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ISSN 1827-8817 00513

he di cronac

L’educazione sta nel nascondere il bene che si pensa di sé e il male che si pensa degli altri

Mark Twain

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 13 MAGGIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

«Per la nomina del ministro dello Sviluppo economico io mi tolgo assolutamente di mezzo», dice l’ex leader di Confindustria

Lo scatto di Montezemolo

«Non è il momento delle contrapposizioni, serve un grande sforzo di unità». Forte discorso a tutto campo del presidente della Ferrari che però ribadisce: «Non entrerò in politica» di Errico Novi

Il presidente della Camera: «Non incontro intermediari se non ho risposte politiche»

ontezemolo rovescia D’Azeglio: «Abbiamo fatto gli italiani, dobbiamo fare l’Italia». Ossia, il Palazzo non è adeguato al Paese: e per cambiarlo serve «unità di intenti». Il presidente della Ferrari non lo dice apertamente, ma il suo appello ricalca quello di Casini per un «governo di responsabilità nazionale». Del resto, la crisi non è ancora passata e il nuovo patto di controllo dei conti europei rischia di mettere l’Italia in ginocchio. a pagina 2

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Cala di nuovo il gelo tra Fini e Berlusconi

Intanto Scajola vuole evitare i giudici: «Non andrò a deporre a Perugia perché non ci sono le garanzie di legge»

MENTRE LA POLITICA SI CHIUDE

IL NUOVO PATTO DI STABILITÀ

Quell’Italia che dice sì a Casini

Così Maastricht 2 ci metterà nei guai

di Giancristiano Desiderio

di Enrico Singer

anno cercato di coinvolgerlo offrendogli il posto di Scajola ma ha detto no, grazie. E poi ha aggiunto un concetto fondamentale: «In questo momento serve unità d’intenti». Montezemolo ha più volte smentito il suo interesse per la carriera politica, però, il suo richiamo all’unità di intenti in un momento critico e delicatissimo per la vita nazionale ed europea richiama molto da vicino l’ipotesi avanzata solo domenica scorsa da Casini. a pagina 2

obiettivo è ambizioso. Ma a questo punto, ormai, è anche obbligatorio: rendere coerenti i bilanci nazionali con la dimensione europea. La moneta comune e la stabilità stessa dell’Unione non si possono difendere soltanto con interventi straordinari a colpi di miliardi. Bisogna correggere le storture. Prevenire, più che sanare situazioni che sono già fuori controllo, come quella della Grecia, o in difficoltà come quelle della Spagna. a pagina 4

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Tra costume e potere riflessioni sullo spirito del tempo

Siamo ormai diventati un popolo senza vergogna? di Pier Mario Fasanotti

Dopo l’incidente nel Golfo del Messico che sta “sporcando” l’Atlantico davanti agli Usa, Barack Obama presenta il conto alle compagnie petrolifere: un cent in più per ogni barile. È la nuova “ecotassa” che Washington vorrebbe introdurre per far fronte alle spese per la sicurezza delle trivellazioni. Ma anche per affrontare il costo sempre più alto della pulizia.

La Casa Bianca stima che i fondi raccolti con la ecotassa dovrebbero ammontare a 118 milioni di dollari annui, da usare qualora ve ne dovesse essere (anche se tutti già toccano ferro) bisogno. Ecco: e se fosse una licenza per sporcare?

are una cosa assurda. Peccato però che sia vera. Questa nostra società contemporanea, spesso così scomposta e volgarmente esibizionista, è caratterizzata non da una presenza. Ma da un’assenza. L’assenza di vergogna. In Italia c’è un torturante susseguirsi di scandali, di corruzioni, di sfilate di indagati (molti restano al loro posto, pochi fanno un passo indietro), di strafottenti sfide alla legalità e al senso etico. A osservaScandali, re le facce e a corruzione, leggere attensfide finali tamente certe alla legalità: dichiarazioni improntate, il Paese come ormai si dove tutto usa, al vittimiè possibile smo e all’esistenza di perfidi complotti - si nota immediatamente quell’assenza di ciò cui accennavo: la vergogna.

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Marco Palombi • pagina 7

Dopo il disastro della Louisiana, la Casa Bianca chiede il conto alle compagnie

L’ecotassa di Obama sul petrolio «Un cent in più per ogni barile»: è il prezzo della sicurezza di Antonio Picasso

seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I chiaroscuri della proposta di Washington

Purché non sia come una licenza per sporcare di Marco Respinti

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

91 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 13 maggio 2010

Appelli. Dal presidente Ferrari un discorso a tutto campo: quasi un programma di governo. Ma dice no al ministero di Scajola

Chi sta fermo è perduto

Montezemolo invoca «unità di intenti per cambiare il Paese» «E il federalismo non sia la scusa per rinviare i tagli alla spesa» di Errico Novi

ROMA. C’è un’altra Italia da scrivere e a Luca di Montezemolo non sfugge l’occasione per dirlo. Occasione offerta prima ancora che dal contesto – un convegno della Fondazione Telethon da lui presieduta – dalle celebrazioni per l’unità del Paese: a proposito dei tagli da trasformare in investimenti per la crescita il numero uno di Ferrari dice: «Forse la frase di Massimo D’Azeglio andrebbe letta in senso opposto: abbiamo fatto gli italiani, occorre rifare l’Italia».

E già di per sé un’affermazione del genere sembra il titolo di un programma. Di certo è un’esortazione al cambiamento: forte, radicale, generalizzato. Non manca praticamente nulla, nell’intervento preparato da Montezemolo per il dibattito, organizzato a Padova, su “Ricerca, l’Italia che merita”. Dalle carceri («dopo l’indulto abbiamo perso quattro anni, non se n’è costruita nemmeno una») all’università («non servono le facoltà condominiali ma centri di eccellenza collegati alla rete del territorio»). Dal discorso generale del merito («il governo dovrebbe prendere esempio da Telethon, piccola realtà che grazie a merito e strategia è diventata leader nel mondo») a quello particolare sulle Ferrovie («la concorrenza per i treni è nell’interesse dei cittadini»). Ma soprattutto il promotore di Italiafutura abbraccia in pieno la sostanza dell’appello di Pier Ferdinando Casini quando dice che «in un momento come questo il senso dell’unità d’intenti, della difesa del Paese, è fondamentale». E, ancora, che «bisogna mettere da parte le contrapposizioni». È un dovere per tutti, secondo l’ex presidente della Fiat, «bisogna fare un grande sforzo verso l’unità». Coesione delle forze e slancio per sostenere lo sviluppo: è un asse che coincide con la ba-

Dopo che i due schieramenti avevano rifiutato ogni strategia di cambiamento dell’esecutivo

C’è anche un’Italia che dice sì a Casini di Giancristiano Desiderio anno cercato di coinvolgerlo offrendogli il posto di Scajola ma ha detto no, grazie. E poi ha aggiunto un concetto fondamentale: «In questo momento serve unità d’intenti». Luca Cordero di Montezemolo ha più volte smentito il suo interesse per la carriera politica o per la parentesi politica in quella che finora è stata un’attività imprenditoriale e di dirigente economico. Però, il suo richiamo all’unità di intenti in un momento critico e delicatissimo per la vita nazionale ed europea richiama molto da vicino l’ipotesi avanzata solo domenica scorsa da Casini: «Prima o poi si dovrà fare un governo di responsabilità nazionale». La definizione mettetela voi, è la cosa che conta: un governo con ampia maggioranza che faccia quelle riforme sociali e istituzionali che un governo elettorale non è in grado di fare. Le parole di Montezemolo si muovono nella stessa direzione. E hanno gran valore per due motivi: primo perché il presidente della Ferrari ha smentito più volte una sua “discesa in campo” e, secondo, perché il richiamo all’unità di forze politiche, sociali e nazionali non è venuto, appunto, da una voce politica ma da un rappresentante del mondo dell’impresa e della società. L’idea di Casini, dunque, respinta con un certo sdegno dalla politica, ha invece iniziato a circolare nella società.

talia è comunque esposta al rischio degli speculatori esterni e la nostra virtù di formichine e di lavoratori in proprio non ci può salvare da una forte onda d’urto che arrivi improvvisa. La mossa giusta non è solo quella di resistere e sperare, ma anche e soprattutto quella di darsi da fare e tornare a crescere. Questo Tremonti, cioè la qualità stessa di questo governo al di là dell’immagine e dei sondaggi di Berlusconi, non lo può fare solo con la sua volontà e con la sua rappresentazione. Per quanta fantasia possa avere e per quanto si sappia muovere con spregiudicatezza nelle pieghe dei conti del bilancio dello Stato, il ministro Tremonti non può fare il miracolo che, invece, può venire solo dal corpo stesso della nazione. Casini dice «governo nazionale», Montezemolo dice «unità d’intenti», Vaciago dice «ripresa economica» ma tutte queste espressioni conducono allo stesso punto: un patto tra politica e società per liberare risorse e investire nella produttività. L’Italia ha in sé questa forza e non sfruttarla per allontanare dalle nostre banche, dai nostri risparmi, dalle famiglie e dalle aziende il pericolo concreto di una speculazione internazionale sarebbe peggio di un crimine, un errore.

Si sente ripetere

Il governo Berlusconi è uscito da un pezzo dalla sua stagione vitale, quella in cui veniva definito governo Bertolaso. Ora è entrato in una fase di declino in cui perde pezzi, ministri, collaboratori ed emerge quella che è stata da sempre la sua qualità primaria, sia pure tenuta in ombra: la borsa è nelle mani di Giulio Tremonti. Ma quella borsa bisogna ritornare a riempirla e il ministro non lo può fare nella splendida solitudine in cui si trova. Sono troppe le cose che contano realmente e che attualmente non sono alla portata delle forze politiche del governo: Stato sociale, costo del lavoro, sommerso, riforme istituzionali. Eppure, è proprio nei momenti di crisi che storicamente si fanno le cose decisive e una nazione ritrova se stessa con volontà e intelligenza.

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Anche se «non siamo la Grecia», siamo comunque esposti al rischio-speculazione: occorre muoversi subito per affrontare la crisi

in giro, a mo’ di giaculatoria e di scongiuro, «noi non siamo la Grecia». E almeno in parte è vero. Tremonti ha dimostrato di saper fare la cosa giusta al momento giusto: controllo della spesa e se necessario si taglia. Tutti, però, sappiamo che anche se «non siamo la Grecia», l’I-

se del ragionamento svolto dal leader Udc nei giorni scorsi. E che ha forti assonanze con le proposte avanzate da esponenti della maggioranza, soprattutto di area finiana, come Mario Baldassarri. Montezemolo non fa altro che ricordare come un consenso all’idea di «uscire dall’angolo» – quello dei conflitti politici e delle strategie minimaliste del governo – esiste eccome.

A rafforzare l’impressione di una forte vicinanza all’appello di Casini (accolto con un misto di nervosismo e reticenza da Pdl e Pd) concorre l’atteggiamento costruttivo che Montezemolo invoca nei confronti del governo: «Sta difendendo l’Italia e lo sta facendo bene», dice. «Indipendentemente dall’orientamento politico di ognuno, questo sforzo va supportato da tutti, nessuno escluso». Non è una linea lontana dall’apertura di Casini a un esecutivo «di tregua», innanzitutto, ma che potrebbe essere guidato comunque dall’attuale presidente del Consiglio. Seppur nel quadro di un richiamo a una «grande unità» Montezemolo non cela dissensi sostanziali su alcune linee strategiche del governo. Obietta che «la difesa dell’Italia non può essere fatta rimanendo sempre immobili come quei pugili all’angolo attenti a non prendere colpi: per vincere bisogna andare al centro del ring». Nel dettaglio si chiede se «possiamo accettare che i tagli siano sempre rimandati alla prossima riforma». E qui emerge con chiarezza l’aggancio alle critiche mosse a Tremonti da settori dello stesso Pdl, prima e dopo l’ultima manovra. A colpire più in profondità la strategia finora adottata dalla maggioranza è però soprattutto il passaggio sul federalismo: «Bisogna mettere al centro la crescita e fare in fretta», dice il presidente della Ferrari, «perché le riforme rischiano di diventare la scusa per “non fare”: non dobbiamo


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Il ministro Tremonti sta cercando di trovare i fondi per coprire la quota italiana nel nuovo fondo europeo contro la crisi. Ma non è chiara neanche la cifra reale da impegnare. Intanto, il leader della Ferrari Montezemolo rilancia la proposta di Casini

Il nuovo fondo europeo chi lo pagherà? Per salvare l’Ue, l’Italia verserà tra i 30 e i 35 miliardi. Il problema è capire dove trovarli di Francesco Pacifico Roma. Nuove tasse, condoni e strette sugli aumenti salariali degli statali e chiusure delle finestre pensionistiche. Non sarà la Grecia, ma l’ultima crisi dei mercati e i ritardi della ripresa hanno costretto l’Italia a una blindatura dei suoi conti impensabile fino a qualche settimana fa per il governo. Al Tesoro è iniziato soltanto da poco il lavoro ai tavoli tecnici per capire dove trovare i 25 miliardi necessari, nei palazzi della politica è tutto un rincorrersi di ipotesi, utili soltanto per creare incertezza. Anche perché non basteranno certamente i tagli orizzontali per recuperare una cifra simile.

Basta guardare i numeri per capire che i tempi sono sempre più difficili e che la ripresa è troppo lieve per un Paese dai gap strutturali come il nostro. La corsa del debito pubblico non vuole saperne di rallentare. Tanto che a marzo si è toccato i 1.797,653 miliardi di euro, tre in più rispetto a un mese prima. Cala invece il gettito con il primo trimestre 2010 che vede l’Erario incassare 79,6 miliardi (-1,65 per cento tendenziale). E seppure l’inizio dell’anno non è un periodo sufficiente per comprendere le tendenze sul medio tempo, sono in molto a dare per scontato che gli acconti concessi nel 2009 avranno un impatto sui saldi di Irpef e Ires nel 2010. Senza contare che è sempre maggiore il timore che non bastino i 25 miliardi di euro della manovra per il prossimo biennio. Se il tendenziale sul deficit/Pil si confermasse intorno al 5,2 per cento, allora questa cifra sarebbe più sufficiente per limitare lo sforamento del disavanzo al 3,5. Ma se la crescita si dimostrasse più flebile del previsto (per intenderci, lo 0,8 aspettare il federalismo, per tagliare gli sprechi». Qui la critica a Tremonti è forte, perché è proprio nel decentramento fiscale che il ministro dell’Economia indica la via per trovare nuove risorse. Montezemolo ci vede invece un alibi, una pretestuosa chimera per spostare tutto in avanti, per «rimandare i tagli alla spesa».

per cento stimato dal Fondo monetario contro l’1 del governo), allora si arriverebbe al 6 o al 7 per cento del Pil e la Finanziaria d’incanto potrebbe superare i 30 miliardi. Questi timori sono ben presenti al ministero dell’Economia. Dove il primo problema da risolvere, nonostante le smentite alle dichiarazioni del sottosegretario Alberto Giorgetti, è capire se c’è bisogno di anticipare gli interventi necessari. Ipotesi che si vuole scongiurare se il ministro Maurizio Sacconi, da sempre molto vicino a Tremonti, ieri ha confermato soltanto che «si lavora sulla manovra 2011-2012. Non mi risulta altro». Senza contare gli impatti sui conti italiani che arriveranno dopo le ultime decisioni prese a Bruxelles. È vero che partecipare ai due maxi piani per il salvataggio di Grecia e euro (rispettivamente da 50 e da 440 miliardi) potrebbe costare anche 40 miliardi di euro, ma questi sono essendo prestiti non ricadono sul debito e possono essere defalcati sul debito. Eppoi, se non si sa se queste risorse vengano chieste dalle economie di Eurolandia attaccate dalla speculazione, è certo che il tasso applicato, intorno al 5 per cento, potrebbe portare delle forti plusvalenze nel caso in cui i suoi funzionari riuscissero a intercettare l’andamento migliore degli interessi. Spaventa invece la proposta della Ue di parificare, nel rispetto del nuovo patto di stabilità, il peso del deficit e quello del debito. Anche perché Roma, che

E quando punta l’indice contro «i costi della politica», l’ex presidente Fiat assume la definizione in senso strategico piuttosto che qualunquista, perché allarga il discorso «ai troppi sprechi, alle spese inutili». Sono quelle, sostiene, che portano via «i soldi da investire sul futuro, sui giovani, sulla ricerca e le infrastrutture», mentre

viaggia verso il 116 sul Pil, rischia di dover rimodulare tutta la sua strategia sul medio e lungo termine. Come ricorda Luigi Zingales, docente di economia all’università di Chicago, «queste modifiche potrebbero dare più tempo all’Italia per aggiustare i suoi conti, visto che nessuno a Bruxelles avrebbe il coraggio di chiedere in questa fase rientri repentini. Il problema però che sotto questa ottica l’Italia risentirà ancora di più della sua mancanza di competitività, visto che non hai mai voluto risolvere i suoi nodi strutturali. Perché se il debito impedisce un serio programma di stimoli produttivi, pensiamo a quale costi impongono i ritardi della giustizia civile per il funzionamento per l’economia». Di conseguenza, l’Italia finirebbe per fare più difficilmente anche le poche riforme intraprese. Partendo da quel federalismo fiscale, che tanto sta a cuore a Tremonti e alla Lega. Seppure venisse attuato entro un decennio, questo processo comporterà costi altissimi per la perequazione, pena un deterioramento del gettito. E basta soltanto ventilare quest’ipotesi per ampliare gli spread tra il Btp e il Bund tedesco.

Continua la corsa del debito pubblico (1.798 miliardi) mentre cala di oltre 3 miliardi il gettito fiscale a marzo

Guardando sia al presente sia al futuro l’economista Nicola Rossi dice «che non dobbiamo inventare niente di particolare. Perché il debito lo si affronta tendendo ferma la barra del rigore, tagliando la spesa. Questa è la vera riforma strutturale». Chiaramente in cima alla lista c’è l’in-

a tirare la cinghia sono «famiglie e imprese».

L’orizzonte è ampio, comprende temi come la concorrenza – tirata in ballo a proposito del treno in ritardo con cui Montezemolo ha raggiunto Padova – e la ricerca, settore in cui bisogna investire giacché non farlo significa «essere condan-

nalzamento dell’età previdenziale. Ma non soltanto per riequilibrare le sproporzioni del welfare tra le voci dell’assistenza, «quanto per evitare di buttare nel baratro i giovani di oggi, che in futuro rischiano di non avere una pensione». Se la strada è questa, allora per Nicola Rossi si deve iniziare già con la prossima manovra da 25 miliardi. «Dando per buoni questi numeri, Tremonti dovrebbe iniziare dalle Province. Non si può dire, come fa il governo, che siccome costano “soltanto”200 milioni non sono una priorità. Perché i grossi sprechi si annidano proprio nelle attività che il pubblico esercita in maniera immotivata. Pensiamo alle municipalizzate». In via XX Settembre guardano al problema in un’ottica diversa. Chi ha spulciato nel capitolo spesa pubblica dice che pure usando le forbici senza remore si potrebbero recuperare al massimo dieci miliardi. Di conseguenza bisogna ingegnarsi per trovare gli altri 15 necessari per il prossimo biennio, a meno che l’economia, come ha ipotizzato ieri l’ufficio studi di Confindustria, cresca oltre l’1 per cento nel 2010. Al Tesoro si stanno studiando una regolarizzazione catastale destinata agli immobili non accatastati. E che sono 1,8 milioni di unità immobiliari. Non va dimenticata poi la possibilità di congelare gli aumenti da 3,5 miliardi per i dipendenti statali. Per non parlare di un ritocco all’aliquota mediana dell’Iva o alla tassazione sulle rendite. Eppoi si potrebbero far passare come tagli i minori interessi sul debito dovuti al contenimento degli spread tra Btp e Bund. Ma sarebbe tutto inutile senza la chiusura di alcune finestre pensionistiche.

nati a non crescere», anche se «non è solo un problema di fondi». Sembra appunto un programma di governo, se non fosse che il presidente della Ferrari coglie l’ennesima occasione per declinare l’invito della politica: «L’ipotesi della mia candidatura a ministro dello Sviluppo economico non esiste, non è mai esistita», assicura. «Io mi tolgo

assolutamente di mezzo», ma in ogni caso «serve una persona di competenza anche industriale» che rappresenti quel «mondo delle imprese piccole, medie e grandi capace di resistere alla crisi». Sempre nel segno dell’unità, anche perché «la crisi durerà e la speculazione, come la corruzione, non si combatte in un giorno».


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l’approfondimento

José Manuel Barroso ha presentato la bozza del «patto di stabilità» che dovrebbe rimettere in sesto l’eurozona

La nuova Maastricht d’Italia Sanzioni automatiche per chi sfora il 3% del deficit e soprattutto grande attenzione al debito: le nuove regole che l’Europa vuole mettere in campo per controllare i bilanci rischiano di essere ingestibili con conti come i nostri di Enrico Singer obiettivo è ambizioso. Ma a questo punto, ormai, è anche obbligatorio: rendere coerenti i bilanci nazionali con la dimensione europea. La moneta comune e la stabilità stessa dell’Unione non si possono difendere soltanto con interventi straordinari a colpi di miliardi. Bisogna correggere le storture. Prevenire, più che sanare situazioni che sono già fuori controllo, come quella della Grecia, o in difficoltà come quelle della Spagna e del Portogallo. O che potrebbero esserlo presto, come quella dell’Italia. Nel vertice straordinario dello scorso weekend, i capi di Stato e di governo dei sedici Paesi di Eurolandia lo avevano riconosciuto: il fondo dei 700 miliardi di euro doveva essere accompagnato da una revisione delle regole. E ieri la Commissione europea - che è l’esecutivo della Ue - ha presentato la sua ricetta: la nuova Maastricht, come è stata già battezzata. Anche se, in realtà, non cambia i parametri fondamentali del Patto di

L’

stabilità. Ma mette in campo tutta una serie di meccanismi per renderli, finalmente, effettivi e vincolanti. Manuel Barroso lo ha detto chiaramente. Ci vuole un coordinamento preventivo e ci vogliono anche sanzioni per chi non rispetta gli impegni presi. Più che una nuova Maastricht, è una Maastricht più stringente. «Non può esserci unione monetaria senza che ci sia unione economica. Se i governi non la vogliono, tanto vale dimenticarsi dell’euro».

