he di cronac
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Per ogni cosa ci sono due parole, una che ingrandisce e una che rimpicciolisce
Robert L. Stevenson
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 14 MAGGIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Battaglia politica sulla lista delle case ristrutturate dall’imprenditore romano. E Mancino protesta: «Io non ho avuto regali»
La maggioranza ha paura Cresce la bufera sullo scandalo Anemone. L’austerity comincia a colpire le Regioni (più tasse?) Ora persino Feltri vorrebbe l’Udc nell’esecutivo. Ma non ha ben capito la proposta di Casini... EQUIVOCI
PARALISI
Governo di salute pubblica: non un posto in più a tavola
Anche a Tremonti i conti del federalismo non tornano
di Giancristiano Desiderio
di Gianfranco Polillo
rima un coro di no, adesso se non siamo al coro di sì poco ci manca. Si sa, i tabù sono fatti per essere toccati e il tabù dell’autosufficienza della maggioranza di governo è stato toccato, eccome se è stato toccato. Basterebbe fare un solo nome: Vittorio Feltri. Il direttore di coloro che non prendono ordini da Berlusconi ha - guarda caso la stessa idea di Berlusconi sul nuovo rapporto che bisogna avere con Casini. a pagina 2
rimi incerti passi, lungo la strada del federalismo e prime forti riserve. Le perplessità avanzate non sono di poco conto. E riguardano non solo i costi (ignoti) di questo federalismo, ma anche le prime regole stabilite. Come quelle sul federalismo fiscale. Perché poi il rischio è che alla fine lo sbandierato federalismo porti più svantaggio che benefici agli enti locali. Senza una cornice normativa previsa. a pagina 4
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Dopo le polemiche casalinghe «Draquila» infiamma Cannes
Sabina & Silvio: una sfida tra due divi dello show business
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Marco Vitale racconta il suo “Manifesto”
Milano chiama Italia «Serve un nuovo patto» «Basta con il sistema delle affiliazioni», dice l’economista,«solo con lo spirito di comunità si può ricostruire il Paese» Errico Novi • pagina 3
di Riccardo Paradisi
ROMA. Sarà perché fischia ancora forte il vento della crisi greca e il rischio del contagio – per ora scongiurato – fa paura anche a Roma. Sarà per il timore che le relazioni pericolose della classe politica con il costruttore Anemone possano trasformarsi in qualcosa che assomiglia molto a una nuova Tangentopoli. Sarà perché le riforme senza larghe intese appaiono semplicemente impossibili, se non altro perché la loro impopolarità scoraggerebbe qualunque forza politica ad assumersene da sola l’onere e le responsabilità. Sarà per tutti questi motivi ma insomma, l’ipotesi di un governo di larghe intese o di responsabilità nazionale lanciata da Pier Ferdinando Casini sembra diventare il centro del dibattito politico italiano. a pagina 2
Fila alla proiezione e commenti positivi della stampa internazionale. Poi l’attrice attacca il premier e annuncia: «Brinderò a Bondi» di Andrea D’Addio
Dossier Le liti su IntesaSanpaolo sono l’esito di una Grande Metamorfosi
Così Torino ha perso i suoi padri i sono molto offesi, i benpensanti sabaudi, dello slogan usato da una compagnia low cost per propagandare, su cartelloni 6x3, i suoi servizi: «La città si squaglia. Squagliatela Torino» con tanto di gianduiotto in liquefazione. Qualcuno ha visto in questa pubblicità un’efficace metafora dello stato catatonico in cui è precipitata dopo la sbornia olimpica.
aro direttore, la torinesità è un soggetto vaporoso, astruso per i giornali, che nelle settimane scorse hanno imparato a maneggiarla al massimo come dato geografico-creditizio.
CANNES. Sulla Croisette è stato il giorno di Sabina Guzzanti, arrivata ad animare, finalmente, un festival partito molto in sordina. Precedeuta dal rifiuto del ministro Bondi ad andare in Francia per protestare contro la lesa italianità del suo Draquila, Sabina Guzzanti s’è presentata come una vera e propria diva hollywoodiana, con tanto di sfilata (e flash) sul lungomare. Poi, folla al film, applausi a scena aperta e reazioni molto positive alla proiezione. Cui è seguita una conferenza stampa velenosissima. S’è parlato di regime, di libertà vigilata, di aquilani umiliati e usati dal premier per far spettacolo. Fino alla battuta conclusiva: «Stasera, champagne! Brinderò al ministro Bondi».
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Viaggio nella città che non è più aristocratica, azionista, fordista di Bruno Babando
Il credito e il rispetto della parola data
Banchieri piemontesi falsi e cortesi
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seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO
di Alberto Mingardi
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
92 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 14 maggio 2010
Paure e aperture. L’esecutivo di responsabilità repubblicana definito inevitabile da Casini comincia prendere forma nel dibattito
Anemone o Papandreou
Il vento della crisi greca e le relazioni pericolose della classe politica con il mondo immobiliare riducono l’autosufficienza della maggioranza di Riccardo Paradisi
ROMA. Sarà perché fischia ancora forte il vento della crisi greca e il rischio del contagio – per ora scongiurato – fa paura anche a Roma. Sarà per il timore che le relazioni pericolose della classe politica con il costruttore Anemone possano trasformarsi in qualcosa che assomiglia molto a una nuova Tangentopoli. Sarà perché le riforme senza larghe intese appaiono semplicemente impossibili, se non altro perché la loro impopolarità scoraggerebbe qualunque forza politica ad assumersene da sola l’onere e le responsabilità. Sarà per tutti questi motivi – cui si aggiunge, per soprammercato, anche la difficoltà di ricomporre il dissidio tra Berlusconi e Fini– ma insomma, l’ipotesi di un governo di larghe intese o di responsabilità nazionale, definito prima o poi ”inevitabile”domenica scorsa dal leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, sembra incarnarsi sempre di più nel dibattito politico italiano.
Vediamo. Martedì è il presidente della Ferrari Luca Cordero di Montezemolo a rilanciare l’esigenza di unità nazionale. La crisi durerà e la speculazione, come la corruzione, non si combattono in un giorno, ragiona Montezemolo, serve dunque una grande unità del Paese: «Il senso dell’unità d’intenti, della difesa del Paese, lo sforzo verso l’unità è un dovere da parte di tutti mettendo da parte le polemiche e le contrapposizioni». Passa un giorno ed è l’esponente del Pdl Beppe Pisanu a riprendere il discorso. Il problema – sostiene il presidente della Commissione antimafia – non è la formula di governo ma la convergenza politica sulle cose da fare. Per questo Pisanu accoglie la proposta di Casini su un governo in cui è possibile immaginare «convergenze ampie per fronteggiare la crisi generale con misure coraggiose e severe per le quali è indispensabile un vasto contesto sociale e politico». Quali misure? «Il taglio della spesa pubblica o l’aumento delle tasse, per mantenere l’obiettivo di ridurre debito pubblico e deficit». A questa teoria di aperture alle larghe intese s’aggiunge anche il coordinatore del Pdl Ignazio la Russa. Il quale però non parla di un governo di responsabilità nazionale, si limita piuttosto ad auspicare l’allargamento della maggioranza all’Udc. E a farlo con l’ambigua formula che Massimo D’Alema usò da sinistra per la Lega: «L’Udc è una costola del Pdl» dice La Russa, per cui viene naturale al centrodestra cercare intese con Casini. Ma al di là del riciclaggio di vecchie formule quella di La Russa è la smentita della teoria dell’autosufficienza della maggioranza. A spingersi oltre La
Il significativo equivoco “editoriale” di Vittorio Feltri
Governo d’emergenza, non un posto a tavola di Giancristiano Desiderio rima un coro di no, adesso se non siamo al coro di sì poco ci manca. Si sa, i tabù sono fatti per essere toccati e il tabù dell’autosufficienza della maggioranza di governo è stato toccato, eccome se è stato toccato. Basterebbe fare un solo nome: Vittorio Feltri. Il direttore di coloro che non prendono ordini da Berlusconi ha - guarda caso - la stessa idea di Berlusconi in merito al nuovo rapporto che bisogna avere con Pier Ferdinando Casini. Abbiamo nelle orecchie le tante prediche di Feltri su Casini che è un guastafeste, che è un ribaltonista, che vuole fare solo pasticci e inciuci e, insomma, avevamo capito che Feltri - almeno lui - avesse le idee chiare. Invece, oplà, ecco la capriola: anche lui ha cambiato idea e ha ora lo stesso pensiero stupendo di Berlusconi: Casini, quello del voto inutile, è utile. Ma c’è un ma.
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Il governo tecnico o istituzionale o di unità nazionale (ripetiamo quanto scritto ieri: chiamatelo come volete voi) non serve per fare la stampella al governo Berlusconi che, dopo lo scandalo delle case, non sembra più avere una sua casa sicura. Il governo indicato da Casini deve servire prima di tutto al Paese o, se è possibile usare una parola desueta ma non campata in aria visto che stiamo già festeggiando i 150 anni di Unità, alla Patria. Ieri anche Giuseppe Pisanu ha in pratica detto sì all’ipotesi di Casini che a questo punto comincia a diventare qualcosa di più di un’ipotesi. La forza di questa idea è nelle cose stesse: quando Casini l’ha avanzata, solo do-
menica scorsa, ancora non era esploso lo scandalo legato al nome del costruttore Anemone. Il governo, insomma, era ancora ben saldo in sella. Ora, invece, l’esecutivo sostenuto dalla più ampia maggioranza parlamentare di sempre vacilla perché la sua qualità politica da una parte e la sua capacità operativa dall’altra sono inversamente proporzionali ai suoi numeri in Parlamento. Berlusconi lo sa e guarda oltre i confini del suo debole Pdl. Ma proprio qui c’è il “ma”già menzionato. Il governo indicato da Casini non è, non può essere l’allargamento dei confini della maggioranza numerica e politica del Pdl più la Lega. Il governo nazionale deve nascere a partire da un nuovo patto che le forze politiche e sociali si impegnano a onorare davanti al capo dello Stato e alle Camere. E questo nuovo patto ha senso se si fanno alcune decisive cose: riforme sociali e istituzionali. Per essere ancora più chiari: le priorità del governo nazionale sono la riforma del welfare, il ridisegno del fisco e del sistema elettorale, non certo il federalismo pasticciato così come è stato pensato fin qui. Ecco la questione per eccellenza: se il governo nazionale non ha questa caratteristica di fondo è meglio non farne nulla. È meglio lasciare tutto com’è e vedere come va a finire il brutto film berlusconiano. Ma il Paese se lo può permettere?
Le cronache raccontano di un presidente del Consiglio deluso e preoccupato. Deluso perché si aspettava dai suoi ministri e dai suoi uomini un comportamento più corretto e molto meno affaristico; preoccupato perché un governo con nomi e cognomi presenti nella lista di Anemone non è più un governo sostenibile. È fin troppo evidente: la situazione è scappata di mano. Forse, Berlusconi potrebbe fare una cosa: dare uno sguardo ancora una volta ai sondaggi e poi approfittare della sua popolarità per aprire un nuovo corso in nome dell’interesse nazionale. Provi a fare lo statista, magari dopo quindici anni gli riesce.
Russa è addirittura Vittorio Feltri, l’ultrà del berlusconismo decisionista. In un lungo editoriale sul Giornale Feltri invita Pierferdinando Casini a rientrare nella maggioranza di governo. Proponendo al leader dell’Udc «alcune poltrone dotate di buone leve di comando». Per far digerire alla Lega l’ingresso dell’Udc nel governo poi secondo Feltri basta mettere come contropartita il federalismo fiscale. Aperture anomale nella forma, ma che hanno fatto parlare di trattative in corso tra Casini e Berlusconi per un allargamento dell’attuale maggioranza. Un equivoco, perché il governo di responsabilità nazionale proposto da Casini non è l’espansione dell’attuale centrodestra al centro, è un nuovo governo di ampie convergenze. «Io con Berlusconi? È solo gossip giornalistico» precisa infatti lo stesso Casini smentendo le indiscrezioni di stampa secondo le quali sarebbero in atto tentativi di cooptazione, nei suoi confronti, da parte del presidente del Consiglio: «Quello che ho letto non è nello stato delle cose, precisa il leader Udc». Un nuovo governo di salute pubblica dunque a cui da sinistra Bersani non può dire esplicitamente di si, e infatti dice formalmente ”no”ma a cui da pieno assen-
Intanto Fini marca le differenze: «Non ho nessuna intenzione di dimettermi e non credo alla marmellata politica. Farò valere le mie posizioni» so il deputato del Pd Matteo Colaninno, che condivide la proposta di un governo di responsabilità repubblicana lanciata da Casini: «Davanti alla crisi economica e alle decisioni da prendere che imporranno ”lacrime e sangue” servirà un’esecutivo con un’amplissima maggioranza».
Intanto si acuiscono le tensioni all’interno dei due fronti caldi del Pdl: la guerra di faglia Berlusconi-Fini e il dossier Anemone. Per quanto riguarda los contro tra il premier e il presidente della Camera l’impressione anche di osservatori interni alle due fazioni in lotta è che possa diventare definitivo, strutturale, irrecuperabile. Sul sito di Generazione Italia, spazio on line della dissidenza finiana, l’ex An Carmelo Briguglio invita a non nascondere la realtà delle cose: «Non è detto che la divergenza tra i due cofondatori del Pdl sia recuperabile. Possiamo auspicarlo, dobbiamo cercarlo, ma l’esito di questa ricerca d’accordo non dipende da nessuno, nemmeno dai protagonisti. È la politica». Da parte sua Fini rilancia da Pisa dove ribadisce le sue posizioni minoritarie nel Pdl sulla cittadinanza e le politiche d’accoglienza: «Non ho nessuna intenzione di dimettermi: io non credo alla marmellata politica, non credo che tutti i sapori siano uguali. Credo che rispetto alle grandi questioni ci siano
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Parla l’economista che ha scritto il Manifesto pubblicato ieri dal “Corriere”
Milano e il nuovo patto civile «Basta lotte senza quartiere» «Recuperiamo la solidarietà», dice Marco Vitale, «deve farlo tutto il Paese, infettato dalla sfiducia» di Errico Novi
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Milano d’altronde è da sempre lo specchio anticipatore del Paese. Lei accennava alla Lega: in discussione non sono i suoi bravi amministratori ma il leghismo come visione plumbea, è così? Esatto: è la teorizzazione che non va bene, e bisogna che qualcuno ai leghisti lo dica, facendoli ragionare. In Italia prevale il conformismo, certo non la voce contraria. Quella di Tettamanzi è stata coperta d’invettive. A maggior ragione non bisogna lasciarlo solo. Non a caso il Manifesto è la sintesi di molte posizioni, di un dibattito che il Corriere ha avviato da mesi. Sulla vostra visione incrociate la Cei e la richiesta che anche il federalismo sia solidale. È così e si può aggiungere che questa crisi internazionale ha messo in discussione una serie di punti: primo, che il progresso sociale nasce dalla competizione selvaggia; quindi che la solidarietà è un valore negativo. Ci hanno martellato. Ora sappiamo che queste cose non sono vere. Ce ne siamo lasciati infettare. La solidarietà, che non deve diventare assistenzialismo, è senso di comunità che deve farsi patto civile. Ecco la nostra costituzione milanese. La solidarietà è l’anima di questo patto. È dalla lotta di tutti contro tutti che nasce questa crisi enorme, che si arriva a un Paese prigioniero della sfiducia. La “lotta di tutti contro tutti” e la sfiducia sono legate? La competizione fine a se stessa porta inevitabilmente sfiducia, e quindi la crisi e i cattivi risultati economici. Se parametrati sul reato d’Italia i numeri di Milano sono ancora positivi. È il limite dell’analisi economica: vede solo i dati del passato. Con l’indagine sociologica, giornalistica, vediamo invece le cose che ancora non sono documentabili sul piano quantitativo. Noi nel Manifesto ci siamo appunto affidati a questo secondo tipo di analisi. E poi dobbiamo badare a quello che Milano potrebbe essere e non è: non rappresenta più una leadership forte né una sua idea di futuro. Voi dite anche che il declino si legge in quel principio dell’affiliazione e dell’affarismo che ha cambiato il mondo delle professioni. Basta l’esempio della sanità, che a Milano è un’eccellenza nazionale da sempre ma che non ha mai imposto ai suoi grandi scienziati l’obbligo della tessera di partito. Oggi o sei di Cl o non arrivi al vertice. All’inizio del processo non c’è anche un impoverimento culturale? Può essere ma non dobbiamo piangerci addosso e crearle noi, le occasioni culturali, per liberare la straordinaria energia che Milano sa esprimere.
La paura cavalcata dalla Lega è in contrasto con l’anima della città. Competizione selvaggia, ecco l’errore fatale
idealità diverse». Non sono parole di conciliazione. La divisione interna preoccupa ancora di più mentre rischia di esplodere il pasticciaccio della lista Anemone. Otto pagine. Ognuna con una quarantina di nomi o indirizzi, con indicato sulla sinistra il numero progressivo e l’anno e sulla destra il nominativo o l’indirizzo.
Un documento sequestrato nel 2009 dalla Guardia di finanza dal computer dell’imprenditore ritenuto al centro della cricca che gestiva gli appalti e sulla quale stanno ora lavorando gli inquirenti perugini. Nel lungo elenco compaiono nomi importanti – e trasversali rispetto agli schieramenti politici – e lavori eseguiti in ministeri e palazzi del potere romano. Una lista – «di proscrizione» la chiama il presidente dei deputati Pdl Fabrizio Cicchitto – dove compaiono numerosi personaggi eccellenti della politica, delle istituzioni, della magistratura, alti funzionari di Stato, manager.Tutti destinatari di lavori edilizi da parte delle aziende di Anemone, l’imprenditore indagato per corruzione e sospettato di essere al vertice della «cricca» degli appalti che, grazie al sostegno di politici e alti funzionari, riusciva ad aggiudicarsi una fetta importante degli appalti pubblici del nostro Paese, a partire dai lavori per il G8 della Maddalena.
ROMA. Milano non può fermarsi. «O scivola indietro», dice Marco Vitale, che non proietta l’allarme su un futuro lontano: «Il declino già c’è anche se i numeri non lo dicono». Ed è il pericolo più grande per la città che traina il Paese, in cui «tutto il Paese si specchia». Non può proprio permettersi di arretrare eppure succede: si piega sulle proprie paure, «sull’idea di una guerra tutti contro tutti» che deriva «da una filosofia globale, smentita però dalla crisi». Dalla visione si passa al Manifesto. Quello che indica “Il coraggio e l’orgoglio”come chiave di volta e che il Corriere della Sera di ieri ha pubblicato con grande evidenza, dopo averne preparato i contributi, la stesura, con un coro di adesioni e di idee aperto da David Rampello, presidente della Triennnale. Marco Vitale, economista, professore della“Bocconi”e fondatore della “Carlo Cattaneo”, lo firma in prima persona con Fulvio Scaparro e il vicedirettore del Corriere Giangiacomo Schiavi. Ne parla,Vitale, e vi riconosce la risposta a una più generale chiusura del Paese. Tutt’attorno l’orizzonte è quello della crisi europea e globale, certo. Ma qui non è tempo, spiega, di alibi e autocommiserazioni. Dove si è persa la Milano che “accoglie nella legalità”, come dite nel Manifesto? Si è persa di recente, in un passaggio dalla “paura come reazione” alla “paura che si fa politica”. Non è la prima volta che si smarrisce quello spirito civile legato appunto ad accoglienza e legalità. È successo al tempo della grande immigrazione meridionale: alla prima proiezione, Rocco e suoi fratelli di Luchino Visconti fu fischiato. Fu la reazione di una borghesia becera che si ribellava alla realtà. Negli ultimi anni è cresciuta la paura per un’immigrazione a volte selvaggia, paura cavalcata dalla Lega. Ecco il salto verso il basso. Ed è pericoloso, perché ne deriva una visione del mondo opposta a quella che ha fatto grande Milano. Milano riceve tutto, elabora, inquadra, approfitta delle persone e delle culture più diverse. Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, padri di questa città, ne sono la prova: il primo romano di Germania, il secondo africano. Se dal pensiero delle persone la chiusura si trasferisce alla teoria il rischio è enorme. Bisogna combatterlo con le idee e l’orgoglio, appunto. Il vostro appello ha a che vedere con quella richiesta di un’Italia più aperta, meno imprigionata nelle appartenenze e nelle rendite di posizione che anche nel dibattito politico nazionale molti cominciano a chiedere. Certo, perché l’arretramento coinvolge tutti. Penso alla mia città d’origine, Brescia, che viaggia sulla stessa lunghezza d’onda e va a rotoli.
Qui sopra, Diego Anemone all’uscita dal carcere, domenica scorsa. In alto, Scajola e Bertolaso, al centro dell’inchiesta di Perugia sugli appalti dei Grandi Eventi. A destra, Marco Vitale. Nella pagina a fianco, Nicola Mancino che ieri ha smentito di aver avuto favori dal costruttore romano
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l’approfondimento
La «grande riforma» è piena di contraddizioni. Sia nei costi sia nei ricavi. Come hanno già denunciato il Quirinale e la Cei
Il federalismo senza fondo Una rivoluzione, dice la Lega; una promessa, dice D’Alema. In realtà, ancora non sappiamo quanto (e come) costerà agli italiani. E poi, come nel caso delle dismissioni del demanio, va a tutto svantaggio delle comunità locali di Gianfranco Polillo rimi incerti passi, lungo la strada del federalismo e prime forti riserve. Le perplessità avanzate non sono di poco conto. Sia pure con linguaggio felpato, l’allarme viene lanciato dai vertici istituzionali – il Presidente della Repubblica e della Camera dei deputati – e da quelli religiosi: l’intervento con il quale, lunedì scorso, la Cei ha stigmatizzato in modo precipuo il federalismo fiscale in via di attuazione, dimostra quanto ne sia incerta la prospettiva. Lo stesso Pd, che pure si era astenuto sul disegno di legge delega, derubrica, come ha detto Massimo D’Alema, quel testo a un semplice canovaccio di promesse. Il confronto vero avverrà sui decreti delegati. Scelta discutibile. In questo secondo round i poteri del Parlamento sono infinitamente minori. Le Camere possono emettere un parere, ma spetterà comunque al governo l’ultima parola. Pur con questi limiti il clima monta. Non sarà solo il Ministro Fitto, che pure ha fatto il
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possibile per contrastare l’originaria deriva nordista, a dire la sua. Che cos’è che non convince? L’impostazione generale, ancora troppo incerta e indefinita, ma soprattutto quanto traspare dai primi atti attuativi, come quello del cosiddetto «federalismo demaniale». Il discorso ritorna all’origine ed investe la questione di fondo: quella del metodo.
