl

nei talk show televisivi: «Nessuno nega che si sia creata una dissidenza all’interno del Pdl e che lo scontro tra Fini e Berlusconi sia avvenuto – dice Quagliariello – ma non possiamo pensare che da adesso in avanti diventi un abitudine che tra due persone elette tra le file dello stesso partito vengano invitate nei salotti del piccolo schermo in quanto portatori di due posizioni diverse.Tanto più che i finiani si comportano come se appartenessero ad una fazione diversa dalla nostra». Pronta la replica di Carmelo Briguglio che si qualifica ”esponente della minoranza interna finiana”: «Che vogliamo fare? Mandare un documento del partito alle redazioni perchè si uniformino?». Ma non c’è solo la fisiologia dello scontro a ostacolare l’accordo, c’è il fatto che i margini sono appunto stretti. Perché gli stessi ex di An che dovrebbero interloquire con Fini sono gli stessi che verrebbero penalizzati qualora dovesse essere effettivamente rinegoziata la logica spartitoria del 70-30 a vantaggio della componente finiana. Per la quale però gli accordi precedenti la fusione hanno cessato di valere ora che gli ex colonnelli non rispondono più a Fini ma a Berlusconi. «Un compromesso però lo si dovrà trovare, se non per amore per interesse» dice uno dei pontieri interpellato da liberal, che spiega quali sono le condizioni minime poste dal presidente della Camera. Anzitutto un maggior rispetto e una maggiore attenzione al suo ruolo di cofondatore. Poi l’apertura di una discussione sui costi del federalismo fiscale, richiesta peraltro opportuna visto che sembra mancare la necessaria copertura, quindi la garanzia che i suoi uomini non vengano colpiti dalla rappresaglia politica della maggioranza. Un primo test della buona volontà della maggioranza interna per favorire la tregua sarà il rinnovo delle presidenze di commissione alla Camera in scadenza tra due settimane.

Il problema dell’ex leader di An adesso è non indebolire la sua posizione istituzionale a vantaggio di quella di capocorrente

Test dirimente dal momento che i finiani siedono su alcune poltrone strategiche. Una su tutte: la commissione Giustizia guidata da Giulia Bongiorno. Si accontenteranno i finiani che vengano rispettate queste condizioni minime? E Berlusconi e la sua maggioranza gliele concederanno? Ancora: l’area movimentista finiana – i cosiddetti falchi – sarà disposta frenare i suoi cavalli di battaglia, a partire da quello della cittadinanza su cui il finiano Fabio Granata ha investito tanto? Il sentiero lungo cui corre la non belligeranza interna al Pdl è in realtà un filo di rasoio.


politica

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Grandi affari. Il capo della Protezione civile racconta la sua verità: «Nessuna irregolarità, speravo nell’archiviazione»

Il teatrino di Bertolaso

Conferenza stampa a Palazzo Chigi per rispondere alle inchieste ROMA. Guido Bertolaso è abituato a organizzare i soccorsi e a intervenire per mettere in sicurezza le popolazioni. Questa volta è lui una delle vittime dello “tsunami Anemone” che sta travolgendo uomini di governo, alti funzionari dello Stato e che è arrivato anche Oltretevere. Il capo della Protezione civile, con il suo solito efficentismo interventista, ha convocato una conferenza stampa a Palazzo Chigi per confermare «la totale fiducia nei magistrati», ma anche per evidenziare «una strumentalizzazione delle intercettazioni». Un Bertolaso in piena che non si è risparmiato davanti ai cronisti, esordendo con il racconto della lettera ricevuta da Bill Clinton, con cui l’ex presidente Usa si complimentava «per lo splendido lavoro fatto dall’Italia ad Haiti». Ma non c’è l’ha fatta a non piazzare una frase che farà sicuramente molto discutere: «Quando l’ho visto a fine marzo avevo voglia di fare battuta che non ho fatto, “caro presidente, io e lei abbiamo un problema che si chiama Monica, solo che - io non credo avere avuto problema con questa Monica, lui si”...». Continuando sulla presunta vicenda a sfondo sessuale della quale sarebbe stato protagonista ha aggiunto: «Francesca, la massaggiatrice del Salaria Sport Village, è una signora per bene. Una grande professionista ed è conosciuta in tutta Roma per l’attenzione che dà ai clienti. Le ho chiesto il suo cellulare per evitare di passare attraverso le prenotazioni: io volevo fare dei massaggi alla schiena che sono ovvi per via del lavoro che faccio. È vero: lo ammetto. Francesca mi ha fatto vedere le stelle. Mi ha “sconocchiato” il collo e la schiena... ». A proposito del centro sportivo di Diego Anemone ha detto: «Mia moglie, professionista in giardini, ebbe lavori da Anemone per il Salaria sport center, fece solo gli studi preliminari e ricevette 25mila euro regolarmente fatturati e, dopo avere pagato i suoi colleghi, le rimasero solo 7-8mila euro regolarmente denunciati nella dichiarazione dei redditi. Mia figlia ha fatto rieducazione. Come sarei potuto andare in

per me mettere un punto fermo e chiarire tutta una serie di situazioni». E ha preannunciando anche la possibilità di costituirsi «parte civile contro Anemone e Balducci quando le indagini saranno chiuse». Il capo della Protezione civile ha ricordato di aver incontrato i magistrati di Perugia durante il mese di aprile: «Sono stato con loro per sei ore» è ha confessato di essere «rimasto molto impressionato dalla loro serietà e severità, ma anche dalla professionalità e dall’equilibrio con il quale hanno gestito l’interrogatorio». E giusto per riprendere il paragone con l’ex presidente degli Stati Uniti Clinton Bertolaso ha detto testualmente: «Non ho mai mentito agli italiani per quello che riguarda il mio comportamento. Le accuse che mi vengono rivolte non hanno fondamento».

di Franco Insardà

Guido Bertolaso ieri si è difeso dalle accuse sugli appalti della Maddalena (a sinistra). Qui a destra, dall’alto, Angelo Balducci, Denis Verdini e Diego Anemone

un posto del genere a fare sesso a pagamento?».

E sempre sui suoi rapporti con Diego Anemone Bertolaso ha chiarito di aver conosciuto «prima il padre di Anemone e poi lui, il figlio Diego, così come ho conosciuto tanti altri

gli hanno chiesto se abbia paura di eventuali dichiarazioni di Anemone ai giornali e alle tv, come minacciato dallo stesso imprenditore, ha detto: «Se uno teme qualcosa cerca di tenere un profilo basso e non farebbe mai una conferenza stampa come questa. Io non ho nulla da temere e non ho nulla da nascondere e, come detto, non sono mai stato ricattabile. Non ho ricevuto alcun favore o privilegio, nessun viaggio, nes-

Il sottosegretario non teme le accuse di Anemone: «Non sono ricattabile, non ho mai mentito agli italiani sul mio comportamento» imprenditori. I miei rapporti sono sempre stati seri, chiari e corretti. Non mi sono mai messo in condizione di poter essere ricattato da Anemone perché lui non ha mai dato soldi a me. Casomai il contrario». E a riprova di quanto affermato esibisce una fattura di 20mila euro per lavori di falegnameria non per lavori impegnativi o di ristrutturazione dell’appartamento. Poi rispondendo ai cronisti che

sun parente è stato assunto, nessuna casa mi è stata affittata o comperata».

Dell’altro imputato eccellente, l’ex presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, Angelo Balducci, ha detto: «con me è sempre stato un gentiluomo corretto, non ho mai avuto ragione di dubitare di lui. Ogni volta che abbiamo fatto un lavoro insieme lui ha fatto presto e bene».

Il cuore della difesa di Guido Bertolaso è stato quando ha detto: «Sognavo di poter commentare oggi l’archiviazione oppure lo stralcio di quella che è la mia posizione dalla nota vicenda di questo procedimento penale in corso per i fatti che sono stati determinati anche da attività che mi hanno riguardato. Speravo che nell’arco di qualche settimana o di qualche mese la mia posizione fosse chiarita. Mi rendo conto che sulla base di tutto quello che accade ogni giorno probabilmente questa indagine sia destinata a protrarsi nel tempo e quindi, visti commenti e i riferimenti che vengono fatti continuamente al G8 e alla Protezione civile, era importante

A chi ha chiesto dell’opportunità della conferenza stampa Guido Bertolaso ha risposto: «Ritengo di avere il diritto di tutelare la mia immagine, quella della Protezione civile e della mia famiglia. Nel caso specifico ho chiesto al presidente del Consiglio di fare questa conferenza stampa e da lui sono stato autorizzato». Aggiungendo che «la conferenza nasce anche dopo la trasmissione di ieri sera (“Annozero”, ndr), non mi illudo che con questa conferenza stampa si passi un colpo di spugna sui commenti, ma sono contento di essere in un Paese democratico, adoro la libertà di stampa: ognuno può dire quello che vuole». E in attesa degli sviluppi che potrebbero arrivare dalla procura di Perugia, il sottosegretario alla Protezione civile chiude la sua autodafé con una velata minaccia ai suoi detrattori: «Io ho detto la mia, poi vedremo. C’è chi ha riso alle 3.32 per il terremoto in Abruzzo quindi ride bene chi ride per ultimo».


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

“Please Give” di Nicole Holofcener

BORGHESI A MANHATTAN

di Anselma Dell’Olio l bilancio del Tribeca International Film Festival è quello consueto: pochi film scrive la regista-scrittrice come una Woody Allen al femminile; idea non strampaottimi e una marea che vanno da interessanti a trascurabili. Mancano le lata, come si vedrà. Il titolo del quarto film di Holofcener è eloquente, il clasÈ un perle pregiate che a volte spuntano, come Lasciami entrare, appassico invito ai donatori di aprire i cordoni della borsa a beneficio di cause nobili. Il racconto gioca sulla tensione equivoca e contraddittoria sionante thriller d’amore tra un adolescente svedese tormentaWoody Allen coesistente tra impulso umanitario e istinto materialista della to e una vampiretta, e The Eclipse, indimenticabile ghost al femminile l’autrice borghesia bohémienne di Manhattan, i «Bobò»: quelli story irlandese, vincitori rispettivamente nel 2008 e nel di questo film da non perdere, che adorano e si sentono rappresentati dai film di 2009. Chicche a parte, molti film sono tecnicamente Woody Allen. Sì, perché in questo lucido, diverruvidi, e fa piacere vedere opere più rifinite, coapprodato al festival di Tribeca. Una esilarante tente film i valori morali cozzano continuamente me Get Low, con l’immenso Robert Duvall e quel commedia sui progressisti benestanti della con quelli immobiliari, per non parlare di quelli della miracolo di comicità ambulante che è Bill Murray, o Grande Mela, divisi tra impulso mobilia, punto centrale della trama. I protagonisti sono una Please Give, di cui ci occupiamo questa settimana. Il film è coppia sposata con una figlia teenager (la dotata Sarah Steele), dell’affermata cocca dei festival Nicole Holofcener (Walking and umanitario e istinto proprietari di un negozio di mobili vintage e con il fiuto per gli affari Talking 1996, Lovely and Amazing 2001, Friends With Money 2006, in materialista (specie se prodotti dalle disgrazie altrui, come le perle nelle ostriche), e due cui si è fidata di calare Jennifer Aniston nei panni di una colf depressa). sorelle dai caratteri contrapposti. Please Give era nella selezione ufficiale a Berlino e a Sundance. Spesso si de-

I

Parola chiave Handicap di Sergio Belardinelli Il matrimonio visto dalla Némirovsky di Pier Mario Fasanotti

NELLE PAGINE DI POESIA

Guido Guinizzelli: li dolci detti del “padre” di Dante di Francesco Napoli

La rivincita di Napoleone il piccolo di Enrico Singer Verità e menzogna istruzioni per l’uso di Riccardo Paradisi

Quando David resuscitò Tito Livio di Marco Vallora


borghesi a

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Rebecca (Rebecca Hall) è una trentenne single altruista che si occupa dell’anziana nonna che vive sola; lavora come tecnico delle mammografie in un centro medico. Mary (Amanda Peet) è la sorella caustica, egocentrica, superficiale, con la pelle color arancione per overdose di tintarella: è lettino abbronzante dipendente e lavora in un centro estetico, che è come se un alcolizzato lavorasse in un negozio di superalcolici. Andra (Ann Morgan Guilbert, veterana delle serie televisive, da Seinfeld e La Tata, a CurbYour Enthusiasm e Law and Order), l’ava nonuagenaria, ha appena venduto la nuda proprietà del suo appartamento ai vicini, Kate (Catherine Keener) e Alex (Oliver Platt), la coppia di antiquari bramosi d’inglobare i metri quadri adiacenti. Le due famiglie, se non propriamente amiche, sono buone conoscenti, predisposte a rapporti di buon vicinato, sia pure con diffidenza, visto gli interessi in ballo e il loro inevitabile conflitto: la consapevolezza che solo la morte di Andra permetterà alla coppia di realizzare il sogno di raddoppiare lo spazio vitale, sfondando le pareti tra le due case.

Quest’avidità, o ansia acquisitiva stuzzica e coabita con il famigerato liberal guilt, un accentuato senso di colpa che affligge i progressisti benestanti per le sofferenze dei diseredati del Terzo Mondo, e pure di quelli sotto casa. Il cuore di Kate sanguina metaforicamente per i poveri e i senzatetto, gli abbandonati e i sofferenti, al punto di frustrare il desiderio della figlia Abby (piena di rabbia e di boutons de la jeunesse) di comprarsi un donante paio di jeans da duecento dollari, poiché bela «è uno schiaffo alla miseria quando ci sono quarantacinque homeless accampati solo nel nostro quartiere!», forzando un po’la realtà. Il fatto che la donna si guadagni da vivere comprando al ribasso mobilia di valore dai figli dei morti, troppo a lutto, o più sovente, troppo ansiosi di liberarsi della proprietà e degli effetti personali dei cari estinti per rendersi conto dello scippo, contribuisce a turbarla e a farle regalare banconote da venti dollari ai mendicanti, ma non a farla desistere un solo istante. All’autrice non interessano i buoni sentimenti, ma l’esilarante spontaneità della franchezza. Quando Kate rifiuta di comprare i preziosi jeans concupiti da Abby per non «offendere» i senzatetto, la ragazza risponde: «Ma i barboni non li portano!». Nonna Andra, presentata al primo fidanzatino della nipote-brutto anatroccolo, approva, più o meno: «È molto bellino… e molto basso». Invitata a cena per il suo compleanno dalla coppia in attesa del suo trapasso, saluta il padrone di casa paffutello con «sei ingrassato». Il ciccione, a fine pasto, chiede com’è la torta che hanno comprato per festeggiarla: «Secca», risponde lapidaria la vecchietta all’aceto. E se l’impertinente, irriverente, vulnerabile, semi-ninfomane Mary seduce Alex sul lettino del salone di bellezza, e conduce una torrida storia di sesso con lui, l’autrice non congegna una resa dei conti per il marito fedifrago. La punizione per il maschio infedele? Essere scoperto dalla figlia Abby e basta. Certamente quello di Holofcener è uno sguardo femminile inconfondibile, ma sempre tosto, realista e mai banale, né incancrenito dal rancore. È una femminista di fatto, ma per fortuna non identitaria. Il film inizia con una stupenda sequenza catartica per le femmine e sconfortante per i maschi: una carrellata

anno III - numero 18 - pagina II

manhattan

di seni femminili di ogni ordine e grado, mentre vengono orrendamente strizzati da macchinetortura per le mammografie. C’è da scommettere che la tecnica è stata inventata da maschi. Il montaggio fotografa esattamente, immortalate sotto la luce al neon, le brutali manipolazioni subite dalle donne per controllare l’esistenza di tumori, aggravate dal fatto che i risultati sono troppo spesso falsi, sia in positivo sia in negativo. Consolante, per una delle esperienze più umilianti che una donna possa subire, teoricamente a fin di bene. Holofcener è figlia e figliastra d’arte: sua madre Carol Joffe è arredatrice cinematografica, suo padre Lawrence Holofcener un artista, e il suo patrigno, Charles H. Joffe, era il produttore storico di tutti i film di Woody Allen, fino alla sua scomparsa un anno fa. Da ragazza ha frequentato i teatri di posa e ha saputo sfruttare un’infanzia e un’adolescenza che hanno favorito il suo concepirsi come regista. Ecco la cineasta sulla sua formazione: «Sono cresciuta nel cinema; ho fatto la comparsa in film di Woody: mi ci sento a mio agio su un set, so cosa sono. Quando ho detto che volevo fare la regia, i miei sapevano bene che cosa volesse dire». Ma c’è un handicap, comune a tutte, che ha dovuto superare: «Dichiarare che vuoi fare la regia è esporsi al rischio di essere presa per vanitosa, pretenziosa, arrogante, e credo che le femmine temano più dei maschi di dare quest’impressione». Le trappole per le donne-registe non si fermano alle difficoltà da superare per diventarlo, specie se non si è Kathryn Bigelow, e invece di parlare di guerra e di violenza si affrontano temi relativi a esperienze e prospettive femminili. Il pericolo costante è che i propri film siano considerati chick flicks, una diminutio comunque, anche in una recensione favorevole. Nell’ambiente del cinema, commenta Holofcener, si definiscono chick-flicks film «fatti da donne, per le donne, sulle donne». «In altre parole, sono tutti un unico, vasto vagina-movie. Puoi chiuderlo in un cassetto e dimenticarlo».

I film della regista-auteur non sono Sex and The City, e nemmeno uno qualsiasi dei film della più anziana Nancy Meyers, per esempio Baby Boom, Quello che le donne vogliono, Tutto può succedere, È complicato. Quelli della Meyers sono favole fantaromantiche per donne agiate «di una certa età», come recita l’eufemismo, un pubblico folto che le ha regalato il successo commerciale, sorprendendo Hollywood. Le donne della Meyers sono divise in eroine senza macchia (le protagoniste: Diane Keaton, Helen Hunt, Meryl Streep) e mezze calze - seconde mogli, amanti, donne giovani e senza scrupoli. Holofcener è l’anti-Meyers: tutte le sue donne sono imperfette e criticabili, per prima la protagonista Kate, incarnata dalla sua attrice-feticcio. Catherine Keener è la star di tutti i quattro film della regista: è di un’avvenenza intellettuale femminile e accattivante, amata da critici e pubblico per il suo indiscutibile talento, è capace di infondere il soffio della vita ai suoi personaggi. Ma parlare bene della Keener è troppo scontato. Chi spicca per insospettata bravura nel film è Amanda Peet nella parte della bellissima, brutale Mary. La nipote dispettosa trova Andra insopportabile (senza rendersi conto che è il suo perfetto epigone) e la prima domanda che fa alla sorella quando torna dalle visite-buona azione è: «Non è morta ancora quella lì?». Peet ha spesso avuto piccoli ruoli in film di qualità, o parti più grandi in film di cassetta. La sua Mary dimostra che merita molto di più. La colonna sonora è spiritosa, insolita e perfetta, sin dalla canzone sotto il montaggio d’apertura delle mammografie, No Shoes dei Roches, un trio femminile da scoprire. Nonostante un finale filologico che curiosamente appiattisce il film, è da non perdere.

PLEASE GIVE GENERE COMMEDIA

REGIA NICOLE HOLOFCENER

DURATA 90 MINUTI

INTERPRETI AMANDA PEET, CATHERINE KEENER, OLIVER PLATT, THOMAS IAN NICHOLAS, KEVIN CORRIGAN, REBECCA HALL

PRODUZIONE USA 2010 DISTRIBUZIONE SONY PICTURES


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parola chiave

Q

uando si parla di handicap si allude in genere a una menomazione di carattere fisico o psichico, che può essere congenita o acquisita e che ostacola il normale percorso di vita individuale e sociale di una persona. Più l’handicap è grave, più l’inserimento sociale è difficile, con sacrifici e costi economici spesso molto alti, ma anche con un incommensurabile guadagno in termini di civiltà e dignità, che certamente rende onore a tutti coloro che, singole persone, famiglie, istituzioni pubbliche e private, impegnano tempo ed energie su questo fronte. Eppure in ogni epoca (anche oggi) vediamo emergere, inquietante, la questione se certe vite siano degne o no di essere vissute. A tal proposito la mente corre quasi spontaneamente alla famosa rupe Tarpea, dove venivano abbandonati i bambini nati con gravi menomazioni della città di Sparta, o alla famosa eugenetica nazista, ma ci sono anche altri esempi che meritano di essere maggiormente conosciuti. Penso, ad esempio, a un libello pubblicato a Lipsia nel 1920 da due sobri studiosi tedeschi, Karl Hoche e Alfred Binding, l’uno medico psichiatra e l’altro giurista, con un titolo che era già un programma: Die Freigabe der Vernichtung Lebensunwerten Lebens. Ihr Mass und ihre Form (La liberalizzazione dell’annientamento delle vite indegne di essere vissute. Il suo criterio e la sua forma). In questo libello di una sessantina di pagine troviamo non soltanto i concetti che il nazismo metterà in pratica con conseguente ferocia, ma forse anche un monito per i nostri tempi. È vero infatti che oggi nessuno oserebbe pensare che i portatori di gravi handicap vadano considerati come vite «indegne di essere vissute» e quindi da eliminare; permane tuttavia ancora oggi nella nostra cultura un certo modo di pensare in termini, diciamo così, funzionalistici che è assai più vicino di quanto si pensi a quello degli autori che abbiamo citato. È uno «spettacolo penoso», scrivono Hoche e Binding, «vedere intere generazioni di medici e infermieri consumarsi dietro a queste larve umane»; «facile dunque da immaginare quale enorme capitale in forma di generi alimentari, vestiti e riscaldamento venga sottratto al bilancio nazionale». Questo, in estrema sintesi, il ragionamento funzional-darwinistico di Hoche e Binding; un ragionamento che può farci persino ribrezzo, ma che in realtà riproduciamo nella sua struttura di fondo, allorché stabiliamo che, in omaggio, poniamo, a un generico concetto di «salute riproduttiva», anziché al «bilancio nazionale», è bene che certe «larve umane» non vengano fatte nascere o vengano eliminate appena venute al mondo.

