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Un buon leader lascia
uomini in grado di proseguire la sua opera Walter Lippmann
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 15 MAGGIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il Tribunale del riesame decide di lasciare l’inchiesta sulla Protezione civile a Perugia. E Alfano prepara un ddl anticorruzione
Il caso del Cavaliere “usato“
Lo scandalo Anemone denuncia un sistema o solo colpe di singoli? Ed è credibile il nuovo Berlusconi moralista che dice «si sono approfittati di me»? Proviamo a diradare i polveroni... La speculazione è ancora in agguato: giù le Borse e l’Euro
Oltre Maastricht È urgente un nuovo patto dell’Eurozona di Rocco Buttiglione a crisi greca ha imposto alla Unione Europea di riscrivere le regole della governance economica. Da tempo molti osservatori segnalavano il fatto che non è possibile avere una moneta unica senza un unico governo della economia. Adesso questa è divenuta la dottrina ufficiale dell’Unione. Davanti allo squilibrio dei conti della Grecia vi erano, teoricamente, due possibilità. La prima era lasciare che la Grecia facesse fallimento dichiarando la propria impossibilità a pagare i debiti contratti. L’altra era garantire il debito greco. Se si fosse scelta la prima via si sarebbe detto alla speculazione che vale la pena di speculare contro il debito pubblico di uno stato membro per trarre vantaggio dalla eventuale bancarotta. Sarebbero stati a riIn Italia schio, a catena, il debiservono to pubblico portogheriforme se, irlandese e spagnoper tornare lo. E dopo nessuno sa la speculazione a investire dove si sarebbe arrestata. sul futuro Saggiamente si è scelto di sostenere la Grecia (e gli altri paesi immediatamente minacciati). Le risorse mobilitate sono massicce, tali da coprire i titoli in scadenza di questi paesi per i prossimi tre anni. Naturalmente un sostegno così massiccio deve avere condizioni precise. Nessuno stato deve immaginare di potere indebitarsi senza fine contando sulla copertura automatica della Unione. È dunque necessario adottare un controllo preventivo e penetrante sui bilanci degli stati membri. Inganni come quelli che hanno permesso che il debito greco lievitasse senza controllo non devono più essere possibili.
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PRIMA E SECONDA REPUBBLICA
di Errico Novi
Le malattie senili del populismo
ROMA. La mappa degli appalti fa paura a Berlusconi che ieri ha promesso fermezza: «Nessuna impunità per chi ha sbagliato. Ma basta isterie e liste di proscrizione». Così, ha fatto annunciare al Guardasigilli Alfano un ddl ah hoc contro la corruzione. L’ennesimo, dopo che un annuncio simile era già stato fatto prima delle elezioni regionali. D’altra parte, non è chiaro se la corruzione a questo punto riguardi un sistema di controllo degli applati pubblici o sia solo un problema di singoli. Perché, anche ammesso che siano solo colpe di singoli che “hanno approfittato” di Berlusconi, perché il premier ha lasciato che altri s’approfittassero di lui? a pagina 2
Crisi globale e scandali nazionali
di Francesco D’Onofrio olo raramente si registrano scritti sulla situazione politica italiana a partire dal 1994, particolarmente interessati a porre in evidenza il rapporto tra unità nazionale da un lato e idea di partito politico e di popolo dall’altro. Si tratta – invece – di una questione fondamentale non ancora risolta in questa stagione che chiamiamo il tempo della Seconda Repubblica.
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RITORNO ALL’ANTIPOLITICA
L’analisi di Biagio De Giovanni
Sì, è il momento «Il Pd sbaglia: di un governo deve appoggiare di emergenza l’idea di Casini» Evitiamo la trappola «Non si possono lasciare di un’altra Tangentopoli i centristi alla destra» Enrico Cisnetto • pagina 3
Francesco Capozza • pagina 9
di Enzo Carra erlusconi ha cambiato idea. Ha cambiato toghe. Quelle che vede oggi non sono più rosse. Le indagini sui suoi collaboratori, ministri, sottosegretari, coordinatori non sono attacchi comunisti, ma inchieste giudiziarie. Né più né meno. È una svolta. Niente impunità: Alfano e i suoi questa volta non devono preparare leggi “salva” qualcuno ma contro la corruzione. a pagina 2
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Sette morti a Bangkok dopo la rivolta
il personaggio della settimana George Osborne guida l’economia di Cameron
È caos in Thailandia, L’esercito spara sulla folla
Baronetto, trentottenne, tesoriere della Regina
di Pierre Chiartano
di Maurizio Stefanini
iornata drammatica quella di ieri a Bangkok, dove secondo fonti ospedaliere sarebbero sette i morti e più di cento i feriti in seguito agli scontri scoppiati nella zona commerciale della città thailandese. Dopo sette giorni di tregua, le violenze sono riesplose proprio nel momento in cui si sperava che il negoziato tra governo e ”camicie rosse” potesse portare a un accordo. E Frattini avvisa i turisti: «Non andate a Bangkok».
dall’Ottocento che la seconda carica del governo britannico non andava a un titolare così giovane come George Gideon Oliver Osborne: il trentottenne nuovo cervello economico del governo di coalizione CameronClegg. Ma d’altra parte nel Regno Unito accanto al Governo di Sua Maestà esiste anche il Governo Ombra dell’Opposizione di Sua Maestà, e lì Osborne era diventato Cancelliere dello Scacchiere ombra addirittura a 33 anni.
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segue a pagina 30 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO
Se il premier si oppone a se stesso
I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
93 •
WWW.LIBERAL.IT
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Liste. Secondo Realacci (Pd): «Fu il premier a rifiutarsi di cambiare questo sistema nonostante le richieste dell’Ue»
Roma appesa a Perugia Il Cavaliere annuncia: «Nessuna impunità per chi ha sbagliato, ma basta isterie». E il Tribunale del Riesame lascia l’inchiesta alla procura umbra di Errico Novi
ROMA. In un clima sempre più confuso la Procura di Roma interviene e fa intravedere qualche crepa anche sul fronte degli inquirenti: «La cosiddetta “lista Anemone” non è mai stata trasmessa, comunicata o comunque portata a nostra conoscenza», dice Giovanni Ferrara, capo dei pm capitolini. A riprova che la vicenda dei favori elargiti dal costruttore politici, vertici dell’amministrazione, loro parenti, amici e accoliti, questo indecifrabile groviglio di interessi si complica anche per lo scontro sotterraneo tra apparati. Ossia tra Procure, spezzoni dei servizi, corpi dello Stato. Poche ore dopo oltretutto dal Tribunale del Riesame di Perugia arriva la decisione di lasciare alla Procura del capoluogo umbro la competenza sull’inchiesta madre di tutto lo scandalo, quella degli appalti per i grandi eventi. Passa dunque la linea dei pm perugini, mentre secondo la lettura data in precedenza dal gip, la competenza sarebbe spettata a Roma. Un esito, quello emerso dal Riesame, che avrà dunque riflessi non secondari sull’andamento delle indagini.
Ma è soprattutto nel ruolo dei servizi di sicurezza che si trova probabilmente la chiave decisiva. Sembra poter risiedere lì il fulcro della rete di connessioni e complicità emersa nelle ultime ore. Di certo colpisce il potere d’influenza acquisito in pochi anni da un imprenditore come Diego Anemone, così ben introdotto nei livelli superiori dell’amministrazione. Ma proprio il tipo di legami da lui intessuti fa pensare a un sistema di ricatti, o comunque di coperture obbligate, di ordine coatto imposto da un grumo di imprese e pubblici uffici. Se è così vorrebbe dire che la politica si è lasciata agevolmente circuire e imprigionare. E che anche una leadership apparentemente forte come quella di Silvio Berlusconi dovrebbe aver verificato, di fronte a tutto questo, la propria impotenza. C’è un livello di decisioni e influenze che a questo e a precedenti esecutivi sarebbe dunque sfuggito. È chiaro in ogni caso l’affanno
La linea della fermezza rappresenta una nuova svolta nella strategia del premier
Se Berlusconi decide di opporsi a se stesso di Enzo Carra erlusconi ha cambiato idea. Ha cambiato toghe. Quelle che vede oggi non sono più rosse. Le indagini sui suoi collaboratori, ministri, sottosegretari, coordinatori non sono attacchi comunisti, ma inchieste giudiziarie. Né più né meno. Dice il presidente del consiglio che se i magistrati accerteranno «uno, due, tre casi di comportamenti illegittimi», allora non ci sarà «indulgenza o complicità per chi ha sbagliato». È una svolta. Niente impunità: Alfano e i suoi questa volta non devono preparare leggi “salva”qualcuno ma contro la corruzione.
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di sicofanti che alle sue spalle, tra un inchino e l’altro, hanno messo da parte un deplorevole patrimonio di case e di reati. Sempre che tutto ciò sia provato (noi, infatti, rimaniamo garantisti). Si è sentito tradito, Berlusconi. Il supremo capitalista che non si è mai approfittato del denaro pubblico «perché non ne ha bisogno, essendo già molto ricco». Tradito da un gruppo di piccoli borghesi con l’ambizione del salotto buono in centro. «Tanto ci pensa Anemone». Tradito dalle loro scuse pacchiane e inverosimili. Un governo può cadere per un grave errore politico, ma non per un eccesso di investimenti nel settore edilizio se quegli investimenti in quel settore si limitano a quelli relativi alle case dei gerarchi. Repulisti, dunque. Fanno così, da sempre, i grandi capi. I capi veri (dei quali non facciamo un sia pur essenziale elenco per decenza e per scaramanzia). Quelli che scaricano i gruppi dirigenti per scaricare con essi anche lo scontento popolare. Loro, i leader, invece rimangono ben saldi al comando. Rafforzati per la pulizia delle cantine che tanto rallegra la gente. Chi ha sbagliato paga, rinnovarsi o perire. Un tempo l’espulso era un nemico del popolo, o semplicemente un profittatore di regime. Ancora qui, da noi, la «politica è una cosa sporca». Così la pensano milioni di italiani alla cui guida c’è sempre lui, Silvio, con i direttori dei giornali «d’area». Lui, Berlusconi, che con la politica ha un rapporto ambiguo. La ama, poi la respinge. Oggi, appunto, torna a vestire i panni dell’«antipolitico». Se gli riesce, è un bel colpo.
In un partito vero, il leader avrebbe difeso i propri uomini, senza imbarazzo. Perché le vere responsabilità sono quelle dei capi
Deve essere costato a Berlusconi, l’uomo più inquisito del mondo, non battere ciglio leggendo i tabulati di una procura e accogliere le dimissioni di Scajola per poi chiedere, senza emozione, l’“accertamento”della magistratura su eventuali altri reati commessi dai suoi uomini, a cominciare dal mancato ministro della Protezione civile. Atteggiamenti da paese normale, finalmente. Deve essere costato molto al presidente del Consiglio. Perché è difficile credere che da un momento all’altro un uomo come lui abbia mutato parere sui giudici. Piuttosto, ha dovuto chinarsi di fronte all’immagine scattata su un gruppetto
È davvero più rischioso e difficile guidare un partito nel quale non si fa strada se non mettendosi in luce per qualità e per consenso. Non per cooptazione e per capriccio del capo. In un partito vero, però, si può rimanere sulle proprie posizioni garantiste quando arriva una bufera giudiziaria che può avere intenti politici. Si difendono i propri uomini, senza imbarazzo. Consapevoli che le responsabilità maggiori sono sempre quelle dei capi. Altrimenti, ad un accenno di crisi più grave delle altre, ci si abbandona al braccio secolare, lasciando alla magistratura il compito di rinnovare la classe dirigente. Questo è molto più che un errore. È un danno.
con cui il premier interviene a metà giornata per chiedere «basta con queste assurde isterie, con queste liste di proscrizione che gettano fango su persone innocenti», ma anche per assicurare «severità di giudizio» senza «indulgenza e impunità per chi ha sbagliato». Il Cavaliere dà la netta sensazione di aver perso il controllo del “sistema”. E anche in questo modo, conferma implicitamente che un “sistema” esiste. Ma è quello di cui parla Pier Luigi Bersani? Ossia quel «meccanismo che ha origine in una intenzionalità politica di allargamento di appalti riservati e fuori gara»? Quello che è indiscutibile è che l’inchiesta tra le cui pieghe è emersa anche la lista dei favori di Anemone è partita proprio dai Grandi Eventi, dai lavori per il G8 alla Maddalena, dal ruolo della Protezione civile.
E persino da una sponda certo non ostile al governo si converge su questa lettura: è il presidente dell’Ance Paolo Buzzetti a chiedere «rispetto per la legalità» e «nuove regole: il sistema degli appalti è peggiorato nel tempo, è inquinato», è la denuncia dell’Associazione costruttori. Quindi l’osservazione più significativa: premesso che «le regole oggi in vigore non sono attribuibili a questo governo ma risalgono ad anni fa e sono quindi rimaste agli esecutivi successivi», Buzzetti parla senza mezzi termini di «azioni lobbistiche» che «hanno inquinato l’attività del legislatore». Solo che, come ricorda il deputato del Pd Ermete Realacci, «quei criteri con cui le procedure straordinarie delle emergenze sono state estese ad altri eventi portano la firma del governo Berlusconi 2001-2006. E anzi», aggiunge il parlamentare democratico, «fu proprio Berlusconi nel 2004 a rassicurare l’Unione europea su una correzione di quelle regole, in chiaro contrasto con le direttive comunitarie: da Bruxelles era stata avviata infatti una procedura d’infrazione, e il premier sentì il bisogno di tranquillizzare l’Ue». Dopo, dice ancora l’ex presidente della commissione Ambiente di Montecitorio, «non ci fu alcuna modifica, tutto restò com’era. E al di là degli aspetti penali a cui deve provvedere la magistratura, è chiaro che le distorsioni emerse in questi giorni si siano prodotte proprio per l’adozione di quelle
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Ieri, dopo che il fedelissimo Alfano aveva annunciato un’iniziativa ad hoc, Berlusconi ha spiegato ufficialmente che la repressione della corruzione sarà durissima e non risparmierà nessuno. Come è stato nel caso delle dimissioni di Scajola
Perché serve un governo d’emergenza Il Paese è sempre più costretto tra la crisi internazionale e gli scandali nazionali di Enrico Cisnetto a un lato la grande crisi finanziaria europea, con le Borse – Milano in testa – e il cambio della moneta unica in picchiata che con l’ennesimo venerdì nero segnalano che il Titanic non è affatto attraccato in porto nonostante la manovra da 750 miliardi messa in campo da Ue e Fmi. Dall’altro lato, gli scandali di “casa nostra” in un crescendo che ha indotto il presidente del Consiglio a spingersi sulla perigliosa strada de “i mariuoli a casa”, anche se confligge con quella annunciata dal Pdl del “no alle liste di proscrizione”.
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Nella morsa di questi due fronti caldi c’è il governo, e con esso le sorti definitive della Seconda Repubblica. Con la contraddizione evidente che più gira il ventilatore degli scandali, spandendo liquami a destra e a manca, più il governo s’indebolisce e, di conseguenza, più s’avvicina la fine di questa terribile stagione politica apertasi nel 1994. E questo è un bene. Ma più il governo mostra il fianco e più c’è il rischio che la speculazione internazionale punti le sue fiches sulla casella della crisi italiana, così come ha fatto fin qui su quella greca. E questo non è un male, è una tragedia. Come uscirne è una quadratura del cerchio all’ennesima potenza. Ma bisogna pur trovare il coraggio e la lucidità di affrontare la questione, che per il Paese è di vita o di morte. Intanto, per capire cosa fare, partiamo dal probabile dipanarsi degli avvenimenti. Per quanto riguarda l’attacco all’euro, è evidente che, coprocedure. Si è realizzata quell’aspirazione ben riconoscibile nel governo di centrodestra di “farsi in casa”un sistema di intervento». Secondo questa lettura dunque non ci sarebbe alcuna soggiacenza dell’esecutivo alle “lobby” ma una chiara volontà di supportare queste ultime. Basterà il ddl anticorruzione messo a punto dal Guardasigilli Angelino Alfano per allontanare l’ombra di una “correità” del governo rispetto
me ha detto il governatore Draghi, la partita è solo all’inizio. Chi si illudesse che i sacchetti di sabbia messi giù in fretta e furia per arginare la crisi siano sufficienti, sbaglierebbe i suoi conti. No, la speculazione ha gambe, e continuerà a correre. Ed è da mettere in conto – poi Dio non voglia che accada – un attacco ai due paesi, la Spagna e l’Italia, che tra quelli più grandi, e quindi decisivi in merito alle sorti dell’euro, stanno messi peggio. Se ne sono già viste le avvisaglie, chiunque abbia delle responsabilità pubbliche e un briciolo di sale in zucca non può non ragionare come se questo attacco fosse già in atto. Non a caso molti governi, a cominciare da quello portoghese e da quello spagnolo, stanno tagliando gli stipendi dei dipendenti pubblici e aumentando le tasse così come ha già fatto la Grecia: mettono le mani avanti. Da noi il silenzio del premier è assordante. Solo il ministro Tremonti, ormai di fatto capo del governo, dopo essere stato protagonista della linea di fermezza sui conti pubblici che ci ha evitato il peggio, ora cerca di mandare segnali ai mercati. In questo senso va letta, per esempio, la decisione di bloccare il trasferimento di fondi destinati a coprire i buchi sempre più grandi della sanità di quattro regioni spendaccione. Non solo: Tremonti e Sacconi sono al lavoro – immaginiamo con l’interlocuzione positiva di Cisl, Uil e Confindustria – per preparare la manovra da 25 miliardi già annunciata ma ancora tutta da riempire di contenuti. Tuttavia, è chiaro che se il problema è prevenire
alla degenerazione? Il ministro ieri ha mantenuto un profilo tutto sommato sobrio, della lista Anemone ha detto che «dovrà essere verificata in termini di liceità di comportamenti» anche se «la magistratura oltre ad accertare se i beneficiari dei favori hanno regolarmente pagato, dovrebbe assicurare la riservatezza».
Oltre che dal presidente del Consiglio, la richiesta di un se-
o ancor peggio fronteggiare un eventuale massiccio attacco ai nostri Btp, ci vuole dell’altro, e segnatamente le famose riforme strutturali in stand-by. Ed è proprio su questo possibile salto di livello delle scelte di governo che Berlusconi potrebbe incartarsi, giacché non è casuale che in questi primi due anni di legislatura quelle riforme non siano state neppure avviate. Ma, come abbiamo visto, questo fronte s’interseca con l’altro, quello degli scandali. Qui molti s’interrogano se siamo o meno di fronte a una nuova Tangentopoli. L’impressione è che con il fenomeno nato nel 1992 non ci sia comunanza per via del fatto che allora nel mirino era il finanziamento illecito della politica, mentre ora, in mancanza dei partiti, ci sia quello – ben più grave – dei politici. Ma se sono due cose diverse, rischiano però di produrre lo stesso effetto: l’emergere dell’antipolitica nella società e dunque la consunzione, per sputtanamento, dell’intero sistema politico. Berlusconi se n’è accorto, ed è già corso ai ripari. Gli è facile, visto che è nato politicamente nel brodo primordiale del qualunquismo e del giustizialismo. Ma gli riesce solo se ci sono elezioni a portata di mano, altrimenti il suo messaggio – oltre che contradditorio con la tesi del complotto reiterata anche ultimamente – risulta merce scaduta e invendibile. E, con le premesse che abbiamo visto fin qui, non è ardito immaginare che pur in mancanza di un disegno organico come quello che ci fu con Mani Pulite la magistratura colpirà duro, prossi-
gnale forte viene invocata dai settori più disparati della maggioranza: dalla Lega, ansiosa di vedere fatta «pulizia» da parte dell’alleato, ai “pretoriani” del premier come Mario Valdiucci, che spinge per il ddl anticorruzione sia personalmente che attraverso i suoi Club della libertà. Severità viene invocata da finiani come Fabio Granata, ansiosi di vedere emergere nel proprio partito il «senso dello Stato». Ma ci sono anche ac-
mamente. Certo, oggi come allora, non conteranno le sentenze nei processi, che continuano a non arrivare mai, ma le accuse fatte pubblicamente emergere dai verbali degli interrogatori estorti in galera, o minacciandola, e dalle intercettazioni – barbarie di cui la primaria responsabilità è della classe politica, che è stata incapace in questi anni di risolvere il problema della malagiustizia – ma ai fini delle conseguenze, credo che l’ondata di indignazione popolare su cui poggiò la transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica si ripeterà, e se possibile in misura ancora più forte.
Se questi sono gli scenari prossimi venturi, l’unica reazione possibile è quella di un governo di emergenza nazionale. Non un esecutivo tecnico, si badi bene, ma, al contrario, di larga convergenza politica. L’ho già scritto in questa sede e lo ripeto: l’unica forza politica potenzialmente in grado di assumere l’iniziativa di questa operazione – che non può e non deve essere come anti-berlusconiana, salvo che sia il Cavaliere stesso a non capirne l’importanza e a restarne vittima per colpa sua – è l’Udc. Casini ha già mostrato di averlo capito, gli altri, a cominciare da Bersani, no. Ma occorre insistere. E bisogna farlo non solo evocando l’alchimia e la formula politica, ma parlando al Paese il linguaggio della verità sulla situazione in cui siamo e lanciando le proposte che devono fare da base programmatica per quell’ipotetico governo. (www.enricocisnetto.it)
centi polemici per lo «smantellamento dello Stato di diritto», per dirla con Fabrizio Cicchitto: «La lista Anemone è stata portata, non si sa da chi, a conoscenza dei giornali e non della Procura di Roma: c’è proprio qualcosa che non va», secondo il capogruppo pdl alla Camera. Da lui e dal suo dirimpettaio di Palazzo Madama, Maurizio Gasparri, arriva solidarietà per il senatore Enzo Nespoli, per il quale il gip di
Napoli Alessandro Buccino Grimaldi ha chiesto gli arresti domiciliari. L’accusa di bancarotta fraudolenta e riciclaggio è stata avanzata dal pm Henry John Woodcock per una distrazione di fondi che il parlamentare e sindaco di Afragola avrebbe compiuto da una società di vigilanza privata. Se c’era bisogno di un’ultima piccola spinta per accelerare il ddl anticorruzione, di certo il Pdl se l’è provocata in modo impeccabile.
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l’approfondimento
Stavolta il Cavaliere non attacca i magistrati ma promette pulizia e castighi tra i suoi uomini. Una svolta giustizialista?
Silvio contro Berlusconi Il premier accusa i suoi di «averlo usato». Ammesso che sia vero, non ha detto perché: quando non ci sono filtri tra il “leader” e il “popolo”, nessuno controlla nessuno. Allora la soluzione è solo una: fare un partito di Riccardo Paradisi
a visto i sondaggi Silvio Berlusconi: registrano una reazione negativa all’affaire Anemone, alle indagini che lambiscono e toccano alti esponenti del governo e della maggioranza. La popolarità del governo subisce un’escursione importante. Il Cavaliere ha appena preso visione della filippica di Gianfranco Fini sulla legalità. Il presidente della Camera chiede rispetto per i magistarti e ammonisce: «Chi parla di complotto non ha capito nulla». Il capogruppo del Pdl alla camera Fabrizio Cicchitto ha appena finito di parlare di liste di proscrizione e macelleria mediaticogiudiziaria.
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Il Cavaliere si vede spinto all’angolo, prigioniero della sua ragnatela. Il sospetto che lo tormenta da mesi – dalla prima inchiesta sui grandi eventi che lo scorso febbraio coinvolge il coordinatore del Pdl Denis Verdini – diventa quasi una certezza: «Si stanno approfittando di
me». Certo, l’accanimento giudiziario, il killeraggio mediatico, la necessità di fermare «le isterie e la pubblicazione di elenchi che vengono presentati dalla stampa come elenchi di colpevoli», ma il garantismo di Berlusconi stavolta si ferma qui: «Stavolta se qualcuno ha sbagliato non avrà nessuna indulgenza o impunità. Se ci saranno uno, due, tre casi di comportamenti illegittimi saranno i magistrati ad accertarlo. E in questa ipotesi ci sarà severità di giudizio e di decisione nei confronti di chi fa politica e ha responsabilità pubbliche». Con i suoi, quelli di cui si fida, il premier è ancora più esplicito: «Saremo noi a fare la battaglia contro i ladri. Non ce la facciamo scippare da Fini. Il Ddl anticorruzione porta la mia firma». Il ministro della Giustizia Angelino Alfano segue a scia e rafforza il concetto: «Il Ddl anticorruzione è stato fortemente voluto dal presidente del Consiglio e ha l’obiettivo di eliminare quei lacci e lacciuoli che spesso rappresentano un pas-
saggio a livello che necessità di una tangente per essere superato. Non credo – ha poi aggiunto il guardasigilli – che siamo di fronte a una Tangentopoli ma a episodi che se fossero veri meriterebbero una severa punizione». È il calco perfetto del pensiero del premier, ”lacci e lacciuoli” compresi.
Dopo la rivoluzione organizzativa con il rilancio dei circoli di Michela Vittoria Brambilla si prepara nel Pdl la rivoluzione legalitaria? Il nuovo berlusconi-
Il Pdl ha finito per diventare un arcipelago di potentati locali autoreferenziali
smo potrebbe presentarsi nella forma d’un inedito giustizialismo di lotta e di governo? Ci sono dei segnali che al di là delle dichiarazioni a caldo del Cavaliere – «Le cacciamo noi le mele marce» – potrebbe confortare questa tesi. I segnali vengono dai due maggiori giornali dell’area berlusconiana e vale la pena tenerli in considerazione per capire dove inclina il barometro di Arcore. Il Giornale – che aveva già chiesto le dimissioni del ministro Scajola – pubblica gli altri 248 nomi della li-
sta Anemone e nell’editoriale di apertura Vittorio Feltri scrive: «Siamo di fronte a uno scandalo in embrione? Aspettiamo a dirlo. Ma affrettiamoci ad approfondire i fatti che non permettono nulla di buono. Gli italiani sono pazienti e comprensivi, hanno digerito Tangentopoli nella consapevolezza che i partiti non usufruendo di finanziamenti pubblici si arrangiavano…Oggi i rimborsi elettorali però sono cospicui…» All’interno, a pagina 3, il Giornale descrive la posizione di Berlusconi: ”Chi sbaglia è fuori dal Pdl” è il titolo: «Berlusconi – spiega il pezzo – teme per altri due ministri nel mirino e reagisce: nessuna difesa d’ufficio per chi ha pensato al proprio arricchimento e non al Paese. La legge anticorruzione va approvata quanto prima». Non è esattamente la linea Bondi-Cicchitto: congiura giudiziaria e massacro mediatico. Libero è, se possibile, ancora più esplicito: titola a nove colonne il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro: «Silvio reagisci o finisce male». La tesi è
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Dopo il 1994, si è creduto che la legittimazione democratica arrivasse solo dalle urne
Le malattie senili del populismo tra Prima e Seconda Repubblica I partiti di oggi sono privi di una specifica cultura dell’unità nazionale E non basta l’allargamento all’opposizione delle riforme costituzionali di Francesco D’Onofrio olo raramente si registrano scritti sulla situazione politica italiana a partire dal 1994, particolarmente interessati a porre in evidenza il rapporto tra unità nazionale da un lato e idea di partito politico e di popolo dall’altro. Si assiste infatti ad un dibattito giornalistico ed accademico ad un tempo, come se le questioni strategiche poste dalla cosiddetta Prima Repubblica in riferimento all’unità nazionale siano da dimenticare del tutto. Si tratta – invece – di una questione fondamentale non ancora risolta in questa stagione che chiamiamo il tempo della Seconda Repubblica. Nel contesto della Prima Repubblica, infatti, si deve registrare una sostanziale divisione tra il principio della unità nazionale – realizzato sostanzialmente nella Costituzione repubblicana, e nel molto significativo articolo 138 della Costituzione medesima – e il principio della legittimità democratica del governo del Paese fondato sul sistema elettorale proporzionale.