Sono parole dure che, nella pratica, si traducono in due punti qualificanti e in una serie di corrolari che da questi discendono. La prima vera novità è stata presentata dal commissario agli Affari economici, il finlandese Olli Rehn, autore del piano, sotto il titolo un po’ generico di «semestre europeo». Si tratta di inaugurare almeno nelle intenzioni, gia dal primo semestre del 2011 - una fase di discussione preliminare delle leggi finanziarie nazionali per «definire il profilo della

politica di bilancio a livello europeo e dell’eurozona». Una valutazione sicronizzata comune con l’obiettivo dichiarato di assicurare che i bilanci nazionali «siano coerenti con la dimensione europea e non mettano a rischio la stabilità degli altri Stati membri». Nel caso dell’Italia, questo significherebbe che misure come la riduzione delle imposte dirette o il federalismo fiscale dovrebbero passare, prima, al vaglio della Ue dimostrando che sono compatibili con l’altro punto-chia-

In Spagna il premier Zapatero annuncia già lacrime e sangue

ve della rinnovata vigilanza del rispetto dei paramentri del Patto di stabilità: la riduzione del deficit, naturalmente, ma anche quella della massa del debito pubblico che assume la stessa importanza del disavanzo facendo scattare le procedure d’infrazione rese più severe dal nuovo apparato delle «sanzioni automatiche».

La massa del debito, si sa, è la bestia nera dei nostri conti pubblici. Se si confrontano i dati sensibili di Portogallo, Irlan-

da, Grecia e Spagna - i cosiddetti Pigs della Ue - con quelli dell’Italia, si scopre che la Grecia, con il debito al 124,9 per cento del suo Pil e il deficit al 9,3 per cento, è in piena crisi su tutti i fronti, ma che gli altri tre Paesi hanno grandi difficoltà sul parametro del deficit (il 12,2 per cento per il Portogallo, l’11,7 per cento per l’Irlanda e il 9,8 per cento per la Spagna rispetto al tetto del 3 per cento) e si mantengono, però, attorno a una quota accettabile per quanto riguarda la massa del debito che il Patto di stabilità giudica sostenibile al livello del 60 per cento del Pil. Il Portogallo è a quota 77 per cento, l’Irlanda a quota 78,8, la Spagna addirittura a quota 64,9. Eppure proprio ieri il premier spagnolo, Luis Zapatero, quasi in contemporanea con la presentazione del piano della Commissione europea, ha annunciato un pacchetto di misure di austerità che comprende anche la riduzione del 5 per cento degli stipendi dei dipendenti statali e il taglio di 13mila posti nel


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Come spesso accade nella Ue, la mediazione politica finisce per scontrarsi con le necessità reali

Ora Berlino teme di perdere la leadership economica L’idea che a controllare i conti di tutti i Paesi europei sia direttamente la Commissione finirà per scatenare le dure reazioni di Angela Merkel di Gianfranco Polillo a novità è più di metodo che di sostanza. I commenti che hanno accompagnato, sulla stampa, il possibile varo delle nuove norme sul «Patto di stabilità e crescita», ancora in gestazione, sono stati imprecisi. Sia sul debito sia sul deficit le regole non cambiano. Sono quelle previste dall’articolo 104C del Trattato di Maastricht. Lo stesso dicasi per l’obbligo di deposito infruttifero, in caso di inadempienza, a sua volta indicato dal comma 11 dello stesso articolo. E allora dov’è la sorpresa? Essa riguarda il passaggio dal consuntivo al preventivo. Sarà infatti la Commissione – una sorta di terza Camera – che darà il via libera preventivo alla manovra di bilancio. Se non dovesse essere emesso il verdetto di conformità, scatteranno le misure previste. È facile prevedere le conseguenze di questo modo di operare: una serie di contenziosi cui gli Stati nazionali non potranno sottrarsi, con un effetto immediato sia sull’andamento del rating che sull’evoluzione del dibattito politico interno. Non sarà comunque facile dare attuazione alle nuove disposizioni, sempre che si arrivi alla loro consacrazione giuridica.

L

A dimostrazione di quanto sia piena di problemi la strada delle buone intenzioni è ancora il caso della Grecia. Situazione limite di un malcostume ben più diffuso. In quel caso si trattò di una grossolana falsificazione dei conti, nella maggior parte dei casi di semplici aggiustamenti che nuove regole contabili dovrebbero rendere meno praticabili. Su tutto pesa, poi, l’esistenza di procedure e modi di rappresentazione dei dati di bilancio difformi. Occorrerà sfoltire questa giungla per giungere a principi comuni più condivisi. Qualcosa di simile a quanto si è realizzato in campo civilistico. Per l’Italia, l’occasione per approfondire il tema del format del bilancio pubblico: attualmente una sorta di «Tre cani», per volume di pagine, non certo per la comprensibilità dei programmi di intervento che quella montagna di cifre e capitoli nasconde. Comunque, un passo in avanti e una scelta obbligata. Il grande piano per la stabilità dell’euro è ancora un monumento alle buone intenzioni. Più si legge il contenuto degli accordi sottoscritti e più nascono le perplessità e i dubbi. Quando scatterà? Quali saranno le procedure che regoleranno il suo funzionamento? I Paesi più esposti, nel tritacarne della crisi, chiederanno l’intervento dell’Fmi, che rappresenta la certificazione del fallimento politico dei rispettivi Governi? La Grecia, dopo settimane di incertezza, ha fatto ricorso a questa procedura solo a un

passo del default. Lo ha potuto fare perché Papandreu aveva appena vinto le elezioni e, quindi, in grado di dimostrare le responsabilità altrui. Negli altri casi, non sarà così semplice. Ma questi sono ragionamenti che valgono nelle aule universitarie. Meno in un contesto drammatico, come l’attuale che ha visto scendere in campo, per la prima volta dalla sua nascita, la BCE e contraddire le regole auliche del suo originario Statuto. Come si è visto dall’andamento dei mercati, la Banca centrale non ha perso tempo. Ha dato il suo sostegno a quei titoli sovrani sotto attacco speculativo. Acquistandoli ha stabilizzato i prezzi e contrastato le spinte al ribasso. Nessuno ne conosce, nel dettaglio, le specifiche. Normale riserva. La riaffermazione di un barlume di indipendenza che la crisi sta mettendo a dura prova. Nessuna monetizzazione del debito: è stato detto. Quei titoli saranno “sterilizzati”. Come? Non è dato sapere. La promessa è che non vi sarà aumento di “base monetaria”; ma già si intravedono pulsioni latenti sul fronte inflazionistico.

Ed ecco allora il pendant. Se questo difficile equilibrio deve reggere alla prova dei fatti, è necessario accompagnare l’attività della Bce con regole più stringenti sul fronte della politica economica. Non servono nuove norme, ma applicare quelle esistenti. E applicarle davvero. Non si dimentichi che a

violarle furono, prime fra tutte, proprio la Francia e la Germania, qualche anno fa. Tornano pertanto in auge le vecchie prescrizioni che furono concordate per la nascita dell’euro: debito e deficit pubblico che non può superare il valore di riferimento – rispettivamente il 60 ed il 3 per cento – «a meno che il rapporto non diminuisca in modo sostanziale e continuo» per avvicinarvisi. Salvo casi «eccezionali o temporanei». Per l’Italia, secondo i vecchi calcoli dell’Ime - che fu l’embrione della Bce – si dovrebbe avere una riduzione annuale del rapporto debito/Pil pari al 3 per cento annuo. Nuove preoccupazioni per Giulio Tremonti. Ma chi sarà l’occhiuto controllore? La risposta, al momento, è la Commissione. Risposta giusta dal punto di vista istituzionale, ma poco gradita ai singoli Stati che si sentono toccati in un punto estremamente sensibile: quello della sovranità. Le risposte, specie tedesche, non si sono fatte attendere in un confuso e persistente mal di pancia. Ma come, il Paese così virtuoso che più virtuoso non si può, controllato da un pugno di burocrati? Reazioni comprensibili, ma non condivisibili. Il principio è quello aulico: «No taxation without representation». Se sono oggetto di decisioni politiche, ho il diritto di partecipare alla decisione stessa. Certo, se fossimo in uno Stato federale, questo sarebbe compito del Parlamento. Ma nella tortuosa costruzione europea questo sarà – almeno così ci ostiniamo a credere – un lontano punto di arrivo. In attesa che il miracolo si compia, dobbiamo accontentarci di un ibrido, qual è appunto la Commissione. Proteste, quindi, più che da respingere, da comprendere nella loro reale portata politica.

La Germania teme soprattutto che venga posta in discussione la sua politica economica. Cosa che già sta avvenendo nelle sedi tecniche, ma non è ancora di pubblico dominio. Si eccepisce sul forte attivo della sua bilancia dei pagamenti. Sul suo rifiuto di fare da locomotiva per consentire al lento convoglio europeo di guadagnare più in fretta l’agognata vetta della ripresa economica. Critiche cha hanno un forte fondamento, ma che la Merkel, già angosciata dal precario equilibrio politico post-elettorale, non ama sentirsi ripetere, soprattutto, a livello istituzionale.

settore pubblico. Una politica di rigore che ricalca quella varata dalla Grecia e preannunciata anche dal primo ministro portoghese, José Socrates. È presto per immaginare quali misure la Ue potrebbe chiedere all’Italia che si trova, indubbiamente, in una situazione molto meno drammatica dal punto di vista del deficit - previsto al 5,3 per cento quest’anno - ma che ha una massa del debito pubblico accumulata negli anni pari al 118,2 per cento del Pil: la più pesante dopo quella della Grecia. Il commissario Olli Rehn, ieri, ha soltanto fissato le regole generali. Ha detto che «il parametro del debito avrà pari dignità di quello del deficit». Che i Paesi con debito superiore al cento per cento - come dire la Grecia e l’Italia - «dovranno indicare anche un gradiente di riduzione del debito» e che, per loro, non sarà più sufficiente riportare il deficit entro il tetto del 3 per cento perché questo, nei fatti, significa aumentare la massa del debito e non ridurla. Margini più stretti, insomma. Con la tagliola delle procedure d’infrazione pronta a scattare.

Le nuove sanzioni «automatiche» di cui hanno parlato Manuel Barroso e Olli Rehn sono sostanzialmente due: la possibilità di imporre depositi fruttiferi agli Stati membri che non fanno sufficienti progressi verso gli obiettivi concordati e il condizionamento degli aiuti europei - i fondi strutturali - al rispetto del patto di stabilità. La Germania, che è la paladina della linea dura, aveva ipotizzato che ai Paesi inadempienti fosse tolto anche il diritto di voto nelle decisioni in materia economica. Una proposta che la Commissione non ha ripreso. Ma l’iter della nuova Maastricht è appena all’inzio. Quando sono in gioco modifiche delle regole, i progetti devono passare anche al vaglio dell’Europarlamento e l’ultima parola spetta sempre al Consiglio europeo: in altre parole ai capi di Stato e di governo che devono approvare la revisione del Patto di stabilità. Con una battaglia che già si annuncia e che si potrebbe anche decidere a colpi di veti. Ieri la Svezia - che non fa parte della zona euro - ha fatto sapere di non essere d’accordo con la Commissione che vorrebbe applicare le nuove regole a tutti i Paesi della Ue perché anche chi è fuori dall’euro è già obbligato, comunque, a presentare dei “piani di convergenza” simili a quelli di stabilità dei sedici di Eurolandia. Che, nonostante tutte le turbolenze della crisi stanno per diventare diciassette. Proprio ieri la Commissione ha dato il via libera all’adozione dell’euro da parte dell’Estonia che passerà alla moneta comune dal 1° gennaio 2011. Sperando che il 17 non porti sfortuna.


diario

pagina 6 • 13 maggio 2010

Intese. L’accordo per l’ingresso dei centristi nella giunta è stato raggiunto: ora restano da definire le deleghe

Lazio, l’Udc aspetta la Polverini

Ieri prima riunione del consiglio: il presidente eletto dopo quattro votazioni ROMA. Se il buon giorno si vede dal mattino, la permanenza di Renata Polverini alla Regione non sembra nascere sotto una buona stella. A poco più di un mese dalle elezioni i segnali non sono certo incoraggianti: prima il pasticciaccio per l’esclusione della lista del Pdl, poi il disaccordo con l’Udc per la composizione della giunta, e per finire – ieri – la bagarre in consiglio e le quattro votazioni, la terza è stata annullata e ripetuta, perché c’erano più schede dei votanti, per eleggere il presidente designato Mario Abbruzzese. Nella seduta di ieri, intanto, il primo tassello del puzzle PdlUdc è andato a posto: è stato eletto, infatti, alla vicepresidenza del Consiglio l’Udc Raffaele D’Ambrosio al quale il segretario regionale dei centristi Luciano Ciocchetti ha rivolto gli auguri «per la carica che meritatamente andrà a ricoprire. Sono certo che la sua esperienza e bravura politica sarà garanzia per le istituzioni regionali». Ma Ciocchetti aggiunge: «L’elezione di D’Ambrosio fa parte di un accordo istituzionale. Ora attendiamo che il presidente Polverini dia corso agli impegni politici presi. I voti dell’Udc sono stati determinanti per l’elezione del presidente del consiglio Abbruzzese. Senza i nostri sei voti non avrebbe superato il quorum, dal momento che nella maggioranza ci sono stati cinque franchi tiratori. Speriamo che la nostra lealtà venga riconosciuta, dovremo aspettare ancora qualche giorno».

di Franco Insardà

chiudere l’accordo e ieri mattina al suo arrivo alla Pisana si è detta «molto emozionata», forte però dell’accordo concluso con l’Udc che rafforza la sua giunta e la sua maggioranza e dà ai centristi due assessori.

La cautela in casa Udc è d’obbligo. Su tutti il più prudente è proprio il segretario regionale Ciocchetti, dopo la delusione per il varo della prima giunta Polverini che aveva escluso i centristi. In via Dei due Macelli aggiungono che bisognerà attendere l’attribu-

Ciocchetti: «I nostri sei voti determinanti per eleggere Abbruzzese. Spero che la nostra lealtà sia riconosciuta, ci vorrà qualche giorno» Quella poltrona di governatore del Lazio Renata Polverini l’ha voluta con tutte le sue forze ed è decisa a blindarla contro tutto e tutti. In campagna elettorale, quando i sondaggi non le erano proprio favorevoli, andò da Silvio Berlusconi e chiese il suo intervento risolutore. Per costruire la sua squadra e si è scontrata con l’Udc decisa a far valere gli accordi, minacciando, altrimenti, l’appoggio esterno. Anche in questo caso il governatore del Lazio è andata a Palazzo Grazioli perché il premier intervenisse per

zione delle deleghe e a quel punto l’assemblea del gruppo deciderà sui nomi che, a meno di sorprese dell’ultim’ora, dovrebbero essere il capogruppo Aldo Forte e Ciocchetti. Ai due dovrebbero andare la delega al Bilancio e quella al Turismo, mentre si continua a discutere sulla vicepresidenza della giunta. Inoltre all’Udc toccherebbe la guida di quattro commissioni. Per far posto ai due neo assessori la Polverini dovrà “licenziare” due degli undici assessori uomini. Quelli che ri-

Il governatore campano: «A giorni ci sarà la giunta»

E Caldoro attende De Mita ROMA. Stefano Caldoro si dice certo di formare la sua giunta «entro questa settimana». Lo ha detto al termine della prima seduta di consiglio regionale che ha visto tante prime donne protagoniste: dal ministro Mara Carfagna, ad Alessandra Mussolini e a Sandra Lonardo Mastella, ritornata in consiglio regionale dopo la revoca del provvedimento che ha tenuto l’ex presdiente lontana dalla Campania per oltre sei mesi a causa dell’inchiesta sull’Arpac in cui è coinvolta. La questione che tiene banco in queste ore in Campania è, però, la posizione dell’Udc. Dopo i colloqui romani con i vertici del partito il governatore Caldoro sta trattando con Ciriaco De Mita, segretario regionale del partito di Casini. Ai centristi sarebbe stata offerta la vicepresidenza della giunta, del consiglio e un assessorato, ma De Mita

che ha espresso perplessità sulla possibilità di entrare nella gestione dell’ente. Per Stefano Caldoro si tratta di «un comportamento assolutamente legittimo, avendo stretto con noi un accordo programmatico è giusto che l’Udc scelga di misurare i livelli di partecipazione governativa. Io intendo lavorare perché ci sia, ed è più opportuno, una condivisione dell’esperienza governativa. L’Udc pone un problema di qualità della partecipazione politica e credo che le persone che rappresentino questa qualità si possano trovare». Intanto qualcosa si muove proprio nella direzione deldal l’accordo momento che, nella seduta di ieri, ad affiancare l’ex Forza Italia, Paolo Romano, è stato eletto vice presidente del Consiglio Biagio Iacolare dell’Udc e Antonio Valiante del Partito democratico.

schiano il posto sono il reatino Antonio Cicchetti e il viterbese Francesco Battistoni. Una scelta che non sarà certamente indolore, ma in qualche modo obbligata perché sono gli unici due assessori del Pdl eletti in consiglio regionale e che, quindi, manterrebbero lo scranno alla Pisana. Le donne che potrebbero entrare sono Gina Cetrone, proprietaria di un’azienda olivicola a Latina e Olimpia Tarzia segretaria generale del Movimento per la vita italiano. L’ingresso dell’Udc, come ha dimostrato l’elezione del presidente del consiglio regionale, riveste un’importanza strategica per Renata Polverini anche perché sulla composizione del consiglio regionale pendono un serie di ricorsi presentati al Tar del Lazio. Uno sul numero dei consiglieri, attualmente 73 più il presidente Polverini, che potrebbero scendere a 70 più uno, e quello presentato dal Partito Liberale Italiano che ha chiesto l’annullamento delle elezioni. Tre consiglieri che, in caso di accoglimento del ricorso, si sottrarrebbero alla maggioranza: uno scenario che, in caso di appoggio esterno dell’Udc alla giunta, lascerebbero alla Polverini un solo voto di vantaggio sull’opposizione. Infatti su 74 consiglieri la maggioranza ha 39 consiglieri contro i 29 dell’opposizione e i 6 dell’Udc. Se il Tar dovesse accogliere i ricorsi la pattuglia Polverini scenderebbe a 36. In questo caso l’appoggio del gruppo centrista garantirebbe al governatore e alla sua giunta un futuro più tranquillo.

Lo sa bene anche il sindaco di Roma Gianni Alemanno, intervenuto ieri, insieme con i presidenti dei gruppi parlamentari del Pdl di Camera e Senato, Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri, alla prima riunione del consiglio regionale e ha dichiarato: «Il presidente del Consiglio è intervenuto e ci ha aiutato, ma il merito della risoluzione dei problemi è stato di Renata Polverini. È riuscita a trovare un punto di equilibrio con l’Udc e si tratta solo di andarlo a realizzare in pratica». Alemanno ha aggiunto: «Mi auguro che non solo in Regione, ma anche in Comune si possa fare questa alleanza. Ne parleremo a settembre quando ci sarà l’allargamento in giunta in base a Roma Capitale».


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13 maggio 2010 • pagina 7

Sfide. È ancora in alto mare la “grande pacificazione” nel Pdl ROMA. Non è che il problema di Silvio Berlusconi adesso, invece che Gianfranco Fini, sono diventati i suoi ex colonnelli? La domanda, pur tagliata con l’accetta, ha un senso alla luce di quanto accaduto negli ultimi giorni. In sostanza, quanto segue.