Il funzionalismo rappresenta purtroppo una delle forme culturali più diffuse della nostra epoca, la soluzione più rapida di gran parte dei nostri problemi più scottanti. Ma dietro la sua apparente efficienza, oggi come ieri, si nasconde un pericolo assai serio per quello che sicuramente può essere considerato il valore cardine di tutta la cultura occidentale: l’inviolabile, assoluta dignità di ogni uomo, non in quanto giudeo o greco, sano o malato, fisicamente e mentalmente efficiente o impedito da qualsiasi forma di handi-

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HANDICAP Che cosa lega la rupe Tarpea all’eugenetica nazista e alla biogenetica dei nostri giorni? Il pericoloso concetto di funzionalismo che mette in discussione il valore incondizionato della persona...

L’imperfezione necessaria di Sergio Belardinelli

È nelle esistenze immerse nella sofferenza, che chiedono disperatamente di essere accettate nella loro alterità di esseri umani, che vediamo irrompere con prepotenza il problema del valore e del rispetto della vita. È in loro che meglio si rispecchiano la luce e l’ombra del nostro comune destino cap, bensì semplicemente in quanto appartenente alla specie umana. Ciò che intendo dire, in estrema sintesi, è che il valore incondizionato della persona umana pone in ogni circostanza un limite al continuo bilanciamento dei valori cui siamo costretti da una situazione socio-culturale sempre più pluralista e sempre più dipendente dalle nostre scelte, quindi sempre più incerta e complessa. Quando si tratta di prendere decisioni in un contesto del

genere, si privilegiano inevitabilmente alcuni valori a danno di altri; possiamo privilegiare la libertà anziché l’uguaglianza, la competitività anziché la sicurezza, il rischio di perseguire strade nuove o la tranquilla routine quotidiana. E si potrebbe continuare all’infinito, visto che la vita di ciascuno di noi è un continuo prendere decisioni di questo genere. Nel mare della prassi quotidiana ci sono però anche ambiti, rispetto ai quali non esiste alcun bilan-

ciamento, ambiti che potremmo definire di non disponibilità e che semplicemente ci obbligano a fare ciò che dobbiamo. E uno di questi ambiti è rappresentato precisamente dalla dignità dell’uomo. Quest’ultima, nella sua unicità e irripetibilità, non è barattabile con niente altro; va rispettata e basta. Invece il funzionalismo non conosce questo genere di limiti; pone volta a volta, a seconda delle convenienze, alcuni valori di riferimento e a questi commisura tutti gli altri. Se, poniamo, si tratta in primo luogo di risparmiare risorse economiche, è chiaro che, proprio come abbiamo visto nel libello di Hoche e Binding, il portatore di handicap potrebbe diventare un peso insopportabile da eliminare. Oppure, per fare un altro esempio, se si tratta di abbassare i livelli demografici di una determinata popolazione, il funzionalismo, di per sé, non esclude che si possa fare ricorso, come in effetti accade, a pratiche di sterilizzazione coatta.

Eppure nel momento in cui dobbiamo fare i conti con il rispetto delle persone portatrici di handicap, chi più chi meno, tutti sentiamo che dobbiamo farci carico di un compito decisivo; per quanto in molti si arrampichino sugli specchi alla ricerca di ragioni plausibili in favore dell’eutanasia o della sterilizzazione coatta di queste persone, il nostro animo sembra farsi sempre più sensibile ai pericoli che potrebbero scaturire per la nostra civiltà nel momento in cui un uomo si fa misura di un altro uomo. Per farla breve, è proprio di fronte a una vita debole, gravemente menomata nel corpo e nello spirito (una situazione limite, appunto!) che vediamo irrompere forse con maggiore prepotenza il problema del valore e del rispetto della vita. Sono queste vite immerse nel dolore e nella sofferenza che chiedono disperatamente di essere accettate nella loro debolezza e nella loro alterità di esseri umani. È in queste vite che forse meglio si rispecchiano la luce e l’ombra del nostro comune destino. Di fronte all’handicap, specie quando è grave, siamo dunque chiamati a una sorta di catarsi intellettuale, a guardare le cose con un altro occhio. Un po’ come accade in uno dei romanzi più riusciti di Morris West, I giullari di Dio, una sorta di romanzo di fantapolitica e fantareligione, dal quale, concludendo, vorrei citare un brano che mi sembra quanto mai pertinente. A parlare è Gesù Cristo stesso, dopo aver preso in braccio una bambina handicappata: «Ho dato a questa piccola un dono che ho negato a tutti voi… l’eterna innocenza. A voi appare imperfetta... ma per me è impeccabile, come il bocciolo che muore, senza schiudersi, come l’uccellino che cade dal nido e viene divorato dalle formiche. Lei non mi offenderà mai, come avete fatto voi tutti. Non pervertirà e non distruggerà mai l’opera delle mani di mio Padre. Vi è necessaria. Evocherà la bontà che fa rimanere umani. La sua infermità vi farà provare gratitudine per la vostra fortuna… E c’è di più! Vi ricorderà ogni giorno che io sono chi sono, che le mie vie non sono le vostre, che la più piccola particella di polvere turbinante nello spazio più buio non cade dalla mia mano. Io vi ho scelti. Non siete stati voi a scegliere me. Questa piccola è il segno che io vi do. Serbatela come un tesoro».


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Pop

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Azione. Stop alla staticità. E collaboratori dallo spirito libero che Jónsi s’è accuratamente scelto: l’arrangiatore Nico Muhly, già al lavoro con Björk, Bonnie «Prince» Billy, Antony & the Johnsons e Grizzly Bear; il batterista finlandese Samuli Kosminen, membro part-time dei Múm; l’ingegnere del suono Tom Elmhirst. Go inizia garrulo e technopop con Go Do e Animal Arithmetic, che sintetizzano la stravaganza di tutto l’insieme: quel «costruiamo un giardino fiabesco, pieno di uccellini e animali» che Jónsi ha voluto incoraggiare dal principio alla fine. Stravagante, senz’altro, è Tornado. Ti aspetti fuoco e fiamme, e invece ti ritrovi nel cuore dell’orchestra con un pianoforte a far da contrappunto. Poi passi a Boy Lilikoi ed è tutto uno scampanellio, un rincorrersi di percussioni, un mordi-e-fuggi di archi e fiati. E se Sinking Friendships è stratificazione vocale e virtuosismo allo stato puro, Kolnidur punta alla grandeur melodica e Around Us fonde il folk con lo stupore infantile d’una filastrocca. Grow Till Tall, fra riverberi di

di Stefano Bianchi n Islanda, da quando ci è nato (trentacinque anni fa), continua a viverci benissimo. Dice d’ascoltare musica col contagocce, di non sentire la radio e di non guardare la tivù. Ovattato è bello, secondo Jón Thor Birgisson, in arte Jónsi: «E liberatorio, perché ti permette di concentrarti meglio. E dalla concentrazione alla creatività (comporre musica, scrivere poesie, dipingere) il passo è breve. Ce l’hai dentro, la creatività, ma spesso e volentieri non te ne accorgi. Poi ti appare all’improvviso e a quel punto speri di poterla condividere col mondo esterno». Jónsi, che mi piace definire carismatico implosivo, canta in falsetto mentre accarezza le corde della sua chitarra con l’archetto di un violoncello. Se non ci fosse stato lui a guidarli, dei Sigur Rós non si sarebbe accorto nessuno. E invece, benedetta concentrazione creativa, dal 1997 al 2008 il mondo ha apprezzato i paesaggi sonori del gruppo: lunghe, misticheggianti suite, melodie orchestrali, chitarre distorte e quel canto fiabesco e disarmante proprio là, in cima all’algida bellezza di Von, Ágætis byrjun, () che fra le due parentesi significava nudità, silenzi, parole/non parole pronunciate nella lingua artificiale dell’hopelandic e Meo suo í eyrum vio spilum endalaust, a raccontare che «con un ronzìo nelle nostre orecchie suoniamo senza fine». Magie. Gelidi giochi di prestigio. Ascolti mai ascoltati prima. Ma ecco il «problema». Cioè un buon numero di canzoni che Jónsi aveva scritto ma non riusciva a plasmare sui Sigur Rós: «Le ho messe da parte e catalogate

I

Jazz

musica

Il tuffo senza rete del carismatico Jónsi sotto le voci elettronica, acustica, ambient e pop in vista di progetti futuri. Senonché, fuori dal bozzolo protettivo della band ho ipotizzato un disco tutto mio, acustico, di basso profilo. Mi sono stressato, ho avuto paura del tuffo senza rete ma era il prezzo da pagare per un’esperienza nuova e molto interessante che lungo il percorso è come esplosa». Il risultato è Go.

musica ambientale e una voce sempre più asessuata, coglie l’essenza d’una paradisiaca sperimentazione che inevitabilmente si stempera nel rigore cameristico di Hengilas, a un soffio dalla melodia ecclesiastica. Nell’attesa (prima o poi) di ritrovare i Sigur Rós, Jónsi è probabilmente riuscito a dar vita alla musica più inventiva ed evocativa dell’anno. «La paura è una brutta bestia», ha ammesso. «Ma credo, nonostante tutto, di essere riuscito ad ammaestrarla». Complimenti. Anzi: til hamingiu.

zapping

IL CONCERTONE? Meglio Sanremo di Bruno Giurato

l concertone del primo maggio potrebbe essere un fantastico Sanremo di piazza e di mondo ma c’è qualcosa che non va, e non da questa edizione. Il tasso di sanremismo da teatro sembra sempre più alto, anche in mezzo al pubblico si poteva notare come il brano più coinvolgente fosse il Sarkono Sarkozy di Cristicchi, che proprio a Sanremo era stato battezzato. Il problema è che il Sanremo vero, bene o male, sta cambiando formula e si sta aprendo a qualche novità, mentre il concertone è sempre quello sembra, con i suoi habitué dai tempi dei tempi: Carmen Consoli in piazza San Giovanni è ormai equipollente agli antichi Ricchi e Poveri all’Ariston. I momenti di vera sperimentazione di quest’anno si sono limitati al gruppo di Cristiano Godano e Gianni Maroccolo, impressionanti per il numero di stecche e la desolazione dei brani. Sorvoliamo sulle performance pedagogiche, come le lettere dei bambini delle elementari recitate dalla Impacciatore e compagnia non cantante; sorvoliamo ma diciamolo: il concertone è diventato un momento di perfetta tassidermia musicale, e anche ideale. E pensare che ci sarebbero le premesse per un grande talent show. Il concorso primo maggio tutto l’anno, che raccoglie centinaia di iscrizioni da tutt’Italia, gruppi di ogni genere musicale. Chi è stato alle selezioni ha visto, solo che molti non ci sono stati: l’iniziativa è stata promossa e diffusa così così, un po’ su Internet, quasi niente sui giornali, e i vincitori (Camillorè, Rosso Malpelo e i grintosissimi Marvanza Reggae Sound) sono saliti sul palco nel primo pomeriggio, al sicuro da ogni riscontro mediatico. E crederci un po’ di più? E lavorarci un po’ di più, su questi benedetti giovani (che sarebbero anche precari)? O è meglio farsi superare come una scheggia dal teatro Ariston?

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Jónsi, Go, Emi, 20,90 euro

Diciannove brani per non dimenticare Booker Ervin

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uanti sono coloro che oggi ricordano Booker Ervin? Risposta non semplice, ma se paragoniamo questo grande sassofonista a un altro importante musicista, il trombonista e arrangiatore Bob Brookmeyer, il cui concerto di giovedì 29 aprile all’Auditorium di Roma non ha visto certo il tutto esaurito, la risposta è desolante. Perché mai oggi musicisti la cui importanza è indiscutibile oltre a essere stati dimenticati sono pressoché sconosciuti alle nuove generazioni? Se sfogliamo le pubblicazioni specializzate, se scorriamo i cartelloni dei festival o delle molte altre manifestazioni, se ascoltiamo la radio - dove il jazz è però assente - tutto si riduce a poche decine di musicisti. Ciò comporta un impoverimento di una delle più importanti forme musicali del secolo XX. Così quando viene deciso di invitare, ad esempio, Bob Brookmeyer sono pochi a sapere chi in realtà

di Adriano Mazzoletti sia. Dimenticate o sconosciute le straordinarie collaborazioni con Stan Getz o Gerry Mulligan o con la sua Concert Jazz Band. Lo stesso oblio è caduto anche su altro grande del jazz la cui breve vita - scomparso nel 1970 a soli quarant’anni - è stata caratterizzata da opere assai significative. Su di lui - a mia conoscenza - non è stato scritto un solo rigo da molti anni così come la radio italiana, dopo il 2000, non ha più trasmesso una sola incisione. Eppure Booker Telleferro jr. Ervin, dal 1958, anno del suo ingresso nell’orchestra di Charlie Mingus, è stato uno dei musici-

sti più importanti per i successivi vent’anni. In questi giorni la Jazz Lips, piccola etichetta discografica, ha pubblicato in due cd riuniti in un unico cofanetto, diciannove titoli usciti, fra il 1963 e ’64, in tre long playing della Prestige: The Freedom Book, The Song Book e The Space Book, da tempo introvabili. Fra le incisioni di Ervin sono le più riuscite. Il suono possente del suo saxtenore, le note chiare, la tendenza a esprimersi verso i toni acuti, l’utilizzo di scale quasi modali, in contrasto con un fraseggio lirico, sono le caratteristiche più evidenti di un musicista che è stato

annoverato fra i grandi. Anche se ha suonato spesso in Italia, stampa specializzata e radio lo hanno da tempo dimenticato. È sperabile che queste incisioni, a cui auguriamo ampia diffusione, possano rinnovare l’interesse per questo musicista. Accompagnato dai pianisti Jaki Byard e Tommy Flanagan, dal contrabbassista Richard Davis e dal batterista Alan Dawson, il repertorio include composizioni originali dello steso Ervin e del pianista Randy Weston, standard della canzone americana Stella By Starlight, The Lamp is Low, All the Things You’re, Just Friends,Yesterdays, Our Love is Here to Stay, I Can’t Get Started, oltre allo stupendo Come Sunday dalla Black Brown and Beige di Duke Ellington, magnificamente eseguiti. Booker Ervin Quartet, The Complete Songbook Sessions, Jazz Lips, Distribuzione Egea


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arti Mostre

ntanto le opere sono bellissime, cosa abbastanza rara nelle esposizioni nostrane, e imprescindibili, per sostenere, con immagini parlanti, il tema a tesi di questa raccomandabile e intelligente mostra, che sarebbe un delitto perdere, e che è dedicata alla reciproca influenza tra il teatro e la pittura. Abitualmente si ragiona soprattutto sul rapporto reciproco tra letteratura e pittura, tra scrittura e pennellata: ut pictura poesis, motto che proviene dall’antichità oraziana. Ma pochi in effetti si sono soffermati a riflettere su quanto invece il teatro abbia influenzato la pittura e viceversa (l’ha fatto su queste pagine il 17 aprile Nicola Fano, in un bell’articolo dedicato a questa mostra, ma vale la pena rifletterci ancora). Per esempio, la tela emblematica di David e del neoclassismo tutto, Bruto, riportò in auge Tito Livio e Alfieri, e riimmise in scena un dramma dimenticato di Voltaire. Ma cambiandogli il finale, perché fosse coerente con il quadro, e il dramma si potesse chiudere con il congelamento della parola, in un tableau vivant, che è esattamente il quadro di David. Così il modesto ma storico quadro di Delaroche, sui figli di Edoardo III avvinti, che attendono la fine per mano d’un parente omicida, e solo il cagnolino annusa l’odore del sangue, guatando la fessura sotto la porta che s’arroventa di terrore (episodio che non esiste nell’ispiratore dramma di Shakespeare) ha ispirato a sua volta un non meno modesto artigiano del teatro, che ha estratto dall’acmé della tela un immenso dramma in rime, en hommage. Così va il mondo, nei «magici» rapporti, sin’ora poco investigati, tra la scena e il cavalletto. «Da David a Delacroix, da Fuessli a Degas». Ma oltre a loro, ci sono pure, per citarne alcuni: Ingres, con il raffinato e quasi smaltato bozzetto iper-cesellato della Morte di Leonardo, che esala l’ultimo respiro, nell’abbraccio quasi carnale di Francesco I. Il verdiano Hayez, Sargent, con la figura imponente,

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Architettura

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Quando David resuscitò Tito Livio di Marco Vallora nel ruolo spettrale di Lady Macbeth, della mattatrice Ellen Terry, che nella vita era madre di quel radicale riformatore del teatro, Gordon Craig, che chiude la mostra. Insieme con i disegni lunari di Appia, per Wagner e per Amleto (dal momento che Shakespeare è uno dei protagonisti onnipresenti della mostra: streghe, folletti, omicidi e fantasmi, quando il vento tempestoso e notturno del Romanticismo gonfia le gote marmoree del Neoclassicismo, ulula la propria impotenza esistenziale e deforma persino l’anatomia. Dai gesti stentorei e leccati della recitazione raciniana di David & compagni, alle illuminazioni feroci e alle difformità mostruose, disseminate con grande sarcasmo e potenza, di Fuessli e altri visionari nordici: Runciman, Blake, Romney e

Wright of Derby). Ma poi, ancora, ci sono gli ectoplasmi grotteschi e succhiati di Daumier, le piccionaie assassine di Sickert, le pose esasperate di Previati, il simbolismo ingioiellato di mille pepite cromatiche di Moreau, tra le delectatio morbose, wagneriane di Fantin-Latour. A dimostrare quant’è stato doppio e decisivo il lascito di Wagner: da un lato, capace di nutrire le scenografie più cariche e dettagliate, troubadour e neo-gotiche, tra ondine, spade leggendarie, cavalli alati, coppe del Graal e salite al Walhalla. Dall’altra, il primo a intuire, lui che aveva teorizzato l’Opera d’Arte Totale, così cara ai Simbolisti e allo spegnersi esitante dell’Ottocento, il primo a sognare che la musica possa bastare al teatro e soddisfare gli spettatori più raffinati. Annunciando

le grandi innovazioni, che saranno poi di Appia e di Craig che, con grande scorno della vedova Cosima e dell’apparato liturgico di Bayreuth, proposero di cancellare ogni orpello registico-registico, di gommare via il poncif d’epoca e di lavorare finalmente sul vuoto, sull’assenza, sul nulla visivo. Che solo la musica può riempire, regalmente. La mostra, che va dal Neoclassicismo più impomatato ma anche austero, greco, rivoluzionario a suo modo, di David, e che attraversa pure la temperie non così stupida, come si crede, del periodo pompier (con artisti sapienti come Couture, che lavora lui pure con ampii respiri vuoti di campiture libere, ardite) si scontra poi con le paste infuocate del shakeaspiriano Delacroix, inciampa nei magnifici tagli ribelli di Degas, per affacciarsi infine sul Novecento francese, del Theatre libre contro-verista, che contamina del tutto la pittura dei Nabis. È forse la parte più nuova, che aiuta a capire quanto un pittore, solo apparentemente decorativo, come Vuillard, abbia apportato, insieme a Denis e Vallotton, alla rivoluzione di LugnéPoe e del Teatro libero del Novecento.

Dalla scena al dipinto, Rovereto, Mart sino al 23 maggio. Poi a Toronto

Tutto sull’obelisco che celebrò il fascismo

obelisco di marmo innalzato (1927-32) a Mussolini sulla direttrice d’ingresso del Foro Mussolini, la nuova cittadella dello sport edificata a Roma tra le pendici di Monte Mario e il Tevere, si situa tra le grandi imprese predisposte, al pari dell’Accademia di Educazione Fisica, dello Stadio dei Marmi e di via dell’Impero, per celebrare il primo decennale dell’ascesa al potere del partito fascista. Promosso da Renato Ricci, un fascista della prima ora, figlio di un cavatore delle Apuane promosso a geniale presidente dell’Opera Nazionale Balilla, l’obelisco, in candido marmo statuario di Carrara, persegue, tra gli altri, l’obbiettivo di fare propaganda all’industria estrattiva delle Apuane. Il monumento è ideato dall’artista torinese Costantino Costantini (1904-82) che, in nome del modernismo fascista, rigetta il modello degli antichi obelischi egizi in granito, disseminati nella Roma rinascimentale da Papa Sisto V alla fine del Cinquecento, per infondere nel progetto un’avveniristica spregiudicatezza espressiva. Scartata la convenzionale tripartizione verticale (piedistallo-base-stele), Costan-

L’

di Claudia Conforti tini adotta un titanico doppio plinto basamentale che si eleva di circa 2.50 metri sullo spiccato del piazzale: su di esso incastra sei giganteschi blocchi di marmo di Carrara, di forme e di dimensioni diverse, che dissimulano totalmente una struttura interna di sostegno solidale in calcestruzzo armato. La varietà stereometrica dei conci lapidei è esaltata da slittamenti orizzontali, che imprimono evidenza espressiva agli incastri volumetrici, mentre proiettano nitide e incisive linee d’ombra sulle candide superfici marmoree, tali da ingenerare un singolare e inconfondibile effetto dinamico di rotazione ascensionale, di avvitamento. Il blocco sommitale, leggermente rastremato e compatto, esibisce sulle facce le scritte celebrative di Mussolini Dux e della committenza: l’Opera Nazionale Balilla. Memore dello strabiliante effetto propagandistico che ebbe

all’epoca di Sisto V il trasporto dell’obelisco Vaticano al centro di piazza San Pietro, Ricci organizzò una sensazionale operazione pubblicitaria, con indubitabile connotazione politica, incentrata sul trasporto e il montaggio dei colossali blocchi marmorei dalle cave Apuane alle pendici di Monte Mario. Riprese cinematografiche, servizi fotografici, disegni illustrativi che ornano manifesti, tessere, diplomi e opuscoli vari, intessono una vera e propria epopea, che è al tempo stesso celebrazione di modernità tecnologica e orgogliosa nostalgia, che vale a richiamare in un’unica azione le più spettacolari memorie di Roma, sia essa imperiale che papale. Tutta questa vicenda, con le sue valenze tecniche, le sue sfaccettature ideologiche e i suoi messaggi simbolici e propagandistici, la sua carica epica e visionaria è filologicamente ricostruita dal brillante studio di Maria Grazia D’Amelio, professore di storia dell’architettura alla facoltà di Ingegneria di Tor Vergata, che correda la scorrevolezza narrativa con un formidabile atlante fotografico e multimediale dell’Istituto Luce di Roma, che illustra l’eccezionale impresa del regime. Maria Grazia D’Amelio, L’Obelisco marmoreo del Foro Italico a Roma. Storia, immagini e note tecniche, con dvd dell’Istituto Luce-Roma con il trasporto dell’obelisco, Palombi editori, 210 pagine, 34,00 euro


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il paginone

NELLA SUA PATRIA, INNAMORATA DI “GRANDEUR”, NON GODE DI BUONA FAMA. MA LOUIS-CHARLES-NAPOLÉON BONAPARTE, NIPOTE DEL PIÙ CELEBRE OMONIMO ZIO, QUALCHE DOTE DOVEVA PURE AVERLA PER RIMANERE IMPERATORE DEI FRANCESI PIÙ A LUNGO DI LUI. CE LO SVELA FRANCO CARDINI IN UN PREZIOSO LIBRICINO FITTO DI STORIE, DATE, RICOSTRUZIONI, PERSONAGGI, RETROSCENA…

La rivincita di Napoleone il piccolo di Enrico Singer ictor Hugo, che lo detestava, lo chiamava «Napoleone il piccolo». E in quell’aggettivo così dissacrante c’era tutto il disprezzo del padre dei Miserabili per un sovrano che considerava ambizioso, velleitario, vanitoso e, soprattutto, schiacciato dal confronto insostenibile con il vero Napoleone, lui sì il grande, il primo imperatore dei francesi. Suo zio. Ma chi era davvero LouisCharles-Napoléon Bonaparte? Un affarista armeggione, magari persino furbo, ma tradito da un sentimentalismo che non riusciva a controllare? O uno statista abile e astuto che pretese forse troppo da se stesso e dalla sua fortuna? Un sognatore nascosto dietro i lunghi baffi, le troppe uniformi e la realpolitik? O un intellettuale di buona qualità, travolto dal destino del cognome che portava e dalla passione per la politica? È con questa raffica d’interrogativi che si apre l’ultima opera di Franco Cardini. Un prezioso volume dal titolo senza troppi orpelli - semplicemente Napoleone III (Sellerio, 12,00 euro) - che in 193 pagine fitte di storie, date, fatti, ricostruzioni, avvenimenti, retroscena, personaggi di primo piano e comprimari, racconta la vita e l’azione di un uomo che, soprattutto nella sua terra innamorata di grandeur, non gode di una buona fama, né di stima e popolarità fra quanti si occupano del passato.