Ciò che è pregiudiziale è la definizione di un orizzonte economico- finanziario. Non si può procedere al buio o con la politica del carciofo, che sfoglia i petali della margherita per lasciare nelle peste la parte più debole del Paese. Non deve essere un calcolo compiuto, difficile da declinare; ma una piattaforma di larga massima in cui le singole opzioni siano quantificate per dimostrare, cifre alla mano, come coniugare responsabilità e solidarietà. E proprio questa è l’invocazione della Cei. Finora, i riferimenti sono stati troppo generici e sempli-
cemente assertivi. Mentre sull’Italia incombe il pericolo di una stretta finanziaria, imposta dall’Europa e dalla crisi internazionale. Se i vincoli in termini di deficit e di debito pubblico diverranno più stringenti, come auspica la Commissione europea, più che stanziare nuove risorse per far quadrare il bilancio del federalismo, occorreranno tagli dolorosi. E allora, arrivati a quel punto, come si amministrerà la necessaria fase di austerità? Questo è il primo in-
terrogativo, da cui non si può prescindere. È questione di buon senso, ma anche di coerenza della filiera dei provvedimenti che dovranno dare gambe alle “promesse” di cui parlava Massimo D’Alema. L’assenza di questo quadro sta già determinando i primi errori, appunto come nel caso del «federalismo demaniale». Com’è noto il provvedimento prevede il trasferimento a “titolo gratuito” di beni appartenenti allo Sato centrale, che diverranno di proprietà di
I beni demaniali devono essere riconvertiti: chi pagherà per tutto questo?
Regioni, Province e Comuni. È giusta questa impostazione? O non si tratta di «tagliare a fette» il patrimonio come ha scritto Gian Antonio Stella? Il nodo del contendere riguarda la destinazione dei fondi derivanti dalle dismissioni. La regola aulica vuole ch’essi vadano direttamente a riduzione del debito pubblico. Se trasferiti agli enti locali, il ricavato si disperderà nei mille rivoli della relativa spesa.
L’argomento portato è giusto, ma parziale. Così come sono, quei beni valgono poco. Nelle attuali condizioni il loro reddito, secondo le stime della Ragioneria generale dello Stato, ammonta a 180 milioni di euro. Capitalizzandolo, a un tasso del 5 per cento annuo, il loro controvalore di libro è pari a 3,6 miliardi. Entità particolarmente modesta, che deriva dal fatto che quei beni, secondo la loro attuale destinazione, non hanno mercato. Prima di essere dismesso, quel patrimonio va pertanto valorizzato. Come?
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Il deficit sanitario del Sud (3,7 miliardi) spinge Tremonti a una nuova stretta
Le Regioni in rosso «costrette» ad aumentare le tasse Se non ripianeranno i loro buchi, Lazio, Campania, Calabria e Molise non potranno ottenere i Fondi Fas e dovranno alzare le aliquote di Francesco Pacifico
ROMA.
Migliore benvenuto Palazzo Chigi non poteva darlo ai neogovernatori Renata Polverini, Stefano Caldoro e Giuseppe Scopelliti. I presidenti di Lazio, Campania e Calabria – assieme con il molisano Michele Iorio – sono stati invitati a participare al Consiglio dei ministri di ieri mattina. Dal quale sono tornati a casa con un messaggio inequivocabile come funesto: visti i conti della sanità degli enti che guidano, non possono fare altro che alzare le tasse per rientrare dal deficit. Se non bastasse, l’esecutivo ha anche aggiunto un’altra minaccia: siccome i piani di rientro presentati dai loro predecessori sono considerati insufficienti, o le piattaforme verranno adeguate in senso restrittivo oppure queste Regioni non vedranno sbloccati i Fondi Fas di loro competenza. Una correzione pensante e complessa visto che già oggi gli abitanti di questi territori pagano il massimo delle addizionali locali di Irpef e Irap. «Saranno al massimo del massimo», ha chiarito il governatore della Calabria, Giuseppe Scopelliti, «Purtroppo, alzando ancora le tasse, otterrò soltanto 50 milioni di euro in più». Un bottino inutile rispetto alle necessità, soprattutto se si pensa che il deficit della sua Regione è pari a un miliardo. E allo stesso argomento hanno provato ad appigliarsi, ieri davanti al governo, i suoi colleghi.
La partita è molto complessa ed è soltanto all’inizio. E non soltanto perché i deficit sanitari di Lazio, Campania, Calabria e Molise per qualcuno sono ormai strutturali. Con la vicenda si intersecano le future destinazioni dei Fondi Fas, la prossima manovra con la quale Giulio Tremonti vuole sforbiciare la spesa farmaceutica e la difficile stesura dei decreti attuativi sul federalismo fiscale. Eppoi le Regioni finite nel tritacarne di Palazzo Chigi sono tutte di centrodestra. Tanto che nei mesi scorsi gli attuali governatori – prima di accettare la candidatura – avrebbero chiesto e ottenuto garanzie dal governo su rientri più soft rispetto a quanto prevedono le norme vigenti. Che sia una partita a scacchi l’ha chiarito il ministro alla Salute, Ferruccio Fazio, quanto ha motivato la decisione di bloccare i Fas. Fondi, va ricordato, che l’Unione europea gira a Stati e Regioni per finanziare gli investimenti, non certo per pagare la spesa corrente. E che lo Stato italiano concede di usare in questa direzione in casi straordinari. «Siamo in una situazione», ha sottolineato l’ex direttore del servizio di medicina nucleare del San Raffaele di Milano, «che non può consentire di utilizzare i fondi Fas come un bancomat per ripianare i deficit di Campania, Lazio, Molise e Calabria. Queste regioni non hanno dato delle garanzie ai Tavoli tec-
nici di monitoraggio per quanto attiene la certezza di avere dei conti certi da un lato e soprattutto di aver avviato dei processi di riqualificazione di quella che è la rete assistenziale». Eppure, con una Finanziaria alle porte da almeno 25 miliardi, nessuno dei contendenti vuole andare allo scontro. Lo si comprende dalla precisione di Ferruccio Fazio, quando ha spiegato che i fondi Fas, «che sono i fondi per le aree sottoutilizzate, potranno essere utilizzati solo nel momento in cui le regioni daranno delle concrete dimostrazioni di voler avviare dei processi di risanamento». Oppure quando ha riconosciuto che «per tre regioni, Campania, Lazio e Calabria, le responsabilità non sono evidentemente degli attuali governatori ma dei governi precedenti». Ma anche i presidenti di Regione, da sempre duri con Tremonti, non vogliono calcare la mano. «Speravamo di poter accedere ai fondi Fas, ma i ministri competenti prevedono che sia prima approvato un piano di rientro dal deficit e solo dopo sarà possibile accedervi. Questo è stato solo il primo confronto ma ci rivedremo per concordare le procedure dei piani di rientro», ha dichiarato Renata Polverini. Più diplomatico il campano Caldoro: «Tremonti ha ragione, ma aumentare le tasse per noi sarebbe insostenibile. Ma ho una seconda opzione?». Quindi ha promesso che Palazzo Santa Lucia «accetterà tutti i sacrifici, ma con un accompagnamento virtuoso». Governatori e ministro dell’Economia si ritroveranno a fine mese per trattare suoi piani di rientro. Ma se ieri mattina Polverini, Caldoro, Scopelliti e Iorio hanno accolto con non poca sorpresa il responso del governo, per quella data sono pronti a presentare un loro monitoraggio sulla spesa sanitarie nelle regioni di appartenenza, che difficilmente sarà
simile a quello calcolato dai tecnici di via XX settembre. Non a caso Scopelliti ha chiesto alla società di Kpmg, advisor della giunta in questa partita, di aggiornare al più presto i conti della sanità calabrese. Gli ultimi numeri a disposizione, e che si riferiscono al 2009, tratteggiano una situazione allarmante. A quell’anno il disavanzo delle quattro Regioni a rischio di nuove tasse era pari a 3,7 miliardi ripartito tra gli 1,6 miliardi del Lazio, il miliardo ciascuno di Campania e Calabria e i 110 milioni di Molise. Al netto della fiscalità e dell’aumento di 4 miliardi del fondo sanitario concesso da Tremonti, Reggio Calabria deve recuperare coperture pari a un miliardo di euro, Napoli a 500 milioni, Roma a 420 milioni e Campobasso a 67 milioni. Ma da questi soldi i governatori vogliono sottrarre i fondi già anticipati dagli enti locali per pagare prestazioni sanitarie oppure per ristrutture la rete ospedaliera. Non a caso Caldoro ieri ha ricordato «di sbloccare gli accantonamenti, oppure di cartolarizzare i debiti pregressi». E siccome è difficile che il Tesoro autorizzi il ricorso alla finanza derivata in questa fase, il governatore opta per la prima ipotesi che «porterebbe nelle casse della sanità campana circa 6-700 milioni di euro. Altrimenti saremo in difficoltà per gli stipendi».
Dal canto suo Renata Polverini, che in campagna elettorale aveva promesso di non salvaguardare i piccoli nosocomi, ha sollecito «lo sblocco di alcune risorse. Per riqualificare la rete ospedaliera noi anticipiamo 1,4 miliardi di euro per i quali paghiamo circa 300 mila euro al giorno di interessi alle banche. A questi si aggiungono anche 800 milioni dal fondo di garanzia». La situazione è anche tesa in Calabria. Ieri la Fondazione Betania Onlus di Catanzaro ha preannunciato 50 licenziamenti e le strutture accreditate socio-sanitarie della provincia di Reggio potrebbero presto presentare la lettera di licenziamento ad altri 700 lavoratori.
Nella maggior parte dei casi cambiando – specie se si tratta d’immobili non sottoposti al vincolo delle Belle arti – la loro destinazione. Solo in questo modo – tanto per fare un esempio – le caserme del quartiere Prati a Roma possono essere trasformati in alloggi, centri commerciali e così via. Con un valore infinitamente maggiore. Operazione che diventa impossibile senza la collaborazione attiva dell’Ente locale, che deve variare il piano urbanistico, predisporre i necessari aggiustamenti in termini di opere, traffico, servizi, e così via.
Lo schema, pertanto, è quello della joint venture: lo Stato centrale apporta i beni, l’Ente locale li valorizza. Si dividono le spese e le plusvalenze. E tutti sono felici e contenti. Questo deve essere il modo di operare. Altro che attribuzione «a titolo non oneroso», come recita il provvedimento. Si eviterebbero così altre incongruenze. La prima riguarda la titolarità del diritto. Quei beni sono stati acquistati, in passato, con le imposte pagate da tutti i contribuenti. Non rifonderli, con una riduzione – seppure pro-quota del debito – configurerebbe una sorta di esproprio a vantaggio esclusivo di alcuni territori. A questo si aggiunge un’altra considerazione. I beni elargiti dal Principe, come insegna la storia, non hanno valore. Il loro utilizzo successivo rischia pertanto di prescindere dalle regole di mercato. È facile prevedere come saranno utilizzati. Basti pensare al patrimonio immobiliare degli Iacp, l’istituto delle case popolari. Si rischia, in altri termini, di alimentare una nuova “mano morta”a vantaggio dei più furbi. Diverso è il caso se la contropartita è un costo, quantificabile in una simmetrica riduzione dei trasferimenti. In questo secondo caso, l’Ente locale sarà spinto a trovare le soluzioni economiche più convenienti. A Firenze, ad esempio, è in corso un vero e proprio braccio di ferro tra il Comune e il Demanio. Alcuni edifici trasferiti, nel centro della città, devono essere ristrutturati per realizzare un albergo o alloggi sociali per famiglie disagiate? Senza far riferimento alle regole del mercato – se si vuole anche per disattenderle – il rebus diventa insolubile. Scelga pure il sindaco, ma si faccia carico dei relativi oneri. E non li scarichi, inopinatamente, sulle casse dello Stato. In conclusione, come si vede il puzzle del federalismo è molto più complesso di quanto, a prima vista, potesse sembrare. Lo abbiamo affrontato con una certa leggerezza. Nulla di drammatico. Tutto si può correggere. Il problema è capire se gli attuali equilibri politici consentono le scelte più razionali.
diario
pagina 6 • 14 maggio 2010
Allarme. Nel resoconto mensile, la Banca europea analizza il peso della crisi finanziaria sull’uscita dalla recessione
Trichet e la ripresa fantasma La Bce chiede ai governi «maggiore impegno per risanare i conti» ROMA. La crisi finanziaria po-
le case in Europa hanno rallentato la loro discesa, e il loro andamento «potrebbe essere un segnale precoce di una possibile stabilizzazione della situazione in alcuni Paesi», secondo la Bce. Sul fronte della domanda ha aiutato il calo dei tassi, con un tasso di crescita dei mutui accelerato dallo 0,6% del settembre 2009 al 2,6% del marzo 2010. Dal lato dell’offerta, invece, «la contrazione degli investimenti in immobili residenziali ha continuato ad attenuarsi», pur restando «pronunciata». Fra i paesi che nel 2009 hanno visto i cali più sensibili dei prezzi del «mattone» ci sono Irlanda (-13,7%), Slovacchia (-11,1%) oltre a Spagna e Francia (con cali di oltre il 7%). L’Italia ha segnato un -0,5%.
di Alessandro D’Amato
trebbe fermare la crescita; bisogna agire subito per risanare i conti pubblici; ed è possibile un nuovo aumento della disoccupazione nell’Eurozona. È drammaticamente serio il bollettino di maggio della Banca Centrale Europea, che risente degli ultimi rovesci nei mercati finanziari e del problema della Grecia, spiegando quali potrebbero essere gli effetti nel breve e nel medio termine ed esortando i governi ad agire adesso per ridurre il deficit. Prima che sia troppo tardi.
I governi di Eurolandia devono «intraprendere un’azione incisiva per conseguire il risanamento durevole e credibile delle finanze pubbliche», dice la Bce, che nel suo bollettino afferma che «più si aspetterà a correggere gli squilibri, maggiore risulterà l’aggiustamento necessario e più elevato sarà il rischio di subire un danno in termini di reputazione e fiducia». «Il risanamento dei conti pubblici dovrà superare in misura considerevole l’aggiustamento strutturale dello 0,5 per cento del Pil su base annua stabilito come requisito minimo nel Patto di stabilità e crescita», si legge ancora nel documento. Per quanto riguarda l’Italia il governo, nella Relazione unificata sull’economia e la finanza pubblica (Ruef) pubblicata la scorsa settimana, ha indicato un calo del deficit strutturale (al netto del ciclo e delle misure una tantum) al 3,3% quest’anno, al 2,5% nel 2011 e al 2% nel 2012.
cernenti rinnovate tensioni in alcuni segmenti dei mercati finanziari». Inoltre, secondo l’istituto di Francoforte, «potrebbero influire verso il basso anche interazioni negative più intense o prolungate del previsto fra l’economia reale e il settore finanziario, nuovi rincari del petrolio e di altre
Anche il Portogallo vara il suo piano di risparmi: tagli del 5% degli stipendi dei dipendenti pubblici e aumento generale dell’Iva sui consumi Ma il rischio maggiore è un altro. Ovvero, che «La crisi finanziaria potrebbe frenare la crescita» afferma ancora Francoforte, spiegando che sulla ripresa di Eurolandia, tuttora in corso sia pure ad un ritmo «moderato», peseranno il processo di risanamento dei bilanci in vari settori, la bassa utilizzazione della capacità produttiva e il mercato del lavoro debole. La Bce teme inoltre nuove tensioni sui mercati finanziari. «In termini di rischi al ribasso - sottolinea l’Eurotower - persistono timori con-
materie prime, maggiori spinte protezionistiche e la possibilità di una correzione disordinata degli squilibri internazionali». In questa ottica, la conseguenza si sostanzierà in «ulteriori aumenti della disoccupazione nell’area euro possibili nei prossimi mesi, seppure a un ritmo minore rispetto a quello osservato nel 2009» sottolinea ancora la Banca centrale europea, che nota come il tasso di disoccupazione medio dei Sedici sia salito al 10% nel primo trimestre, al massimi dall’agosto 1998.
Francoforte utilizza il bollettino anche per difendere la sua politica, dopo le critiche arrivate dal Financial Times. Il programma di acquisto dei titoli di Stato europei da parte della Bce, parte del pacchetto di misure adottate contro la crisi finanziaria partita in Grecia, è stato «essenziale» per evitare un effetto contagio, spiega la Bce, secondo cui «le misure adottate sono essenziali per assicurare l’efficacia del meccanismo di trasmissione della politica monetaria» e «contribuiranno a mitigare la
propagazione dell’accresciuta volatilità dei mercati finanziari, i rischi di liquidità e le tensioni nei mercati per quanto riguarda l’accesso al finanziamento nell’economia». La Bce assicura comunque che «la sterilizzazione degli interventi nei mercati dei titoli», assicurerà che il programma «non incida sugli attuali livelli della liquidità e dei tassi dei mercati monetari», e «le misure adottate non influenzano l’intonazione della politica monetaria». In ogni caso, qualche buona notizia c’è. I prezzi del-
E sempre a proposito di conti da risanare, il governo portoghese ha varato un pacchetto di misure di austerity che dovrebbero riportare il deficit statale dal 9,4% del 2009 al 7,3% del 2010 e infine al 4,6% nel 2011. Il premier, José Socrates, ha detto che il Portogallo ridurrà il deficit di bilancio imponendo un aumento straordinario sul reddito dell’1-1,5%, alzando le tasse sul valore aggiunto di un punto percentuale e imponendo una tassa del 2,5% sugli utili di grandi imprese e banche. Socrates ha spiegato che tali misure permetteranno al Portogallo di ridurre il rapporto deficit/pil quest’anno al 7,3%, più basso rispetto all’8,3% annunciato in marzo. Le misure inoltre permetteranno di ridurre di due punti percentuali il defict/pil del 2011, rispetto al precedente obiettivo di 6,6%. Il primo ministro ha aggiunto che i salari di primo livello lavoratori del settore pubblico e dei politici verranno ridotti del 5%, mentre è previsto un aumento generalizzato dell’Iva dal 20% al 21%. «Queste misure sono cruciali per ristabilire fiducia nel Paese e per assicurare finanziamenti alla nostra economia», ha concluso Socrates.
diario
14 maggio 2010 • pagina 7
Il governatore in carrozza per ascoltare le richieste dei romani
Il ddl prevede un giro di vite anche per l’informazione in rete
Polverini pendolare sui treni della protesta
Intercettazioni, nel mirino anche blogger e siti amatoriali
ROMA. Il metodo d’indagine non è stato dei più brillanti, e anche lei, Renata Polverini, lo dice in tutta franchezza: «La prossima volta devo venire senza preavviso». Salita a bordo di uno dei famigerati “treni puzzolenti” della linea Velletri-Roma per testare di persona la qualità dei servizi offerti a pendolari sempre più sconcertati, il neopresidente della Regione Lazio è partita alle 6.35 di ieri mattina, dopo la sveglia all’alba. Ma la vera notizia non è tanto che il presidente fosse a bordo, quanto il fatto che la sua visita annunciata ha sortito l’effetto di una partenza puntuale.
ROMA. C’è nel mirino anche internet, nel disegno di legge sulle intercettazioni in discussione in questi giorni presso la Commissione giustizia del Senato. Tra le pieghe del documento che imprime un giro di vite e robuste sanzioni ai giornalisti che pubblicano, in parte o in forma di riassunto le trascrizioni di telefonate, c’è infatti anche l’articolo 28 del disegno di legge 1611. Lo stesso che, recuperato dalla legge sulla stampa dell’8 febbraio del 1948, rinnova le prescrizioni previste e le riadatta a misura dell’informazione non professionale sul web.
Una notizia autentica, per i circa tremila passeggeri che ogni giorno percorrono la tratta fino alla Capitale grazie a cinque collegamenti che partono perennemente in ritardo. «Non succede mai», hanno spiegato alcuni dei viaggiatori incontrati nelle carrozze dal governatore, la cui presenza sembra avere d’incanto trasformato i vagoni in autentiche gemme dell’igiene moderno. Un fatto che sembra aver esacerbato ancor di più gli animi dei pendolari romani, impegnati in una protesta massiccia quanto, almeno finore, ininfluente. «Stamattina, è tutto lucido e pulito – ha raccontato
Liberato Gugliotta: «Ora voglio dimenticare» Il giovane era stato arrestato e picchiato all’Olimpico di Francesco Lo Dico
ROMA. Si è finalmente conclusa l’odissea di Stefano Gugliotta. Dopo la prima notte trascorsa fuori dal carcere, e sette giorni di reclusione avvolti in un fitto mistero e in aspre polemiche, il venticinquenne che era stato picchiato e arrestato dalle forze dell’ordine dopo la finale di Coppa Italia tra Roma e Inter del cinque maggio, ha affidato la sua amarezza ai taccuini dei giornalisti: «Proveremo a lasciarci la vicenda alle spalle, cercheremo di dimenticare, è l’unica cosa che posso fare», ha spiegato il giovane.