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In quel lungo periodo tutti i partiti politici presenti nel Parlamento repubblicano avevano sostanzialmente accettato questa distinzione radicale tra la Costituzione di tutti da un lato, e il governo della maggioranza parlamentare dall’altro. L’articolo 138 della Costituzione era sostanzialmente vissuto nel senso che, per modifiche significative della Costituzione medesima, non si sarebbe potuto fare appello al corpo elettorale se alla revisione avesse concorso anche l’opposizione di governo. Con l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica siamo entrati in un sistema che oggi appare limpidamente nella sua radicalità: democrazia elettorale a legittimazione sostanzialmente populista da un lato, e trasformazione della Costituzione vigente nel senso che essa non appartiene più a tutti, ma ad una parte soltanto del sistema politico italiano. La distinzione tra unità nazionale e governo è stata resa molto evidente con la nascita della commissione D’Alema, che era anche formalmente distinta dal governo dell’epoca. Negli anni successivi si è progressivamente andati verso un sostanziale mutamento del principio costituzionale della Prima Repubblica allorché si è proceduto – sia dal centrosinistra sia dal centrodestra – a produrre modifiche radicali della Costituzione adottate – e dichiaratamente volute – dalla sola maggioranza di governo del momento. Negli ultimissimi anni stiamo assistendo al fatto radicalmente nuovo del tentativo di innestare la cultura istituzionale-politica dell’unità nazionale in un soggetto politico quale è un partito vero e proprio, laddove chiunque si richiami alla volontà popolare espressa al momento delle elezioni, sembra privo proprio
della cultura istituzionale e politica dell’unità nazionale. Per partito politico vero e proprio si intende, infatti, un partito politico che abbia nella propria identità costitutiva sia il principio della legittimazione democratica di governo fondata sul consenso popolare e quindi – anche e soprattutto – elettorale, sia il principio istituzionale e politico della disponibilità a governi di unità nazionale da realizzare proprio con la parte politica avversa, che viene in tal modo sostanzialmente legittimata quanto
Il nuovo soggetto politico sarà un’alternativa istituzionale e politica a Pdl e Pd
meno per quel che concerne l’unità nazionale. Per quel che concerne partiti che si richiamino direttamente al voto popolare, vedendo in esso la fonte unica della propria legittimazione a governare, si tratta di partiti privi di questa specifica cultura della unità nazionale intesa quale punto di approdo da realizzare anche formalmente con un governo di unità nazionale, e non già soltanto con l’allargamento all’opposizione delle riforme costituzionali intese per loro natura a costituire regole comuni per qualunque soggetto chiamato a governare.
Questa è l’innovazione istituzionale e politica più radicale che il nuovo soggetto politico che l’Unione di centro intende realizzare. Si è affermato infatti di voler essere alternativi sia al Pdl sia al Pd. Ora è sempre più chiaro che si tratta di un’alternativa istituzionale e politica, prima ancora che di governo quotidiano.
Si diventerebbe in tal caso infatti alternativi rispetto a quanti vedono solo nel popolo che si esprime con le elezioni il soggetto che legittima sia a governare – come è del tutto naturale secondo la cultura democratica – sia a produrre regole costituzionali comuni per tutti gli schieramenti politici, perché in tal caso un soggetto di questo tipo deve necessariamente affermare che se non vi è intesa parlamentare larghissima – come l’articolo 138 della Costituzione afferma, se letto con lo spirito costituente della Prima Repubblica –, si deve necessariamente procedere a maggioranza. Si diventerebbe allo stesso tempo alternativi anche rispetto a quanti dovessero ritenere che l’alternativa di governo non consente di per
sé la disponibilità a dar vita a governi politici di unità nazionale. Siamo dunque in presenza di un sostanziale arricchimento istituzionale e politico che finirebbe con il riconciliare la cosiddetta Seconda Repubblica con il principio costitutivo dell’altrettanto cosiddetta Prima Repubblica. Il progressivo irrigidimento europeo successivo alla crisi greca rende sempre a sua volta sempre più evidente che la forza complessiva del nostro Paese è conseguenza anche del fatto che le cultura politiche in esso operanti contemplino o no l’unità nazionale.
chiara: «C’è un clima simile a quello di Tangentopoli, cova una legittima rabbia popolare, Berlusconi faccia presto a dire che lui non c’entra. Silvio, come certifica l’ex direttore del Giornale Mario Giordano è antropologicamente estraneo al sistema mefitico dei palazzi e delle terrazze romane: «È quello che va in crisi – dice Giordano – è un sistema di potere romano: il mondo dei salotti e dei corridoi, degli inciuci e degli intrallazzi…». Non importa che l’innesco di Tangentopoli avvenne al Pio albergo trivulzio a Milano. Per Giordano «non è un caso che mentre il disorientamento cresce la figura di Berlusconi emerge forte e nitida come non mai. Magari più sola, ma lucida in mezzo al marasma…Lui è sempre riuscito a essere a Roma senza essere di Roma…» Il teorema è il seguente insomma: se esiste un sistema organico di malaffare all’ombra del berlusconismo è chiaro che il Cavaliere non c’entra, che chiunque vi risultasse coinvolto si è vergognosamente approfittato di lui, e se così sarà l’ira del premier non tarderà ad abbattersi giustamente su di loro. Sono questi i contrafforti essenziali dell’erigenda ideologia di quello che è stato opportunamente definito ”il predellino morale” su cui si appresterebbe a salire Berlusconi, sollevandosi dai sospetti fedigrafi che come Farinata degli Uberti il Cavaliere tiene ormai in gran dispetto. Se dall’ideologia ci si sposta però sul campo dell’osservazione e della semplice analisi sorgono spontanee delle domande. Se esiste un sistema che incrocia l’attivismo opaco di Diego Anemone con il network politico anche di appartenenza Pdl viene da chiedere come nasca questo sistema.
Il sospetto è che – data per acquisita l’estraneità di Berlusconi – a favorire il formarsi d’una rete di disinvolture pubbliche abbia pesantemente contribuito il fatto che la classe dirigente del Pdl si è andata configurando negli ultimi anni come un arcipelago di potentati locali e autoreferenziali che rispondevano direttamente solo a Berlusconi. Un partito, il Pdl senza corpi intermedi, senza strutture, ”anarchico”, come lo ha definito lo stesso premier. Accorgendosi, nella partita delle elezioni regionali di quali guai e dolori, possa produrre l’anarchia feudale. Peraltro in questo sistema generale di coptazione personale, dove il criterio di selezione della classe dirigente è la fedeltà al capo, i vertici del Pdl sono stati personalmente scelti da Berlusconi. Sicchè se si dovesse dimostrare che uomini scelti personalmente dal premier si sono sistematicamente approfittati di lui se ne deve dedurre che quella che Mario Giordano chiama la ”consueta lucidità di Berlusconi” – è piuttosto una lucidità intermittente.
diario
pagina 6 • 15 maggio 2010
Conti. Corsa contro il tempo del Tesoro per trovare i 25 miliardi resi necessari dal piano Europeo. Nel mirino gli Statali
Manovra, i tagli di Calderoli
Il ministro: abbassare del 5 per cento gli stipendi di ministri e parlamentari ROMA. Scovare quasi due punti di Pil di euro da tagliare, si sa, è opera al limite dell’impossibile. Ma di questi tempi per Giulio Tremonti è difficile persino trovare qualcuno della maggioranza che voglia fare da relatore della prossima manovra alla Camera e al Senato. Tanto basta per capire il clima che si respira in queste ore in via XX settembre. Una situazione che ieri ha spinto il titolare della Semplificazione, Roberto Calderoli, a proporre «un taglio del 5 per cento agli stipendi dei parlamentari e dei ministri per dare il buon esempio in vista dei sacrifici che comporterà la mini-manovra finanziaria e che il governo varerà a breve». Al di là della proposta, ecco l’ennesima conferma di un intervento anticipato sui conti pubblici. Ipotesi che non convince il Tesoro, dove c’è chi vorrebbe spalmare su due parti uguali l’importo che l’Italia si è impegnata con Bruxelles a tagliare sul deficit. Magari provando a risparmiare uno o più miliardi di euro sui 25 previsti. Ma anche sul quantum è difficile dare numeri definitivi, visto che il fabbisogno regge (nel primo trimestre il totale è salito 18,320 miliardi, lontano però dagli oltre 20 dall’anno precedente), la curva del tendenziale del deficit cresce e i mercati facendo crollare i listini come è successo ieri chiedono ulteriori accorgimenti al maxi piano da 750 miliardi della Ue per salvare l’euro. Di conseguenza, va avanti la ridda di ipotesi su dove il Tesoro troverà i soldi necessari per far quadrare i conti. E che gli spazi di manovra per evitare lacrime e sangue, Tremonti l’ha chiarito l’altra sera ai leader di Confindustria, Cisl e Uil. Non è un caso se il segretario generale di via Po, Raffaele Bonanni, abbia voluto sottolineare che, vabbene il senso di responsabilità, «ma nessuno si metta in testa di aprire il capitolo della riforma delle pensioni, così come nessuno si metta in testa di toccare la sanità o la scuola, anzi bisogna coprire i vuoti di organico». Ma sono questi – insieme con quello dei condoni e de-
di Francesco Pacifico
gli statali – i dossier sui quali sta lavorando Tremonti. Ma come ha spiegato Bonanni e come gli ripeterà Emma Marcegaglia alla prossima assemblea generale di Confindustria, il ministro non potrà intervenire sul welfare, senza tagli sostanziali alla spesa pubblica. Ieri il mondo politico si è interrogato soprattutto sugli interventi che riguarderanno gli statali. Accanto all’ipotesi di rinviare gli aumenti salariali e che da soli valgano 5 miliardi di euro, al Tesoro si starebbe valutando anche la possibilità di ritardare l’erogazione delle buonuscite dei dipendenti pubblici. Mentre sul fronte pen-
L’inflazione tocca l’1,5 per cento. In calo gli alimentari, ma schizza l’impatto della benzina Il governo ora può solo cercare di non peggiorare i conti
Il debito ha già affondato le riforme di Giuliano Cazzola on occorrono troppe parole per spiegare la situazione e indicare la linea di condotta che il Governo dovrà seguire in futuro sulla crisi. Basta pronunciare - come si fa nelle vecchie botteghe artigiane dei vicoli di Trastevere - il classico «non c’è trippa per i gatti». Scordiamoci le riforme fiscali, le correzioni della base imponibile dell’Irap, al pari degli aumenti delle pensioni; mettiamo in sicurezza il federalismo fiscale fino a quando non saranno ben chiariti i costi. Usiamo tutta la parsimonia del caso nel rinnovo dei contratti pubblici. Ma d’ora in poi la nostra principale preoccupazione sarà una sola: seguire con attenzione ogni asta dei titoli di Stato nella speranza che siano sottoscritti interamente e a tassi sostenibili, dal momento che, con il debito pubblico che il Belpaese si ritrova, un punto di più nel servizio del debito vale come una manovra finanziaria. Perché ciò sia possibile occorrono delle performance discrete o quanto meno presentabili e convincenti per quanto riguarda i conti pubblici. Bisognerà che tutti si rendono conto del fatto che sono cambiate tante cose, in pochi giorni se non addirittura in poche ore. A Tremonti piace evocare l’immagine dei mostri di un immaginario video game, che si presentano con sembianze di volta in volta più terribili. La verità è che i mostri non erano un marchingegno elettronico, ma delle realtà vive e palpitanti pronte a distruggere inesorabilmente il risparmio di decine di milioni di famiglie. L’Unione europea è scesa in campo
N
insieme al Fondo monetario con centinaia di miliardi di euro. Con questa operazione le autorità europee ed internazionali hanno conquistato per sé il diritto di mettere il naso nei conti pubblici dei Paesi della comunità, visto che il sacrosante principio del no taxation without representation vale anche in questa fattispecie: in parole povere, nessuno è tenuto a gettare le risorse in un «buco nero» e quindi coloro che vogliono accedere al fondo comune devono dimostrare di essere in regola o di lavorare per esserlo. In sostanza, allontanare il contagio e recuperare credibilità sui mercati internazionali è la condizione per mettere al riparo e dare spessore e continuità ai primi segnali della ripresa economica. Questo è il compito dei Governi: nessuno si illuda di poter alimentare la crescita attraverso la spesa pubblica. Le risorse disponibili vanno indirizzate a sostegno del reddito e dell’occupazione. L’economia farà da sé quando verrà il momento. Resta di porsi soltanto una domanda. Il Paese è consapevole dei gravi rischi che ha corso e che non sono debellati del tutto e per sempre? Gli eventi di un anno fa impallidiscono al confronto di ciò che sarebbe potuto succedere, se la reazione dei Governi avesse tardato di più. In mezzo a questo cataclisma, mentre si rischiava l’implosione della moneta unica, la Cgil, a congresso, chiedeva l’assunzione di 400mila dipendenti pubblici nella generale indifferenza. Che altro dire? Se fosse possibile si dovrebbero ridurre gli organici di una cifra equipollente. Ma questo è tutto un altro paio di maniche.
sioni c’è chi parla di un giro di vite sulle pensioni di invalidità, chi addirittura della chiusura di alcune finestre. Eppure sono ipotesi. Perché se Berlusconi ha intimato Tremonti di non alzare le tasse e la Lega si attende un passo avanti sul federalismo fiscale, alcuni ministri come Sacconi avrebbero spiegato che toccare il pubblico impiego equivarrebbe a una dichiarazione di guerra verso Bonanni. Cioè il maggiore baluardo del governo in difesa della pace sociale e contro le proteste di piazza.
Si discute anche di condoni e sanatorie. Dopo le ipotesi sugli immobili non accatastati, si guarda anche ai tanti lavori partiti dopo l’annuncio del piano casa, che – come prevedono le nuove regole del governo – non necessitano della Dia. Peccato che le Regioni non siano d’accordo e in Italia tanto basta per rendere necessaria una sanatoria per evitare multe e sigilli. Intanto, e complice la voce energia, l’Istat ha comunicato che l’inflazione ha raggiunto ad aprile quota 1,5 per cento (+0,4 rispetto a marzo). E neppure i cali sugli alimentari hanno evitato quest’impennata.
diario
15 maggio 2010 • pagina 7
Il capo dello Stato parla all’anniversario della Polizia
La donna lavorava alla Asl 1 di Napoli. Lascia due figli
Napolitano: «Cresciuta la lotta alla criminalità»
Niente stipendio, infermiera si svena e perde la vita
ROMA. «Nell’ultimo anno, è proseguita con accresciuta incisività la lotta alla criminalità organizzata, che ha consentito la cattura di pericolosi latitanti ai vertici delle organizzazioni mafiose e l’aggressione di consistenti patrimoni». È questa la sintesi contenuta nel messaggio che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha voluto affidare nel contesto della celebrazione del 158mo anniversario della Fondazione della Polizia svoltasi ieri nella Capitale a Piazza del Popolo.
NAPOLI. Per tre giorni di fila, si era tolta dalle vene 150 millilitri di sangue in segno di protesta. Alla Asl 1 di Napoli, dove Mariarca Terracciano lavorava come infermiera, non le accreditavano lo stipendio da un pezzo. E così, la donna quarantacinquenne che prestava servizio all’ospedale San Paolo, ha deciso di infliggersi un metaforico, quotidiano salasso che infine le è costato la vita.
Il capo dello Stato ha rivolto alle forze dell’ordine la gratitudine dell’intera Nazione per «l’impegno a tutela dell’esercizio delle libertà e dei diritti costituzionali, in uno con la garanzia della sicurezza», e si è detto «certo che tale intensa azione continuerá in collegamento con le polizie straniere, per colpire le strutture e gli affari dei sodalizi criminali». Ma l’anniversario è stata per la Polizia, anche l’occasione per ribadire alla presenza di Napolitano le grandi difficoltà finanziarie che attanagliano la sicurezza. Per continuare ad ottenere i risultati finora conseguiti, la polizia «ha bisogno di più risorse», ha dichiarato il prefetto Antonio Manganelli, che confida «nella nuova normati-
«Fermate i magri, forse sono tossici» La polizia contro l’ordinanza del questore di Trieste di Angela Rossi
TRIESTE. «Verificate le persone magre e con tatuaggi, anche senza o con pochi denti e con scarsa igiene orale per vedere se hanno precedenti penali». Anche se si fa fatica a crederlo, la singolare disposizione è contenuta nel vademecum che il questore di Trieste, Francesco Zonno ha allegato a un’ordinanza affidata agli agenti di polizia che stavano effettuando controlli in sette bar cittadini. Non c’è voluto molto, prima che la frase incriminata suscitasse le ire di Sp, il sindacato di polizia più rappresentativo che tra le sue fila conta diverse centinaia di iscritti.
Ma l’iniziativa del questore triestino è destinata a far discutere ancora, perché giunge quanto mai intempestiva, in un momento in cui la dolorosa vicenda di Stefano Cucchi interroga il Paese. un evento doloroso tiene ancora banco sulle pagine di cronaca. Come è noto, la morte del giovane trentunenne romano poteva essere evitata somministrando al ragazzo una semplice bustina di zucchero. E tuttavia, il tragico evento fu commentato dal ministro Giovanardi con una sortita infelice: a suo avviso bastava un’occhiata per capire come Cucchi fosse affetto da anoressia dovuta a tossicodipendenza. Oggi, sulla scia dello stesso pensiero, dello stesso rapido guizzo diagnostico che demanda alla pupilla ciò che sarebbe superfluo affidare alla lampante esattezza di uno scanner, arriva l’ordinanza del questore di Trieste. Di sicuro, non è espressione di nobilissima altezza civica, associare la magrezza a problemi di droga, o fare del metodo lombrosiano il cardine della security nazionale. Un atteggiamento “epidermico”, che risalta nelle dichiarazioni che il segretario del sindacato di polizia, Daniele Dovenna, affida alle pagine del quotidiano triestino Il Piccolo: «Sono solo operazioni di facciata». Ma il questore Zonno sembra essere di diverso avviso: «L’impegno per la cittadinanza è di fare qualcosa di più. Non vedo cosa ci sia di anomalo. Non vedo l’origine della lamentela. L’azione di contrasto deve esserci e continuerà. Quanto al vademecum è riferito al personale dell’amministrativa, poco avvezzo al mondo della droga», ha dichiarato. E anche in questo caso, la reazione dei poliziotti non si è fatta attendere. Qualche giorno fa, proprio davanti alla questura, hanno fatto circolare sia il vademecum che l’ordinanza, intitolando così il volan-
tino: “Segni obiettivi di assunzione di sostanze stupefacenti rilevabili senza dover compiere indagini di natura medica”. Ma non finisce qui, perché nel vademecum vergato dalla mano di Zonno, sono contenute altre chicche a proposito delle verifiche da effettuare sul“magrolino dall’aria sospetta”. Per accertarsi che il soggetto controllato sia effettivamente consumatore di sostanze stupefacenti, il manuale del questore fissa pochi semplici passi. Uno: «chiedere alla persona da controllare di ripetere tre semplici parole e cioè “casa”,“pane”e ”gatto”; attendere tre minuti e poi chiedere ancora quali parole il conducente ha dovuto ripetere 3-5 minuti prima. Ed infine: «Chiedere quanto fa 99 meno 3 e, ottenuta la risposta, quale è il risultato se sottraiamo ancora 3, oppure: a quanto corrispondono due dozzine di uova?». A proposito del titolo che campeggia sul volantino, “Poliziotti o caporali”, Dovenna ha precisato che «gli agenti sono stati impiegati con un’apposita ordinanza del questore per scovare consumatori e spacciatori nelle ore serali negli esercizi pubblici di Trieste. Forse le numerose forze dell’ordine sanno esattamente dove si trovano queste persone». “Drug on street”è un progetto volto a contrastare attraverso una mirata azione di controllo su strada, la guida sotto l’effetto di droghe con l’impiego precipuo della stradale.
La procedura prevede di «chiedere alla persona da controllare» di ripetere tre parole: “casa”, “pane” e ”gatto”
va che ha istituito il Fondo unico giustizia» e ha auspicato che il denaro sequestrato alle bande criminali venga devoluto quanto prima alle esigenze di sicurezza del Paese. «Dietro qualsiasi risultato conseguito nell’attività di ordine e sicurezza pubblica – ha spiegato il prefetto – esiste solo il sacrificio, spesso estremo, di persone che, ben oltre i normali canoni dello specifico rapporto di lavoro e in condizioni spesso proibitive, propongono il massimo impegno in difesa della gente che vive e lavora onestamente». «È per questo», ha concluso Manganelli, «che ai poliziotti va riconosciuto un tributo di gratitudine infinita»
Nell’ordinanza del questore (che è valsa il controllo di sette locali, una sanzione amministrativa e l’accompagnamento di due minorenni a casa) si legge che «si dovrà prestare particolare attenzione, anche in base al prontuario, alle persone che possano far uso di sostanze stupefacenti e possano essere coinvolte nell’attività di spaccio. In particolare si dovrà procedere all’identificazione delle persone minori trovate all’interno degli esercizi pubblici». Per fare tutto questo sono stati impiegati tre equipaggi della squadra mobile, due della polizia amministrativa, due della squadra volante e infine un autista per accompagnare in questura i sospetti. In totale otto vetture e non meno di 20 persone. «Per la legge siamo chiamati a prevenire e reprimere reati, non a supplire alle supposte lacune del contesto familiare – conclude lo stampato –. Signor prefetto, ci dica che non è vero. Che è tutto un grosso malinteso...».
Nonostante avesse sospeso i prelievi il tre maggio, Mariarca era stata colta da un fulmineo malore lunedì scorso, mentre svolgeva il suo turno di lavoro
presso il reparto maternità dell’ospedale partenopeo. Ricoverata d’urgenza, l’infermiera aveva combattuto tra la vita e la morte per tre giorni, per poi doversi arrendere all’inevitabile. La donna, che lascia marito e due bambini di dieci e quattro anni, aveva avuto negli ultimi tempi un amaro interludio di celebrità. La sua protesta era infatti sbarcata in alcune televisioni private del napoletano, e da lì rimbalzata in rete su YouTube. «Lo stipendio è un diritto, ho lavorato e pretendo i miei soldi». Così la Terracciano aveva spiegato davanti alle telecamere la decisione di farsi prelevare ogni giorno 150 millilitri di sangue fino a che non fossero stati pagati gli stipendi al personale della Asl Napoli. La donna, che all’iniziativa aveva abbinato anche lo sciopero della fame, aveva intenzione di «dimostrare che stanno giocando sulla pelle e sul sangue di tutti. Vedere il sangue, che è vita, rende evidenti le difficoltà nostra e degli altri ammalati». Per fare luce sulle cause del decesso, è stato disposto un riscontro autopticodiagnostico in grado di precisare le circostanze che hanno condotto la donna all’agonia. Il direttore sanitario del presidio, Maurizio Di Mauro, ritiene «molto poco probabile», che il salasso abbia determinato la morte di Mariarca.
scenari
pagina 8 • 15 maggio 2010
Se il segretario Bersani nicchia, al Nazareno aumentano i fautori dell’esecutivo di «salute pubblica»
Il governissimo clandestino Ufficialmente hanno detto no all’idea lanciata dal leader centrista. Certo, una parte del Partito democratico non vede di buon occhio l’ennesimo concorrente al centro, ma sotto sotto la tentazione di un accordo è molto forte ROMA. Parli di Pier Ferdinando Casini e al Nazareno iniziano le fibrillazioni. Ufficialmente la linea da seguire è quella dettata dal segretario Pier Luigi Bersani – «Visti i problemi del Paese è meglio lavorare per una seria alternativa» – però, nella sostanza, in casa Pd l’ipotesi di un governo di responsabilità nazionale, battezzata anche di “sanità pubblica”, targato Udc ha più estimatori che detrattori e molti nel Partito democratico guardano con interesse all’appuntamento centrista di Todi, dove dal 20 al 22 di maggio, si definirà il percorso del nuovo soggetto politico, un «tesseramento aperto» e una iniziativa che cerca, appunto, il contributo di tutti. Certo le tensioni interne che in questi giorni stanno scuotendo il Pd da una parte e le aperture che dal fronte opposto berlusconiano arrivano a via Dei Due Macelli non fanno dormire sonni tranquilli a Pier Luigi Bersani. Intanto ieri le regole per le primarie previste dallo statuto del Pd sono state modificate e que-
di Franco Insardà sta, secondo alcuni, potrebbe essere un’ulteriore apertura ad alleanze future.
Non soltanto primarie “rafforzate”, ma anche federalismo delle risorse, più potere ai circoli, rafforzamento delle regole su moralità e trasparenza. È questo il nuovo statuto del Pd approvato all’unanimità dalla Commissione e che sarà sottoposto all’assemblea del 21 maggio. Come ha sottolineato Salvatore Vassallo: «La discussione, e i passi indietro rispetto al testo precedente, rendono questa scelta, se possibile, ancora più chiara e per tutti politicamente vincolante. È utile che alcune modifiche introdotte chiariscano che, prima di tenere primarie di partito, si esplori la possibilità di tenere primarie di coalizione. Ma alle primarie di coalizione il Pd non va con suoi candidati ufficiali». Una modifica che, come ha dichiarato il veltroniano Giorgio Tonini al settimanale gli Altri, «è una bestemmia trasformate le primarie da regola a eccezio-
ne». Mentre secondo Vassallo «si ripristina quanto già contenuto nello Statuto, le primarie rimangono inoltre la regola. L’eventuale deroga, laddove l’accordo di coalizione lo imponga, continuerà a costituire l’eccezione, approvabile solo con una maggioranza qualificata piuttosto ampia. Mi pare una soluzione appropriata, approvata all’unanimità, che consente al Pd di tenere fermo un suo tratto identitario e di occuparsi di cose che interessano di più gli italiani».
Andrea Orlando: «Non c’è un clima di ostilità nei confronti dell’Udc»
E giusto per mettere in chiaro le situazioni e tarpare le ali a possibili candidature a premier, ventilate ultimamente, la commissione statuto del Pd ha deciso anche di non cambiare la norma che stabilisce che il segretario è il candidato premier del partito.
Bersani punta al suo “Progetto per l’Italia”, preoccupato com’è di contrastare gli attacchi delle minoranze interne, che a Cortona hanno lanciato dure critiche alle strategie poli-
tiche della segreteria e alle alleanze. I radicali, poi, si sono “autosospesi” dai gruppi chiedendo un confronto con Bersani e definendo «assolutamente inadeguata l’opera della opposizione democratica».