Il Cavaliere, tra la manovra correttiva da svariati miliardi annunciata da Giulio Tremonti e la voglia di federalismo della Lega, ha capito che una fine anticipata della legislatura non è possibile: non può sfidare il nemico interno all’ordalia del voto, almeno non in tempi brevi, e bisogna pure accordarsi per resistere alla nuova ondata giudiziaria che sta terremotando il governo e la sua immagine pubblica. Soluzione: bisogna trovare un nuovo accordo col presidente della Camera, un accordo che chiuda la guerriglia mediatica delle ultime settimane. Intanto l’ex ministro Scajola fa sapere che non si presenterà perchè, dopo le noti-

Fini gela Berlusconi «Niente mediazioni» L’ex-An rifiuta l’incontro con Verdini: «Prima serve un chiarimento politico» di Marco Palombi zie sull’inchiesta apparse in questi giorni sui giornali verrebbe sentito ’’in una veste che parrebbe ormai solo formalmente quella di persona informata sui fatti’’. L’audizione avverrebbe ’senza il rispetto delle garanzie difensive normativamente previsteDa lì sono cominciati i messaggi di pace lasciati appositamente trapelare alle agenzie: al di là dello scontro della Direzione nazionale, tutto sommato i finiani in Parlamento “sono sempre stati leali”col governo, ammetteva il premier davanti ad alcuni ospiti. «Il clima è cambiato», ripete da qualche giorno Fabio Granata, già principale interprete del finismo movimentista. Alla fine Berlusconi s’era convinto e aveva dato mandato a Gianni Letta e DenisVerdini di andare a vedere le carte di Fini: un incontro che doveva restare riservato per capire quali erano le richieste della controparte e se c’era spazio di mediazione. Il primo rendez vous, fissato per

martedì pomeriggio, è saltato per banali ragioni d’agenda ed è a questo punto che sono entrati in gioco i colonnelli. Risultato: l’incidente che ha tenuto banco ieri, l’incontro con Verdini annullato dall’ex leader di An, veline contrastanti passate alla

nalmente, la loro fine politica, che questo riguardi o meno le poltrone che al momento occupano nel partito. Per questo martedì, in un vertice serale a palazzo Grazioli (presenti coordinatori del PdL, capigruppo e, apparentemente senza motivo, Alemanno e Matteoli), i colonnelli che hanno tentato di “burocratizzare”i colloqui di pace tra Berlusconi e Fini e ricondurli nell’alveo di un confronto tra il “partito”e il “reprobo”. Anche i virgolettati del premier fatti filtrare ai giornali («Con Fini questioni secondarie e già risolte») sono più il tributo che il nostro ha concesso agli ex An a lui fedeli che il suo reale pensiero al momento. Quando, però, Fini ha letto i quotidiani s’è incazzato assai, soprattutto per via del riferimento alle cariche interne su cui – giurano lui e i suoi – non c’era alcuna mira, tanto meno con un congresso “vero”da celebrare entro un anno. «Ma come? – smaniava coi suoi – Prima mi chiedono un incontro e poi fanno uscire sulla stampa che sono stato io a chiederlo per mendicare posti?». L’irritazione si è presto tramutata in una nota pubblica: «Oggi non è in programma nessun incontro con esponenti del PdL». A seguire qualche virgolettato distribuito ad hoc: «È prematuro fare incontri, specialmente con

E intanto Claudio Scajola fa sapere che non si presenterà in procura a Perugia il 14 maggio: «Non ci sono sufficienti garanzie difensive» stampa dai contendenti. Piccolo memo. Gli ex comprimari della Fiamma, infatti, non hanno solo abbandonato la casa del padre, ma ormai non frequentano più nemmeno il figlio. Con la partecipazione di Ignazio La Russa e Altero Matteoli al processo pubblico a Fini in Direzione, con Gianni Alemanno nel ruolo di pontiere ma a partire dall’altra sponda del fiume e Maurizio Gasparri dato per perso alla causa fin dai tempi del ministero delle Comunicazioni, lo stato maggiore di quella che fu Alleanza nazionale s’è definitivamente riparato sotto l’ombrello di Berlusconi. La loro ambizione è governare quel 30% di posti che, fino a prova contraria, ancora spetta ai postfascisti dentro al PdL. Un accordo tra i presidenti del Consiglio e della Camera che passasse sopra le loro teste significherebbe, ba-

intermediari, fino a quando non ci saranno risposte politiche ai problemi che ho sollevato». Quanto agli organi di partito - è la frecciata per i colonnelli - sono «questioni che possono stare a cuore a chi ne fa parte, non certo a me». Il problema, spiega un deputato finiano, «non è certoVerdini, anche perché si sentono tutti i giorni da due settimane», ma il modo in cui s’è voluta presentare la cosa per fare un piacere agli ex An berlusconiani. Un altro uomo del presidente della Camera, Roberto Menia, ieri ha fatto la spola tra Montecitorio e palazzo Grazioli e s’è convinto che, in sostanza, le cose non vanno male: Berlusconi vuole mettere una pietra sopra agli ultimi scontri, Fini ha reagito a quello che sembrava un attacco mediatico. «Io auspico che Berlusconi e Fini si parlino da soli, senza ambasciatori o mediatori», ha spiegato dopo aver visto il premier una prima volta.

Il clima, insomma, è paradossalmente buono tra i due, mentre nella“comunità umana e politica” che viene da via della Scrofa è guerra aperta: si battaglia sulla fondazione che governa il tesoretto immobiliare di An (ma il finiano Donato Lamorte l’ha blindata), si battaglia su quanta parte degli amministratori locali d’area sostiene Fini e quanta parte è invece ormai berlusconizzata, si battaglia sul territorio in attesa della conta congressuale, si battaglia sul peso dei due schieramenti in quella che fu Azione Giovani. Ai tempi della scissione dei “centristi”di Democrazia nazionale contro l’Msi schierato da Almirante sull’ambigua linea “dell’alternativa al sistema”, infatti, il ceto dirigente romano stava coi primi, ma tutte le federazioni provinciali e quasi tutto il movimento giovanile sostenne il secondo: Di Marzio e gli altri ballarono un triennio, cioè fino alle elezioni del 1979, poi sparirono. Anche adesso mancano tre anni alle elezioni e i colonnelli se ne stanno preoccupando per tempo.


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mondo

Gran Bretagna. Attesa per il programma di governo, radicalmente modificato dopo il “matrimonio di convenienza” con Clegg, e per la riforma del voto

La scommessa di David Al via il primo esecutivo di coalizione in 50 anni Ma i bookmaker gelano Cameron: «Non durate» di Vincenzo Faccioli Pintozzi

LONDRA. La scommessa non è su David, ma di David. Sembra un giochino di parole, ma è un modo come un altro per dire che i bookmaker, che ieri gelavano la nascita del nuovo governo dicendo che questo “non durerà”, hanno sbagliato punto di vista. Perché il punto di vista corretto, se si guarda la culla del primo governo di coalizione formatosi nella “perfida Albione” dai tempi del secondo conflitto mondiale, è quello di chi questo esecutivo se l’è cercato in tutti i modi. Lasciamo da parte il non edificante comportamento tenuto dai liberali di Nick Clegg - che ieri veniva definito “peggiore di Giuda” dai tabloid britannici e puntiamo lo sguardo verso il giovane leader conservatore. Reduce dalla campagna elettorale più lunga nella storia del Paese (quasi tre anni di opposizione costruttiva al Labour, prima “new” e poi “same old”) e dalla morte di un figlio, Cameron non è apparso per nulla fiaccato nel momento deci-

Priorità all’economia: una finanziaria d’emergenza si terrà entro i prossimi 50 giorni per accelerare il taglio del deficit. Prevista anche una patrimoniale sivo, quello delle consultazioni. È stata dura, ma finalmente ce l’hanno fatta: tra concessioni, compromessi e rinunce, conservatori e liberaldemocratici sono riusciti a raggiungere un accordo sulle principali politiche del loro governo di coalizione.

Grazie proprio a Cameron. Proprio mentre i nuovi “mandarini” del governo rendevano pubblici i dettagli del programma politico congiunto, nel giardino di Downing Street, il premier David Cameron affermava: «Condividiamo gli stessi obiettivi e la stessa determinazione di affrontare le sfide del Paese, di salvaguardare la sicurezza nazionale e di appoggiare le nostre truppe all’estero, di affrontare la crisi, di risanare il sistema politico e di costruire una società più forte». Come a dire: è vero, la politica crea strani compagni di letto; ma la situazione è dura, e se chi ci sta ha il coraggio di stringere la cinghia, ci si può lavorare insieme. Priorità assoluta, nel programma del nuovo governo, è data all’economia: una finanziaria d’emergenza si terrà entro i prossimi cinquanta giorni per accelerare il taglio del deficit. In accordo con il programma dei conservatori, inoltre, entro fine anno si tenterà di tagliare circa sei miliardi di sterline dalla spesa pubblica. Parte di questi fondi, su insistenza dei libdem, verrà utilizzata per la creazione di nuovi posti di lavoro. I due partiti si sono quindi accordati sull’introduzione di una tassa sui profitti delle banche e sul-

Si delinea già il Gabinetto ministeriale: agli Esteri l’euroscettico Hague

Tutti gli uomini del nuovo premier di Massimo Fazzi

LONDRA. David Cameron deve dimostrare di riuscire a mescolare nella maniera migliore possibile la delicata alchimia di alleanze che impone un goveron lib-con. Per dimostrare che assicurando un «governo forte» non faceva promesse a vuoto, il leader conservatore ha riempito subito dopo la nomina due caselle chiave: William Hague sarà il titolare del delicatissimo Foreign Office, mentre a George Osborne tocca il vetusto titolo di Cancelliere dello Scacchiere, che all’atto pratico significa molte rogne per uscire dalla crisi finanziaria che si è abbattuta come uno tsunami sulla City londinese.Ai liberaldemocratici, alleati in minoranza, toccano ruoli che all’apprenza hanno il sapore di un “contentino”, ma che in realtà rischiano di far tremare l’esecutivo a ogni passaggio delicato: il posto di vice premier va al leader Nick Clegg e quello di ministro per le Attività produttive a Vince Cable, oltre a tre poltrone di minor rilevanza, per un totale di una ventina di posti nel Gabinetto. È la prima volta che a Westminster si alleano conservatori e liberaldemocratici, e quello varato ieri è in assoluto il primo governo di coalizione dopo la Seconda Guerra Mondiale. L’intenzione di Cameron è ovviamente quello di durare per tutta la legislatura, ma negli obiettivi immediati ci sono la “significativa accelerazione” della riduzione del deficit di bilancio; la limitazione dell’immigrazione dai Paesi non Ue e la promozione di un referendum sul sistema di voto alternativo. I liberaldemocratici hanno ri-

nunciato ai piani per la tassazione di residenze con un valore di più di due milioni di sterline e i conservatori all’innalzamento a un milione di sterline della soglia oltre la quale applicare l’odiata tassa di successione.

Via libera alla proposta di tassare gli aerei piuttosto che i passeggeri avanzata dai Libdem che hanno rinunciato a opporsi alla la formazione di una commissione ministeriale che studi la riforma strutturale degli istituti di credito; tra le possibilità, la divisione del loro ramo di investimento da quello commerciale. Per quanto riguarda la riforma del sistema politico, i Tory hanno concessi ai libdem il referendum sull’introduzione del sistema elettorale dell’“alternative vote”, un sistema più proporzionale di quello attuale, come richiesto dai liberaldemocratici. I due partiti si sono poi impegnati ad una legislatura fissa di cinque anni: le prossime elezioni non si potranno perciò tenere prima di maggio 2015 e da ora in poi per fare cadere un governo sarà necessaria la fiducia del 55% dei parlamentari. Gli elettori potranno “licenziare” i parlamentari corrotti – sul mosostituzione dei missili nucleari Trident. In un messaggio ai suoi elettori, Cameron ha detto che «ci saranno compromessi», ma ha aggiunto che «gli elementi chiave del manifesto Tory continueranno a essere il fulcro dell’accordo». Secondo gli analisti, se la coalizione supererà la durata critica di sei mesi, il più sarà fatto. Per allora il governo dovrebbe essere riuscito a costruire intorno a se’ abbastanza fiducia da portare avanti un programma più innovativo. Il ministro degli Esteri, l’euroscettico Hague, ha assicurato che «non sarà una coalizione debole, ma un governo forte» e ha annunciato che la priorità sarà l’impegno in Afghanistan. Più vago l’impegno assunto da Osborne, il giovane ministro delle Finanze: «È il momento di arrotolarsi le maniche e mettere al lavoro la Gran Bretagna».

Per quanto riguarda le prossime elezioni, i conservatori hanno concesso il referendum sull’introduzione del sistema “alternativo”, più proporzionale dello americano del “recall” - e la Camera dei lord potrebbe presto diventare una camera eletta, con sistema proporzionale. Fitto anche il programma per la politica estera. Un nuovo “Gabinetto di Guerra” nello stile di quello di Winston Churchill si occuperà della guerra in Afghanistan, mentre un nuovo “Consiglio per la Sicurezza Nazionale” - che si è riunito ieri per la prima volta, presieduto dal neo ministro degli Esteri William Hague e in presenza sia di Cameron che di Clegg - gestirà le politiche si sicurezza nazionale. In relazione all’Europa, i scettici Tory hanno ottenuto dagli europeisti libdem la promessa di non spingere la Gran Bretagna ad adottare


mondo

13 maggio 2010 • pagina 9

Una parte del movimento “giallo” pensa già di tornare all’ovile: aspettano un segnale

L’euforia dei LibDem, dall’anonimato al potere Ma la sinistra del partito ha accolto a fatica l’accordo coi Tories, che rende il Labour l’unica forza di opposizione in Parlamento di Lorenzo Biondi

l’euro almeno per i prossimi cinque anni e il nuovo governo indirà inoltre un referendum sul trasferimento di altri poteri all’Ue. Il partito di Nick Clegg ha dovuto fare altre rinunce sul fronte della difesa, abbandonando la propria opposizione al rinnovo del sistema di missili nucleari Trident. I libdem hanno inoltre acconsentito al piano conservatore per l’imposizione di un limite massimo sull’ingresso di immigrati extracomunitari. Per quanto riguarda le politiche ambientali invece, nessuna intesa è stata raggiunta sul fronte del nucleare, al quale i libdem sono contrari. I due partiti si sono però accordati sulla non espansione di alcuni aeroporti, sulla costruzione di una rete ferroviaria ad alta velocità e sull’istituzione di una banca per gli investimenti nel settore “verde”. Ampia anche l’intesa sul fronte delle politiche sociali, dagli sconti fiscali alla coppie sposate o unite in matrimonio civile fino alla salvaguardia del sistema sanitario e al miglioramento di quello scolastico.

Un inizio dunque che sembra più scoppiettante delle previsioni. I tre giorni che si sono resi necessari per la creazione del governo e l’assegnazione dell’incarico da parte di Elisabetta II sembrano aver avuto la capacità di chiarire le idee del prossimo inquilino di Downing Street. E le parole di Lord Mandelson, il guru laburista, che ieri “si è inchinato” alle novità in politica interna dimostrano una diversa e migliore visione della cosa pubblica e dei suoi gestori. Può piacere o meno, il nuovo governo e chi lo guida. Ma rimane il fatto che in tre giorni ha compiuto una rivoluzione di velluto più efficace, e duratura, di quelle che si svolgono in piazza. Non ha ucciso il bipolarismo, ma l’ha reso meno dannoso. Dimostrando che anche con i “nemici” si può trovare un accordo, tenendo fisso l’occhio sul Paese.

LONDRA. Pochi mesi fa - era un nevoso gennaio londinese - Vincent Cable era un parlamentare d’opposizione di alto profilo, ma dallo scarsissimo peso politico. Ironia british, pochi capelli, sguardo bonario. All’epoca tutti davano per scontata una vittoria schiacciante dei Tories di David Cameron, e i liberali si preparavano all’ennesima legislatura d’opposizione. Cable impegnava il tempo libero alla London School of Economics, con una lezione su sistema elettorale e crisi economica. «Che dramma - aveva sospirato un elettore lid-dem nascosto tra il pubblico - pensare che una persona del suo spessore non potrà mai andare al governo». Economista con un passato da docente universitario, vice-leader dei liberaldemocratici, la carriera politica di Cable sembrava destinata ad arenarsi alla periferia della grande aula di Westminster, lontanissimo dalle panche verdi del governo. E invece Vince Cable, sessantasettente, al governo ci è arrivato: guiderà il ministero del business, sarà lui - insieme al cancelliere George Osborne - a dettare la linea per la politica economica del Regno. Grazie ad un accordo che lo stesso Cable non vedeva di buon occhio. Nel giro di pochi giorni tutto il partito si è trovato travolto dagli eventi, costretto ad un cambio completo di mentalità. Era dalla Seconda guerra mondiale che i liberali non entravano a Whitehall, negli uffici del potere. All’epoca Vince Cable era in fasce. La madre di Nick Clegg, figlia di coloni olandesi in Indonesia, veniva portata ancora bambina in un campo di prigionia giapponese. Semplicemente un’altra epoca. Ed ora, all’improvviso, si parla di ministeri e di poltrone. È come se i lib-dem, penalizzati per anni dalla legge elettorale, venissero rimborsati di tutto il potere mai avuto - e in un’unica rata. Merito della non-vittoria di Cameron, ma merito soprattutto del nuovo vice-premier Clegg: lui più di tutti ha cercato l’accordo coi conservatori, si è lasciato corteggiare, ha saputo alzare la posta in palio al momento decisivo. Il leader liberale ha saputo sfruttare le innegabili convergenze tra una parte dei vertici del suo partito ed i Tories. Lui e Cameron, del resto, hanno molto in comune: stessa estrazione sociale (al limite della nobilità), stessa età, ed entrambi hanno iniziato la loro carriera come consulenti per un politico - conservatore in entrambi i casi. Per non parlare della rete di amicizie che lega i «negoziatori» dei due partiti: ad esempio Ed Llewellyn,

sherpa tory e amico personale della famiglia Clegg; o Danny Alexander, lib-dem, futuro ministro per la Scozia e vicinissimo al gruppo dirigente conservatore. Cameron, che era disposto a qualsiasi cosa pur di non vedersi sfuggire le chiavi di Downing street da sotto il naso, ha ceduto (quasi) ad ogni richiesta. Cinque posizioni nel Cabinet, il referendum sul sistema di «voto alternativo», una fiscalità meno sbilanciata verso i più

Era dalla Seconda guerra mondiale che i liberali non entravano a Whitehall, negli uffici del potere. All’epoca Clegg era in fasce ricchi. Mentre i giovani si davano da fare, la vecchia guardia del partito quella di Cable, dal passato laburista, o gli ex-leader Lord Ashdown e Ming Campbell - è stata a guardare. Magari sbattendo i piedi di tanto in tanto. Cable si è chiuso nel silenzio stampa, dando il suo nulla osta un po’ controvoglia, al chiuso di una riunione di parlamentari liberal. Alla fine, quando Clegg si è presentato davanti ai vertici liberaldemocratici per l’approvazione dell’accordo coi conservatori, ha ottenuto una maggioranza persino più ampia di quella dei tre quarti prescritta dallo statuto del partito. La voglia di assaporare il gusto del potere ha prevalso sulle preoccupazioni della vigilia. La sinistra del partito aveva remore di carattere

«ideologico», sentendosi istintivamente più vicina al Labour che non a Cameron. Nelle parole di un deputato: «Il cuore ci dice di comportarci in un modo, la testa dice il contrario». E qualcun altro ha rispolverato il vecchio adagio che «il cuore batte a sinistra». Si tratta di una vittoria della fredda razionalità politica contro le passioni ideologiche? Solo in parte.

L’altra parte della storia è che il «cuore» della sinistra lib-dem si è sentito tradito dagli amici laburisti. Le offerte dei negoziatori inviati da Gordon Brown, secondo fonti liberali, sarebbero state timide e poco convincenti. Ed Balls, il pupillo dell’expremier, si sarebbe addirittura permesso di bocciare alcune proposte del team di Clegg come «irrealistiche». E allora anche la sinistra libdem si è gettata tra le braccia di Cameron, come un’amante delusa. Quella dei liberaldemocratici però non sarà la scappatella di una notte d’inizio estate. Tutt’altro: al governo contano di restarci per cinque anni interi. Uno dei punti del loro programma, che i Tories sembrano disposti ad accettare, è la riforma della durata della legislatura. Allo stato attuale, è il premier a decidere lo scioglimento del parlamento, entro cinque anni dalla sua elezione. In questo modo il primo ministro può scegliere il momento che ritiene, dal punto di vista elettorale, più propizio per il suo partito. I lib-dem propongono di passare al modello europeo, fissando la durata della legislatura a cinque anni. Una misura che riduce il potere discrezionale del premier, ma anche altamente simbolica in un momento come questo.Una parte del partito di Clegg - minoritaria, ma capace di farsi sentire attraverso blog come LiberalConspiracy - sembra però riluttante all’idea di ritrovarsi legata così strettamente alle sorti del partito conservatore. Qualcuno già parla di scissione, di tornare all’ovile labour. Il minuscolo partito verde, che è appena riuscito ad eleggere la sua prima parlamentare, prova a guadagnare qualche iscritto: «Voi liberali progressisti, delusi del voltafaccia di Nick Clegg, unitevi a noi». Al di là delle aspirazioni dei partiti di sinistra, il rischio concreto che corrono i lib-dem è di subire presto il contraccolpo di alcune misure impopolari, in primis il drastico taglio della spesa pubblica a cui Cameron non ha nessuna intenzione di rinunciare. E i laburisti, nonostante tredici anni di governo, non sembrano aver dimenticato come si fa opposizione.


pagina 10 • 13 maggio 2010

l’approfondimento

I bookmaker puntano su David Miliband (45 anni) contro il fratello Ed (41) e il browniano Ed Balls (43). Staccati i “vecchietti”

Il New New Labour

Una nuova generazione di laburisti già scalpita per sostituire Brown alla guida del partito. È la dimostrazione che la svolta di Blair ancora funziona. Quanta differenza con il Pd italiano che da decenni ha sempre lo stesso gruppo dirigente... di Antonio Funiciello e dimissioni di Gordon Brown da capo del partito laburista segnano la fine della più affascinante vicenda politica europea dopo il crollo del Muro di Berlino. Una storia cominciata sedici anni fa, il 21 luglio del 1994, quando dopo la scomparsa improvvisa del leader laburista John Smith, Tony Blair vinse col 57% dei consensi le primarie interne per la leadership del partito, lasciando al 24% John Prescott (più vecchio di lui di quindici anni) e al 19% Margaret Beckett, la capogruppo laburista alla Camera dei Comuni (dieci anni in più di Blair). Fu l’inizio di un’avventura politica destinata a riportare nel 1997 i laburisti al governo, dopo cinque elezioni perse seccamente e una straripante egemonia politico-culturale dei Tories, imposta al paese dal magnifico fisico di Margaret Thatcher.