Nonostante il pestaggio cui l’avevano sottoposto alcuni agenti, documentato da un video girato da alcuni residenti nei pressi del luogo dell’arresto in via Pinturicchio, il giovane ha commentato l’accaduto con signorilità rara: «Voglio dire una cosa per smorzare i toni: credo che la maggior parte degli agenti operino in buona fede e non compiano abusi di potere», ha spiegato Stefano, che incalzato dai microfoni è ritornato a quegli attimi interminabili di violenza. «Mentre dicevo che non c’entravo niente – racconta Gugliotta – uno mi ha colpito a bocca aperta con un pugno. Io urlavo le mie ragioni ma loro mi menavano, mi colpivano: saranno stati setto o otto, sono pieno di lividi». Dal corpo di Gugliotta, le tracce delle percosse se ne andranno in fretta. Non così i segni di un pestaggio brutale e immotivato. «Dimenticare è difficile ma proverò a tornare alla vita di tutti i giorni, lasciandomi alle spalle quanto successo. Mercoledì avevo iniziato uno sciopero della fame perché non ce la facevo più», confessa il ragazzo. Che ha tenuto a ringraziare quanti gli sono stati vicini in questi giorni o gli hanno testimoniato solidarietà. In particolare, il pensiero di Gugliotta è andato ad Alfredo, «un angelo», la persona che «ha effettuato il video nel quale si vedono le fasi dell’arresto e il pugno sferrato da un agente». Una vicenda che non ha scosso soltanto amici e parenti, ma anche la stampa italiana, per una volta più o meno concorde nello stigmatizzare
un’altra brutta pagina della storia recente, che ha trovato nel caso di Stefano Cucchi una pietra di paragone inevitabile. «Tutto questo clamore mi ha colpito», osserva Gugliotta, che si affida ai magistrati perché sia fatta piena luce sull’episodio che l’ha visto vittima: «Aspetto che la giustizia faccia il suo corso». Nel corso dell’incontro con la stampa, ha preso la parola anche l’avvocato di Gugliotta, Cesare Piraino, che ha annunciato le scuse della polizia alla mamma di Stefano. «La madre ha ricevuto le scuse per quanto accaduto la sera del 5 maggio da un funzionario di polizia a nome del questore di Roma e del commissariato Prati», ha fatto sapere. Secondo quanto riferito da Piraino, «sembrerebbe che uno degli agenti abbia riconosciuto i suoi comportamenti». Un’ammissione che la difesa di Gugliotta sembra avere ben accolto. «Certamente terremo conto di questo e decideremo come proseguire », annuncia l’avvocato Piraino, che però avvisa «Se ci fossero atteggiamenti calunniosi nei confronti di Stefano io sono pronto ad assisterlo altrimenti ci difenderemo nel processo». A proposito della posizione del suo assistito, che resta ancora indagato per resistenza a pubblico ufficiale, il legale auspica «che al più presto la sua posizione possa essere archiviata». Auspicio che a giorni dovrebbe essere confermato dalle disposizioni del pubblico ministero Francesco Polino, responsabile dell’inchiesta sui disordini avvenuti nei pressi dell’Olimpico in occasione della finale di coppa Italia, che nella sua richiesta ha escluso la partecipazione di Gugliotta ai tumulti di Roma-Inter. Dato confermato peraltro anche dalla relazione di servizio della polizia. «Sono contento che anche grazie all’impegno collettivo questo ragazzo sia libero. Ora è urgente capire cosa è successo», ha commentato il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti. «Sei il più forte», urlavano parenti e amici, sotto la cella di Stefano a Regina Coeli. E la sua forza, per una volta in Italia, per una volta a ragione, è venuta dalla gente.
Secondo quanto riferito dal legale del ragazzo, uno degli agenti avrebbe ammesso la condotta violenta
uno di loro – , i sedili sono ancora bagnati, ma di solito questo treno fa veramente schifo». Ma tra le criticità riferite a Renata Polverini dal popolo dei «vagoni fantasma», ci sono questioni di sicurezza. «Nelle stazioni e nei treni non ci sono controlli – ha raccontato al governatore uno studente di 18 anni – e per questo in passato si sono verificati scippi e aggressioni. Abbiamo denunciato la presenza di ragazzi che all’altezza dell’acquedotto lanciano sassi in passaggio, ma nessuno è mai intervenuto». E poi, un’atroce sudiceria di bagni e sedili. La Polverini ha promesso di intervenire quanto prima. Ha concluso il viaggio in orario.
«Per i siti informatici, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stes-
se caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono», recita la norma, che in sintesi riserva ai trasgressori multe di cospicua entità. Già nel luglio scorso, la ventilata normativa aveva portato in piazza Navona numerosi blogger, e a ottobre aveva ispirato una veemente manifestazione della Fnsi, allarmata dalla portata censoria del provvedimento, del tutto inattuale ai tempi del citizen journalism. Ma la norma inclusa nel Ddl intercettazioni approdato in Senato, non riguarderebbe solo i blog, perché parla di «siti informatici, telematica e informatica». Per cittadini che a vario titolo scrivono in rete, una mancata rettifica entro 48 ore imporrà una multa fino a 12.500 euro. Nell’eventualità più che probabile che il blogger non possa pagare la sanzione, è ipotizzabile la chiusura del sito, e di conseguenza gli oltre 40mila blogger italiani sentono gravemente a rischio il diritto alla libera opinione, che non può essere gravata da rigide procedure professionali assimilabili e necessarie in ambito giornalistico.
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Anteprime. Il pubblico fa la fila e la stampa la elogia. E lei: «Un brindisi a Bondi per la pubblicità»
Sabina in passerella Cannes applaude la diva Guzzanti Il film-denuncia infiamma la critica di Andrea D’Addio
CANNES. L’Italia politico-culturale trema e si porta dietro tutta Cannes. Al festival è il giorno di Sabina Guzzanti e del suo Draquila, già nelle sale italiane dallo scorso venerdì, ma ancora inedito nel resto del mondo. La partenza della manifestazione è stata piuttosto sottotono, tra un Robin Hood che non ha entusiasmato ed un paio di film in concorso - il francese Tournée e il cinese Chongqing Blues - piuttosto anonimi. Sicché, la polemica a distanza tra Sabina Guzzanti e il duo di governo Silvio Berlusconi-Sandro Bondi è diventata “la”notizia su cui buttarsi non solo per la stampa italiana, ma anche e soprattutto per quella estera. Vista anche la collazione “nobile”che Cannes ha riservato al film-documentario. La proiezione mattutina è stata letteralmente presa d’assalto. Nessun posto libero e gente adagiata sulla moquette con il muro di fondo sala come schienale pur di poter capire, di fatto, di cosa si stia parlando. Le due ore di film passano tra risolini e un perenne vocio. A fine proiezione gli applausi sono forti e convinti, così come i commenti che raccogliamo uscendo. «Un’accorta denuncia sulla dottrina scelta da Berlusconi per gestire il dopo terremoto» ci dice Eric Kohn, critico newyorkese per IndieWire. Che aggiunge: «Si tratta di un film interessante anche per noi americani. In molti ci potranno vedere dei parallelismi con il post uragano Katrina». Per il norvegese Kjetil Lismoen quella appena visto è «una rappre-
sentazione del tragedia che sta vivendo in Italia». «Sabina Guzzanti gira il suo personale j’accuse con un’indignata investigazione sullo sfruttamento mediatico di Silvio Berlusconi dell’emergenza di L’Aquila», scrive invece Lee Marshall sull’autorevole rivista per addetti al settore Screen. «Se c’è un limite nel film, è nella sua confezione quasi televisiva nel documentare le varie situazioni di vita e le condizioni degli evacuati». Un difetto riscontrato anche dal belga Ben Alboom che aggiunge come «ci sono troppi argomenti, non sufficientemente sviluppati, nonostante l’estrema lunghezza delle pellicola». Xan Brooks sul The Guardian sottolinea come «Bisognerebbe preoccuparsi per la situazione politica italiana. L’assenza di Bondi dimostra come sia possibile parlare di Berlusconi solo in maniera positiva, proprio come denuncia il film», mentre per Le Monde la polemica è l’occasione per rimarcare il carattere sempre più ribelle di Cannes: «Un tempo il festival non invitava film che rischiavano di urtare la sensibilità dei governi stranieri. Il mancato arrivo di Bondi così come il rischio che Nikita Michailkov non partecipi nei prossimi giorni alla presentazione del suo film a causa delle proteste dei suoi colleghi russi che gli rimproverano la buona amicizia con Putin, sono la prova come le cose siano cambiate».
Il festival era iniziato assai sottotono e così la proiezione di «Draquila» ha rappresentato il primo vero grande evento mediatico della rassegna
Il logo del film «Draquila» (sopra la locandina). In alto, Sabina Guzzanti diva sulla Croisette. A sinistra, Berlusconi e Bondi
A margine della proiezione mattutina Sabina Guzzanti ha rilasciato ulteriori dichiarazioni sulla scia di quella dei giorni passati. Al Box office il film sta andando benissimo, la convinzione cresce. Sul ministro Sando Bondi, assente volontariamente da Cannes, nonostante il festival sia la vetrina di ben tre film nostrani, oltre che presidiato, nella zona del mercato dei film, da un folto gruppo di promotori del cinema italiano (con tanto di stand di Cinecittà e del Festival di Roma), la regista ha risposto che «Mi ero ripromessa di non affrontare l’argomento, ma provo vergogna per la sua assenza. A quanto ne so, comunque, nessuno del festival lo ha
invitato, ha fatto tutto da solo. Credo inoltre che il film lui non l’abbia visto, ne ha visionato giusto alcune scene scartate dal montaggio finale e mostrate da Santoro a Annozero. Se il Paese fa una brutta figura non è certo colpa del mio film, ma del comportamento del governo». Ad essere presa di mira è in particolare la funzione della Protezione Civile, ormai messa a capo di tutte le grandi manifestazioni di coinvolgimento popolare per, sostiene la Guzzanti, «aggirare la legge. Quando si chiama in causa dell’organizzazione di Bertolaso, si entra automaticamente in un regime in cui è lecito, tramite ordinanze, superare qualsiasi legge. Ciò che ne consegue sono tante speculazioni su progetti e costruzioni che, in stato di normalità, sarebbero impedite o quantomeno controllate. L’opposizione durante tutto questo ha dormito, ha trattato tutta la storia con estrema superficialità».
Il film è partito di fatto lo scorso Luglio, quando la Guzzanti ha «intuito che qualcosa non andava. Ho fatto tante domande e investigazioni. C’è tanto clientelismo e mala informazione. Presso la sede della Protezione Civile a via Ulpiano mi hanno raccontato di sprechi di qualsiasi tipo, ci sarebbe materiale per inchieste per tantissimi film». Le ultime battute di Draquila accusano l’attuale primo ministro di aver creato una «dittatura della stupidità», dove «non si viene torturati e normalmente si può dire in strada ciò che si vuole, ma che non per questo può essere considerata libertà». A questa tesi sembra abbia risposto direttamente Berlusconi durante una cena mercoledì sera a Palazzo Grazioli con i suoi più stretti collaboratori: «Io dittatore? Basta ac-
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Vediamo qual è il vero limite del documentario che ha suscitato tante polemiche
Questa è solo una sfida tra star dello show business
La regista accusa il premier di aver usato il terremoto per farsi pubblicità. Esattamente come fa lei attaccando il Cavaliere di Franco Ricordi i sembra più che mai emblematico, per la devastante situazione politico-culturale in cui viviamo, il caso che si sta creando attorno al film-inchiesta di Sabina Guzzanti Draquila. Alla fine quello che vince è purtroppo una sola realtà: lo show business. La città di L’Aquila è bellissima, affascinante, ancorché chiusa in se stessa, come tutto l’Abruzzo. Ma la ferita del terremoto è stata e rimarrà terribile; e tuttavia l’impostazione del film della Guzzanti parte da un presupposto scontato: Berlusconi aveva bisogno di rinvigorire la sua popolarità, e così a ridosso della tragedia ha approfittato per fare un grande circo mediatico, anche attraverso il G8, e riconquistare parte di quella credibilità perduta nei sondaggi. In questo modo la Guzzanti va sul sicuro nel suo film, dove compaiono tante persone del luogo, tra cui il sindaco Cialente, cui è affidata emblematicamente l’entrata nella città fantasma e l’inizio del film. La regista non risparmia critiche anche all’opposizione, affermando che il Pd se ne stia rinchiuso in una tenda vuota; tuttavia il senso antiberlusconiano della Guzzanti è più che dichiarato e alla fine si arriva, analogamente a quanto accadeva nel Caimano di Nanni Moretti, ad ipotizzare come stiamo vivendo in un regime dittatoriale, anche se non ce ne accorgiamo. Una dittatura soft, ovvero fun, come ha scritto Raffaele Simone nel libro Il mostro mite.
C
cendere la tv per rendersi conto che la maggior parte delle trasmissioni, molte delle quali della tv pubblica, hanno come unico bersaglio il sottoscritto». Appena riferitegli queste affermazioni, la Guzzanti ha risposto che: «Lo sanno tutti come funziona la tv in Italia e se c’è qualcuno che sa come vanno le cose, come si allontana chi non si gradisce, quella sono proprio io». Per contestare il fatto che la settimana scorsa nel capoluogo abruzzese ci sia stato un corteo unito dal sostegno a Bertolaso con tanto di striscioni «Guzzanti vergogna» (partecipazione che andava dai 1500 manifestanti dichiarati dagli organizzatori ai 300 dei media locali) , l’ex imitatrice ricorda come «l’anteprima del mio film fatta in un tendone a L’Aquila è stata una delle cose più toccanti della mia vita. Applausi, grida e pianti a dirotto per tutto il film, alla fine del quale ho ricevuto solo ringraziamenti e testimonianze di commozione, affetto e approvazione assoluta per questo lavoro. Molti hanno commentato che per la prima volta sentivano che veniva fatta giustizia su quanto gli fosse capitato. Ci sono ancora membri di un comitato Pro Bertolaso, ma bisogna vedere quanto questo sia artificiale e costruito. La prova di come le critiche non vengano accettate e si lavori molto sulla percezione mediatica della situazione è che quel tendone dove ho ricevuto applausi, e che era il centro di riunione per gli sfollati, sia stato poi prontamente chiuso».
In chiusura, poi, una battuta - come dire - “consapevole” rivolta alla polemica innescata dal ministro Bondi che ha disertato il festival proprio contro di lei. In rete, già da tempo, circolava la battuta feroce: «Quando ha dato la Guzzanti a Bondi per tutta questa pubblicità?». Detto fatto, Sabina ha ammesso il “favore” implicità ricevuto e ha annunciato: «Questa sera brinderò a champagne alla salute di Bondi». Chissà se l’ha fatto davvero.
tanto l’ultima di una serie di registiintellettuali di sinistra che, appoggiati naturalmente dal corso storico, hanno da sempre protestato contro il Centro-destra: da Dario Fo in poi, potremmo elencarne una miriade. Tutti costoro hanno avuto la possibilità di farlo (quindi non siamo in dittatura, come nel fascismo o nei regimi comunisti), laddove anche i bambini sanno ormai come nella cultura italiana si sia creata una “dittatura della sinistra”: tanto che alcuni grandi spiriti della stessa sinistra l’hanno denunciata, e certo non ne hanno avuto grandi benefici. La Guzzanti va per la sua strada, e purtroppo la destra cade nel tranello: invece di tollerarla come sempre è stato fatto (anche se certo con ritrosia), si irrita e non è in grado di contrapporre un adeguato discorso di “libertà culturale”– perché questo è il nodo del problema – che potrebbe e dovrebbe far proprio.
cazione odierna, lo show business. Non è certo una situazione felice, ma è così. E sembra che nessuno abbia il coraggio di denunciare questo impasse della cultura, che in verità è anche questione profondamente politica: la barbarie mediatica che pure un giornalista come Eugenio Scalfari, personalità non certo inesperta, ha saputo intravedere e indicare. Ecco perché Draquila risulta alla fine un epigono di certo teatro, cinema e arte immancabilmente a senso unico. E la sola maniera per venirne fuori potrà essere il proposito di sovvertire il problema: di concepire una larga e grande intesa per una cultura “non a senso unico”, sempre più alla ricerca di una nuova “libertà culturale”.
Alla stessa maniera per la quale alla politica e all’economia serve oggi un grande sforzo di unità nazionale, così anche la cultura, le arti e le attività culturali possono e devono uscire da questa litigiosità permanente e antistorica; e potranno incamminarsi sulla strada giusta soltanto prendendo “il toro per le corna”, vale a dire rinunciando alla storica egemonia della sinistra come a tentazioni reazionarie della destra. Solo in questa maniera si potranno infrangere quei tabù che ancora oggi contrappongono, quasi antropologicamente, gli intellettuali al potere. E solo così potremmo sperare di intravedere una luce che ci porti al di fuori di un vero e proprio tunnel che si è creato nel secolo XX, e di cui oggi stiamo chiaramente pagando lo scotto, in questa ormai più che evidente apologia dello show business. Al proposito notiamo con piacere come la sigla produttiva di Sabina Guzzanti si intitoli Secol superbo e sciocco, il celebre inciso di Leopardi; non dimentichi la regista che in quella stessa poesia – La Ginestra, o il fiore del deserto – l’Autore ci suggerisce una strada: di fronte al terremoto e alle catastrofi, come davanti alla barbarie della cultura, è importante rimanere saldamente uniti e abbracciarsi tutti “con vero amor”. Si tratta, in tale situazione di emergenza, di librarsi veramente al di sopra delle parti; le larghe intese che, sole, permettono di “crescere in civiltà”.
Rifiutandosi addirittura di andare in Francia per protesta contro il film, e accusandolo di leso patriottismo, il ministro le ha fatto il miglior regalo possibile
L’impatto con la realtà politica non si è fatto attendere tanto che, come molti hanno notato, il miglior ufficio-stampa della Guzzanti si è rivelato il Ministro Bondi, titolare dei Beni e Attività culturali: rifiutandosi addirittura di andare a Cannes per protesta contro il film Draquila, e accusandolo di leso patriottismo, Bondi ha fatto il miglior regalo che si poteva alla Guzzanti, che adesso è sempre più richiesta per il suo film che tende, in ultima analisi, a dichiarare che viviamo in una democrazia assoggettata. Ebbene, proprio in questa vicenda, si svela più che mai l’intera congestione politico-culturale del nostro Paese. La Guzzanti è infatti sol-
E in tal maniera, ammesso che quella di Berlusconi sia stata un’azione politica da show-business, ecco che pure la Guzzanti si ritrova immancabilmente ad usufruire dello stesso nutrimento. Insomma, una sinistra post-ideologica quanto agguerrita e sempre a senso unico, e una destra che non è in grado di replicare: entrambe dipendenti dalla conditio-sine-qua-non della comuni-
economia
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Il caso. Sembra saltato il grande affare voluto da Berlusconi e Maroni, ma che non è stato seguito abbastanza da La Russa
Il mistero dei jet Aermacchi
I 48 aerei militari M346 restano negli hangar: Dubai non li vuole più di Marco Palombi
ROMA. A Venegono, che poi sarebbe Varese, qualche speranziella che tutto vada bene ce l’hanno ancora. Almeno è quello che si dice a Roma, che poi sarebbe Roma centro, dove stanno palazzo Chigi e i ministeri. A Venegono invece sta la Aermacchi Alenia, un gioiello di fabbrica con duemila dipendenti che progetta e costruisce aeroplani, mentre nella capitale, come si sa, sonnecchia il governo della Repubblica che quegli aerei - visto il tipo di merce e visto che Alenia è proprietà di Finmeccanica, cioè dello Stato - dovrebbe aiutare a venderli. Il condizionale, come vedremo, è d’obbligo. Questa è la storia dell’M-346, un aereo addestratore avanzato di nuova generazione progettato e costruito proprio dalla Aermacchi che all’occorrenza può pure diventare un bombardiere leggero: in sostanza, un fiore all’occhiello dell’industria italiana, un prodotto di cui andare in giro a vantarsi e che dovrebbe stare sul mercato mondiale per i prossimi vent’anni.
Il primo volo dell’M-346 risale al 2004, Silvio Berlusconi era premier anche allora, si sperticò in complimenti e annunciò: «Sarò il vostro commesso viaggiatore». Due anni fa invece l’aereo ha volato per la prima volta nella sua conformazione definitiva e a settembre del 2008, per non farsi mancare niente, un volo di prova se lo sono fatto pure con tanto di tuta da top gun, come testimonia la foto qui accanto - il ministro della Difesa Ignazio La Russa e quello dell’Interno Roberto Maroni. A febbraio 2009, infine, il trionfo: l’M-346 viene scelto dagli Emirati Arabi che prenotano 48 aerei in un accordo che prevede pure una joint venture tra l’azienda varesina e Mubadala Development Company per lo sviluppo di una linea di assemblaggio finale a Dubai. Un buon cliente di lancio e un commessone da oltre un miliardo di euro. Le veline ufficiali (nel senso dei comunicati, per carità!) celebrano «il risultato di una stretta collaborazione tra il governo e l’industria della difesa». Il sogno di Alenia di far divenire l’M-346 l’addestratore europeo (un passo avanti in questo senso potrebbe essere il re-
Qui sopra, i ministri Maroni e La Russa in tuta da top gun a febbraio 2008 in occasione di un volo dimostrativo del nuovo aereo Aermacchi M-346. Sopra e sotto, poi, due immagini del jet che ancora non ha trovato un compratore, malgrado l’interesse degli Emirati Arabi e di Israele
cente accordo tra Finmeccanica e Eads Defence and Security) e il favorito dei paesi del sud del mondo sembrava quasi cosa fatta.