V

Ma, si sa, Cardini è maestro della rilettura della storia senza pregiudizi e nel suo libro la rivincita di «Napoleone il piccolo» parte da una considerazione che Sergio Valzania ricorda anche nella prefazione: è difficile che personalità capaci di porsi al centro della realtà politica nella quale hanno vissuto non dispongano di vere qualità, anche se mescolate a grandi difetti. Non si rimane imperatore dei francesi più a lungo di Napoleone I senza reali doti di comando e di relazione, senza la capacità di rappresentare, anche se in modo parziale e distorto, gli interessi e le idee dell’epoca nella quale si vive e degli uomini che accettano la sua direzione politica. Ecco. Cardini indaga la vicenda di Napoleone III alla scoperta di queste doti per concludere che «Grande non fu mai, ma Piccolo - statura a parte - non era affatto. Solo chi è piccolo, ma piccolo sul serio, giudica con disinvoltura “piccoli”gli altri». Ma andiamo con ordine. Louis-Charles-Napoléon Bonaparte nasce a Parigi nella notte tra il 20 e il 21 aprile del 1808 - «quando l’aquila dell’impero volava ancora alta nel cielo» - da Luigi Bonaparte, fratello di Napoleone I, e da Ortensia de Beauharnais, figlia di primo letto di Giuseppina. Luigi era stato posto dal fratello sul trono del regno d’Olanda, ma Ortensia partorì a Parigi, lontano dal marito che, peraltro, dopo la morte del loro primo figlio, Napoleone Carlo, un anno prima, la vedeva di rado tanto che si anno III - numero 18 - pagina VIII

parlò insistentemente di una gravidanza adulterina, confermata in seguito dall’evidente mancanza di tratti familiari tra colui che, ormai, era diventato Napoleone III e la stirpe dei Bonaparte.Vero è che i pittori ufficiali del Secondo Impero si sforzarono di attenuare questa difformità somatica tra lo zio e il nipote cercando di attribuirne la principale responsabilità ai baffi e alla barba romantici del secondo, così estranei all’arcigna fisionomia guerriera del primo che il pennello di David e lo scalpello del Canova avevano consegnato per sempre alla storia. Infanzia dorata, ma un po’ malinconica quella del piccolo monsieur oui-oui - come lo aveva soprannominato la madre, perché era buono e sin troppo obbediente - che attraversa gli anni sempre più difficili del potere di Napoleone fino alla sua abdicazione, il 6 aprile del 1814. Forse per questo Louis-Charles aveva paura del buio e fino a dodici anni aveva in camera da letto un lume acceso tutta la notte. Mentre la madre - abbandonato ormai il marito che, perso il trono d’Olanda, si era

leone I perdonò Ortensia e nei Cento Giorni si affezionò molto al nipote che, a sua volta, dopo la fuga e l’esilio negli anni della Restaurazione, sarebbe diventato nel 1848 presidente della nuova Repubblica francese e poi imperatore. Napoleone III, appunto.

Ma nelle pagine del libro di Cardini non c’è soltanto la vicenda umana e politica di Louis-Charles-Napoléon Bonaparte. C’è tutto il grande, fumoso, industrioso, romantico, struggente, terribile Ottocento: il Grand Siècle Imbécille, con i suoi bordelli, i caffè, gli artisti maledetti, ma anche le fabbriche, le tensioni sociali, le innovazioni tecnologiche, l’architettura di metallo della Tour Eiffel e delle Halles, i grandi viali e le prospettive del barone Haussmann. Brume e profumi, teatri e bassifondi, campi di battaglia e duelli all’alba, vertiginose fortune e rapide cadute. E non solo in Francia. Perché il destino, e la Restaurazione, spinsero il piccolo Luigi Napoleone fuori dal suo Paese già nel

Il diminutivo glielo affibbiò con disprezzo Victor Hugo. Ma il pretendente al trono di Francia, eletto presidente della Repubblica nel 1848 e poi diventato imperatore nel 1851, anche dall’esilio seppe costruire la sua ascesa politica rifugiato in Austria - faceva la sua vita ed era divenuta l’amante del generale e conte Charles de Flahaut. Ortensia, dopo l’abdicazione di Napoleone, aveva trovato nello zar Alessandro I, che aveva occupato Parigi con le sue truppe, un nuovo amico e protettore. L’ex regina d’Olanda ne aveva ricavato una buona rendita e il ducato di SaintLeu. I suoi due figli - Louis-Charles e quel Charles-Auguste avuto nel 1811 dal conte de Flahaut - venivano spesso coccolati sulle ginocchia dello zar di tutte le Russie. «La storia - nota Cardini - ha davvero molta più fantasia del migliore dei romanzieri». E quando lo storia è quella dell’irrequieta e intricata dinastia dei Bonaparte, il compito di stupire e di confondere è ancora più facile. Anche perché, rientrato trionfalmente Parigi il 20 marzo del 1815 dal suo esilio all’isola d’Elba, Napo-

1816. Prima la Svizzera, poi la Savoia, la Baviera e, infine, di nuovo la Svizzera dove, ad Arenenberg, in una specie di villa-castello, rimase con la madre fino al 1825 e dove, nel luglio del 1821 fu raggiunto dalla notizia della morte, a Sant’Elena, del grande zio. Poi fu la volta di Roma dove, sotto la protezione del Papa, già vivevano altri membri della famiglia Bonaparte. Luigi Napoleone si lasciò attirare dall’atmosfera elegante, oziosa e festosa della nobiltà romana e dalle avventure sentimentali ed erotiche. Pare che si guadagnò perfino le grazie della contessa Baraglini che a Roma era nota come «l’anticamera del Paradiso». Ma si affacciò anche alla politica entrando in contatto con il mondo dei liberali e delle sette segrete. Forse con la carboneria. L’eros, i sentimenti, i sogni rivoluzionari: ce n’è abbastanza, scrive Cardini, per


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fare di questo adolescente un po’ viziato il prototipo del giovane aristocratico romantico del primo Ottocento. Comincia la vita politica di Luigi Napoleone. Nel 1830, a Parigi, la «rivoluzione di luglio» porta alla fuga di Carlo X di Borbone e all’ascesa al trono di Luigi Filippo: il re non è più de France, ma des français, torna anche il tricolore rosso-bianco-blù. E arriva l’amnistia. Luigi Napoleone spera di poter rientrare dall’esilio. Ma la delusione è grande quando apprende che la legge dell’11 settembre 1830 mantiene intatto l’articolo costituzionale che vieta il ritorno in patria a tutta la famiglia Bonaparte. Così è di nuovo Roma. Dove il giovane Luigi - aveva 22 anni - partecipa al complotto che, approfittando della morte di Papa PioVIII, scomparso il 30 novembre di quell’anno, puntava su una sollevazione popolare che avrebbe dovuto coronare il sogno del «Re di Roma», l’unico legittimo erede di Napoleone I: quello che per gli Asburgo era il duca di Reichstadt e, per i bonapartisti, era l’Aiglon, l’aquilotto. Ma il 10 dicembre, quando Luigi Napoleone si presentò in piazza San Pietro da dove gli insorti avrebbero dovuto raggiungere e occupare Castel Sant’Angelo, ad aspettarlo c’erano soltanto una sessantina di congiurati. Fu l’arresto e un nuovo esilio: a Firenze. Da dove poi si spostò a Modena per partecipare ai moti dell’Emilia e Romagna. A questo punto entra in scena un altro dei grandi del secolo, il primo di una lunga galleria: il principe di Metternich che approfittò proprio dei moti nello Stato pontificio per coniare e denunciare quello che chiamò il «pericolo bonapartista» che, in nome degli accordi del Congresso di Vienna del 1815, consentì agli austriaci di imporre ancora il loro ordine.Tra l’altro, le truppe austriache riportarono a Modena il duca Francesco IV che applicò una repressione durissima tra le cui vittime vi fu anche Ciro Menotti. Per Luigi Bonaparte, colpito dal morbillo, ancora una fuga: ad Ancona dove la madre Ortensia riuscì a nasconderlo e poi a portarlo con sé, grazie a un falso passaporto e a un travestimento, addirittura a Parigi. Il 23 aprile 1831, Luigi Napoleone era di nuovo nella sua città natale. Ma durò pochi giorni: il 6 maggio, ancora convalescente, partiva con la madre per l’Inghilterra. Un salvacondotto era tutto quello che Ortensia era riuscita a ottenere da Luigi Filippo.A Londra comincia una nuova fase dell’azione politica di Luigi Napoleone, tutta ancora fondata sull’obiettivo di riportare sul trono l’Aiglon, che sarebbe stato Napoleone II (nonostante non si chiamasse così, ma Francesco Carlo) come il legittimo successore di suo padre, Napoleone I. Luigi riunì i suoi progetti in un libretto - le Rêveries politiques, i sogni politici - che inviò a molti esponenti della vita politica francese. Ma il «Re di Roma», l’Aiglon, a soli 22 anni, morì nel 1832 a Vienna, nel palazzo di Schönbrunn. Era nato il 20 marzo del 1811 da Napoleone I e dalla sua seconda moglie, Maria Luisa d’Asburgo. Da allora Luigi Napoleone si considerò il diretto erede dell’imperatore e il capo effettivo della famiglia.

Sono ancora gli anni dell’esilio che, dopo il fallito putsch del 1836 a Strasburgo, lo porterà anche in America e che ne segnerà la formazione. «Se non fosse diventato Napoleone III sarebbe stato un ottimo ingegnere o un eccellente architetto», scrive Cardini. Ma la storia bussa alla porta di Luigi Napoleone che, ormai, è un principe pretendente al trono e non più soltanto un giovane aristocratico affascinato dalla politica. Nel 1839 pubblica Les idées napoléoniennes. Venduto a mezzo franco, è un successo enorme: mezzo milione di copie. Sosteneva che

Napoleone I aveva dato un senso alla Rivoluzione francese che, altrimenti, sarebbe stata soltanto un bagno di sangue. L’unico limite dell’imperatore era stato quello di aver potuto pensare al bene del popolo soltanto negli intervalli che le continue guerre gli avevano concesso. Il compito di realizzare l’opera del grande zio, ora toccava a lui. Nel 1840 fu tentato per la terza volta, dopo le infelici avventure del 1831 e del 1836, dalla via del colpo di Stato. Sbarcò ai primi di agosto a Boulogne con un pugno di fedeli: aveva scelto un centro industriale che credeva sensibile alle idee di cambiamento e faceva affidamento sui militari scontenti di Luigi Filippo. Finì in tragicommedia: la guarnigione si guardò bene dal passare dalla sua parte, ci fu uno scontro a fuoco, qualche morto. Lui cercò prima di farsi uccidere ai piedi della colonna che commemorava la Grande Armée, poi tentò di salvarsi a nuoto e rischiò di annegare. Tutto sembrava perduto in un colpo solo. Catturato e trasferito a Parigi fu giudicato dalla Camera dei Pari tra il 28 settembre e il 6 ottobre e fu condannato alla prigione a vita da scontare nella fortezza di Ham. Ma è proprio qui che Luigi Napoleone completa la sua formazione politica. E se come golpista si era rivelato un disastro, s’impone come acuto commentatore della vita civile collaborando a parecchi giornali d’opposizione. Non poteva firmare i suoi articoli, ma i lettori lo riconoscevano. Le sue posizioni contro il regime orléanista erano precise, proclamava il diritto democratico ed egalitario di ciascun individuo a partecipare alle decisioni e alla gestione della ricchezza della comunità. Civettava anche con la sinistra repubblicana. Il 1848 si avvicinava. Nel 1846 riuscì a evadere dalla fortezza di Ham travestito da operaio. Il 24 febbraio del ’48, a Parigi, scoppiò una nuova rivoluzione. Luigi Filippo abdicò. Fu proclamata la Repubblica. Il principe Bonaparte era a Londra, ma il 27 era già in viaggio per Parigi. Scrisse una lettera al governo provvisorio mettendosi al servizio della Repubblica. In risposta ricevette l’ordine di lasciare immediatamente la Francia. Scrisse una seconda lettera in cui si diceva persuaso di avere meritato finalmente il diritto di servire la patria liberata. Fu una mossa accorta. Alle elezioni dell’aprile del ’48 Luigi Napoleone non era presente in alcun collegio, ma furono eletti i figli di Gerolamo e di Luciano Bonaparte e anche il figlio di Gioacchino Murat. Il 10 giugno una folla di parigini si diresse verso la Camera dei deputati al grido «Viva Napoleone III». Louis Blanc appoggiò l’idea del ritorno: «Non permettete che si dica che la Repubblica ha paura di un uomo». E Luigi Napoleone fece un’altra mossa abile: dal suo esilio londinese rassegnò le dimissioni da pretendente al trono. Anche se aveva scommesso con una cugina ed ex fidanzata, la principessa Matilde, che entro quattro anni sarebbe diventato imperatore. Una previsione singolarmente azzeccata. Dopo i tragici eventi del giugno ’48, le barricate e i moti «rossi» repressi nel sangue dal ministro della Guerra, generale Louis-Eugène Cavaignac (tremila morti e 15 mila arresti), nelle elezioni del 17-18 settembre Luigi Napoleone fu eletto in cinque Dipartimenti. E il 10 dicembre del 1848 fu eletto presidente della Repubblica con quasi cinque milioni e mezzo di voti su sette milioni e mezzo di votanti. È l’inizio della storia che conosciamo meglio. Quella che s’insegna anche nei nostri libri di scuola. Perché s’intreccia al «grido di dolore» che intanto si levava dall’Italia in cerca della sua unità, al quale Luigi Napoleone, diventato imperatore il 2 dicembre del 1852, si dirà «sensibile». Con l’entrata in scena - e nelle pagine del libro di Cardini - di altri grandi protagonisti: Vittorio Emanuele II, il conte Camillo Benso di Cavour, la contessa di Castiglione, Costantino Nigra, Giuseppe Garibaldi. Gli accordi di Plombières del 1858. La guerra franco-piemontese contro l’Austria dell’anno successivo. L’ingresso di Napoleone III al fianco di Vittorio Emanuele II a Milano l’8 giugno del 1859 dopo la battaglia di Magenta, dove fu personalmente presente sul campo di battaglia. E poi la «questione romana», il

In alto, Napoleone III con Bismarck e sul letto di morte. A destra, la Tour Eiffel, costruita durante il suo impero. In basso, Napoleone il Grande nel celebre quadro di Jacques-Louis David. Nell’altra pagina, un ritratto dell’imperatore, un’immagine della battaglia di Mentana e il suo proclama ai milanesi dopo la liberazione della città

rapporto con il Papato prima difeso con le armi e mai, comunque, abbandonato. Ma i quattro anni della sua presidenza della Repubblica - dal ’48 al ’52 - sono anche quelli dello scontro frontale con gli ex alleati della sinistra, compreso Victor Hugo che inizialmente lo aveva appoggiato e che, dal suo esilio volontario in Inghilterra, scagliò il pamphlet dal titolo Napoléon le Petit in cui denunciava le mire autoritarie di Napoleone III.

Certo, in mezzo ci sono gli anni delle grandi opere a Parigi. Dei canali e delle fognature, dell’Opéra Garnier e dell’ospedale Hôtel-Dieu, dei grandi magazzini e dei viali larghi e dritti che il prefetto, barone Georges Haussmann, volle perché le barricate del ’30 e del ’48 avevano insegnato che una città con vie strette e tortuose si controlla male in caso di sommossa. E c’è anche il 1867, l’anno dell’Esposizione universale e della costruzione delTour Eiffel. Ma si avvicina il 1870, la fine. La guerra contro la Prussia. Per l’ultima volta Napoleone III sale a cavallo. L’armata francese è comandata dal generale Mac-Mahon: il primo settembre del ’70 è attaccata dai prussiani a Sedan, nella regione delle Ardenne. Il 2 settembre, l’imperatore di Francia è prigioniero del principe Bismarck. Fece epoca l’immagine dei due seduti a colloquio: un triste Napoleone, curvo nel cappottone militare stazzonato e un Bismarck, bonario sì, ma in uniforme impeccabile, alti stivali e con il tipico elmetto chiodato, il pickelhauben, in testa. Il 18 gennaio del 1871 nel Salone degli Specchi del palazzo diVersailles, Bismarck riunì tutti i principi tedeschi e impose le sue condizioni di pace al governo provvisorio della Terza Repubblica francese nata sulle ceneri del Secondo Impero. Ormai tutti i francesi odiavano Napoleone III. Per le sinistre era il traditore delle speranze repubblicane e delle libertà. Per le destre legittimiste era quasi come il suo grande zio, l’Anticristo, l’uomo dell’Apocalisse. Lui, di nuovo in esilio a Londra, continuò a inseguire un ritorno: riprese a tramare come aveva fatto trent’anni prima, organizzò un colpo di Stato che sarebbe dovuto scattare il 31 gennaio del 1873. Ma il mattino del 9 gennaio il suo cuore cessò di battere. Scrive Cardini: «Nessuno saprà mai quanto e fino a che punto sarebbe stato serio il suo colpo di Stato e se lo avrebbe davvero tentato. Forse gli fu risparmiata la pena d’un altro fallimento patetico, come quelli provati in gioventù».