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Per riuscirci Blair e Brown fecero del “Labour”il ”New Labour”, riuscendo nell’impresa

di vincere tre elezioni di seguito (1997, 2001, 2005). Ai laburisti della più antica democrazia parlamentare del mondo la cosa non era mai riuscita. Perfetta la divisione del lavoro tra i due dirigenti emergenti durante la traversata del deserto della gestione Kinnock: a Blair la leadership e il monopolio nella definizione e nella comunicazione di un’immagine di rottura rispetto al passato laburista e conservatore del paese; a Brown, carta bianca sulle politiche economiche coincidenti all’immagine del partito che s’intendeva trasmettere.

Un binomio che si studierà ancora in futuro, e meglio, sui libri di storia e i manuali di scienze politiche, perché ha rappresentato per il Regno Unito il completamento del percorso di modernizzazione voluto dalla Thatcher. Con un progressivo riequilibrio prodotto (1) dalla chiusura intelligente dei contenziosi aperti coi vari autonomismi, (2) da un

riassetto sociale che curasse le lacerazioni impresse nella comunità dall’accelerazione thatcheriana, (3) dal recupero del New Labour sui Tories del primato culturale. Il tutto condito da una politica europea ed estera innovatrice, pur nel rispetto degli assi preferenziali della tradizione britannica, che hanno condotto i laburisti a distinguersi nelle missioni di peace keeping (dal Kosovo alla Sierra Leone) fino alla partecipazione nelle guerre irachena e afgana. Un vero e proprio capolavoro politico, al netto delle difficoltà in Iraq, che si deve alla prima generazione di governanti britannici nati dopo la fine della seconda guerra mondiale. Quella di Blair e Brown è, difatti, soprattutto la storia di una generazione di ceto politico capace di affermarsi sulla scorta di una visione e di una missione politica alternative a quelle del passato.

Una generazione che s’è fatta carico di chiudere col Novecento, per accompagnare il

Regno Unito nel nuovo secolo globalizzato. Il duetto Cameron-Clegg, che oggi s’incarica di succedere alla coppia BlairBrown, è diverso e più incoerente, fuorché nell’età media espressa, che è pressappoco la stessa. Segno che il ticket CC, che intende far dimenticare il ticket BB, pretende di ripartire proprio da quella freschezza intellettuale che i quarantenni laburisti di sedici anni fa offrirono al paese. Non è però della generazione Blair-Brown il primato europeo di permanenza ai vertici di partito, nonostante la ridda di vittorie e il successo di un modello adottato pure dai nuovi Cameron e Clegg.

Venti giorni prima che il Labour scegliesse Tony Blair come successore del defunto John Smith, in Italia il partito (più o meno) corrispettivo si muoveva analogamente. Il Pds di Achille Occhetto aveva da poco perso nettamente le elezioni europee, pochi mesi dopo la prima sconfitta storica con-

tro Berlusconi. Per iniziativa di Repubblica, che già allora suppliva alla balbuzie (quando non all’afasia) del gruppo dirigente della sinistra italiana, un referendum interno al partito incoronò idealmente successore di Occhetto il trentanovenne Walter Veltroni contro il quarantacinquenne Massimo D’Alema. Ma il Consiglio nazionale del partito, il 1 luglio 1994, ribaltò il risultato incoronando D’Alema. La generazione D’AlemaVeltroni si affermava negli stessi giorni in cui quella coeva laburista scalava il partito di Attlee, Wilson e Kinnock. Ancora oggi il segretario del Pd Pierluigi Bersani, postrema emanazione di quel blocco generazionale, guida l’ultima propaggine del Pds, che negli ultimi tempi prima ha prima perso la ”P” (Ds), per poi riguadagnarla a scapito della ”s” (Pd).

La differenza tra la generazione Blair-Brown e quella D’Alema-Veltroni sta nel raffronto tra le vittorie storiche della prima e nelle sconfitte (a


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Cosa insegnano le elezioni inglesi secondo il politologo Vittorio Emanuele Parsi

«Il bipolarismo entra in crisi quando le leadership sono deboli» «In Europa è fortissima la pressione dell’opinione pubblica perché si prendano le decisioni necessarie a governare. Le grandi intese a volte servono a questo» di Riccardo Paradisi e elezioni inglesi sembrano confermare due tendenze in via di stabilizzazione. La prima è la virata a destra dell’Europa: a parte Grecia e Spagna il Vecchio Continente manifesta una predominanza conservatrice. La seconda è che un partito solo può non bastare più a formare una maggioranza, occorrono sempre più spesso forze di coalizione. Forse è azzardato parlare di una crisi del bipolarismo britannico ma l’accordo londinese che pone fine a tredici anni di governo laburista interrompe una tradizione di bipolarismo di fatto. Di quanto accade nel Regno Unito, della crisi del bipolarismo continentale e della mutazione delle destre europee, parliamo con Vittorio Emanuele Parsi, docente di Storia delle Relazioni Internazionali Università Cattolica di Milano. Che succede in Gran Bretagna professor Parsi, davvero queste elezioni segnano la crisi del bipolarismo perfetto britannico? Direi più semplicemente che il bipolarismo come sistema elettorale funziona se ci sono leader forti a livello centrale e candidati polarizzanti nei principali collegi. Quando non c’è una leadership forte il bipolarismo funziona peggio, il voto si polarizza di meno ed emergono terze forze come i liberaldemocratici inglesi, che per inciso non sono una novità nel panorama politico inglese visto che ci sono sempre stati e hanno sempre influito molto Cameron è un leader debole? Insomma non è una leadership travolgente. Dei dubbi sul fatto che non fosse la Thatcher li avevamo avuti quasi tutti. Dubbi peraltro che sono stati tautologicamente sciolti dal risultato delle elezioni. Non certo trionfali. Questo naturalmente non significa che quella di Cameron o quella di Clegg non siano leadership che possono rafforzarsi. Sono leadership giovani. Relativamente giovani. Dico relativamente perché dalla prospettiva italiana, dominata dalla gerontocrazia, rischiamo di scambiare per giovanissimi anche gli ultra quarantenni. Il sistema inglese forma laureati veri a 22 anni, in Gran Bretagna si entra nel mercato del lavoro molto prima che da noi, eccetera eccetera. Direi che il tratto caratteristico è proprio che si tratta di leadership non travolgenti. Governo d’intesa in Gran Bretagna, Grosse koalition in Germania, si parla di governi di responsabilità nazionale anche in Italia. Arrischiando nuove comparazioni c’è secondo lei una tendenza continentale di crisi del bipolarismo? In Germania la legge elettorale è fatta in modo tale da rendere agevoli governi di coalizione. In Italia si è arrivato a un bi-

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polarismo imperfetto dopo decenni di proporzionalismo bloccato, dove predominavano le alchimie partitocratiche e dove il voto era una delega in bianco per costruire o disfare maggioranze. Il caso inglese, lo si diceva, è dal mio punto di vista il frutto dell’assestarsi di nuove leadership in costruzione. Piuttosto il dato comune che io vedo in Europa è la fortissima pressione dell’opinione pubblica sugli esecutivi perché si prendano le decisioni. C’è più richiesta di decisione che di rappresentanza. Talvolta questo avviene con governi di coalizione altre volte con governi di maggioranza. Nel caso italiano ci si trova ad avere un governo maggioritario e ritardi nella sfera del governo e della decisione, forse per questo s’è cominciato a parlare di governi di unità e responsabilità nazionale? Di governo d’unità nazionale se ne parla da anni ma non sono sicuro che qualcuno davvero lo voglia. Casini lo propone perché è una forma elegante per tornare al governo ma ne vede i rischi, perché la disponibilità del centrodestra assomiglia alla gentilezza del lupo con Cappuccetto rosso. L’opposizione di centrosinistra teme l’ipotesi, perché dovrebbe condividere scelte necessarie

e impopolari con gli altri. Insomma nessuno rinuncerà al suo potere di veto. È anche per questo che tutti, destra e sinistra, montano in Italia la guardia al bipolarismo? Premetto di non credere sia il bipolarismo il chiavistello che blocca il sistema Italia. Detto questo è evidente che gli attuali gruppi dirigenti delle maggiori forze politiche non vogliono perdere il peso acquisito in questo sistema. Il Pdl, come il Pd, in questa struttura hanno pacchetti di controllo più ampio rispetto a uno scenario con la presenza in campo di una maggiore pluralità di forze. C’è anche un altro dato. L’Italia viene da una lunga stagione di corruzione politica e debito pubblico. Quando gli italiani pensano al multipartitismo viene spontanea l’associazione di idee con quel panorama vischioso. È un associazione automatica ma è un meccanismo psicologico da non sottovalutare. Lei parlava del vero chiavistello che tiene chiusa l’Italia qual è professore? La legge elettorale. Ci vuole una legge per scegliere i candidati con la preferenza unica. Che costringe a fare competizione sulla preferenza. Rimettere la preferenza per rimettere in moto meccanismi competitivi virtuosi all’interno dei partiti. L’altra questione che pone il caso Cameron è la mutazione in corso delle destra europee. Anche in questo caso non c’è una destra europea unitaria su cui poter ragionare. Esistono destre diverse, ancora nazionali, differenziate. Il dato comune delle destre europee però è la riflessione che da alcuni anni hanno cominciato a fare su se stesse. Costrette a questo dalla necessità di rincorrere la sinistra che dopo il trauma del crollo del muro una sua riflessione l’ha avviata dagli anni Novanta con la terza via. Ha fatto da stimolo anche l’emergere di forze di destra estrema e xenofoba che avevano cominciato a mordere il patrimonio della destra moderata che ha dovuto aggiornarsi nelle idee e nel linguaggio per arginare un emorragia che sarebbe stata disastrosa. Detto questo va detto che tra destra e sinistra le differenze sono ormai talmente sottili da sfuggire allo sguardo. Un tema come la biopolitica per esempio taglia in modo così trasversale e radicale le vecchie divisioni che insomma il rischio per queste categorie di apparire obsolete è molto forte.

loro modo storiche) delle seconda. Eppure ancora oggi, al netto di un rendimento grandemente più scarso di quello laburista, il blocco generazionale D’Alema-Veltroni continua imperterrito a occupare la scena politica. In Gran Bretagna viceversa, il Labour ha reagito immediatamente alla prima sconfitta che segue le tre vittorie dei sedici anni passati. Dopo un timido tentativo di Brown che tradiva, nelle ore immediatamente successive al voto, la debolezza di provare forzose alchimie di palazzo, il senso di responsabilità e quello della prospettiva politica sono prevalsi. Naturale, per un partito ”sano” come quello costruito da Blair e dallo stesso Brown, che l’interesse generale si sovrapponesse facilmente sulle ambizioni del singolo. E, difatti, il premier uscente si è subito convinto a diventare anche leader uscente, per fare spazio a quella nuova leva tirata su a diete di New Labour sempre dai soliti Blair e Brown. I bookmaker danno vincente nella corsa alla successione il blairiano quarantacinquenne David Miliband (1.50), contro il fratello quarantunenne Ed (10.00) e il browniano quarantatreenne Ed Balls (11.00). E per quanto i più datati Alan Johnson e Alistair Darling nutrano ambizioni di leadership, si può star certi che al binomio Cameron-Clegg di certo il Labour Party non replicherà con un vecchietto.

Storie parallele, quella inglese e quella italiana, eppure tanto diverse. Mentre a Roma il blocco D’Alema-Veltroni viaggia felice (?) verso i vent’anni di permanenza al vertice, a Londra è già pronta una nuova generazione di dirigenti laburisti, già sperimentati in cariche istituzionali o di guida del partito. Che oggi nel Pd non si pensi affatto ad affrontare la sfida del 2013 con un nuovo personale politico che meglio incarni una nuova offerta politica da sottoporre agli elettori, è forse la prova più evidente della crisi del progetto che il partito intendeva in origine rappresentare. Ancor più se la sfida delle elezioni dovesse poi essere anticipata a causa della debolezza dell’attuale maggioranza di governo. Una chiusura anticipata della legislatura invocherebbe a voce più sonante un cambio di passo dell’opposizione. Non che nel Pd scarseggino parlamentari, consiglieri regionali, dirigenti e quadri politici dell’età dei fratelli Miliband. Nondimeno essi non riescono a imporre il vantaggio anagrafico che fisiologicamente impersonano, continuando così a mancare ad un appuntamento a cui le sconfitte dei loro padrini li hanno ormai tante e tante volte chiamati.


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Scandali, corruzione, strafottenti sfide alla legalità e al senso etico. Nell’Italia contemporanea (ma non solo) si è perso del tutto un sentimento alla base della civiltà: la vergogna di Pier Mario Fasanotti are una cosa assurda. Peccato però che sia vera. Questa nostra società contemporanea, spesso così scomposta e volgarmente esibizionista, è caratterizzata non da una presenza. Ma da un’assenza. L’assenza di vergogna. In Italia c’è un torturante susseguirsi di scandali, di corruzioni, di sfilate di indagati (molti restano al loro posto, taluni fanno un passo indietro e così riscuotono l’ultima e insperata delle approvazioni), di strafottenti sfide alla legalità e al senso etico. A osservare le facce e a leggere attentamente certe dichiarazioni - improntate, come ormai si usa, al vittimismo e all’esistenza di perfidi complotti - si nota immediatamente quell’assenza di ciò cui accennavo: la vergogna.

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Non pretendiamo certo l’importazione del vecchio costume giapponese che imponeva ai colpevoli (con cariche pubbliche) l’auto-umiliazione o un hara-kiri, ma insomma, un po’ di quel contrito

Il terreno è fertilizzato dalla mentalità del “tutto è possibile”. Anche “fregare il prossimo” nella convinzione che tutti siano più o meno idioti pudore sì. Una scrittrice lo definiva «vergogna sulla pelle». Precisava «pelle», evitando coscienza. Non a caso: oggi si parla, quando se ne parla, di «vergogna amorale», ossia del tutto superficiale, legata al mancato raggiungimento del successo e della visibilità. Come se fosse vergogna del vergognarsi. Sono i guasti della non-cultura televisiva, del Grande Fratello o dell’Isola dei famosi che provvede al bisogno di esserci a tutti i costi, poco importa se nell’universo immenso del ridicolo e del banale. Lasciamo stare, almeno stavolta, Pasolini. Ricordiamo quanto diceva Ennio Flaiano quando prevedeva che la società futura si sarebbe vista, con orrore, nello specchio della (orrenda) televisione. È appena uscito un saggio, brillante e approfondito, e quanto mai attuale.

Quello di Marco Belpoliti (Senza vergogna, Guanda). L’autore, che è studioso, scrittore e critico, cerca le ragioni di ciò che in romanesco si chiama essere “impunito”. Mi viene da ricordare un titolo comparso nel giornale satirico che fu diretto da Michele Serra: «Hanno la faccia come il culo». Un po’ scurrile, ma efficace. Belpoliti inizia la sua trattazione con la cronaca nuda e cruda di quel che accadde il 26 aprile 2009. Località: Casoria (Napoli). Protagonisti: l’angelica diciottenne Noemi, con abito color champagne, i suoi sorridenti genitori, tanti ospiti (non proprio dell’upperclass), e un improvviso visitatore, ovviamente con tanto (e tanta) scorta, Silvio Berlusconi. Il premier, sorridente e ammiccante come suo strategico costume mediatico (e caratteriale), brinda con la fanciulla che lo chiama “Papi”. Sarà scandalo che avvierà le pratiche di divorzio, malgrado i settimanali dell’“editoria presidenziale”confezionino servizi fotografici all’insegna dell’innocenza, della cordialità e della casta dedizione di un uomo assai maturo nei confronti di una ragazzina che poi svelerà d’avere ambizioni di donna da palcoscenico. Belpoliti ricorda il racconto della lettera rubata di Edgar Allan Poe e scrive: «Il segreto è lì in bella vista, e proprio per questo nessuno, o quasi, sembra vederlo. Esibire il segreto, mostrarlo, come ci ha insegnato lo scrittore americano, è il modo più sicuro per nasconderlo. E cosa c’è da nascondere? La vergogna».

Il termine vergogna deriva dal latino “vereri”, provare un sentimento di timore religioso o di rispetto. In inglese si dice “shame”, idioma di orgine germanica (“skam” o “skem”) che indica “ignominia”. Una cosa è vergogna, una cosa è senso di colpa (dal significato e dalle conseguenze più profonde). Una delle conseguenze della vergogna è la perdita di autostima. Un sentimento individuale, indubbiamente, ma che è radicata nel senso collettivo del sentire. Una “autoscopia” attivata dal supposto sguardo degli altri. Già, ma chi sono questi “altri”? Domina oggi il narcisismo, la qualcosa ci costringe a porre in secondo piano il complesso di Edipo di cui ha diffusamente parlato Freud definendolo “primario”. Pare che l’urgenza contemporanea sia quella di distribuire forme di egocentrismo. Il terreno è fertilizzato da una mentalità fondata sul “tutto è possibile». Anche del “fregare il prossimo” nella convinzione che siano tutti idioti o simili al proprio mediocre

Con un saggio quanto mai attuale Marco Belpoliti cerca le r

La società deg “sé”. Narciso sostituisce Edipo come simbolo della società non più patriarcale ma individualistica. La società allora diventa uno specchio, segnaletica della propria riuscita (o non riuscita). Per raggiungere la visibilità o l’impunità debbo anche fare il clown o raccontare colossali panzane? Spesso è necessario. Ci si vergogna? Assolutamente no. Cosa d’altri tempi. Se compare un senso del pudore, come scrive Belpoliti, è quasi casuale, «è uno stato transitorio di imbarazzo». D’altra parte quale imbarazzo provano molte persone che nei talk-show descrivono minutamente la propria vita intima, anche quella sessuale? All’inizio del secolo il sociologo e filosofo tedesco Georg Rimmel sosteneva che il rapporto sessuale appariva ancora il momento in cui si rappresentava-

no «al massimo le porte dell’intera personalità», una delle modalità comportamentali, se non l’unica, in cui la persona «può dare il suo Io totale». Ora è difficile, se non impossibile.

La psicanalista Anna Maria Pandolfi, studiosa del sentimento della vergogna, sostiene che è probabile che l’esibizionismo e il voyeurismo, che dominano incontrastati, siano in realtà la spia di una diffusa carenza d’identità, ovvero di un narcisismo fragile e povero, «per cui l’essere visti e conosciuti o anche solo guardati, quale sia il prezzo che si paga, sembra essere l’unico rimedio a un pericolo vissuto di non valore o addirittura di non esistenza». La cultura del privato non è tanto affermazione dell’individuo, come


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A fianco, l’ultima edizione de “L’Isola dei Famosi”: Nina Senicar, Aura Lorenzetti e Claudia Galanti si esibiscono davanti al presentatore Rossano Rubicondi. Nell’altra pagina, Noemi Letizia con la cornice del “papi” Berlusconi e la copertina del libro “Senza vergogna” di Marco Belpoliti. Al centro della pagina, “Shame” di Keith Tucker mente invisibile da Bush senior, a un’oscenità sbattuta in faccia, anzi inviata negli States con l’informatica tascabile dei telefonini. Il “pittoresco” come nuova forma di crudeltà. Congiunzione tra tortura e pornografia. C’è qualcosa di infantilmente inquietante, di patologico. Donne militari che imitano gli aspetti peggiori dell’uomo padrone di un lager, sprezzante verso la vita degli altri. Altri come bestie, come alieni, come pupazzi da infilare nella propria collezione fotografica.

ragioni di ciò che in romanesco si chiama essere “impunito”

gli svergognati sostiene Christopher Lasch nel saggio La cultura del narcisismo, quanto radiografia del suo collasso. Quanto era acuta e pure preveggente Hannah Arendt, che in Vita activa (scritto dopo il suo soggiorno nell’America degli anni Cinquanta)scriveva che non solo i regimi totalitari ma anche le democrazie usano e manipolano il sentimentalismo e le emozioni, ovviamente in forma retorica e pericolosamente populista. Siamo troppo maliziosi se azzardiamo un paragone con “il partito dell’amore” tanto sbandierato oggi in Italia? Precisazione: la malizia è di chi scrive questo articolo, non di Marco Belpoliti. Il “self”di stampo americano diventa un forzato ed applauditissimo “noi”, che però fa la sua performance seguendo pedissequamente il copione del “self”.

Usciamo dal cortile angusto e spesso eticamente osceno dell’Italia che non si vergogna o che considera la vergogna evocata dai giornali, almeno quelli non maggiordomi al potere, un

bieco attacco al “volemose bene”, al “tutto va bene signora la marchesa”. Piccoli ma ostinati spettacolini esibiti «su pagamento, con annesso premio», come ha detto, infuriandosi, Massimo D’Alema nell’ultima puntata di Ballarò. Usciamo quindi dal confini italici. E andiamo in Iraq. Precisamente nel tremendo carcere di Abu Ghraib. Qui soldati e soldatesse americane hanno fissato su pellicola le immagini della tortura più umiliante inferta ad alcuni prigionieri iracheni. Ricordate?