Sembrava, perché adesso che è passato un anno e qualche mese, la benedetta firma sul contratto ancora non c’è. Non solo. Pure il “commesso viaggiatore” Silvio Berlusconi non pare in forma smagliante:
sua visita in Israele s’è pure messo a distribuire informazioni (non confermate) circa l’interessamento di Tel Aviv per l’aereo addestratore italiano. Con tanto di cifre: venti M346 subito e altri venti poi per un affare da circa un altro miliardo di euro. Ovviamente negli Emirati non hanno fatto esattamente festa vedendo rimbalzare sui media la notizia che avrebbero acquistato
Gli Emirati Arabi sono andati su tutte le furie quando il premier ha annunciato un presunto interesse di Israele per il velivolo aveva programmato un primo viaggio a Dubai per chiudere l’affare a fine novembre e aveva dovuto rinviarlo a gennaio, poi - arrivato l’anno nuovo - ha semplicemente smesso anche solo di parlarne. Non bastasse la brutta situazione generale della trattativa gestita dal ministero della Difesa, lo staff del nostro presidente del Consiglio durante la
gli stessi velivoli a cui sarebbe interessata Israele (in realtà quest’ultimo potrebbe – dicasi potrebbe eventualmente bandire una gara pubblica nel 2011). E così nelle ultime settimane gli emiri hanno ricominciato a subire le lusinghe della Korea Aerospace, il cui T-50 è il principale concorrente del mezzo italia-
no e che ha pure il vantaggio di aver affidato la commercializzazione dei suoi prodotti a quelli della Lockheed Martin, non proprio i più sprovveduti lobbisti del mondo. Il fondamentale cliente di lancio, insomma, ancora non c’è. «Capisco che si tratti di una trattativa complessa che riguarda aerei, supporti logistici, simulatori, ma sinceramente non so spiegarmi la ragione di questo stallo. Sembra che siamo sempre a mezzo metro dalla porta vuota e non riusciamo a buttare dentro la pal-
la», ha scritto il deputato varesino del Pd, Daniele Marantelli, in una lettera aperta a Silvio Berlusconi a febbraio. La situazione dell’azienda per il momento è buona, anche perché a novembre l’Aereonautica ha sottoscritto un contratto di fornitura con Alenia Aermacchi per 15 addestrato-
ri, solo che le buone notizie dal Golfo continuano a non arrivare. La faccenda non è nemmeno politicamente neutra per questioni geografiche e familiari: varesino è tutto lo stato maggiore leghista, senza contare che la signora Emilia Maroni, moglie del ministro, è una dipendente Aermacchi (e negli ultimi mesi è stata avvistata più volte a Roma in cerca di notizie). Il Carroccio, eufemizzando, non è contento del - diciamo - lavoro di Ignazio La Russa, responsabile politico della trattativa come ministro della Difesa.
L’inghippo, spiega una fonte, oltre che nella crisi finanziaria che ha colpito Dubai, potrebbe risiedere in quanti addestratori dovrebbero essere forniti in configurazione cacciabombardiere, ma risiede soprattutto nell’immobilismo del ministro. Non certo il modo migliore di gestire una delle parti più rilevanti, e tecnologicamente all’avanguardia, dell’industria nazionale in un momento in cui il sistema Paese fatica ad affermarsi sul piano internazionale e, in molti casi, persino a sopravvivere. È appena il caso di ricordare che ognuno di questi contratti genera anche un notevole indotto: uno dei siti del nuovo programma di addestramento aereo europeo, per non fare che un esempio, potrebbe essere scelto proprio in Italia. Questioni industriali, politiche e commerciali, come si vede, ma non solo: ci sarebbe ad esempio quella leggina (la 185/90) che vieta l’esportazione di sistemi d’arma verso quei Paesi che siano «responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani».
dossier Il braccio di ferro su IntesaSanpaolo è solo l’esito di una grande metamorfosi della città. Sono scomparse quella sabauda e aristocratica e quella azionista di Bobbio. Ma ormai anche quella fordista e autarchica della Fiat. Al loro posto un cocktail del tutto nuovo…
i sono molto offesi, i benpensanti sabaudi, dello slogan usato da una compagnia low cost per propagandare, su cartelloni 6x3, i suoi servizi: «La città si squaglia. Squagliatela Torino» con tanto di gianduiotto in liquefazione. Qualcuno ha visto in questa pubblicità un’efficace metafora dello stato catatonico in cui è precipitata dopo la sbornia olimpica. E non sembri una contraddizione se l’immagine che viene percepita all’esterno, dai visitatori occasionali o dalle frotte di inviati dei quotidiani in cerca di stereotipi da vendere un tanto al chilo, è quella di una Torino vitale, dinamica, persino festosa. Sono le due facce della stessa città o, meglio, due distinte città che convivono nell’enclave daziaria comunicando tra loro il meno possibile.Torino è morta. Detta così, d’emblée, può sembrare una sterile provocazione. Irritante quanto indigesta. E magari pure un tantino falsa. Una dichiarazione innegabilmente ingenerosa e insopportabile, perlomeno per la nutrita batteria di agiografi della “nuova Torino”. Non è forse Torino la città italiana che più ha saputo rinnovarsi, inventando per sé vocazioni inedite e ardite, riconvertendo la plumbea monocultura manifatturiera nella fantasmagorica industria del loisir, fino a modificare radicalmente i propri connotati di austera capitale del vecchio regno sabaudo-agnellesco? Non è forse vero che mai come negli ultimi dieci, quindici anni Torino ha mostrato dinamismo, grinta e for-
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Torino senza padri di Bruno Babando
za d’animo tali da riuscire a contrastare l’atavico scetticismo allobrogo e sconfiggere una volta per tutte l’ancestrale accidia dei bogianen? E non si deve alla massa considerevole di interventi urbanistici, opere pubbliche, realizzazioni, cantieri, eventi e manifestazioni di vetrina, l’inversione di un ciclo regressivo che sembrava aver condannato, fatalmente, la città a un rapido declino?
Per mille ragioni, giurano i cuorcontenti domestici, Torino è riuscita in una manciata di anni a cancellare quasi del tutto il tradizionale stereotipo di città grigia, noiosa e monotona, al punto da offrire ora l’immagine di un luogo vivace e attraente. Un posto dove è bello vivere e, persino, che vale la pena visitare. Una città addirittura modaiola. Trendy. Dunque, di che morte parliamo? Quella della Torino dei salotti fi-
co Salza, per interposta persona con il presidente della Compagnia di San Paolo Angelo Benessia, è l’epilogo di un ciclo inaugurato proprio dalla benedizione del banchiere all’alleanza tra la borghesia cittadina e gli eredi del partito comunista. Una stagione contrassegnata da due primi cittadini, perno e incarnazione del patto tra produttori:Valentino Castellani e, appunto, Chiamparino. Attorno c’è il disimpegno della famiglia della Sacra Ruota per le vicende del cortile di casa: una Fiat dagli orizzonti sempre più globali, retta da una proprietà giunta alla quarta e quinta generazione e da un management che non riconosce alcun dovere né debiti verso il territorio.
C’è chi la ritiene una mutazione, per quanto profonda, ma pur sempre uno stadio, l’ultimo in ordine cronologico, di un processo
La città è morta dopo la sbornia-Olimpiadi. Detta così, può sembrare una sterile e irritante provocazione, insopportabile per tutti gli agiografi nanziari sotto scacco dai poteri milanesi quanto dall’ignavia nostrana (e da strategie malaccorte)? Quella della patria della cultura azionista dei miti giacobini, santuario del bobbismo di maniera propalato dai severi maestri del rettopensiero? C’è un dato incontrovertibile che mette tutti d’accordo, i cantori del rinascimento subalpino e i detrattori del new deal: la Torino odierna non ha pressoché più nulla in comune con la Torino di un tempo. Non tanto con quella della stagione risorgimentale o della corte reale, oggi relegata alle memorie patrie, ma anche con quella città tumultuosa di venti, trent’anni fa. Il laboratorio – conio amendoliano – ha chiuso i battenti e lo scontro consumato in queste settimane tra Sergio Chiamparino ed Enri-
di trasformazione che coinvolge da oltre un secolo Torino. La perdita della capitale nel 1864 costrinse la città a cercarsi una nuova identità, giacché il trasferimento, prima a Firenze e poi a Roma, della corte e di tutto l’apparato amministrativo aveva provocato un vero e proprio tracollo dell’economia locale (e del morale dei suoi abitanti). Non fu un fulmine a ciel sereno, da tempo gli amministratori dell’epoca erano allertati sull’imminente decisione del governo.
Quando viene annunciata ufficialmente la decisione del trasferimento della capitale da Torino a Firenze, il 21 e 22 settembre 1864, il malcontento sfocia in una protesta di inusitata veemenza, almeno per i canoni del compassa-
to stile sabaudo. Le forze dell’ordine, per l’irresponsabilità di alcuni funzionari di polizia, fomenta il clima di tensione e fa fuoco sulla folla dei dimostranti. Al termine dei due giorni di scontri, in piazza Castello davanti al ministero dell’Interno e in piazza San Carlo di fronte alla questura, si conteranno 52 morti, tra cui due donne, e 187 feriti. Fu la nascente industria a fornire le chances per riscattare l’affronto ricevuto e superare la pesante crisi. L’Esposizione generale del 1884 alValentino segnò il primo passo di un cammino che sarebbe poi proseguito per tutto il Novecento, con la sua definitiva affermazione di capitale dell’industria italiana.All’inizio del secolo scorso la “nuova” città attraeva una grande quantità di immigrati, dalle campagne e dalle altre regioni del Nord, crescendo a un ritmo di 9mila abitanti l’anno. E se le due guerre mondiali consolidarono la vocazione siderurgica e automobilistica dell’ancora fragile tessuto imprenditoriale, furono gli anni Cinquanta a consacrarla definitivamente l’unica one company town italiana: Fiatopoli, ovvero il regno degli Agnelli. Una stagione ferrigna, di entusiasmi e successi ma anche di sacrifici e tragedie. L’imponente immigrazione meridionale, l’aspra conflittualità sociale e sindacale, la propagazione della criminalità comune e organizzata (ricordate il film Torino violenta di Carlo Ausino, capostipite della saga dei b-movie poliziotteschi?), la piaga terroristica: tutti fenomeni che rappresentano l’altro lato della medaglia, i costi pagati nel nome di una modernizzazione caotica e convulsa, subìta e mai autenticamente guidata da una classe dirigente miope nel cogliere la portata dei fenomeni, quando non strabica nei grossolani tentativi di tamponarne gli esiti.
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Il precipitare della crisi economica chiude, sulla fine degli anni Settanta, il ciclo espansivo iniziato con il “boom economico”, ciclo cui Torino ha contribuito in misura nient’affatto marginale, e il 14 ottobre 1980 proprio nel capoluogo piemontese la marcia dei 40mila colletti bianchi della Fiat mette una pietra tombale sulle rivendicazioni massimalistiche e teleologiche di sinistra e sindacato. Si chiude senza troppa retorica davvero un’epoca. Nulla sarà più come prima, e la percezione che la sconfitta di una parte, se non maggioritaria, certamente molto “rumorosa”avrebbe aperto contraddizioni destinate a gravare sull’identità della città, condizionando partecipazione e assetti di potere, ha ipotecato per oltre un decennio la composizione dell’élite cittadina. Nella fase successiva, contrassegnata sul piano sociale dal ritorno della sfera privata e dalle aspettative edonistiche (“il riflusso”), la scommessa del ridisegno della città coincise con la necessità di utilizzare un piano ambizioso di opere pubbliche quale volano per la ripresa economica. Si tentò di accompagnare la tendenza, che già era avvertita come possibile incognita negativa, del progressivo calo del peso dell’industria manifatturiera e la sempre
maggiore importanza dei comparti dei servizi, del terziario avanzato e dell’immaterialità (la “città postindustriale”).
Ora, nel terzo millennio della sua esistenza è costretta all’ennesimo cambio di rotta. Su natura e direzione di questa, però, analisi e diagnosi divergono, tra coloro che tendono a mettere in luce il carattere di cesura netta, epocale, dell’attuale fase e chi, all’opposto, ritiene il processo in corso perfettamente conseguente all’evolu-
perlo sono i torinesi che faticano a riconoscere se stessi e a riconoscere la città in cui vivono. Una cosa è certa: la Torino sin qui conosciuta, amata o disprezzata, stimata o temuta, quella Torino si sta rapidamente estinguendo. Serve a poco elicitare il passato, invocare Lari, Numi e Penati, rivendicare primazie e primogeniture, sacramentare sul fato cinico e baro. Non serve, o meglio serve a una sgangherata casta di governanti senza storia e dal curriculum incerto per legittimarsi agli
Nel suo terzo millennio, l’ex capitale è costretta all’ennesimo cambio di rotta. Su natura e direzione di questa, però, le analisi divergono zione del modello tardoindustriale.Torino è, dunque, in via d’estinzione, Ancora un paio d’anni e quella città, severa e ferrigna, l’ex capitale politica e la patria della cultura fordista (e del suo corollario, l’operaismo comunista), proprio alla vigilia delle celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, sarà definitivamente scomparsa. La mutazione è tangibile sul piano urbanistico, con la ristrutturazione di ampie zone centrali e la rilocalizzazione di siti e servizi; a livello industriale ed economico, con la riconversione produttiva, il crepuscolo di alcune storiche famiglie imprenditoriali, il proliferare di attività terziarie e del loisir, la febbrile mobilità del capitale finanziario e la sua riorganizzazione; nel tessuto sociale, con radicali cambiamenti della sua struttura e composizione. La verità è che nessuno sa più cos’è Torino. E i primi a non sa-
occhi dei concittadini. Servirebbe una moratoria della memoria, un armistizio bipartisan sull’uso e abuso del passato.
Invece, periodicamente si esumano le vecchie glorie per piegarle ai giochetti della bassa macelleria quotidiana, si rispolverano vessilli e pennacchi, si dà una lucidata alle panoplie di famiglia. Così in nome del consenso coatto e del politicamente corretto, alla “Biennale della democrazia”, la maratona di conferenze autocelebrative, promosso dal comitato di intellos guidato dal presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky, si chiamano a raccolta tutti i parrucconi viventi e morenti, la mutria sabauda superstite degli integerrimi custodi del canone azionista, disseppelliti, ça va sans dire, per tentare di incivilire un Paese che aborrono, una nazione marcia, levantina e
cafona, un popolo soggiogato da una malintesa modernità e dal populismo televisivo.
Stessa solfa suonata alle cerimonie per il centenario della nascita di Bobbio, che di questa cultura solipsistica e agiografica è nume tutelare e totem. Cascami di una Torino declinante che si aggrappa con denti e unghie all’ultimo, ingannevole lacerto della perduta egemonia. Vulnerant omnes, ultima necat, recitavano i latini, tutte le ore feriscono, ma l’ultima uccide. Guarda indietro, come l’angelo di Walter Benjamin che è trascinato dal vento del futuro ma rimane imperterrito con la testa girata verso ciò che è stato: guarda le rovine del passato. Conviene farsene una ragione: quella Torino non esiste più, spazzata via in maniera ineluttabile da un magma ancora informe, vaga sperduta come uno zombie in cerca della propria anima (e di una degna sepoltura). E questa lunga trenodia non è che una metafora del vuoto, del nichilismo e dell’alienazione che la imbrigliano, regalandole l’illusione di essere ancora in vita. La città abusiva che ne ha preso i connotati non ha pressoché nulla a che vedere con l’originale. Protrarre l’equivoco e a tutti i costi perseverare nell’intravvedere una continuità con il passato non è solo sciocco, è semplicemente sbagliato. La Torino postuma si è definitivamente lasciata alle spalle la vecchia one company town italiana, con tutto l’ingombrante bagaglio di “doverismo” calvinista, di culto del lavoro e del sacrificio, dei suoi costumi austeri e
In nessun altro luogo, in Italia, la più importante sfida di potere si giocherebbe su una questione di rispetto della parola data
Banchieri piemontesi, falsi e cortesi aro direttore, la torinesità è un soggetto vaporoso, astruso per i giornali, che nelle settimane scorse hanno imparato a maneggiarla al massimo come dato geografico-creditizio: per riferirla all’equilibrio delle fondazioni fra provenienza Intesa e provenienza San Paolo. E invece, per impalpabile e sfuggente, a differenza di tutte le altre formule-civetta di gran moda di questi giorni, è un dato culturale vero, una diversità con cui, talora esibendola talora pagandola cara, i subalpini si trovano puntualmente a venire alle prese. Per dire: in nessun’altra città d’Italia, la più importante disfida di potere da anni si giocherebbe, sia chiaro: su un piano strettamente formale, attorno a una questione di rispetto della parola data.
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Perché, le diverse voci che si agitano in pancia alla Compagnia di San Paolo,il cui Consiglio Generale è l’autoritratto dei poteri più cospicui della città, alla fin fine questo si rinfacciano. Chi ha rotto la parola data? Per alcuni il colpevole sarebbe Enrico Salza, figura a suo modo torinese poco o punto (alto, ingombrante, irruento, vivace, con un eufemismo: poco incline all’understatement) e in realtà centro di
di Alberto Mingardi gravità permanente per un pezzo di classe dirigente cresciuta sulle sue ginocchia. Salza avrebbe messo al secondo posto“gli interessi del territorio”(formula ambigua, questa sì: non si capisce mai se gli interessi del territorio si “contino”o si “pesino”!), agganciando la propria carriera a quella del bresciano Bazoli: per prolungarla, tanto quanto quella del collega. Per altri il colpevole sarebbe Angelo Benessia, antropologicamente torinesissimo, che nell’esigere dalle controparti bancarie il rispetto dei patti (la possibilità di indicare il chairman del consiglio di gestione del “bancone”) avrebbe spiazzato equilibri interni alla sua fondazione, accentrando vieppiù il processo decisionale e perdendo perciò quel particolarissimo “legame con il territorio”che può evincersi solo tramite “scelte ampiamente condivise”. Più colpevoli di tutti sono senz’altro quei consiglieri della Compagnia di San Paolo che
hanno passato i verbali del consiglio di gestione alla stampa, svegliando il can che dorme del consiglio generale. E chissà che colpevoli non siano anche i partner milanesi, come giustamente ha preteso di sapere l’economista Pietro Garibaldi (consigliere d’amministrazione di Intesa San Paolo su mandato della Compagnia) chiedendo evidenza dell’esistenza di patti para-sociali non scritti, a fronte di contatti, rimpalli di accuse e richieste, riunioni, congiure, cospirazioni di cui la stampa ha dato ampiamente atto, fra le fondazioni azioniste (formalmente legate da un patto di sindacato). Ecco, la torinesità s’incaglia sul mancato rispetto dei patti, sul tradimento delle strette di mano, non perché i torinesi siano più onesti degli altri. Sono invece convintamente più ipocriti, e per questo Dio li benedica.Torino è più“occidentale”, più“europea”dell’Italia che le sta intorno e che per sua stes-
sa sciagura ha voluto unificare, proprio perché la passione dell’intrigo, appresa alla corte dei Savoia e perfezionata all’ombra degli Agnelli, si unisce a un costruito rispetto delle forme. I soldati magari si azzuffano in caserma ma in parata marciano in riga.
Falsi e cortesi, appunto, e l’una cosa in misura dell’altra. Questo è il mondo vero, fuori dai confini allucinati del nostro Paese, dove non c’è più neanche il pudore del mandarsi a farsi fottere in televisione, dove si trama davanti alle telecamere, più che di “risiko”bancario di “grande fratello” bancario ormai si può parlare, non perché l’Italia si sia scoperta schietta ma semplicemente perché siamo diventati tutti sciatti, non sentiamo più neanche il bisogno di coprire le tracce. Anche questo spiega, in parte, perché gli abilissimi strateghi dell’armata sabauda si siano fatti logorare in una guerra di trincea. Non è questioni di scrupoli, che la natura non ha dato loro più generosamente che agli avversari. È che sono abituati a seguire le regole d’ingaggio, anche nel trigo. Le forme e la sostanza. Il bello di Torino è che bada alla seconda, ma sa che sono più importanti le prime.
dossier della sua morale codina. Si è sbarazzata dell’immagine tristanzuola di città chiusa, fredda e, a molti, inaccessibile. Quella che l’ha rimpiazzata, al contrario, è tutta un frisson e con il suo look urban street vuole passare per una ganza sbrigliata e sbarazzina, una pin-up esuberante e allegra. Gli han pure messo il piercing, come si può vedere all’angolo di piazza Corpus Domini. Una città dinamica, leggera, persino ridanciana. Fino a coniare l’icastico ossimoro del bogianen che non riesce a stare fermo (come assicurava la réclame olimpica: “Turin always on the move”).
Torino è oggi una città come le altre, una città come tante. Egotica ed edonista, come tutte. Una faticosa conquistata “normalità”, dopo almeno un secolo di presuntuosa rivendicazione di alterità, che presenta assieme ai molti lati positivi non pochi svantaggi. Perché se è vero che la “diversità”torinese è stata la causa principale di quella incomunicabilità con il resto del Paese, la sua abdicazione l’ha resa seriale, omologata, indistinta. Quasi che non sopportando più di essere se stessa abbia preso a prestito altrui fattezze e identità. Oggi l’imperativo del nuovo conformismo è “piacere alla gente che piace”, e la dittatura della gaiezza rigetta la melanconia come una condizione aberrante, una spregevole minaccia alla gratificazione immediata, alla consolazione consumistica, alla gratificazione effimera. La nuova felicità urbana è trasformare la città in un enorme centro commerciale, nell’ennesimo non luogo anonimo e anomico studiato da Marc Augé in cui si perde la propria identità e si acquista un’unica proprietà, quella di consumatore/ fruitore. Un unico, immenso locale da
“apericena”. E F.C., Festa Continua, è il movimento politico che mette tutti d’accordo.