Narrativa

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na delle imprese più difficili per uno scrittore è quella di vivisezionare un rapporto coniugale. Irène Némirovsky, nell’ultimo romanzo tradotto e pubblicato dall’Adelphi (non a caso intitolato Due) dà prova superba della sua capacità di cogliere la complessità del matrimonio, di ciò che si nasconde tra le pieghe o di un’intimità intermittente, tra corpi e anime, o di quello che amaramente definisce come «assenza di pudore». Siamo a Parigi negli anni Venti, e l’aria che respira un gruppo di ventenni ricorda a tratti il clima alla Francis Scott Fitzgerald in Tenera è la notte e in Belli e dannati. C’è, come nei romanzi dello scrittore americano, un’ardente volontà di essere felici, ma anche confusione di scelte e svuotamenti morali che conducono alla deriva o alla rassegnazione. Oppure a una troppo quieta tenerezza. Nel romanzo della scrittrice nata a Kiev ed emigrata in Francia (poi deportata dai nazisti) dominano le dinamiche familiari, per la precisione di due famiglie che sono composte di tanti figli e di tante contraddizioni, non ultima quella relativa alla solitudine dei genitori e alle difficoltà economiche, non secondario elemento di precarietà. I giovani si riuniscono, ascoltano musica, si vantano di conquiste sessuali, oscillano tra amori come se fossero in un continuo valzer. Ma alcuni avvertono l’oppressione del tempo e della società e s’ammalano di instabilità emotiva. Antoine Carmontel, che pagina dopo pagina diventa il protagonista, è molto vicino al padre e distante dalla madre, donna egocentrica e lagnosa. In una delle tante riunioni domestiche l’autrice osserva che «niente cambiava lì dentro; l’atmosfera era ovattata, un po’ soffocante; dalla famiglia si sprigionava una noia particolare, una sorta di dissolvimento non privo di fascino». E l’Antoine sempre alla ricerca del piacere, «avendo la saggezza di non desiderare niente di più», farà di Marianne Segrè prima la sua amante e poi la sua consorte. Giovane, morbida e affascinante, Marianne pare perdonare la ruvidezza e l’arroganza di Antoine in nome del desiderio di «dormire» con lui e non solo stare tra le stesse lenzuola per qualche ora soltanto: «Nessuna intimità fisica è paragonabile al sonno nello stesso letto, notte dopo notte». E matrimonio sarà, affrettato dalla gravidanza. Inficiato inoltre ai suoi albori dalla conturbante presenza di Evelyne, sorella di Marianne, la quale spaccherà la sfera emozionale di lui, strattonato da un amore extraconiugale che è quasi «felicità terrificante» e dal tepore della famiglia, dal nido che a poco a poco viene costruito attorno, con il solido conforto delle abitudini. È comunque tormento e tradimento per Antoine baciare la gamba della moglie immaginando la flessuo-

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Autostorie

libri

Irène Némirovsky DUE Adelphi, 237 pagine, 18,50 euro

Scene da un matrimonio (secondo

Irène

Némirovsky) Il talento della scrittrice ucraina che in “Due” diventa formidabile entomologa di un rapporto di coppia nella Parigi degli anni Venti di Pier Mario Fasanotti

sità e il profumo della cognata. Marito e moglie fanno in fretta, dopo l’esaltante periodo di passione clandestina, a coricarsi insieme «separati dalle loro speranze, dai loro rimpianti, dai loro sogni». Certamente sono uniti dal calore dei corpi. Ma questo non è sufficiente. Come non basta parlare dei figli. Anche Marianne se ne accorgerà, fino a confessare a se stessa che il matrimonio le è solo necessario ma non è più la meta delle sue emozioni. Dopo la morte del padre e l’inizio di un affanno economico, la frenesia di Antoine, poco versato a crearsi appigli di profonda interiorità, s’aggrappa a quella «creatura multiforme» che è Evelyne. È come un continuo ricordare la moglie «prima», o comunque la moglie come avrebbe voluto che fosse e si trasformasse. La Némirovsky è formidabile nel diventare entomologa della coppia, enunciando verità che ognuno di noi ha più o meno evidenti dentro di sé. Per esempio, Antoine sa bene che Marianne è una fonte di sicurezza in quanto di lei lui conosce il presente e anche il futuro. Mentre di Evelyne, così incerta e dilaniata nella sua travolgente passione, tratteggia la figura di una donna «che racchiude in sé tutte le possibilità», anche le meno gradevoli. Pensa che solo il matrimonio potrà fissare definitivamente alcuni suoi caratteri, fermare una volta per tutte i guizzi mentali e sensuali di un’amante che proprio perché è tale, intensamente tale, è imprendibile. Evelyne arriverà alla conclusione che niente, nemmeno la propria esuberante presenza, potrà privare la sorella del marito che ha accanto a sé, e allora comincerà a pensare a un sacrificio. Gli anni passano, Antoine e Marianne si trovano abbracciati in un taxi: «Non provano desiderio», sono calmi, un po’ ironici e senza gioia. Ma «un istante dopo fu come se per loro ogni difficoltà fosse sparita».

Quando in Italia si teneva anche la guida a sinistra ella sua vicenda, lunga ormai più di un secolo, l’automobile ha marcato profondi cambiamenti nell’evoluzione della società e del modo stesso di vivere delle persone. Rappresentando non solo uno strumento della libertà di movimento, grazie alla sua flessibilità d’uso e di gestione, ma quale oggetto domestico che ha modificato non poco diversi schemi di comportamento di tipo individuale o famigliare. Nel contempo ha inciso sulla diversa percezione della distanza e degli ambiti utilizzabili per le attività quotidiane, con radicali trasformazioni dello stesso spazio urbano, ridisegnato in funzione della nuova mobilità individuale di massa e con l’insorgere di problemi del tutto nuovi, tra cui quelli di tipo ambientale o legati agli incidenti. Tematiche che riguardano, nel loro insieme, «l’automobile e la sua storia. Una storia che coinvolge l’Automobile Club d’Italia, le cui origini possono essere fatte risalire al 1898 e che da allora promuove la mobilità e la sicurezza del cittadino. Per chi come me rappresenta un ente pubblico, di oltre un milione di soci, che ha vissu-

N

di Paolo Malagodi to in prima fila un’avventura iniziata poco dopo l’unità d’Italia non può che essere un onore presentare un lavoro che riassume in una parola quello per cui l’Aci nacque: l’automobile». Così firma Enrico Gelpi, attuale presidente dell’Automobile Club d’Italia, la presentazione di un volume L’automobile: un secolo di evoluzione legislativa, sociale, culturale, (Aci editore, 296 pagine) - che intende raccontare agli italiani la storia di uno dei simboli più importanti del Novecento; ripercorrendo l’evoluzione dell’automobile fino ad arrivare agli anni in cui il settore diventa la più grande impresa del Paese, per poi trovarsi nell’ultimo periodo in una crisi globale. Attraverso un lavoro redatto dalla Fondazione Filippo Caracciolo che, quale centro studi dello stesso Automobile Club d’Italia, è stata fondata nel 1996 allo scopo di «promuovere la ricerca scientifica sull’automobilismo, in particolare con riferimento alla mobilità, alla sicurezza e alla tutela dell’ambiente».

Un secolo di evoluzione legislativa, culturale e sociale in un volume promosso dall’Aci

Compito egregiamente svolto in questo interessante saggio - richiedibile in forma gratuita all’Aci - che, a differenza di altri, non si applica a dibattuti temi di economia industriale. Citando solo per cenni la genesi e lo sviluppo della produzione italiana, per entrare invece in aspetti evolutivi del costume e dell’uso dell’automobile, osservati dal punto di vista degli utenti. Notevole spazio, per oltre un terzo del volume, viene così dato agli aspetti legislativi di un comparto che, dopo la prima quattroruote circolante dal 1893 in provincia di Vicenza, negli iniziali anni di limitata diffusione dell’automobile aveva lasciato campo alle varie disposizioni locali e «pertanto capitava, che in alcune città si teneva la destra mentre in altre la sinistra». Sino al primo Regolamento per la circolazione delle automobili, emanato da Vittorio Emanale III il 20 gennaio 1901 che introduceva anche l’obbligo della licenza a guidare, ovvero della patente. Con il cremonese Carlo Carulli che per primo superò l’esame di abilitazione, a condurre un’auto che non avrebbe dovuto tuttavia superare, secondo tali norme, i 25 chilometri all’ora in aperta campagna e «quella di un cavallo al trotto», ossia circa 15 chilometri, negli abitati.


Società

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arte di non dire la verità (Feltrinelli, 204 pagine, 14,00 euro) è un libro di Adam Soboczynski che si propone di istruire il lettore alla menzogna scientifica e sistematica. Il succo del libro è che si mente sempre, che lo vogliamo o no. Mentiamo dicendo mezze verità, mentiamo con la cortesia, mentiamo usando la buona educazione anche quando siamo di cattivo umore e avremmo voglia di procedere tra gli altri a spintoni. Possiamo mentire, dice Soboczynski con arte, con scienza e con strategia. I personaggi che nel libro si adeguano a questa regola non scritta dell’esistenza e che la applicano meglio degli altri sono i vincenti, coloro che sopravvivono nel manierato darwinismo sociale dei tempi nostri, gli altri semplicemente soccombono. Non è bello, forse non è giusto, ma così stanno le cose dice il giornalista polacco: «Si parla sempre di essere autentici, ma in realtà noi agiamo sempre con strategia. Dipende dalla concorrenza spietata acuita dalla crisi economica e dalle dinamiche liquide della globalizzazione che scardina le gerarchie verticali e trasforma il nostro vicino di scrivania in concorrente mortale, ma dipende anche da un fattore meno contingente: la natura umana. La dissimulazione è il presupposto della civiltà. Non mi interessa come l’uomo dovrebbe essere - dice d’altronde Soboczynski - mi interessa com’è. Descrivo gli espedienti che dovrebbe escogitare per cavarsela. Sarebbe autolesionista cedere alle passioni, alla rabbia verso un collega sleale protetto dal capo. Non voglio dimostrare come si deve essere morali bensì come si può essere furbi».

L’

Sembrano dettami di buon senso, in fondo. Considerazioni forse un po’crude ma realistiche. Ma ne siamo proprio sicuri? Perché ci si potrebbe anche chiedere: quale è la vita necessaria quando la verità non lo è più? Se devo confrontarmi col pensiero che niente è vero, che tutto è apparenza e convenienza a un certo punto sono costretto a domandarmi: come devo vivere? E soprattutto, se tutto è menzogna, se tutto è apparenza, anche io sono menzogna e apparenza? Certo, si può decidere di vivere da comari vittoriane o come astucci di buone maniere dentro cui si tengono chiuse e custodite intenzioni poco benevole (Gesù Cristo parlava di sepolcri imbiancati: fuori pitturati di fresco, dentro pieni di ogni putridume), si può fare dell’ipocrisia un’armatura dentro la quale operare strategie per fottere il nostro prossimo proprio quando meno se lo aspetta… Mors tua vita mea. Ma insomma viene il sospetto che queste istruzioni per una vita furba sono in realtà istruzioni per una vita infame. Sì, perché a parte il senso dell’onore, residuo d’un’umanità premoderna che amava il confronto diretto, a forza di mascherarsi, di celare dietro un sorriso commerciale le peggiori intenzioni, di rivestirsi d’una pellicola di ipocrisia per evitare gli urti della vita, alla lunga si diventa delle povere, dolorose macchiette, delle figurine manierate che paiono uscite da un manuale di bon ton o peggio, appunto da un manuale di precettistica cinica. Così che ci si può trovare a un funerale senza essere capaci di far sentire un cordoglio sincero o a un battesimo senza riuscire a trasmettere nemmeno un po’ di gioia. E non è che questa indifferenza di fondo non trapeli e non faccia intuire che in definitiva si abbia a che fare con degli

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Verità

e menzogna, istruzioni per l’uso Due libri, opposti e speculari, sul nostro modo di vivere le relazioni. Secondo il giornalista polacco Adam Soboczynski, l’arte della dissimulazione è il presupposto della civiltà. Ma per Vito Mancuso, la realizzazione di sé passa attraverso rapporti autentici con gli altri di Riccardo Paradisi handicappati emotivi. Ma non sono ancora queste le argomentazioni decisive che dimostrano che è meglio essere persone autentiche piuttosto che delle maschere mutanti: duri coi più deboli, simpatici coi più forti, galanti nelle circostanze sentimentali, devoti alle manifestazioni religiose, entusiasti a quelle culturali. In fondo è così che va avanti il mondo e soprattutto è così che si va avanti nel mondo. L’argomentazione più forte in favore dell’autenticità e dei valori non è di natura etica ed estetica, è di natura trascendente e utilitaristica.Vito Mancuso in La vita autentica (Raffaello Cortina editore, 171 pagine, 10,80 euro), libro da leggere in sinottica speculare con quello di Soboczynski, la spiega molto bene. Il nostro Io - dice Mancuso - esiste in quanto frutto delle sue relazioni. L’io è relazione. Ed è dalla stessa natura che emerge il modo più adeguato di vivere la nostra vita, «sono il bene e la giustizia a dare quella felicità profonda che dona serenità facendo sì che ognuno stia bene con se stesso».

Non è l’apologia d’un candore passivo, quello d’un quietismo che non si oppone al male, d’un irenismo imbelle. «Anche a me sta a cuore la potenza, non voglio essere senza volontà mia. Ma l’acquisizione della potenza di un vero uomo, cioè la volontà umana di una potenza umana, si determina nella direzione della relazione armoniosa con l’ambiente e con gli altri e non nel suo contrario. I migliori leader non sono coloro che impongono se stessi agli altri ma coloro che sanno essere squadra, sistema, concerti di relazioni ordinate». Quindi per perseguire al meglio la forza, il metodo più adeguato è la giustizia, perché è solo la giustizia che dà stabilità al sistema: «La maniera migliore di realizzare se stessi è stabilire rapporti au-

ALTRE LETTURE

QUEGLI AMICI CHE CI CURANO L’ANIMA n un mondo che corre vertiginosamente e che ha fatto dello «scaricare da internet» una specie di nuovo comandamento. la lettura tradizionale, quella del contatto fisico col libro, dell’occhio che scorre sull’ordinata pagina scritta, rischia di diventare sempre di più un’azione inattuale. Eppure chi continuerà a celebrare questo antico rito, a concedersi un tempo di riflessione, a difendere lo spazio della lettura, continuerà letteralmente ad avere cura di sé. La lettura infatti, come scrive in Libroterapia Manuela Racci (Edizioni Mediterranee, 177 pagine, 7,95 euro), è uno strumento di crescita personale, di conoscenza di sé, tanto da essere usata anche a scopo terapeutico (la parola biblioterapia è stata coniata negli anni Trenta dallo psichiatra William Menninger).

I

I SEGRETI DI CIANCIMINO RACCONTATI DAL FIGLIO *****

uarant’anni di relazioni segrete e inconfessabili, tra politica e criminalità mafiosa, tra Stato e Cosa nostra. Perno della narrazione è la vicenda di Vito Ciancimino, «don Vito da Corleone», uno dei protagonisti della vita pubblica siciliana e nazionale del secondo dopoguerra, amico personale di Bernardo Provenzano, per una breve stagione sindaco della città, per decenni snodo cruciale di tutte le trame nascoste a cavallo tra mafia, istituzioni, affari e servizi segreti. A squarciare il velo sui misteri di don Vito è oggi Massimo, il penultimo dei suoi cinque figli, che per anni gli è stato più vicino. Il suo racconto Don Vito (Feltrinelli, 311 pagine, 18,00 euro) riscrive pagine fondamentali della nostra storia: dal «sacco di Palermo», alle stragi del ’92, dalla «trattativa» tra pezzi dello Stato e Cosa nostra alla fondazione di Forza Italia, al ruolo di Marcello Dell’Utri.

Q

LA DOTTRINA SEGRETA DEL TERZO REICH *****

siste una tradizione esoterica occidentale? Sotto quali forme si manifesta? Qual è il rapporto tra questa cultura «altra» e le diverse forme politiche di matrice razionalistica dell’Occidente? E tra esoterismo e nazismo? Hitler e i vertici del partito erano in possesso di una dottrina segreta? Che cosa è invece possibile dire riguardo alle altre dittature del XX secolo? E in che modo, oggi, la democrazia rappresentativa si rapporta a questa cultura alternativa? Frutto di cinque anni di lavoro Intervista sul nazismo magico di Giorgio Galli e Paolo Dossena (Lindau, 270 pagine, 18,00 euro) risponde a queste domande su una tradizione dai risvolti inquietanti.

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tentici e giusti con gli altri e la reale attuazione del proprio bene contiene la cura di rapporti leali. La cura di sé, insomma, si consegue più nella linea dell’altruismo che non dell’egoismo». Certo c’è una quota di male e dolore che occorre sopportare e subire. Che è illusorio poter evitare o rimuovere: «la croce è il simbolo di questa accettazione responsabile della sofferenza e della lotta come volontà di non abbandonare il campo di battaglia, come fortezza nel sostenere l’inevitabile momento negativo del processo dialettico teso all’armonia relazionale». Ed eludere il dolore e la croce attraverso la dissimulazione non è un’ipotesi cinica, è semplicemente un’illusione. L’illusione di eludere l’umano.


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di Pier Mario Fasanotti ome ho già scritto su questo angolo di liberal, la fiction offerta dai canali Sky arranca. Riproposizioni di (ormai) vecchi serial, piccole e modeste invenzioni narrative. Viene da chiedersi: la potentissima emittente di Murdoch sta facendo un’accurata campagna di acquisti oppure è solo alla ricerca di prodotti appetibili e già collaudati nell’etere statunitense? Sta di fatto che gli affezionati da sei mesi a questa parte sono delusi, a comprensibilmente irritati. Una graziosa eccezione per la verità c’è. Nulla di sconvolgente, solo gradevole: Si intitola White Collar e persegue il sentiero investigativo classico, evitando però l’ossessione dei laboratori scientifici, dove l’onnipotenza delle analisi chimiche, balistiche e anatomopatologiche alla fine danno un’idea non proprio realistica della pratica che dovrebbe condurre all’individuazione della verità e allo smascheramento dei criminali, anche quelli più astuti. Il sottotitolo recita così: «Il fascino del crimine». In effetti non si sa più che cosa dire della propensione - occasionale o patologica - a uccidere e quindi a creare una tela narrativa con gli ingredienti validi in tutte le latitudini letterarie: mistero, sospetto, indizi sbagliati, colpi di scena, nascondimenti di bassi istinti e plateali esibizioni di violenza, ovviamente compresa quella di marca sessuale. È curioso, ma anche giusto, pensare che un telespettatore attentissimo, e con molto tempo libero, oggi si trova a essere straordinariamente dotto sulla storia criminale. Non solo italiana e non solo contemporanea. Spesso le vicende storiche, anche quelle più remote, ci vengono presentate come rebus giallistici. Storia come detective-story: dagli avvelenamenti dei Borgia ai banchieri impiccati sotto qualche ponte londinese dal nome suggestivo. Tornando al nostro White Collar, c’è da notare un elemento che di solito non è posto in risalto, ossia quello comico. Merito del canovaccio della serie, imperniata sulla disinvolta collaborazione

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Teatro

Televisione

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spettacoli DVD

White Collar

classico, con ironia

IL MISTERO PICASSO, TUTTI I BRIVIDI DEL ’900 ttanta minuti di cinema puro, per raccontare l’arte come mai a nessun altro è più riuscito da mezzo secolo a questa parte. Firmato da Georges Clouzot e dal fotografo Claude Renoir, Il mistero Picasso è un thriller estetico in grado di ripercorrere il divenire di quindici tavole del Maestro, dal primo segno sulla tela alla pennellata definitiva. Un evento di videoarte ante-litteram, che nel 1956 portò in scena lo stesso Picasso alle prese con il processo creativo, alla ricerca del «quadro sotto tanti altri quadri». Flash di puro talento trascinano lo spettatore in un abbagliante viaggio che illumina come pochi il Novecento.

O

GAMES

ROY IN TOUR 70 VOLTE LATINISTA con l’Fbi - sezione white collar, incaricata di crimini non violenti - dell’ambiguo e simpatico mago della truffa Neal Caffrey. È a piede libero. Si fa per dire perché ha l’anello elettronico di sicurezza alla caviglia. Forte della sua esperienza di contraffattore di documenti e di raggiratore di leggi, dà una mano ai federali. Si avvale della stravagante collaborazione dell’amico Mozzie, che spesso si traveste, passa per chi non è, convince in modo inventivo chi non dovrebbe prestargli fiducia, e alla fine ha il suo colpo di genio. Neal segnala la giusta direzione agli investigatori. Gli agenti federali, in questa serie, sono molto più rilassati di altri «colleghi» televisivi, ridono come ragazzi e le donne non hanno reazioni isteriche alle battu-

telle spintamente galanti. Certo, non mancano i luoghi comuni lessicali: «scena del crimine», «è il nostro uomo», «calibro 25, quindi arma leggera», «regolamento di conti tra “famiglie”», «siamo sull’orlo di una guerra di mafia». Non mancano nemmeno, a volte, le suggestioni dell’inventario storico-misterico consueto, per la verità un po’ trito: il libro segreto e antico, il breviario che guarisce gli ammalati, la setta degli Illuminati, i bassi napoletani come scrigno di carte miracolose. Se entra in scena una donna che il copione vuole come italiana, ebbene questa si chiama incredibilmente Maria Fiammetta, manco fossimo nella Firenze dei Medici, è astuta e languida, pettoruta e scaltrissima. Tuttavia si sorride.

e il buongiorno si vede dal mattino, è facile prevedere per il secondo album di Roy Paci, una contagiosa diffusione: per informazioni chiedere agli sgambettanti giovani che hanno ballato sulle note di Latinista, al Concertone del primo maggio. Anticipata dal singolo Bonjour Bahia, e prodotta in collaborazione con Jovanotti, la seconda prova del poliedrico artista siciliano con il Brasile nel cuore, toccherà nei prossimi mesi ben settanta città italiane. Al momento sono già confermate le date del 5 giugno a Salerno, del 18 a Mestre, e del 16 luglio a Genova. Sembra sarà un’estate all’insegna dell’intelligente arguzia degli Aretuska.

S

di Francesco Lo Dico

A pranzo da Babette… ma senza stupore di Enrica Rosso er essere felici ci vuole coraggio». Citando la stessa Karen Christentze Dinesen in arte Karen Blixen - arriviamo dritti al cuore di A pranzo da Babette, lo spettacolo che Riccardo Cavallo mette in scena a Roma per la compagnia Attori e Tecnici. L’autrice danese, donna dai molti talenti - compreso quello pittorico - fu da subito apprezzata per la sua narrazione che rispecchiava un animo libero e avventuroso. Così stretta in un ruolo, da firmare la sua produzione letteraria con svariati pseudonimi. Composto nel 1952 e contenuto nella raccolta che titola Capricci del destino, Il pranzo di Babette aveva già guadagnato l’attenzione di Gabriel Axel che con l’omonimo film nel 1987 vinse un Oscar. In una scena inclinata, protesa verso il pubblico, pochi elementi lignei, scultorei a creare un interno di spessore in grado di accogliere la vita emotiva dei personaggi: sedie e tavo-

«P

li con zampe pesanti, ben radicate sul pavimento, linee curve sobriamente messe in luce da un’illuminazione naturalistica, tenue, da nord Europa. Siamo in un piccolo villaggio della Norvegia a casa di due anziane sorelle figlie del fu reverendo della comunità. Le due donne i cui nomi - Martina e Filippa - tradiscono l’amore paterno per Martin Lutero, conducono un’esistenza fatta di piccoli gesti quotidiani ripetuti nella penombra, senza altre velleità che confermare gli insegnamenti del genitore. Parrebbe un luogo dimenticato da Dio e dagli uomini i cui abitanti «non ricordano cosa hanno mangiato ieri sera, ma si ricordano un torto subito trent’anni fa». Ma in una notte di pioggia busserà alla loro porta certa Babette. La donna, fuggita da Parigi per evitare la cattura dopo i giorni della Comune, si inserirà nel nucleo famigliare nel ruolo di cuoca. Molto apprezzata da tutti, sarà proprio lei a offrire loro uno scampolo di felicità dedicando la sua arte e un’ingente somma di dena-

ro vinta alla lotteria, alla confezione di un pasto in onore dell’amato genitore in grado di risvegliare gli animi sopiti. Ed ecco quindi che con il sopravanzare delle portate l’umore delle due severe cattoliche luterane muta per arrivare a un disgelo degli intorpiditi cuori, vagheggiando amori artistici e carnali mai esplorati per non tradire la più rassicurante causa paterna. La tanto desiata leggerezza viene però solo evocata e mai raggiunta, seppure la regia risulti pensata con cognizione di causa e curata nei dettagli. L’operazione fatta ora sul testo ricuce i dialoghi originali spogliandoli dell’humus da cui scaturiscono restituendoci una scrittura meno estrosa rispetto all’originale; estrapolati dal contesto, perdono il fascino dell’epoca e risultano, a tratti, eccessivamente prolissi. La scena rimane faticosamente buia, la musica di sottofondo non immette nessuna ariosità e neppure giovano i tempi morti di un’apparecchiatura ornata, ma intimamente poco partecipata. La compagnia di ottimi

interpreti rimane imprigionata nella griglia di un eccessivo rigore esecutivo. Mancano insomma lo stupore prima e lo stordimento poi, dovuti alla scoperta dei propri desideri segreti, l’ebbrezza per aver sfiorato la dolcezza della vita, quella che ci motiva e fa la differenza, ci innalza. Per non essere costretti a dire, tornando alle parole della Blixen: «Che cos’è l’uomo, quando ci pensi, se non una macchina complicata e ingegnosa per trasformare, con sapienza infinita, il rosso vino di Shiraz in orina?».