Anche i popolari non nascondono il loro malumore per una possibile alleanze con l’Udc, perché si sentirebbero, in qualche modo, defraudati nella titolarità delle posizioni. Le voci di dentro degli ambienti dalemiani, però, continuano a confermare un certo interesse per l’alleanza con i centristi.Tutto è rimandato all’assemblea nazionale del 21 maggio e sulla proposta di Casini, ufficialmente, Nicola Latorre ha dichiarato che: «non è all’ordine del giorno. Il governo non si dimette se lo chiediamo noi andrà a casa se verrà meno la maggioranza. Siamo una forza di opposizione che non si limita a denunciare, ma avanziamo proposte alternative». Michele Ventura, vicepresidente vicario dei deputati del Pd, conferma la linea Bersani e dice: «il primo banco di prova per
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«Senza linea e con dirigenti vecchi e sempre in lite: ecco quali sono i veri problemi»
«Ma il Pd sbaglia tutto: deve appoggiare Casini» Biagio De Giovanni attacca la decisione dei democratici: «La stagione berlusconiana può riprendere vigore grazie a un patto con l’Udc» di Francesco Capozza
ROMA. «Il nuovo Partito della Nazione può essere il garante per un nuovo centrodestra più costituzionalizzato». Parola del professor Biagio De Giovanni, storico, filosofo ed ex europarlamentare comunista. Professor De Giovanni, partiamo da Vittorio Feltri che sorprendentemente sul “Giornale” ha speso parole di apprezzamento per Casini, invitando Berlusconi ad aprire all’Udc le porte della maggioranza. Non so se Berlusconi e Feltri, a dispetto di quanto dichiarano quotidianamente, si sentano per concordare la linea del Giornale, ma certamente tutto quello che scrive il secondo è ampiamente condiviso dal primo. Perciò credo che questa mossa sia da un lato strumentale per il presidente del Consiglio, dall’altra politicamente azzeccata. E mi spiego meglio. Strumentale certamente lo è nei confronti del rapporto assai complicato con Fini.Voler in un certo senso “sfilare” al presidente della Camera uno dei suoi maggiori interlocutori dà la misura di un premier tutt’altro che sereno per la sua maggioranza e per la situazione del suo partito. Scelta azzeccata, poi, perché ha saputo aspettare il momento adatto per portare via Casini dall’alveo del centrosinistra, posizione che tutti noi analisti pensavamo fosse ormai quella di approdo finale per l’Udc. È stata fallimentare, forse, la cosiddetta “politica dei due forni”? Non credo questo, anzi. Certo non bisogna essere degli esperti di sondaggi per capire che dalle ultime regionali è emerso un dato netto ed incontrovertibile: dove l’Udc và con il centrodestra incassa buoni risultati, dove con il centrosinistra no. Mi sta dicendo che ormai il Pd ha perso
l’alleato fondamentale, per dirla con Enrico Letta? Tanto per cominciare, e non è una malcelata ironia la mia, vorrei capire che diavolo stanno facendo quelli del Pd. Intendiamoci, io sono stato convinto fin dal primo momento, e l’ho scritto in tutte le salse, che la fusione della Margherita con i Ds sarebbe stata fallimentare. Ma mai avrei pensato così terribilmente fallimentare. Mi chiedo: esiste un Pd? La risposta che mi dò da anni è: no. L’Udc ha fatto bene a testare il proprio elettorato su un’eventuale alleanza con il centrosinistra, ma credo che Casini, che è uomo lungimirante e, in senso buono, una vecchia “volpe” della politica italiana, abbia capito che da quella parte non c’è alcuna possibilità di successo. Eppure uno dei punti fondamentali del programma di Bersani per vincere le primarie era per l’appunto creare un’alleanza con l’Udc anche a livello nazionale. Adesso, invece, si registra la chiusura totale nei confronti di un governo “di salute pubblica”proposto da Casini. Guardi, il Pd sta attraversando la fase più critica dalla sua fondazione ad oggi. C’è un segretario, che tutti davano per il salvatore del partito e che, a tutt’oggi, non pare aver dato alcun segnale politico rilevante. E poi c’è il ritorno di Veltroni che mette in disparte per l’ennesima volta D’Alema, il grande elettore di Bersani. È una situazione che non esito a definire ridicola e se Casini ha preso le distanze è anche perché ha capito che da quelle parti non si tira fuori un ragno dal buco, io dico che ha fatto bene. Sembra che Berlusconi voglia attendere il seminario di “li-
beral”fissato per la prossima settimana a Todi per prendere carta e penna e rivolgere un appello a Casini. Come concilierà quest’apertura con l’asse fortissimo che lo lega a Bossi? Ho sentito da parte di Casini parole di grande lode nei confronti di Tremonti. C’è chi lo accusa di essere un ministro troppo filo-leghista, mentre è sotto gli occhi di tutti che la sua politica economica di grande rigore, oserei dire alla Quintino Sella, è evidentemente centralistica. D’altronde le posizioni della Lega sono molto più miti di quello che si pensa e lo dimostra il fatto che i migliori ministri di questo esecutivo sono Tremonti e Maroni, che in Campania sta facendo grandi cose. Quindi anche per l’Udc è il momento di far cadere il tabù che la vede incompatibile con la Lega? Io credo che nei fatti quel tabù sia già caduto, e per due motivi. Il primo, è il fallimento del laboratorio pugliese che vedeva nell’asse Casini-D’Alema il perno vitale. Il secondo è, come già ricordato, il fallimento delle alleanze con il centrosinistra anche dove dall’altra parte, e il caso Piemonte insegna, c’è un candidato leghista. Lodi a Tremonti, governo di salute pubblica, secondo lei Casini ha in mente un governo guidato dal superministro dell’Economia? Non vorrei essere autoreferenziale, ma io già tempo fa scrissi che l’era Berlusconi non sarebbe finita così presto come molti speravano o prevedevano. Sono ancora convinto che Berlusconi è saldamente alla guida di un centrodestra che oggi, anche grazie all’Udc, avrebbe le carte in regole per “costituzionalizzarsi” un po’ di più. In più non credo molto nel governo di salute pubblica, almeno non inteso come un governo retto da una coalizione eterogenea come fu quella del Cln. Quindi, qual è il futuro auspicabile? Io credo che un’apertura dell’attuale maggioranza all’Udc e magari anche a qualche altro esponente laico e cattolico come Rutelli e i suoi o come Fioroni, che ha un piede già fuori dal Pd, potrebbe fare molto bene e potrebbe dare, finalmente, quelle riforme condivise che al Paese servono più di ogni altra cosa. Per lei il Pd è talmente allo sfascio che c’è chi sarebbe pronto a passare con la maggioranza? Per me il Pd è allo sfascio da tempo. Anzi, come ho detto non è mai nato. Mi parrebbe naturale che con il costituirsi di una maggioranza più ampia dell’attuale, intenzionata a fare le riforme e a reggere il paese in un momento di crisi mondiale senza precedenti nella storia recente, ci fosse chi, seppur su posizioni distanti dall’attuale governo, sarebbe disposto a non perdere il treno, forse l’ultimo, delle riforme.
realizzare una convergenza ampia sarà il decreto per gli aiuti alla Grecia. La difficile situazione strutturale italiana dovrebbe essere la preoccupazione di tutti, ma alla proposta di Casini non possiamo rispondere positivamente perché mancano i presupposti e non si conoscono le effettive intenzioni della maggioranza». Per Andrea Orlando, responsabile giustizia del Pd, «non c’è un clima di ostilità dell’Udc, tant’è vero che quando si parla di alternativa pensiamo a loro come possibili interlocutori». Ma a proposito del governo di responsabilità nazionale aggiunge che questa soluzione: «metterebbe in discussione l’assetto bipolare che vogliamo difendere. Oltre al fatto che sarebbe impraticabile perché siamo alternativi rispetto all’idea della democrazia che caratterizza il centrodestra. Diversa è la collaborazione su questioni fondamentali che riguardano i grandi temi, su tutti la crisi economica. È apprezzabile il tentativo di Casini, anche se non penso sia praticabile. Non ho registrato posizioni di pregiudizio, ma anche la consapevolezza che non esistono i presupposti minimi per qualsiasi accordo, non ovviamente con l’Udc, ma con il centrodestra. Il dialogo per delle riforme urgenti e importanti per il Paese si può realizzare in Parlamento, senza bisogno di cambiare formule di governo. Il ragionamento si può strutturare di più, ma molto dipenderò dalla capacità del centrodestra di modificare l’agenda del governo. Finché si parla di lodo Alfano siamo lontani da qualsiasi accordo».
Un altro dalemiano doc, come l’europarlamentare Roberto Gualtieri, parte dal bipolarismo italiano che «impedisce di compiere le scelte necessarie per affrontare i problemi del Paese e su questo condivido alcune valutazioni del presidente Casini. Occorre un cambiamento che passa anche per delle riforme istituzionali che richiedono una larga convergenza e sarebbe positivo se questo clima si determinasse anche per dare una risposta alla crisi. Si tratterebbe di un esempio di buona politica e il Pd ha sempre dato la sua disponibilità a quelle che Pisanu chiama “convergenze contro la crisi”. Il problema è dato dall’inadeguatezza e dalla fragilità della maggioranza, ecco perché vogliamo costruire un’alternativa di governo che, secondo me, deve passare dal bipolarismo ideologico a una moderna democrazia dell’alternanza di tipo europeo. Per raggiungere questo obiettivo può essere necessario un passaggio di convergenza di tipo istituzionale. Insomma di fronte all’inadeguatezza del governo e a regole che imbrigliano il sistema politico in modo regressivo il Pd deve essere pronto a fare la sua parte».
società
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er Torino si tratta più che altro di una questione psicologica, così dicono gli esperti. L’estenuante maratona per la nomina dei presidenti del Consiglio di gestione e del Consiglio di sorveglianza per il colosso bancario IntesaSanpaolo (Andrea Beltratti e Angelo Benessia), torinesi targati Milano, ha lasciato sul campo vittime e macerie fumanti. Di fatto, al di là dei dati anagrafici di nascita dei leader, il capoluogo piemontese ha ceduto a quello lombardo la gestione della finanza del gruppo bancario.
P
Negli ultimi giorni sembrava di assistere a una sorta di “resa dei conti” con i ribelli torinesi della Compagnia, maggior socio di IntesaSanpaolo. Ma gli undici ribelli mercoledì, nel corso di un consiglio durato ben otto ore, sono venuti a più miti propositi e hanno potuto così ottenere la vicepresidenza lasciata da Elsa Fornero che passerà alla banca come numero due di Giovanni Bazoli. Della partita non farà più parte invece Bruno Manghi, ex leader della Fim-Cisl e indicato dal sindaco di Torino, Sergio Chiamparino. Manghi ha detto che lascerà l’incarico. E dunque i giochi più importanti e decisivi sono fatti dopo litigi e polemiche durati mesi: Andrea Beltratti presidente del Consiglio di gestione verrà affiancato da un vicepresidente rappresentante dei ribelli che verrà indicato nei prossimi mesi. Angelo Benessia resta pertanto ben saldo al comando della Compagnia. E così il capoluogo sabaudo ha perso una grande occasione – a causa di rivalità interne, sospetti e giochi di potere – per confermare una sua rinascita dalle ceneri degli anni bui del terrorismo e delle gravi crisi industriali che l’hanno particolarmente e ripetutamente colpito. L’occasione di rimanere al comando del nuovo colosso bancario è stata dunque, tutto sommato, persa. Negli ultimi anni Torino ha conosciuto una sorta di vero e proprio“rinascimento”industriale e culturale. Superata l’ultima crisi Fiat, grazie anche alle strategie di Sergio Marchionne, indirizzata la riconversione industrial-tecnologica verso il terziario innovativo, (ri)scoperta la vocazione turistica grazie soprattutto all’effetto Olimpiadi invernali del 2006, oggi però Torino ingrana la marcia indietro e torna a piangere sui beni perduti. Tutto cominciò nel lontano settembre del 1864 quando la capitale d’Italia venne trasferita dal capoluogo piemontese a Firenze. I disordini di piazza conseguenti a questa decisione provocarono a Torino 52 morti e 187 feriti. Molti fanno risalire a quella data l’inizio del declino storico della prima capitale dell’Italia unita. Il cinema, il tessile, la moda, l’arte, l’editoria, tutti settori nati e cresciuti nella
Banche. Castronovo, Berta e Zanone concordi: «La fusione ha segnato la crisi»
Torino, un declino al profumo di Intesa L’ “opa ostile” di Milano, la Tav e il rilancio mancato: ecco le ragioni di un declino di Vincenzo Bacarani capitale sabauda, hanno preso il volo verso altre città e che oggi in quelle città (soprattutto Milano) vivono e prosperano. Queste delusioni hanno a lungo alimentato la fama di torinesi lamentosi e autolesionisti. Senza contare che gli ultimi due anni “orribili” di Torino hanno visto calare anche l’immagine dello sport italiano più popolare, cioè il calcio, con il Torino in serie B e la Juventus che ha conosciuto forse la stagione peggiore della sua storia.
E ora la vicenda
l’alta velocità, che si è arenata, che ha rallentato moltissimo il suo cammino proprio per i problemi del suo transito nel torinese sono due gravi segnali negativi».Tornando alla vicenda bancaria, Castronovo spiega: «Quello che più mi ha colpito è stata questa spaccatura che si è verificata all’interno della classe dirigente torinese. Quando ci fu il caso Fiat con le banche, la città tutta intera aveva fatto fronte comune. Quello che è avvenuto
con l’indotto dell’Alenia e con l’indotto post-olivettiano. E poi Torino aveva riscoperto nuovi e importanti rapporti con il resto d’Italia grazie anche a collegamenti ferroviari più veloci e continui». Ora la vicenda bancaria rischia di provocare passi indietro, forse. «Certamente – spiega lo storico – l’immagine della città ci rimette». Per il professore di Storia contemporanea alla Bocconi, Giuseppe Berta, la vicenda IntesaSan paolo «lascia un grande senso di rammarico. L’immagine della città è compromessa e il credito acquisito da Torino in questi ultimi anni è stato gettato al vento». Berta ritiene che l’operazione della superbanca sia stata «malgestita con il risultato di aver gettato discredito sulla compagnia anche per gli avalli politici che ci sono stati. È chiaro che gli enti locali non possono interferire sugli assetti della banche. È chiaro che a questo punto Torino ci ha già rimesso.Torino, come sistema, ha perso la faccia e Benessia, che per due anni ha fatto la guerra a Salza, doveva ritirarsi». Da navigato politico nazionale e piemonteseValerio Zanone, che peraltro è stato anche sindaco di Torino, non si stupisce più di tanto di queste ultime vicende che hanno visto la sua città per-
Superata l’ultima crisi Fiat, riscoperta la vocazione turistica grazie soprattutto all’effetto delle Olimpiadi, oggi la città ingrana la marcia indietro
IntesaSanpaolo sta riproponendo scenari di isolamento? Davvero Torino adesso rischia di fare come il gambero e di disperdere quell’immagine di città culturalmente fervida (basti pensare al Salone del libro o al restauro terminato della splendida reggia di Venaria) faticosamente conquistata in questi ultimi anni? «Purtroppo questa vicenda della banca – dice a liberal lo storico piemontese Valerio Castronovo – avviene proprio mentreTorino sta facendosi conoscere come città turistica, città culturale di grandi eventi, come città vivace anche di notte. Adesso alcuni importanti segnali danno l’idea che stia di nuovo richiudendosi su se stessa. IntesaSanpaolo con Milano che si porta via tutto e poi la Tav,
in queste ultime settimane non rientra affatto nello stile subalpino: divisioni, lacerazioni, polemiche interne nello stesso schieramento vicino al centrosinistra. Indubbiamente è stato un certo stile che è venuto a mancare». E tutto questo caos, queste fratture, questi strappi proprio mentre la città si stava risvegliando. «Eh già. Pensiamo alle ultime Olimpiadi invernali del 2006. Il mondo ha scoperto Torino, la sua grande capacità organizzativa. Le strutture, i servizi, la bellezza. La città stava ritrovando o trovando una nuova leva importantissima: il turismo, stava ritrovando anche una sorta di nuova vocazione industriale
dere in immagine. Laureato in Filosofia, ex del Partito liberale italiano ed ex esponente in parlamento del Partito democratico, ora Zanone ha lasciato il partito guidato da Bersani per accasarsi con Francesco Rutelli nell’Allenza per l’Italia dove fa parte della direzione nazionale: «La speranza – dice a liberal – è di costruire un terzo polo centrista perché questo governo mi fa paura». Sulla vicenda IntesaSanpaolo, Zanone è anche un po’ parte in causa perché aveva sostenuto la candidatura di Enrico Salza. Anche l’esponente dell’Alleanza per l’Italia parte un po’ da lontano. «Ho sempre avuto – dice – l’idea che in Italia ci fosse bisogno di una grande area metropolitana integrata che potesse guardare all’Europa più da vicino, e questa idea era quella del MiTo. Cioè le due grandi metropoli del Nord assemblate in una unica grande area di importanza strategica e strutturale. In quest’ottica la fusione San Paolo-Intesa andava nel senso giusto. Purtroppo i risultati hanno avuto un effetto negativo per Torino». Una città – secondo Zanone – che ha sempre avuto un’area di comando storica. «Penso al regno sabaudo prima – dice – e poi alla Fiat. Ora è la finanza e la presenza a Torino di un colosso bancario che ci permette di reggere il confronto europeo è senz’altro positiva. Questa presenza sarà raffigurata anche visivamente con il grattacielo progettato da Renzo Piano con la scritta San Paolo che sarà ben visibile anche da lontano». Ma anche Zanone è d’accordo sul fatto che le recenti vicende abbiano in qualche modo scalfito l’immagine di Torino, anche se da buon torinese tende a sottolineare della sua città più i difetti che i pregi, in senso filosofico e psicologico. «Prendiamo Milano – spiega – : è una città che per come è concepita a livello di struttura porta chi vi entra ad andare nel suo cuore, verso il Duomo.Tutte le strade, alla fine, conducono al Duomo che, ricordiamolo, però non è la sola attrrazione di Milano».
Torino invece sembra essere l’esatto contrario. «Il capoluogo piemontese – prosegue l’ex sindaco – ha tutte strade diritte. Che cosa si vede al fondo di queste strade diritte? Da una parte si vede la collina e da un’altra parte si vedono le montagne. È una città che invita ad andarsene, ad andar fuori. Io vivo a Roma da trent’anni e ogni tanto torno a Torino». Non si sente più torinese, dunque? «Tutt’altro, io sono torinese al cento per cento, ma non è necessario vivere a Torino per essere torinese». E ora con la vicenda IntesaSanpaolo? «Beh – conclude – in questo caso i torinesi sono riusciti a inciampare sulle stringhe delle proprie scarpe».
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
di Matteo Orsucci
abriele e i suoi sogni, Gabriele e l’università, molti libri letti, i migliori, i più belli, per fare il verso a Borges, «quelli ancora da leggere»… Eppoi Gabriele e la fuga dalla provincia che ti stritola, che non ti fa respirare; una boccata d’aria nuova in una città un po’ più grande - e d’accordo che Urbino non è metropoli ma ha il respiro ampio di tutte le cittadine invase dallo spirito eterno della gioventù studiosa. Gabriele è un ragazzo come tanti, addirittura come tutti, che si è appena lasciato il liceo alle spalle, davanti si trova una scommessa nuova, una partita di cui appena sono state impartite le regole. Come tanti, addirittura come tutti, è costretto a giocare a vista, molto a zona, nessuno marca stretto perché quella è ancora la fase della conoscenza generale. L’età più bella è finita, l’età di Arsenio come direbbe Eugenio Montale, quella in cui le nuvole non sono cifre o siNé gle «ma le belle sorelle che si incapaci guardano viaggiare». Gabriele è il protagonista di amare, né del romanzo d’esorbamboccioni. I protagonisti dio di Marco del romanzo d’esordio di Marco Apolloni, Il circolo Apolloni colpiscono per la capacità dei nichidi smarcarsi dalla retorica odierna. listi (Giraldi Ragazzi impegnati alla scoperta editore, Bologna), ed è anche il prototipo di una vita senza utile per una ricognizione valucchetti... gamente più seria sulla materia trattata. Apolloni al lettore regala una prosa affatto banale, un intreccio molto ben costruito, di pagina in pagina si scala la montagna incantata del romanzo fine a stesso per arrivare alla vetta della formazione di ogni bildunsroman che si rispetti. E non potrebbe essere che così. L’autore non lo ammette, ma il protagonista è anche un po’ il suo alter-ego e vista la carne messa al fuoco la biografia in questo caso non è affatto secondaria. Gabriele finisce con l’avere passati i 25 anni, proprio come Apolloni (che di anni ne ha 27).
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SILLABARIO Giovani e nichilismo
DELL’ANTI-MOCCIA Parola chiave Giornali di Gennaro Malgieri Grande rentrée di Lulu alla Scala di Jacopo Pellegrini
NELLE PAGINE DI POESIA
Riflessi d’utopia in Eugenio Montale di Filippo La Porta
“Massa e potere” cinquant’anni dopo di Maurizio Ciampa Sguardo d’autore su Serge Gainsbourg di Anselma Dell’Olio
Quando il genio risiede nel dettaglio di Marco Vallora
sillabario dell’
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anti-moccia
Ma che fine avrà fatto il giovane Holden? di Pier Mario Fasanotti crivere la storia di un carabiniere, di un idraulico, di un’infermiera o di un avvocato è relativamente facile. Le variazioni di trama e di emozioni sono come sempre infinite, ma lo scrittore si trova a tratteggiare una personalità conosciuta, magari «provata» sulla propria pelle, anche se bizzarra e contorta. Scrivere di adolescenti è ben diverso. È come narrare di alieni, anche se noi lo siamo stati. Quel periodo che va tra l’infanzia e la maturità oggi si è straordinariamente allungato, anche per merito (o colpa, se si corteggia un giustificazionismo quasi sacrale) di chi ha studiato questa fase evolutiva dando a essa dignità di autonomia e originalità o elevandola a modello esistenziale. Prendiamo per esempio il libro intramontabile di J.D. Salinger, in cui il giovane Holden Caulfield esprime (in un week end del 1949) tutto il suo marasma intimo. Gli dicono che potrebbe diventare avvocato. Puah, «gli avvocati sono in gamba, ma non mi attirano». E allora? Salinger s’infila nella testa di un ragazzo, e lo fa proprio bene in questo passo: «E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo… non dovrei fare nient’altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia». Altri narratori ci hanno provato. Cogliendo però non l’insieme, ma dettagli. I quali, pur tutti insieme, non creano un clima mentale ed emozionale. Risultato? Prodotti a vendere (o a perdere), confezionati con una sorta di artigianato pubblicitario. Furbizia che fa vendere un libro o un film, ma solo per pochi anni. Da qualche lustro escono continuamente saggi sugli adolescenti che invitano a mutare parametri interpretativi. Due esempi. È inesatto oggi insistere sul freudiano senso di colpa visto che tra i giovani domina il mito comportamentale di Narciso. E ancora: il senso di colpa magari non è sparito, ma certamente è minimo rispetto alla vergogna, che è un sentimento «sociale» e riguarda generalmente la superficie del nostro io. A fare il punto, scientifico e sociologico, sulla cosiddetta «età del malessere», è appena uscito da Einaudi il saggio (intitolato
S
La trama può sembrare scontata: l’adolescenza, e quindi e insomma si cresce, nascono prime incomprensioni, i genitori diventano alieni, parlano una lingua che non è la tua, si va avanti grazie alle amicizie vere, l’amico fidato, la fidanzata che pensi essere eterna, la bicicletta e lo scooter, il fuoco che brucia dentro, tutta la vita in un giorno. L’ala della giovinezza porta a volare molto in alto con frasi solenni, promesse senza fine, amori eterni perché la vita ha il sapore di una susina: un po’ aspra quando l’addenti, ma dolce e succosa all’interno e la si vive in ragione di questo contrasto palatale. La generazione di Gabriele non è quella dei lucchetti di Ponte Milvio, di Federico Moccia, non chiede scusa se ti chiama amore, bensì lo urla, quell’amore, perché è bella e terribile, si sente ovviamente immortale, ha voglia di lasciarsi tutto indietro e proiettarsi tutta avanti. Gabriele sa che dovrà percorrere le strade più diverse, mantenendo quell’andatura un po’ così, tipica dei ragazzi, la stessa che Roberto Vecchioni ha saputo rendere impareggiabilmente con l’espressione «Comici e disperati guerrieri». Comici e disperati, appunto. Ragazzi un po’ goffi nei confronti della vita, disperati come ogni amante della vita stessa, tra il dandy e il maledetto, deve essere: per certi versi estremo, guerriero senza dubbio. Questo è un romanzo d’esordio, e oggi in Italia dire «fare un romanzo» sembra quasi una sorta di pazzia letteraria. Uno pensa subito ad Alessandro Manzoni e all’alta letteratura o, peggio, ai tormentoni da classifica settimanale di Repubblica, quella anno III - numero 19 - pagina II
appunto Adolescenti) di un giovane zoologo, l’inglese David Bainbridge, che indaga sul mistero delle «creature più meravigliose, e fastidiose, del pianeta. Che succede nella testa di questi alieni, il cui cervello ha permesso all’umanità di fare «il grande passo in avanti»? Sotto la calotta cranica si verifica «una profonda ristruttuUn ritratto di J. D. Salinger, autore del “Giovane Holden” razione cerebrale che cambia sostanzialmente il modo di interagire con ciò che ci circonda». Si arriva a questa rivoluzione nervosa con fatica. Un periodo di transizione in cui i giovani «hanno pensieri disturbati e inquietanti». Alcuni di loro, scrive l’esperto, non arrivano mai a destinazione (l’equilibrio mentale), ma si perdono per strada: la schizofrenia di solito inizia nell’adolescenza. C’è «uno sfrigolante mare elettrochimico della corteccia cerebrale», e ciò deve essere tenuto in considerazione da coloro che attribuiscono tutto all’ambiente familiare, sociale e storico. Noi genitori, quindi «anziani», spesso ci irritiamo dinanzi a tanta alienità. Per i «capricci» della mente giovane, ma anche per la sua dose di creatività. Disordinata, ma esistente oltre che evidente. Quella che, pur tra sobbalzi e rischi elevatissimi, determina il cambiamento dell’intero genere umano. In ogni caso non sapremo mai se il giovane Holden sia diventato brillante avvocato o un perditempo, magari drogato.
roba che mette sempre in testa di serie i mocciosi di Moccia, i ragazzini della Roma perbene e quelli della Roma sporca, le motociclette che corrono molto, ragazzini senza voglia di fare alcunché, ragazzine molto innocenti che sognano la loro prima volta a 21 anni col voto in Senato, il principe azzurro, un castello sul mare, e ci sarebbe da chiedersi come fa una pletora di quindicenni cresciuti a pane e internet a credere in un amore di carta visto che ormai pure quello lo fanno on line, sesso 2.0…
I r a g a z z i d i A p o l l o n i sono ragazzi che con il pc hanno il sano rapporto della noncuranza, vanno alla pratica del mondo incuriositi e perplessi. Nichilisti recita il titolo. Parola forte, provocatoria, usata per nulla a caso. Nel gruppo di Gabriele di nichilista ce n’è solamente uno, e la statistica non la si sta a scomodare perché al mondo gente così esiste tra l’adolescenza e la vecchiaia. Questione di numeri. Ma gli altri, il buddista, quello con i dubbi esistenziali, l’altro che si interessa alle astrusità, beh, non sono affatto nichilisti. È così che li vedono gli occhi dei genitori, degli insegnanti, dei professori all’università, della gente per strada. E quindi perché non giocarci sopra a questo equivoco esistenziale? Perché non fondarlo un circolo dei nichilisti? L’unico posto dove assaporarlo davvero il nettare di tutto, combattendo il niente che invece sta intorno… Passano gli anni, si passano gli esami, si arriva all’Erasmus e alla dicitura «generazione Erasmus», quella che precede la laurea e le altre diciture
«generazione mille euro» e «generazione Tanguy», che detto dalle nostre parti suona come «bamboccioni». L’Erasmus porta a Londra, le vie incasinate, le ragazze baciate, gli amici nuovi, il turbinio di cosce e di seni, i libri, il Tamigi e le birre, padroni del mondo, anarchi jungeriani con riserva… Poi il ritorno, la laurea agognata. Dentro quel circolo che di nichilismo non ha un bel nulla alla fine sta il segreto dell’ultima generazione che ha saputo smarcarsi dalla retorica odierna, che non ha prodotto bulli ma belli, che proveniva dagli anni Ottanta sia pure con qualche differenza.