Prima erano torinesi che, bene o male, avevano Torino. Oggi sono dei facsimile di milanesi senza Milano. E siccome la lingua batte dove il dente duole, l’alleanza/competizione TorinoMilano è sulla bocca dei torinesi che, infatti, masticano amaro ogni volta che si trovano costretti a ingoiare il boccone della collaborazione tra i due capoluoghi. Sarà Mi.To. il mostro che inghiottirà la Mole? Sarà un Ge.Mi.To. il rantolo finale del Pautasso agonizzante sotto le granfie del perfido Brambilla? La storia con il suo spietato cinismo emetterà a breve la sua sentenza. Una cosa è certa: la Torino sabauda e autocratica sta esalando l’ultimo respiro. È giunta l’ora di staccare la spina, di compiere un atto di pietosa eutanasia mettendo fine a quello che a tutti gli effetti è un vero e proprio accanimento terapeutico, e finalmente constatarne il decesso. Torino è morta, dunque. Amen, occorre farsene una ragione. Si prepari un bel funerale, di quelli“tutto compreso”, facciamoci le condoglianze e dopo un ragionevolmente breve periodo di lutto si affronti una volta per tutte Torino per le corna: come e dove impegnare il capitale ereditato per assicurarle una transizione. Come non tutti i mali vengono per nuocere, anche certe morti possono essere a dir poco provvidenziali, soprattutto in un ambito così poco incline al ricambio (generazionale, ma non solo) e all’innovazione. La morte è spesso una soluzione liberatoria, è rigenerazione, il tristo mietitore mette fine a una esistenza che si sta logorando. Non sarebbe, in fondo, una grave perdita se la cara estinta portasse con sé nell’Averno la tetraggine novecentesca, le gesta poco nobili di un Casato tra i più gretti della storia, le ulcere del corpo sociale, l’asfissiante egemonia di un ceto arrogante e intransigente. Se la morte fosse qualcosa di assolutamente sconvolgente, le sue conseguenze sarebbero irreparabili. Invece la vita continua, come si dice ad ogni commiato. La morte di Torino non è una cattiva notizia. Perché solo con la sua scomparsa potremmo finalmente archiviare il Novecento e fare i conti con le sue contraddizioni. Lo si potrà fare se sarà evitata con cura la trappola della nostalgia, autentica tabe della torinesità. Per evitare il regno dell’eterna rimembranza dobbiamo dire: Torino è morta, grazie a Dio.
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L’ultima riconversione dall’auto passa per l’innovazione e la ricerca
Verso la Green economy in salsa sabauda Produzioni leggere per conquistare i ricchi mercati di Asia e America. E i primi risultati già si intravedono di Francesco Pacifico
ROMA. Il cantiere Torino vive l’ennesima riconversione. E lo fa tornando alle origini, investendo risorse e speranze per tornare a essere fucina dell’innovazione italiana. Ruolo svolto in epoche diverse, quando era sconosciuto il concetto di soft economy come dimostrano nomi e storie come Sip, Olivetti, Rai o in parte della stessa Fiat.
La congiuntura ha cancellato in tutto il Piemonte 20mila posti di lavoro, portando i disoccupati a quota 130mila. E le cose sarebbero andate peggio senza le 182 milioni di ore di cassa integrazione, che hanno riguardato nel 2009 150mila persone. La fiducia delle imprese, come calcolato da Confindustria, è passata in anno da -12 punti a -46 punti. Livello dei tempi dell’austerity. Seppure motore dell’industria pesante del Nordovest, ha visto già prima della crisi un rallentamento rispetto a Lombardia e Veneto: infatti dal 2001 al 2007 il manifatturiero è stato in calo dell’1,3 per cento. Eppure il territorio vanta il quarto dei depositi bancari italiani così come il 15 per cento delle aziende biotech europee. Senza contare che il suo export conquista i nuovi mercati – in Russia +15,9 per cento e in India (+27,3) – e controlla quasi un decimo degli scambi verso gli Usa. Questa deve essere la direttrice da seguire, magari con la complicità del Lingotto. Se una Fiat sempre più legata ai destini di Chrysler fa temere un progressivo disimpegno in Italia e una riduzione della produzione a Torino, d’altro canto il tentativo di far girare sul Potamac le auto costruire sul Po potrebbe fare da volano per altre eccellenze locali. Per raggiungere questi obiettivi Torino e il Piemonte guardano alla green economy. Che già riguarda 1.200 imprese di taglia medio-piccola, dà lavoro a 35mila addetti e garantisce nel 60 per cento dei casi fatturati superiori al milione di euro. Stando ai dati della Camera di commercio di Torino spaziano tra energia (47 per cento), depurazione (32) e raccolta e trattamento dei rifiuti (28). Tra fondi pubblici e privati sono stati già veicolati verso il settore oltre mezzo miliardo di euro. Destinati per lo più alla razionalizzazione dei consumi energetici, anche se crescono i progetti sulle rinnovabili. Non a caso hanno già partecipato ai bandi quasi mille aziende. La precedente giunta, quella guidata da Mercedes Bresso, ha accompagnato questo processo intervenendo sui versanti della semplificazione, della ricerca, della formazione di
progettisti e installatori e degli incentivi alla domanda pubblica (ospedali, scuole, edilizia popolare) e private (imprese e famiglie). Fa la sua parte il Politecnico di Torino, uno dei migliori al mondo, che con un investimento di 450mila euro ha dato vita al Biosolar Lab, laboratorio che sta studiando congegni e meccanismi per la fotosintesi artificiale, in modo da produrre carburante pulito. Si muove anche il settore dell’Ict. Complice il contratto di insediamento ideato dalla precedente giunta regionale, hanno scelto di insediarsi nell’area l’israeliana Authix Technologies, azienda specializzata in tecnologie wireless anticontraffazione o l’americana C5.6, che studia enzimi per i biocarburanti. E in totale si sono registrati nel 2009 investimenti vicini ai 200 milioni. Non sempre volontà dei privati e disponibilità del pubblico vanno di pari passo. Emblematici al riguardo i progetti sul mattone. In una vorticosa cementificazione che genererà grattacieli, metropolitane, ferrovie, stadi, ospedali e impianti solari, le opere simbolo sono le due torri (quella disegnata da Fuksas per la Regione e quella di Piano per IntesaSanpaolo) che sorgeranno al Lingotto e all’incrocio tra corso Inghilterra e corso Vittorio Emanuele II. Eppoi i 100mila metri un tempo occupati da Fiat Avio che ospiteranno edilizia residenziale, servizi, il nuovo padiglione del centro Fiere, per non parlare di passante ferroviario, Tangenziale est o del nuovo stadio della Juventus. In teoria ci sarebbe un giro d’affari pari tra i 2 e i 3 miliardi, oltre a un indotto potenziale di 5mila addetti, in pratica i costruttori hanno lamentano un taglio delle risorse complessive del 7,8 per cento e, soprattutto, ritardi del Cipe nel trasferimento delle risorse promesse
Nel settore impegnati già 1.200 imprese e 3.500 addetti. Il ruolo del Politecnico e l’operazione tra Fiat e Chrysler per rafforzarsi di più Oltreoceano
Ma l’altra metà del cielo è l’indotto dell’automotive, i contoterzisti che piegano lamiere o imbottiscono sedili, vittime della crisi perché legati alla domanda e alla produzione di Fiat. Non a caso ci sono ben 3.350 persone in cassa integrazione tra il moncalierese e il chierese. Ha raccontato un imprenditore a Stefano Parola di Repubblica: «I tedeschi ci pagano al massimo in 45 giorni, i francesi spesso in anticipo. Invece Fiat prevede il 90 per cento del compenso a 120 giorni dal benestare, il restante 10 a 180 giorni». Tempi che torneranno a essere accettabili soltanto se la nuova FiatChrysler spenderà sul Po il grosso dei 63 miliardi di euro previsti per la componentistica.
mondo
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Dibattiti. Parigi studia una legge contro la veste islamica, ma il resto della Ue si divide fra politically correct e allarmisti
Il velo che copre l’Europa Il burqa si diffonde per le case dell’Occidente E i Paesi dell’Unione non sanno cosa fare di Alexandre del Valle on è stata la Francia laica e anticlericale a mettere per prima, all’ordine del giorno parlamentare, una legge sul burqa. Ma il Belgio monarchico di tradizione cattolica e ben poco laicista. In effetti, lo scorso 29 aprile, i deputati belgi hanno approvato all’unanimità una legge contro l’uso del velo integrale nei luoghi pubblici e nelle strade. Il divieto del burqa sembra essere uno dei pochi argomenti ancora in grado di riunire i “fratelli coltelli” fiamminghi e valloni. Parallelamente, nella vicina Francia - come se assistessimo ad una concorrenza proibizionista tra Parigi e Bruxelles - il presidente Sarkozy ha annunciato che il disegno di legge anti-burqa sarà discusso per tutta questa settimana. Il testo sarà difeso dal ministro della giustizia Michèle Alliot-Marie. Il primo ministro Francois Fillon prevede che la legge sarà definitivamente adottata entro metà settembre. Il disegno di legge comprende 7 articoli: il primo dice che «nessuno può, nello spazio pubblico, indossare un vestito destinato a dissimulare il viso». In pratica vieta il burqa in tutti gli spazi pubblici. L’articolo 2 crea il delitto di «incitazione a dissimulare il viso in ragione del sesso», che sarà integrato nel capitolo 5 del codice penale (sulle violazioni della dignità della persona) e condanna il fatto di «imporre tale vestito con la violenza, la minaccia e l’abuso di potere».
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Chi compie questo crimine rischia un anno di prigione e 15mila euro di multa. Per chi indossa il velo integrale, invece, la multa si limita a 150 euro. Di fronte alla nuova legge proibizionista, il partito socialista ha presentato una proposta alternativa e votato la risoluzione parlamentare contro il burqa durante la presentazione in Assemblea. Ricordiamo che l’idea della risoluzione è stata imposta dal presidente, che inizialmen-
te ha preferito questa soluzione più pedagogica e limitata piuttosto che una legge severa. Ma dopo mesi di dibattiti spesso violenti tra sinistra e destra attorno all’identità nazionale, l’islam o il burqa e dopo la sconfitta elettorale dell’Ump alle regionali, il recente appoggio totale di Sarkò alla proposta di legge anti-velo inizialmente presentata da Jean François Coppé - presidente del gruppo Ump all’Assemblea - non è priva di motivazioni politiche. Infatti Sarkozy, che è per la prima volta ca-
Qui sopra, il presidente francese e leader dell’Ump, Nicolas Sarkozy. In alto, un burqa: la veste copre in maniera integrale il corpo delle donne. Nell’altra pagina, una madrassa islamica, scuola di formazione coranica dove, secondo alcuni analisti, si formano i neo-fondamentalisti
lato nei sondaggi, ha deciso di riprendere il controllo del suo elettorato e non intende lasciare lo spazio retorico anti-velo a Coppé, sopranominato il “Sarkò bis”, che è già uno fra i più pericolosi rivali del presidente con Alain Juppé e Dominique de Villepin. E il presidente francese vuol fare tornare a casa i suoi elettori che hanno votato Le Pen ritrovando la retorica «senza complessi» che lo fece vincere nel 2007: identità, sicurezza, lotta all’immigrazione clandestina e all’islamismo: Sarkò è conscio che l’ouverture alla sinistra e il fatto di avere rinunciato ad alcuni temi identitari hanno favorito la crescita del nuovo Fronte Nazionale di Marine Le Pen che ha saputo strumentalizzare questi temi. Nicolas Sarkozy ha quindi annunciato che la legislazione presentata al Governo il 19 maggio dovrebbe essere adottata nell’ambito di una procedura di “voto d’emergenza”, molto più veloce rispetto alla procedura d’iniziativa parlamentare. Prima della presentazione della legge, il premier Fillon ha consultato i dirigenti religiosi e politici, fra cui i rappresentanti del Conseil français du culte musulman (Cfcm), che ha disapprovato sia la legge proibizionista che lo stesso burqa, deplorando il “clima di stigmatizzazione” dell’islam. Ma il presidente del Conseil, Mohammed Moussaoui, è tuttavia sembrato soddisfatto del testo. Caso diverso per l’Uoif, l’equivalente dell’Ucoii italiano controllata dai Fratelli musulmani, che combattono il progetto in funzione di una classica retorica vittimista e denunciano la cosiddetta “islamofobia” dei non musulmani laici. In funzione dello stesso principio pericoloso di “attenuante religiosa”, il 26 marzo 2010
il Consiglio di Stato ha messo in guardia contro un divieto totale di indossare il velo integrale nei luoghi pubblici, dicendo che tale azione «non ha trovato alcuna base giuridica chiara e potrebbe essere bocciata a posteriori dal Consiglio Costituzionale in nome del principio di non-discriminazione». La sinistra eversiva del postino Alain Besançenot - leader del Movi-
tore sulla discriminazione in Europa per l’associazione Amnesty International.
In tutti i Paesi europei, le proposte di vietare il burqa hanno suscitato forti polemiche. In un’intervista alla Bild am Sonttag, il vice presidente del Parlamento europeo Silvana Koch-Mehrin, molto vicina al Cancelliere Angela Merkel,
Egitto, Turchia e Siria hanno lanciato una campagna contro il velo integrale. E l’università islamica di al Azhar lo ha proibito alle studentesse, perché «non ha nulla a che vedere con l’islam» mento anti-capitalista d’ispirazione trotsko-guevarista - sostiene il burqa in funzione rivoluzionaria e in nome del “diritto alla differenza” e dell’antirazzismo. Infatti in Francia, a parte il socialista anti-burqa Manuel Vals - che appoggia totalmente il disegno di legge sarkozista la sinistra considera il divieto suscettibile di favorire “l’islamofobia”. Ma c’è di peggio: il divieto assoluto di indossare il burqa (o il niqab) «violerebbe i diritti alla libertà d’espressione e di religione delle donne» ha detto John Dalhuisen, ricerca-
ha auspicato che «sia vietato in tutta Europa, in tutte le sue forme». La leader dei liberali tedeschi a Bruxelles ha aggiunto: «Il burqa è un attacco contro i diritti delle donne, è una prigione mobile». Grosso modo, in Europa, anche se il tema del burqa è al centro dei dibattiti nazionali, le leggi ad hoc votate specificamente per vietare il burqa sono una eccezione (per il momento solo Belgio e Francia). La tendenza europea generale sta piuttosto nella proliferazione di divieti “settoriali” (relativi alle amministrazioni),
mondo la commissione Affari costituzionali a Montecitorio la proposta anti-burqa avanzata da Souad Sbai, deputata italo-marocchina del Pdl. L’idea dell’attenuante religiosa, che giustificherebbe la non applicazione di alcune leggi in vigore al fine di “rispettare la specificità islamica”, è fortemente combattuta dalla Sbai, anche presidente dell’associazione Acmid-Donna Onlus (Associazione delle Donne Marocchine), e dal ministro per le pari opportunità, Mara Carfagna, «favorevole ad una legge che vieti il velo integrale come simbolo di sottomissione della donna». In Germania, i Lander possono già regolare l’uso del velo in nome dell’obbligo di non essere mascherati in pubblico. In Svizzera spetta alla Confederazione la decisione di divieto (a seguito di una decisione della Corte costituzionale federale del 2003). In Austria, i partiti populisti hanno presentato disegni di legge non ancora accettati e mai discussi in Parlamento. In Spagna, dove gli irredentisti islamici che rivendicano il “ritorno dell’Andalusia all’islam” sono sempre più attivi, il velo integrale ha già provocato incidenti. In Gran Bretagna, nessuna legge è prevista per vietarlo specificamente. Tuttavia, dal 2007, una circolare riguardante la scuola definisce le regole per vietare il burqa in nome della preservazione della qualità del-
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legge olandese sul trasporto delle persone permette già alle aziende di trasporto pubblico di limitare l’accesso dei passeggeri per motivi di sicurezza, vietando l’uso del burqa. In Danimarca, l’Università di Copenhagen (sollecitata da una commissione governativa) ha proposto diverse misure di divieti. Dal mese di agosto 2009, il governo liberal-conservatore discute l’opportunità di limitare l’uso del velo integrale.
Per rispondere a quelli che assimilano il divieto del velo integrale ad una “discriminazione” nei confronti della comunità islamica, bisogna rispondere innanzitutto che il burqa (afghano-pakistano) o il niqab (saudita) riguardano una percentuale ultra minoritaria all’interno dello stesso islam integralista. Secondo, va sottolineato che si tratta di un’usanza preislamica o beduina non prevista dal Corano, il quale richiede solo di coprire i capelli senza nessuna penalizzazione grave come prevede la shari’a. Terzo, il burqa è stato sempre un’usanza sociologicamente limitata, e diviene un’obbligo tradizionale solo tra gli afghani e i pakistani di etnia pashtun. Questo spiega perchè i casi di “burqa indossato” riguardano in Europa soprattutto i musulmani afgani-pakistani o quelli, spesso di recente conversione, fanatizzati da organizzazioni
La protesta islamica contro le azioni dei parlamenti, serve a impedire l’integrazione dei musulmani nelle democrazie, e a costruire delle comunità pronte a re-islamizzare il Continente o “locali” (iniziativa municipale). In Italia, presentarsi in uno spazio pubblico col viso nascosto è un reato proibito per legge dal 1975. Alcune città del Nord come Varallo Sesia e Cossato, guidate da sindaci della Lega Nord, hanno vietato il burqa negli spazi pubblici (tra i 25 e i 500 euro di multa). A Novara, il sindaco leghista Massimo Giordano ha emesso un’or-
dinanza in nome della quale una donna che indossava il burqa dovrà pagare 500 euro di multa. A livello nazionale, la Lega ha presentato un disegno di legge che prevede fino a due anni di carcere e una multa di 2mila euro per coloro che, a causa della loro appartenenza religiosa, «renderebbero difficile o impossibile l’identificazione». Ma è già all’esame del-
l’istruzione. E, dal 2007, è possibile vietare il velo integrale per motivi di sicurezza. Nei Paesi Bassi, dove i movimenti populisti anti-islam stanno crescendo elettoralmente, un dibattito su un eventuale divieto è in corso. Il governo olandese ha studiato dal 2006 diverse proposte di leggi proibizioniste fra cui quella dal leader populista anti-islamico Geert Wilders. Ma la
indo-pakistane o afghane come i Tabligh, la Jemaah Islamiah o i Deobandi (scuola giuridica dei talebani). Poi, mentre alcuni “islamicamente corretti” accusano i proibizionisti di voler «stigmatizzare i musulmani», notiamo che l’amministrazione dell’università di Ain Shams (Egitto) ha recentemente vietato agli studenti di indossare il niqab e che, nell’ottobre 2009,
la più grande università islamica sunnita di Al-Azhar ha vietato l’uso del velo integrale nelle aule universitarie riservate alle donne e ai dormitori. Questo divieto faceva seguito ad una dichiarazione del capo di Al Azhar, Sheikh Mohamed Sayyed Tantawi, secondo cui «il niqab o il burqa non hanno nulla a che fare con l’islam». Bisogna anche ricordare che la prima lotta a velo e burqa è sempre stata quella dei musulmani e dei governi musulmani liberali che volevano modernizzare i loro Paesi di fronte all’oscurantismo che mantiene le donne nell’arretratezza. Il primo a introdurre misure in questa direzione fu Ataturk, padre della moderna e laica Turchia, le cui idee ispirate dall’Illuminismo francese sono combattute dall’attuale premier Erdogan, che ha di recente severamente criticato i disegni di legge europei anti-velo integrale. Ironia della storia politica, mentre l’Europa bandisce il burqa nelle legislazioni, la Turchia post-kemalista riforma la sua Costituzione laica e introduce nella legislazione nuove leggi che permettono alle studentesse delle università turche di indossare il velo durante le lezioni.
In Turchia, il divieto di indossare il velo nelle università era in vigore dal 1925, ed è sempre stato un simbolo della laicità dello Stato. Durante i suoi ultimi viaggi in Germania e Francia, Erdogan ha paragonato l’integrazione dei musulmani d’Europa e le leggi anti-velo a un «crimine contro l’umanità». Una retorica vittimista utilizzata da tante organizzazioni islamiche europee, che tentano di colpevolizzare i governi proibizionisti accusandoli di “islamofobia”. In tutti i Paesi musulmani, la lotta per il velo ha sempre nascosto un programma ben più ampio di reislamizzazione radicale. In Iran, il velo è stato il simbolo della rivoluzione islamica in marcia. In Libano e Palestina, Hamas ed Hezbollah hanno lanciato la loro strategia di re-islamizzazione pagando le prime donne per andare per strada con il velo. Queste rivendicazioni, sempre più esigenti ed ampie, cercano di rovesciare i partiti o Stati musulmani “laici” e impedire l’integrazione dei musulmani in Occidente, per costruire delle comunità islamiche separate protagoniste di un’onda d’islamizzazione continentale. Le vicende sul burqa appaiono nell’ambito di questa strategia di escalation come una doppia trappola: se lo tolleriamo, dimostriamo la nostra debolezza. Ma se votiamo leggi non contro ogni forma di velo islamico, ma contro il solo velo integrale, rischiamo di legittimare e banalizzare il velo islamico “normale”, prima combattuto da tutti e ormai considerato un antidoto non sanzionabile dalla legge che proibisce solo i copricapo che dissimulano totalmente il viso.