Karen Blixen, A pranzo da Babette, Teatro Vittoria di Roma fino al 16 maggio, info: tel 06-5740170 www.teatrovittoria.it


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poesia

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Li dolci detti del “padre” di Dante di Francesco Napoli ante Alighieri ha saputo definire con geniale intuito anche la tradizione del suo tempo, indicando, senza esitare, in Guido Guinizzelli il maestro del nuovo stile, l’iniziatore di un rinnovato valore della poesia e dell’ispirazione. «I’ mi son un che quando/ Amor mi spira, noto e a quel modo/ ch’è ditta dentro, vo significando», scrive nel suo Purgatorio (XXIV canto), volendo con questa terzina prendere definitivamente le distanze dai Siciliani, Giacomo da Lentini, e dai tosco-siciliani, Guittone d’Arezzo e Bonagiunta Orbicciani da Lucca, a esaltazione del grande innovatore che aveva aperto la strada maestra dell’esperienza lirico-spirituale alla giovane generazione stilnovistica. «Il padre/ mio e de li altri miei miglior che mai/ rime d’amor usar dolci e leggiadre» ribadirà Dante due canti dopo, quando nel divin cammino incontra Guido Guinizzelli, da Bologna. Giudice figlio di giudice, Guido nacque nel capoluogo felsineo intorno al 1230. Di parte ghibellina, fu come Dante costretto all’esilio nel 1274 e confinato con tutta la famiglia - tra cui il padre demente, la moglie e il figlioletto Guiduccio - a Monselice dove ancor giovane lo colse la morte nel 1276.

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Aveva iniziato a far versi seguendo i toscani come Guittone al quale innalza un sonetto-tenzone che principia con un rispetto volutamente esagerato, «Caro padre mëo, de vostra laude/ non bisogna ch’alcun omo se ’mbarchi», che il destinatario coglie nella sua enfatizzazione e, pur rispondendo all’autore «figlio mio dilettoso», ne avverte il profondo distacco sul piano della poetica. Precursore della poesia stilnovistica, Guinizelli ne fu quindi il «padre», come lo appella Dante. A lui si deve il progetto di riscattare la riflessione amorosa dalla sua fonte esclusivamente sentimentale e di riconciliarla con una realtà più specificamente etica. Egli ideò un sistema di amore-virtù in grado di redimere la pressione passionale e irrazionale elevandola alla sfera dello spirito e dell’intelletto. Guinizelli indica una via per la quale l’esperienza intimista, epurandosi, possa diventare il motore sempre nuovo e originale dell’espressione lirica. Dunque: da Guittone a Guido a Dante è tutta una catena di padri riconosciuti e poi superati. Descrive molto bene questa sorta di genealogia poetica, e il rapporto padre-figlio tra Guido Guinizzelli e Dante Alighieri, Davide Rondoni nel capitolo d’apertura di una sua recente raccolta di appunti su Dante (e sull’amore), Per lei, e per tutti (Edi-

il club di calliope

zioni della Meridiana). Il volume, centrato Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo sul poeta della Commedia, fa base su una che fate quando v’encontro, m’ancide: decisiva constatazione storico-filosofica. «Sono gli anni delle discussioni tra BerAmor m’assale e già non à reguardo nardo, Guglielmo di Saint Thiery e Abelardo sulla natura dell’amore», scrive Rondos’elli face peccato over merzede, ni, avvicinando dunque il culmine del dibattito sul tema tra mistica e religione a quanto i letterati stavano elaborando, e ché per mezzo lo cor me lanciò un dardo sull’eco di queste dispute maturerà un ched oltre ’n parte lo taglia e divide; paio di secoli dopo il Dolce stilnovo. Un’intuizione tanto suggestiva quanto parla non posso, ché ’n pene io ardo brillante. Dante poi conosce bene l’opera sì come quelli che sua morte vede. guinizzelliana e quella canzone da cui tutto si diparte, «Al cor gentile rimpaira sempre amore», la fa propria, la mutua, perPer li occhi passa come fa lo trono, ché un poeta sa guardare ad altri poeti. E letteralmente lo fa pure lui che nel Purgache fer ’per la finestra de la torre torio «sanza udire e dir pensoso andai/ e ciò che dentro trova spezza e fende; lunga fïata rimirando lui» si ferma dinanzi alle fiamme prima d’ascoltare Guinizzelli. «Dante - osserva ancora Rondoni mette in scena con il padre della remagno come statüa d’ottono, sua poesia questo guardarlo in ove vita né spirto non ricorre, faccia. Non è necessaria una narrazione (…) in questo se non che la figura d’omo rende. momento c’è il fermarsi e guardarsi a lungo. È un poeta che guarda un Guido Guinizzelli altro poeta». Nella (dalle Rime) corresponsione dello sguardo c’è come un mandato affidato da Guido Guinizzelli a Dante che con la semplice naturalezza dei gran- della civiltà mentale e culturale dell’uomo. Il poeta è di lo farà seguendo «li dolci immerso nel suo tempo, non ne può rifuggire, deve detti vostri,/ che, quanto durerà necessariamente farci i conti e non in astratto. Al bell’uso moderno,/ faranno cari an- l’isolamento dei poeti meridionali della Scuola sicicora i loro incontri». liana o all’empirismo cronachistico dei Toscani, Guinizzelli sostituisce, come sottolinea con giustezza La donna angelicata, l’identità Salvatore Battaglia, «il concetto di una poesia che vadi amore e cuor gentile sono certa- lesse a riformare e illuminare la vita dello spirito e il mente quei temi ancora impressi costume dell’individuo». nella memoria di un liceale appena Dante insiste nel XXVI del Purgatorio sulla dolcezza discreto, di oggi come di decenni fa, e e sulla leggiadria della lirica del «padre» putativo su questi punti ha spesso insistito la criti- della sua opera. E lo punisce, a fianco di Arnaut Daca. Ed è con il «manifesto» della celebre niel, probabilmente perché fin troppo spinta è stata la canzone («Al cor gentil rempaira sempre amo- passione nel poeta bolognese. Dante lo ammira e lo re») che Guinizzelli affida alla lirica una mansione supera, ma ha le sue riserve a riguardo: pur autore di molto più delicata di quanto non fosse stata quella una lirica di straordinario valore artistico, Guinizzeldei Toscani e dei Siciliani. Strappa definitivamente i li lascia agli occhi del poeta fiorentino del tutto irricontenuti della poesia a certa astrattezza ripristinan- solto il problema del rapporto fra amore e religione done quei valori idealizzanti che avevano già ispira- che proprio Dante saprà sublimare altissimamente to i trovatori classici. La percezione oggi su Guido lasciandosi andare dal fuoco del Purgatorio alla beaGuinizzelli e sulla sua opera è che con lui la poesia titudine del Paradiso, dal fuoco dell’amore materiale inizia finalmente a essere partecipe della costruzione alla beatitudine dello sguardo di Beatrice.

IL LIRISMO “SCORTICATO” CHE SALVERÀ IL MONDO in libreria

Un vento lungo, bianco, senza fine, strappa le foglie e i petali alle rose. Sull’ombra polverosa delle cose splende il nero pungente delle spine. Poi, senza avviso, gli occhi del pensiero ridisegnano l’acqua delle rive. E, in quegli occhi che sentono, rivive la trasparenza, che rifiuta il nero. Angelo Ferrante

di Loretto Rafanelli i Roger Gilbert-Lecomte (1907-1943), Antonin Artaud diceva che era «uno dei rari poeti a coltivare una forma di lirismo violento, nodoso, riarso, un lirismo dalle grida di scorticato…», potremmo aggiungere che lo scrittore francese, amico e sodale di René Daumal, con cui cercò di superare il movimento surrealista, esprime una visionarietà straordinaria e una ribelle irruenza verbale, nell’alveo di un pensiero fortemente tragico. La traduzione di alcune sue liriche e prose (Il figlio dell’osso parla, L’Obliquo, 68 pagine, 11,00 euro), per l’ottima cura di Pasquale Di Palmo, consente di immetterci nel labirinto allucinato e folle di un poeta profondamente influenzato dalla componente onirica e dall’inconscio, che sfocerà in una scrittura caotica e disarticolata, ma pure tesa all’estrema indicazione di unire l’uomo alla terra e al cielo, la via necessaria «se si vuole salvare l’umanità, dal suo inevitabile disastro, dalla sua rovina». E questa «attività dello spirito», questa rinascita è la poesia, perché solo lei «salverà il mondo o il mondo morirà».

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I misteri dell’universo

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MobyDICK

ai confini della realtà

di Emilio Spedicato ovevo avere finito il ginnasio quando, come regalo di Natale allora i regali erano modesti, uno o due libri - trovai un volume dalla sovracoperta verde intitolato I fiumi scendevano a Oriente. Il libro trattava di un viaggio esplorativo dell’americano Leonard Clark nella regione orientale del Perù, seguendo il fiume Perenè che dalle alte regioni andine portava alla pianura allora quasi integralmente coperta di giungla in cui scorreva il fiume Ucayali. Fiume che unendosi poi con il Marañon forma il Rio delle Amazzoni, di cui definisce il percorso più lungo, circa 6000 km. L’Ucayali riceve anche acque dalla regione ai confini fra Perù e Bolivia, detta Madre de Dios, nota ora per la presenza di una città solo in parte esplorata, ricca di strutture incaiche. E citata da Clarck perché si diceva che in quella terra vivesse un animale gigantesco, forse una varietà di dinosauro sopravvissuta alla scomparsa dei suoi simili. Clark era entrato in una regione dove si trovavano alcuni indios, i cosiddetti Mansi, passati dagli usi tradizionali ad attività di tipo agricolo occidentale, al servizio di coltivatori locali (se di coca, Clark non ne parla). Ma lungo i duemila e più km dell’Ucayali si trovavano anche tribù ancora indipendenti, come gli Aguaruna, dei quali Clark ricorda l’abitudine, forse unica fra le tribù primitive, di allungare il pene, cominciando da bambini, sino a fargli raggiungere dimensioni rispetto alle quali quelli dei Priapi, le cui statue si sono trovate a Pompei, sembrano piuttosto nane. Dopo l’Ucayali, Clark risalì il Marañon, fiume noto per la presenza di una tribù, i Jivaro, specializzata nel ridurre le teste dei nemici a dimensioni di un pugno. Il suo scopo ufficiale era la ricerca delle sette città dell’oro, ma notando che nella sua discesa verso l’Ucayali aveva osservato in certe regioni infiltrazioni di petrolio, seguite dal successivo sviluppo di attività petrolifere nella zona di Pucalpa,

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Sulle orme di Clark nei luoghi di Gilgamesh pareti verticali instabilissime, e dovette intervenire un elicottero inviato dalla moglie. È questa un’altra regione ricca di minerali, dove Clark era probabilmente incaricato di una prospezione. Qui si trova una delle maggiori miniere di ferro del mondo, e nelle zone più isolate, specie nella parte brasiliana, ci sono migliaia di cercatori di oro nei fiumi. Inevi-

Clark morì annegato, nel 1957. Il primo dei tre fiumi che vanno associati a Clark è quello che nelle carte cinesi viene indicato con Maqu, (si pronuncia Maciu). È una sezione del Fiume Giallo situata in territorio una volta tibetano, ora facente parte della vasta provincia cinese detta Qinghai, ovvero «Mare delle erbe», capitale Xining, città da cui parte una ferro-

Dal Perù al Tibet, dal fiume Ucayali al Maqu, i resoconti dei viaggi dell’esploratore americano annegato nel 1957 in Venezuela. Gli usi e i costumi delle varie tribù dei Mansi, degli Aguarana, dei Javaro. La ricerca delle sette città dell’oro, il petrolio e le miniere di ferro. E molto altro ancora… raggiungibile ora con una buona strada oltre che per via aerea, è facile pensare che Clark fosse pagato da società minerarie degli Usa. La parte più affascinante del viaggio fu agli inizi, prima di raggiungere l’Ucayali, quando fu catturato da una tribù, riuscendo poi a sfuggire. Quanto racconta sullo sciamano della tribù e sulla sua straordinaria capacità di orientamento nella foresta dagli alberi altissimi e priva di sottobosco dove un occidentale non saprebbe orientarsi senza bussola, è di un immenso fascino; e certo queste capacità maturate lungo millenni sono destinate a scomparire.

Dopo il viaggio in Perù, Clark partì per una spedizione in Venezuela, nella regione dell’altopiano della Guayana, in parte inesplorato, e dove qualche anno fa il nostro Walter Bonatti, trovandosi su una delle piatte cime di una montagna, fu incapace di scenderne a causa delle

tabili, quindi, gli scontri con gli indios locali, gli Yanomami, con massacri, e l’inquinamento dei fiumi dovuto al mercurio usato dai cercatori. E qui nel fiume Caronì l’esploratore

via che attraversando il Tetto del Mondo raggiunge, da pochi anni, Lhasa. Maqu è il nome che il Fiume Giallo prende qualche centinaio di km dopo la sua nascita, da un in-

sieme di ruscelli nello Tsaidam, terra dove i cinesi fanno spesso esperimenti atomici. Il Maqu, lungo circa 700 km, circonda su tre lati una vasto massiccio chiamato Anye Machen, sacro alla locale popolazione degli Ngolok, allora di religione Bon, quella che aveva il Tibet prima del passaggio al buddismo. Gli Ngolok erano allora circa 120 mila, ora sono meno di 2000, quasi tutti uccisi nella resistenza che fecero alle truppe comuniste quando invasero il Tibet. Forse il massimo genocidio del Novecento, sul quale per lo più giace un silenzio tombale.

L’accesso alla loro montagna non era permesso agli stranieri, e qualcuno, come l’esploratore Rock, ipotizzò che la cima del massiccio fosse più alta dell’Everest. Clark era allora ufficiale dell’esercito americano al seguito del generale musulmano Ma Pufang, ultimo a essere sconfitto dai cinesi (da Lin Biao in persona); poi fuggì al Cairo da re Faruk, con due aerei, uno carico d’oro e uno di donne. Clark doveva valutare le possibilità di continuare nel Tibet la resistenza ai comunisti, ma concluse che era impossibile date le scarse risorse locali. Le sue informazioni sulla regione mi portarono a concludere che lì si trovava probabilmente il monte dove Gilgamesh si recò nel suo secondo viaggio, alla ricerca del sopravvissuto al diluvio, Utnapishtim. Il nome Maqu è identico a quello che compare nelle fonti sumere. E quindi a Clark dedicai il mio studio sulla geografia dei viaggi di Gilgamesh. Ebbene qualche mese dopo ricevetti due e-mail, una dalla moglie e una dalla figlia di Clark, che a oltre trent’anni dalla sua morte mi ringraziavano. Miracoli di Internet.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando,Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza

Riforma forense:le criticità emergono e gli emendamenti raddoppiano Fino ad oggi la legge di riforma dell’avvocatura aveva avuto un iter condiviso in commissione, ma arrivato in aula, fin da subito ne abbiamo denunciate le criticità: una controriforma che limita l’accesso alla professione, non favorisce la concorrenza e il consumatore, entra in contrasto con la normativa comunitaria su tariffe, pubblicità, società multidisciplinari e accesso alla professione. Dopo il parere della commissione Bilancio, negativo su buona parte della legge chiedendone la modifica in particolare sulla complessa macchina facente capo al Consiglio nazionale forense, tanto da chiedere di aggiungere all’ultimo articolo una clausola di invarianza finanziaria riferita all’intero disegno di legge, i lavori dell’aula sono stati sospesi. Confidiamo che l’intero testo torni in commissione Giustizia, dove finalmente possano essere prese in considerazione le tante voci critiche e i tanti appunti fatti a questa controriforma, a partire dalle segnalazioni dell’Antitrust fino alla necessità di rendere il testo compatibile con la normativa europea.

Lettera firmata

L’INNO DI MAMELI È DEGLI ITALIANI O DI UNA CASA EDITRICE? Il diritto di autore va oltre le leggi? È questa la domanda che mi sono posta quando ho appreso che al consiglio comunale di Messina e alla federazione Pallavolo del Veneto, per aver eseguito in pubblico l’inno di Mameli, è toccato pagare 100 euro di diritto d’autore. La Siae è stata implacabile: il noleggio dello spartito, proprietà della casa musicale Sonzogno, costa quella cifra. Non solo, ma se l’inno viene eseguito in uno stadio, si può arrivare a pagare anche 290 euro. C’è uno specifico tariffario. Quei 100 euro potrebbero essere dovuti anche se quello specifico spartito non è mai stato utilizzato. Ma il “Canto degli italiani” non è una complessa composizione sinfonica, ma una melodia che chiunque abbia un minimo di conoscenze musicali può arrangiare per il proprio ensemble senza bisogno di noleggiare spartiti. Goffredo Mameli che scrisse il “canto degli italiani” nel 1847 (testo che fu messo in musica da Michele Novaro e che nel 1946 è diventato l’inno ufficiale della Repubblica italiana), è morto da oltre un secolo, e nessuno ha titolo al diritto d’autore che si estingue dopo 70 anni dalla morte. Se chiunque esegue qualsivoglia versione dell’inno nazionale deve pagare i diritti di noleggio

di uno specifico spartito proprietario mai utilizzato, di fatto si estendono potenzialmente all’infinito i diritti Siae sul brano musicale che rappresenta più di ogni altro l’Unità d’Italia e la sua storia repubblicana. Mi piacerebbe sapere se la Siae e l’editore Sonzogno abbiano effettivamente diritto a riscuotere il “noleggio” dello spartito dell’inno nazionale, indipendentemente dal fatto che lo spartito in questione sia o meno utilizzato. Cosa si potrebbe fare per porre rimedio a comportamenti che ostacolano la riproduzione di un importante simbolo della Repubblica, e fa della “Canzone degli italiani”la canzone di una casa editrice?

D.P.

PIÙ SPAZIO A MOBYDICK Io non sono un lettore di quotidiani, tutte le informazioni di cui ho bisogno le prendo da internet. Ma il sabato ho sempre acquistato liberal, perché sono un accanito lettore di Mobydick, e, scrivendo poesie, ho sempre apprezzato la rubrica “Un popolo di poeti”, arrivando a comprarne anche 5 copie, lo stesso giorno, se veniva pubblicata una mia poesia. So che ora Mobydick ha ridimensionato notevolmente il numero di spazi, ma credo che come me che acquistavo solo un quotidiano il sabato per l’inserto culturale, ci

LE VERITÀ NASCOSTE

Sting, Avatar e quella diga in Amazzonia SAO PAULO. Come sempre, il generoso impegno delle star internazionali entra in azione per un problema “verde”. Anche Sting, così come il regista di Avatar, James Cameron, è contro la costruzione nell’ Amazzonia brasiliana di quella che potrebbe diventare la terza diga più grande del mondo. Durante una tournee in America Latina, l’ex leader dei Police ha sottolineato che il progetto potrebbe distruggere «la vita e la cultura di popoli che da migliaia di anni vivono in quelle aree». Nel rilevare che le questioni ambientali sono strettamente legate al rispetto dei diritti umani nel mondo, Sting ha dichiarato alla stampa di Caracas, dove ieri ha tenuto un concerto, di essere fermamente contrario alla costruzione della diga di Belo Monte in programma sul fiume Xingu, un’affluente del Rio delle Amazzoni, nella parte brasiliana della foresta Amazzonica. L’appalto relativo al progetto è stato vinto qualche giorno fa da un consorzio energetico brasiliano. Quella di Belo Monte potrebbe diventare la terza diga più grande del pianeta, dopo quelle delle Tre Gole sul fiume Yangtze in Cina e di Itaipu, sul fiume Paranà, al confine tra Brasile e Paraguay. Ma i posti di lavoro e lo sviluppo non valgono, per le star.

sia tanta gente. Un altro inserto di enorme successo fu Il Gambero Rosso, c’era molta gente che lo acquistava e buttava via la Gazzetta. Non dico che Mobydick sia così famoso, ma tutto nasce dal piccolo e i grandi viaggi sono sempre iniziati da poco. Per piacere date più spazio a Mobydick, o credo che ben presto non comprerò nemmeno l’unico quotidiano che mi piaceva: il vostro.