Un detenuto incappucciato, con travestimento carnevalesco, con elettrodi fissati agli arti, un altro nudo e al guinzaglio, insomma un cane-uomo che striscia. Belpoliti parla di un “porno casalingo”, dilettantesco ma indicatore dell’assenza totale di vergogna. Un “tableau vivant” che sembra «vicino a quel teatro della crudeltà che appare in certe fotografie di Mapplethorpe o nei film di David Lynch». Ostentazione senza la minima traccia di vergogna. Si è passati dalla guerra del Golfo tenuta astuta-

A proposito della nudità imposta ai prigionieri iracheni, Belpoliti ci porta a Parigi. Qui il filosofo Jacques Derrida descriveva la vergogna dell’uomo senza vestiti. In particolare una scena in cui un uomo si pone, interamente nudo appunto, dinanzi a un gatto (per giunta femmina). A questo punto scatta la «vergogna di essere nudo come una bestia». Ma gli animali non sanno di essere nudi, quindi non sono mai in imbarazzo. È la consapevolezza della nudità, spiega Derrida, che ci fa diversi dal cane e dal gatto in quanto implica lo sguardo dell’altro su di sé. La vergogna - lo dice anche l’Antico Testamento - nasce con la nudità. Che è una sensazione prima ancora che una condizione. Gli dei, dicevano gli antichi greci, ci hanno creati senza scarpe. E senza tunica. Belpoliti rammenta una bellissima storia, narrata da Plutarco. Quella di Bellerofonte, figlio del dio Poseidone. Grazie appunto a tanto padre, Bellerofonte avanza accompagnato da un flutto che può inghiottire e annientare qualsiasi cosa. Lui procede consapevole della propria illimitata potenza. Ma a un certo punto vede che nella città le donne camminano nude verso di lui, e gli si offrono senza alcun imbarazzo. Una doppia indecenza, quindi. Ecco che Bellerofonte perde potere, s’indebolisce di colpo perché obbedisce al proprio pudore e s’allontana dagli ammiccamenti delle procaci femmine. Prova vergogna proprio perché si trova dinanzi alla “vergognosa” condotta delle donne. Così la città si salva. Astuzia femminile. Ma anche indicazione di un’auto-immunità originaria. E ancora: il riferimento al fatto che la donna è l’essere più pudico, capace tuttavia di essere anche quello

più indecente. Lo storico tedesco Norbert Elias in “La civiltà delle buone maniere” spiega che il pudore, e la stessa vergogna, «sono stati socialmente indotti da regole e divieti che hanno stabiliti cosa fare e cosa non fare nell’ambito della “civiltà”». Alcune norme sociali sono così forti che, a volte o magari spesso, non ci si libera dell’imbarazzo della nudità nemmeno quando si è soli nella propria stanza. La letteratura ci ha fornito un formidabile personaggio che prova vergogna e dalla vergogna è divorato. È lo scrivano Bartleby, che compare in uno dei racconti più belli della narrativa mondiale. L’autore è Herman Melville. Siamo in un ufficio al piano

Secondo la psicanalista Pandolfi, è probabile che l’esibizionismo e il voyeurismo siano in realtà la spia di una diffusa carenza d’identità rialzato di Wall Street, a New York. Il cupo e modestissimo impiegato un giorno si rifiuta di fare il copista per il suo datore di lavoro, un avvocato. E afferma: «Preferisco di no».

Rimarrà negli uffici anche nei giorni di festa e anche quando gli verrà ordinato lasciare lo stabile. Finirà in prigione, dove passerà il tempo a fissare un muro. Bartleby è lacerato e reso immobile dalla vergogna, è per questo che intimamente si blocca. Vergogna di cosa? Melville non lo dice espressamente, infila nella testa dell’avvocato un’ipotesi, ossia che lo scrivano, quando lavorava alle Poste, si sia comportato con negligenza smistando le lettere smarrite. Bartleby si sente indecente per aver cancellato i messaggi di persone a persone. «I would prefer not to»: questa è la sua pudica e radicalissima reazione. Domanda retorica: esiste oggi uno come lui? Chi ha il sovrumano coraggio di dire «no, preferisco di no»? Guardare negli occhi un magistrato o dare le dimissioni sono atti dettati non certo da quel nobile sentimento che è la vergogna. Che è alla base delle “buone maniere”. O più semplicemente: della civiltà.


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Proposte. L’ipotetica crescita del prezzo del carburante giungerebbe nel momento peggiore per il mondo europeo

Ecotasse? Yes, we can Obama propone di alzare di un centesimo a barile le tasse sul petrolio. E la marea avanza di Giovanni Radini assare il petrolio per essere sicuri? Yes, we can. Ma perché non pensarci prima? La proposta della Casa Bianca di aumentare da 8 a 9 centesimi di dollaro al barile le tasse a carico delle compagnie petrolifere potrebbe essere una buona idea, ma limitata a quanto sta accadendo oggi. L’obiettivo è quello di creare in tempi assolutamente ristretti un fondo assicurativo per le spese di sicurezza, in questo caso da investire nel tentativo di fermare la chiazza di petrolio di fronte alla Louisiana, e per la definizione di nuove tecnologie contro i disastri ambientali. La marea nera che continua a espandersi nel Golfo del Messico deve aver toccato il cuore del presidente Obama e di tutta Washington. Negli Usa effettivamente sono ancora vivi i ricordi di nemmeno cinque anni fa dell’uragano Katrina che mise in ginocchio sempre la Louisiana e con essa New Orleans, radendo al suolo uno dei gioielli architettonici del “vecchio Sud”. Oggi, dopo circa tre settimane in cui si stanno compiendo vanamente tutti gli sforzi possibili per tappare la falla provocata da un’esplosione sotto la piattaforma petrolifera “Deepwater Horizon”, il bacino del Mississippi è nuovamente a pezzi. La natura non c’entra, però.

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Anzi, questa volta essa è vittima di un sistema industriale mondiale vincolato dall’oro nero e dalla necessità di dover sfruttare le risorse anche nelle aree più pericolose o a rischio di disastro ecologico. L’incidente è accaduto nell’Atlantico, ma i precedenti insegnano che anche altrove la situazione è ugualmente precaria. Dall’Alaska al Golfo Persico, l’estrazione di petrolio mette in discussione inevitabilmente l’ecosistema. Si calcola che dalla falla sottomarina fuoriescano circa 5mila barili di petrolio ogni giorni. Inizialmente la British Petroleum aveva dimostrato un certo ottimismo, forse ostentandolo eccessivamente, nell’affermare di saper contenere l’incidente. L’intervento di una task force navale di sua proprietà costituita da quattro sottomari-

Il presidente rischia grosso, in piena campagna elettorale

Ma ora i “Tea party” hanno un’arma in più di Marco Respinti l largo delle coste statunitensi la British Petrolum non sa più che pesci (ammesso che in quel mare ne sia rimasti) pigliare, nel Golfo del Messico si teme la marea nera che sta montando da giorni e l’uomo nero alla Casa Bianca che fa? Lancia una nuova tassa. La ipotizza, certo, la propone, ovvio, poi si vedrà, ma intanto il sasso nello stagno maleodorante del greggio alla deriva è stato gettato. L’idea è questa. Chiedere un’imposta supplementare pari a un centesimo di dollaro americano per ogni barile di oro nero estratto. A chi? Alle compagnie petrolifere. Perché? Per finanziare la sicurezza, ovvero per stanziare d’avanzo le cifre enormi che in un batter d’occhio si bruciano al vento quando succedono disastri come quello in corso ora. La Casa Bianca stima infatti che i fondi raccolti in questa modo dovrebbero ammontare a 118 milioni di dollari annui, sommetta davvero ragguardevole la quale inciderebbe se non altro meno improvvisamente sulle casse federali qualora ve ne dovesse essere (anche se tutti già toccano ferro) bisogno. In più, il presidente propone anche d’innalzare a 1,5 miliardi di dollari la cifra-tetto prevista per gl’indenizzi. Ora, probabilmente pochi avranno da obiettare a questa misura che si presenta tanto agevole, così di buon senso, di fatto poco onerosa e soprattutto ispirata a criteri previdenziali ed ecologici. Allo stesso tempo, però, questi non sono proprio momenti felicissimi per chiunque negli Stati Uniti proponga d’innalzare le tasse. Qui ogni rincaro delle imposte è sempre impopolare, ma oggi che nel Paese imperversa quel movimento del“Tea Party”che

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chiede a gran voce proprio la riduzione del fardello, anche il minimo passo falso potrebbe costare alla politica lacrime e sangue. Per di più sono in piena campagna elettorale in vista della tornata amministrativa di novembre ed è un attimo per il Partito Repubblicano, forte anche della sponda popolare appunto del “Tea Party”, trasformare la cosa in offensiva politica. Non dimentichiamo infatti il contenzioso dell’Alaska, regione ricchissima di petrolio che i Repubblicani vorrebbero geopolicamente trivellare alla grande onde crescere in autonomia energetica rispetto al bizzoso e instabile Medioriente.

Ebbene, per battere in breccia i Repubblicani e per far digerire la cosa ai cittadini Obama giocherà sicuramente di sentimenti e di propaganda, sfruttando al meglio l’assist inaspettato e involontario fornitogli dal disastro della BP: solo un Caino, dirà infatti la Casa Bianca agli americani, potrebbe opporsi a un così piccolo sforzo teso. Epperò la questione principale non sono, con tutto il rispetto, i Repubblicani e i cittadini americani. Sono le compagnie petrolifere. Nelle prospettive dei petrolieri, infatti, l’iniziativa fiscale di Obama potrebbe trasformarsi assai rapidamente in quel piccolo dazio che occorre giocoforza sborsare per comperarsi a buon mercato la licenza di lordare a destra e manca, e disinvoltamente sul piano economico ma soprattutto su quello etico. Insomma, non proprio l’idea della responsabilità sociale dell’imprenditore. Dal che si desume, una volta in più, che l’aumento delle tasse, anche e se animato dalle intenzioni migliori, non fa mai bene ad alcuno.

ni aveva rappresentato una speranza che si potesse evitare quello invece che poi è successo. Oggi, per fermare la chiazza oleosa, si stanno ipotizzando le idee anche più balzane. Nei giorni precedenti si era addirittura pensato di cospargere l’oceano di capelli umani, con l’obiettivo di assorbire il petrolio fuoriuscito. Le nostre limitate competenze tecniche a riguardo ci permettono solamente di giudicare l’idea se non altro originale. E, per quanto strana, di auspicare che funzioni. Ben peggiore è invece la proposta del giornale

del problema non è lo stessa cosa che cancellare un’equazione sbagliata in un laboratorio scientifico. La proposta degli Stati Uniti a sua volta rischia di avere immediate e negative ripercussioni finanziarie. Washington sta agendo in buona

Per frenare l’arrivo del greggio sulle coste della Louisiana, Mosca suggerisce di bombardare con piccoli ordigni atomici la zona: «Noi l’abbiamo fatto cinque volte, ai tempi dell’Unione sovietica» russo Komsomolskaja Pravda. Questa ieri da Mosca suggeriva un’esplosione atomica per chiudere il buco nel fondale oceanico. Ai tempi dell’Urss, simili e scellerate iniziative sarebbero state adottate ben cinque volte. Solo una fu un fallimento, le altre andarono a buon fine. Il dato statisticamente positivo però non prende in considerazione che sarebbe assurdo risolvere un disastro ecologico petrolifero con un “Armageddon nucleare”. In natura, fare tabula rasa

fede. Le immagini che arrivano dal Golfo del Messico sono agghiaccianti per chiunque. Obama, dal terremoto di Haiti a oggi, sembra essere continuamente preso in contropiede da ogni tipo di evento. Pare non essere pronto agli imprevisti. E le idee che il suo staff matura per parare questi ultimi suscitano per lo meno perplessità. D’altra parte i Paesi produttori del Golfo persico, primi esportatori mondiali di petrolio, potrebbero replicare all’iniziativa con un aumento


mondo

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Una tartaruga morta a causa dell’inquinamento delle coste della Lousiana. A destra, elicotteri cercano di frenare la fuoriuscita di petrolio. Nella pagina a fianco, in basso, il presidente Obama

Il rischio si nasconde nel rialzo del carburante alla pompa, che colpirà il cittadino medio

Chi pagherà l’aumento Le aziende petrolifere accetteranno senza battere ciglio hi pagherà la tassa sui disastri ambientali? È questa la domanda che si staranno facendo in questo momento milioni di americani. Obama vuole alzare di un centesimo al barile la tassa sulla produzione delle compagnie petrolifere, soldi da destinare all’incremento del fondo per la sicurezza, con specifico obiettivo di finanziare la prevenzione dei disastri ambientali o la risposta da dar loro. Un dazio imposto alle compagnie quindi, in quanto potenziali responsabili di danni all’ambiente. Ma chi non penserà subito che le compagnie petrolifere ricaricheranno la tassa sul prezzo della benzina? Con la conseguenza che i cittadini americani si troveranno a pagare un centesimo in più per mettersi al riparo da responsabilità di altri. Non ne saranno tanto felici. La loro mentalità non è la nostra, noi che siamo abituati a pagare il doppio la benzina perché la metà va in tasse, con l’accisa che ricomprende ancora l’eredità di vecchie imposte “temporanee” che dovevano finanziare la ricostruzione dei terremoti del Friuli o di Messina, o anche la guerra d’Etiopia. No, per gli americani il portafoglio è mio e me lo gestisco io, e chi sbaglia paga, ma ognuno per sé, non in solido. Certo, è molto alta l’emozione per il disastro che la marea nera sta portando sulle coste della Louisiana, peraltro già colpita a suo tempo dall’uragano Katrina. Però è difficile digerire l’idea di tirar fuori di tasca propria il denaro necessario a pagare i danni che altri potrebbero fare, per colpa loro. La marea nera è cosa diversa da Katrina. Negli Stati Uniti chi ha delle responsabilità ha il diritto e quasi il dovere di incassare i premi dei propri meriti, ma chi sbaglia deve assumersi anche le responsabilità dei propri errori: se lo fa può ripartire, se le scarica sugli altri è finito. Eppure in qualche modo è questo quello che sta succedendo negli Stati Uniti di questi ultimi tempi. Un cambio epocale. Grosse cifre pubbliche per porre rimedi ai crolli finanziari, da Enron a Lehmann Brothers. Grandi politiche keynesiane di investimenti pubblici in deficit per rilanciare la crisi che la finanza di Wall

C

dei prezzi. Ieri a New York il greggio ha chiuso sui 76 dollari al barile. L’eventuale aumento costituirebbe una reazione che, secondo gli schemi della logica politica, avrebbe una sua sensatezza. Gli arabi potrebbero giudicare la proposta statunitense come una misura fuori tempo massimo, dopo che i “buoi sono scappati dal recinto”, che una compagnia petrolifera occidentale ha lasciato distrattamente aperto. L’ipotetica crescita del prezzo del greggio giungerebbe nel momento peggiore soprattutto per il mondo finanziario europeo e per la macchina industriale americana che, sebbene sia tornata a camminare, resta vessata ancora da un 9,7% di disoccupati nel primo quadrimestre del 2010.

Per come si sta cercando di gestire il disastro, quello che viene da sottolineare è da una parte l’assoluta mancanza di prevenzione, dall’altra la continua dipendenza dal petrolio come risorsa energetica primaria. In entrambi i casi, dagli Usa dovrebbe giungere la richiesta non tanto di aumentare le tariffe – che risolverebbe unicamente il disastro della Louisian – bensì di creare una politica energetica internazionale impostata sulle fonti alternative, in primis quella nucleare, sia sulla creazione di un sistema di sicurezza a “prova di disastro ambientale”. Ma per questo la creazione di un fondo comune appare un’iniziativa unicamente propagandistica.

di Osvaldo Baldacci Street ha causato. E poi la riforma sanitaria, lo Stato che si fa in qualche modo garante della salute di tutti. E ora la tassa verde. Qualcosa che sa decisamente troppo di Europa, addirittura di socialismo, come dicono da tempo i più duri avversari del presidente democratico. Non dimentichiamo che gli Stati Uniti sono nati da una rivolta contro le tasse ingiuste imposte dal governo britannico. E proprio a quel tè gettato allora in mare si ispira la nuova opposizione repubblicana, quella dura e pura dei tea-party. Il sistema statunitense è tutto incentrato sulle libertà individuali, sulla sussidiarietà spinta all’estremo, sull’avere più soldi in tasca da poter gestire a piacere, possibilmente con lungimiranza, anche costituendo sistemi di mutua. Ma senza delegare allo Stato. È la stessa battaglia che c’è stata sulla riforma sanitaria: in quel caso non era stato un problema della salute dei poveri, quanto una lotta

voleva pagare i costi del Protocollo di Kyoto e che all’improvviso si trova gettato in prima linea – e a sue spese – nella lotta contro l’inquinamento. Che anche in America stia avanzando una coscienza ecologica è fuori di dubbio, ma basterà per far bene accogliere le iniziative di Obama? Di quell’Obama che aveva fatto dell’economia verde un suo cavallo di battaglia elettorale promettendo di procurare in questo modo tre milioni di nuovi posti di lavoro? Certo, Obama stavolta ha un vantaggio, una carta segreta che potrebbe tirar fuori, utilizzandola alla luce del sole o dietro le quinte: le trivellazioni lungo le coste americane. Solo pochi giorni fa, prima del disastro della piattaforma della British Petroleum nel Golfo del Messico, il presidente aveva dato il via libera alla trivellazione in cerca di petrolio lungo le coste statunitensi. Un tabù per i liberal americani, gli ambientalisti e molti altri gruppi di elettori democratici. E una volta tanto non era stato fortunato, visto che poco dopo si è trovato con la macchia nera alle porte meridionali di casa. Immediato lo stop precauzionale a quelle trivellazioni. Ora Obama può di nuovo giocare su più tavoli: da un lato far digerire la tassa alle compagnie petrolifere, in cambio del via libera alla nuova caccia al petrolio; dall’altra può ammorbidire l’impatto delle trivellazioni proprio con l’impegno a un finanziamento a tutela dell’ambiente. Può essere sufficiente questo scambio più o meno sotto banco per aggiungere una tessera al profondo cambiamento di mentalità che sta attraversando la società americana? Obama sarà presto chiamato a misurare il giudizio che gli americani si stanno facendo di lui. Con le elezioni di medio termine i nodi verranno al pettine. Lo sanno i repubblicani che – forti dei recenti successi - affilano le armi contro “il socialista al potere”, e lo sanno anche i democratici che da un lato temono per il loro scranno e dall’altro tentano di cavalcare gli aspetti più popolari delle svolte del presidente. Ma come sempre saranno solo gli elettori a dire l’ultima parola, e lo faranno vedendo se il loro portafoglio è più o meno leggero.

Negli Usa chi ha delle responsabilità ha il diritto/dovere di incassare i premi dei propri meriti, ma chi sbaglia deve assumersi anche le responsabilità degli errori: se non lo fa è finito all’interno della classe media tra chi aveva sudato per essere previdente e pagarsi delle assicurazioni e chi invece non l’aveva fatto e ha visto di buon occhio l’intervento statale per fornire garanzie più estese. Qualcosa di simile, magari in toni meno accesi, si riproporrà per la tassa sul petrolio. Ancora una volta il pubblico prende il sopravvento, l’interesse generale (diranno i sostenitori) prevale su quello particolare. E vengono colpite le grandi sorelle, le aziende giganti.

Ma se con la riforma sanitaria Obama aveva davvero colpito gli interessi di alcune lobbies e lo Stato si era posto a garante della limitazione dei prezzi, seppur con soldi pubblici, in questo caso sarà facile immaginare che il centesimo in questione finirà per uscire dal portaspiccioli del cittadino medio. Quello stesso cittadino che un paio di anni fa non


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Intelligence. Si moltiplicano i casi di agenti colti in flagrante in Paesi terzi entre i negoziati tra israeliani e palestinesi sono rimasti bloccati per quasi un anno, tutte le agenzie di intelligence presenti nel cuore del Medio Oriente non hanno mai interrotto il loro frenetico attivismo. L’ultimo caso risale a pochi giorni fa. Alla fine di aprile le autorità israeliane hanno arrestato Omar Sayid, membro del partito arabo-israeliano “Balad”. Venerdì scorso è toccato invece ad Amir Makhoul, direttore dell’Ittijah, una Ong araba con sede ad Haifa. Per entrambi l’accusa è di aver trasmesso informazioni riservate al partito sciita libanese Hezbollah e quindi di “favoreggiamento di un gruppo terroristico”, come dichiarato dalla magistratura israeliana. Balad è un movimento molto popolare presso la minoranza araba in Israele, circa il 20% della popolazione sui 7 milioni totali. Spesso le sue posizioni sono apparse in netto contrasto con l’opinione pubblica nazionale. È per esempio la sola voce fuori dal coro nel mantenere una posizione moderata in merito alla questione iraniana.