F i g l i d i u n ’ e t à di transizione ma non per questo incapaci di amare. Personalmente faccio parte di quel circolo o di qualcosa del genere. Cosa manca ad Apolloni, forse, è la presa di coscienza che uscendo fuori, dopo i chilometri di vita percorsi, alla fine si è come quelli da cui si scappava, anche senza chiudere lucchetti a Ponte Milvio (che sono il riflesso pavloviano del chiudersi in sé). Perché la tradizione resta pur sempre quella, ed è anzi essa che consente eccezioni alla regola, ribellismi, dannunzianesimo, roba così. O più semplicemente siamo stati gli ultimi, per anagrafe, a vivere un canovaccio di gioventù da poter ricordare con nostalgia. Ah, ai miei tempi… E siamo già tra i matusa.
MobyDICK
parola chiave
15 maggio 2010 • pagina 13
GIORNALI ansia mi assale di primo mattino con l’arrivo dei quotidiani. Una volta era una gioia sfogliarli. Poi è diventato un dovere legato alla professione. Comunque ho sempre ritenuto un obbligo civile leggere i giornali: la preghiera laica, secondo un filosofo tedesco. Da tempo il piacere e la necessità si sono trasformate in un supplizio. L’enfatizzazione di ogni avvenimento, la morbosità di una cronaca spesso compilata per i voyeurs, la ricerca affannosa di ciò che sarebbe illecito pubblicare come i verbali delle intercettazioni che contribuiscono a distruggere esistenze di innocenti, il gossip esploso negli ultimi anni sulle prime pagine, lo spazio sempre più risicato all’analisi, al commento, al reportage di qualità, all’approfondimento fanno sì che il giornale ci offre briciole di eventi sicuramente interessanti e tanta paccottiglia a uso e consumo degli amanti (pochi) dei retroscena su cui imbastire la giornata politica. Si spiega anche così - ma non soltanto - il declino della carta stampata, in Italia, in Europa, in quasi tutto il mondo. Sicché a qualcuno è venuto in mente di chiedersi se i giornali dureranno ancora o si estingueranno nei prossimi cinquant’anni.
L’
L’ultima copia del «New York Times» (edito da Donzelli) è il titolo paradossale di un libro tutt’altro che fantasioso scritto da Vittorio Sabadin nel quale l’autore si è domandato se davvero è possibile che nell’arco di qualche decennio un’industria che impiega nel mondo due milioni di persone e che ha investito negli ultimi anni sei miliardi di euro in innovazione tecnologica possa scomparire. Certo, è difficile crederlo, ma a fronte dei nuovi media, carta e inchiostro non avranno vita facile e dovranno difendersi come potranno. A dire la verità c’è un solo modo per non scomparire. Il giornalismo, dice Sabadin, e io concordo, «dovrà trovare il modo di re-inventarsi, adeguarsi e sopravvivere in altre forme, perché - a distanza di secoli - è rimasto ancora la principale garanzia disponibile ai cittadini di una società civile e democratica». La parola magica sembra essere «multimedialità»: il quotidiano che si rigenera on line, che è la matrice di radio e televisione, che arriva sul telefono cellulare, che sfrutta le potenzialità dell’iPod. D’accordo. I contenuti, però, quali dovranno essere? Non è vero che il mondo non è più affamato di notizie o è alla ricerca di un’informazione veloce. La conoscenza oggi è tutto o quasi. Ma il tempo bisogna razionalizzarlo per informarsi adeguatamente. Sicché i giornali possono e devono restringere all’essenziale le news lasciandole a Internet o al sistema radiotelevisivo che le scodella in tempo reale, applicandosi invece a scavare nelle notizie, dietro di esse e fornire punti di vista (possibilmente non banali) sui grandi avvenimenti: dovrebbe essere questo il futuro dei quotidiani cosiddetti generalisti. Ma l’avvenire dell’editoria è nei giornali locali e di tendenza. Entrambi di nicchia, come si dice, svolgono funzioni non eliminabili in società complesse: i primi nel legare i cittadini al loro territorio; i secondi nell’offrire un ventaglio di opinioni tale
Leggerli è un obbligo civile ma farlo equivale spesso a un supplizio. Analisi di uno strumento che è la principale garanzia per i cittadini di una società democratica, ma che rischia di scomparire
Il futuro dietro la notizia di Gennaro Malgieri
Per sopravvivere al declino a cui non solo le nuove tecnologie li hanno condannati, gli organi di stampa si devono reinventare. Fuggendo dalle logiche televisive e rispondendo in modo diverso alle aspettative dei lettori: essere stupiti e informati da trasmettere visioni globali dei mutamenti che si producono grazie alla convergenza di bisogni e interessi planetari nelle micro-comunità, da qui il bisogno di discutere di idee che, con tutta evidenza, non possono trovare ampi spazi nei giornali «veloci» dedicati prevalentemente alla comunicazioni dei fatti del giorno. Se, dunque, la partita si gioca sul tempo che dedichiamo ai media, su come usufruiamo dell’informazione e quindi degli strumenti di cui ci serviamo, non è trascurabile la qualità dei contenuti per chi volesse farsi un’opinione e magari interagire, attraverso Internet, con quelle proposte dai giornali di orientamento. Riusciranno a convivere queste esigenze in una sopravvivenza dalla quale, per buona parte, dipenderà la democrazia nel Pianeta? È il grande interrogativo, credo, su cui la discussione dovrà essere portata. E rispondere, magari, con uno scarto di fantasia necessariamente adeguato alla do-
manda che nel 2006 si poneva l’Economist: «Chi ha ucciso il giornale?». Se nel delitto, come qualcuno sostiene, una parte non indifferente l’hanno avuta le nuove tecnologie che hanno espulso dal processo produttivo milioni di addetti e nel contempo hanno livellato la qualità del prodotto, è anche vero che coloro i quali maneggiano la notizia, che producono l’opinione, che orientano la formazione di un pensiero, ingabbiati nelle logiche del fatturato, non sempre hanno corrisposto alle esigenze di dare ai lettori ciò che da sempre si attendono: stupirsi e arricchirsi. Certo, non è un arricchimento lo stravolgimento del giornale in uno strumento di lotta tra gruppi politici e finanziari. I lettori sono costretti a sorbirsi dispute di Palazzo a cui sono estranei che non si sviluppano nei «luoghi» appropriati come sarebbero i giornali di tendenza, ma in quotidiani generalisti schierati come organi di partito.
Perciò credo che la diagnosi di Stefano Hatfield, direttore del quotidiano gratuito britannico Thelondonpaper, raccolta qualche tempo fa da The Independent sia assolutamente fondata: «Viviamo il nostro momento e ci divertiamo a fare le cose in un modo diverso.Vuol dire stare meno seduti nella torre d’avorio a predicare ai lettori, e impegnarsi invece di più nello stabilire una connessione bidirezionale con loro. Non cerchiamo di imporre i nostri punti di vista in modo didattico a un pubblico riconoscente, ma cerchiamo di creare una comunità tra lo staff editoriale e i lettori. La gente continuerà a usare i giornali, perché vuole continuare a leggere, bisogna solo riuscire a individuare gli argomenti giusti». Difficile non essere d’accordo. Ma come trovarli gli «argomenti giusti»? Ognuno, come è giusto che sia, avrà la propria ricetta e a essa si atterrà. Il risultato nessuno è in grado di prevederlo. C’è soltanto da ammettere che se i giornali, quasi tutti, continueranno a essere strutturati secondo parametri antiquati che non rispondono più alle esigenze del presente davvero c’è il rischio che scompaiano. O, nella migliore delle ipotesi, che sopravvivano come ripetitori di news televisive.
Ecco un altro inquietante aspetto della crisi: i giornali si sono «televisivizzati», rispondono cioè agli schemi propri di un mezzo che dovrebbe essere ai suoi antipodi. E questa circostanza non può che allontanare il già esiguo pubblico dei lettori. Del resto, se già la televisione sotto il profilo informativo, è ampiamente superata poiché la ricerca della popolarità si è fermata nella cucina della notizia leggera e i talk show sono per lo più irritanti pollai nei quali si beccano i soliti noti, che cosa rimane del giornalismo di qualità offerto dal piccolo schermo? Poco o nulla, a meno di non rivolgersi a emittenti di nicchia come Current di Al Gore, della quale si può criticare i contenuti che propone, ma non certo l’approccio a essi, che svolge una funzione di utile e speriamo imitabile collegamento tra la domanda e l’offerta, così come altri canali tematici che sono i veri motori della conoscenza attraverso il piccolo schermo. I giornali di qualità, generalisti quanto si vuole, ma non indigenti zibaldoni, dovrebbero suggere da questo modo televisivo di fare informazione (ripeto: di nicchia estrema) per dare al grande pubblico un’informazione non scontata e ricca di approfondimenti che non possono sempre essere affidati a signori seduti in uno studio che discettano sull’universo mondo avendo di vista soltanto il cortile della propria abitazione. I giornali non credo che collasseranno a breve. A meno di una mutazione antropologica rivoluzionaria che farà sì che ognuno di noi si porti un pc ovunque e ne diventi un’appendice organica, la stampa continuerà a esistere. Ma a patto che si rinnovi. Poiché a decretarne la fine sarebbero i lettori. La free press è un sintomo inquietante ed esaltante al tempo stesso. Se gli editori riuscissero a coglierne tutte le potenzialità e a mixare gli elementi quantitativi con le prospettive qualitative che pure si potrebbero aprire, forse la strada della salvezza sarebbe più agevole.
MobyDICK
Classica
pagina 14 • 15 maggio 2010
musica
zapping
Decostruttivi ironici LODE AI PRIMUS di Bruno Giurato
di Jacopo Pellegrini òlta all’ultima replica, dinanzi a una sala più piena che vuota, premiata da un’accoglienza finale entusiastica, Lulu di Alban Berg tornava alla Scala dopo un’assenza prolungata: 31 anni dalle due recite portate in tournée dall’Opéra di Parigi (al podio Boulez, Chéreau il regista), 47 dall’unico allestimento prodotto in casa (per la bacchetta di Nino Sanzogno), quando l’opera, rimasta incompiuta per la morte dell’autore, viaggiava ancora in due atti. Molto opportunamente il teatro milanese e Daniele Gatti - artefice d’una prova direttoriale davvero maiuscola, grazie alla quale ha risollevato (e di parecchio) le proprie quotazioni in loco dopo il dubbio esito del Don Carlo inaugurale del 2008 - hanno optato per la versione col sparsi a piene mani nei suoi due drammi terzo atto completato (in misura minisu Lulu e da Berg golosamente conserma) e orchestrato (in larga parte) dal vati nella loro riduzione a libretto: le pricompositore austriaco Friedrich Cerha, me parti degli Atti II e III consistono, in quella appunto tenuta a battesimo nel buona sostanza, in un pochadistico gio1979 dalla coppia Boulez-Chéreau. co di entrate e uscite da porte, di gente Stavolta lo spettacolo recava la firma di che si nasconde dietro tende e sotto divaPeter Stein (a Milano la regia è ripresa ni, di travestimenti, conversazioni spiate da Vesperini e Cantini), con scene di Wöe «a parte» comici. Stein questi trucchetgerbauer, costumi della Bickel, luci di ti li gode da matti: costruisce un oliatissiSchuler. È stato, sul piano dei gesti e dei mo meccanismo di movimenti, il trionfo azione/reazione motodella didascalia, metiria (veniva fatto di pencolosamente e amorosare al giovane Strehsamente rispettata. Si ler, regista d’una Lulu sono viste Lulu più agalla Biennale di Venegressive nel lavoro di zia 1949), organizza un scavo intorno a segni e ritmo narrativo agile e significati; nessuna meincisivo, traendo partiglio raccontata di queto anche da certi tratti sta: anche a non conodella musica che, da scere la trama, anche a non capire una parola Foto di M. Brescia di “Lulu” alla Scala dietro la proclamata ortodossia serial-dodedi tedesco, si segue tutcafonica, sbirciano con voluttà la cosidto e tutto è lampante nella condotta e nei detta musica d’uso tedesca anni Venti (il rapporti tra i personaggi, come in un film primo Hindemith), dove si mescolano (e, in effetti, gli omaggi di Stein alla peljazz e danze di sala moderne; né Berg, licola di Pabst sullo stesso argomento soviennese purosangue, può scordarsi del no palesi). valzer: fantasmi dell’amato 3/4 sgorgano Non manca alcuno dei triti espedienti qua e là, specie quand’è di scena il buoteatrali da Frank Wedekind volutamente
C
Grande rentrée di Lulu alla Scala
Jazz
ornano i Primus e menomale. Se c’è un gruppo per il quale la dicitura rock alternativo ha un senso, è proprio il terzetto capitanato - è il caso di dirlo dato il berretto militare - da Les Claypool. I Primus sono più giù, più su, essi sono più oltre. Claypool suona il basso come tre musicisti ma con l’aria di stare lì per caso, nel mentre canta con una vocina a sfottò testi bislacchi come Too many puppies (Troppi imbecilli) o Greet the sacred Cow (Ringrazia la vacca sacra) o Winona Big Brown Beaver, il grosso castoro marrone di Winona, canzone che si meritò gli insulti del fidanzato di Winona Rider, ulteriore conferma che le corna, anche metaforiche o sospette, quando spuntano fanno male. Li trovi sul palco del Lettermann vestiti da pinguini. Il loro video più bello si chiama Devil went down to Georgia, una lotta country blues tra il bene (diavolaccio chitarrista) e il male (fanciullino col violino), girato con pupazzi di plastilina. Insomma la notizia è che da quest’estate li vedranno di nuovo in tournée in Usa e in Canada, ma non da noi. Gli impresari europei sono troppo impegnati a riesumare mummie di pastasfoglia rock o «ggiovani di giro». Sono troppo postmodernamente felici per concedersi un po’ di postmodernità seria, come appunto quella dei Primus, che decostruiscono, sì, ma con umorismo e volume alto, molto alto. I detrattori sostengono che i Primus suonino sempre lo stesso pezzo, ebbene sì hanno ragione. Ma come lo suonano: sembra non abbiano bisogno di accordi tanto è l’impatto. I Primus chiudono il conto con il rock e con il pop, con i sogni dei critici musicali e con il mercato nell’unico modo possibile, standoci dentro (ma non in quello europeo, pare). Dopo l’estate arriverà anche il nuovo cd e quello almeno ce lo potremo scaricare, alla faccia degli impresari.
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no, sentimentale Alwa, anch’egli (nella finzione teatrale) compositore. Alla Lulu Stein si guarda bene da sottrarre anche il previsto apparato visivo allegorico: il circo del Prologo, l’onnipresente ritratto/doppio della protagonista; tanto più sorprende la rinuncia per costei al costume da Pierrot (Prologo e Atto I, scena I), peraltro disegnato dalla Bickel, come si evince dalla copertina del programma di sala. Un ripensamento dell’ultim’ora? Oppure ho visto male io? Per il resto, costumi, anzi abiti da favola, scene assai mal costruite ma ingegnose (il realismo degli ambienti è messo in forse dal fatto ch’essi stanno dentro una grande «scatola» scenica, arretrata rispetto al proscenio), luci espressive. Cast affiatato e preciso (l’unico realmente modesto è West), con in testa Laura Aikin, Lulu se non serpentina certo dominatrice della parte, e Thomas Piffka, forse un po’ âgé nella figura, no davvero nel canto. Spesso (non sempre) in Lulu canto e orchestra scorrono paralleli, autonomi, ma Gatti li domina entrambi portandoli a una temperatura espressiva rovente e ottenendo dagli strumentisti una pienezza e densità di suono febbrile.
Ricordo di Lena Horne dal Cotton Club a MLK
di Adriano Mazzoletti veva abbandonato le scene ormai da molti anni, ma il suo nome era rimasto vivo nella memoria di tutti coloro che l’avevano ammirata e apprezzata. Lena Horne avrebbe compiuto 93 anni il prossimo 30 giugno, ma la notizia della sua scomparsa, il 9 maggio a New York dove era nata nel 1917, è giunta immediatamente e il mondo del jazz, del cinema e dello spettacolo la stanno commemorando in tutto il mondo. Per la sua straordinaria bellezza e indiscussa bravura era stata subito notata da Owdey Madden proprietario del Cotton Club che l’aveva ingaggiata come ballerina di fila per la rivista del 1934. E fu proprio nel celebre locale di Harlem che la Horne iniziò a cantare. Noble Sissle, uno dei personaggi più celebri dello spettacolo nero fin dagli anni Ven-
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ti, la scritturò immediatamente e con lui incise il suo primo disco con due canzoni That’s What Love Did To Me e I Take to You. Era l’11 marzo 1936. Bastarono quelle due interpretazioni e una tournée che la Horne effettuò con Sissle della cui orchestra faceva anche parte Sidney Bechet, per lanciarla definitivamente. Divenne ben presto figura di spicco nel locali della 52° strada di New York, quando la «strada» nella seconda metà degli anni Trenta, era il centro del jazz negli Stati Uniti. Celebri direttori orchestra dell’epoca, Charlie Barnet, Artie Shaw e Cab Calloway le offrirono il posto di cantante e con loro incise molti dischi, finché nel 1942 le venne offerta una piccola parte nel film Panama Hattie. I produttori di Hollywood notarono immediatamente quella splendida ragazza dalla voce così personale e l’anno successivo girò uno dopo l’altro
ben cinque film, Cabin in the Sky, Stormy Weather, I Dood It, Thousands Cheers e Swing Fever. Se gli ultimi tre non hanno superato la barriera del tempo, i primi due sono capolavori di quel genere passato alla storia del cinema per la presenza di musicisti e attori di colore. Fu infatti la prima cantante nera a firmare un contratto con una delle major di Hollywood, la Metro Goldwyn Mayer, anche se «l’unica volta in cui dissi una frase a un attore bianco fu in Show Boat del 1946», ha ricordato in una intervista di qualche anno fa. Ai quei primi film, ne seguirono molti altri , fra cui il bellissimo Due cuori nel cielo di Vincent Minelli con Louis Armstrong. Contemporaneamente iniziò a incidere copiosamente a suo nome con musicisti di grande importanza come Teddy Wilson, la tromba Gerald Wilson, che in seguito divenne l’insegnante di Eric
Dolphy, Illinois Jacquet e molti altri. Nel 1947 si sposò con Lennie Hayton, pianista, arrangiatore, compositore, direttore d’orchestra che aveva iniziato la sua carriera negli anni Venti con Joe Venuti, Bix Beiderbecke, Eddie Lang e gli altri celebri solisti di New York. Negli anni successivi, però le sue critiche all’esercito Usa per come venivano trattati i militari di colore le costarono una lunga e forzata assenza dai set hollywoodiani. Tornò al successo nel 1957, con l’album Lena Horne at the Waldorf-Astoria, che ottenne il record dell’album di un’artista donna più venduto nella storia della Rca. A cui seguì lo splendido Porgy and Bess in coppia con Harry Belafonte. Nel corso degli anni Sessanta maturò l’impegno per i diritti civili, partecipando a numerose proteste e manifestazioni, compresa la marcia su Washington dell’agosto 1963 guidata da Martin Luther King.
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arti Mostre
arrà una provocazione, ma non è: tanto per farci capire, noi saremmo pronti a regalar via, senza sacrificio, tutta l’integrale opera omnia della Transvanguardia (che poi non sarebbe sacrificio, anzi) compresa pure tutta quella sezione nostrana pesante e mancata di pittura realistico-picassiana, tra Pizzinato e Treccani, per intenderci, e poi tutt’ancora quella pitturaglia ignobile dei recenti riprendi-inmano il pennello, tipo Schnabel & C., e pure l’accozzaglia miliardaria che va di moda oggi dalla Cina e fa sfracelli in asta, proprio tutta, e in più, buon prezzo, persino quella coeva pitturetta galante e infiocchettata della Francia Settecento (ovviamente tenendoci i Watteau e gli Chardin) per preferire, ma le mille volte, queste meraviglie assolute, di colori, immaginazione, fascino, che sono le miniature, tra Sei, Sette e Ottocento, dell’India Nord-occidentale, in quelle contrade cosiddette pre-himalayane. Ricordavamo, dell’arte Rajput, una sontuosa mostra al Museo Ritberg di Zurigo, là dove Wagner tramava le sue tresche adulterine con Madama Wesendock. Ma questa non è da meno, e che invidia per i coniugi Ducrot, non tanto perché queste meraviglie le posseggono e le possono condividere in mostra, ma perché se le son pescate una a una nei loro viaggi «professionali» e qui e là, nei luoghi privilegiati, quando Indira Gandhi castigò gli aristocratici bolsi, che si videro costretti a svendere i gioielli di casa, rinvigorendo questo collezionismo così raro e raffinato. Una famiglia d’artisti, i Ducrot: con Donna Isabella e i suoi arazzi moderni, il figlio Giuseppe, scultore neo-berniniano e il padre Vicky, «cacciatore di luoghi», anche se con civetteria diminuente si definisce tour operator. Chi conosce i Viaggi dell’Elefante sa di che eleganza di itinerari e di avventure sofisticate si tratti. Ducrot racconta di un
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Archeologia
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Quando il genio risiede nel dettaglio di Marco Vallora primo viaggio ingordo, negli anni Sessanta, cercando di capire tutto, in poche ore di India, e poi la scelta di centellinare, vacanza dopo vacanza, piccole sezioni di indianità, regione per regione, per capire di più e apprezzare anche quelle minime declinazioni di corti e costumi, che si riflettono poi in queste miniature. Apparentemente così simili, ma ognuna dotata d’una propria interna vitalità separata, che bisogna saper apprezzare. Dapprima comprando pittu-
re-souvenir per il rientro, e poi diventando via via degli esperti, e selezionatori, un po’ come il sensibile pittore inglese Hodgkind. Rajput (raja=Re, putra=figlio) vuol dire Rajansthan, la grande Terra dei Re del Nord, di questi fieri principi, Unni Bianchi d’origine, che contrastano l’invasione degli islamici turco-afgani, in queste regioni volentieri occupate da predoni. Anche se i vincitori mussulmani, in India, non cercano di islamizzare eccessi-
vamente i luoghi espugnati, lasciando libere queste raffinate corti periferiche di rimaner legate ai propri costumi atavici e alle tradizioni religiose e artistiche hindi. Un’arte, dunque, che risente molto meno dell’influenza persiana, rispetto a quella Mugal, più fiorita e ornamentale, con maggior verisimiglianza naturalistica e quasi prospettica, segnata dall’interdetto iconoclasta di non poter rappresentare gli Dei. Che sono invece la sostanza di questa miniatura Rajput, ove gli Dei (in particolare Visnu, o Siva dalle molte teste) scendono travestiti (o meglio incarnati, secondo la teoria dell’avatar) sulla terra, fertile e coltivata, di questi paesaggi curatissimi, con la loro carnagione bluastra e la loro capacità di fulminare con gli occhi, di far scatenare elaboratissime nuvole monsoniche, di amoreggiare con le ninfe, diventate qui delle mandriane, tra incantamenti di serpenti e di palmizi. Non si dica quante cose si possono imparare nel fruibile catalogo Skira e che sarebbe divertente raccontare anche qui, su questi fieri principi, che difendono sino al suicidio il loro orgoglio di stirpe, volutamente leggendarizzato, di uomini di guerra, che preferiscono soccombere piuttosto che confederarsi, contro il comune pericolo Mogul. E quest’indipendenza e fierezza si risente pure in quest’arte elaboratissima della miniatura, che difende il proprio stile, a colpi d’invenzione e di soluzioni figurative: con queste figure volutamente bidimensionali e bloccate in gesti processionali, talvolta stereotipate nelle fisionomie (tranne che i possenti ritratti di signori, spesso con falcone o pronti a gettarsi in mischie musicalissime, con cinghiali e animali feroci), gli occhi bistrati e spesso sporgenti dalle sagome ritagliate, inseriti in complicatissime architetture galanti o demoniche, almanaccate in gran disprezzo della Dea Prospettiva, che spirava da Ovest. E staremmo ore qui a decantare questi geniali dettagli, più dettagli dei dettagli della stessa pittura fiamminga!
L’India dei Rajput, Torino, Museo d’Arte Orientale Mao, sino al 6 giugno
Sono indoeuropee le mummie intruse dello Xinjiang n cimitero di mummie, dove al posto delle lapidi svettano alti pali a forma di falli e di remi. Small River è il nome di questo luogo di sepoltura che si trova nella depressione desertica del Tarim, nella regione dello Xinjiang, sulla via della seta. I corpi si sono conservati grazie al clima secco e ai sali contenuti nella sabbia. Di questa antica necropoli, scoperta nel 1934 da un archeologo svedese, Folke Bergman, si erano perse le tracce. È stata rintracciata soltanto pochi anni fa da una spedizione cinese, usando il Gps. Ma la sua singolarità è un’altra: le mummie rinvenute non hanno le caratteristiche fisiche dei mongoli e dei cinesi. I corpi dei defunti sono longilinei, alti, con capelli lisci, biondi e castani, barba e nasi lunghi. Che cosa ci facevano in Asia questi europei 4 mila anni fa? Le misure e le caratteristiche delle mummie ritrovate, circa 200, sono riferibili agli Xiaohe (o proto-Tocari), un popolo occidentalecaucasico, probabilmente fra i primi indoeuropei. Gli studiosi ormai hanno pochi dubbi che gli indoeuropei abbiano vissuto in area cinese a partire da 4 mila anni fa.