Alberto La Femina

L’IMMAGINE

SLANCI PROFESSIONALI INCONTROLLABILI L’appello di Napolitano alle giovani toghe, sulla necessità di fare autocritica propedeuticamente all’applicazione della responsabilità giuridica, non è una sorpresa se si guarda alle varie dichiarazioni del Colle sulla necessità di discrezione generale e equilibrio dei vari poteri dello Stato. È nel contempo una opportuna regolazione del flusso rampante che approda a tali carriere con una grande carica personale ma con una scarsa coscienza dei propri doveri istituzionali. In sintesi lo Stato al di sopra di molti slanci professionali incontrollabili.

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TONI SFUMATI

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30

No, non è Bollywood La realtà delle comunità hindu è, molto spesso, assai distante da quella descritta dalla colorata cinematografia “bollywoodiana”. Nella foto, un abitante di Pokhara, la seconda città del Nepal

Le aperture che il Partito democratico fa a Gianfranco Fini non sono consapevolezze sulla condivisione di obiettivi e limiti, bensì la ricerca di una spalla solida per combattere il premier, per il solito antiberlusconismo atavico che ha contraddistinto i programmi eterni dell’opposizione. Lo prova lo smorzamento di tali toni quasi esultanti, quando il presidente della Camera ha opportunamente ribadito che la compattezza e il ruolo della leadership all’interno del Popolo delle libertà non si mette in discussione.

Bruna Rosso


mondo

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Voto in Gb. La crisi economica ha dominato ogni aspetto di questa tornata elettorale: i tories chiedono risposte certe «prima dell’apertura delle Borse»

Fumo (grigio) di Londra Dalle urne non esce un vincitore assoluto E Cameron avvia la consultazione con i lib-dem di Vincenzo Faccioli Pintozzi

LONDRA. Le previsioni della vigilia - una lunga, lunghissima vigilia durata quasi un mese - si sono avverate. Lasciando per un attimo da parte il risultato elettorale dei Liberal-democratici, dati da tutti per fenomeno emergente, il Parlamento si è “appeso”. L’ipotesi più spaventosa, in tempi di recessione economica, è divenuta realtà in Gran Bretagna: nessuno dei Partiti in gara ha i numeri per formare un governo forte, un esecutivo in grado di proporre la rotta da seguire per uscire dalla crisi. Proprio la crisi, dicono gli analisti, è il tema-chiave delle elezioni: spaventati, i britannici non sono stati in grado di definire l’offerta riformatrice dei conservatori, dei laburisti o dei liberali, giungendo di fatto a uno stallo. In risposta, il vincitore “relativo” David Cameron ha lanciato la sua offerta ai liberaldemocratici, per un governo di coalizione basato sul compromesso, ed eventualmente anche su qualche rinuncia da parte dei conservatori. Nonostante molte autorevoli voci lo avvisassero: meglio in minoranza che coalizzati. Proprio per rassicurare i «falchi» del suo partito (tra i quali, non a caso, Lord Norman Tebbitt, il custode dell’ortodossia thatcheriana) Cameron ha dovuto promettere: nessun passo indietro sulla riforma elettorale e sui tagli alla spesa. E lì le divergenze coi lib-dem potrebbero essere insanabili. Per non parlare della questione dell’Unione europea - coi tories euroscettici e i liberali decisamente filoeuropei - o del budget per la difesa, che Nick Clegg e i suoi vorrebbero ridurre drasticamente. Allora si profila un governo «delle astensioni», che si appoggia ai piccoli partiti nazionalisti per andare avanti il più possibile. Perché di nuove elezioni nessuno vuol sentirne parlare. Specialmente Cameron, leader azzoppato, che già si immagina come primo ministro impopolare - a causa dei necessari tagli alla spesa - e assediato dall’opposizione interna. Intanto Gordon Brown, con una mossa audace, passa la mano ai suoi rivali: Cameron e Clegg dovranno discutere tra loro, ha spiegato il premier (uscente) davanti alla soglia del suo appartamento di Downing street. Se le trattative tra conservatori e liberali dovessero fallire, Brown si dice «disponibile ad incontrare tutti i leader degli altri partiti». «Sono pronto», aggiunge il leader laburista, perché «con Mr. Clegg condividiamo molte preoccupazioni», dalla riforma elettorale allo stato dell’economia. Dopo aver ringraziato Clegg per aver riconosciuto il diritto dei Conservatori a formare il prossimo governo - avendo conquistato la maggioranza dei seggi e del voto popolare - Cameron ha offerto ai Lib Dem un accordo «ampio, aperto e globale» per una partnership di governo, sottolineando che il Paese ha in questo momento bisogno di un esecutivo “forte e stabile”.

Un’elezione e tre sconfitti di Andrea Mancia i può uscire sconfitti da una tornata elettorale dopo aver guadagnato un centinaio di seggi rispetto alle elezioni precedenti? Si può essere chiamati “loser”, perdenti, anche all’interno del proprio partito, dopo aver “salvato” il suddetto partito da un’estinzione che molti consideravano certa? E si può essere considerati un «flop colossale» dopo aver condotto una campagna brillante, anche se non particolarmente redditizia in termini di seggi conquistati? La risposta a queste domande, naturalmente, è un triplice e squillante “sì”. Ed è proprio quello che è accaduto nelle ultime elezioni britanniche, rispettivamente a David Cameron, Gordon Brown e Nick Clegg.

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Il leader dei Tories, in teoria, potrebbe anche essere considerato l’unico vincitore della sfida elettorale. Ma, nel migliore dei casi (cioè quello in cui riesca a formare un governo di minoranza o a dare vista a un’alleanza con il LibDem), si tratterebbe comunque di una “mezza vittoria”. Fino a pochi mesi fa, infatti, i conservatori erano considerati da tutti gli analisti come i vincitori predestinati. Negli ultimi mesi del 2009, i Tories avevano - nei sondaggi - un vantaggio che oscillava tra i 10 e i 15 punti percentuali nei confronti dei laburisti. E tutte le proiezioni garantivano loro una comoda maggioranza assoluta in termini di seggi nella House of Commons. In più, con una buona dose di astigmatismo mediatico, Cameron era considerato un leader conservatore “moderno”, capace di rompere con la tradizione thatcheriana e di aprire alle istanze ambientaliste, alla diversity, a un “obamismo” moderato che avrebbe dovuto pescare anche nell’elettorato storico della sinistra. Invece, tirate le somme, i Tories sono rimasti al di sotto di quota 326. E se Cameron non riuscisse, in qualche modo, ad entrare al numero

10 di Downing Street, nel partito potrebbe presto iniziare la “resa dei conti”.

Un altro sconfitto è Gordon Brown. E nessuno spin della Bbc potrà cambiare questo dato di fatto. Il Labour non aveva perso così tanti seggi in una elezione generale dal 1931. Neppure le vittorie landslide della Lady di Ferro avevano provocato un cambiamento così brusco della geografia elettorale del Paese, malgrado la pesan-

tissima opera di re-districting effettuata negli ultimi anni, che ha regalato al partito. Sarà pure riuscito a impedire un governo monocolore dei Tories, ma Brown ha trasformato il Labour in un partito regionale, arroccato nel sud della Scozia, in qualche zona del nord-est, in qualche pezzo povero della Greater London, praticamente scomparso dall’Inghilterra. Un risultato disastroso, che forse con un altro leader si sarebbe potuto evitare.

Last, but not the least, Nick Clegg. In questo caso lo sconfitto, più che il leader LibDem (che si è limitato a ripetere, più o meno, i risultati del 2005) è il farsesco circo mediatico che si è scatenato - anche in Italia - dopo la sua buona performance nel primo dei tre dibattiti televisivi. Kadima, Bayrou, Clegg: la storia del “terzo incomodo” destinato a rivoluzionare il sistema si ripete, stancamente, ogni volta. E ogni volta il risultato è il medesimo: un pugno di mosche.

Cameron ha comunque posto dei paletti fermi, ribadendo che il Regno Unito non dovrà «cedere più poteri all’Unione europea, e dovrà in particolare mantenere il controllo sull’immigrazione e la difesa del Paese». Per quanto riguarda invece una eventuale riforma del sistema elettorale, fortemente voluta dal partito di Clegg, Cameron ha detto che «se ne dovrà discutere», ricordando come «i Liberaldemocratici hanno le loro idee su questo, noi abbiamo le nostre». A fronte di negoziati fra conservatori e Liberal-democratici che si annunciano decisamente complessi, e che hanno aperto i

L’ipotesi più probabile vede un governo di minoranza il più forte possibile, che sia in grado di dare una scossa ai mercati e lanciare le riforme battenti ieri in tarda serata, il Primo ministro laburista Gordon Brown ha lasciato intendere che non si ritira dalla corsa: «Se le consultazioni fra Cameron e Clegg dovessero fallire, allora ovviamente, sarei disposto a discutere con Clegg dei temi sui quali potrebbe essere possibile una intesa fra i nostri due partiti», ha sottolineato, senza riconoscere la sconfitta elettorale.

«Capisco e rispetto completamente la posizione del capo dei Liberal-democratici quando dice di volere prendere contatti per primo con il leader del partito conservatore David Cameron», ha dichiarato Brown davanti al numero 10 di Downing street. Per mettersi alla testa del governo, i conservatori potrebbero sia formare un governo di minoranza, sia trovare un accordo con i lib-dem o con dei piccoli parti-


mondo

8 maggio 2010 • pagina 25

Sessant’anni sul trono le danno le capacità necessarie per sbrogliare la matassa

Il dilemma di Elisabetta II e quell’unico precedente… di Osvaldo Baldacci a Regina conta, eccome. Soprattutto in questo momento. La Gran Bretagna per la prima volta dal 1974 si è svegliata con un “hung Parliament”, un Parlamento appeso, impiccato, cioè incapace di esprimere una maggioranza assoluta. Un Parlamento tutt’altro che bipolare, che vede rappresentati molti partiti e nessuno con i numeri per governare. Sta quindi alla Regina nominare il primo ministro, che in condizioni normali automaticamente sarebbe il leader del partito vincitore. Ma queste non sono condizioni normali. Come noto, la Gran Bretagna non ha una costituzione, ma la Common Law. E quindi un insieme di consuetudini e tradizioni. Le quali prevedono ad esempio che la Casa reale non svolga un ruolo politico. E prevedono anche che la regina dia l’incarico di premier al leader del partito vincente, oppure al premier uscente. In questo caso, senza una maggioranza assoluta, l’incarico toccherebbe in prima battuta al leader uscente, il laburista Gordon Brown. Che però ha alcune decine di seggi in meno del rivale Cameron, e soprattutto ne ha persi quasi cento. Inoltre non è detto che sia così facile raggiungere la formula inedita dell’alleanza lib-lab, peraltro con la somma dei due partiti che arriverebbe appena alla pari con i conservatori, unendo in più due sconfitti, dato che anche Clegg ha ottenuto molti meno seggi dello sperato. Tutto quindi punta verso i Conservatori di Cameron, ma non è questa la prassi. A sbrogliare la matassa viene quindi chiamata proprio la Regina, quell’Elisabetta II che molti hanno spesso dato sul punto di abdicare. Ma ora sono la sua saggezza e la sua autorità che possono tenere in piedi la Gran Bretagna, che vede la sua più grave crisi politica proprio nel momento della più grave crisi economica.

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ti, come gli unionisti irlandesi che hanno raccolto otto seggi.Tuttavia, sulla base delle convenzioni e in assenza di una Costituzione scritta, il Primo ministro uscente, nella fattispecie Gordon Brown, può restare al potere fino a quando non sarà divenuto evidente che non avrà più una base per governare: in questo caso è costretto alle dimissioni. L’ultimo caso del genere risale al 1974, quando il premier conservatore Heath rimase tre giorni al potere per poi passare la mano.

D’altra parte, la nobile (quanto contorta) tradizione inglese parla chiaro, in questi casi: o si trova un accordo certo, oppure Sua Maestà la regina ha la facoltà di passare l’incarico esplorativo persino a persone terze. E con questi dati gli accordi possibili sono pochi. Dato che alla Camera dei Comuni i conservatori hanno ottenuto 307 seggi, i laburisti 258 e i Liberal-democratici 57, nessuno può garantire un esecutivo forte. Certo, rimangono le altre formazioni che ne hanno ottenuti 29: e di questi, otto sono andati agli unionisti d’Irlanda, perno centrale del possibile governo forte di minoranza con ogni probabilità sognato da David Cameron. A questo punto, la Gran Bretagna sembra in cerca però, più che di un governo, di una identità: non esistono più le forti contrapposizioni sociali che l’interno del Paese presentava fino a un decennio fa. L’operato del New Labour di Tony Blair ha avuto il merito/demerito di livellare le classi sociali, coinvolgendole in un processo di re-styling del Paese. Una trasformazione funzionata, ammirata dal resto del mondo e poi crollata in un attimo. L’amministrazione Brown non ha aiutato: anzi, probabilmente ha sparato l’ultimo colpo in canna alla nuca di un governo già condannato. E molti hanno già analizzato come il mancato passo indietro dei due leader laburisti abbia condannato l’intero Partito. Un destino che non sembra verosimile per Cameron, giovane e pur sempre vincente. A meno che non sbagli proprio tutto sullo scacchiere delle alleanze.

La Regina ha fatto capire che vuole mantenere la sua linea di non interferenza nella vita politica, e ha ventilato addirittura l’ipotesi di fermarsi più a lungo a Windsor per lasciar decantare i tempi e permettere alla politica di risolversi secondo i suoi meccanismi interni, senza che la regnante si trovi di fronte all’impaccio di dover essere lei a scegliere chi convocare a Buckingham Palace per conferirgli l’incarico di formare il governo. Ma resta il fatto che Elisabetta II ha un’esperienza e un’autorevolezza invidiabili, tanto più di fronte a tre leader tutti nuovi e per la prima volta presentatisi davanti agli elettori. Elisabetta no, lei è la sovrana più longeva - il suo primo premier si chiamava Winston Churchill - e lungo questi

decenni ne sono passati altri che si chiamano Margaret Thatcher e Tony Blair. Non è poco. Di tempeste ne ha viste parecchie, comprese quelle che hanno investito la sua famiglia, Diana, Carlo, Harry, il principe Filippo. Il gossip dice che davvero vorrebbe cedere il trono, ma proprio non le è possibile lasciarlo nelle mani di Carlo, e sui nipoti deve ancora lavorare. Alle prese con questi problemi, che sarà per lei parlare con tre giovanotti per fare un governo? Lei che ha guardato dall’alto del suo trono i leader mondiali di sessant’anni di storia? Inoltre la regina ha dei ruoli politici non di secondo piano, nonostante la sua riservatezza l’abbia fatta rimanere sempre sullo sfondo. Intanto il governo britannico è il “governo di Sua Maestà”, è lei a nominare i ministri, su “consiglio”del Primo Ministro. Che

Sua Maestà, scriveva Margaret Thatcher, «mostra di avere un’ottima visione delle tematiche più urgenti e una grande esperienza» però può a sua volta essere consigliato. I Primi Ministri britannici prendono molto seriamente i loro incontri settimanali con la regina. Un Primo Ministro ha detto che li prendeva più seriamente delle sessioni di Prime Minister’s Questions nella Camera dei Comuni perché la Regina era più incisiva e costruttiva di chiunque potesse affrontare al momento del confronto. Margaret Thatcher dei suoi incontri settimanali con la Regina scrive: «Chiunque pensi che siano una mera formalità, o limitati ad amenità sociali, si sbaglia; sono molto simili a riunioni di lavoro e Sua Maestà mo-

stra di avere una visione formidabile delle tematiche più urgenti e una grande esperienza». Elisabetta intrattiene inoltre conversazioni con singoli ministri britannici e occasionalmente tiene incontri con ministri di altri Paesi. Anche ministri conosciuti per avere vedute repubblicane parlano bene di lei e ritengono utili questi incontri. La regina incontra anche il Primo Ministro scozzese, riceve anche rapporti dalla nuova Assemblea gallese, ed è continuamente tenuta informata dell’andamento degli altri governi del Commonwealth.

Il monarca inglese in teoria ricopre un ruolo essenziale nel processo legislativo nei regni, in pratica, però, il ruolo della regina nel processo legislativo è interamente cerimoniale. La regina può legalmente garantire o negare l’assenso a leggi, ma nessun sovrano rifiuta il suo assenso a una legge dal 1708. La regina poi tiene un discorso all’annuale apertura del Parlamento, sottolineando il programma legislativo del governo per l’anno, ma di solito il discorso è scritto per lo più dai ministri, e sarebbe una grave frattura se la Regina volesse intervenire anche solo a parole nel programma di governo. Certo è che pare che Brown e Cameron non vogliano fare alcun passo indietro, tanto che i bookmakers già puntano su nuove elezioni entro l’anno. Non sembra però probabile che la regina Elisabetta possa accettare di rimandare gli inglesi alle urne nelle attuali circostanze economiche. Ecco allora che entra in gioco il ruolo che può esercitare, il suo peso che può essere decisivo. Una azione di moral suasion, un atteggiamento saggio e cauto che indichi una via accettabile senza compromettersi in questioni puramente politiche, ma qualcosa la regina dovrà fare e farà. E tutto sommato è anche nell’interesse della casa reale: dopo anni di scandali e di trambusto, dopo gaffes e crescita dei repubblicani, è questa l’occasione per recuperare tutto di un colpo un buon prestigio per la monarchia. Già nel primo pomeriggio di ieri o staff della regina ha annunciato l’invio di propri funzionari presso i partiti coinvolti nelle trattative. E da Buckingham Palace, prima della consultazione con i due principali leader, era stato chiarito che l’incarico non sarebbe stato assegnato immediatamente e comunque non necessariamente al partito di maggioranza relativa ma «a chi ha più chances di formare un esecutivo stabile». Cosa che implica un giudizio politico e che lascia incerto l’orientamento della sovrana su chi ha diritto a fare il primo tentativo.


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l’approfondimento

Jonathan Hopkin, professore di politica britannica e comparata alla London School of Economics, analizza il voto britannico

Verso un governo di minoranza «Un’alleanza tra Conservatori e Liberaldemocratici non avrebbe molto senso. Meglio, per Cameron, puntare a nazionalisti scozzesi, gallesi del Plaid Cymru e unionisti irlandesi. Sarebbe a un passo dalla maggioranza» di Lorenzo Biondi

LONDRA. David Cameron ha lanciato la sua offerta ai liberaldemocratici, per un governo di coalizione basato sul compromesso, ed eventualmente anche su qualche rinuncia da parte dei conservatori. Nonostante molte autorevoli voci lo avvisassero: meglio in minoranza che coalizzati. Proprio per rassicurare i “falchi”del suo partito Cameron ha dovuto promettere: nessun passo indietro sulla riforma elettorale e sui tagli alla spesa. E lì le divergenze coi lib-dem potrebbero essere insanabili. Per non parlare della questione dell’Unione europea o del budget per la difesa. Allora si profila un governo “delle astensioni”, che si appoggia ai piccoli partiti nazionalisti per andare avanti il più possibile. Intanto Gordon Brown, con una mossa audace, passa la mano ai suoi rivali: dovranno discutere tra loro, ha spiegato il premier (uscente). Se le trattative tra conservatori e liberali dovessero fallire, Brown si dice «disponibile ad incontrare tutti i leader degli altri partiti». A pochi

minuti dalla fine del discorso di Brown discutiamo con Jonathan Hopkin, esperto di politica britannica della London School of Economics. Professor Hopkin, cosa dobbiamo aspettarci? Un governo di minoranza conservatore? Oppure una coalizione? E di che tipo? La sensazione è che si andrà ad un governo conservatore di minoranza. Non credo abbia alcun senso, né per i conservatori né per i liberali una semplice alleanza. I conservatori hanno seggi a sufficienza per formare un governo e superare il Queen’s speech [la prima fiducia parlamentare]. Certo, per approvare la finanziaria dovranno cercare il supporto di altri partiti, ma il lib-dem non hanno nessun interesse ad associarsi ad un bilancio che con ogni probabilità sarà molto duro. Quando parla di «altri partiti», si riferisce agli unionisti nordirlandesi? Sì, certamente gli Unionisti dell’Ulster sono dei potenziali alleati dei conservatori in parlamen-

to. Ma c’è anche spazio perché alcuni partiti non diano un supporto attivo al governo, ma si limitino ad astenersi su determinate leggi. Quali partiti, ad esempio? Ad esempio i nazionalisti scozzesi, o i gallesi del Plaid Cymru. Insieme a tutti i nazionalisti e agli unionisti i conservatori sarebbero ad un passo dalla maggioranza. In cambio potrebbero concedere qualcosa nel bilancio; è sicuramente una mossa possibile. Potrebbero anche cercare un accordo di astensione con i

«Nessuno vuole essere ritenuto responsabile di una nuova chiamata alle urne»

lib-dem, ma non sono sicuro che i liberali avrebbero qualcosa da guadagnarci. I Tories continuano a chiamare se stessi, fieramente, il partito dell’unità nazionale. Cosa potrebbe concedere Cameron ai nazionalisti? Maggiori poteri per gli enti locali? Più finanziamenti? I conservatori sono sempre stati contrari alla devolution di Tony Blair, ma non è impossibile che concedano qualche potere in più a Scozia e Galles. Nel caso del Nord Irlanda si tratterà invece di

fondi nel bilancio, perché è una regione molto piccola e con poco denaro si può facilmente “comprare” il loro appoggio. Oppure potrebbe trattarsi di concessioni collegate al processo di pace nell’isola. È possibile ipotizzare un rallentamento nella devolution per l’Irlanda del Nord, che farebbe piacere ad entrambi i partiti unionisti delle Sei Provincie? È un punto complicato. Di certo Cameron vuole il supporto degli unionisti e non può sperare nell’appoggio [dei nazionalisti] dello Sinn Féin, ma il processo di pace è troppo importante. L’ultima cosa che Cameron vuole è diventare primo ministro per poi vedersi esplodere tra le mani il problema irlandese - che Tony Blair aveva risolto. Starà molto cauto a non irritare i nazionalisti, piuttosto investirà più soldi. Tornando all’ipotesi di un governo di minoranza: in passato, nel Regno Unito, governi del genere non sono mai durati più di pochi mesi. Si ripeterà la stessa


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Le ha candidate il Labour, che ha perso per loro il sostegno dell’elettorato moderato

E in Parlamento approdano due figlie di Maometto Shabana Mahmood e Yasmin Qureshi sono le prime donne islamiche a entrare a Westminister. Un nuovo segno del multiculturalismo british di Antonio Picasso entre prosegue lo spoglio delle schede, il Regno Unito si conferma essere la società più multietnica e multirazziale di tutta Europa. Per certi aspetti una sorta di immagine speculare degli Stati Uniti. L’elezione alla Camera dei Comuni di due candidate musulmane per il Partito laburista, Shabana Mahmood e Yasmin Qureshi, rappresenta un ulteriore passo in avanti nella evoluzione culturale e sociale del Paese. Nel 1997 Mohammad Sarwar era stato il primo politico britannico di religione islamica a varcare la soglia di Westminster, sempre ai Comuni. Dieci anni dopo, Sayeeda Warsi venne eletta baronessa, quindi Pari d’Inghilterra. Spetta dunque a lei il primato assoluto come donna musulmana membro del Parlamento britannico. Tuttavia il potere limitato all’ambito giuridico riservato alla Camera dei Lord non ha nulla a che vedere con la rappresentatività implicita nei Comuni: quintessenza del potere legislativo nella storia costituzionale di tutte le democrazie. Le neoelette Mahmood e Qureshi potranno interpellare direttamente il Governo - di qualsiasi colore esso sarà - sulle questioni che ritengono prioritarie e sulla base delle esigenze delle loro circoscrizioni elettorali, rispettivamente quella di Birmingham Ladywood e Bolton South East. Shabana Mahmood, nata e cresciuta nel collegio che l’ha eletta, ha 29 anni, si è laureata in legge a Oxford ed è già barrister, vale a dire dispone dei titoli d’avvocatura per patrocinare le cause presso le Corti superiori. Politica-

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mente è figlia d’arte. Suo padre Mahmood Ahmed, un ingegnere emigrato dal Pakistan, è tuttora una delle voci più ascoltate nella sezione locale del Partito laburista. La neoeletta è cresciuta a “pane e politica”quindi e fin da subito si è dovuta confrontare con gli ostacoli che una ragazza musulmana, con ambizioni di attivismo sociale, può incontrare in seno alla propria comunità.