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Solo un anno fa, una rappresentante del Partito eletta alla Knesset, Haneen Zoubi, sostenne che le ambizioni di Teheran non dovrebbero preoccupare il governo Netanyahu, perché la «crescita di influenza del regime degli ayatollah in seno al mondo palestinese sta portando maggiori benefici di quanto abbiano fatto finora la Giordania e l’Egitto». Da questo attivismo controcorrente è emersa un’indagine su un movimento scomodo e disarmonico rispetto alla compattezza del pensiero del Paese, a sua volta esplicitamente contrario al dialogo con Hezbollah, Hamas e tan-

Israele e l’alto costo della “guerra fra spie” Dal controllo pilotato agli omicidi, Tzahal perde uomini nello spionaggio di Antonio Picasso

andare troppo indietro nel tempo, nel 2008 è rimata celebre la scoperta in Libano del sistema di controllo installato proprio da Hezbollah all’aeroporto di Beirut e parallelo a quello governativo. Il caso allora rischiò di degenerare in un nuovo scontro fratricida tra le milizie libanesi. Il Paese stava attraversando la delicatissima

Libano, Abu Dhabi, Iran: sono gli ultimi teatri d’azione “presunti” del Mossad, accusato dai governi mediorientali di troppa ingerenza to meno con l’Iran. Le autorità nazionali hanno deciso di controllare più da vicino i singoli attivisti di Balad e di Ittijah. Dall’inchiesta portata avanti in partnership fra la polizia israeliana e l’agenzia di intelligence interno, lo Shin Bet, è emerso che Sayid e Makoul sarebbero in contatto con il “Partito di Dio”. La questione offre lo spunto per un ragionamento sulla continua messa in luce di casi di spionaggio reciproco tra i tanti nemici che coabitano nella regione. Senza

fase del vuoto di potere alla Presidenza della Repubblica e la conferma che il “Partito di Dio” potesse essere considerato uno “Stato nello Stato” provocò un’impennata delle tensioni. La bolla politica riuscì a essere sgonfiata solo grazie all’intervento diplomatico dell’Emiro del Qatar, Hamad bin Khalifa alThani, il quale convocò tutti i rappresentanti delle fazioni libanesi a Doha e operò in modo che raggiungessero l’accordo per nominare l’ex generale Michel Suleyman

Gli ultra-ortodossi sono il 30% dei soldati

Un esercito di fedeli L’impennata di radicalismo religioso che sta attraversando il Medio Oriente comincia ad avere ripercussioni sociali significative. Da una recente indagine, è emerso che il 30% degli allievi ufficiali delle Forze armate israeliane è costituito da esponenti del mondo ultra-ortodosso ebraico. All’inizio degli anni Novanta lo stesso indice si limitava al 2%. Tzahal è sempre stato considerato un esempio del “secolarismo sionista”. Ora che la società nazionale sta cambiando, assumendo posizioni sempre più favorevoli all’introduzione di un elemento religioso nella giurisdizione - la battaglia politica per Israele “Stato ebraico” - anche il suo esercito risente di questo fenomeno. Lo Stato Maggiore israeliano però si trova di fronte a un

problema. La maggior parte degli ufficiali ultra-ortodossi chiede l’insindacabile rispetto della Torah e del Talmud, i testi sacri. Questi impongono regole alimentari ben precise, ma soprattutto l’esclusione da qualsiasi incarico o lavoro nel giorno di Shabbat, il sabato. Tuttavia come si addestra un esercito, o come si combatte una guerra quando vi si frappongono limiti così dogmatici? I soldati ultraortodossi inoltre sono spesso originari degli insediamenti ebraici intorno a Gerusalemme, costruiti nelle aree ancora contese con i palestinesi e attuale ostacolo ai negoziati. Tzahal quindi è sempre più lo specchio della nazione israeliana, in cui le contraddizioni sociali interne fanno da barriera invisibile alla pace. (a.p.)

come nuovo Capo dello Stato. L’ondata di ottimismo che emerse dalla risoluzione del problema politico fece sì che delle intercettazioni da parte di Hezbollah a spese dei passeggeri in transito a Beirut non se ne parlò più. Un altro scandalo, sempre in Libano, è stato quello di alcuni ufficiali delle Lebanese Armed Force sospettati di essere agenti del Mossad. In questo caso si è trattato di una situazione uguale e contraria a quella che Israele sta attraversando attualmente. L’arresto di questi militari, di religione cristiano-maronita, è stata seguita solo da una nota polemica da parte del governo Netanyahu, il quale ha tenuto a sottolineare che il suo Paese non svolge attività di intelligence in Libano. Poteva dire altro?

Ben diversi sono stati invece i casi di omicidio. Il più eclatante avvenne il 12 febbraio 2008 nel pieno centro di Damasco. La vittima era il responsabile della sicurezza di Hezbollah, Imad Mughniyeh, uno dei terroristi “most wanted” su scala internazionale. In seguito al suo assassinio, da Beirut, Damasco e Teheran si levò un coro unanime di accuse rivolte al Mossad, considerato l’unico capace di compiere simili operazioni. Israele, anche in quel frangente, non poté che negare tutto. Infine arriviamo al 19 gennaio scorso, quando ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, Mahmud alMabhouh, responsabile di Hamas nelle relazioni con l’Iran, è stato trovato ucciso nella sua camera di albergo. Anche qui l’indice è stato puntato contro l’intelligence israeliana. Netanyahu ha proseguito a negare qualsiasi coinvolgimento delle agenzie nazionali. Tuttavia, la faccenda si è dimostrata ancora più torbida rispetto alle precedenti. La scoperta di una serie di passaporti falsi, britannici e irlandesi, e di alcune carte di credito che sarebbero state usate dai “sicari”costituirebbero le prove quasi incontrovertibili del coinvolgimento di spie straniere. A questo va aggiunta la scoperta di un filmato, registrato dalle telecamere a circuito chiuso dell’hotel dov’è al-Mabhouh, in cui gli assassini sarebbero ben identificabili. La sommatoria di tutti questi casi e l’arresto di Sayid e Makhoul porta a concludere che la “battaglia tra spie” e quindi la diffidenza reciproca continua. Visti però gli ultimi risultati, sono aumentate le probabilità di essere colti in flagranza rispetto al passato.


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13 maggio 2010 • pagina 17

La tragedia nello Shaanxi, muore anche un insegnante

L’unico sopravvissuto è un bambino di otto anni

Cina, un folle attacca bimbi di un asilo: sei vittime

Tripoli, esplode un aeroplano: 103 vittime, non è terrorismo

PECHINO. Sei bambini e un in-

TRIPOLI. È esploso durante l’at-

segnante sono stati uccisi e altri 20 sono rimati feriti in un asilo dello Shaanxi. L’attacco è il quinto assalto violento verso bambini e scolari in meno di due mesi, nonostante le promesse dell’autorità di rafforzare pattuglie e controlli fuori delle scuole e all’interno. Il grave incidente è avvenuto ieri mattina in un asilo nella contea di Nanzheng (Hanzhong). I bambini feriti sono ora ricoverati all’ospedale. Secondo le autorità locali, l’assassino si è ucciso. Attacchi simili su bambini e scolari hanno colpito l’opinione pubblica temendo che la violenza possa diventare una specie di modello.

terraggio, mancando la pista di appena un metro, e si è totalmente disintegrato: lo schianto di un aereo libico all’aeroporto di Tripoli ha provocato ieri la morte di 103 persone. Il velivolo, a bordo del quale c’erano molti stranieri ma nessun italiano, proveniva dal Sudafrica e secondo quanto riporta la Bbc sarebbe dovuto ripartire da Tripoli diretto a Gatwick. Nell’incidente è sopravvissuto un bambino olandese di nove anni (altre fonti parlano di una bambina): le sue condizioni sono giudicate «buone» dopo il ricovero in ospedale. Secondo l’inviato della tv araba Al-Jazeera, alcuni soccorritori sostengono che anche il copilota

Lo scorso 30 aprile nello Shandong un contadino ha attaccato dei bambini con un martello, ferendone cinque e dandosi poi fuoco. Il giorno prima un uomo col coltello ha ferito 29 bambini e tre adulti nella città di Taixing (Jiangsu). Nella stessa settimana un ex insegnate di 33 anni, con problemi mentali, ha ferito con un coltello 15 studenti e un insegnante nel Guangdong. In marzo un dottore, frustrato perché la sua ragazza lo aveva lasciato, ha assassinato otto bambini e ferito altri cinque nel Fujian. L’uomo è stato condannato a morte

Arriva Tyrannybook il social network “civile” Come Facebook, ma contro i dittatori. L’idea è di Amnesty di Laura Giannone iete stanchi di partecipare ai social network solo per commentare le foto dei vostri amici o postare frasi a effetto per il vostro stato o ancora far sapere al mondo che avete appena finito di fare colazione? Siete tra i pochi rimasti ai quali non dispiacerebbe un po’ più di impegno, non specificamente politico, ma almeno sociale? Bene, sappiate che non esistono solo Facebook e Twitter, i social network possono essere una grande risorsa di condivisione e consapevolezza sociale e così una sezione di Amnesty International e un’agenzia di pubbliche relazioni hanno deciso di provare a creare qualcosa basato sui noti meccanismi (la piattaforma di Facebook, in questo caso) ma politicamente impegnato: si chiama Tyrannybook e serve per condividere e diffondere la conoscenza sugli orrori e le storture delle dittature mondiali. «Effettua il login in Tyrannybook e segui le azioni dei leader mondiali che non rispettano i diritti umani nel loro paese». Così recita la home page di Tyrannybook, look identico al più famoso cugino in blu, ma qui virato significativamente al rosso. Ad avere l’idea sono stati i dirigenti di Amnistia Internacional, filiale portoghese di Amnesty International, e l’agenzia di Pr Leo Burnett, che hanno pensato di utilizzare per una volta il passaparola e i meccanismi di commento e verifica, propri delle reti sociali, non per scoprire dove si terrà il prossimo party di quartiere ma per diffondere la consapevolezza di atrocità e nefandezze che accadono quotidianamente nel mondo e di cui, purtroppo, spesso non se ne sa nulla. Una volta ultimata la registrazione, ovviamente gratuita, si accede alla propria bacheca e si possono seguire gli aggiornamenti sulle ultime violazioni dei diritti umani, commentarli e anche condividere la notizia su altri social network più popolari, come Facebook e Twitter. Dal menù superiore, invece si può accedere alle schede biografiche dei tiranni e ai profili degli “alleati”, che sostituiscono la lista classica

S

degli amici. Per il momento sono presenti dieci schede su altrettanti personaggi: dal cinese Hu Jintau all’iraniano Ahmadinejad, dal serbo Karadzic al bielorusso Lukashenko, dal ceceno Kadyrov, a Robert Mugabe dello Zimbawe e Kim Jong Il della Corea del Nord, da Than Swe del Myanmar (ex Birmania) a Thomas Lubanga Dyilo della Repubblica democratica del Congo, ma Amnesty ha già annunciato che altri ne verranno aggiunti a breve. Il profilo di ciascuno è corredato di una breve scheda biografica, di alcune immagini e di un flusso di aggiornamenti sulle ultime attività.

«Grazie a Tyrannybook speriamo di ottenere un maggiore appoggio alle campagne che promuoviamo e indurre le persone ad approfondire l’argomento dei diritti umani», affermano ad Amnesty. Noi speriamo che, per una volta, anche i giovani si dimostrino più sensibili e meno cinicamente interessati solo al divertimento, come invece dimostrano spesso di essere, e scoprano che una rete sociale è una grande innovazione con un enorme potere mediatico e culturale e può essere molto, molto più utile che condividere foto e filmati umoristici. Tyrannybook, ha un aspetto ed una concezione molto simile a Facebook, consente, dopo essersi registrati, di inserire eventi, testo, video, audio, immagini e link a siti esterni. L’utente può scegliere i diversi settaggi per la propria privacy scegliendo come e con chi condividere le informazioni inserite dal proprio profilo. Ogni utente può scegliere chi vigilare tra i leader nella lista. l social networking è, non dimentichiamolo, una grossa occasione per fare emergere una coscienza comune. Ne parlano in molti, ma non ancora abbastanza. C’è chi fa di tutto per sottrarsi alla lente della Rete e, nonostante tutto, viene ugualmente osservato. Amnesty Internacional chiama tutti gli internauti a raccolta per osservare, scambiare informazioni e agire uniti contro i tiranni che ignorano i diritti umani. Idealista? Forse. Ma non inutile.

L’obiettivo? Creare una rete mondiale di osservatori che vigilino sui crimini compiuti dai despoti più efferati

e la sua sentenza eseguita in poco tempo. Il 7 maggio scorso il ministero della Pubblica sicurezza ha inviato in 18 differenti località dei gruppi per verificare la situazione. L’ipotesi più accreditata nel governo è che gli assassini sono persone instabili dal punto di vista mentale. Ma fra tutte le violenze di questi mesi, solo uno degli assassini era uno squilibrato. Commentatori e blogger in Cina affermano che la ragione più profonda di questi attacchi è l’ira e la frustrazione delle persone che non trovano altro modo di esprimere le loro angosce che attaccare i più indifesi. Pesa anche il crescente abisso fra ricchi e poveri.

dell’aereo si sarebbe salvato. Il giornalista arabo non ha però ancora trovato conferme a questa notizia. A causa della violenza dell’esplosione, i resti dei passeggeri e del velivolo sono stati scaraventati nel raggio di un chilometro intorno alla pista. Le autorità libiche escludono che la tragedia sia stata provocata da un attentato terroristico. La sciagura è avvenuta alle 6 nella fase di atterraggio, secondo quanto riferito da un responsabile dei servizi di sicurezza dello scalo.

L’aereo è un Airbus 330 della compagnia libica Al Afriqiyah e proveniva da Johannesburg. Il ministro dei Trasporti, Mohammed Zidani, ha spiegato che sono stati recuperati finora 96 corpi e che «fra i passeggeri c’erano cittadini di nazionalità libica, africana ed europea». Tra questi ultimi molti olandesi (una sessantina, secondo il quotidiano De Telegraaf) e diversi britannici. Secondo il direttore dell’aviazione civile libica, Mahammed Sclebek «l’incidente non è dipeso dalle condizioni dell’aeroporto di Tripoli, o da atti di terrorismo». Sono state recuperate le due scatole nere dell’aereo e un’inchiesta è già stata aperta dalle autorità locali.


cultura

pagina 18 • 13 maggio 2010

Tra gli scaffali. Einaudi ripubblica in unico volume i racconti che Robert Musil dedicò a indimenticabili figure femminili esistenzialiste prima della Grande Guerra

Tre donne e un mistero Servili e dominatrici, bestiali e angelicate: in Tonka, Veronika e Claudine è racchiuso “L’ uomo senza qualità” del ’900 di Matteo Marchesini inaudi ha ripubblicato in un unico volume cinque racconti scritti da Robert Musil subito prima della Grande Guerra: quelli riuniti nel 1924 in Tre donne, che qui dà il titolo generale, più i due di Incontri, editi nel 1911.

E

Come scrive Paola Capriolo nella sua puntuale introduzione, «se con L’uomo senza qualità (come in una certa misura anche con il Törless) Musil tenta di scrivere un’opera sul suo tempo», in questi testi collocabili a metà strada tra i due libri più noti «egli ci offre piuttosto un’opera del suo tempo, pienamente partecipe di quella temperie culturale». Tutti i pezzi ruotano intorno a un ritratto femminile. Ma mentre in Tre donne questo ritratto è sempre filtrato dall’occhio del maschio, in Incontri ci troviamo di fronte a una faticosa immedesimazione espressionistica con l’informe spazio interiore delle protagoniste. Comunque, a un secolo di distanza, entrambe le raccolte offrono parecchi spunti di riflessione: e non solo spunti letterari. Del resto Musil è un autore che si muove già di per sé ai limiti della letteratura, piegando di continuo il suo medium a un’indagine fenomenologica che l’attraversa e la oltrepassa, pur senza poter fissare scientificamente i confini della terra di nessuno in cui deborda. Ma in questo caso, a speziare ulteriormente il piatto e a suggerire riflessioni extraestetiche, c’è il motivo onnipresente del femminino. I cinque racconti ci propongono quasi a ogni pagina alcune mitizzazioni della donna che vengono da molto lontano, ma che tra il primo ’900 decadente di Musil e il secondo ’900 “antiromanzesco” dei mass media si sono a poco a poco sciolte nelle loro polarità estreme e contraddittorie: per poi ridursi a meri indici gergali, a moneta spicciola di un immaginario formato ora-

mai da linguaggi ben più pervasivi della cultura letteraria. Una delle non ultime ragioni del fascino di questo libro sta quindi nella sua capacità d’interrogare il lettore odierno sulla sorte di certe icone. Ma vediamo il problema da vicino. I due racconti di Vereinigungen (letteralmente “riunioni”) sembrano quasi incunaboli dell’ Uomo senza qualità: se la Claudine del Compimento dell’amore prefigura l’apatica e ricettiva Agathe, nella Tentazione della silenziosa Veronika

La “femmina” non è assimilabile: proprio come un “noumeno”, è la parte inafferrabile di un mondo che non è un mondo campeggia un’antenata dell’inquieta (o, come si direbbe oggi, borderline) Clarisse. Specie nel primo pezzo è enunciato più volte un motivo-cardine della poetica musiliana: e cioè quello degli oggetti, degli ambienti inanimati in procinto di “ritrar-

si in se stessi”, di cancellare il significato che la coscienza vi aveva posto. È il tema già esistenzialista dell’inerte ottusità dell’in-sé, dell’insensata mostruosità del mondo, illuminata solo con arbitraria intermittenza dalla luce umana. Ecco, per esempio, un pensiero di Claudine: «si traccia una linea, una sola linea coerente, per trovare un appoggio fra le cose che torreggiano mute; questa è la nostra vita; qualcosa come parlare senza mai smettere e illudersi che ogni parola derivi dalla precedente e susciti la seguente, perché si ha paura, se il filo si strappa, di vacillare e di essere inghiottiti dal silenzio; ma è solo debolezza, solo terrore della tremenda, spalancata casualità di tutto quel che facciamo...». E poco più in là si osserva come risulti insopportabile «l’intervallo, l’abisso fra gli urti di due azioni, nel quale ci si allontana dal senso della propria identità, e si precipita nel silenzio fra due parole, che potrebbe essere il silenzio fra due parole di qualcun altro». A questo destino informe sembra si possa sfuggire solo “angelicandosi”, sognando un utopico «regno millenario»; o viceversa aderendo agli impulsi incontrollati del subconscio.

Non a caso, nel secondo pezzo, Veronika è ossessionata da immagini animalesche in cui legge il miraggio di una esistenza «impersonale». Se da Incontri passiamo a Tre donne, vedremo che i due poli dell’utopia mistico-razionale e della bestialità più ottusa, oggettisotto l’allarmato vandosi sguardo maschile, si traducono in figure singolarmente sbozzate, che paiono la concrezione materica di questi fantasmi mentali. Nel primo racconto, la Grigia del titolo è una contadina ribattezzata così dal nome della sua vacca. L’occhio che la spia è quello di Homo, che ha

lasciato la vita di famiglia per riattivare con alcuni soci le antiche miniere d’oro della Val Fersena. Questo luogo ci viene descritto come una specie di limbo abitato da genti di remota origine tedesca e protestante, che hanno scordato i costumi degli avi senza tuttavia assorbire la cultura degli italiani. La sua irrealtà lievita rapidamente in Homo, attirandolo in una esistenza «più chiara e più drogata» della solita: e di questa esistenza Grigia è lo sfuggente emblema. Perfino la sua lingua, come quella della Tonka del terzo racconto, è un enigma mai del tutto solubile. Grigia si lascia possedere; però è un possesso avvolto dal mutismo. In quelle terre, infatti, le donne durante l’amore «abbassano le palpebre e fanno un viso severo, una maschera con cui si proteggono per non essere disturbate dalla curiosità». Il loro mistero si specchia nel mistero di una natura che, non appena è abbandonata dalla luce dell’intelligenza, appare tutto fuorché naturale. E appunto una tale mostruosa selvatichezza, alleata non all’intelligenza ma al più bestiale impulso umano, chiuderà la sua mano minacciosa sia sull’inconsapevole Homo sia sulla presaga Grigia: quasi che l’atmosfera drogata della valle fosse un anestetico necessario a farli trapassare insensibilmente nella morte. La stessa natura “nuda”ritroviamo anche nel secondo racconto. Qui, alla portoghese del titolo, il bosco che circonda il castello del suo sposo fra Bressanone e Trento – in una terra, di nuovo, un po’ tedesca e un po’ italiana – appare come «un mondo che, se non si riusciva a penetrarvi, tornava a chiudersi dietro le spalle». Il racconto porta a galla la struttura profonda che è sottesa a tutte queste storie, e che si direbbe quella d’una sconvolta fiaba. Intorno alla portoghese e al suo signore von Ketten (o Delle Catene) la natura implode come in un quadro di De Stael: e diventa tanto più estranea quanto più si tenta di paragonarla ai minuscoli oggetti artificiali dell’ Umwelt umana. A un certo punto, il leitmotiv viene ribadito ancora, apertamen-

te: «nel mezzo erano vallate tese come drappi pieni di sassi, sassi grossi come case e persino la ghiaia sotto i piedi non era più piccola di una testa; un mondo che in verità non era un mondo». Anche qui, il motivo si trasferisce subito dalla natura ai corpi. Poiché il marito torna dalla guerra assai di rado, davanti alla portoghese appare «familiare come un oggetto che si porta addosso da molto tempo. Se tu ridi, ride anch’esso, se ti muovi viene con te, se la tua mano lo tocca, tu lo senti; ma se una volta lo sollevi e lo osservi, tace e guarda altrove». Ancora un passo, e insieme col terzo vertice (maschile) di un triangolo amoroso, ecco entrare in scena crudamente, superstiziosamente gli animali: prima il lupo, “sacrificato” dal signore Delle Catene; quindi un gatto, visiting angel tenero e moribondo, sospeso come un santo dostoevskiano tra l’«aureola appena visibile e l’atroce sudiceria» della rogna.