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Turchia. Referendum a settembre, l’opposizione vuole bloccarlo ISTANBUL. Più che un cammino verso la nuova Costituzione sembra un percorso a ostacoli, dove la parola fine la potrebbe mettere la magistratura e dove l’imprevisto è sempre dietro l’angolo. La Turchia il 12 settembre, esattamente a 30 anni dal golpe del 1980, dovrebbe votare una riforma costituzionale fortemente voluta dalla maggioranza islamico moderata, che dovrebbe andare a sostituire quella del 1982. Il condizionale è quanto mai d’obbligo visto che la votazione potrebbe essere stoppata dai giudici. Il pacchetto definitivo verte principalmente su due punti: la riforma proprio della magistratura e la possibilità per i militari di venire giudicati dalla magistratura civile, inclusi gli esecutori materiali del golpe del 1980. Secondo l’esecutivo in carica, la nuova legge madre dello stato turco è destinata ad aumentare gli standard democratici del Paese, mettendo anche una bella ipoteca sull’ingresso in Unione Europea. Per l’opposizione è l’inizio della catastrofe, il punto di non ritorno. Con l’esercito e la magistratura in gran parte privati del loro potere, la strada verso lo strapotere di Erdogan sarebbe assicurata, con il conseguente rischio di un’islamizzazione ancora più evidente del Paese. In una Turchia torrida, che ha già raggiunto temperature estive, il clima è incandescente anche per altri motivi. L’iter parlamentare per fare approvare la bozza è stato a dire poco burrascoso. Il testo di partenza, che conteneva l’emendamento a circa 13 articoli, è fermentato fino a contarne 30. Il round di votazioni si è consumato a tempo di record. I 336 deputati dell’Akp hanno lavorato per circa 3 settimane 16 ore al giorno su esplicita volontà
Sulla Costituzione Erdogan trema Il ricorso per vietare la consultazione oggi alla Corte. Caos se fosse accolto di Marta Ottaviani
Non sono comunque mancati gli scivoloni. Uno degli emendamenti più cari al premier, quello che modificava la legge sulla chiusura dei partiti da parte della magistratura, non ha raggiunto il quorum, fermandosi a 327 voti. La cosa che ha fatto andare su tutte le furie il primo ministro è stato il fatto che ad affondare l’emendamen-
Se il voto dovesse andare a monte, per il Primo ministro sarebbe una sconfitta cocente, in grado di portarlo alle dimissioni di Erdogan, che aveva fretta di vedere il pacchetto approvato nel minor tempo possibile. Consapevole che non sarebbe mai stato approvato con una maggioranza così schiacciante da permettergli di diventare legge subito senza la consultazione. Per fare questo avrebbe avuto bisogno di una maggioranza di 367 deputati, quando è riuscito a raccoglierne poco più di 330, ossia la soglia minima per andare a referendum e non dichiarare il fallimento politico della riforma.
to sono stati proprio alcuni parlamentari dell’Akp, il suo partito, che nel non lontano 2007 aveva rischiato di essere chiuso dalla magistratura per attività anti-laiche. Erdogan e i suoi si salvarono per un solo voto, ma il ricordo dello spauracchio era ben vivo nell’animo del primo ministro, così tanto che la riforma della legge sulla chiusura dei partiti era balzato ai primi posti del suo programma elettorale. Il pacchetto è stato approvato ai primi di maggio e due giorni fa il pre-
Vertice di portata storica fra i due Stati
E il premier vola in Grecia Se la politica interna gli causa più di una preoccupazione, per quanto riguarda quella estera il premier Erdogan ha incassato ottimi risultati durante la visita del presidente russo Medvedev, che si è conclusa due giorni fa, e si prepara alla delicata missione ad Atene, dove incontrerà George Papandreu, seguito da uno stuolo di ministri e uomini d’affari. Con la Russia, Erdogan ha concluso accordi per 25 miliardi di dollari e soprattutto la firma definitiva per la costruzione della prima centrale atomica del paese della Mezzaluna. L’impianto sorgerà a Akkuyu e avrà una capacità di 4800 megawatt. Non solo: i due Paesi hanno anche abolito il visto di ingresso per soggiorni inferiori ai trenta giorni. Adesso il pensiero è rivolto a un altro vicino, la Grecia, con cui i rapporti sto-
ricamente sono sempre stati molto travagliati. Già al momento della sua elezione Papandreu aveva riservato parole di speranza al vicino di casa, schierandosi anche a favore dell’ingresso della Turchia nella Ue. Il premier di Ankara arriva ad Atene in un momento in cui la Grecia è prostrata dalla crisi economica che ha rischiato di travolgere tutto il Vecchio continente. Ankara si muove con grandi aspettative, puntando al disarmo bilaterale. Ma non manca una vena di scetticismo, sottolineata dal ministro greco della Difesa, Beglitis, secondo cui la proposta di disarmo bilaterale avrebbe molto del retorico e non terrebbe in considerazione la sovranità greca nel mare Egeo, questione per cui in passato fra i due Stati si era sfiorata la guerra.
sidente della Repubblica Abdullah Gul si è attivato per firmare il pacchetto e inviarlo così a referendum. Ma la maggioranza si è trovata di fronte a due ostacoli, uno dei quali non previsto. Il primo è il ricorso che l’opposizione presenterà oggi alla Corte Costituzionale, che dovrà deliberare se il testo proposto da Erdogan e i suoi sia conforme alla legge turca o meno e che quindi potrebbe anche bloccare la consultazione popolare. Il secondo, solo apparentemente meno insidioso, è il verdetto della Suprema Corte elettorale, che ha sposato il referendum dalla metà di luglio (come auspicato e annunciato dalla maggioranza) al 12 settembre. Una brutta sorpresa per Erdogan, che puntava al voto a inizio estate per non incorrere nelle temperature tropicali di agosto, per di più con il Ramadan, il mese del digiuno islamico, che interesserà una parte della campagna elettorale.
Se la Corte Costituzionale dovesse dare ragione all’opposizione invece il Paese cadrebbe nel caos. Il premier raccoglierebbe una sconfitta politica enorme, tale da poterlo anche portare alle dimissioni e fargli indire le elezioni anticipate. Cosa che Erdogan non ha alcuna intenzione di fare. Ma nella Turchia di questi giorni c’è spazio anche per il gossip, che rischia di rivelarsi l’ennesima tegola per il Paese. Il principale leader dell’opposizione, Deniz Baykal, è stato filmato in alcuni incontri hard con una parlamentare del suo partito, il Chp, il Partito repubblicano del Popolo. Costretto alle dimissioni, non ha esitato però a parlare di complotto ai suoi danni puntando, senza nemmeno toni poi così velati, il dito contro Erdogan e il suo partito, che avrebbero fatto in modo di fare finire il video nelle mani giuste. Il primo ministro ha mandato a dire all’avversario che lui ha fatto esattamente l’opposto perché il video non venisse reso pubblico. Pur non dubitando della buona fede di Erdogan, molto analisti nel Paese non hanno potuto fare a meno di osservare che l’opposizione adesso è ancora più debole di prima e per di più senza nemmeno un nuovo capo. A molti sembra che anche questa volta il duello non sarà fra l’Akp e la minoranza in parlamento, ma fra l’Akp e la magistratura, l’unica vera entità ad aver fatto da opposizione a Erdogan in tutti questi anni.
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Khattiya colpito durante un’intervista con il New York Times. È grave
Coro di critiche contro la scelta. L’Onu perde credibilità
Coprifuoco in Thailandia, ferito il leader della protesta
Nazioni Unite, Libia eletta al Consiglio dei diritti Umani
BANGKOK. L’ex maggiore dell’esercito Khattiya Sawasdipol, uno dei leader più radicali delle «camicie rosse» thailandesi, è stato ferito gravemente alla testa da un colpo di arma da fuoco nell’accampamento dei manifestanti antigovernativi a Bangkok. Lo riferisce la tv Thai Pbs. Khattiya, conosciuto col soprannome di “Seh Daeng” (comandante rosso), è stato portato d’urgenza in ospedale dopo una raffica di proiettili udita alle 19.25 (le 14.25 in Italia) presso la Sala Daeng Intersection, dove le camicie rosse hanno eretto la loro barricata più estesa.
GINEVRA. Malgrado l’opposizio-
Il segretario generale del primo ministro, Korbsak Sabhavasu, ha intanto annunciato che le elezioni anticipate promesse dal primo ministro thailandese Abhisit Vejjajiva per il 14 novembre non avranno luogo se i manifestanti anti-governativi (le «camicie rosse») non toglieranno subito il loro presidio fortificato nel centro di Bangkok: «Le camicie rosse non hanno accettato che verbalmente di aderire al piano per la riconciliazione - ha detto Sabhavasu -. Ma non hanno deciso di mettere fine alle manifestazioni ed è quindi impossibile organizzare le elezioni come previsto». Le camicie rosse so-
Ritirarsi dall’Iraq? Odierno: «Non ancora» Slitta di almeno un mese l’esodo delle forze Usa di Antonio Picasso indiscrezione del Guardian di ieri per cui il Pentagono potrebbe posticipare di un mese il ritiro completo delle sue truppe dall’Iraq, in agenda entro il 31 agosto, potrebbe essere fondata. Stando agli accordi, il generale Usa Raymond Odierno, comandante delle forze straniere che attualmente affiancano quelle irachene, avrebbe dovuto confermare l’ordine di exit strategy entro due mesi dalle elezioni politiche. Il Paese è stato chiamato al voto il 6 e il 7 marzo. Finora non si è raggiunto un accordo sull’effettivo vincitore di questa tornata elettorale. Contestualmente il numero di attentati e di vittime in tutto il Paese è cresciuto in maniera esponenziale. Solo ieri un attacco a Sadr City ha causato circa 12 morti. Di conseguenza, il vuoto di potere e la rinnovata instabilità hanno fatto da reagente affinché gli Usa optassero per prolungare il loro impegno militare. Peraltro la proroga di un mese valutata da Odierno potrebbe essere ulteriormente dilazionata. Tutto dipende da quello che succede a Baghdad. Ieri i due contendenti alla poltrona di Primo ministro, l’attuale premier sciita Nouri al-Maliki e il sunnita Iyyad Allawi si sarebbero dovuti incontrare per calcolare i potenziali spazi di un esecutivo di unità nazionale. Quest’ultimo sarebbe ben visto da tutti, sia dai Paesi vicini sia da Washington, in quanto rappresenterebbe un sintomo di raggiunta concordia tra i soggetti moderati, convinti della necessità di un processo di normalizzazione politica per l’Iraq. Faciliterebbe inoltre l’isolamento delle frange più estremiste. Il summit però non c’è stato. Segno che, appunto a due mesi dalle elezioni, permane l’ostinazione da ambo le parti di proclamarsi vincitore e di non voler aprire ai negoziati. Sul fronte della sicurezza, domenica scorsa è stata la giornata peggiore di tutto il 2010. Le 8 esplosioni in più città del Paese hanno causato più 100 morti. Un bilancio pesante che richiama alla memoria il periodo buio della guerra tra sciiti e sunniti nel 2006. In realtà è
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dall’inizio dell’anno che le tensioni sono tornate ad aumentare. La surge di David Petraeus non ha avuto il successo sperato. Il periodo pre-elettorale e il vuoto di governo che oggi si sta attraversando hanno offerto, al contrario, l’opportunità a chi non ha abbandonato la lotta armata di tornare nelle strade e seminare panico presso la popolazione. Al momento ci si vuole limitare a parlare di scontro interreligioso, con gli sciiti, ma soprattutto con i cristiani che subiscono quotidianamente l’impeto delle tribù sunnite. Il nome di al-Qaeda viene solo sussurrato, con il timore che, portandolo nuovamente alla ribalta, a giovarne sia proprio il gruppo terroristico.
Quattro anni fa veniva ucciso il leader di “alQaeda in Mesopotamia”, Abu Musab alZarkawi. Quello rappresentò l’inizio di un periodo di successi per Washington. Nei tre anni che seguirono i mujaheddin sunniti furono sgominati nelle province di al-Anbar e Dyyala, ma soprattutto nel famigerato “Triangolo sunnita”. Oggi sembra che il terrorismo sia tornato con nuove risorse e che si stia concentrando nella provincia di Ninive, di cui il capoluogo Mosul è ormai un target costante di attentati. Per l’Amministrazione Obama, ritirarsi dall’Iraq avrebbe un valore politico. La Casa Bianca potrebbe vantarsi della sua mission accomplished (missione compiuta). In termini operativi significherebbe poter ricollocare le truppe in Afghanistan. La sicurezza irachena quindi passerebbe sotto diretta responsabilità del governo di Baghdad, coadiuvato dalla Nato Training Mission. Alla fine dell’estate, Odierno verrà sostituito dal parigrado Lloyd Austin, attualmente Segretario generale degli Stati Maggiori congiunti. Spetta a loro, insieme a Obama e Petraeus decidere se andarsene ora – rinunciando a un successo politico comunque di facciata – oppure se restare e quanto, per proseguire nella ricostruzione del Paese. Soprattutto ora che, da quello che si percepisce, le fondamenta non sembrano solide.
Vuoto di potere e rinnovata instabilità impongono all’America di prolungare l’impegno militare. Ma per quanto?
stengono l’ex premier Thaksin Shinawatra, deposto da un colpo di stato, e manifestano da due mesi chiedendo le dimissioni del primo ministro Vejjajiva. Da cinque settimane occupano una vasta zona nel centro della capitale con un presidio fortificato da barricate di bambù, copertoni e filo spinato. L’esercito thailandese ha avvertito ospedali e cliniche della capitale di tenersi pronti ad eventuali emergenze, mentre le aziende sono state invitate a fare uscire in anticipo i propri impiegati e a concedere loro libero il venerdì. Il Governo ha dichiarato lo Stato di emergenza in 15 province per poter controllare le camicie rosse.
ne di decine di Ong e organizzazioni umanitarie la Libia ieri sera è stata eletta tra i 46 Paesi membri del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra. Ovvero nell’assise Onu che ogni anno stila una rapporto sugli abusi commessi in ognuno dei 192 Paesi membri e che spesso si è trovata a denunciare il trattamento riservato da Gheddafi non solo ai suoi con cittadini ma anche agli immigrati che ogni anno cercano, dalle coste libiche, di raggiungere l’Italia e l’Europa. Non è il primo risultato - a dir poco imbarazzante - conquistato dal Colonnello. Nel 2007, la Libia aveva conquistato la presidenza del Comitato preparatore della seconda Conferenza Onu contro
il razzismo, quella di Durban, per intenderci. E anche qui il coro delle critiche era stato pressoché unanime. Famosa, in quell’occasione, la frase pronunciata da Hiller Neuer, il direttore esecutivo dell’associazione Un Watch, Ong creata nel 1993 per monitorare l’operato delle Nazioni Unite e denunciarne le ingiustizie commesse: «Mettere il Colonello Gheddafi a presiedere la Conferenza mondiale contro il razzismo è come mettere un piromane a fare il pompiere». Non gli si può dar torto.
La cosa più grave è che si è ancora una volta ottenuta una delegittimazione preventiva dell’intera lotta contro ogni forma di abuso, razzismo e xenofobia intrapresa dall’Onu. Ma di ciò, la responsabilità esclusiva spetta proprio alle Nazioni Unite che avrebbero dovuto esprimere una scelta diversa e migliore. È vero che oggi la situazione è in parte cambiata e che la Libia ha rinunciato al terrorismo, ma è pur vero che come contropartita ha ottenuto l’eliminazione dell’embargo e la cancellazione dalla lista degli Stati canaglia. Non era forse sufficiente nella prospettiva di una sua graduale riabilitazione? Era davvero necessario regalargli un seggio nell’assise sui diritti umani?
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il saggio
Stati Uniti. I risultati di un approfondito studio affidato dalla Conferenza Episcopale americana a ricercatori indipendenti
La verità sui preti pedofili Perché i media non dicono che le prove documentate sui crimini dei religiosi sono molto meno estese (e di una natura diversa) da quello che si ritiene di Philip Jenkins* a Chiesa cattolica romana rappresenta una copertura per il più grande network del sesso al mondo? Nei mesi scorsi, un flusso costante di notizie sembra aver confermato la più cupa visione di una cospirazione globale, seguito dalle più estreme rivendicazioni di propaganda anticlericale sino a oggi. Anche i commentatori di orientamento moderato scrivono come se i religiosi sparsi per il globo abbiano fatto segretamente promessa di cospirazione, perversione e omertà. Peggio ancora, tale devianza sembra affondare le proprie radici nelle strutture di comando e controllo della Chiesa. Secondo la visione più tetra, i religiosi sono quasi incoraggiati a imboccare la strada degli abusi e della pedofilia, sicuri del fatto che i loro crimini verranno coperti da altrettanti molestatori all’interno della gerarchia religiosa fino allo stessoVaticano, con Papa Benedetto a fungere da capo dei capi. Improvvisamente, persino le sparate di Maureen Dowd e Katha Pollitt appaiono quasi plausibili. Se tutto ciò sembra incredibile, a mio parere effettivamente lo è. L’abuso sessuale da parte di esponenti del clero rappresenta una realtà, e un problema talmente grave richiede una risposta.
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Ma la questione è sicuramente diversa da quanto descritto così entusiasticamente dai media, e la maggior parte delle misure decisive in tal senso sono già state prese. Sebbene la paventata crisi venga ora dipinta in termini globali, tenterò di incentrare la mia attenzione sull’esperienza degli Stati Uniti, in quanto essa rappresenta di gran lunga l’aspetto più intensamente studiato. Lo scandalo sugli abusi sessuali scoppiato in seno alla Chiesa statunitense, ormai vecchio di un quarto di secolo, ha prodotto solidi elementi quantitativi che ci consentono di formulare affermazioni generali sui misfatti perpetrati dal clero e di dissipare certi miti. Con cognizione di causa e con una certa sicurezza, e a prescindere da quanto ciò vada contro l’opinione comune, possiamo affermare quanto segue: non vi sono prove concrete del fatto che il clero cattolico-romano abbia abusato di giovani con una frequenza diversa rispetto ai membri di qualsiasi altra congregazione o rispetto a coloro che svolgono professioni laiche e hanno a che fare con bambini. Se qualcuno ritiene che tali prove esistano, che le esponga. Le evidenze di gran lunga più esaustive derivano dallo studio condotto nel 2004 dal John Jay College of Criminal Justice di New York, intitolato La natura e lo scopo dei problemi inerenti gli abusi su minori da parte di preti e diaconi cattolici negli Stati Uniti. Nello specifico, tale indagine prende in esame tutte le possibili accuse di abusi
sessuali da parte del clero statunitense tra il 1950 e il 2002, una coorte di circa 110 mila individui. Quantunque lo studio fosse stato promosso dalla Conferenza Episcopale degli Stati Uniti, i ricercatori erano indipendenti, e il rapporto finale venne largamente elogiato. Secondo i parametri delle scienze sociali, lo studio è risultato straordinariamente approfondito, e il campione preso in esame molto ampio. Ovviamente, i ricercatori del John Jay College non sono riusciti a riportare in superficie molti casi, compresi quelli che non erano venuti alla luce prima del 2004, e altri episodi che non erano mai stati riportati. Ma hanno lavorato duramente per ovviare alle omissioni utilizzando una percentuale sorprendentemente bassa di prove per le accuse che erano state rese note. I ricercatori hanno contato tutte le accuse “non ritirate o di cui era stata accertata la falsità”, e un proscioglimento totale rappresenta uno standard molto alto. La lista include così accuse che non sarebbero emerse se
ragazzino. Almeno negli Stati Uniti, la grande maggioranza di casi di cattiva condotta sessuale da parte di preti ha coinvolto ragazzi di età superiore, tra i 15 e i 17 anni, o anche più vecchi. Tale comportamento è illegale, dannoso e peccaminoso, ma non è pedofilia. Il termine tecnico per questo tipo di atto è ephebophilia, ma molti la bollerebbero come pederastia o anche omosessualità. Il rimarcare tale distinzione non giustifica o minimizza certamente la gravità del comportamento, ma è assolutamente importante per comprendere le statistiche. I pedofili sono criminali compulsivi con un’alta probabilità di reiterare le proprie azioni, facendo centinaia di vittime. Il fatto che i veri preti pedofili formassero una minoranza implica che il numero complessivo di vittime è stato fortunatamente ben al di sotto di quanto si potesse temere. I preti pedofili certamente esistevano, ma in numero limitato. Al cuore della crisi originata dagli abusi vi era un nucleo di pedofili seriali, i quali hanno assunto un
I dati dimostrano che i sacerdoti non sono peggiori di altre categorie professionali: perché, allora, tanto rumore su di loro? non nel clamore originatosi tra il 2002 e il 2003, in seguito agli orribili scandali all’interno dell’arcidiocesi di Boston. Relativamente alle accuse, una serie di aspetti balzano agli occhi, in particolare riguardo l’immagine del “prete pedofilo” il quale porta avanti per decenni la propria carriera di criminale sotto la protezione de facto della Chiesa. Lo studio del John Jay College giunge alla conclusione che, nel corso di quel periodo, forse il 4% di tutti i preti statunitensi sono stati plausibilmente accusati di almeno un atto di cattiva condotta sessuale con un minore. Ma dei 4.392 religiosi sotto accusa, quasi il 56% ha dovuto rispondere solo di un episodio di cattiva condotta, e alcuni dei capi d’imputazione sarebbero poi caduti in seguito a un’attenta analisi dei fatti. In pochi tra i preti accusati erano pedofili, e cioè individui che avevano abusato sessualmente di un minore al di sotto dell’età della pubertà, diciamo 12 o 13 anni per un
comportamento criminale in modo massiccio, e alcuni di questi sono stati oggetto di accuse assolutamente pertinenti. Dei 100 mila preti attivi negli Stati Uniti nell’ultimo mezzo secolo, un gruppo di soli 149 individui - un religioso ogni 750 si è macchiato di oltre un quarto delle accuse di abusi mosse nei riguardi di esponenti del clero. Questi 149 super-predatori spiegano altresì il numero sorprendentemente alto di vittime in tenera età che lo studio ha evidenziato. Per tutto quel periodo, l’età media dei colpevoli è stata ampiamente distorta dal conteggio del numero ragguardevole di minori vittime di questi riprovevoli pedofili seriali. Né la cattiva condotta dei religiosi è stata un fenomeno persistente o di stato stazionario, come potremmo attenderci nel caso in cui un comportamento tendente all’abuso risultasse inevitabilmente dalle restrizioni che il celibato impone. Nel caso statunitense, i comportamenti illeciti era-
no rari, sino a quando non si è verificata un’esplosione di attività criminali nell’arco di un periodo breve, e cioè tra il 1975 e il 1980. Con grande sorpresa, in quei sei anni ebbe luogo circa il 40% di tutti i sospetti abusi su minori da parte di esponenti del clero relativamente al periodo di 52 anni preso in esame. Il perché quegli anni siano stati così orribili è una questione che deve essere ancora chiarita, ma sembra vi sia stata una netta diminuzione dei controlli morali e disciplinari che le alte autorità esercitano sui preti. Inoltre, negli anni Settanta il clero era vulnerabile a potenti pressioni sociali che incoraggiavano la sperimentazione sessuale e alla concezione secondo cui le vecchie ingiunzioni contro l’adulterio o la pederastia fossero destinate a perire nella nuova era di relativismo etico, e alcuni hanno ceduto alla tentazione. Dei religiosi ordinati nel 1970, un inquietante 10% sarebbe stato in ultima analisi destinatario di accuse di abusi. Ma la crisi fu un sottoprodotto di uno specifico periodo storico, non di alcune fondamentali criticità dello status clericale e delle strutture della Chiesa.