Ancora ieri, appena saputo il risultato del voto, la Mahmood ha ammesso di temere una reazione di indifferenza da parte degli «uomini asiatici o musulmani del suo collegio». In un servizio del 2008 pubblicato dal Birmingham Mail inoltre, si

sottolineava come Shabana Mahmood rischiasse di essere esclusa dalla corsa al voto per “nepotismo”, in quanto la visibilità politica del padre potesse facilitare eccessivamente la campagna elettorale della figlia. In realtà questa si è svolta nel rispetto più assoluto del fair play britannico. La Mahmood ha dovuto rivaleggiare contro un’altra candidata di origini asiatiche, kashmire in particolare: Nusrat Ghani, che correva per il Partito conservatore. Il collegio di Birmingham Ladywood conferma anche in queste elezioni la sua identità multietnica, che ne fa un elemento di forza, quanto di difficoltà quotidiane, le quali devono essere affrontate dal proprio rappresentante a Londra. La circoscrizione infatti è appesantita da un tasso di disoccupazione che nel gennaio 2009 ha superato la preoccupante soglia del 10 per cento. Shabana Mahmood inoltre va a sostituire Clare Short. È uno scettro pesante quello che viene raccolto dalla giovane avvocatessa musulmana. La Short infatti è un’attivista di lungo, eletta ai Comuni fin dal 1983. Cattolica, nordirlandese, si è sempre schierata contro il terrorismo dello Sinn Fein negli anni Settanta. Poi si è impegnata affinché per l’aumento delle risorse spese dal Governo a livello internazionale in favore dei diritti umani. In questo senso l’erede della Short non sembra da meno. L’Onorevole Mahmood vanta nel suo curriculum politico l’opposizione

alla guerra in Iraq, voluta dall’esecutivo laburista di Tony Blair. Di tutt’altro genere è il caso diYasmin Qureshi. Sebbene con la sua collega di Birmingham condivida le idee laburiste e la preparazione professionale di avvocatura. Oltre alla fede islamica, si intende. La Qureshi è nata nel 1972 in India, nello Stato del Gujarat, da dove proveniva lo stesso Gandhi. Tuttavia Yasmin Qureshi ha sempre sottolineato l’appartenenza alla minoranza islamica nel suo Paese di origine e nella stessa Gran Bretagna, dove ha svolto anche il ruolo di Presidente del Pakistan Club locale. In politica si è concentrata prima nel settore dell’educazione, poi in quello dei diritti umani e come penalista internazionale. Per il primo settore ha fatto da consulente all’ex Sindaco di Londra, Ken Livingstone. Successivamente è approdata all’Onu, nell’ambito della missione in Kosovo, assumendo la guida della Sezione di Giustizia Penale. La circoscrizione elettorale che Yasmin Qureshi va a rappresentare è caratterizzata da minori difficoltà sociali rispetto a quella messa nelle mani di Shabana Mahmood. A Bolton South East infatti, il Labour è una tradizione incontrastata fin dalla fondazione della circoscrizione elettorale, che a onor del vero è comunque recente (1983). Qureshi va a sostituire Brian Iddon, classe 1940. Come Clare Short, 64 anni, anche Iddon si è ritirato a un’età che, secondo gli standard d’oltre Manica, è più che superata per fare politica attiva. L’elezione di Mahmood e di Qureshi, due giovani attiviste, è di portata storica perché concede alle donne musulmane una loro diretta rappresentanza ai Comuni. Questo è un passo politico fondamentale nel processo di emancipazione femminile nell’ambito dell’Islam britannico. Le cittadine musulmane del Regno Unito Paese dove le pari opportunità vengono risolte nel modo più pratico e soprattutto rapido - avranno la possibilità di confrontarsi con due loro rappresentanti che da oggi fanno parte dell’establishment nazionale. Queste, sulla base delle condivise affinità culturali, avranno una diretta percezione dei problemi vissuti dalle loro concittadine. Ancora una volta Londra offre un esempio di come fare politica nel Terzo Millennio: all’insegna del dinamismo e superando i muri culturali. Adesso, affinché Westminster sia davvero alla pari del Congresso Usa a Washington, resta solo un ostacolo, vale a dire la trasversalità di questo melting pot all’interno della sua classe dirigente. Step by step all’obiettivo ci arriveranno anche i tory di Cameron e i Lib-Dem di Clegg. Le evoluzioni sociali inglesi hanno sempre tenuto una velocità elevata, senza paragoni nel resto d’Europa.

situazione anche questa volta? In questo caso c’è un elemento che aiuterà qualsiasi governo a durare un po’ di più. Se il governo cadesse gli altri partiti dovrebbero competere in una nuova elezione, e nessuno vuole essere additato come il responsabile di una nuova chiamata alle urne. L’elettorato non ha nessuna voglia di tornare di nuovo a votare. Allora se un governo di minoranza conservatore cadesse, laburisti e liberali sarebbero chiamati ad un governo di coalizione, e nessuno garantisce che [nei prossimi mesi] siano interessati ancora ad una soluzione del genere: avrebbero tutto l’interesse a lasciare che siano i conservatori a prendere tutte le decisioni difficili. Immaginiamo allora che si formi un governo Cameron di minoranza: cosa succede al programma elettorale dei conservatori? Ad esempio, il piano per realizzare una “Big Society”. È già morto prima di iniziare? Non credo che ci sia davvero un piano per una “Big Society”. È un’aspirazione, ma non riesco a ricordare nessuna proposta concreta che sia stata avanzata per realizzare questa aspirazione. I conservatori non avevano un programma elettorale dettagliato, ed immagino che sia una delle ragioni per cui non hanno conquistato il successo che si aspettavano. Sappiamo solo che vogliono tagliare il deficit più in fretta possibile, ma sulla “Big Society”non sappiamo nient’altro. Prima delle elezioni si scriveva di malumori tra i “colonnelli”tory. In che misura il mancato raggiungimento della maggioranza assoluta è un fallimento di David Cameron? Cameron è il quarto leader conservatore dalla sconfitta del 1997. Quasi di certo sarà primo ministro, è riuscito dove tutti i suoi predecessori avevano fallito. Ma le aspettative erano alte, si pensava ad una vittoria netta anche in termini di seggi. È vero che i conservatori non sono stati in grado di approfittare di una situazione molto favorevole per loro: la debole situazione economica, l’impopolarità del governo laburista, la pessima campagna elettorale di Gordon Brown.Avevano l’opportunità per vincere ampiamente, e l’hanno sprecata. Allora ci dobbiamo aspettare una sfida alla leadership di Cameron da parte dei vari Boris Johnson o David Davis? In futuro, è molto probabile. Per ora non avrebbe alcun senso. Lo scenario più probabile è che i suoi oppositori aspettino, lascino che Cameron si logori in quelle impopolarità che inevitabilmente arrivano quando si effettuano seri tagli la spesa (ed eventualmente quando si alzano le tasse), e solo in un secondo momento facciano la loro mossa. Per ora Cameron verrà lasciato governare, le sfide arriveranno poi.


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quadrante Myanmar. Tint Swe, storico dissidente, accusa: «È la vittoria del regime»

YANGON. La Lega nazionale per la democrazia (Nld), partito di opposizione in Myanmar, da ieri è ufficialmente sciolto. Tuttavia, una parte dei suoi membri ha deciso di fondare un nuovo movimento, procedere alla registrazione e partecipare alle elezioni generali, previste entro la fine dell’anno. Un segnale che rivela la spaccatura all’interno dell’opposizione democratica birmana, dopo anni di lotta unitaria. E questa, prima ancora del voto, è una vittoria del regime militare che - come ha spiegato tempo fa lo storico dissidente Tint Swe – adotta la tattica del divide et impera per mantenere il potere. Un gruppo di ex membri della Nld, contrari allo scioglimento del partito, ha annunciato la nascita di un nuovo movimento politico che parteciperà alle elezioni, previste fra ottobre e novembre del 2010.Than Nyein, prigioniero politico e figura di primo piano della Nld, spiega che esso si chiamerà National Democratic Force e sarà presentato al vaglio della Commissione elettorale a metà mese. Il leader del nuovo partito di opposizione nega “contrasti con Aung San Suu Kyi”, ma spiega che alla base della decisione vi è «la volontà di continuare le nostre attività politiche. Se non lo faremo - conclude - non potremo raggiungere alcun risultato utile».

Nyan Win, portavoce della Nld, ha commentato all’Afp che la decisione di fondare un nuovo partito è una “scelta personale” dei suoi leader, ma precisa anche che essi avrebbero dovuto «obbedire formalmente alla decisione unanime della Nld». Il ventennale movimento di opposizione birmana ha boicottato le urne per protesta contro leggi “ingiuste e discriminatorie”emanate dalla giunta per regolare il voto. Tra queste l’esclusione della Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, che non potrà votare né essere eletta perché ha riportato condanne penali. Fonti locali riferiscono che ancora ieri i simboli e la bandiera della Nld - partito fondato il 27 settembre 1988 e vincitore alle ultime elezioni del 1990, mai riconosciute dalla giunta militare - campeggiano davanti la sede principale del partito, a Yangon.Tuttavia, la nascita del nuovo movimento politico segna la fine dell’unità in seno al movimento di opposizione. I militari registrano dunque il loro primo successo, preludio del trionfo alle elezioni farsa di fine anno.

Yangon, si scioglie la democrazia La Lega nazionale si spacca al proprio interno per partecipare al prossimo voto di Massimo Fazzi

Un trionfo che ha radici antiche e attori insospettati. In un saggio pubblicato su AsiaNews, infatti, Tint Swe spiega: «Il fattore Cina ha ricoperto un ruolo di primo piano nell’annientare, alla fine della Guerra fredda, il forte Partito comunista birmano (Cpb). Quando il governo cinese ha messo fine al sostegno politico e all’assistenza materiale, il partito comunista non ha più saputo mantenere il suo ruolo di guida nei confronti dei diversi gruppi etnici non appartenenti alla maggioranza birmana. Ciò ha servito su un piatto d’argento la possibilità al regime militare, da poco istallato al potere, di esercitare la politica del divide et impera».

Al Mndaa, prosegue, «hanno fatto seguito una serie di altri movimenti ribelli legati alle diverse etnie. In questo modo il regime ha avuto la possibilità per una decade di mostrare al mondo, e al Paese stesso, di essere il solo a poter garantire la pace. In quest’ottica lo Slorc – l’originario Consiglio di Stato per la Restaurazione della Legge e dell’Ordine – si è

La giunta militare, guidata dal tiranno Than Shwe, è pronta a vincere di nuovo le elezioni generali

La storia moderna della Birmania è costellata di colpi di Stato

Un Paese, troppi colonnelli La storia moderna della Birmania è fatta di ribaltoni e colpi di Stato. Dopo l’indipendenza, e un periodo di relativa calma, il Paese affronta il primo: nel 1961 U Thant, allora rappresentante permanente della Birmania alle Nazioni Unite e Segretario precedente al Primo Ministro, viene scelto come segretario generale per l’Onu. Il governo democratico viene destituito nel 1962 da un colpo di stato militare condotto dal generale Ne Win. Tra i gruppi d’opposizione alla dittatura militare birmana, il più importante è stato il Partito Comunista di Birmania, che è stato legale solo per tre anni (1945-1948). Schieratosi con i cinesi al momento della scissione del movimento internazionale, il CPB ha avviato una guerriglia che è durata fino agli anni ’90, quando la repressione militare costrinse i vertici del partito a scappare in Cina. Nel 1988, dopo le rivolte studentesche (rivolta 8888, che provocarono migliaia di morti), Ne Win si dimise, e fu proclamata la legge marziale, mentre il generale Saw Maung organizzò un altro colpo di Stato. Nel 1990 si tengono per la prima volta in 30 anni le elezioni libere. La Lega Nazionale per la Democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi, porta alla Assemblea Costituente 392 membri, su un totale di 485. Ma l’esercito si rifiuta

di cedere il potere, rovesciando l’assemblea popolare, ed arrestando Aung San Suu Kyi. Da allora comincia un periodo molto difficile per Aung San Suu Kyi, che, rimessa in libertà nel 1995, viene nuovamente arrestata nel 2000, liberata nel 2002, e nuovamente arrestata nel 2003. Attualmente si trova agli arresti domiciliari. Il Partito Comunista di Birmania ha annunciato che non boicotterà le elezioni del 2010 nonostante queste non mettano in discussione l’autorità dell’esercito. Infatti il 25% dei seggi spetterà, nonostante le votazioni, alle forze armate della Birmania.

Inoltre molte posizioni chiave e dipartimenti saranno anch’essi riservati. Perciò le elezioni del 2010 non possono cambiare la natura del regime militare in Birmania. Nonostante questa valutazione critica i comunisti non intendono boicottare le elezioni. «Non dobbiamo lasciare tutti questi seggi parlamentari senza confronto e arrenderci alle manipolazioni dell’esercito come essi desiderano» Quanto alla possibilità di partecipazione diretta del CPB, Po Than Jaung ricorda che al partito «non è concesso di operare legalmente, benché questa richiesta sia stata avanzata sin dalle elezioni del 1990».

trasformato nel Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo (Spdc). La giunta ha avuto così modo di attuare la fase successiva per rafforzare il potere. Mentre orchestrava repressioni su repressioni, la giunta ha ultimato la bozza, la scrittura e l’approvazione di una nuova Costituzione, costi quel che costi». Ecco perchè, è la conclusione dell’anima democratica del Paese, «il 2010 rappresenta il D-day. È giunto il tempo di occuparsi della questione legata al cessate il fuoco e dei gruppi ribelli. Il piano volto a trasformarli in guardie di frontiera non si è compiuto in modo tranquillo come auspicato. I più piccoli si sono piegati, ma quelli numerosi continuano la resistenza. Per questo il regime ha deciso di adottare la stessa tattica utilizzata in precedenza per i Karen. Il Karen National Union (Knu), il più forte movimento a livello politico, ha subito infiltrazioni da parte del regime, è stato oggetto di azioni di corruzione e infine diviso al suo interno».


quadrante

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Tutto pronto per il Giorno della vittoria: parata solenne

Passano le modifiche proposte da Erdogan. Ora referendum

Medvedev: «Possibile un’altra guerra mondiale»

Turchia, il Parlamento “riforma” la Costituzione

MOSCA. Un conflitto mondiale, paragonabile alla Seconda guerra mondiale, «è ancora, purtroppo, possibile». E la Russia deve essere pronta a questo. Rispunta la necessità del “riarmo” di Mosca nel discorso ufficiale del leader del Cremlino Dmitri Medvedev, in un’intervista con il quotidiano Izvestia. Proprio a ridosso del 65esimo anniversario del V-Day (oggi) il capo di Stato specifica che tale pericolo «è dovuto a un enorme numero di armi sul pianeta, oltre che alla presenza di Paesi molto diversi, con interessi molto diversi e che cercano di acquisire armamenti nucleari».

ANKARA. Il Parlamento turco

Per questo «non possiamo dimenticare la sicurezza. La nostra componente strategica nucleare è un elemento molto importante nel perseguimento degli interessi nazionali», ha sottolineato Medvedev, pur notando anche la necessità di “negoziare” con gli altri partner nucleari, in primis gli Usa.Trovando ogni volta un compromesso che consente alla Russia e agli Stati Uniti di difendere i propri interessi e al tempo stesso «di non far esplodere la situazione». Per quel che riguarda la valutazione da parte dello Stato, in relazione al modo in cui la leadership del Paese ha giudicato Stalin negli ultimi anni,

Berlino vende a Teheran passando per Dubai Per evitare sanzioni i tedeschi “usano” gli Emirati di Emanuele Ottolenghi i quante macchine all’anno ha bisogno il mercato di Dubai? Per chi ci ha vissuto, specie di recente, la risposta non dovrebbe essere difficile. In anno di crisi, con la bolla speculativa dell’Emirato esplosa, sembra difficile immaginarsi che la comunità di residenti a Dubai stia spendendo e spandendo a comprar auto di lusso. Eppure, a guardare i dati Eurostat che riguardano i rapporti bilaterali tra Germania ed Emirati Arabi Uniti, si scopre che nel 2009 la Germania ha venduto auto per trasporto passeggeri per il valore di più di 450 milioni di Euro. È una cifra da capogiro, specie se la si combina con i quasi 350 milioni di euro in equipaggiamento da trasporto di vario genere, i più di cento milioni di veicoli da trasporto merci, i 110 milioni di accessori e parti di ricambio e i quasi 160 milioni di euro di altri veicoli assortiti. Lo strano non deriva soltanto dall’aumento vertiginoso di vendite rispetto ad anni precedenti, ma dal fatto che, se si comparano queste vendite al volume di commercio nella stessa categoria con l’Iran, la Germania non vende più quasi nulla. Macchine: 40 milioni di euro all’anno; trasporto merci: 10 milioni circa; accessori e parti di ricambio: 55 milioni; e altro equipaggiamento da trasporto: circa venti milioni. I dati della Germania nella sola categoria del trasporto destano stupore perché per si tratta di due realtà economiche ben diverse: negli Emirati, tra cittadini dei sette emirati e stranieri residenti ci saranno al massimo quattro milioni di abitanti; in Iran ci sono più di settanta milioni di abitanti. E perché riflettono, forse nella maniera più clamorosa, un dato più generale di inversione di tendenza – il volume di scambio tra Germania e Iran e tra Germania ed Emirati. È un cambiamento che, se messo a confronto, mostra una relazione inversamente proporzionale tra i due rapporti commerciali: più scendono le vendite tedesche all’Iran, più salgono quelle agli Emirati. E il fatto che a Dubai ci sia stata crisi e che il mercato comunque, anche in anni di grande ricchezza, non poteva giustificare simili sbalzi, sta a significare una cosa piuttosto semplice, certamente risaputa dagli addetti ai lavori, ma

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ora documentabile ricorrendo a dati disponibili sul sito della Commissione Europea: le compagnie tedesche hanno ridotto il loro volume di affari in Iran per timore di ripercussioni politiche negative. Ma allo stesso tempo non si sono premurati di trovare mercati alternativi. Invece vendono a mediatori e faccendieri, società di import-export che hanno base a principalmente Dubai, Sharjah e Ras al Khaimah, presumibilmente sapendo che da lì le loro merci verranno poi trasportate in Iran.