Il racconto si chiude su una sentenza della portoghese, che nel castello insonorizzato dal torrente parla di quel felino come di una incarnazione divina: pronunciando così parole “blasfeme” che fanno pendant con l’allusione oscenamente sessuale di Veronika a un animale-uomo. Infine, nell’ultimo pezzo di Tre donne, il


cultura

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storia: un’azione così, un essere così – un fiocco di neve che cade tutto solo in una giornata estiva è realtà o fantasia, è buono, cattivo o senza valore? Si sente che qui i concetti giungono a un limite dove non trovano più appiglio».

Nella foto grande, “Le the” di Federico Zandomeneghi, (1890-1893, pastello su carta) Qui accanto, “Gruppo in crinolina” di Vassily Kandinsky (1909). A sinistra, Robert Musil (Klagenfurt, 6 novembre 1880 – Ginevra, 15 aprile 1942), scrittore e drammaturgo austriaco

motivo dell’estraneità s’identifica nella inafferrabile Tonka, che «non parlava il linguaggio comune ma qualcosa come il linguaggio del tutto». Dopo averci descritto i suoi lineamenti, Musil presta al giovane uomo che le fa la corte la seguente impressione: «Era strano che uno sguardo così sereno fosse come una freccia con l’uncino, e lei stessa sembrava che ci si fosse ferita». Quando poi i due intrecciano una relazione, ci viene detto che «Tonka rimase sempre così uguale a se stessa, così semplice e trasparente che si poteva credere di avere un’allucinazione e di vedere le cose più incredibili». Un’allucinazione: qui, dove tutto è più aperto e

spiegato, ci ritroviamo davanti a un’icona femminile che ha trovato differenti quanto memorabili incarnazioni nella letteratura italiana, dall’Angiolina di Svevo alla Cecilia o alle donne pop del vecchio Moravia. In Tonka la violenza delle descrizioni, la pregnanza dei sogni, le impressioni al tempo stesse nitidissime e ubriache fasciano una giovane donna che ha più d’una affinità con la Ghisola di Tozzi.

Ma nella maggior parte dei casi resta una differenza ben visibile tra lo stile fenomenologico di Musil e le scabre “distrazioni”di Tozzi o la farraggine di Faulkner, che pure torna spesso in mente davanti a cer-

ta vischiosità descrittiva in cui oggettività e soggettività s’appiccicano l’una all’altra in una specie di oratio metafisicamente obliqua. In Musil, infatti, la prosa ruscella a tratti in un flusso copioso e a tratti si contrae in una sequela di secchi, precisi segni interpuntivi, senza tuttavia mai perdere la sua qualità “traslucida”. In ogni caso, all’interno di questa fenomenologia Tonka rappresenta il limite della conoscenza, la realtà imprendibile, il noumeno kantiano: «Com’era silenziosa (...) Non poteva né parlare né piangere. Ma qualcosa che non dice e che non è detto, che scompare muto in mezzo all’umanità, un piccolo solco inciso nelle tavole della

Da un lato, questo limite induce l’occhio maschile a proiettare sulla donna un’immagine di assoluta, a-sentimentale purezza, ma dall’altro lato, la sua imprendibilità ha qualcosa di infernale; e lo spettro dell’infedeltà, quando rimane incinta, fa riaffiorare subito l’immagine della bestia: «Quella certezza del tradimento di Tonka aveva qualcosa di un sogno. Tonka la sopportava con la sua umiltà commovente, tenera e senza parole: ma che cosa non poteva significare tutto ciò? La sua sottomissione, pigrizia o beatitudine. Poiché era affezionata come un cane, poteva come un cane seguire ogni padrone!». In definitiva «dipendeva quasi da lui, chi era Tonka». Quasi: perché la femmina non è mai del tutto assimilabile, appunto come un noumeno. È figura dell’inafferrabilità di un “mondo che non è un mondo”, della sua casualità frustrante e irreducibile a qualunque schema storicistico: «gli avvenimenti sono sempre errori di tempo e di luogo; ti mettono o ti dimenticano in un posto sbagliato, e sei impotente come un oggetto che nessuno raccoglie». Anche in questo racconto torna quindi il leitmotiv esistenzialista. Ma ecco un brano che riassume nella maniera più esplicita le ossessioni che circolano dall’inizio alla fine del libro: «se non si guarda il mondo con gli occhi del mondo e lo si ha già nello sguardo, esso si scompone in frammenti senza senso che vivono tristemente separati come le stelle nella notte. [...] Volere, sapere e sentire sono intricati come una matassa; lo si nota soltanto quando si perde l’estremità del filo; ma forse si può procedere per il mondo altrimenti che guidati dal filo della Verità? In tali momenti, nei quali una vernice di freddezza lo separava da tutti, Tonka era più di una fiaba, era quasi una missione». Una fiaba, una missione: cioè una chimera - un essere enigmatico che si può indifferentemente sposare o abbandonare: «Ma nessuno vorrà condannarlo se per tali ragioni non faceva né una cosa né l’altra. Perché simili pensieri o impressioni possono avere, sì, la loro giustificazione, ma oggidì nessuno dubita che siano per metà ubbie. Dunque egli li pensava e non li pensava in tutta serietà». Questa sospensione,

che non si risolve né in conversione estetica né in conversione politica o religiosa, è tipica dell’uomo musiliano. Qui, il protagonista non riesce a identificare senza residui Tonka con l’amore: non crede del tutto né alla sua innocenza né al tradimento. Così «ella era come un mito che fosse nato soltanto a metà». Tonka è un «non agire», un «non essere», un fiocco di neve in una giornata estiva. Alla fine il protagonista si dice che «forse Tonka non era poi così buona come io mi immaginavo; ma proprio in questo si rivelava la misteriosa essenza della sua bontà, che forse sarebbe stata bene anche a un cane». E come un animale Tonka, più che morire, “finisce”. Con quest’ultimo racconto di Tre donne risulta più che mai evidente che l’icona femminile funziona da perfetto correlativo tematico dello stile e della poetica di Musil: il cui discorso, anche quando parla d’altro, continua a sfrangiarsi nella rappresentazione quasi dolce e arresa della corporeità più animalesca, e nella rappresentazione di un idealismo ascetico ma esposto - per converso quasi con brutalità. Musil è il poeta della sgradevolezza, della sopraffazione torpida e fluttuante che l’intelletto esercita, nel suo incontro con i corpi, quando sa di non poter più illuminare il reale con la luce di una Verità. Da una tale impotenza, sorgono insieme il ribrezzo e la sensazione oscura che ci sarebbe un “altro” modo di vivere. La fenomenologia sconfinata, l’intellettualismo pulviscolare-vettoriale con cui Musil aderisce a questo stato dell’esistenza contemporanea - una fenomenologia, un intellettualismo che possono talvolta ricordare al lettore italiano la poesia di Vittorio Sereni, non a caso amante della pittura “grigia” e pezzata di De Stael – si traducono in una prosa insieme debordante e spoglia, sinestetica e incolore. Una prosa che nelle sue opposte e complici polarità sembra appunto riflettere l’ambigua sovrapposizione di donne angeliche e bestiali.

Possiamo dire, in coscienza, di esserci lasciati alle spalle queste proiezioni? Possiamo affermare che lo sviluppo della storia abbia davvero “falsificato” il mondo di Musil? O non dobbiamo piuttosto riconoscere che ha solo degradato le suddette polarità, che ci ha allontanato ancora dal «regno millenario» di una ricettività empatica, non schizofrenica, nel cui segno l’icona insieme servile e padronale della femmina possa finalmente trasformarsi sotto gli occhi del maschio in una vera compagna, in un integro essere umano? Comunque sia, che Tre donne susciti anche questi interrogativi ci pare un sintomo inequivocabile della sua inalterata vitalità.


cultura

pagina 20 • 13 maggio 2010

al 6 al 27 maggio, l’Alma Mater rinnova il suo dono alla cittadinanza bolognese con la nona edizione degli incontri sui classici nell’aula di Santa Lucia. Quattro appuntamenti per confermare una tradizione, e un’ottima abitudine del capoluogo emiliano-romagnolo di proporre alla città un ciclo di lectio magistralis in cui i protagonisti della cultura contemporanea si confrontano con testi greci, latini e giudaico-cristiani, affidati alle voci di grandi interpreti di cinema e teatro. Sotto il titolo “Animalia”, gli appuntamenti di quest’anno svilupperanno un’articolata riflessione intorno ai temi “animalità dell‘uomo” e “umanità dell’animale”; proposti e curati dal Centro Studi per la Permanenza del Classico, fondato nel 2001 da Ivano Dionigi, gli incontri si apriranno oggi con la lezione di Umberto Eco, Animal ex anima. L’anima degli animali, accompagnata da l’Asino d’oro di Apuleio, proposto in forma di monologo da Francesco Coltella e Francesco Lagi, regista della serata. La regia degli altri tre appuntamenti, invece, è stata affidata a Claudio Longhi, regista e professore del corsi Discipline dello Spettacolo presso lo Iuav di Venezia, nonché curatore delle precedenti sei edizioni. Sin dai primi anni, queste serate hanno riscosso molto successo sia tra gli studenti sia tra la cittadinanza in genere, come spiega questa forte attenzione nei confronti della letteratura classica? Mi piace pensare questa attenzione in relazione ad un fenomeno che si sta sempre più diffondendo: il recupero della storia e, spesso, del senso del politico, nell’accezione più alta del termine. Veniamo dagli anni della festa postmoderna, con tutto quello che ne ha conseguito in termini di teorizzazione dell’uscita dalla storia e della morte dell’ideologia; una serie di teorie estremamente affascinanti e seducenti ma, dal mio punto di vista, pericolose. Negli ultimi anni, questa euforia postmoderna sembra sia un po’ venuta meno e, da più parti, si sia ricominciato a riflettere sulla persistenza della storia e, come sottotesto, sulla persistenza dell’ideologico e del politico. Questo rapporto maturo con la storia non può che diventare rapporto con il classico; rifacendomi a teorici più illustri di me, e mi riferisco in particolare a Sanguineti, il classico è sì una sorta di luogo di perpetua umanità, ossia qualcosa che ritorna costante nel tempo e a cui posso costantemente rifarmi come modello, ma allo stesso tempo è luogo di una perpetua inattualità, è

D

Bologna. Parla Claudio Longhi, regista dei tradizionali “Incontri con i classici”

«Ecco perché stiamo recuperando la Storia» di Diana Del Monte

La tradizione ci aiuta a riflettere sul tema dell’identità, radicandolo nella percezione del politico come sistema di relazioni tra soggetto e comunità

radicalmente diverso da me, non mi appartiene e proprio per questo, con la distanza e l’inattualità, mi aiuta a capire il momento. Vorrei aggiungere anche una riflessione: dal momento in cui il classico mi fa prendere atto di come il mondo è cambiato, mi fa sperare anche che il mondo continuerà a cambiare. In ogni caso, sia che lo si prenda da corno dell’attualità, sia che lo si prenda da quello dell’inattualità, i classici ci aiutano a riflettere sul tema dell’identità, radicandolo nella percezione della storia e del politico, in quanto sistema di relazioni tra il soggetto e la comunità in cui il soggetto vive. La cosa, poi, che mi colpisce sempre di queste serate, e che me le rende care, è che ci si trova di fronte ad un pubblico estremamente numeroso, con una comunità piuttosto indifferenziata, varia in estrazione e provenienza. Credo che questo sia un grande merito del

Centro, e del professor Dionigi, che hanno saputo coniugare in modo serio e responsabile l’aspetto divulgativo alla conservazione del rigore scientifico. Un pubblico numeroso e attivo che riflette sui grandi temi legati alla contemporaneità e alla politica, nell’accezione alta di cui parlava. Possiamo leggervi una sorta di ritorno al teatro antico? I testi proposti in questi anni

In alto a destra, un’immagine dell’Aula di Santa Lucia all’Alma Mater di Bologna e, dall’alto, Ivano Dionigi, Claudio Longhi e Umberto Eco. A destra, la locandina della nona edizione del tradizionale ciclo di incontri con i classici dal titolo “Animalia”

raramente sono stati testi teatrali, per lo più si è lavorato sulla letteratura, sulla filosofia e sulla scienza. Nonostante ciò, e nonostante si sia privilegiato un impianto scenico più legato alla dimensione letteraria che spettacolare, e con ciò intendo l’attore al leggio che da voce al testo, innegabilmente le serate di Santa Lucia fanno riflettere sul senso e la funzione del teatro antico e sulla possibilità di ripristinare un modello di questo genere, oggi. Serate in cui la

comunità si ritrova in un clima di concentrazione e partecipazione per riflettere su temi alti, prima guidati dalle lezioni e, poi, mettendosi direttamente a confronto con le parole dei classici, la dice lunga sulle possibilità che il teatro ha ancora, se praticato in certe forme, di far riflettere. Tutte le traduzioni sono opera dei ricercatori del Centro. Lei in passato ha lavorato con Sanguineti, uno dei nomi più noti nell’ambito delle traduzioni di testi classici, ha riscontrato delle differenze per il suo lavoro? Io ragiono sul prodotto testuale, come quello sia stato originato è relativamente interessante per me. Cambiano, ovviamente, le traduzioni. Quelle di Sanguineti sono notoriamente traduzioni molto segnate e anche molto contestate, di estrema difficoltà nella restituzione ma anche di grande piacere tecnico, da parte di chi le deve restituire, una volta che si sia trovato il bandolo della matassa. Dall’altra parte, invece, per me è sempre una gioia riscontrare una condivisione di interessi con i ricercatori del centro e, sottolineo, trovo generoso, da parte loro, donare una traduzione, perché donare una traduzione vuol dire dare nuova vita ad un testo. Parlando del suo lavoro di regia e del suo rapporto con gli attori: come li sceglie? Insomma, chi si può permettere di dare voce a questi testi? La scelta degli attori, in realtà, nasce da una riflessione congiunta tra me ed i responsabili del centro. È vero che leggere i classici, e soprattutto leggere questi classici, in genere si tratta di testi piuttosto impervi, richiede una tecnica, una conoscenza, una maestria di un certo tipo. Oltretutto, trattandosi di letture, i periodi effettivi di prove sono pochi e l’acustica di Santa Lucia non è ottima. In tal senso, è importante confrontarsi con attori che abbiano una loro dimestichezza con questi materiali. Penso a Mariangela (Melato, ndr) con tutta la sua frequentazione della tragedia antica, ma anche Orsini, Elisabetta Pozzi eccetera, sono tutti attori che hanno un rapporto molto forte con la scrittura antica. Ancora una volta, dunque, si tratta di condivisione, ma soprattutto di profondo lavoro e studio individuale, in tal senso sta pensando ad un messaggio da dare ai suoi studenti... Sì, certamente.


spettacoli

13 maggio 2010 • pagina 21

Cartolina da Cannes. Il film di Ridley Scott, che ieri ha dato il via al festival, ripercorre l’inizio della leggenda del famoso arciere

Il Robin Hood della porta accanto di Andrea D’Addio

A fianco, l’attore Russell Crowe nei panni di Robin Hood nell’omonimo film presentato ieri sera al Festival di Cannes. In basso, l’attrice italiana Giovanna Mezzogiorno e il regista Tim Burton, rispettivamente membro e presidente della giuria della rassegna cinematografica

CANNES. «Mister Tim Burton, quale è il suo film preferito tra i tanti vincitori passati della Croisette? E perché?». L’ultima domanda della conferenza stampa di presentazione della giuria del festival di Cannes, una curiosità che, se soddisfatta, avrebbe dato un’idea dei gusti dei prossimi assegnatori della Palma d’oro, è stata un vero e proprio scacco matto. Tim Burton ha sorriso, si è scusato per la sua mancanza di memoria, poi ha chiesto aiuto ai suoi colleghi, non ricevendo purtroppo alcun suggerimento. Lo stesso giornalista che aveva posto la questione, è corso in aiuto citando Taxi Drivers e Apocalypse Now, ricevendo solamente un tacito assenso dai giurati. «Il tempo a disposizione è finito» ha tagliato corto il moderatore dell’incontro, prima che il silenzio che aveva invaso la sala diventasse imbarazzante.

Strano per un cinefilo come l’autore di Edward Mani di Forbice e Alice in Wonderland, mancare ad una domanda del genere. E dire che l’organizzazione del Festival di Cannes gli ha reso l’accoglienza il più dolce possibile. Memore forse del successo di pubblico che a Venezia 2007 conseguì alla decisione di assegnare a Tim Burton il Leone alla carriera - schiere di ragazzine e fan in attesa fin dalla mattina solo per salutarlo sul tappeto rosso l’intero primo piano del Palais du Cinema è stato ridisegnato. Invece che il tradizionale legno, una serie di pannelli di cartongesso con i disegni dei vari personaggi del regista. Un colpo d’occhio non indifferente che richiama la recente mostra dedicata al regista al Moma di New York. Vedremo se nei prossimi giorni Tim Burton saprà riscattarsi, certo è che l’inizio non è stato dei più sorprendenti, come, forse erroneamente, ci si aspetta sempre da lui. Poco prima, li suoi

pensieri avevano risposto in maniera tradizionale a domande altrettanto convenzionali. «Che tipo di film premieremo? Quello che saprà sia coinvolgerci da un punto di vista emotivo sia colpirci intellettualmente. È importante che un film ci trasmetta qualcosa». E poi, affrontando il tanto attuale discorso del cinema tridimensionale: «Sì, penso che prima o poi troveremo un film in 3D anche nella selezione ufficiale del Festival. Un tempo si diceva che il cinema d’animazione aveva dei limiti insuperabili, che sarebbe rimasto cosa per bambini. Il presente ci dimostra quanto si sbagliava all’epoca. Accadrà probabilmente la stessa situazione per il cinema 3D.

«Il mio personaggio - ha dichiarato Russell Crowe - è molto diverso da quelli precedenti, è più “fisico”. Ho prodotto il film proprio perché volevo si parlasse dell’uomo prima ancora del mito»

tori, chi si arricchisce illegalmente, manipola o controlla i media». E dei vecchi Robin Hood, l’attore australiano cos’altro poteva dire se non: «Li ho visti tutti e apprezzati uno ad uno per determinate ragioni. Il mio personaggio è molto diverso da quelli precedenti, è sicuramente più fisico e proprio su questo abbiamo lavorato sul set Ridley Scott ed io. Ho prodotto il film proprio perché volevo che finalmente si parlasse dell’uomo prima del mito, un aspetto che non risultava nelle precedenti trasposizioni». La chiusura invece è da pendolino di Maurizio Mosca: «Il mondiale? Io tifo Australia, ma lo vincerà la Spagna, anche se sia il Portogallo di Cristiano Ronaldo sia l’Inghilterra di Fabio Capello hanno ottime possibilità. I calciatori oggi sono, per il pubblico, i gladiatori di duemila anni fa. Suscitano entusiasmo come se fossero degli eroi».

Scott è riuscito ad essere presente solo grazie ad un collegamento in video conference. Il ginocchio a cui si è operato la scorsa settimana infatti sta avendo tempi di recupero superiori al previsto. Purtroppo per il regista di Blade Runner, anche la connessione in streaming che doveva portare il suo viso e le sue parole in Costa Azzurra non ha funzionato bene e così nulla si è sentito di ciò che aveva da dire, se non le scuse di rito. Al contrario a Russell Crowe è riuscito un bel parallelismo tra il suo personaggio e la situazione politico-economica attuale. «Se avesse vissuto i nostri giorni, Robin Hood sarebbe stato sicuramente a Wall Street a combattere contro speculatori, truffa-

Coda per la continua polemica tra il ministro Sandro Bondi e il Draquila di Sabina Guzzanti, in passaggio al Festival di Cannes proprio oggi. All’associazione dei Cento Autori che ne ha chiesto le dimissioni in caso di mancato passaggio sulla Costa Azzurra, il primo rappresentante istituzionale politico della cultura italiana, il ministro Sandro Bondi, ha risposto di «non volere rendere omaggio ad un film che ha il solo merito di dileggiare l’Italia». Nel frattempo la stampa estera già parla - così si legge sul numero di ieri di Screen, una delle riviste cinematografiche internazionali - «di un vero e proprio calcio al premier italiano». La conferenza stampa rilancerà sicuramente la questione con nuove accuse, repliche e ribattute. Italiani: non produrremmo tanti film di qualità, ma sappiamo sempre essere al centro dei riflettori.

L’importante è che ci siano sempre storie da raccontare, il resto è tecnica e come tale non può essere categorizzato all’interno di un genere». Prima di lui la nostra Giovanna Mezzogiorno aveva manifestato la propria soddisfazione per l’essere stata invitata alla Croisette, specificando come il fatto di non avere mai avuto contatti né professionali né personali con gli altri giurati fosse per lei «un ulteriore motivo di curiosità, oltre a quella normale riposta nei film da visionare».

«Il fatto poi che la giuria sia composta numericamente da una maggioranza di uomini - ha continuato la Mezzogiorno - non penso che avrà una conseguenza specifica nell’assegnazione dei vari premi». Per quanto

riguarda invece l’ambito prettamente cinematografico, da vedere c’è stato solo il film d’apertura. Parliamo quindi del Robin Hood della premiata ditta Ridley Scott-Russell Crowe. Era dai tempi de Il Gladiatore che i due non lavoravano assieme in un film in costume (lo hanno fatto nel frattempo altre tre volte spaziando dalla commedia al thriller) e le aspettative sugli incassi - la pellicola esce in contemporanea mondiale oggi stesso - sono quindi altissime.