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di Rossella Fabiani Gia a metà del 1800 nel terzo libro del suo famoso Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, Arthur de Gobineau, descrivendo i flussi migratori dei popoli indoeuropei in Oriente, scriveva che «verso l’anno 177 a.C. noi intravediamo numerose nazioni bianche dai capelli biondi o rossi e gli occhi azzurri, acquartierate sulle frontiere occidentali della Cina. Gli scrittori del Celeste Impero ai quali dobbiamo la conoscenza di questo fatto nominano cinque di queste nazioni... Le due più celebri sono gli Yüehchi e i Wu-suen. Questi due popoli abitavano a nord dello Hwangho, al confine col deserto del Gobi... cosicché il Celeste Impero possedeva, all’interno delle province del sud, nazioni arianeindù immigrate all’inizio della sua storia». Il de Gobineau traeva le sue informazioni dagli studi di Ritter (Erdkunde, Asien) e von Humbolt (Asie centrale), che si basavano sugli annali cinesi della dinastia Han, iniziata nel 206 a.C. Di fatto oggi sappiamo che già nel IV secolo a.C. le documentazioni storiche del Celeste Impero parlavano di
popoli biondi, dallo spirito guerriero, presenti nelle zone di confine, in quello che oggi si chiama Turkestan cinese o Xinjiang (Cina occidentale). Ma quell’area geografica, una volta attraversata dalla leggendaria via della seta, e ormai da tempo diventata in gran parte deserto, risultava quasi inaccessibile agli europei per cui erano improponibili eventuali studi archeologici seri e approfonditi. È soltanto agli inizi del secolo scorso che vi si avventurarono i primi studiosi, in particolare nella depressione di Tarim e in varie aree circostanti. Lì trovarono molti materiali, ben conservati data l’estrema aridità del clima desertico. Si trattava di testi spesso bilingui, scritti in una lingua allora sconosciuta, che però aveva adottato un alfabeto del Nord dell’India, con accanto la versione sanscrita. Il che permise agevolmente di capirla e studiarla.Tale idioma, poi chiamato, forse impropriamente, Tocario, era presente in due forme leggermente differenti, che rivelano diverse caratteristiche grammaticali che le collegano al gruppo indoeuropeo. I primi test sulle mummie di Tarim effettuati anni fa dal genetista Paolo Francalacci dell’Università di Sassari, confermano l’ipotesi della diffusione degli indoeuropei fino in Cina. Avere antenati bianchi piace agli Uiguri che spesso hanno caratteri occidentali, misti a quell asiatici; ma le autorità cinesi, che puntano sull’orgoglio nazionale, non ne gioiscono.
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il paginone
UN “EBREO ERRANTE”, PARTITO DAI CONFINI ESTREMI DELL’IMPERO AUSTRO-UNGARICO, E UNA MISSIONE: CONCEPIRE I FENOMENI DEL XX SECOLO E INTERPRETARLI COME “SE NON ESISTESSE ANCORA NESSUN CONCETTO CAPACE DI SPIEGARLI”. CON QUESTA IDEA ELIAS CANETTI INTRAPRESE IL VIAGGIO DI “MASSA E POTERE”, UN’ENCICLOPEDIA GLOBALE DELLA VITA USCITA CINQUANT’ANNI FA… di Maurizio Ciampa
Il Novecento sce nel 1960 Massa e potere. Cinquant’anni fa. Un’altra epoca. Inevitabile chiedersi se il grande fascino di questo libro ha resistito al tempo e se il suo mitico autore, Elias Canetti, è tuttora «l’implacabile diagnostico del suo e del nostro tempo», come ebbe a tratteggiarlo Claudio Magris attorno alla metà degli anni Settanta. L’enciclopedia globale della vita, cui l’opera di Canetti mette capo, è andata evaporando nelle effervescenze del tempo o continua a conservare un valore conoscitivo forte? Massa e potere segue le lunghe linee dell’umano perlustrando il suo fondo e gli elementi che innervandolo lo costituiscono. Lo fa con passo fermo, tenacia, ostinazione quasi ossessiva. Ripercorre quelle linee ricomponendole, e talvolta ci si smarrisce dentro per ritrovare subito dopo il senso del proprio itinerario come può succedere a chi procede lungo il tracciato precario di un labirinto. Canetti cerca la sua strada, saggia il terreno smosso
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pensare a «una sonda che cambia continuamente l’oggetto e la prospettiva, ma rimane sempre eguale per quanto riguarda l’intensità e il grado del proprio essere partecipe» (Peter Laemmle). La sua lingua è sì compatta, costruita secondo un ordine che potrebbe apparire geometrico, ma può scattare all’improvviso, e, seguendo i movimenti della vita, impennarsi. Anche perché Canetti crea dal nulla la propria sintassi concettuale, costruisce da solo le sue armi. È consapevole di essersi inoltrato in una regione in cui le parole conosciute non sono sufficienti, stentano a rappresentare e a identificare i fenomeni.
C o m e u s a l e m a p p e in suo possesso l’esploratore che si dispone a viaggiare in terre ancora sconosciute? Canetti è questo esploratore, ha lo stesso stupore controllato, guarda con attenzione al territorio nel quale si sposta avvertendo il peso schiacciante di una responsabilità non comune: quella di dar nome a ciò che vede per la prima volta. «Quando mi accinsi a stendere Masse e potere - dichiara pochi anni dopo la pubblicazione del libro -, ero mosso dalla precisa intenzione di escludere tutto ciò che è risultato scontato, ciò che è già stato usato concettualmente. Il mio compito era perciò quello
Una stesura lunga quasi quarant’anni che prende le mosse dall’assassinio di Walter Rathenau, nella Germania di Weimar. Tensioni, piazze in protesta e, poco dopo, l’impeto distruttivo. Un’opera in cui si sentono le grida del “secolo breve” dell’esperienza umana, e in essa cerca di aprire un varco. Massa e potere è appunto un labirinto in cui confluiscono, come le correnti di un vasto fiume, miti, osservazioni antropologiche, annotazioni psicologiche, reperti storici e altro ancora, una congerie di elementi che risultano di difficile classificazione. Ma è il libro nel suo insieme a risultare di difficile classificazione. E forse lo è ogni opera dell’intelligenza destinata a rompere inerzie mentali e consuetudini del pensiero oltre che le ossificazioni ideologiche in cui talvolta il pensiero degenera. C’è un certo tasso d’imprevedibile eccentricità in ogni libera intelligenza. Quella di Canetti si esprime in modo del tutto singolare, intrecciando disciplina e libertà. Il suo interno dinamismo fa anno III - numero 19 - pagina VIII
di concepire in modo concreto e nuovo i particolari fenomeni d cui il nostro secolo è pieno e di intenderli come se non esistesse ancora alcun concetto capace di spiegarli». Un compito dunque, quasi una missione. Anni dopo egli parlerà di coscienza delle parole. In un discorso tenuto a Monaco nel 1976, lo scrittore ormai settantenne, assegnerà alla letteratura un mandato straordinario: indagare sul nulla in cui le «umane creature» sono precipitate, vivere nella disperazione per farne uscire gli altri. Per tener fede a questo mandato, Canetti si muove ai margini del conosciuto, e, in più di un punto, ne attraversa la linea. Ma la sua prosa resta limpida, costantemente avvolta in un’atmosfera tersa. Mai
indulge ai fervori dell’impressionismo, né al suo «tormentato disordine». Il suo argomentare ha un taglio che potrà apparire perentorio, univoco. Si può dire di Canetti quello che lo stesso Canetti osservava nel suo maestro, lo scrittore viennese Karl Kraus, e cioè che la sua lingua pare risuonare allo stesso modo di una sentenza. Come Kraus, Canetti «sembra venire da quel tempo in cui le parole potevano uccidere, ma anche svegliare i morti». Sono spinte dall’urgenza le sue parole, ma non lo danno a vedere, e non rinunciano ai tratti di una composta eleganza. Correndo mirano al loro scopo, senza però dare l’impressione di farlo. Al contrario, esibiscono un certo distacco. La forma del libro è il trattato, ma solo in apparenza. In Massa e potere non c’è nulla di scientifico o comunque di oggettivo. «Voglio sentire tutto dentro di me prima di pensarlo», scrive Canetti mentre va costruendo la grandiosa architettura del suo libro, un tappeto di narrazioni dalla trama sottile e dai molteplici colori. Sentire prima di pensare, come se il pensiero si dovesse incaricare di sciogliere o stemperare i densi grumi via via accumulati dall’esperienza, i suoi nodi, le sue ferite. Come se l’ardore del sentire fosse la prima autentica apertura al mondo e il pensiero una sua appendice. Canetti «propone il modello di una mente che reagisce sempre, che registra gli choc e cerca di metterli nel sacco», osserva la scrittrice americana Susan Sontag. E lo choc compare fin dall’esordio del libro, un indimenticabile esordio, quasi uno squarcio, una rapidissima irruzione in un paesaggio di emozioni che tornerà più volte nell’opera dello scrittore: «Nulla l’uomo teme più che essere toccato dall’ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque, l’uomo evita d’essere toccato da ciò che gli è estraneo». E già sul finire di quel primo paragrafo che apre il libro, compare uno dei due protagonisti della narrazione di Canetti, entra
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in scena la massa. «Quanto più gli uomini si serrano disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l’uno dell’altro. Questo capovolgimento del timore d’essere toccati è peculiare della massa». Può risultare assai problematico dipanare il complesso d’immagini che si annodano nel concetto di massa. Poliedrica la sua ramificazione, di cui comunque si conosce la genesi lontana, quarant’anni prima che il libro di Elias Canetti venisse alla luce. Anche qui uno choc, un’emozione forte, anzi due emozioni che si sovrappongono pur essendo relativamente distanti nel tempo: Francoforte 1922, la Germania di Weimar scossa dall’assassinio di Walter Rathenau, e Vienna cinque anni dopo. Masse in convulso movimento, piazze in protesta che accumulano tensione che, di lì a poco, diventa impeto distruttivo. Il
sta espressione, e mi chiedo se il suo autore ne fosse consapevole. Essa appartiene a quella psicologia dell’afferrare così finemente indagata là dove Canetti comincia a sviluppare la sua analisi del potere. L’afferrare, il prendere alla gola è un’originaria manifestazione del potere, un suo «organo» - dice Canetti. Evidentemente esso estende il suo dominio anche all’operare intellettuale, e arriva fin qui, intacca la lingua cristallina di un suo eminente critico. Perché ne dovrebbe essere immune? Ma è poi vero che Canetti sia «riuscito a prendere alla gola questo secolo»? Credo si possa dire che ne ha sentito il respiro, e l’affanno, talvolta le grida. Ha letto e interpretato, come pochi hanno saputo fare, le sue «pulsioni immediate». A questo proposito è bella l’annotazione che fa Claudio Magris: «Egli afferra d’improvviso la veste della sto-
o preso alla gola
Da sinistra in senso orario: un’immagine della propaganda nazista fatta circolare all’estero; la copertina dell’edizione italiana di “Massa e potere”; Elias Canetti; Vienna in fiamme nel 1927; Walter Rathenau
Don DeLillo, probabilmente il più efficace narratore della post-modernità. E la massa è quella dell’11 settembre a New York, la fuga dai grattacieli in procinto di crollare. Ancora: «L’elemento più evidente della fuga di massa è la forza della sua direzione. La massa è divenuta per così dire tutta direzione, via dal pericolo. Poiché conta sola la meta presso la quale ci si salva, il percorso che vi porta e null’altro, le distanze che prima separavano gli uomini sono or-
Accostando alcune pagine di “Massa e potere” a quelle in cui Don DeLillo descrive la fuga di massa dalle Torri gemelle in procinto di crollare, si può capire perché il libro di Canetti resta uno specchio fedele del nostro tempo giovane Canetti ci si muove dentro fino a trasformarsi in una loro parte, tanto forte è l’attrazione. Qui comincia la strada di Massa e potere. Una lunga strada: per percorrerla ci vorranno poco meno di quarant’anni. Negli ultimi due decenni, il libro occuperà il suo autore tanto da sequestrarlo, lo allontanerà dal mondo, ma non dal nucleo pulsante del suo tempo, trasformando per sempre il profilo del suo pensiero.
C a n e t t i i n v e c c h i e r à c o n q u e l l i b r o , se lo porterà appresso, come un indistruttibile cristallo mentale, fra Vienna, Berlino, Parigi, Zurigo, infine Londra, l’Europa intera attraversata da transfuga, ebreo errante partito dai confini estremi dell’Impero austro-ungarico, Rustschuk, nella parte bulgara del basso Danubio, dove «in un solo giorno si
potevano sentire sette o otto lingue». Lì Canetti è nato nei primi anni del secolo - il 1905 - da una famiglia di ebrei sefarditi. È nota l’espressione con cui definisce il grande sforzo compiuto nel libro: «Sono riuscito a prendere alla gola questo secolo». «Prendere alla gola»: c’è una qualche residua traccia di violenza in que-
ria e la rovescia, mostrandone le cuciture nascoste e i tessuti strappati, gli squarci rattoppati malamente e le lacerazioni insanabili, le pieghe dolci e tranquille. La storia e il volto dell’umanità moderna gli si rivelano nella fuggitiva scansione del gesto, nel dettaglio della realtà fisica». Qui torno a incrociare la domanda formulata all’inizio, e cioè se Massa e potere, uscito cinquant’anni fa, ma elaborato in un ben più lungo arco di anni, resta ancora uno specchio fedele del nostro tempo. D’altra parte, guardiamo al lungo tortuoso filo che si snoda fra il 1960 e questo 2010: il Mondo sembra si sia rovesciato su se stesso cambiando forma più volte, inafferrabile come un’anguilla. Le idee che lo hanno più efficacemente rappresentato o gli ideali che lo hanno animato sembrano crollati come i muri che a lungo lo hanno diviso. Dunque si sono spenti i rumori che hanno accompagnato il movimento e l’azione della massa lungo tutto il corso del Novecento? Si sono modificate fino a risultare irriconoscibili le figure del potere? Si è dissolta come neve al sole la geometria mentale dell’analisi di Canetti? Non saprei dire, per capirlo posso accostare reperti e storie assai diversi fra loro. Qualche volta per capire bisogna azzardare, ma, per azzardare, qualche volta, basta accostare elementi diversi. Proviamo: «Cominciarono a scendere, a migliaia, e lui era in mezzo a loro. Camminò come immerso in un lungo sonno, prima un passo e poi quello successivo… A tratti dovevano aspettare, lunghi momenti di stallo, e lui continuava a guardare dritto davanti a sé. Quando la fila riprendeva a muoversi faceva prima un passo e poi l’altro… Uscirono in strada, si voltarono indietro, videro entrambi le torri in fiamme… e ripresero a correre». Questo non è Massa e potere di Elias Canetti, ma L’uomo che cade di
mai irrilevanti. Le più strane e contrastanti creature che non si erano mai avvicinate le une alle altre, ora d’improvviso possono ritrovarsi insieme».
Q u e s t o n o n è L’uomo che cade di Don DeLillo, ma Massa e potere di Elias Canetti. I due testi non sarebbero di per sé accostabili, qualche anno-luce li divide. Eppure c’è, e la si sente inconfondibilmente, una sotterranea, ma reale rispondenza fra le due masse in fuga, come se le creature braccate dal pericolo ripercorressero, in una sorta di girone infernale, gli stessi gesti, come se loro residua umanità, messa alla prova dalla minaccia che incombe, si condensasse tutta in qualche essenziale punto di convergenza. Lì, in quegli snodi dove l’umanità si applica alla propria sopravvivenza o al proprio senso, lì possiamo ritrovare la voce e le molti voci che confluiscono nel libro di Elias Canetti. Cinquanta anni non sono bastati per smorzare il loro forte timbro. Certo non tutto ci potrà servire per capire l’oggi come d’altra parte accade per qualsiasi altro libro. Sopravvive, resiste alla rovina del tempo, solo il libro capace di contenere la maggiore quantità di vita, come Canetti dice di Stendhal. Posso aggiungere che la nostra gratitudine verso questi libri «è gratitudine per la vita stessa».
Narrativa
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he cosa colpisce di più del nuovo romanzo di Marta Morazzoni, uscito per Longanesi, La nota segreta? Un romanzo a base storica con un lavoro sostanzioso di invenzione narrativa che, scritto in terza persona, sfoggia un io-narrante che travalica persino le più conosciute funzioni di onniscienza. Il narratore, l’io-narrante, come gli ampi studi di narratologia hanno cercato di dimostrare, è un punto centrale della finzione narrativa, determina timbro, voce e stile di una storia, ma soprattutto svela il rapporto tra voce narrante e protagonisti. Un rapporto indagato come prioritario anche in un recente saggio di divulgazione letteraria dell’americano James Wood dal titolo Come funzionano i romanzi (Mondadori). Come funziona dunque questa voce narrante della Morazzoni? Tutto il romanzo è come puntellato dal narratore che interviene opportunamente per raccontare, raccordare la storia ma anche per sottolineare gli stati d’animo e infine per dare un giudizio sui comportamenti dei personaggi. Ora niente di male nel ripristinare un codice classico e codificato dalla tradizione letteraria, certo che a volte la voce si fa insinuate e sbatte contro di quelli che in parte sono i fatti storici narrati. La nota segreta è la vicenda, ripetiamo di base storica, di una giovinetta della nobiltà milanese che nel 1736 viene rinchiusa nel convento benedettino di Santa Radegonda a Milano (per la cronaca un monastero che oggi non esiste più, rimpiazzato dai grandi magazzini della Rinascente). Pietra Paola viene accolta dalle suore, e dagli spazi conventuali, come di rito, con freddezza e quel tanto di pietà che si deve alle vittime. Ma viene invece immediatamente cooptata nel coro dalla responsabile del canto, Suor Rosalba Guenzani, che riconosce immediatamente nella giovane una fine voce di contralto, che sgorga mirabile sulle note dello Stabat Mater di Pergolesi. Sarà la stessa suor Rosalba a determinare le sorti della novizia, affrontando e cancellando d’un colpo le regole conventuali. Ora questo romanzo, che per stessa ammissione dell’autrice deve la fonte storica a un altro testo narrativo e cioè a Cent’anni di Giuseppe Rovani, è un romanzo d’avventura che sfrutta la storia d’amore. Si tratta in-
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libri
Marta Morazzoni LA NOTA SEGRETA Longanesi, 278 pagine, 16,60 euro
Galeotto fu
fatti di articolare quella che è la vera sorpresa in un’epoca storica come quella di metà Settecento dove una monaca, rinchiusa a dovere in clausura (che significa di fatto l’abbandono da parte della famiglia), trovi il coraggio di fuggire con un uomo straniero (e sposato) e di accettare la maternità fuori dal matrimonio. Amore sì ma prima di tutto spirito d’avventura, spinta forte e imponderabile verso la conoscenza del mondo, visto da una ragazza che di mondo ne ha visto così poco da far fatica a distinguere gli abiti, i costumi e il modo di viaggiare delle persone normali (le pagine più belle sono quelle del viaggio per mare di Paola). E così accade, e a questo punto non sarà stato un caso che la voce narrante si sia affievolita, che le peripezie dei due innamorati (ma in particolare di suor Paola) si accavallino fino al parossismo fino a prevedere un periglioso viaggio in mare con assalto di pirati, un oscuro e tentacolare approdo a Marsiglia, l’inseguimento da parte delle spie del Doge in combutta con gli sgherri papali, l’arrivo in Inghilterra e la richiesta di divorzio da parte del diplomatico inglese Durant Breval, l’uomo che, colpito dalla voce di Paola Pietra, sfida il carcere e i buoni costumi sociali per sposarla. La storia, com’è giusto che sia a onore di un tortuoso plot e della tradizione narrativa, prevede un lieto fine, ma è ricca di colpi di scena e mutazioni in corso. Sul fondo, a scenario, campeggia la storia italiana dibattuta tra poteri frammentati, una piccola storia in rapporto a quella ben più grande d’ardimento dei personaggi, in questo caso uomini e donne, che combattono per una vita indipendente, verrebbe da dire, persino in barba al loro stesso narratore.
lo Stabat Mater
Riletture
Milano 1736, monastero di clausura di Santa Radegonda, le note di Pergolesi... È lì che prende le mosse il nuovo romanzo della Morazzoni di Maria Pia Ammirati
Felicità: se Epicuro è più umano di Spinoza
aruch Spinoza non è più da tanto tempo trattato come un «cane morto» secondo la battuta di Schelling. La sua filosofia - lo spinozismo - conosce nei nostri tempi una divulgazione e un apprezzamento che lasciano pensare a una conoscenza del pensiero dell’autore dell’Etica. Sarà così? È lecito avere qualche dubbio. I filosofi spesso, soprattutto quando sono grandi filosofi, sono più citati che conosciuti. È probabile che sia così anche con il fenomeno odierno di Spinoza. Del quale, però, oggi abbiamo la possibilità di avere in un solo volume - e che volume: circa 3000 pagine di testo tutta la sua opera: dall’Etica e il celebre Trattato teologico-politico fino ai Pensieri metafisici e all’Epistolario passando per il Trattato sull’emendazione dell’intelletto e i Principi della filosofia di Cartesio e finanche il Compendio di grammatica ebraica offerto per la prima volta in traduzione italiana in questo completissimo libro della Bompiani: Tutte le opere di Spinoza nella collana «Il Pensiero Occidentale» che offre anche i testi originali delle opere. Dunque, qui si può effettivamente rileggere Spinoza. Ma perché? Dovendo indicare il
B
di Giancristiano Desiderio cuore della sua filosofia dove lo si sentirebbe battere? Lo si può dire con una sola parola: letizia. La parola più semplice sarebbe quella classica: felicità. Ma con «letizia» non siamo lontani dalla verità e lo stesso filosofo usa questa parola per esprimere il senso verso cui può tendere l’esistenza umana: il potenziamento della gioia di vivere che non reprime ma esprime i desideri. La massima espressione della vita umana per Spinoza è l’amor Dei intellectualis in cui la conoscenza della razionalità del Tutto ci offre una via di salvezza dai pregiudizi, dalle illusioni, dall’errore e dal potere degli altri, e dalla paura e dalla speranza. Sarà mai possibile realizzare qualcosa di simile? Ciò che conta, direbbe Spinoza, è la tensione verso la verità. Una posizione «classica» che in lui trova però una maggiore realizzazione attraverso il razionalismo geometrico di ascendenza cartesiana. Sembra tutto molto astratto e severo, eppure il fine del pensiero di Spinoza è soprattutto la liberazione delle passioni umane. In cima ai suoi pensieri ci sono la letizia (Etica) e la libertà
In tremila pagine l’opera omnia del filosofo olandese (e altri testi correlati)
(Trattato teologicopolitico). Se il gran libro di Spinoza conta tremila pagine, la classica Lettera a Meneceo o Lettera sulla felicità di Epicuro ne conta appena trenta e la rilettura in questo caso è agevolata.Vi suggerisco l’edizione della casa editrice La vita felice con una bella introduzione di Maurizio Schoepflin. Anche in Epicuro la felicità è in cima ai pensieri del filosofo e seguendo i suoi consigli sembra che la «cosa» sia più a portata di mano. Il filosofo del Giardino distingue i piaceri felici in tre categorie: i naturali e necessari; i naturali ma non del tutto necessari; i non naturali e non necessari. Seguendo la sua lettera si raggiungerà la felicità? Seneca nella Vita felice - edito ancora da La vita felice - dice: «non sum sapiens nec ero», non sono un saggio, né lo sarò. Ma perché non provare almeno a essere felici?
MobyDICK
poesia
15 maggio 2010 • pagina 19
Montale, la nostra utopia di Filippo La Porta
Q
uando sui banchi del liceo studiavo la lirica novecentesca diffidavo un po’ della eloquenza declamatoria di Ungaretti, ero indifferente alla mitologia algida di Quasimodo (allora elemento stabile della Triade Poetica), non capivo interamente la scandalosa (apparente) semplicità di Saba. Sentivo invece che Montale, benché spesso per me impervio, era straordinariamente vicino alla mia (nostra?) sensibilità. Per quale ragione? Direi soprattutto per la sua antiretorica, per quella continua eliminazione del falso e del superfluo nei suoi versi, per la sua ontologia negativa («Codesto solo oggi possiamo dirti:/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», da Non chiederci la parola in Ossi di seppia, 1925), per il suo laicissimo, disincantato rifiuto di consolazioni, e infine per un suo umanesimo tragico e paradossale, ben consapevole della non-unità dell’individuo ma non del tutto disperante (su questo tornerò dopo). Come una volta ha scritto Geno Pampaloni lì si può trovare un punto di vista laico che non coincide con l’angustia dello storicismo crociano e che anzi custodisce il senso del mistero e si apre alla «nozione di un valore che supera il tempo». Montale, a dispetto della sua asprezza, dei suoi versi così scabri e «petrosi», mi parlava nell’intimità, ed era involontariamente un tramite di quella koinè filosofica esistenzialista che dovette diventare il nostro primo dizionario interiore, pur accanto ai doveri incombenti dell’impegno politico-civile. Inoltre proprio negli Ossi di seppia contrapponeva al sublime dei «poeti laureati» una realtà più modesta, più tangibile, dove si sente l’odore dei limoni e dove in un silenzio sospeso possiamo penetrare nella verità di una natura indifferente (I limoni).
Le ascendenze poetiche sono molteplici e costituiscono, già da sole, un settore cospicuo della bibliografia critica montaliana. In genere si parte dal simbolismo e dalla tradizione ligure, poi da D’Annunzio e Pascoli, mediato da Gozzano e crepuscolari (più in là ancora da Leopardi, e infine da Petrarca e Dante), e costeggiando il filone ermetico, ma probabilmente la prossimità maggiore è con la poesia di area anglosassone, e in specie con Browning, con Eliot e la sua teoria del correlativo oggettivo (oggetti assunti come equivalenti ed emblemi di una disposizione soggettiva). E qui già si incrina il mito di un Montale tutto ermetico. Perché se la sua impenetrabilità è diventata proverbiale (si pensi soprattutto alle Occasioni, del 1939), lui stesso osservò una volta che proprio con i poeti inglesi come Eliot e Auden, capaci di dare spazio alla cronaca e all’humour, tramonta il sogno della poesia pura coltivato dai Mallarmé e Valery e da noi
il club di calliope
innestato sul tronco petrarchesco. Nella sua opera poetica mi ha sempre colpito infatti il mix di solipsismo e vocazione colloquiale, di linguaggio cifrato e attitudine discorsiva, di autoisolamento e attenzione al mondo esterno, di codice privatissimo e dialogo con il proprio tempo (benché a una storia salvifica non credeva, ancora prima del suo esplicito procedere verso la prosa con il sorprendente Satura, nel quale semplifica se stesso fino a divenire autotrasparente - 1971). E, anche sul piano metrico, oscillerà sempre tra estrema libertà sperimentale (verso libero, spesso prosastico-narrativo, lingua analogica, ritmi franti) e classicismo, fedeltà alla tradizione (uso massiccio della rima, endecasillabi, più o meno regolari, e settenari, e poi martelliano o doppio settenario).