Inquadriamo i fatti nel contesto. In ogni anno tra il 1950 e il 2002, la Chiesa cattolica degli Stati Uniti vantava all’incirca 50 mila preti, i quali prestavano servizio a un numero di fedeli tra i 45 e i 55 milioni. Assumendo che tutte le accuse riportate dallo studio del John Jay College siano vere, ogni anno una media di circa 200 bambini avrebbe dunque subito abusi o molestie da parte di membri del clero in tutto il Paese. Ovviamente, considerato ciò che sappiamo sulle sottosegnalazioni di molestie, tale cifra appare come una grande sottostima, e anche se non lo fosse, il problema sarebbe comunque spaventoso: 200 istanze di vittimizzazione clericale sono molte. Ma le prove documentate sui crimini dei religiosi sono molto meno estese di quanto normalmente si ritiene. Anche nel clima arroventato e litigioso seguito agli scandali di Boston, lo studio non riportava accuse per 24 preti ogni 25 presi in esame. L’affermare che una percentuale X di membri del clero cattolico sia coinvolta in abusi o molestie può risultare preoccupante, ma le cifre appaiono prive di significato a meno che non vengano confrontate con quelle di altri gruppi. Supponiamo ad esempio di poter affermare con sicurezza che i preti commettano abusi con una percentuale di 10 o 100 volte superiore rispetto ai ministri del culto presbiteriani o ai rabbini ebrei o rispetto alla totalità della popolazione maschile. Potremmo quindi iniziare a investigare le cause del problema cattolico, individuandole nel celibato o in una segreta sottocultura cattolica. Sfortunatamente, non
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abbiamo il minimo termine di paragone con qualsiasi altro gruppo. Come risultato delle furiose indagini dei decenni passati, e in particolar modo con riferimento allo studio del John Jay College, il clero cattolico statunitense risulta ora l’unico grande gruppo sul pianeta a essere stato oggetto di un esame così dettagliato delle accuse di abusi a esso rivolte, mediante l’utilizzo di prove interne che non avrebbero potuto emergere altrimenti. Niente di vagamente simile esiste per altri gruppi, per i pastori presbiteriani o per il clero luterano o, anzi, per la categoria dei giornalisti. In realtà ciò non risulta proprio vero. Prima di commentare la situazione del clero, ogni osservatore dovrebbe leggere gli scritti della professoressa Charol Shakeshaft della Virginia Commonwealth University, la quale ha studiato per anni gli abusi fisici e sessuali perpetrati dagli insegnanti delle scuole pubbliche americane. Il volume di cattive condotte che ella riporta è stupefacente ed eccede di gran lunga la percentuale di abusi documentati nell’ambito del clero cattolico. Difficile da immaginare, le scuole pubbliche a volte affrontano i problemi inerenti i rispettivi corpi insegnanti trasferendoli silenziosamente in altre istituzioni senza avvertire i nuovi datori di lavoro dei perico-
li in cui potrebbero incorrere. Ciò non riecheggia forse le peggiori accuse rivolte alla diocesi cattolica? Grazie al cielo non ci preoccupiamo più di tanto dei pericoli di ordine sessuale che minacciano i nostri figli a scuola, o altrimenti dovremmo riflettere seriamente su tale questione. Se dunque i preti cattolici non sono in tal senso peggiori di altre categorie professionali e forse migliori - perché si parla così tanto della loro nomea di molestatori? Varie ragioni spiegano tale atteggiamento, nessuna delle quali riUna folla oceanica di mezzo miflette necessariamente una lione di fedeli ha assistito ieri altendenza anti-cattolica nei la messa celebrata da Benedetto media. Il fattore di sicuro più XVI nel santuario di Fatima nel importante concerne il modo giorno anniversario della prima in cui i casi vengono alla luce, apparizione della Madonna ai e cioè attraverso cause civili. pastorelli il 13 maggio 1917. La Un individuo accusa un prete messa di Joseph Ratzinger ha di abusi, e l’accusa potrebbe battuto tutti i record di affluenrivelarsi fondata. Gli avvocati za. Nel 2000, durante l’ultima viutilizzano quindi quel caso sita di Giovanni Paolo II, che come mezzo per costringere aveva anche proclamato la beauna diocesi a rivelare altre tificazione dei piccoli veggenti informazioni su accuse preGiacinta e Francisco Martos, i cedenti contro altri membri fedeli erano stati 400mila. «Si ildel clero, le quali possono riluderebbe chi pensasse che la montare agli anni Quaranta o missione profetica di Fatima sia Cinquanta o che possono alconclusa» ha detto Benedetto tresì rientrare in altre giuriXVI nell’omelia della messa cesdizioni. Un caso diventa così lebrata sulla spianata della Cova la base per tutta una serie di da Iria, denunciando il «ciclo di indagini tra loro legate, che morte e terrore che l’umanità procedono ad infinitum. La non riesce ad interrompere». Chiesa cattolica soffre acutamente del proprio carattere di
500mila con il Papa
immutabilità, caratterizzandosi come un’istituzione altamente burocratica, orgogliosa di preservare tratti di continuità istituzionale. In contrasto, immaginiamo un’accusa contro un ministro del culto battista o pentecostale, che non gode di un tale quadro istituzionale o di grande tradizione, la cui chiesa non ha casse così floride, cosicché il caso inizia e finisce con lui. Non per prendersela con una qualche particolare congregazione, ma le storie di abusi da parte del clero di qualsiasi tipo emersero regolarmente nel corso degli anni Novanta, fino a quando la maggior parte delle congregazioni divennero enormemente più dinamiche nel prevenire e scovare possibili abusi. La nuova vigilanza rifletteva in parte l’accresciuta consapevolezza dei pericoli che minacciavano i più piccoli, ma almeno altrettanto significative erano le richieste delle compagnie assicurative: o adottate nuove politiche maggiormente restrittive al fine di salvaguardare i minori, o dite pure addio all’immunità da responsabilità. Un’offerta che nessuna chiesa poteva ragionevolmente rifiutare.
Per i cattolici, con la loro distintiva organizzazione strutturale, il nuovo contesto non offriva tuttavia protezione dalle vecchie accuse che continuavano a emergere, e che spesso riguardavano atti di 40 o 50 anni prima. Ancora oggi, le chiese cattoliche stanno tentando disperatamente di difendere il proprio operato relativo a un passato lontano, quando l’atteggiamento sociale nei riguardi degli abusi sessuali era radicalmente diverso da ciò che oggi consideriamo normale. In quegli anni, le molestie venivano banalizzate tanto dagli esperti quanto dall’opinione pubblica, e chi si macchiava di tali crimini veniva normalmente trattato con il guanto di velluto. In ogni caso, solo la Chiesa cattolica è chiamata a rispondere di decisioni prese in un mondo così diverso da quello odierno; essa soltanto è soggetta all’imperdonabile giudizio per cui è facile parlare con il senno di poi. I cattolici, come i membri di altre confessioni, hanno compiuto enormi progressi nel prevenire gli abusi da parte del clero. Almeno negli Stati Uniti, pochissimi tra i casi che hanno goduto della pubblica attenzione negli ultimi anni rimontano a fatti che si sospetta siano avvenuti dopo il 1990. Ciononostante, le cause che rimontano a periodi antecedenti implicano che i “preti pedofili” siano oggetto dell’attenzione quasi quotidiana della stampa, e ciò forma (e de-forma) gli stereotipi popolari. L’Europa non è gli Stati Uniti, ed è difficile generalizzare per ciò che concerne i Paesi del Vecchio Continente. I sistemi legali differiscono tra loro, così come i presupposti sociali e le attitudini sessuali. In teoria, è possibile immaginare che in alcune specifiche nazioni il clero cattolico sia diventato così vizioso e corrotto da aver colpito sistematicamente i più giovani e cospirato per celare i propri misfatti. Ma la consapevolezza della situazione americana, e la florida mitologia che ne discende, ci deve indurre a essere molto cauti nel dare credito a tali interpretazioni da incubo. * Edwin Erle Sparks Professor of History and Religious Studies presso la Pennsylvania State University. È autore di Pedophiles and Priests: Anatomy of a Contemporary Crisis e, più di recente, di Jesus Wars.
cultura
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Saggi. Esce per Dalai “Garibaldi, l’llusione italiana”, nuovo libro di Nicola Fano e qualche anno fa mi avessero chiesto se potessi definirmi un garibaldino nell’animo, quasi certamente avrei risposto di no. Anche se disorientato dall’improvviso crollo dei partiti storici che avevano fatto e disfatto la prima repubblica, avrei cercato ancora risposte politiche più razionali e tradizionali per una possibile autodefinizione.
S
Ma questo stato d’animo è cambiato negli ultimissimi anni, quando è partita un’onda lunga di denigrazione e di calunnie nei confronti del Risorgimento in generale e di Giuseppe Garibaldi in particolare, in quanto protagonista assoluto di quel ventennio imprevedibile (senza dimenticare i precedenti) che tra il 1848 e il 1870 cambiò il volto politico della Penisola. La caduta del Muro e la fine dei blocchi ha ridato fiato a quanti non avevano mai digerito l’Unità per ragioni storico-politiche o avevano scoperto strada facendo di non digerirla più per concretissime e spesso inconfessabili ragioni materiali, e avevano individuato in Garibaldi il bersaglio ideale per dare veste culturale a una battaglia tutta politica. Perché proprio Garibaldi? La spiegazione è semplice: perché rappresenta il momento più alto, rappresentativo, mitico, popolare, fino a quel momento indiscusso e indiscutibile, del Risorgimento. «È uno dei pochi miti rimasti, è odiato in modo specifico da gente che non lo conosce, come quelli della Lega Nord, basta vedere le affermazioni pubbliche completamente inesatte dal punto di vista storico», ha spiegato Fano. Se si riesce ad affondare lui (per usare un linguaggio da battaglia navale) affonda tutta la flotta. Colpire la testa, e così via. Muovendo da questa sensazione, nel 2007 pubblicai un saggio (Obbedisco. Garibaldi eroe per scelta e per destino) nel quale cercavo di ricostruire la sua biografia privilegiando i momenti che ne hanno fatto una leggenda e tentando di riflettere proprio sulle motivazioni profonde che rendono così difficile all’Italia di oggi recuperare, rivendicare e nutrirsi dei valori trasmessi da quella vita esemplare.Tutte la nazioni hanno uno o più miti fondanti, e chi non ne ha spesso li inventa. Chi invece ne ha uno che il mondo ammira invidiandocelo e tenta di abbatterlo, costituisce un problema
L’Italia mancata dell’eroe dei due mondi di Aldo G. Ricci
che merita attenta riflessione. Per quanto ho appena accennato, penso che oggi non avrei esitazioni a definirmi garibaldino ad honorem. Sono queste le ragioni che mi
forte sintonia con quanto sopra scrivevo. Naturalmente ci sarebbe da decrittare quale sia il significato del sottotitolo: “l’illusione italiana”. È l’illusione di Garibaldi che pensava
ria, orgogliosa? È l’illusione di molti italiani che, anche quando il Titanic comincia ad affondare, pensano «io speriamo che me la cavo?».
Si potrebbe continuare, ma penso che la risposta sia meglio che ognuno la cerchi nel libro, che ne offre tante, complementari tra loro. L’autore è giornalista e storico del teatro ( e proprio all’eroe ha dedicato uno spettacolo dal titolo significativo: Tutta colpa di Garibaldi, scritto da lui insieme a Gioele Dix e Sergio Fantoni che ne ha curato anche la regia) e ha costruito un saggio che è insieme storia e pamphlet, politica e cronaca, ricco di aneddoti, riflessioni sul passato, sul presente e sul futuro. L’ho letto d’un fiato con passione, dopo aver letto per dovere in questi mesi innumerevoli libri sul nostro eroe appesantiti di note e citazioni, ma privi di anima. Questo libro invece ha un’anima, un’anima centrata sulla questione morale. La questione morale non nel senso di Berlinguer, in quell’ottica cupa e autoflagellante che caratterizzava la visione del cattocomunismo e che risultò così estranea al DNA del nostro Paese. Ma la questione morale nel senso dei valori di libertà, sacrificio, etica civile, disinteresse che costituì il nerbo e la bussola del comportamento del Generale per tutta la sua vita. Non serve in questa sede ripercorrere gli episodi arcinoti della sua vita che danno corpo e cronaca a questa affermazione. Dovrei ripetere date e nomi ovvi, oppure ripetere le parole dell’autore per dare a quelle date e a quei nomi significati e implicazioni che nascono dalla sua originale lettura. Considero questa mia breve rassegna semplicemente la segnalazione di un libro nuovo nel doppio significato di questo aggettivo. Ma si tratta di un discorso appena iniziato, perché le premesse e le considerazioni che innervano le pagine del saggio rappresentano alcuni dei temi e dei problemi sui quali il dibattito non potrà che proseguire nei prossimi mesi, se gli appuntamenti del 150° anniversario dell’Unità d’Italia non si limiteranno a riti burocratici da sbrigare il più in fretta possibile e soprattutto se si le creeranno premesse per una più generale riflessione sullo stato della Nazione, come direbbero negli States: una riflessione di cui sente più che mai la necessità e che forse proprio per questo è destinata a diventare l’ennesima delle infinite illusioni.
Le pagine dell’autore pongono il nostro Paese di fronte all’irrisolta questione morale: libertà, sacrificio, etica civile e disinteresse accompagnarono il Generale per tutta la vita Nella foto grande, il Generale nella quiete di Caprera. Qui sopra, “Garibaldi, l’illusione italiana” di Nicola Fano
hanno fatto accogliere con entusiasmo l’uscita del saggio di Nicola Fano: Garibaldi. L’illusione italiana (Baldini Castoldi Dalai editore, pp.208, euro 17,50), un testo che, se non ho frainteso le intenzioni dell’autore, mi sembra svilupparsi in
di poter costruire un paese diverso e che lo fa sospirare in più occasioni «non è questa l’Italia che sognavamo?». È l’illusione di una più ampia generazione di patrioti, anche negli anni successivi, che pensava a un’altra Italia, forte, se-
spettacoli
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Palcoscenico. Indimenticata protagonista dell’opera, la Olivero festeggia un secolo di vita all’insegna del bel canto
Magda, cento anni di gratitudine di Emilio Spedicato naggi affidati alla sua voce. Una volta, avendo lei cantato in una settimana quattro volte, l’otorino della Scala esaminò le sue corde vocali; e fu stupefatto nel non trovare traccia che avesse cantato! Grazie a questa straordinaria tecnica ha potuto cantare per cinquant’anni (come pochi altri, ma non un record visto che Taddei ha cantato per una sessantina di anni…), e avrebbe continuato se non fosse morto suo marito. Magda debuttò nel 1932, cantò nel carro di Tespi organizzato da Achille Starace, e dopo un inizio dedicato al bel canto, si spostò sul verismo, ottenendo immenso successo con la Traviata e l’Adriana Lecouvreur di Cilea. Un episodio va ricordato: dopo una Adriana, quando il camerino si era svuotato, notò in un angolo una signora che piangeva. Questa si avvicinò, la abbracciò e le disse: finora Adriana sono stata io, ora sei tu. Era Giuseppina Cobelli, grande e bella soprano degli anni Venti, che avrebbe lasciato presto le scene, per perdita dell’udito (aprì una pensioncina sul lago
l soprano Magda Olivero ha compiuto cent’anni, i miei primi cento anni, secondo il titolo di un settimanale popolare di massima diffusione, corredato da fotografie in cui Magda dimostra certamente meno della sua età anagrafica, senza contare che sul piano della memoria e della lucidità mentale i segni del passaggio del tempo sono quasi inesistenti. Cento anni festeggiati in vari modi in radio e in tv.
I
Magda Olivero è stata un soprano lirico verista con la passione per Puccini, passione che il Maestro avrebbe certamente ricambiato se l’avesse conosciuta. Come recita l’enciclopedia De Agostini, «considerata fin dagli inizi di carriera nel novero dei maggiori soprani lirici del momento, si dedicò prevalentemente al repertorio verista. Declamato, fraseggio penetrante, toni morbidi e suadenti uniti a una consumata arte scenica fanno di lei la più grande cantante-attrice verista della nostra epoca. La sua voce, un tempo molto estesa, è di smalto puro, capace di splendide filature e dorate mezze voci, resa più affascinante da una vibrazione che si accentua nei pianissimi». Nel suo libro Stelle della lirica, dedicato a circa trecento cantanti donne, è l’unica che Stinchelli definisce «divina». È noto che il celebre direttore d’orchestra Tullio Serafin considerava Caruso,Titta Ruffo e la Ponselle i tre miracoli del mondo della lirica, fra gli altri ce ne sono di bravi, aggiungeva. Questo prima del debutto della Olivero; forse avrebbe più tardi aggiunto Scialiapin e la Olivero stessa nella sua lista dei miracoli, visto che dopo un Mefistofele del ‘54 a Firenze esclamò: «lei è sempre la numero uno». E quando la Olivero, passati i sessant’anni, iniziò le tournée in Usa con enorme successo, la Ponselle che si era ormai ritirata (salvo insegnare, fra le poche allieve ebbe il nostro grande soprano Adriana Maliponte), la ascoltò alla radio e le telefonò per dirle il suo apprezzamento. Magda, Signora della lirica, come la definì il mezzosoprano Giulietta Simionato, è nata a Saluzzo in una famiglia di buon livello sociale e culturale. Avviata a una carriera musicale scelse il canto. Presentatasi a due audizioni presso l’Eiar di Torino, fu giudicata priva di capacità come cantante, ma trovò favorevole il maestro Gerus-
In questa pagina, alcuni momenti della carriera di Magda Olivero, cento anni compiuti, soprano lirico verista con la passione per Puccini, considerata fin dagli inizi di carriera nel novero dei maggiori cantanti d’opera nazionali
Sposatasi nel 1941, Magda abbandonò le scene. Nel 1946 Toscanini, che la conosceva via radio, la voleva come soprano alla riapertura della Scala, ma nonostante la sua richiesta nessuno si curò di contattarla. Fu allora la Tebaldi a vincere l’audizione con Toscanini, venendo lanciata sulle scene mondiali. Nel 1951 Magda rientrò sulle scene, caso forse unico nella storia della lirica dopo un’assenza di dieci anni. Da allora, per una trentina di anni, fu presente in tantissimi teatri in Italia e all’estero, cantando un’ottantina di opere. Straordinari furono i successi in America, a Dallas e al Metropolitan di New York dove una sua Tosca ebbe quaranta minuti di applausi, record forse assoluto. Il pubblico era come in trance, preso dalla voce e dall’aspetto di questa cantante-attrice, dalla figura molto bella, da molti chiamata l’Alida Valli della lirica. La Olivero ha cantato con Pertile, Gigli, Schipa,Tagliavini, Corelli, Di Stefano, Pasero, Pavarotti, Domingo, Protti, Bastianini, Simionato, Elmo, Stignani, stimando particolarmente Di Stefano e Corelli. Sul mercato sono poche le registrazioni di opere con la sua voce, quasi tutte dal vivo e pochissime in studio.
R i tira tasi defi n iti vam en te
si, erede della tecnica di canto del baritono ottocentesco Cotogni. Sotto la sua guida, e poi lui morto - sotto quella del maestro Luigi Ricci, Magda eliminò gli errori nella respirazione e sviluppò straordinarie capacità tecniche. Poteva raggiungere il sol sopracuto della quinta ottava (la Callas arrivava al fa; ma Lina Pagliughi al la, Wilma Lipp e le cantanti pigmee alla sesta ottava).