Del resto l’uso di Dubai come punto di transito e riciclaggio di traffici sospetti non è nuovo. Non solo Dubai è stato utilizzato dal network di A.Q. Khan per la vendita di tecnologia nucleare militare all’Iraq di Saddam Hussein, all’Iran e alla Libia. Secondo un recente articolo di Matthias Kuentzel, apparso sul Wall Street Journal Europe, l’anno scorso fu creata a Dubai una camera di commercio tra Germania ed Emirati che, a novembre, ha creato un“Gruppo di Lavoro Iran” con lo specifico compito di identificare modi per rafforzare il ruolo di Dubai come punto di transito per il commercio con l’Iran “anche per ditte tedesche”. I dati confermano quanto sopra e sollevano la questione anche per le molte ditte italiane che, in tempi difficili, cercano ad ogni modo di trovare nuovi mercati. La tentazione di vendere negli Emirati è forte e il transito a Dubai fornisce un comodo alibi alle nostre imprese che, anche laddove vendessero tecnologia soggetta a restrizioni di esportazione a causa dei suoi possibili usi militari, potrebbero cavarsela protestando innocenza. Per le nostre ditte l’esempio tedesco però non dovrebbe essere da emulare – invece, occorre premurarsi e premunirsi, perché non è da escludere che sanzioni americane ci piombino tra capo e collo nei prossimi mesi: la vendita di prodotti in ingenti quantità a un rivenditore di Dubai non gioverà alla reputazione del Made in Italy, specie quello che spera comunque di continuare a vendere anche in America. Senior Fellow presso la Foundation for Defense of Democracies di Washington

La stranezza? Che al vertiginoso aumento di vendite auto negli Eau, corrisponda il crollo dell’export verso l’Iran

dal momento in cui è emerso un nuovo stato russo, «la valutazione è ovvia: Stalin commise una moltitudine di crimini contro la sua gente. Nonostante il fatto che lavorò molto, nonostante il fatto che sotto la sia guida il paese raccolse dei successi, quel che ha fatto al popolo non può essere perdonato» ha aggiunto il presidente russo. «Per la maggior parte delle persone in tutto il mondo è chiaro quale sia la sua figura, che non genera emozioni appassionate» ha detto ancora Medvedev. «Chi odia o ama Stalin ha il diritto di esprimere il suo parere, ma le sue opinioni non devono influenzare una valutazione obiettiva dello Stato».

ha approvato nella notte una riforma della Costituzione che, secondo la maggioranza, renderà più democratico il Paese mentre, secondo l’opposizione, dà troppi poteri al governo. A favore hanno votato 336 parlamentari su 550: un numero non sufficiente all’entrata in vigore diretta, che porterà con tutta probabilità a un referendum confermativo. Per garantirsi la diretta efficacia degli emendamenti alla carta fondamentale, in Parlamento la maggioranza avrebbe dovuto raggiungere i due terzi dei voti. Il primo ministro islamico-moderato Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato che la riforma sarà sottoposta al voto dei cittadini. «La nostra

nuova tappa - ha detto - sarà quella di entrare nella campagna referendaria. Abbiamo già cominciato i preparativi. Ci presenteremo di fronte alla nazione». Tuttavia, il principale partito d’opposizione nutre dei dubbi che la riforma possa essere oggetto di referendum. Il Partito repubblicano del popolo ha minacciato di portare la riforma di fronte alla Corte costituzionale. «Tenuto conto delle decisioni precedenti della corte, ci sono chance che annulli la riforma e stoppi il processo che conduce al referendum», ha commentato Inan Demir, un economista di Finansbank in una nota agli investitori. Se dovesse avverarsi questo scenario, Erdogan potrebbe essere portato - spiega ancora l’economista - ad anticipare le elezioni politiche, previste per il prossimo anno.

In ogni caso, delle tre riforme che stavano a cuore al partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) di Erdogan, ne sono passate in due: la possibilità che i militari coinvolti in tentativi di colpi di stato o in reati alla sicurezza nazionale vengano processati dai tribunali ordinari e non militari e la modifica della composizione del Consiglio superiore della magistratura.


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il personaggio della settimana A Torino si sta consumando una battaglia che ha contorni quasi mitologici

E la maledizione di Bankomon colpì anche Sergio Dopo il caso Fassino-Unipol, pure Chiamparino, cercando di pilotare IntesaSanpaolo, si è trovato di fronte a un problema antico: la lunga storia del conflitto tra gli ex-comunisti e il capitalismo di Antonio Funiciello on c’è niente da fare: l’attrazione della sinistra italiana per le banche è davvero irresistibile. Ultimo a cascarci in ordine di tempo, il sindaco di Torino Sergio Chiamparino ha dovuto riconoscere d’aver preso un granchio col suo movimentismo sui nuovi assetti di Intesa-Sanpaolo, attirandosi un numero di critiche come mai gli era capitato. Con tanto di alterco a mezzo stampa col vice segretario del Pd Enrico Letta, che gli ha dato dell’incompetente per aver fatto quello che lui (e gli altri del vertice del Nazareno) fanno da vent’anni. Chiamparino ha accusato il colpo, nel quadro di un ridimensionamento del del suo physique du role da concorrente per la leadership democratica, che Bersani e Letta stanno realizzando con acribia. Poco importa se Chiamparino resta l’unico leader politico del Pd in tutto il Nord: è una minaccia per l’establishment romano e, dunque, va annientata. L’impaccio di oggi tra Pd e banche torna a dare attualità al rapporto semiserio che da sempre la sinistra italiana intrattiene col mondo finanziario. Oggi Intesa-Sanpaolo, ieri il pasticcio del sostegno offerto da Fassino e D’Alema a Giovanni Consorte nei mesi delle acrobatiche scalate bancarie del 2005. Non che la guerra tra azionisti sabaudi e azionisti meneghini abbia nel merito molto a che vedere con la stagione dei furbetti del quartierino. Eppure lo stesso è l’impaccio in cui finisce puntualmente la sinistra quando pretende di esercitare una funzione di indirizzo politico sulle vicende del mondo finanziario. Ogni qualvolta che i politici di sinistra si provano a giocare al Monopoli

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del capitalismo italiano, si muovono con tale goffaggine, da far sembrare un ginnasta provetto qualsiasi elefante nella sua immancabile cristalliera.

motive di tutto il suo (lungo) intervento, giostrato tra timidi riconoscimenti dell’errore compiuto e orgogliose rivendicazioni della diversità della sinistra.

Quattro anni fa, la difesa più divertente dell’impaziente Fassino che chiedeva a Consorte «Abbiamo una banca?» fu quella di Luciano Violante, all’epoca capogruppo alla Camera dei Ds. Nonostante che l’ex magistrato non contempli il senso dell’umorismo tra le sue molte qualità. «Quello è solo un modo di dire di noi piemontesi» disse Violante (Corriere della Sera 17/01/06). «Quando mia figlia si è sposata, poco tempo fa, ha detto: Abbiamo un bel marito? Si tratta di un modo di dire di noi piemontesi». Detta così, il difensore faceva quasi più ridere del difeso; ma forse quella di Violante non era una battuta. Anche perché nei giorni in cui vennero fuori le intercettazioni sulla tentata e fallita scalata alla Banca nazionale del lavoro dell’Unipol di Giovanni Consorte, di battute nei Ds ne circolavano davvero poche. Mercoledì 12 gennaio 2006, subito dopo le vacanze natalizie, si riuniva all’Hotel Quirinale di Roma la Direzione nazionale del partito per discutere proprio dei rapporti dei Ds coi furbetti del quartierino. Una mattinata doppiamente diaccia, in cui ai freddi invernali si univano le gelide tensioni interne, per l’autogol del tifo scatenato che Fassino e D’Alema (Consorte: «Massimo, noi ce la mettiamo tutta» - D’Alema: «Facci sognare!») avevano manifestato verso le scalate bancarie estive. All’inizio dei lavori la stampa era stata tenuta fuori dalla sala Giuseppe Verdi dell’albergo romano a due passo dal Botteghino. Circostanza anomala per gli allora Ds che, a differenza del Pd di oggi che tiene carbonaramente tutte le sue riunioni a porte chiuse, teneva a porte aperte le proprie riunioni principali. Di lì a poco Fassino fu convinto dai più a lasciare che ai lavori della Direzione potessero assistere anche i giornalisti. «Sono i giorni più amari della mia carriera politica» esordì allora il segretario, e quello fu più o meno il leit

In verità, ci fu un dirigente diessino che allora tentò di prendere il toro per le corna. Un certo Giorgio Napolitano, senatore napoletano, che tra l’altro sostenne: «Ci sono stati accenti troppo difensivi ed elusivi, un’ammissione più tempestiva degli errori avrebbe evitato tante illazioni» (Messaggero 12/01/06). Per concludere, sulle cooperative: «Bisogna tenere alta la vigilanza verso tendenze e comportamenti dubbi delle cooperative che potrebbero svicolare dalle finalità e dallo spirito della cooperazione» (Corriere della Sera 12/01/06). Parole pesanti, che prendevano di petto il tentativo in cui da anni D’Alema & C. erano impegnati: entrare nel salotto buono del capitalismo italiano per mettere profonde radici. L’obiettivo, tenacemente perseguito negli anni del governo del centro-sinistra (1996-2001), era stato ribadito pochi mesi prima dallo stesso segretario dei Ds in un’intervista al Sole24Ore, con titolo «Fassino: Se Unipol lancia l’Opa io dico sì» (7/7/05). Intervista in cui il segretario diessino difendeva apertamente quelli che sarebbero stati ribattezzati, di lì a poco, i furbetti del quartierino e le loro ambizioni di entrare nel salotto buono del capitalismo familista italiano, magari occupando Rcs. Sarà un caso, ma malgrado la sua radiosa carriera politica, Napolitano nel suo partito è sempre stato il capo della minoranza interna. Questa sua idea balzana per cui non sarebbe compito della politica parteggiare per alcuno, ma a limite provarsi a riformare il nostro capitalismo per renderlo più dinamico, non riuscì in quella riunione di Direzione nazionale a fare breccia. Tant’è che in quei giorni si schierarono con lui solo vecchi compagni di battaglia come Lanfranco Turci ed Enrico Morando. A differenza di quanto per una vita il Presidente della Repubblica è andato predicando, durante quei mesi turbolenti D’Alema e


8 maggio 2010 • pagina 31

Fassino avevano mostrato di avere un’idea opposta e contraria alla sua: se il capitalismo italiano basa gran parte di sé sull’intreccio tra politica e finanza, allora il nostro compito è quello di presidiare questo intreccio per piegarlo in direzione dei nostri obiettivi politici. Nel merito, nulla di meno di quanto sta oggi cercando di fare il Pd a proposito di Intesa-Sanpaolo. A fondamento di questo interventismo finanziario, c’era la tesi (una piccola rivoluzione copernicana) espressa da Fassino sulla intervista al Sole già ricordata, che data soltanto cinque mesi prima che i furbetti fossero smascherati. Tesi per la quale, uno che compra e vende immobili è uguale a uno che costruisce aeroplani.Tesi in sé infondata in ogni caso: sia in un contesto di

ma, mentre la penuria di costruttori di aeroplani è una parte fondamentale della sua soluzione.

Qual è lo snodo riformista attraverso il quale il nostro sistema bancario potrebbe concludere il suo cammino di modernizzazione? Risposta: la separazione delle fondazione dalle banche, che si ottiene accompagnando le fondazioni stesse a dismettere le partecipazioni di controllo che esercitano nelle rispettive banche e a diversificare il loro patrimonio. Perché malgrado la riforma del sistema bancario (1990) abbia migliorato parecchio le cose, essa resta per tanti aspetti ancora incompiuta. Il ruolo dominante delle fondazioni consente alla politica di esercitare una funzione d’ingaggio che altrove (con l’ec-

Non a caso, l’unico “diessino” che contrastò i rapporti della segreteria con i “furbetti del quartierino” fu Giorgio Napolitano stretta osservanza economicista, sia in un approccio politico generale che si proponga di risolvere i mali d’Italia. Se il problema principale del sistema-Italia è che, da troppi anni, cresce poco e la sua produttività totale dei fattori non regge quella delle nazioni concorrenti, ne segue che il dilagare degli immobilaristi è una parte importante di questo proble-

cezione tedesca) non esercita. Da qui deriva la pretesa del sindaco di Torino di sentirsi azionista di riferimento di IntesaSanpaolo, perché la nomina degli amministratori delle fondazioni non può non risentire fortemente degli equilibri politico-partitici, che hanno voce importante in capitolo. E difatti, a elezioni regionali vinte dalla Lega su Pdl e Pd, Bossi ha su-

bito invocato il controllo della banche del Nord. Ma nel caso in cui le fondazioni s’occupassero d’altro, evitando di concentrarsi sul controllo delle banche, l’ingerenza della politica sarebbe sensibilmente ridotta. Il nostro capitalismo saprebbe molto beneficiarsi di un credito finalmente erogato a sicure condizioni di mercato. Francesco Giavazzi ha di recente ricordato (Corriere della Sera 19/04/10) che nell’estate del 2007 la prima banca al mondo a diventare insolvente e a richiedere il salvataggio dello stato non fu americana, ma tedesca, la Landesbank della Sassonia, sotto controllo di amministratori pubblici di questo land.

Alla sinistra italiana, sul tema conservatrice più che in altri ambiti, la prosecuzione del percorso di liberazione della banche dalla politica non piace per niente. Le intercettazioni di D’Alema, Latorre e Fassino con Consorte, Ricucci e compagni, lungi dall’avere alcun rilievo penale, additavano segnatamente a questo intrinseco istinto conservatore. E il più recente pasticcio torinese è di tanto una conferma non richiesta. Alla base della convinzione che la politica debba a suo modo occupare, più che occuparsi, del sistema bancario, sta l’obiettivo di non abbattere la struttura familista del capitalismo italiano, ma di perpetuarla, a patto che si apra a sinistra. Che è poi quello che è accaduto negli ultimi anni: la tenace ricerca di un cuscino nel salotto buono, ricerca molto al di là dal concludersi. Dopo tutto la sinistra ha assorbito i fondamentali della struttura relazionale del nostro capitalismo. Prendiamo i patti di sindacato, quegli accordi tra azionisti detentori di piccole quote che si coalizzano per diventare un solo più grande azionista. Non è forse quella di un patto di sindacato la forma assunta oggi dal vertice del Pd? In questo modo, come le aziende italiane conservano il controllo familiare anche a danno della crescita di valore, i dirigenti democratici preferiscono avere un partito anche più piccolo, purché controllato sempre dagli stessi. La predilezione per la strategia delle alleanze sull’investimento nella crescita soggettiva di con-

C’è l’Intesa: Beltratti presidente Docente e prorettore all’Università Bocconi di Milano, cinquantuno anni, torinese, Andrea Beltratti è stato nominato al vertice del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo. Il nuovo presidente è stato eletto ieri all’unanimità dal consiglio di sorveglianza della banca, e andrà a sedere sulla poltrona appartenuta al predecessore Enrico Salza, a suo tempo uno degli artefici della fusione del 2006 tra San Paolo e Intesa. Solo pochi giorni fa sembrava scontata la promozione dell’ex ministro Domenico Siniscalco, appoggiato dal presidente della Compagnia di San Paolo Angelo Benessia che del colosso bancario è il primo azionista. Ma le speculazioni politiche avevano poi indotto Siniscalco a una polemica rinuncia che aveva prodotto un duro scontro tra il vicesegretario del Pd Enrico Letta e il sindaco Sergio Chiamparino, sponsor di Siniscalco. Si chiude così il tormentone che trova nella investitura di Beltratti i frutti della mediazione condotta dal presidente di Sanpaolo, Giovanni Bazoli. Corrado Passera è stato inoltre confermato nella carica di consigliere delegato. La notizia della nomina di Beltratti è stata confermata dai due consiglieri Casiraghi e Varaldo.

senso da parte del singolo partito, rivela una logica assai affine a quella a quella dei patti di sindacato. Meglio il controllo sicuro di un soggetto che, in un’alleanza di piccoli partiti, è comunque il più grande, che una crescita di consenso che lo disponga naturalmente ad una maggiore competitività interna per il suo controllo.

L’altra faccia della medaglia del goffo impaccio della sinistra alle prese col sistema bancario italiano, è quello della destra berlusconiana e del sogno della rivoluzione liberale del primo Berlusconi, tradito da una gestione politica che, ancora una volta, predilige la perpetuazione dei rapporti di forza esistenti a una modernizzazione liberale e liberista degli stessi. E però la segnalazione del conservatorismo tutto regressivo messo in campo da Berlusconi e dai quattro esecutivi da lui presieduti, non fa che rendere ancora più opaco il conservatorismo della sinistra. La quale, come altre sinistre in altri paesi europei, avrebbe potuto abbracciare la sfida del cambiamento ed essere protagonista, in tal senso, di una stagione di riforme davvero liberalizzatrici. Se la sinistra non è stata pronta a cogliere questa opportunità, è a causa di un ritardo politico-culturale complessivo, lo stesso che oggi affatica il Pd a guida Bersani. Fino alla goffaggine mostrata nella vicenda Intesa-Sanpaolo, nella quale pure un uomo accorto come Chiamparino, che in passato pure si è mostrato più prudente e lungimirante dei suoi colleghi politici romani, è capitolato. Si può stare certi che non dovrà passare molto tempo prima che il Pd dia nuovamente sfoggio del suo impaccio, alla prossima occasione che gli verrà offerta, su un piatto (non necessariamente) d’argento, dall’irrisolta commistione italiota tra fondazioni e banche.


ULTIMAPAGINA Arti. In mostra al Metropolitan Museum l’installazione dei fratelli Starn

“Big Bambù” porta la legge della giungla di Velia Majo a terrazza del Metropolitan Museum di NewYork ospita ogni estate, ormai da dodici anni, mostre e lavori di artisti tra i più importanti dell’arte contemporanea. È così che migliaia di persone hanno potuto ammirare, nelle edizioni passate, le creazioni di Jeff Koons, Ellsworth Kelly, Roy Lichtenstein, Roxy Paine. L’Iris and B. Gerald Cantor Roof Garden ospita quest’anno Big Bambù: you can’t, you don’t, and you won’t stop l’audace e ambiziosa installazione realizzata con soli bambù dai gemelli Doug e Mike Starn. Uomini e donne in tshirt, esperti rocciatori delicatamente in equilibrio su pali orizzontali, alcuni a piedi nudi come funamboli, passano intorno ai bambú corde di nylon. Sono loro che hanno lavorato alacremente per settimane sin da marzo, fino a dodici ore al giorno per fare in modo che tutto fosse pronto per l’inaugurazione dello scorso 27 aprile.

L

O meglio a buon punto, visto che i bambù installati sulla terrazza continueranno ad aumentare sotto gli occhi dei visitatori fino al 31 ottobre, giorno di chiusura dell’installazione. Big Bambù è una costruzione realizzata con 5000 bambù in continua evoluzione, un work in progress nel quale convivono scultura, architettura e performance. Per tutta l’estate saranno i visitatori a testimoniare della sua metamorfosi e il lavoro si ingrandirà fino a formare una cresta d’onda. Tutto si svolgerà sotto la supervisione degli artisti 48enni gemelli (identici) Starn, originari del New Jersey, meglio conosciuti per alcuni lavori realizzati per i lavori nella metropolitana di NewYork nella stazione di South Ferry. I fratelli Starn hanno lavorato e lavoreranno con il team di rocciatori e supervisioneranno i lavori con le macchine fotografiche al collo, registrando il progredire dell’opera. «All’inizio entrambi avevamo paura dell’altezza – confessa Mike – quando abbiamo cominciato nel nostro studio di Beacon e guardavamo in basso avevamo vertigini, ma ora l’abbiamo superato». Non è la prima avventura quella con Big Bambù per i gemelli Starn. Il progetto del Metropolitan Museum è una variante più ambiziosa di quella realizzata nel 2008 in una vecchia fonderia a Beacon, vicino New York, dove c’è lo studio dei gemelli Starn, non a caso molti degli stessi scalatori che stanno lavorando al progetto del Me-

tropolitan Museum, hanno lavorato nella vecchia fonderia-studio di Doug e Mike Starn. «Abbiamo scelto il bambù perché è un materiale molto forte e resiste a tutti i tipi di meteo – hanno affermato i gemelli Starn il giorno dell’inaugurazione – É come l’opera stessa, costantemente in cambiamento e il suo colore dipende dalla luce e dal tempo». Mentre il layout dell’opera è stato attentamente pianificato, la vista dei bambù legati insieme appare decisamente caotica. «È come le arterie del corpo o il sistema della metropolitana – afferma Mike Starn – un’interconnessione che abbiamo uno con l’altro ma che non è mai uguale a se stessa, cambia continuamente. Niente è completamente finito. C’è sempre qualcosa che esiste in un determinato momento e attraverso il tempo. Questo rappresenta l’essenza di essere vivi e noi non pensiamo

toppi. È stato assunto anche un architetto per la presentazione del disegno da sottoporre all’ufficio Building Department della città di NewYork. I 5000 pezzi di bambù provengono da un allevamento in Georgia e da una piantagione secolare nella Carolina Del Sud, per realizzare il progetto verranno usati 25 chilometri di nylon in circa venti colori. Gli artisti hanno detto che hanno scelto nylon colorato per sottolineare il tessuto connettivo dell’opera. Prima dell’apertura al pubblico, Big Bambù è stato sottoposto a diversi test. Sono stati usati dei sacchi di sabbia di 25 chili ciascuno e sono stati lasciati in sospensione sul bambù per 24 ore. Gli organizzatori della mostra prevedono che saranno circa 400mila le per-

a NEW YORK ll progetto raggiungerà 15 metri di altezza e si articolerà in tre fasi: la prima struttura è già pronta dall’inauguirazione di aprile, la seconda e la terza entro luglio soltanto a esseri umani, ma può trattarsi di una città o di una società o una cultura. C’è sempre qualcosa che cambia e diventa più grande».

Il progetto che raggiungerà15 metri di altezza, si articola in tre fasi: la prima è la struttura pronta dal giorno dell’inaugurazione. La seconda è la struttura esterna che si svilupperà nella parte orientale che raggiungerà 15 metri di altezza e sarà pronta per l’inizio di giugno, la terza è la struttura esterna nella parte occidentale che raggiungerà 10 metri di altezza e sarà pronta per metà luglio. Durante i mesi di pianificazione i fratelli Starn hanno cercato di accertarsi che tutto andasse avanti senza in-

sone che passeggeranno sulla terrazza del Metropolitan Museum per ammirare l’installazione. Ma Big bambù si potrà anche scalare. Per questo motivo sono state prese in considerazione tutte le eventuali conseguenze, compreso un attaccco di acrofobia da parte di qualche visitatore-scalatore. Ci saranno dei gruppi di 10 o massimo 15 persone. A ogni visitatore verrà attribuito un biglietto orario e si dovranno indossare scarpe robuste con suola di gomma. Non prima di aver presentato un documento e firmato la delibera. Se il tempo sarà uggioso il Big Bambù si potra osservare solo dal basso. Mentre ai bambini al di sotto dei 10 anni sarà vietato scalare in ogni caso.

Niente oggetti personali, borse, macchine fotografiche e cellulari. Si avrà la sensazione di trovarsi nella giungla pur godendo della vista dei grattacieli di New York. Ma cosa accadrà al bambù una volta che l’installazione sarà smantellata? «Li porteremo nello studio di Beacon – afferma Mike – o ne conserveremo alcuni di essi come pezzi d’arte. Non abbiamo ancora deciso».


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