Di tutte le sue opere credo che la Bufera (1956, ma raccoglie anche le poesie di Finisterre, scritte tra il ‘40 e il ‘42), segni il momento espressivo più alto. Sullo sfondo dell’orrore irredimibile della guerra, di una follia e bufera fragorosa, grandinante, che tutto travolge, i lampi illuminano le cose «in quella eternità d’istante» che pure contiene una religiosità immanente (così come prima le «occasioni» rappresentavano stati di grazia, epifanie di una possibile, non garantita salvezza). Quando lessi questi versi si viveva in tempi perlopiù pacifici, appena minacciati da lontani bagliori nucleari, eppure condividevo quel senso di apprensione e insieme quell’apertura a un senso ulteriore. E poi mi piaceva il rigore morale di Montale (ricordo che le sue affilate prose critico-saggistiche Auto da fè, del 1966, sono il nostro Minima moralia!), il suo rifiutare la ingannevole felicità del quotidiano: «Per un formicolio d’albe, per pochi/ fili su cui s’impigli/ il fiocco della vita…» (Per una lettera non scritta). Ma in particolare ho sempre amato molto la poesia scelta per questa pagina, Serenata indiana. In questi purissimi endecasillabi, nella malia di una serenata dalla musica esotica e modernissima («Ma non è/non è così»), irrompe senza troppi convenevoli l’Altro, qualcosa cioè di informe che minaccia dall’interno l’identità sigillata del borghesissimo Montale. Attraverso il suo alter ego femminile (ma in tutto il canzoniere montaliano una donnaangelo, variamente declinata - spesso chiamata Clizia -, ha un misterioso potere di rivelazione) ci fa sapere che tutti noi siamo «lui», che tutti apparteniamo a quel «polipo» tentacolare e inafferrabile (una alterità da intendersi in senso metafisico - forse buddhista - ancora prima che sociale e psicologico). No, non possediamo neanche la nostra vita, anche se fingiamo il contrario. Qui torno all’umanesimo cui accennavo all’inizio. L’intermittenza degli oggetti rinvia sempre a una intermit-
SERENATA INDIANA È pur nostro il disfarsi delle sere. E per noi è la stria che dal mare sale al parco e ferisce gli aloè. Puoi condurmi per mano, se tu fingi di crederti con me, se ho la follia di seguirti lontano e ciò che stringi, ciò che dici, m’appare in tuo potere. Fosse tua vita quella che mi tiene sulle soglie – e potrei prestarti un volto, vaneggiarti figura. Ma non è, non è così. Il polipo che insinua tentacoli d’inchiostro tra gli scogli può servirsi di te. Tu gli appartieni e non lo sai. Sei lui, ti credi te Eugenio Montale (Dalla Bufera)
tenza dell’io individuale, a una storia che balena per occasioni, di qui il «paradosso umanistico» del poeta, che si ostina a scommettere su una storia individuale continuamente frammentaria ma dotata di continuità (vedi Pier Vincenzo Mengaldo, nella Tradizione del Novecento). Nella Bufera incontriamo una prosa, Visita a Fadin, in cui Montale va a trovare l’amico morente, «sempre vissuto in modo umano, cioè semplice e silenzioso», e ne sottolinea la «decenza quotidiana», la più difficile delle virtù. Ricordo che negli anni Settanta anche chi ammirava la sapienza metrica di Montale, il suo canto così limpido (aveva studiato da baritono), la sua «eccezionale sensibilità fonica e visiva» (Fortini), aggiungeva che però gli mancava una vera consapevolezza del conflitto politico-sociale, una visione storica più matura. Ovviamente Montale resta uno scrittore borghese, molto conservatore, spesso sulla difensiva, spaventato dalla bufera della storia (e dell’esperienza stessa), certamente lucido e onesto. Ma infine: ora che il secolo breve si è chiuso già da un po’, con il suo crepuscolo degli idoli e delle utopie politiche, potremmo anche chiederci se quella «decenza» o umana dignità, se quella vita semplice e silenziosa non costituiscano la nostra utopia più preziosa.
AL CROCEVIA DELLA MEMORIA COMUNE in libreria
GLI OCCHI, LE MANI Gli occhi, certo, di più di tutto quando offrono e prendono sguardo, quando del loro colore ti vestono. Di tutti i sensi il vedere ha più festa. Ma hanno le mani riconoscenza per quello che immensamente vorrebbero prendere e sempre perdono in ogni carezza. Gian Mario Villalta
di Loretto Rafanelli ella limitata produzione saggistico-poetica, il libro di Adriano Napoli (Le api dell’invisibile. Poeti italiani 1968-2008, Medusa, 200 pagine, 14,50 euro), rappresenta una piacevole notizia. Il giovane autore, con uno studio attento e circostanziato, esamina il percorso di 16 poeti italiani (si va da Bandini a Piersanti, da Mussapi a Cucchi, ecc.), tenendo in particolare considerazione quegli scrittori che si sono espressi con un registro lirico. L’impostazione teorica che è alla base del saggio è senz’altro da condividere, Napoli, infatti, aborrendo quelle scritture che si sono delineate attraverso artifizi linguistici (in particolare i Novissimi), sostiene che solo la poesia lirica può ricercare «il crocevia di una memoria comune che continua a illuminare valori per noi tutti riconoscibili e partecipabili…». La rosa dei poeti inseriti è in larga parte da sottoscrivere (non riproponiamo la solita polemica su chi c’è e chi è escluso), ma soprattutto del volume vogliamo segnalare l’approfondita analisi, la serietà della ricerca e il rispetto della storia letteraria di questi anni.
N
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di Pier Mario Fasanotti idea che sorregge il nuovo programma Fenomenal, su Italia 1 in prima serata, non è malvagia. Ma solo in teoria. E tenendo conto del basso voltaggio inventivo dei prodotti di questo decennio. Si basa sulla commistione tra la Settimana enigmistica - vedi alla voce «Strano ma vero» o «Lo sapevate che?» - e lo spettacolo simil-cabarettistico, con ospiti, battute, quiz un po’ alla buona, sfilata di ragazze procaci. Quelle ormai non devono mancare in una televisione che sbandiera come stemma il lato B, le scollature e gli accavallamenti di cosce. Chi lo conduce è tra i più volgarotti della compagnia di giro.Teo Mammuccari. Lo spilungone con la fronte bassa ha alcune caratteristiche. È sveglio, ma usa i suoi neutroni in una sola direzione: la presa in giro o di una donna grassa e vistosamente bruttina in mezzo al pubblico o di un uomo dall’aria candidamente smarrita, quindi fuori dal gioco del «ridi a tutti i costi» e del «oh quanto mi diverto» (ricordiamo Totò). Mammuccari si è già fatto conoscere per la sua grevità romanesca: è uno di quelli che fanno dire a un milanese o a un siciliano «ah, Roma è una città splendida, peccato che i romani…». «Arieccolo», dunque. Magnifica il suo programma con un azzardo narcististico: «Oggi vediamo la stessa tv, questa che faccio io è assolutamente nuova». Una bella faccia tosta. Il suo essere monocorde poggia sul reiterato ammiccamento in materia sessuale. Ed ecco gli ospiti-gareggianti, tra cui il mago Forrest (spiritoso), Adriano Panatta (imbarazzato all’inizio, poi in sobrio recupero), Lele Mora - «arieccolo» anche lui, a dimostrazione che gli ex indagati sono ormai il prezzemolo dell’etere - e due soubrette tipo brunacce piacione, Giuliana e Veronica (ex Grande Fratello: oramai curriculum d’eccellenza). Il delicato Teo nota subito, sbirciandola da dietro, che una delle due scosciate «stavolta porta le mutandine». Azzurre. Di Giuliana racconta i suoi gorgheggi quando fa l’amore. Non basta: l’oxfordiano show-man riferisce
L’
Teatro
Televisione
MobyDICK
spettacoli DVD
Fenomenal
Schieriamoci contro la volgarità
che le ragazze si sono cambiate nello stesso camerino. Una delle due ammette ridendo di non essersi manco girata. È il via libera a un bacio saffico in diretta. Il maturo tennista dissimula disagio. Lele Mora si sente a casa, ammesso che abbia mai frequentato altri spazi fisici e mentali. Fenomenal prevede una gara tra chi indovina quesiti bizzarri. Accanto a ognuno c’è il disegno di un cervello che muta dimensioni a seconda delle risposte.
Esempio: perché certe pecore americane hanno reazioni strane se si apre davanti a loro un ombrello? Qualcuno s’avvicina alla spiegazione zoologica. Finito? No. Teo si chiede quale reazione potrebbero avere gli animali se Veronica «spalancasse improvvisamente la sua ombrella». Ci sono poi intervalli «scientifici». Un «tecnico» mostra un cetriolo infilzato da due elettrodi. Scatta pulsante, il cetriolo s’illumina. Commento del conduttore con sinapsi in stretta relazione con ossessioni ormonali: «Questo cetriolo sembra il “cosino” del direttore di Italia 1». Poi domanda a un ospite: «Ma anche a te s’illumina di notte?». Sfiora il sublime quando, dopo un’altra battuta di marca genitale, ammonisce se stesso: «Andiamoci piano, siamo in una fascia protetta!». Pur consapevole che il pessimo gusto non può avere una museruola normativa, mi appello a molte parlamentari, quelle capaci di indignarsi. Facciano baccano. Non basta un’interrogazione. Ci vuole la protesta. Contro i «cetrioli», le «ombrelle» e chi li fa giocare nel suo Luna-Park.
NELLE TERRE SELVAGGE DEL LAVORO NERO ai minatori che strisciano nella miniera ucraina di Donbass, ai fantasmi indonesiani di Kawah Ijen che trasportano centinaia di libbre di zolfo per chilometri. Dai macellai di Port Harcourt che ammucchiano carcasse a cielo aperto, agli smantellatori di petroliere del Belucistan. Quando Workingman’s Death fu presentato a Venezia nel 2005, ebbe l’impatto di un pugno nello stomaco, che Fandango ripropone in tutta la sua drammatica veemenza. Michael Glawogger indaga senza remore una civiltà del lavoro ancora lontana dall’essere compiuta. Davvero il lavoro e il progresso ci hanno reso tutti liberi? Prezioso.
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PERSONAGGI
ESSERE PAOLO CONTE, STORIA DI UN’ICONA iù che un nome, uno stile. Fatto di nebbie, donne e miraggi. Di swing incessante cullato in sincopi sarcastiche. A ottant’anni suonati, tutti benissimo, Paolo Conte è un’icona, che Paolo Giovanazzi esplora con perizia in Il maestro è nell’anima (Aliberti, 256 pagine,17,00 euro). Ne ha fatta di strada l’avvocato astigiano, che nel 1967 divenne celebre per La coppia più bella del mondo. Di lì vennero hit a cascata, e prima all’estero che in patria, a dire il vero, tutti capirono di aver di fronte un artista inimitabile. Pagine vivaci, quelle di questa biografia, intessute di fascino e aneddoti. Vieni via con me, recitava nel 1981 uno dei suoi maggiori successi. Da allora, Paolo Conte, ne ha portati con sé moltissimi.
P
di Francesco Lo Dico
Quattro buone ragioni per riparlare di “Copenaghen” l Teatro Eliseo una coda di stagione da non perdere: Copenaghen di Michael Frayn tradotto da Filippo Ottoni e Teresa Petruzzi nell’allestimento congiunto di Css Teatro Stabile di Innovazione del Fvg ed Emilia Romagna Teatro Fondazione. Soldi ben spesi vista la tenuta eccezionale della pièce - siamo alla quinta tournée nell’arco di un decennio. Perché occuparsi ancora di uno spettacolo che ha debuttato in Italia il 9 novembre 1999? Perché nonostante il presidente Obama promuova la denuclearizzazione nel mondo, gli armamenti atomici segreti sono ancora notizia da prima pagina. Perché in Svizzera dagli anni Sessanta per ogni nuovo edificio viene costruito obbligatoriamente l’annesso rifugio antiatomico, come da noi i posti auto. Perché il suo autore, noto al grande pubblico per Rumori fuori scena - praticamente un classico con le sue pluridecennali repliche - costruisce un testo sostanzioso come un trattato
A
di Enrica Rosso scientifico, ma avvincente come un thriller. Perché rimane a tutt’oggi un’imperdibile esperienza per gli spettatori grazie ai tre stratosferici interpreti affinati dalle repliche e quindi da rivedere, con lo stesso spirito con cui si rilegge un bel libro alla luce di nuove esperienze visto che il testo è denso e impegnativo e necessita di una partecipazione attenta da parte di chi vi assiste. In uno spazio-luogo atemporale, una specie di bunker del sapere, un emiciclo nero opaco circondato da lavagne con lavori in corso (pensato da Giacomo Andrico ed egregiamente illuminato da Giancarlo Salvatori) si ipotizza l’incontro degli spiriti del fisico ebreo danese Niels Bohr, padre della meccanica quantistica, e il suo un tempo allievo, il tedesco Werner Heisenberg, scopritore del principio dell’indeterminazione. Due menti eccelse che si devono confrontare su svariati piani immagi-
nativi in un castello prospettico perennemente in bilico. Alla presenza vigile di Margrethe Bohr, moglie del primo, i due premi Nobel daranno vita a un’appassionante schermaglia. Dal colloquio, realmente avvenuto a Copenaghen nel settembre del 1941, mentre la seconda guerra mondiale impazzava, non trapelò mai nulla delle vere motivazioni che spinsero Heisenberg all’incontro. Mauro Avogadro calibra sapientemente l’eccellenza degli interpreti e impone un rigore formale che fa risplendere un testo di per sé abbacinante per argomento trattato, ritmi, intensità, salti epocali e improvvise virate di pensiero. Umberto Orsini, che ha a suo tempo importato il testo (immediatamente dopo il debutto mondiale al Royal National Theatre di Londra) cogliendone l’assoluta importanza, è Bohr: lungimirante, asciutto, elegante, compreso e
fiero, un uomo votato alla conoscenza: «… prima che possiamo affermare qualcosa, la nostra vita è finita… sepolti da tutta la polvere che abbiamo sollevato». Giuliana Lojodice è sua moglie Margrethe, intrisa di orgoglio ebraico, una regina intransigente di grande autorevolezza: «... ci sono domande che sopravvivono a chi è morto, che si aggirano come fantasmi, che cercano le risposte che non hanno avuto in vita…». Massimo Populizio, Heisenberg travolgente nelle sue disquisizioni, insaziabile e fremente, lascia aperti fino all’ultimo gli interrogativi che gli stanno a cuore: «… un fisico ha il diritto morale di lavorare allo sfruttamento pratico dell’energia nucleare?». In platea ogni sera una poltrona a disposizione del ministro Bondi, per riflettere sui tagli alla cultura.
Copenaghen, Roma, Teatro Eliseo, fino al 23 maggio, Info 06/4882114 www.teatroeliseo.it
Cinema
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contro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, è l’opera prima di Isotta Toso, tratta dal romanzo di Lakhous Amara, un algerino-romano. È un giallo brillante sulla difficile convivenza tra etnie diverse in un palazzo della zona più multietnica della capitale. È noto che il corretto uso dell’ascensore è tradizionale fonte di discussioni tra condomini. Un giorno, un uomo è trovato cadavere nel pomo di tanta discordia, e con l’arrivo di un commissario, si avvia la caccia all’assassino. È una trama geniale che si snoda tra la portiera napoletana e i diversi personaggi italiani e stranieri che convivono nel quartiere Esquilino: si scontrano per ragioni futili e si accusano a vicenda del delitto, svelando caratteri, pregiudizi, tic e bizzarrie. C’è un ottimo cast, con molti attori di livello: Francesco Pannofino, Serra Yilmaz, Kasia Smutniak, Milena Vukotich, sono solo alcuni degli attori di un film corale in cui ognuno ha lo spazio per farsi conoscere. I produttori sono quelli del meraviglioso Notturno bus, e la poliedrica Maura Vespini (produttrice, sceneggiatrice, adattatrice, direttrice di doppiaggio) ha collaborato allo script dei due film. La Emme produzioni ha avuto l’accortezza di adattare due eccellenti gialli, tra i pochi libri italiani a meritarsi l’attenzione e le lodi dello stimato settimanale New Yorker. La regista non ha esitato di scegliere una storia complicata per il suo debutto, con tanti attori da gestire. La trentenne Toso, invece di girare il solito film ombelicale «d’autore», si è cimentata con un ambizioso affresco dell’Italia d’oggi, alle prese con l’immigrazione e una difficile integrazione tra culture millenarie, complessa, accidentata, tragicomica.Valori produttivi alti, con una sola riserva: è assente la personalità della regista, forse troppo impegnata a non sbagliare la prima prova per dare un’impronta più personale. Da vedere.
15 maggio 2010 • pagina 21
S
Piacere, sono un po’ incinta segna il ritorno alla commedia romantica di Jennifer Lopez, ex fidanzata di Ben Affleck. La carriera (e il sodalizio) dei due è stata messa k.o. dal flop di Gigli, ma mentre lui ha ripreso quota con il succés d’estime per la prova d’attore in Hollywoodland, e per la regia del thriller Gone, Baby, Gone, lei stenta a ri-decollare, con passi falsi madornali come Quel mostro di suocera con una ultra volgare Jane Fonda, o melodrammi insipidi come Il vento del perdono con Robert Redford. Il nuovo film è puro chick-flick: una storia che riverbera quasi esclusivamente con le donne, in questo caso specie se hanno fatto l’esperienza del parto. Lopez è Zoe, una quarantenne senza principe azzurro e l’orologio biologico in pieno allarme «figli, ora o mai più». Tonica e tirata a lucido come una Barbie latina, Zoe ha abbandonato la carriera da manager per comprare un
Sguardo d’autore
su Serge
Gainsbourg di Anselma Dell’Olio
negozio di animali domestici; ha un bull- mai visto in un film dark: aiuta a soppordog francese con un traino attaccato alle tare la crescente tensione per la risoluziozampe posteriori paralizzate, e non riesce ne del mistero. a trovare uno straccio di maschio disposto a donarle il seme, perciò sceglie la gravi- Gainsbourg, Je t’aime… Moi non Plus, danza assistita. Più politicamente corretti è un originale film biografico sull’affascidi così è difficile, ma il film non demorde. nante cantautore francese Serge. Il regista Dopo l’inseminazione in clinica, Zoe litiga Joann Sfar, un disegnatore di fumetti al per un tassì con Stan, un giovanotto pale- debutto nella regia, adatta per lo schermo strato come lei (Alex O’Loughlin). S’in- la sua graphic novel, una carrellata cronocontrano e s’insultano continuamente: in logica e selettiva intorno alla vita dell’emetropolitana, per strada e in un mercato breo-russo Serge, con un’impronta immaall’aperto dove il giovanotto vende for- ginifica e incisiva. Eric Elmosnino brilla con il foglio di via, Lou inizia un torrido maggi di capra biologicamente corretti, nel ruolo dell’affascinante protagonista, rapporto sadomasoschista con la ragazza prodotti da lui medesimo nella sua fatto- in un tour de force di rara bravura che lo di vita. Sarebbe stato più giusto invertire i ria. L’aspirante mamma resta incinta al impone come star. Un po’ lento nella pri- ruoli di Amy e Joyce: Hudson ha un’aria primo colpo, e lo spasimante deve fare i ma parte, dopo il film prende ritmo e non più navigata, usurata; la Alba è troppo raconti con una fidanzata incinta di gemelli molla più. Tra gli amori della movimenta- diosa, levigata e fresca per la parte. Forse il regista voleva un (oh, yes) di padre ignoto. Il resto è da copione viso d’angelo incor“Scontro in Italia esce l’apprezzabile Mentre rom-com: si prendono, rotto per intensificadi civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio” si lasciano, si perdonare lo choc dell’orripino, con tutte le goffaggilante pestaggio, il e un più fiacco “chick-flick” con Jennifer Lopez, ni e gli incidenti di perprimo di due in cui tre film stranieri si segnalano all’attenzione corso di una gravidanza Lou riduce letteraldei distributori di casa nostra. Tra questi la “graphic mente a polpette i doppia con pancione mongolfiera. C’è pure novel” di Joann Sfar dedicata al cantautore francese connotati delle sue un parto in acqua con ossessioni libidiche. urla raccapriccianti: il Killer arriva da Sunpubblico femminile ride fino a sentirsi ta vita sentimentale di Gainsbourg, sono dance e Berlino con la fama di film sconmale; i maschi si sentono male e basta. notevoli la Brigitte Bardot di una voluttuo- cio ultra violento e misogino; solleva in sa Laetitia Casta, con parecchie ciccia in molti/e una rancorosa ostilità per il ben Nel bilancio post Tribeca Film Festival, più dell’originale, e la Jane Birkin della congegnato e diretto, a tratti inguardabile ci sono altri film che meritano l’attenzione sfortunata Lucy Gordon, che si è suicidata splatter inflitto ai personaggi femminili. di distributori italiani. La commediografa alla fine delle riprese. Lunga vita a Sfar, La lenta percezione che il laconico Lou è irlandese Carmel Winters debutta nella per uno sguardo d’autore unico e splen- un serial killer di mostruosa brutalità, auregia con Snap, un insolito dramma psico- dente; riempie un vuoto di cui non si so- menta invece di diminuire la forte tensiologico su tre generazioni di una famiglia spettava l’esistenza. ne del film. In quanto alla scorrettezza poferita dagli errori del passato e a rischio di litica, la storia adattata dal romanzo di ripeterli. Un quindicenne (Stephan Mo- The Killer Inside Me, del prolifico e do- Jim Thompson è un ritratto fosco e brutalran) rapisce un bambino che tiene seque- tato regista Michael Winterbottom, è un mente comico di un patologico cittadino strato in una casa vuota, con motivazioni noir con scene più spaventose di tanti film al di sopra di ogni sospetto, e non un edisconosciute e inquietanti. La storia si horror. L’ammaliante Casey Affleck è Lou, ficante trattato femminista. È pornografia muove avanti e indietro, prima e dopo il un vice sceriffo fidanzato con Amy (Kate del dolore o straziante fotografia del semrapimento, dominata da Moran e da Ai- Hudson) mandato dal capo a cacciare dal preverde uso maschile di infierire sul corsling O’Sullivan, un’attrice formidabile, e paesino texano la prostituta Joyce (Jessi- po della propria amata? Da vedere con dal bambino più sereno, felice e amabile ca Alba). Invece di spedirla alla stazione giudizio.
I misteri dell’universo
pagina 22 • 15 maggio 2010
MobyDICK
ai confini della realtà
di Emilio Spedicato hi scrive si laureò nel 1969 in fisica con una tesi proposta da quello che poi si sarebbe rivelato uno dei maggiori fisici-matematici degli ultimi decenni, Carlo Cercignani, scomparso da pochi mesi. Partito dalla fisica, ho lavorato prima in un centro di ricerche nucleari, poi all’università, in matematica computazionale sia teorica che applicata a problemi energetici e alle discontinuità nel sistema solare e nella civiltà a memoria di uomo. Non tentai una carriera in fisica anche per una difficoltà ad accettare alcuni aspetti «filosofici» della fisica moderna, nonché per le mie perplessità davanti a tante teorie apparentemente prive di collegamento con la realtà. Qui dirò brevemente del lavoro di John S. Bell, considerato fra i più importanti del dopoguerra. Ma restano nella fisica teorica tanti problemi aperti, accanto agli straordinari risultati ottenuti dalla fisica applicata. E anche il lavoro di Bell è sottoposto a revisione…
C
La fisica classica, le cui basi sono i Principia di Newton (per la meccanica e ottica) e le equazioni di Maxwell (per l’elettromagnetismo) era andata in crisi a fine Ottocento, a causa di scoperte che non poteva spiegare. Fra queste lo spettro della luce e la radioattività. Ai primi del Novecento nacque la fisica quantistica, partendo dall’idea che l’energia elettromagnetica sia emessa dagli atomi in modo discreto, secondo quanti di luce. Una tesi di Einstein che gli procurò il Nobel (ma l’idea era già presente in Avicenna…). Accanto a Einstein giganteggiò Erwin Schrödinger, con la sua equazione per i livelli energetici degli elettroni, che permise di derivare gli spettri luminosi, e quindi risalire dagli spettri agli atomi che hanno emesso la luce, risultato fondamentale in astrofisica. Negli anni seguenti si trovarono vari metodi di calcolo (matrici di Heisenberg, approccio di Von Neumann, diagrammi di Feynman…), e il mondo subatomico presentò molte nuove particelle, generalmente di vita brevissima, generate dai raggi cosmici o da collisioni negli acceleratori. Nacquero nuovi concetti per classificare le particelle (colore, sapore, stranezza) ma una teoria unificata è ancora in fieri. Alcuni pensano che possa seguire dalla scoperta attesa del cosiddetto Bosone di Higgs, o God Particle come l’ha chiamata il Nobel Lederman. O potrebbe venire dalla teoria dei filamenti, strutture vagamente simili alle stringhe che hanno portato a risultati da molti ritenuti insensati; la teoria dei filamenti è opera in corso del fisico Giancarlo Cavalleri, già all’Università Cattolica di Brescia. Subito nacque un problema interpretativo, che oppose Einstein alla scuola di Copenhagen, di Niels Bohr. All’origine alcuni fatti che differenziano la fisica quantistica da quella classica. Ad esempio, nel mondo quantistico la luce può avere carattere sia particellare che ondulatorio. Una particella, come un elettrone, non ha una posizione ben definita nello spazio, ma può essere localizzata solo secondo una certa probabilità. Certe quantità «duali» non possono essere calcolate entrambe con precisione arbitraria, perché, per il principio di indeterminazione di Heisenberg, maggio-
Aspettando…
il quantum computing re è l’accuratezza con cui se ne calcola una, minore è quella con cui si può calcolare l’altra. Per non dire poi dei problemi connessi alla possibile esistenza di particelle con velocità superiore a quella della luce (i tachioni proposti da Erasmo Recami, o i processi di superluminalità la cui validità è ora accertata). Gravi problemi concettuali, da confrontare con la messe di risultati sperimentali, che ha portato alla straordinaria fi-
brale, era un irlandese che lavorò al centro di ricerche nucleari di Harwell in Gran Bretagna (simile al Cise di Milano dove ho lavorato per sette anni) e poi al Cern, il grande centro vicino a Ginevra dove esiste un acceleratore costruito sotto terra, in parte sotto le montagne del Jura. Durante un sabbatico alla Stanford University formulò quella che divenne nota come la diseguaglianza di Bell, sul
Principi diversi apriranno la strada a calcoli di un genere del tutto nuovo. Forse si realizzerà il desiderio di Einstein di una fisica quantistica comprensibile. Ma nella complessità dell’universo teorie e confutazioni si susseguono, così come le scoperte inattese. Il caso di John S. Bell sica dei materiali e porterà forse al quantum computing e a una tecnologia per spostamenti superluminali.
Se in futuro il desiderio di Einstein di una fisica quantistica deterministica e comprensibile (secondo Feynman nessun fisico quantistico capisce cosa studi, ma le equazioni funzionano…) si realizzerà, è impossibile dire; l’universo potrebbe essere infinitamente complesso e scoperte inattese continuano a farsi, come la non costanza della costante di Planck, se l’universo si espande. Veniamo ora al contributo di Bell. John Stewart Bell, nato nel 1928 e morto a soli 62 anni di emorragia cere-
cui contenuto sorvoliamo in quanto strettamente tecnico. Bell scrisse poi un libro dal titolo Dicibile e indicibile nella fisica quantistica, pubblicato ora, dopo una ventina di anni, da Adelphi.Vent’anni è un certo ritardo, ma se pensiamo che la maggior parte degli scritti di Newton non sono ancora pubblicati… Il libro è una raccolta di suoi articoli e discorsi su vari temi della fisica quantistica, in cui Bell prende le distanze da tesi diffuse fra i fisici, ad esempio che la materia non possa esistere senza la mente e che tutti gli universi possibili esistano. Una metà del libro è matematica comprensibile solo ai (pochi) addetti ai lavori,
un’altra parte è discussione di concetti di fisica quantistica che l’autore suppone noti al lettore; solo una piccola parte è comprensibile alla persona di media cultura universitaria. Interessante per chi scrive la discussione delle idee di Bohm sulle cosiddette funzioni pilota e sulle variabili nascoste.
Fra i critici del risultato di Bell ricordiamo Robert Bass. È un fisico convertitosi al cattolicesimo da qualche anno. Fu lui a valorizzare Rudolf Kalman, il matematico che con i suoi filtri di Kalman ha creato uno strumento fondamentale per l’analisi dei dati, e lui stesso è autore di risultati quali la giustifica della legge di Titius-Bode sul posizionamento dei pianeti e la scoperta che la costante di Planck dipende dalla densità dell’universo. Nell’articolo The irrelevance of Bell’s inequalities, Bass afferma che Bell fa ipotesi implicite statistiche non giustificate: Bell’s Inequality is a «category mistake» like trying to measure the mean lifetime of 100-watt electric bulbs using the same bulb! («La diseguaglianza di Bell appartiene a una categoria errata, come provare a misurare la vita media di 100 lampadine usando sempre la stessa lampadina»).