Eseguiva un’opera senza l’affaticamento dell’organo vocale, ma solo con quello mentale e psicologico, dovuto all’assoluta identificazione che otteneva con i perso-
È stata un soprano lirico verista con la passione per Puccini, passione che il Maestro avrebbe certamente ricambiato se l’avesse conosciuta di Garda, morì di tumore nel 1948; una sua biografia uscirà a breve dopo il casuale ritrovamento di sue lettere, foto e altro ancora a casa della signora che le fu vicina negli ultimi tempi, ora di circa 95 anni).
dalle scene, Magda ha mantenuto i contatti con il mondo della lirica come presidente di commissioni in concorsi per cantanti. A fine 2007 si è inaugurato il concorso internazionale per cantanti “Magda Olivero”. Vincitore della prima edizione un baritono coreano, secondo un tenore giapponese, poi due soprani dell’Est europeo. Su circa centottanta domande, solo un paio erano di italiani. Ma nell’ultima edizione ai primi posti un soprano napoletano dalla voce molto intensa e bella. Il repertorio di Magda, sulla base del suo biografo Quattrocchi, consiste di settantaquattro opere di ben quarantaquattro autori, di cui numerosi autori moderni anche poco noti. Pochi invece gli autori del diciottesimo secolo o antecedenti, mentre sono numerosi i grandi protagonisti dell’Ottocento: da Alfano a Bizet, passando per Boito e Catalani, e ancora Ciaikovskij, Giordano, Gounod, Mascagni, Massenet, e naturalmente Puccini, Verdi, Zandonai. Nessun opera di Rossini o Bellini, sebbene varie opere di questi autori le avesse studiate e fosse in grado di cantarle.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
A proposito di vento e corruzione... Ho letto l’articolo “Ma al Sud c’è più vento che corruzione?”, nel quale si rappresentano in merito alla tecnologia eolica alcuni dati destituiti di fondamento, e cioè il fatto che gli impianti eolici verrebbero installati in zone poco ventose perché tanto godono di incentivi europei e in particolar modo al sud.Tale notizia non è veritiera e chiediamo che venga fatta una rettifica al fine di ristabilire la verità sul punto, che peraltro scredita un comparto e un settore dell’economia nazionale che consente a oltre 15.000 unità di lavorare solo in Italia, e che consente di produrre energia elettrica per l’equivalenza dei consumi domestici di oltre 7 milioni di concittadini. Premettendo infatti che la remunerazione per la produzione elettrica da fonte eolica è basata sulla produzione reale, tanto immetti in rete tanto vieni pagato, ne deriva che quanto affermato nell’articolo rispetto al ricorso ai finanziamenti europei è falso. Quanto poi scritto riguardo al fatto che per l’eolico esisterebbero dei fondi europei che garantirebbero il ritorno degli investimenti anche in assenza di vento, non è reale. Gli incentivi pubblici di ogni natura sono vietati secondo quanto disposto dalla finanziaria 2008, che li esclude dalla cumulabilità con la remunerazione vigente. Inoltre nel citato articolo, ci si domanda perché i «pali eolici sono disseminati al Sud mentre al Nord c’è poco o niente?», la risposta a tale domanda è che la risorsa eolica può essere fruttata dolo dove è presente e, per motivi orografici e anemologici, nell’Italia centromeridionale appenninica e insulare. Infine, si dice «le fonti alternative di energia non sono sufficienti a mandare avanti neanche i vecchi scaldabagni». In realtà, la produzione elettrica eolica della sola Italia nel 2009 è stata pari a 6,7 Twh, pari ai consumi domestici di oltre 7 milioni di cittadini, altro che favoletta! L’Anev è da molti anni il punto di riferimento nazionale e internazionale per il settore eolico italiano.Tra gli scopi vi è anche quello di promuovere lo sviluppo e la conoscenza della fonte eolica in maniera del tutto oggettiva e di favorire la corretta diffusione dell’informazione.Vi sono numerose iniziative per stimolare lo sviluppo delle fonti pulite per la produzione di energia, che oltre a garantire benefici ambientali, supporta l’innovazione tecnologica, il risparmio energetico, la generazione distribuita, il risparmio di materie prime, l’indipendenza energetica, lo sviluppo di nuovi posti di lavoro e molti altri benefici evidenti chiunque si fermi con onestà intellettuale a ragionarci.
Simone Togni - segretario generale Anev
risponde Giancristiano Desiderio Ho letto con interesse la lunga replica del dr. Togni ma non vi ho trovato argomenti convincenti né dal punto di vista economico né da quello scientifico per sostenere che le fonti di energia alternativa sarebbero la soluzione di tutti i problemi energetici. Ho esperienza diretta dei parchi eolici e so, perché le vedo quotidianamente, che le pale non girano quasi mai. Sia con il vento sia
senza vento. Per essere almeno in parte utili dovrebbero girare a tremila ore all’anno, ma gli impianti non raggiungono neanche le duemila ore. Per quanto riguarda la distribuzione delle pale eoliche sul territorio nazionale si può consultare la documentazione raccolta da Carlo Ripa di Meana di Italia Nostra e Oreste Rutigliano: lo squilibrio tra Nord e Sud è fin troppo evidente e non dipende dal vento. Per l’impatto ambientale si
Luci di Shangai Shangai è la più popolosa città della Cina e una delle città più popolose del mondo. Considerata la capitale economica del Paese, Shanghai è un centro finanziario e commerciale di primaria importanza. Il suo porto è uno dei più trafficati al mondo con Singapore e Rotterdam
può leggere quanto giustamente scrive Vittorio Sgarbi nel suo libro Clausura a Milano e non solo, ma anche se non si ha il gusto estetico del critico e si ama la bellezza italiana si può facilmente ammettere che le pale eoliche sfregiano il paesaggio.Tuttavia, se l’energia eolica fosse decisiva per la produzione di “potenza energetica” si potrebbe anche mettere in conto un danno controllato. Ma l’energia eolica o solare è un’illusio-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
ne perché gli impianti non producono “potenza energetica”, ma sono dei semplici trasformatori di energia. Proprio questa differenza fondamentale tra energia generica e potenza energetica è ciò che i sostenitori dell’energia eolica non citano mai. Per saperne di più si legga il contributo di Franco Battaglia L’illusione dell’energia dal sole edito dal Cidas di Torino. Ma sono certo che il dottor Togni è ben documentato.
da ”Haaretz” del 13/05/10
Il pasticcio di Gerusalemme l clima si surriscalda anche all’interno del governo d’Israele. Martedì è stato il turno del ministro della Difesa Ehud Barak dover biasimare aspramente alcuni suoi colleghi di governo. Il casus belli sono stati alcuni commenti definiti come «provocazioni» dall’ex generale dell’esercito israeliano. Dichiarazioni che non farebbero che danneggiare le già complicate relazioni con gli Stati Uniti. E di conseguenza gli sforzi di Washington di rimettere in carreggiata i cosiddetti colloqui di pace «indiretti». Dove sarebbero gli uomini della Casa Bianca i mediatori tra palestinesi e Stato ebraico. «Raccomando a entrambe le parti, la nostra e quella palestinese, di astenersi dal fare dichiarazioni avventate» avrebbe affermato Barak rispondendo a una sequela di commenti fatti dai suoi colleghi di gabinetto nei giorni scorsi. L’argomento era naturalmente legato alla città di Gerusalemme e alle nuove costruzioni. «Certe affermazioni non fanno che danneggiare gli interessi d’Israele, sia nelle relazioni internazionali che in quelle con gli Usa» ha aggiunto il ministro della Difesa.
I
« S o n o c o n s i d e r a z i o n i che fanno apparire Israele non interessata al processo di pace e ne distruggono la credibilità internazionale». Le critiche di Barak sono arrivate giusto poche ore dopo l’uscita del ministro dell’Interno, Eli Yishai. Aveva affermato che non sarebbe mai stato d’accordo al congelamento degli insediamenti a Gerusalemme. E come se non fosse bastato aveva poi aggiunto che «questa richiesta americana» non sarebbe mai stata soddisfatta. Il ca-
po del dicastero degli Interni aveva anche sollecitato affinché si facilitassero tutte le nuove costruzioni all’interno d’Israele e specialmente a Gerusalemme «capitale dell’eterna patria della nazione ebraica». I problemi erano nati all’inizio di maggio, quando un rappresentante dell’amministrazione Usa aveva dichiarato che Israele si era impegnata a cessare per due anni ogni costruzione nel quartiere di Ramat Shlomo a Gerusalemme est.
Poi quando gli americani si erano accorti che non era affatto così, si erano scatenate le tensione tra Usa e Israele. Intanto mercoledì il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman aveva rilasciato un’intervista ad Haaretz. Molte delle aperture fatte dagli israeliani verso i palestinesi erano state ricambiate con «degli schiaffi in faccia», aveva affermato Lieberman. L’intervsita era stata telefonica, visto che il ministro si trovava in Giappone. «Abbiamo preso la decisione unilaterale per una moratoria, con il blocco di tutte le costruzioni in Giudea e Samaria, abbiamo eliminato un numero incredibile di posti di blocco sulle strade. Riconosciamo l’idea di due popoli e due Stati». Il capo della diplomazia israeliana ha aggiunto che non esiste alcun accordo con Washington per il blocco delle costruzioni a Gerusalemme est, che non è mai esistito. L’America non ha mai imposto nulla a Israele. Tutta la faccenda è per il ministro una grande «incomprensione». Sia l’intervento di Yishai che
di Lieberman erano giunti dopo che il ministro per la Sicurezza, Yitzhak Aharonovitch, aveva promesso che la polizia avrebbe continuato a demolire ogni abitazione palestinese abusiva nella parte est della capitale, indipendentemente dall’avvio dei colloqui di pace. Gli Stati Uniti, che stanno lavorando a una ripartenza dei colloqui di pace, hanno avvisato entrambe le parti di astenersi da portare a termine azioni provocatorie a Gerusalemme est. Mercoledì anche il premier Netanyhau aveva alzato i toni.
«Continueremo a costruire e a farlo a Gerusalemme. Continueremo a promuovere piani di sviluppo. E non possiamo farlo in una città divisa» e aveva aggiunto che la convivenza tra arabi ed ebrei non sarebbe stata un ostacolo. «Non faremo più diventare Gerusalemme una città divisa e isolata». Tutto questo avveniva nel Gerusalem Day, la ricorrenza che ricorda la conquista della parte orientale della capitale avvenuta nel 1967.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Mi spaventa la quantità di cose da dirti Carissima Ludovica, ho ricevuto adesso la tua lettera e ti rispondo subito perché se no perdo l’indirizzo e non ti posso più scrivere. Tante volte ho pensato di scriverti e poi non l’ho fatto, mi spaventava un po’ la quantità di cose da dire. Ho avuto sempre tue notizie da Lola. Chi sa quando ci rivedremo? Io non ho bambini nuovi, purtroppo ho avuto vari aborti. Carlo Andrea e Alessandra stanno bene, e cominciano a non essere più tanto piccoli. Pensiamo di andare a Roma ma è un affare lungo cercar casa. Mio marito insegna al Magistero di Roma e va avanti e indietro. Cerchiamo casa ma i prezzi là sono alti. Io lavoro sempre alla casa editrice e continuerò a lavorare anche stando a Roma.Vorrei sapere qualcosa di più su di te, non dici molto. Perché non vieni qui, almeno per qualche mese? Vado qualche volta a Roma quando Gabriele è lì, vedo i Balbo, non ho nuovi amici. Siccome mi fermo sempre pochi giorni vedo quasi solo i Balbo, i Motta non faccio a tempo a vederli e anzi Teresa è un pezzo che non la vedo. So che è incinta e non sta tanto bene. Quella mia cosa di «Botteghe oscure» credo che non valga molto, non cercarla. Spero di scrivere qualcosa di meglio. Scrivimi ancora, poi io ti rispondo. Natalia Ginzburg a Ludovica
LE VERITÀ NASCOSTE
Delhi, convivere non è (più) reato DELHI. Il sesso extra matrimoniale e la convivenza tra coppie non sposate «non può costituire un reato». Lo dicono i giudici della Corte Suprema indiana che si è espressa su un argomento che in India è ancora un tabù: i rapporti sessuali. «Se un uomo e una donna adulti decidono di vivere insieme non commettono nessuna trasgressione della legge», ha detto il presidente del massimo organo giudiziario indiano K.G. Balakrishnan, citato dall’agenzia indiana PTI. Per rafforzare la loro tesi i giudici hanno anche citato l’articolo ventuno della Costituzione indiana, che garantisce la libertà personale dei cittadini e perfino la mitologia indù, che esalta l’amore tra Krishna e Radha. La Corte Suprema si è pronunciata su una petizione presentata da Khusboo, attrice indiana del sud del Paese, che in un’intervista del 2005 aveva detto di non essere contraria al sesso prima del matrimonio. La star era stata accusata di corrompere i giovani e contribuire alla degradazione dei valori morali del Paese. «L’accusa è in grado di verificare quante ragazze sono scappate di casa dopo l’intervista?» si sono chiesti i giudici nelle loro osservazioni. In un altro caso destinato a suscitare scalpore, la Corte Suprema ha deciso di ritornare su una precedente decisione con cui depenalizzava le brutalità commesse contro le nuore dalle suocere e dai familiari del marito. Secondo quanto riferisce in prima pagina The Times of India, la Corte rivedrà quel clamoroso giudizio emesso del 2009 in cui depenalizzava le aggressioni di cui sono spesso vittime nelle famiglie le giovani spose costrette a portare in dote notevoli somme di denaro e beni preziosi. L’India, insomma, si avvia con fatica verso il III millennio.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
TATUAGGI ONLINE. SITO CON PUBBLICITÀ INGANNEVOLE? È stato segnalato un sito internet per appassionati di tatuaggi, che invita a registrarsi per accedere ad una banca dati di disegni per tatuaggi, dando l’impressione che l’operazione sia gratuita. Per visionare i disegni bisogna registrarsi al sito www.tatuaggi.it, e quando si accede alla pagina di registrazione non c’è modo diretto di comprendere che in realtà non ci si sta “semplicemente”registrando ad un sito, ma si sta sottoscrivendo un vero e proprio contratto a pagamento, dal costo di 84,00 euro all’anno: un’ambiguità che induce o potrebbe indurre in errore il navigatore. Già un anno fa, un altro sito internet che forniva lo stesso tipo di “servizio”fu denunciato all’Autorità Garante della concorrenza e del mercato. L’Antitrust, nell’ aprile 2009, aveva accertato che la pratica commerciale messa in atto sul sito www.tatuaggifantasy.com era scorretta, ne aveva inibito la diffusione ulteriore e aveva sanzionato la società che forniva il servizio al pagamento di 22.000,00 euro. Una cifra decisamente modesta e poco “punitiva”, inidonea a dissuadere le altre società dal mettere in atto pratiche scorrette. Tant’è che, come in questo caso, la storia si ripete. Bisogna che l’Antitrust apra un nuovo procedimento per pratica commerciale scorretta, e che siano presi tutti gli opportuni provvedimenti del caso chiedendo, nel caso di condanna e successiva emissione di sanzione amministrativa, che gli importi di quest’ultima siano più consistenti.
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Convegno: “Il Presidenzialismo all’italiana”. Conclude l’onorevole Ferdinando Adornato GIOVEDÌ 20 ORE 16, TODI, HOTEL BRAMANTE
Consiglio Nazionale Circoli liberal
SEMINARIO TODI 2010 20, 21 E 22 MAGGIO - TODI - HOTEL BRAMANTE
“VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” - Per difendere l’unità d’Italia e ricostruire la Repubblica Inizio lavori giovedì 20, ore 16,30 SEGRETARIO
Emmanuela Bertucci
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IN MEMORIA DI ALDO MORO E DELLE VITTIME DEL TERRORISMO «Le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi ad esprimere il de profundis, il grido, il pianto, dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. Signore, ascoltaci, e chi può ascoltare il nostro lamento? Se non ancora tu, o Dio della vita e della morte, tu, non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico… Fa o Dio, Padre di misericordia, che non sia interrotta la comunione che pur nelle tenebre della morte ancora intercede tra i defunti da questa esistenza temporale e noi tutt’ora viventi in questa giornata, di un sole che tramonta, non è vano il programma del nostro essere di redenti; la nostra carne risorgerà! La nostra vita sarà eterna! Noi, Aldo, e tutti i viventi in Cristo, beati nell’infinito Iddio, li rivedremo. E intanto, o Signore, fa, che placato dalla virtù della tua croce, il nostro cuore sappia perdonare l’oltraggio ingiusto e mortale inflitto a quest’uomo carissimo e a quelli che han subito la medesima sorte crudele».Vogliamo ricordarlo così, con le parole pronunciate, nel corso dell’omelia funebre celebrata in suo onore dal Sommo Pontefice, Paolo VI: era il 13 maggio del 1978. Affinché il suo sacrificio e il suo ricordo restino indelebili nelle nostre memorie. Aldo Moro è ancora insieme a noi, vive negli insegnamenti profondi di uomo di fede e di politico legato ai valori e agli ideali dello Stato. Non sta a noi, ora, ricordarne le qualità e le virtù: è la storia a testimoniarle. Sta a noi, piuttosto, conservarne l’eredità umana e politica, e farne tesoro, per un impegno cattolico che possa essere sempre più congiunto alle istituzioni e sempre più protagonista. Oltre al presidente Aldo Moro, il nostro ricordo va anche a Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi (gli uomini della sua scorta) e a tutte le vittime del terrorismo. Giovanni Folino G I O V A N I UD C CA L A B R I A
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ULTIMAPAGINA Giochi. Il Molleggiato a Palazzo Marino? Vediamo con quale programma
Per Celentano c’è una Milano in formato di Gabriella Mecucci cco il programma di Adriano Celentano, candidato sindaco di Milano: liberal è in grado di dirvelo in anteprima. Breve premessa: critica serrata della vita in città: «Guarda bene come cià conciato la metropoli» cantava il molleggiato in Un albero di trenta piani, e continuava: «Tutti grigi come grattacieli/ con la faccia di cera/ è la legge di questa atmosfera/ che sfuggire non puoi/ fino a quando tu vivi in città». L’idea prima è riportare quanto più possibile il clima della via Gluck dove si va «a piedi nudi a giocare sui prati, mentre là in centro si respira il cemento». E altra canzone - quando «nuda sulla pianta prendevi il sole con me e cantavano per noi sui rami le allodole». A questo Eden si è sostituita la metrapoli che il Comune però sostiene essere moderna, quindi giù con le colate di cemento e con gli attacchi di nevrosi.
E
La poesia della natura continua in Celantano in molte canzoni e sfocia poi nella prosa degli articoli sul Corriere. Da questo insieme vengono fuori due semplici punti programmati: più verde in città, giù i palazzi brutti e via i grattacieli. Non sarà semplice - se davvero il molleggiato si candidasse - far fronte all’onda di cemento e vetro dell’Expo 2015, al quale stanno lavorando alcune delle più famose star dell’architettura. Ma come si fa ormai a fermare una macchina da tempo messa in moto e sapientemente oliata? Il nostro spalancherebbe la sua grande bocca e non ci/si prenderebbe troppo sul serio.
per gli altri/ che sono tristi perchè non sanno/ il vero amore cos’è». Quindi, dovremmo aspettarci dal Comune di Milano un impegno particolare per difendere «il vero amore» e i suoi frutti: i figli. Ci saranno asili nido e mense scolastiche per tutti i ragazzi, altro che discriminazioni nei confronti degli extracomunitari, come più volte ha chiesto certo leghismo d’assalto. In compenso a Maroni piace il rock figurarsi chi ha cantato: «Il tuo bacio è come un rock» Del resto, Celentano con Bossi su alcuni punti, in passato, è andato d’accordo. Certamente sul rendere il meno pervasivo possibile il diritto di sciopero. Chi non ricorda l’ammonimento: «Chi non lavora non fa l’amore», lanciato dal palcoscenico di Sanremo in piena epoca di contestazione di sinistra? Allora i
VIA GLUCK
fesa della famiglia: «Il vero amore/ per sempre unito dal cielo/ nessuno in terra, anche se vuole / può separarlo mai. L’ha detto lui! Siamo la coppia più bella del mondo/ e ci dispiace
sparato/una raffica di mitra/ e sei rimasto a terra fulminato/con una calza nera/ hai il viso incappucciato/ma sotto il volto vero/ di tutto il sud emarginato/ Per le strade di Torino/ polizia e malviventi/ sono tutti di una razza/ sono figli degli stenti».Versi di stampo pasoliniano difficilmente condivisibili per tipo come Salvini. E poi oggi al posto dei meridionali ci si potrebbero mettere gli extracomunitari. Figurarsi Borghezio!
Forse sul serio e forse per scherzo, circola la voce che il cantante possa candidarsi a sindaco della città: ecco i sei punti del suo “progetto politico” letto nelle canzoni e nei discorsi pubblici lumbard erano ben lontani da venire, ma la coppia Celentano-Mori (lei è poi diventata una quasi gauchiste) aveva già iniziato a criticare alcune delle idee guida sessantottine
Al secondo punto del documento canoro c’è – senza ombra del dubbio – la di-
somma, meno spese, giù le tasse sulla benzina e quant’altro.Tagli di bilancio in vista per il Comune di Milano. Difficile riuscirci se si vogliono fornire ai cittadini verde e servizi. Ma Celentano può fare i miracoli. Quinto punto. Lo ritroviamo in una vecchia canzone: Ragazzo del Sud. Si tratta di un filo meridionalismo che si scontrerà con Bossi. Altro che “terùn”, il rockettaro d’Italia prova pietà e solidarietà per gli emigrati: sentimento molto compromettente a bordo del carroccio. «Mentre scappavi/ un poliziotto ti ha
Quarto punto. Giù le tasse, anche quelle comunali. Il molleggiato ha scritto sul Corriere che pagava al fisco il
62 percento dei suoi redditi e che sarebbe stato equo non prelevare dalle tasche dei contribuenti più di un terzo dei guadagni. C’è poi una canzone che un tempo eravamo nella prima Repubblica fu considerata l’inno del qualunquista: «Eh la benzina costa sempre di più/ cambiano i governi niente cambia lassù/ c’è un buco nello Stato dove i soldi van giù». In-
Sesto punto. Si tratta dello sfondo culturale che sta dietro Celentano: una profonda religiosità cristiana e una vicinanza con la chiesa cattolica: «La fede è il più bel dono che il Signore ci dà», cantava in Pregherò. Se il programma è chiaro, è davvero difficile capire con quale giunta il molleggiato lo porterà avanti. La sua candidatura è stata proposta da Mario Capanna. Ma tanti dei punti elencati farebbero diventare giallo di bile l’ex sessantottino che dovrebbe rinunciare a tutto in nome dell’ambientalismo, l’unico trait d’union con Celentano. Con la Lega, poi, ormai polmone politico del centrodestra al Nord, peggio che andar di notte. Con la sinistra e dintorni sarà difficile non solo sul piano programmatico ma anche perché nel 2008 il cantante fece il suo endorsement per Berlusconi. Epperò, un Berlusca ecologista – proprio ora che ha deciso di fare le centrali nucleari – è inimmaginabile. E Veltroni, che piaceva alla Mori, per il momento si occupa di letteratura. Allora, niente? È probabile. Celentano i miracoli li fa solo quando canta.