La storia ripercorre l’inizio della leggenda dell’arciere che rubava ai ricchi per dare i poveri. Un sequel è dietro l’angolo. In conferenza stampa


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Tolleranza zero e controllo continuo per coloro che violano l’infanzia Tolleranza zero contro la pedofilia. Bisogna mantenere sempre alta la guardia contro chi viola l’integrità dell’infanzia, commettendo un reato fra i più abietti e intollerabili. Purtroppo molte ricerche ci dicono che la pedofilia e soprattutto la pedopornografia sono fenomeni in crescita nel nostro Paese. A questo riguardo va tuttavia segnalato l’impegno davvero senza quartiere profuso dall’attuale esecutivo, e in particolare dal ministro Carfagna, nella battaglia in difesa dei bambini. Un impegno che, grazie anche al lavoro prezioso svolto dalle donne del Pdl, ha portato il nostro Paese a disporre di una delle legislazioni più avanzate e severe contro la pedofilia. Non appena la Convenzione di Lanzarote entrerà in vigore, infatti, nel nostro ordinamento saranno introdotte importanti novità come il reato di adescamento telematico. Inoltre verranno inasprite le pene e raddoppiati i termini di prescrizione per i reati contro i minori e sarà introdotto il gratuito patrocinio, anche in deroga ai limiti di reddito, per le vittime di abusi.

Barbara

E SE L’ISLAM FOSSE DESTINATO A DOMINARE L’EUROPA, CARO NIBALE? Anni fa lessi un articolo in cui si tentava una previsione sulla popolazione mondiale nel 2400! Assumendo vari dati, si concludeva, che ci sarebbero stati 2 miliardi di cinesi, 3 di indiani, 9 di musulmani in Africa e Asia occidentale e... mezzo miliardo di bianchi. Quanto Gianfranco Nibale dice in termini demografici si accorda con quanto i demografi sanno da tempo. E tuttavia la realtà sarà certo diversa da queste previsioni, perché una terza guerra mondiale non è impossibile. L’idea che Cina e India tornino al vertice dell’ economia e della scienza, non piace a qualcuno. Dire che gli adepti dell’Islam siano orientati alla violenza in generale è frutto di ignoranza. L’unica violenza perpetrata nel mondo islamico per motivi religiosi è quella dei wahabiti sauditi contro gli sciiti della costa ara-

bica del Golfo Persico: mezzo milione di morti. 200.000 curdi furono massacrati da Saddam perché potenziali socialisti o comunisti. E i tanti cristiani massacrati a Timor, nella totale indifferenza dell’Occidente, lo furono per motivi politici. E che il senso della colpa manchi nell’Islam, è ancora falso, Maometto chiedeva perdono 70 volte al giorno, Gesù mai. Ed è Gesù per l’ Islam il sigillo della santità - e colui che giudica i morti - Maometto è solo il sigillo della profezia. E ogni volta che il nome di Gesù è nominato, i musulmani lo fanno con il massimo rispetto; in Occidente è diventato un’esclamazione, spesso legata a rabbia o ostilità. Vorrei sapere quale è la percentuale di musulmani che conoscono integralmente il Corano, e quella dei cristiani che hanno letto i Vangeli canonici. Non mi stupirei che ci fosse un rapporto di 10 a 1. Tornando indietro nella storia, l’I-

Una cartolina dall’Angola La tortuosa strada che si arrampica sui monti della “Serra de Leba” è uno dei panorami più fotografati di tutto l’Angola. Una “cartolina obbligatoria” resa ancora più spettacolare da questo scatto notturno

slam si è espanso attorno al Mediterraneo quasi senza colpo ferire. La grande violenza è avvenuta in India, e chi gli inglesi hanno usato nell’amministrazione dell’impero indiano: non gli indù, ma i musulmani.

Emilio Spedicato

I NOSTRI FIUMI, IL NOSTRO AMBIENTE I fiumi modellano il nostro paesaggio. La vegetazione si radica sul fondo e diventa più fitta vicino alla riva, proteggendola. Tante specie di animali hanno il loro am-

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

biente nelle acque dolci e pulite del fiume. Molte organizzazioni naturalistiche ne controllano lo stato di salute. Occorre realizzare e aumentare parchi (per esempio i Plis, parchi locali di interesse sovracomunali) a tutela di queste oasi di vita, siano parchi naturalistici che a interesse storico, paesaggistico, culturale; e proteggerli dai vari fattori inquinanti. Anche il fiume Oreto di Palermo necessita dell’istituzione di un parco, il Parco dell’Oreto.

Domenico

da ”Daily Star of Lebanon” del 12/05/10

La crisi vista da Beirut di Osama Habib ’onda della crisi greca ed europea potrebbe arrivare anche in Libano. Ci potrebbero essere degli effetti compositi anche sull’economia di uno dei più importanti centri finanziari del Medioriente. «Da una parte la svalutazione dell’euro, rispetto al dollaro, potrebbe rendere più convenienti le importazioni di beni dall’Europa. Ma un economia debole sul continente europeo potrebbe sortire delle conseguenze negative per il nostro export» ha affermato Louis Hobeika, docente di economia e finanza alla Notre Dame university. La paura è anche legata alla possibilità che molti Stati europei investiti dalla crisi possano essere costretti a ridurre la loro collaborazione con Beirut nel campo dei progetti sociali ed economici. La crisi greca ha costretto l’Unione europea a creare un fondo salva-Stati, dotato di quasi mille miliardi di dollari, proprio per evitare un crollo del sistema euro. Passato il primo momento di euforia per il grande piano di salvataggio messo in piedi dai Paesi Ecofin, i mercati hanno ripreso a speculare sul settore azionario e sull’euro.

L

Non si hanno garanzie sulla successiva fase di rientro dagli squilibri finanziari ed economici che hanno innescato la crisi greca e che potrebbero investire anche altri membri della Ue. Insomma rimango dubbi per l’insolvenza a lungo termine dei Paesi indebitati. I contraccolpi negativi sono rimbalzati a livello globale appena i governi si sono messi al lavoro per evitare un altro crack finanziario come quello del 2008. Comunque a breve termine il Libano potrebbe avere qualche vantaggio nell’importazione di merci visto che gran parte arrivano dall’Europa, grazie a un cambio più fa-

vorevole. Ma esistono timori fondati che il contagio dalla Grecia possa passare ad altri Paesi finanziariamente deboli, in questo caso il Libano non sarebbe immune.

«Il debito di Atene ammonta al 113 per cento del prodotto interno lordo, quello libanese è del 148 per cento. Questo fatto dovrebbe far suonare un campanello dall’allarme nel nostro Paese. Non possiamo fare affidamento solo sulle rimesse dall’estero. Dobbiamo agire in maniera appropriata per evitare future crisi» l’analisi dell’ex ministro delle Finanze George Corm. Il governo di Beirut è sin qui riuscito a gestire bene tutte le crisi finanziarie che si sono succedute, da quelle nate negli stati Uniti a quelle che hanno investito il vecchio continente e i Paesi arabi ricchi di petrolio, facendo leva quasi esclusivamente sulla notevole massa di denaro che arrivava dai suoi cittadini residenti all’estero. Un altro punto di forza dell’economia libanese è che il proprio mercato finanziario è meno influenzato dall’altalena degli indici di borsa internazionali. In più, gran parte del debito pubblico è in mano a banche nazionali. «Questa volta è una fortuna per noi essere meno coinvolti nei meccanismi internazionali, ma non dobbiamo dare nulla per scontato» ha aggiunto Corm. L’ex ministro ha anche sottolineato come l’eccesso di liquidità non sia necessariamente un vantaggio visto che «in Europa il

costo del denaro è molto vicino allo zero, invece il governo di Beirut paga sul proprio debito un interesse che oscilla dall’8 al 9 per cento». Dello stesso avviso anche Nassib Ghobril, analista alla Byblos bank, per cui il governo dovrebbe darsi da fare nel varare le «riforme necessarie» e non fare affidamento solo sulle rimesse dall’estero. «Non siamo ancora nei guai. Ma se la crisi in Europa dovesse prolungarsi potremmo esserne colpiti indirettamente» ha aggiunto. È poi da verificare se la crisi non influenzi direttamente la capacità dei libanesi che lavorano in Europa di mandare soldi a casa. L’analista della Byblos dubita che le società e le banche europee possano lasciare il mercato libanese, anche nel caso la crisi dovesse picchiare forte. «Sono veramente poche le società europee – conclude Ghobril – ad avere interessi in compagnie libanesi, ma anche se così non fosse, dubito che abbandonerebbero un mercato così remunerativo».


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Devo a te tutta la felicità della mia vita Sento con certezza che sto per impazzire di nuovo. Sento che non possiamo attraversare ancora un altro di quei terribili periodi. E questa volta non ce la farò a riprendermi. Comincio a sentire le voci, non riesco a concentrarmi. Così faccio la cosa che mi sembra migliore. Mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni senso per me tutto ciò che una persona può essere. Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici, finché non è sopraggiunto questo terribile male. Non riesco più a combattere. Lo so che sto rovinando la tua vita, che senza di me tu potresti lavorare. E lo farai, lo so. Vedi, non riesco nemmeno ad esprimermi bene. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo a te tutta la felicità che ho avuto nella mia vita. Hai avuto con me un’infinita pazienza, sei stato incredibilmente buono. Voglio dire che... lo sanno tutti. Se qualcuno avesse potuto salvarmi questo qualcuno eri tu. Tutto se n’è andato via da me, tranne la certezza della tua bontà. Non posso più continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto siamo stati noi Virginia Woolf a suo marito

LE VERITÀ NASCOSTE

Algeria, il berbero si insegna via cd ALGERI. Un docente algerino ha preparato un cd rom per insegnare ai bambini la lingua berbera (tamazight), l’antico idioma dei popoli maghrebini, ancora parlato in alcune zone della Libia, della Tunisia e dell’Algeria, insieme all’arabo ufficiale, e da circa la metà dei marocchini. Insegnante e scrittore, Abdelmalek Meniche, ha detto di avere sentito «l’obbligo morale di portare a conoscenza dei più piccoli una lingua che non può e non deve morire». E ha aggiunto: «Per cominciare lo studio della lingua berbera ho pensato a un nuovo metodo che fosse efficace e motivasse i bambini. È stato concepito per essere appreso in modo del tutto naturale, dal momento che dà molto spazio ai dialoghi, senza tuttavia ignorare la grammatica». Messa al bando per anni in Algeria, la lingua berbera sta vivendo un momento di rinascita, anche per quanto riguarda le manifestazioni artistiche. Ma rimane comunque una delle lingue in pericolo del mondo attuale. Alcuni linguisti sostengono che almeno 3000 delle 6000-7000 lingue del mondo si perderanno prima del 2100. Esistono due posizioni di base sulle implicazioni di ciò.Una posizione sostiene che ciò è problematico e che l’estinzione linguistica dovrebbe essere prevenuta, anche a costi significativi. Vengono citate diverse ragioni, tra cui: un numero enorme di lingue rappresenta un territorio vasto e ampiamente inesplorato su cui linguisti, cognitivisti e filosofi possono tracciare le piene capacità ed i limiti della mente; le lingue incarnano conoscenze locali di culture e sistemi naturali delle regioni dove vengono parlate; le lingue servono come prova per capire la storia umana. La posizione dell’altrà estremità sostiene che meno lingue implicano comunicazioni migliori.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

LA RAI RIDOTTA A STRUMENTO DELLA CONGLOMERATA BERLUSCONI CONTRO SKY Il problema nella concorrenza nel mercato televisivo italiano è... Murdoch e Sky Italia. La dirigenza Mediaset si oppone allo sbarco anticipato della tv satellitare anche sulla piattaforma del digitale terrestre e lamenta la non concessione di Sky alla pay tv Mediaset Premium dei diritti a trasmettere sul digitale i mondiali di calcio. È guerra aperta, anche di carte bollate. Ma la presunta vittima è tale? Riepiloghiamo: c’è un sistema di potere che ruota attorno a quella conglomerata che vede a capo il nostro presidente del Consiglio. La famiglia Berlusconi controlla il gruppo Mediaset; nell’esecutivo l’uomo che detta le regole del settore è Paolo Romani (vice-ministro allo Sviluppo Economico nonché uomo di fiducia del premier); l’Autorità di controllo “indipendente” è l’Agcom, un cui membro (Giancarlo Innocenzi) è risultato essere dipendente dal capo del governo. La Rai rinuncia a qualche milione di euro e non concede a Sky la possibilità di trasmettere sulla piattaforma satellitare i canali Rai. Quest’ultima e Mediaset, insieme, creano TivuSat; il governo aumentata l’Iva sulla tv a pagamento. Mediaset Premium conosce un boom, e arriva ad avere 4,3 milioni di schede attive; Sky Italia smette di crescere, e gli abbonati alla tv satellitare calano; il 53% degli investimenti pubblicitari italiani finiscono alle televisioni. Indiscrezioni rivelano che presto la Rai, a corto di soldi, attiverà anche canali a pagamento da diffondere su tutte le piattaforme esistenti, meno una. Indovinate quale? Il digitale terrestre naturalmente.

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

APPUNTAMENTI MAGGIO 2010 LUNEDÌ 17 ORE 11.30, SALERNO, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI, AULA SP/6

Convegno: “Il Presidenzialismo all’italiana”. Conclude l’onorevole Ferdinando Adornato GIOVEDÌ 20 ORE 16, TODI, HOTEL BRAMANTE

Consiglio Nazionale Circoli liberal

SEMINARIO TODI 2010 20, 21 E 22 MAGGIO - TODI - HOTEL BRAMANTE

“VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” - Per difendere l’unità d’Italia e ricostruire la Repubblica Inizio lavori giovedì 20, ore 16,30 SEGRETARIO

Domenico Murrone

Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak

FACCIAMO DELL’ASSISE UN VERO PALAZZO DI VETRO L’elezione del segretario regionale dell’Udc a presidente del consiglio regionale della Calabria è per noi motivo di orgoglio e di fierezza. All’on. Francesco Talarico, pertanto, giungano gli auguri più sinceri e un profondo sentimento di stima e affetto, da parte del coordinatore regionale, Giuseppe Idà, e dell’intero movimento giovanile dell’Udc calabrese. Siamo sicuri e certi che l’on.Talarico saprà svolgere al meglio quello che è un ruolo di fondamentale importanza per l’attività politica della nostra regione. Una funzione assunta con alto senso di responsabilità e con quell’umiltà e spirito di servizio che ha sempre contraddistinto la carriera politica del nostro segretario regionale. E non è un caso che l’on. Talarico, nel corso del suo intervento di insediamento, abbia voluto ricordare la figura del compianto on. Franco Fortugno, già vice presidente dell’assise di palazzo Campanella; così come attestati di stima, per il lavoro svolto, sono stati rivolti ai suoi predecessori: Giuseppe Scopelliti, Luigi Fedele, Giuseppe Bova. Segno emblematico di imparzialità e di correttezza istituzionale, degno della massima espressione di un’assemblea parlamentare all’interno della quale, maggioranza e opposizione hanno pari diritti. In tutto ciò, è nostro dovere focalizzare l’attenzione su un argomento che ci sta a cuore: la trasparenza. In tal senso, chiediamo al neo eletto presidente di farsi già da ora promotore affinché la sede dell’assise regionale possa divenire un vero palazzo di “vetro”, garantendo a tutti i cittadini, anche senza formale invito e sempre e comunque nel pieno rispetto delle regole sulla sicurezza, il diritto di poter assistere alle sedute di consiglio. Un modo essenziale per ridurre, maggiormente, le distanze che, negli anni, si sono venute a creare fra i calabresi e la propria classe politica. Le condizioni per attuare e per concretizzare il cambiamento ci sono e tutti hanno il preciso compito di non deludere le aspettative del popolo. Giovanni Folino G I O V A N I UD C CA L A B R I A

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

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ULTIMAPAGINA Aste. Più di 28 milioni di dollari per il quadro-icona di Jasper Johns appartenuto al celebre scrittore

Chrichton e “Flag” fanno di Velia Majo uando le porte di Christie’s al numero 20 di Rockfeller Center a Manhattan si sono aperte alle 5.45 martedì pomeriggio, la crème de la crème internazionale di collezionisti e art dealer si sono avvicinati con fare deciso al banco del foyer per ritirare le palettine pronti, nell’eventualità, ad alzarle in segno di against nel caso qualcuno fosse stato lì pronto a soffiare l’affare. C’era molta attesa per l’asta PostWar and Contemporary Art and Work from the Collection of Michael Crichton, lo scrittore statunitense autore di bestseller come Jurassic Park, Il mondo perduto e Andromeda, oltre che sceneggiatore della serie tv ER medici in prima linea, scomparso il 4 novembre 2008. Laureato in medicina, Crichton si dedicò presto alla scrittura e con i soldi ottenuti dalla vendita dei suoi libri, - Andromeda è stato scritto quando aveva soli 27 anni - aveva realizzato il suo sogno più grande: quello di viaggiare e comprare arte. Come fece quando acquistò nel 1973, direttamente dal suo amico Jasper Johns (che compirà 80 anni sabato prossimo), il leggendario Flag, eseguito tra il 1960 e il 1966, (encaustic and printed paper collage on paper laid down on canvas) dipinto a encausto, una tecnica antica in cui il pigmento è sospeso nella cera, si legge nella nota che accompagna il dipinto. Michael Crichton aveva anche scritto per Flag la voce del catalogo della mostra dedicata a Jasper Johns dal Whitney Museum of American Art nel 1977.

milioni di dollari. Una tela di Pablo Picasso, Femme et fillettes, è stata battuta a 6,5 milioni di dollari e l’icona pop di Roy Lichtenstein Girl in Water del 1965 battuta per 1.874,500 dollari. Vase of Flowers, uno specchio inciso del 1988 di Jeff Koons valutato 700 mila dollari, è stato battuto a 2.322,500 dollari. Battuto anche un quadro di Ed Ruscha, Voltage, e Trapeze di Robert Rauschenberg, appartenente a Larry Gagosian, l’art dealer di Manhattan che ha fatto un’offerta maggiore rispetto a un cliente al telefono aggiudicandoselo per 5,6 milioni di dollari. Dei 79 lotti presentati, solo 5 quadri sono rimasti invenduti. Ma quando Christie’s si è aggiudicata l’esclusiva per la collezione di Michael Crichton, alla casa d’asta sono stati affidati altri capolavori di Andy Warhol provenienti da diversi collezionisti. La serata, la prima dedicata alla Post-war and Contemporary Art, è stata dominata da collezionisti americani a differenza della scorsa settimana, durante l’asta di Impressionist and Modern Art, dove sono stati collezionisti e art dealer europei, asiatici e del Medio Oriente a fare da padroni.

Q

Presentato da Christie’s con il lotto numero 7 del catalogo, Flag, grande soltanto 45 per 68 centimetri, era stimato tra i 10 e 15 milioni di dollari, ma alla fine è stato battuto per 28,642,500 milioni di dollari, ed è stato conteso da cinque clienti di Christie’s, alcuni in sala altri al telefono. Il quadro è stato acquistato da Richard Rossello, un art dealer di Bryn Mawr in Pennsylvania, specializzato in American paintings, che è stato tutto il tempo al telefono e ha comprato il quadro per un cliente sconosciuto. La vendita della serata ha avuto un successo clamoroso sbaragliando le aspettative per un incasso complessivo di 93,323,500 dollari. La percentuale di ven-

duto è stata pari al 96 per cento. Tra i capolavori della collezione il dipinto di Robert Raushemberg Studio Painting, stimato 6-9 milioni di dollari, è stato battuto per 8,7

Presenti in sala anche il fashion designer Marc Jacobs, il magnate Peter Brand e il superagente di Hollywood Michael Ovitz. In totale erano 31 i lotti provenienti dalla collezione di Michael Crichton e poi l’asta ha proseguito con altri 48 capolavori. Un Yves Klein battuto per 12,4 milioni di dollari. L’Achrome di Piero Manzoni, l’autoritratto di Andy

SCINTILLE Tutto esaurito da Christie’s a New York per la collezione di arte contemporanea dell’autore di “Jurassic Park”.Altissima la percentuale del venduto. Segno che i tempi di crisi stanno finendo o che l’arte è diventata un bene-rifugio?

Warhol, Jean Michel Basquiat con Man Struck by Lightning, e Silver Liz, ritratto di Liz Taylor di Andy Warhol. La serata in totale ha fatto incassare 231,9 milioni di dollari e almeno a New York sembra che la crisi nel mondo dell’arte sia superata. «Siamo molto soddisfatti di questa serata - ha affermato Amy Cappellazzo, la responsabile di Christie’s per Post War and Contemporary Art - il mercato dell’arte dopo la crisi si sta riprendendo, ma la richiesta è diventata sicuramente più sofisticata. I collezionisti sono più esigenti e fa molta tendenza il fatto che la collezione, come quella di questa sera appartenuta a Michael Crichton, provenga da un collezionista famoso». Il fatto che il quadro Flag sia appartenuto a un solo proprietario ha contribuito ad aumentarne la stima: «Non si può spiegare la potenza di questo quadro - ha spiegato ancora Amy Cappellazzo - Flag è un’icona e talvolta le immagini sono più importanti delle parole». Eli Broad, il finanziere di Los Angeles, anche lui presente all’asta, ha commentato che l’arte è sempre più considerata come un bene rifugio: «Nessuno vuole soldi in carta, tutto quello che vogliono è solo ed esclusivamente arte».


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