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato
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L’amministrazione deve rispettare le aspettative dei cittadini Stefano Caldoro, al lavoro nel pantano partenopeo ereditato da una amministrazione da dimenticare, deve mediare tra affettività e problemi cogenti. Non secondo a nessuno, la diatriba della gestione della nettezza urbana, che occorre augurarsi solo che non finisca come a Torre del Greco, dove c’è chi per pulire la città, disturba la quiete notturna dei cittadini. Come si fa ad eliminare l’elemento fondamentale della raccolta, e dove è andato a finire lo spirito nuovo che si fa coscienza, riguardo la raccolta differenziata, che illuminò per poco e poi si è eclissata all’orizzonte delle sconfitte elettorali della vecchia gestione? Parliamo di decoro e immagine di una città che si affaccia sulla costa ridente e spiega le sue amene spiagge, al degrado e all’abbandono. In tale contesto, si sono introdotti nuovi servizi che costano e rimpinzano la già ingente tassa sulla spazzatura. Sono aumentati i sensi vietati per consentire il rapido passaggio delle macchine spazzatrici, rendendo impossibile però risolvere anche di notte il problema del parcheggio. Il buon senso e il rispetto nei confronti dei cittadini deve essere la prima regola e i cittadini devono collaborare con le nuove amministrazioni per agevolarle.
Bruno Russo
…A PROPOSITO DI JET M-346 Caro Direttore, dato che collaboro anch’io a liberal, considera questa lettera un esempio di “fuoco amico”! Mi riferisco all’articolo apparso il 13 maggio a firma di Marco Palombi a proposito della battaglia per conquistare una commessa per 48 velivoli da addestramento/attacco leggero Alenia Aermacchi M-346 negli Emirati Arabi Uniti. Purtroppo ci sono diverse inesattezze. Intanto l’M-346 il cliente di lancio lo ha già: l’Aeronautica militare Italiana, che ha firmato un contratto per 6 aerei, in costruzione, con una seconda batch di 9 in discussione. Poi chi negli Uae vuole i nuovi addestratori/aerei da addestramento è Abu Dhabi, non Dubai. Dubai è in crisi nera, Abu Dhabi invece ha il petrolio e in larga misura i due Emirati fanno acquisti di sistemi militari “indipendenti”. Abu Dhabi ha scelto l’M-346 e poi ha cominciato a negoziare, una trattativa dura. La linea di assemblaggio locale, a quanto pare, non c’è più e se si prende il contratto gli aerei saranno costruiti tutti in Italia, però i termini di pagamento e le garanzie richieste sullo sviluppo della versione d’attacco sono pesantissimi. Non si può firmare “a qualunque costo”. Ovviamente questo stallo ha rimesso in corsa il rivale coreano/americano Kai T-50. La partita però non è ancora persa. Poi, ad Abu Dhabi, ga-
rantisco, se ne fregano di quello che fa Israele. Anche perché c’è un nemico comune: l’Iran. Basta pensare che gli Uae e Israele hanno lo stesso aereo da combattimento: lo statunitense Lockheed Martin F-16. Quindi se Israele comprasse l’M-346 non sarebbe un problema. L’Italia ha fatto benissimo a proporre la vendita dell’M346 ad Israele, non fosse altro perché le nostre forze armate stanno comprando missili (ed altro) israeliani e perché 2mila soldati italiani proteggono i confini di Israele con il Libano da anni. Così va il mondo e per fortuna da un po’ di tempo lo abbiamo capito anche noi. A proposito di mondo: Alenia Aeronautica non punta con l’M-346 solo all’Europa e ai Paesi del sud, ma al mercato mondiale, del quale potrebbe conquistare 1/3. Questo senza contare la grande sfida, quella negli Usa, dove l’M-346 parteciperà ad una gara del Pentagono per 3-500 aerei. Buon volo!
Stranamore
ACQUE INQUINATE. L’ITALIA CONDANNATA DALL’UE In questi giorni di crisi dell’euro è passata praticamente inosservata la notizia che la Commissione europea ha deciso di deferire l’Italia alla Corte di giustizia dell’Ue per violazione della direttiva del 1999 sul trattamento delle acque reflue (inquinate) urba-
L’IMMAGINE
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SIDNEY. Se si estendono ai prossimi tre secoli le proiezioni sugli effetti del cambiamento climatico,un orizzonte assai più esteso di molti altri studi, le attuali preoccupazioni sul sollevamento dei mari, su ricorrenti ondate di caldo e incendi, perdita di biodiversità e difficoltà agricole, «impallidiscono a paragone dei futuri impatti globali». Secondo una nuova ricerca dell’University of New South Wales in Sydney, con la collaborazione della Purdue University in Usa, in meno di 300 anni metà del pianeta potrebbe diventare semplicemente troppo caldo per la sopravvivenza umana. Lo studio, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, suggerisce che senza interventi per tagliare le emissioni, le attività umane causeranno entro il 2300 aumenti medi di temperatura fino al 10-12%.«Gran parte del dibattito sul clima si concentra sulla questione se il mondo potrà mantenere il riscaldamento globale entro il livello relativamente sicuro di due gradi per il 2100» scrive il prof. Tony McMichael, coautore dello studio. Il cambiamento climatico però non si fermerà nel 2100, e secondo scenari realistici nel 2300 gli aumenti potranno arrivare a 12 gradi o pià, una grave minaccia alla specie.
ne: il nostro Paese avrebbe dovuto, infatti, predisporre entro il 31 dicembre 2000 sistemi adeguati per il convogliamento e il trattamento delle acque nei centri urbani con oltre 15mila abitanti. Poiché dalle informazioni disponibili risultava che un numero elevato di città e centri urbani non era in regola con la normativa, nel 2004 l’Italia ha ricevuto una prima lettera di diffida. Una seconda e ultima lettera è stata spedita all’Italia nel febbraio 2009. Da una successiva valutazione è risultato che circa 178 città e centri urbani italiani non si erano ancora conformati alla direttiva. Le acque reflue non trattate possono essere contaminate da batteri e virus dannosi e rappresentano un rischio per la sanità pubblica. Inoltre, esse contengono nutrienti come l’azoto e il fosforo che possono danneggiare le acque dolci e l’ambiente marino favorendo la crescita eccessiva di alghe che soffocano le altre forme di vita. Mi piacerebbe sapere dal governo i motivi di questo ritardo, e vorrei sapere dalla ministra dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Stefania Prestigiacomo, quali provvedimenti intende adottare per risolvere il problema.
UN DRAMMA CRESCENTE
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e di cronach
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Fra 3 secoli niente vita sulla Terra
Primo Mastrantoni
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LE VERITÀ NASCOSTE
Una notte in Tanzania Il nome ”Tanzania” deriva dalla fusione di ”Tanganica” (nome della colonia britannica che corrisponde alla Tanzania continentale) e “Zanzibar”: fu adottato quando i due soggetti si unirono nel 1964
La situazione dei papà divorziati e degli omicidi in famiglia è preoccupante, al punto che la cronaca nera domestica sta superando quella comune. Chi dice che è colpa del divorzio, chi afferma che la crisi economica porta a gesti sconsiderati nella propria realtà immediata. Occorre sostenere la struttura familiare non solo spiritualmente ma anche economicamente, fermo restando che un tale provvedimento non deve lasciare molti papà che hanno dovuto cedere tutto, in stati di completa indigenza finanziaria.
Bruno Russo
pagina 24 • 15 maggio 2010
grandangolo La crisi greca impone una nuova cultura unitaria
Tre idee per andare oltre i limiti di Maastricht Un nuovo trattato per l’Eurozona dovrà basarsi su alcuni principi guida: 1) Il deficit va coperto a livello europeo; 2) Occorre recuperare criteri di solidarietà sociale che unifichino le condizioni in tutto il Continente; 3) Serve una struttura comunitaria di controllo dei conti di Rocco Buttiglione
segue dalla prima Ed è necessario che un organo dell’Unione certifichi la compatibilità degli obiettivi di bilancio di ogni singolo stato con la gestione collettiva della moneta. Altrimenti la irresponsabilità di un singolo stato può trascinare nel baratro la moneta che è un bene di tutti.
In prima battuta questo significa che è necessario tornare alle regole di Maastricht. In seconda battuta questo significa che quelle regole vanno riscritte, di fatto o con una revisione del trattato o anche (meglio) con un nuovo trattato che riguardi solo i paesi dell’eurogruppo. La Gran Bretagna (che non condivide la moneta), si è già chiamata fuori dichiarando la sua indisponibilità a sostenere gli oneri necessari per difenderla. Non è molto generoso ma non manca di una sua logica. L’obiettivo fissato dal trattato di Maastricht non è un deficit di bilancio del 3% , come spesso abbiamo sentito dire. L’obiettivo è il pareggio di bilancio. La soglia del 3% entra in gioco in periodi di crisi per permettere ai governi di fare una politica anticiclica. Per sostenere occupazione e sviluppo in tempo di crisi i governi potranno usare questo margine di deficit: 3 punti Pil oltre il pareggio di bilancio. Questo significa che l’obiettivo di rientro dai deficit attuali (tutti ben oltre la soglia di Maastricht) è assai più ambizioso di quanto considerato fino ad ora. Nel caso dell’Italia non 2 punti ma 5 punti Pil. Non basta. Maastricht prevede anche
che si debba controllare non solo il deficit eccessivo ma anche il debito eccessivo. Paesi con un debito superiore al 60% del Pil devono rientrare rapidamente. È prevedibile che adesso questo obbligo verrà fatto valere con maggiore rigore. Vi sono alcuni difetti del trattato di Maastricht che adesso devono essere corretti. Il primo di questi difetti è che esso ha dedicato tutta la sua attenzione al problema degli shock asimmetrici, cioè delle crisi che investono solo uno o alcuni dei paesi dell’area. Poco si è detto e si è previsto per gli shock simmetrici, per le grandi tempeste che investono tutta l’area monetaria o addirittura tutta l’economia mondiale. È difficile fare questo rimanendo legati ad un sistema di parametri fissi perché la risposta deve ovviamente essere graduata sulla minaccia. Il limite del 3% nella risposta degli stati agli shock asimmetrici derivava dal fatto che uno stato che abbia deficit più elevati mentre gli altri mantengono il pareggio di bilancio non riuscirebbe poi mai più a rientrare nel gruppo. Davanti a turbolenze come quelle che abbiamo sperimentato più che la definizione di parametri fissi ci aiuta la determinazione di criteri e procedure volti alla elaborazione di una adeguata risposta comune. Si può immaginare la determinazione di un obiettivo di deficit complessivo dell’area poi ripartito fra i paesi membri, tenendo conto in questa fase delle relative asimmetrie con le quali la crisi si manifesta. La crisi, purtroppo, da un lato ci obbliga a stringere di più il vincolo comune ma dall’altro ha acuito le dif-
fidenze. I tedeschi, soprattutto, temono che una eventuale maggioranza di paesi lassisti possa indebolire la moneta comune. Per superare questa obiezione sarà necessario studiare bene i meccanismi decisionali assicurando adeguate soglie di sbarramento per misure che si allontanino dai parametri fissi ovvero sistemi di voto che tengano conto dell’onere che ciascun paese è chiamato a portare. Un passo avanti ulteriore potrebbe essere la attribuzione all’Unione della facoltà di emettere obbligazioni proprie per finanziare grandi operazioni di infrastrutturazione materiale ed immateriale in funzione anticiclica. Sarebbe naturalmente necessario attribuire all’Unione le risorse (preferibilmente proprie) per il servizio del debito pubblico europeo che in tal modo sorgerebbe. Una misura concordata dei deficit dei singoli stati e di quello eventuale dell’Unione, un deficit comune di area, un programma di infrastrutturazione comune in funzione anticiclica configurerebbero un inizio serio di politica economica comune.
Dobbiamo adesso toccare due temi molti delicati: il primo riguarda la ispirazione culturale della politica economica comune, il secondo la sorveglianza comunitaria sul contenuto dei singoli bilanci. La politica economica europea sulla base del trattato di Maastricht poteva essere solo una politica economica liberista e monetarista. La diffidenza reciproca degli stati faceva in modo che si preferisse ancorarsi a para-
metri fissi piuttosto che definire politiche comuni. Il clima culturale di quegli anni, inoltre, era accentuatamente antikeynesiano. Il keynesismo era entrato in crisi per colpa degli eccessi di classi politiche che avevano spensieratamente finanziato a debito spese correnti e consumi. La causa più profonda della crisi era stata però un’altra. Le politiche keynesiane non funzionano in mercati globalizzati.Vediamo perché. Keynes, come è noto, parte dalla considerazione dei momenti di stagnazione in cui il denaro è a basso costo ma gli imprenditori non lo prendono in prestito per finanziare nuove iniziative produttive a causa di un clima generale di sfiducia. È bene allora che sia lo stato a prenderlo per finanziare grandi programmi di infrastrutturazione. Le infrastrutture renderanno il lavoro più produttivo e più competitivo sui mercati internazionali. I salari erogati si trasformeranno in spesa aggiuntiva a ravviveranno il mercato dei beni di consumo generando altri posti di lavoro, l’economia riprenderà a marciare e, nel tempo, questo genererà un aumento delle entrate fiscali che consentirà di pagare i debiti contratti. Ci sarà un poco di inflazione che non sarà troppo difficile da controllare e che comunque contribuirà a diminuire il peso del debito pubblico sul prodotto interno lordo. Centrale nel ragionamento keynesiano è il tema del moltiplicatore. I denari messi in circolazione dallo stato generano un aumento della domanda maggiore del loro importo. Per ogni posto di lavoro attivato
15 maggio 2010 • pagina 25
Il numero uno della Deutsche Bank: «Atene non potrà rimborsare il prestito»
La speculazione globale è ancora in agguato. Crollano le Borse, Euro ai minimi dal 2008 di Alessandro D’Amato
ROMA. Dopo l’euforia, tornano i cali. Le principali Borse europee tornano a soffrire, dopo la crescita dei giorni scorsi, e lo fanno proprio nel momento in cui, in teoria, dovrebbe essere tutto tranquillo: il prestito per la Grecia è stato approntato, il fondo e la Bce sono pronti all’intervento, Spagna e Portogallo hanno cominciato a sforbiciare il bilancio.
direttamente dalla spesa pubblica ve ne sarà un altro (o altri) generati dalla spesa privata dei lavoratori assunti nei programmi statali. Quando i mercati si unificano il moltiplicatore diminuisce. I lavoratori impiegati dai programmi pubblici spendono i loro denari per comprare merci non solo del proprio paese ma anche degli altri paesi con i quali il proprio ha relazioni commerciali. I posti di lavoro si generano ma non sul territorio dei contribuenti che hanno sostenuto la spesa iniziale. A quel punto il gioco non vale più la candela. Per questo politiche keynesiane su base nazionale non sono più possibili. Su base continentale esse sono invece ancora possibili perché l’Unione Europea abbraccia la gran parte dei nostri partner commerciali significativi. Quando, per far fronte a crisi come quella attuale, si impongono politiche keynesiane moderate, l’Unione Europea non è in grado di farle. Gli Stati Uniti invece sì, e probabilmente è proprio per questo che gli Stati Uniti stanno uscendo dalla crisi più rapidamente e più efficacemente.
La seconda questione delicata concerne quella che io provocatoriamente ho chiamato la sorveglianza comunitaria sui bilanci nazionali. Si limiterà essa ad una ripartizione fra gli stati membri del deficit giudicato globalmente sostenibile? Io credo che essa debba andare oltre. Misure di riduzione fiscale mirate possono nel breve periodo generare deficit ma nel lungo periodo portano con buona probabilità a forti crescite sia della competitività che del Pil che delle entrate fiscali. Nella valutazione della sostenibilità nel tempo della osservanza del vincolo comunitario non possono essere messe allo stesso livello di spese improduttive. Dove si colloca, nel quadro che abbiamo sommariamente delineato, l’interesse nazionale italiano? Noi possiamo essere, ad alcune condizioni, fra i massimi beneficiari del rafforzamento delle politiche europee. La crisi greca ci ha toccato da vicino. La politica di grande prudenza di Tremonti ha conte-
nuto il deficit ( un po’ peggio della Germania ma meglio di tutti gli altri) e ci ha messi provvisoriamente al riparo. Malgrado ciò, nei momenti di crisi è impossibile non ricordarsi della massa assoluta del debito italiano. Se la speculazione fosse stata lasciata correre incontrollata dopo i quattro paesi più esposti sarebbe venuta la volta dell’Italia. Le misure prese garantiscono anche noi. Naturalmente anche il ritorno a Maastricht riguarda anche noi. I criteri più stringenti per il rientro dal deficit e per la diminuzione del debito ci chiedono sforzi maggiori di quelli che Tremonti aveva preventivato. Ancora più da vicino ci stringe il problema della sostenibilità di lunga durata dei criteri comunitari. Si tratta, in realtà, della faccia comunitaria del nostro vero grande problema interno: la perdita di competitività del sistema Italia nell’epoca della globalizzazione. Abbiamo bisogno di fare vere liberalizzazioni spezzando il potere delle corporazioni che fino ad ora lo hanno impedito. Abbiamo bisogno di tagli strutturali alla spesa pubblica non solo per ripristinare gli equilibri finanziari ma soprattutto per spostare in modo massiccio risorse dai consumi agli investimenti. È difficile farlo senza aumentare l’età pensionabile e senza mettere mano alle inefficienze del sistema sanitario. Un riesame spregiudicato dei costi della riforma federale è inevitabile. Abbiamo bisogno di una riforma del mercato del lavoro che ripartisca equamente gli oneri della solidarietà sociale sgravando le imprese ed il lavoro. Abbiamo bisogno di creare qualche milione di posti di lavoro in settori innovativi relativamente protetti dalla concorrenza dei paesi emergenti.
Ancora una volta l’Europa può essere per noi non un vincolo ma un sostegno per affrontare con decisione i nostri problemi. Possiamo farcela, ma il compito non è facile e appare francamente al di là delle forze di questo governo. C’è bisogno di un diverso clima politico e di un clima di rinnovata concordia nazionale.
Ieri l’euro è sceso ai minimi da 14 mesi, cioè dal marzo del 2009, sotto quota 1,25 dollari. La moneta unica ha toccato il minimo di 1,2493 dollari per poi risalire a 1,2524. Ma a metà giornata è scivolato di nuovo a 1,243, per poi toccare 1,2424 dollari, il livello più basso da novembre 2008. Verso la fine della giornata in Europa calavano a picco le Borse europee, sulla scia della crisi del debito in Europa e del cattivo andamento di Wall Street. A Londra l’indice Ftse 100 cala del 2,37%. L’indice Ftse Mib di Piazza Affari scendeva del 5%. A Francoforte il Dax cede l’1,86% e a Parigi il Cac 40 scende del 3,25%. Atene giù del 3,6%, Madrid segnava un 5,32% e Lisbona 3,74%. Eppur si muovono, ma verso il basso, le Piazze Affari del Vecchio Continente. Secondo gli operatori, possono essere due i motivi fondamentali del forte calo, in particolare di Italia e Spagna. Da una parte, uno switch dal comparto bancario ad altri settori e altri mercati, come la Borsa di Francoforte, che limita le perdite. Dall’altra, i trader notano come la pressione dei giorni scorsi sui bond italiani e spagnoli rispetto a quelli tedeschi si sia spostata sul mercato azionario. Ad aumentare la pressione sui mercati contribuiscono anche la continua debolezza dell’euro e le dichiarazioni di Josef Ackermann, numero uno di Deutsche Bank. Quest’ultimo, in un’intervista alla Zdf, ha espresso forti dubbi sulla capacità della Grecia di rimborsare l’integralità del suo debito, aggiungendo che Atene deve essere stabilizzata perché un collasso avrebbe sicuramente effetti disastrosi per altri Paesi e potrebbe causare «un meltdown» dell’Eurozona. La risposta ufficiale non si è fatta attendere: «Il governo tedesco non vede attualmente alcuna ragio-
ne di fare speculazioni su un simile scenario», ha detto la vice portavoce del governo, Sabine Heimbach. Berlino, ha aggiunto Heimbach, non ha dubbi sulla ferma intenzione del governo greco di realizzare il programma di austerità
E in più c’è da ricordare la doppia scadenza del 19 e del 20 maggio. In quelle date avranno luogo aste per i titoli greci e portoghesi, e molti concordano sul guardare a quei giorni come alla cartina di tornasole della gravità della crisi europea. Oggi un piccolo spostamento numerico potrebbe mandare a gambe all’aria un paese e su quell’orlo un altro. Atene e Lisbona, rispettivamente. In questa ottica bisognerebbe leggere il segnale delle aste. L’attenzione dei mercati ieri è tornata a concentrarsi sui rischi legati alla Grecia e al debito pubblico dei Paesi dell’Eurozona e così si sono allargati gli spread (rendimenti) tra i titoli di Stato dei Paesi considerati più a rischio e quelli del bund decennale tedesco. Rispetto al debito decennale tedesco, il rendimento dei titoli di Stato della Grecia è salito di 9,5 punti base, quello dell’Italia di 7,4 punti base, quello del Portogallo di 5 punti base, quello della Spagna di 5,2 punti base. Stabile invece il rendimento del debito irlandese rispetto a quello tedesco. Il premio che i titoli di Stato decennali italiani devono pagare rispetto a quelli tedeschi si è riportato a 100 punti base, rispetto ai 104 di Spagna, ai 163 dell’Irlanda, ai 168 del Portogallo e ai 451 della Grecia. Sempre ieri, il governo spagnolo ha smentito che il premier José Luis Zapatero abbia confidato ad alcuni suoi collaboratori che il presidente francese Nicolas Sarkozy abbia minacciato di uscire dall’euro per forzare l’adesione della Germania al piano di salvataggio della Grecia. L’indiscrezione era stata riportata dal quotidiano spagnolo El Pais. In finale di giornata, poi, il Fondo Monetario Internazionale ha detto che i conti pubblici dell’Italia non sono a rischio. Ma ormai le Borse avevano chiuso.
mondo
pagina 26 • 15 maggio 2010
Ecocatastrofe. Contestati i dati forniti dalla BP: la fuga di greggio è dodici volte più grave. Il rischio è che tutta la falda finisca in mare
La terza guerra del Golfo Al largo del Messico si combatte col tempo Una “Exxon Valdez” ogni quattro giorni di Enrico Singer ultima notizia che arriva dal Golfo del Messico non è confortante. Anzi, fa venire i brividi. La fuga di greggio dal pozzo della British Petroleum è molto più grave di quanto ha dichiarato - e continua a sostenere - la compagnia petrolifera. Gli esperti che hanno esaminato il primo video della falla che si è aperta nel sistema di perforazione sul fondo del mare sono convinti che la quantità di petrolio è dodici volte superiore a quanto stimato finora. Settanta-
L’
tutto il greggio che si trova della falda perforata. In questo caso il Golfo del Messico diventerebbe un enorme lago di petrolio. Con danni incalcolabili. Fantascienza, certo. Eppure nessuno, fino a questo momento, è riuscito a trovare un rimedio sicuro. La prima campana d’acciaio calata dai tecnici della BP sul fondo del mare nella speranza di coprire la zona della falla e di convogliare il greggio in superficie attraverso un condotto mobile, non è servita a nulla. Si è formato del ghiac-
Il segretario di Stato all’Energia, Steven Chu, premio Nobel per la fisica, vuole usare i raggi gamma per accertare la reale entità del disastro. Inutile il tentativo con la campana di contenimento mila barili al giorno. Come dire che ogni quattro giorni si rinnova un disastro come quello provocato dal naufragio della petroliera Exxon Valdez al largo dell’Alaska nel 1989. Dall’esplosione della piattaforma Deepwater Horizon, il 20 aprile scorso, di giorni ne sono passati già 25. E chissà quanti ancora ne dovranno passare prima che la falla potrà essere chiusa. O che si riuscirà a incanalare la fuga di greggio in un nuovo condotto. Il disastro, insomma, sta assumendo contorni sempre più catastrofici.
cio (la falla e a 1500 metri sotto il livello del mare) e l’enorme pressione alla quale schizza fuori il petrolio misto a gas ha fatto il resto. La BP, adesso, vuole riprovarci con una seconda campana, più piccola e perfezionata. Ma il tentativo, previsto per oggi, è stato rinviato alla prossima settimana e, intanto, il greggio continua a finire in mare. Il Congresso americano - la costa più vicina è quella della Louisiana - ordinerà un’inchiesta formale per capire, almeno, a quale ritmo il greggio finisce in acqua perché non crede più alle stime rassi-
curanti - si fa per dire - della BP che continua a parlare di cinquemila barili al giorno.
Steven Chu, premio Nobel per la fisica nel 1997 e ora segretario di Stato per l’Energia nell’Amministrazione Obama, ha ipotizzato di utilizzare i raggi gamma per valutare l’entità esatta della fuga di greggio e, forse, anche per stabilire la quantità totale della falda petrolifera che la Deepwater Horizon aveva raggiunto. Non va dimenticato che il disastro è avvenuto in una fase di prospezione - cioè di ricerca - e non di sfruttamento del pozzo e che nell’esplosione della piattaforma sono morti anche sette tecnici. Tutto questo aumenta la confusione sulle analisi del disastro e sulle ricette per fermarlo. La BP - e finora anche il governo americano - ha elaborato le sue stime con il metodo fissato dalla Bonn Convention basato sui colori che assume l’acqua del mare e che definiscono lo spessore della macchia di petrolio. «Ma questo protocollo non è specificatamente raccomandato per le macchie molto grandi», ha detto Alun Lewis, uno dei maggiori esperti britannici della materia. Lo sforzo per bloccare in qualche modo la falla mette in campo un esercito di 13mila persone, su centinaia di navi, che
hannp steso oltre 600 chilometri di barriere mobili di contenimento e che hanno riversato in acqua 712mila litri di sostanze disperdenti. I risultati, però, sono deludenti. Lo stesso amministratore delegato della BP, Tony Hayward, ha ammesso che i solventi chimici utilizzati per sciogliere la macchia di petrolio sono letteralmente una goccia nel mare: «Il Golfo del Messico è un oceano molto grande. La quantità di solventi utilizzati è minima rispetto al volume totale dell’acqua». Hayward ha anche annunciato che la compagnia petrolifera sta costruendo un nuovo pozzo che dovrebbe raggiungere la stessa falda di greggio ma ha anche detto che non sarà attivo prima di tre mesi. Al ritmo di un disastro ecologico come quello della Exxon Valdez ogni quattro
Uno scenario da fantascienza potrebbe essere quello che dall’ormai famosa valvola “Bop” Blow-out-prevention - che avrebbe dovuto chiudere il foro del sondaggio sottomarino in caso di guai, finirà per uscire
La “Deepwater Horizon” brucia dal 20 aprile. I pozzi incendiati in Kuwait furono fatti esplodere. A destra, Steven Chu. Nella pagina accanto, la piattaforma venezuelana
giorni, l’entità della catastrofe sarebbe davvero fantascientifica. Ed anche la tassa di un centisimo al barile proposta da Barack Obama per far pagare i danni alle compagnie petrolifere sarebbe insufficiente.
Il vero problema è sempre quello di come fermare la fuga del greggio. E su questo, pur-
mondo za quella di Hiroshima, ma fatta esplodere a sei chilometri di profondità. Degli altri tentativi effettuati nell’ex Urss, continua l’articolo, «soltanto uno non ha funzionato, nel 1972, mentre gli altri hanno raggiunto l’obiettivo anche con testate di 60 chilotoni». La Komsomoloskaya Pravda ammette che il metodo non è stato mai testato sott’acqua - i pozzi erano tutti sulla terraferma - ma secondo i calcoli degl esperti russi, le probabilità di fallimento sarebbero appena del 20 per cento. Basterebbe scavare un mini-pozzo vicino alla perdita e far detonare la bomba. Anche questa sembra fantascienza, ma c’è da scommettere che i russi l’avrebbero già fatto se il disastro della piattaforma fosse capitato a loro. I tecnici della BP e quelli americani, però, non hanno nemmeno preso in considerazione questa possibilità e continuano a battere quella che un esperto come l’ingegnere Mario Camarsa, che è stato direttore per diversi anni della divisione ricerche della Esso in Europa, definisce la «strada tradizionale».
La via della cupola di contenimento è stata sempre utilizzata. Il meccansimo è semplice: il pe-
Gli esperti inglesi e americani non vogliono nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi russa di un’esplosione nucleare per chiudere la falla. Ma per scavare un pozzo parallelo ci vorranno tre mesi troppo, sia gli esperti della BP che quelli americani non hanno ancora una soluzione da applicare in tempi brevi. Quando i russi hanno ipotizzato l’impiego di una bomba atomica tattica per chiudere il pozzo sottomarino, tutti hanno gridato allo scandalo. E, in effetti, l’idea di aggiungere alla macchia nera del petrolio anche una dose di radiziazioni atomiche può sembrare folle. Tuttavia la proposta lanciata tre giorni fa dalle colonne del quotidiano Komsomoloskaya Pravda, tecnicamente, ha una sua giustificazione. Del resto anche quando, nella prima guerra del Golfo, gli iracheni in ritirata incendiarono i pozzi del Kuwait, l’unica soluzione dopo tanti inutili tentativi fu quella di farli esplodere per spegnere le fiamme. Nel caso della fuga sottomarina non si tratta di fermare un incendio, ma di chiudere la bocca del pozzo facendo crollare le pareti della perforazione effettuata dalla Deepwater Horizon.
Ai tempi dell’Urss casi del genere sono stati risolti - in gran segreto, naturalmente - proprio con esplosioni nucleari controllate. Secondo il quotidiano che fu della gioventù comunista, questo metodo è stato usato usato «almeno cinque volte, la prima per spegnere i pozzi di gas di Urt Bulak il 30 settembre 1966». Allora la carica usata fu da 30 chilotoni, una volta e mez-
trolio esce a grande pressione e, poiché è più leggero dell’acqua, viene spinto verso l’alto. La cupola deve essere grande abbastanza per non disperdere il greggio e deve essere collegata ad un condotto che lo pompa in superficie. Finora, però, questo sistema è stato impiegato in casi di fughe meno importanti e, soprattutto, a profondità minori. A 1500 metri sotto il livello del mare, il petrolio sgorga a una pressione superiore alle 150 atmosfere. Non solo: quando picchia a quella velocità contro un muro d’acqua tende a disperdersi e il lavoro della cupola diventra estremamente difficile. Una parte del greggio, secondo Mario Camarsa, potrebbe comunque sfuggire alla cupola. «È come fare un’operazione a cuore aperto a 1500 metri di profondità, al buio e con sottomartini telecomandati». Non a caso il primo tentativo è fallito. La via maestra - la trivellazione di un pozzo laterale - è la più efficace. Ma richiede tempo, come la stessa BP ha ammesso. Sempre nel caso del Kuwait, per riattivare i pozzi fatti esplodere per spegnere gli incendi appiccati dai soldati di Saddam, furono scavati dei pozzi laterali che si collegarono al condotto principale prima del punto dell’esplosione. Questo in terra si fa in due o tre giorni. Nel Golfo del Messico ci vorranno tre mesi. E il rischio è che, intanto, si avverino le previsioni più fosche.
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Venezuela. Affonda la piattaforma Aban pearl nel Mar dei Caraibi
E Caracas annuncia l’incidente su Twitter di Antonio Picasso on c’è pace per il Golfo del Messico. Ieri il Governo venezuelano ha annunciato – attraverso un originale “post” sul social network di Twitter – l’affondamento della piattaforma “Aban Pearl”, utilizzata per l’estrazione di gas naturale dai giacimenti off shore nel Mar dei Caraibi, di proprietà della compagnia di Stato “Petróleos de Venezuela Sa” (Pdvsa). Immediatamente il fatto è stato collegato con il disastro petrolifero che si è abbattuto poche centinaia di miglia più a nord e che sta martoriando il bacino del Missisippi e della Louisiana. Caracas tuttavia ha precisato che l’incidente intercorso di fronte alle coste del Paese non è della stessa portata rispetto a quello della “Deepwater Horizon”. I 95 operai impiegati sulla “Aban Pearl” sono stati messi subito in salvo. Inoltre l’esplosione pare non aver provocato alcun danno ambientale. Da un punto di vista tecnico, un incidente su una piattaforma petrolifera ha un impatto devastante sulla natura. Di questo ne sono una testimonianza le immagini della marea nera che continua a espandersi nel Golfo del Messico. La fuoriuscita non controllata di gas naturale – quello che liquefatto diventa Gnl – oppure l’esplosione di una piattaforma di estrazione, com’è nel caso della “Aban Paearl”, limita i danni all’aria. L’inquinamento resta contenuto a livello atmosferico e non coinvolge l’acqua. Il fatto inoltre che si sia registrata un’esplosione può far supporre un’immediata combustione del gas fuoriuscito. Siamo ben lontani quindi dalle conseguenze sulla natura che la British Petroleum e il Governo degli Stati Uniti stanno cercando di contenere. Del resto incidenti simili sono più legati ai giacimenti di carbone e non a quelli unicamente di gas naturale. L’ultimo del caso risale a dieci giorni fa, quando una fuga di metano nella miniera carbonifera di Raspadskaya, in Siberia, ha provocato 60 morti.
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un rifiuto implicito a questa idea di partnership mondiale. Del resto la proposta è apparsa tardiva e certo non si può pensare che il primo a sostenerla sia il presidente venezuelano Hugo Chavez, da sempre nemico giurato di Washington. D’altra parte la catena di coincidenze e quindi di incidenti in quest’ultimo mese deve, a questo punto, far riflettere. La domanda di idrocarburi a livello mondiale è in continua crescita.
Secondo l’International Energy Outlook l’attuale consumo di petrolio è pari a circa 200 Btu (British thermal unit, l’unità di misura dell’energia utilizzata in Gran Bretagna e Stati Uniti), mentre quella di gas naturale supera di poco i 100 Btu. Lo stesso osservatorio però prevede che, da qui al 2025, i due indici subiranno rispettivamente un aumento del 25% e del 50%. Questo perché le locomotive industriali che trainano l’economia del mondo restano
La fuoriuscita non controllata di gas naturale, che liquefatto diventa Gnl, oppure l’esplosione di una piattaforma di estrazione, come in questo caso, “limita” i danni all’aria
La storiografia di incidenti relativi al Gnl è limitata all’inefficienza e alla rottura delle condutture di trasporto, non ai giacimenti in senso stretto. Il problema è un altro. Possiamo fidarci della curiosa comunicazione su un social network da parte del governo di Caracas, che non è famoso per la sua trasparenza politica? È solo di martedì scorso la proposta del presidente Usa, Barack Obama, di tassare di un centesimo al barile il petrolio estratto giornalmente, al fine di creare un fondo internazionale comune per intervenire in situazioni di emergenza come queste. L’iniziativa della Casa Bianca, a ben guardare, non ha riscosso la reazione sperata. Anzi, il silenzio da parte del mercato e degli altri governi interessati eventualmente al progetto è echeggiato come
ancora eccessivamente legate al consumo di combustibili fossili. Cina, Europa, Giappone, India, Russia e Stati Uniti sono dei giganteschi motori a scoppio. La loro popolazione, i loro sistemi di riscaldamento e di trasporto, ma soprattutto di produzione industriale sono vincolati al petrolio e al gas naturale. Certo, le iniziative per l’affermazione di fonti energetiche alternative non mancano. Francia e Usa restano all’avanguardia nel settore nucleare. Altri paesi europei, in primis Danimarca, Germania e Regno Unito, stanno cercando di potenziare la produzione nazionale di energia eolica e solare. Ma tutto questo non basta. È evidente che, con l’aumento demografico della popolazione mondiale e l’affermarsi di nuove realtà economiche – per esempio in America Latina e anche in Africa – implica l’urgenza di dettare una linea politica comune a tutti i Paesi produttori di idrocarburi, affinché garantiscano maggiori sicurezze per l’uomo e per l’ambiente. Al tempo stesso è richiesto uno sforzo maggiore per la ricerca di nuove fonti di energia.
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Thailandia. L’esercito usa la forza nel quartiere delle ”camicie rosse” i spara ancora a Bangkok e si cominciano di nuovo a contare morti e feriti. L’esercito vuole sgombrare il quartiere diventato il centro della protesta ”rossa”. Secondo fonti locali, i militari hanno prima lanciato lacrimogeni sui dimostranti che hanno risposto con bombe molotov e sassi. Continuano così gli scontri e i disordini in Thailandia tra le “camicie rosse” dell’ex premier deposto Thaksin Shinawatra (oggi in esilio), che chiedono le dimissioni dell’attuale premier Abhisit Vejjajiva e nuove elezione e le forze di sicurezza governative che ieri hanno cominciato a sparare altezza uomo. I morti delle ultime 48 ore sarebbero 7 e circa cento i feriti, ma il conteggio viene purtroppo aggiornato continuamente. Tra questi ci sarebbero anche dei giornalisti. E portano il conto generale a più di trenta le vittime dall’inizio dei disordini. Diverse esplosioni, sempre ieri, sono state avvertite nei pressi della zona commerciale di Bangkok, dove sono asserragliati i rivoltosi che protestano contro la corruzione e il malgoverno del Paese. L’Ambasciata italiana ha invece confermato che nessun italiano è stato coinvolto negli scontri.
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Nessuno dei nostri connazionali è rimasto coinvolto nei diosrdini a Bangkok fra le camicie rosse e le forze di sicurezza. Lo ha detto a l’ambasciatore italiano in Thailandia Michelangelo Pipan. «Gli scontri avvengono in un’area circoscritta, il centro economico della città», ha aggiunto il diplomatico confermando che l’ambasciata italiana non sarà chiusa. Per il nostro diplomatioco sarebbe invece «marginale» il ruolo di Thaksin nella protesta. Sono invece tre i giornalisti feriti negli scontri di giovedì e venerdì a Bangkok: oltre al cronista di France 24, di nazionalità canadese, trasportato all’ospedale Chulalongkorn, sono stati colpiti un fotografo del locale Matichon, ricoverato al Bamrungrad, e un altro di Voice TV, l’emittente vicina alle camicie rosse finanziata dall’ex premier Thaksin Shinawatra. Lo riferisce Nation Tv. L’ex primo ministro tailandese in esilio, Thaksin Shinawatra, ha esortato ieri il governo a ritirare le sue truppe e riprendere i negoziati con i suoi supporter delle ”camicie rosse”, dopo gli scontri violenti di venerdì che hanno fatto morti e decine di feriti. «Penso che una soluzione politica sia sempre possibile per la Thailandia e il primo ministro è in grado di evitare ulteriori vittime e di salvare il nostro Pae-
Bangkok, i militari sparano sulla folla Sette morti e cento feriti negli scontri L’opposizione: «Così sarà una strage» di Pierre Chiartano
Per il nostro ambasciatore nel Paese, il ruolo dell’ex premier in esilio Thaksin sarebbe soltanto «marginale» nella protesta antigovernativa se», ha dichiarato Thaksin in un comunicato trasmesso dal suo consulente giuridico a Bangkok. «Tutto questo», ha sottolineato Thaksin, dipenderà «dalla sua decisione e dalla scelta che farà tra le maniere forti e i modi pacifici, o tra il suo posto e le vite di persone innocenti», ha aggiunto il magnate delle telecomunicazioni, icona di migliaia di ”camicie rosse” chi chiedono la caduta del governo di Abhisit Vejjajiva. I militari tailandesi hanno sparato proiettili e candelotti di gas lacrimogeni contro i manifestanti, nel centro della capitale, nei pressi delle ambasciate di Giappone e Stati Uniti. Infatti a sottolineare la drammaticità della situazione é stata anche la deci-
sione degli Usa di chiudere la propria ambasciata. Giunta a un passo dal compromesso per andare alle elezioni anticipate, nella serate di giovedì la crisi è nuovamente precipitata, rinnovando i timori di un intervento armato per disperdere i dimostranti fedeli all’ex premier Thaksin Shinawatra. I manifestanti hanno bruciato un bus della polizia, mentre l’esercito avanzava per sgomberare la strada occupata dalle ”camicie rosse”con l’obiettivo di riprenderne il controllo con la forza. L’area occupata era stata intanto isolata e privata di elettricità. L’esercito thailandese nega di aver sparato al generale Khattiya Sawasdipol, conosciuto come Seh Daeng, comandante mili-
tare della protesta antigovernativa. «Quello che gli è successo ci ha colto di sorpresa» ha affermato il colonnello Dithaporn Sasasmit, portavoce del Comando operazioni per la sicurezza interna (Isoc). Le truppe, ha aggiunto, hanno avuto l’ordine di non usare la forza contro persone disarmate. Seh Daeng è in terapia intensiva dopo essere stato colpito alla testa da un proiettile sparato da un cecchino. Il leader più radicale delle “camicie rosse” è stato colpito, giovedì, mentre concedeva un’intervista al New York Times nei pressi della barricata che dà sul quartiere finanziario di Silom. Khattiya Sawasdipol, 59 anni, nome di battaglia Seh Daeng, (comandante rosso), è un generale passato a guidare un suo personale seguito di paramilitari all’interno del movimento d’opposizione. È in gravi condizioni e secondo la figlia si troverebbe in coma.
«Ora l’esercito delle camicie rosse sono io, gli altri soldati thailandesi sono tutti alle dipendenze dell’Ammat, l’elite». Queste le parole del leader della protesta thailandese, Khattiya Sawasdipol, in un’intervista a un quotidiano italiano, prima di essere ferito alla testa. Nell’ultima intervista il leader spiegava che «il governo è corrotto, i leader rossi sono corrotti, hanno preso soldi dal governo per scendere a compromessi». Non è quindi da escludere quindi che ci fossero interessi all’interno del movimento per una sua eliminazione. Ma per il momento sono solo congetture. Khattiya affermava di essere stato «scelto dal cielo per salvare le vite dei compagni». «Se non fossi stato dalla parte dei rossi il 10 aprile – aveva aggiunto – ci sarebbero stati migliaia di morti. Quella sera sono stati i miei uomini a tirare fuori i soldati dai carri armati e a usare gli idranti per non farli sparare». Quanto all’accusa di avere ucciso cinque soldati, Khattiya si difendeva: «non so chi li ha uccisi, ma la colpa è sicuramente del primo ministro Abishit e del suo vice e anche di una parte dell’esercito». «Tutti sanno che l’esercito è composto da gente che ha fatto carriera senza mai sparare un colpo, ma giocando a golf, come ha fatto il comandante generale Anupong». Il leader della protesta definiva «eccitante» la situazione e come prossimo capo immagina Arisman, un ex cantante pop che ha guidato l’assalto contro il vertice dell’Asean Pattaya pochi mesi fa, «arriverà lui, vedrete» aveva detto.
Il ferimento di Sawasdipol non è stato ancora rivendicato, e promette di rimanere avvolto nel mistero. È noto che da settimane, ai piani alti degli edifici che circondano il bivacco dei ”rossi”, le forze armate avevano piazzato dei militari e sniper, i tiratori scelti. Ma il “Comandante rosso” – sospeso dal servizio eppure ancora in possesso dei gradi – era un personaggio scomodo per molti: si opponeva a un compromesso tra il governo di Abhisit Vejjajiva e il movimento popolare, rivendicando con orgoglio di prendere gli ordini direttamente da Thaksin. Abhisit lo aveva accusato di essere un «terrorista» alla guida dei misteriosi personaggi mascherati di nero che si aggiravano armati tra i manifestanti durante le violenze del 10 aprile, quando morirono 26 persone tra cui cinque militari. Anche le tante granate esplose negli ultimi due mesi a Bangkok venivano spesso attribuite a Khattiya, che aveva sempre negato qualsiasi coinvolgimento.
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15 maggio 2010 • pagina 29
Una telefonata avvisa la polizia. Poteva essere una strage
Il “succo” della sigaretta ha proprietà anti-corrosive
Salonicco, bomba al tribunale già evacuato
Mozziconi, in Cina scoprono come riciclarli
ATENE. Dopo il terremoto finanziario degli ultimi giorni in queste ore a far tremare la Grecia sono le bombe probabilmente di natura terroristica che hanno scosso giovedì la capitale Atene e ieri Salonicco. Nella seconda città del Paese ieri mattina un ordigno è esploso all’interno del palazzo di giustizia provocando il ferimento lieve di un impiegato del tribunale, mentre la bomba ad orologeria esplosa giovedì sera nei pressi del carcere di Korydallos aveva causato danni a numerosi edifici circostanti e il ferimento non grave di una donna. Entrambe le azioni sono state preannunciate da una telefonata anonima agli stessi mezzi di comunicazione (la tv Alter e il quotidiano Eleftherotypia), circostanza che induce gli inquirenti ellenici a non escludere una stessa matrice terroristica dietro ai due attentati, anche se ancora non ci sono state rivendicazioni.
PECHINO. Dei ricercatori cinesi sostengono di aver scoperto un modo per riciclare gli innumerevoli mozziconi di sigaretta disseminati sulle strade, i prati e le spiagge dell’Impero di Mezzo, utilizzandoli come anti-corrosivi per un tipo di acciaio che trova largo impiego nell’industria petrolifera. Fra i rifiuti più diffusi nel mondo, i mozziconi rilasciano delle sostanze chimiche che inquinano l’ambiente e uccidono diversi pesci. Il problema potrebbe essere ridotto riciclandoli per nuovi usi. «Quando si cammina per strada, si vedono mozziconi dovunque, sui marciapiedi o sull’erba», osser-
In particolare si fa strada l’ipotesi che le due azioni siano una reazione all’arresto, avvenuto il mese scorso, di sei membri della formazione Lotta rivoluzionaria (Ea), il principale gruppo armato greco, detenuti ad Atene proprio nel carcere di massima sicurezza di Korydallos dove è stata fatta detonare la bomba di giovedì. Secondo la polizia gli
Marocco, i cristiani ancora nel mirino Decine di missionari espulsi: «Terrorismo religioso» di Rossella Fabiani
RABAT. Decine di missionari cristiani sono stati espulsi dal Marocco con l’accusa di «terrorismo religioso». La decisione è stata presa dal re Mohamed VI ed è stata pubblicamente appoggiata dal Consiglio Superiore degli Ulema. Secondo l’accusa, l’intenzione dei religiosi cristiani era quella di «deviare i bambini marocchini dalla loro fede». Ufficialmente, né le autorità politiche di Rabat né la Chiesa parlano di conflitto aperto fra islam e cristianesimo in Marocco. Tuttavia, l’espulsione dei cristiani di varie nazionalità è un fatto incontestabile ed è la prova che il Marocco, sotto la guida spirituale del suo sovrano, è deciso a mantenere manu militari l’identità islamica per tutti i suoi cittadini non permettendo di cambiare religione a chi lo desidera. I primi ad essere espulsi sono stati i lavoratori dell’orfanotrofio cristiano Village of Hope nella cittadina di Ain Leuh, nella regione dell’Atlante. Si occupavano di 33 bambini e il progetto andava avanti con donazioni e fondi privati. Le accuse («proselitismo» e voler «rovinare la fede musulmana») sono gravi e pesanti, visto che i cristiani del Village of Hope si occupavano semplicemente del benessere dei bambini orfani. Secondo la legislazione del Marocco gli accusati dovrebbero essere imputati e portati in tribunale per essere giudicati. Ma il governo ha voluto «evitare tensioni e ha preferito non mettere quelle persone in prigione», ha dichiarato Khalid Naciri, portavoce dell’esecutivo maghrebino. Da parte sua l’arcivescovo di Tangeri, monsignor Santiago Agrelo, ha manifestato in quella occasione l’auspicio «che le persone godano di libertà di coscienza e di libertà religiosa». Il prelato auspicava anche l’impegno e il coinvolgimento dell’Europa che poteva essere di grande aiuto in questa direzione. Ma nessun governo europeo, fino ad oggi, ha voluto affrontare il problema dell’espulsione dei cristiani in Marocco per non danneggiare i rapporti economici con il Paese maghrebino e impedire anche tensioni tra gli immigrati marocchini in Europa. Soltanto il ministro degli Esteri dei Paesi Bassi, Maxime Verhagem, ha espresso il rammarico del suo governo per l’espulsione «di persone pacifiche che hanno curato i bambini
per dieci anni». Da marzo l’espulsione dei cristiani è continuata senza sosta. Fino ad oggi più di 80 cristiani sono stati espulsi o invitati a lasciare il Paese. Sempre con la stessa accusa formale: fare proselitismo della religione cristiana in mezzo ai musulmani e rovinare la loro fede islamica. «La sicurezza spirituale dei musulmani è fondamentale e lo Stato la deve difendere», ha affermato l’imam e deputato di Casablanca, Abdelbari Zemzemi.
L’ambasciatore degli Usa, Samuel Kaplan, aveva già protestato lo scorso marzo per l’espulsione dei cristiani, ma le sue parole non sono state ben accolte negli ambienti diplomatici di palazzo. Il partito islamista “Giustizia e Sviluppo”, fondato da Abdussalam Yassine, è intervenuto nella controversia. L’avvocato e deputato della formazione islamista, Mustafa Ramid, ha parlato di «turbamento emozionale del bambino di 12 anni, Omar, dopo la sua conversione al cristianesimo nel collegio americano». È importante ricordare il fatto che la presenza e lo sviluppo di cellule islamiste di al-Qaeda nel Maghreb e nell’Africa occidentale ha messo i cristiani nell’occhio del ciclone. Si sa da molti anni che uno dei principali obiettivi di alQaeda è l’espulsione degli americani, degli ebrei e dei cristiani dalle terre arabe, considerate dominio esclusivo dell’Islam. Gli arcivescovi di Rabat e Tangeri, la Nunziatura Apostolica e la rappresentanza ufficiale delle chiese protestanti hanno chiesto formalmente spiegazioni al ministro dell’Interno, Taieb Cerkaoui, sulla espulsione dei cristiani. Ma fino a questo momento non è arrivato nessun ulteriore chiarimento da parte ministeriale. Secondo la Costituzione del regno alawita del Marocco, l’Islam è la religione dello Stato (Articolo 6) e i cittadini marocchini, anche se lo volessero, non hanno la libertà di scegliere una religione che non sia l’Islam. Per i cristiani che vivono nei Paesi dell’Africa del Nord è sconsigliato, o meglio vietato, parlare di religione con gli altri cittadini. Non è più un segreto che esiste una chiesa sotterranea non solo in Marocco, ma anche in Algeria e in Tunisia. Sono cristiani autoctoni che hanno deciso di abbracciare la loro fede e di viverla in silenzio per evitare le persecuzioni.
L’arcivescovo di Tangeri ha manifestato l’auspicio che «tutti possano godere di libertà di coscienza e di culto»
attentati potrebbero essere opera diretta di Ea o del vicino gruppo Cospirazione dei nuclei di fuoco, attivo anche a Salonicco. La formazione insurrezionalista Ea è la stessa che nel 2007 rivendicò l’attentato contro l’ambasciata americana ad Atene con un missile anticarro, ma dopo i recenti arresti e il sequestro di molte armi ed esplosivi le forze di polizia greca ritenevano di aver definitivamente smantellato il gruppo. La polizia ha invece escluso che la bomba di Salonicco abbia qualcosa a che vedere con la visita del premier turco Recep Tayyp Erdogan: «Non c’è ragione di crederlo», ha riferito il portavoce della polizia Thanassis Kokkalakis.
va Jun Zhao, dottorando all’università Jiaotong di Xian, nel centro del Paese. «Per questo ho pensato che fosse davvero importante realizzare un progetto legato alla protezione dell’ambiente». Lo studio è stato pubblicato recentemente sulla rivista americana Industrial & Engineering Chemistry Research.
Zhao e altri colleghi cinesi hanno spiegato di aver scoperto che il “succo” di mozzicone poteva proteggere dalla corrosione un tipo di acciaio, denominato N80 utilizzato nell’industria petrolifera, quando veniva immerso nell’acido cloridrico a 90 gradi. Questo tipo d’acciaio è spesso utilizzato per fabbricare le trivelle di perforazione, la cui corrosione costa ogni anno milioni di dollari alle compagnie petrolifere. L’effetto anti-corrosivo è dovuto ad una sostanza prodotta dalla combustione di nicotina e catrame.Guy Davis, consulente di materiali di Baltimora, definisce i risultati dello studio «molto convincenti». Con un altro ricercatore, ha già studiato l’uso di estratti di tabacco sull’acciaio e l’alluminio. «Il tabacco sembra essere uno dei migliori inibitori a base vegetale» della corrosione, spiega. «Ma il suo uso ha dei limiti, nota, perché può favorire la muffa con il tempo e sprigiona un odore nauseabondo».
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il personaggio della settimana Era lo “sparring partner” di Cameron, ora deve trascinare l’Inghilterra fuori dalla crisi
Baronetto, 38 anni, tesoriere della Regina È stato il più giovane Tory eletto alla Camera dei Comuni. Oggi è il più giovane ministro del Tesoro dai tempi del padre di Churchill di Maurizio Stefanini ell’antica Roma in Cancelliere (Cancellarius) era l’usciere che stava di fronte al Cancellus di divisione tra il giudice in udienza e il pubblico del tribunale; nell’Italia di oggi è il funzionario ausilare del giudice che complila il verbale del processo; in Germania è il capo del governo; in America Latina il ministro degli Esteri; in Francia il ministro della Giustizia; e in Svizzera una specie di sottosegretario alla Presidenza. Poi c’è il Regno Unito, nel cui governo di Cancellieri ce ne sono ben tre. Quello che conta di meno è il Cancelliere del Ducato di Lancaster: feudo il figlio del cui titolare nel 1399 fece un golpe contro re Riccardo II, proclamandosi Enrico IV; per cui da allora alla carica sono collegati i possedimenti immobiliari personali del Sovrano, distinti da quelli della Corona. In pratica ormai da secoli questo tipo di Cancelliere non amministra più niente, ma si limita a far parte del governo senza alcun portafoglio diretto: una sinecura per leader in ascesa o in discesa, che fu data anche a Winston Churchill nel 1915 quando lo cacciarono da Primo Lord dell’Ammiragliato dopo il disastro dei Dardanelli, per non infliggergli l’umiliazione di buttarlo fuori anche dal governo.
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Poi c’è il Lord Cancelliere, incarico che ebbe anche il Tommaso Moro santo martire della Chiesa Cattolica e autore dell’Utopia, e che una volta era una domanda d’obbligo negli esami di Diritto Costituzionale Comparato, per l’essere contemporaneamente membro di tutti e tre i poteri: Esecutivo come Ministro della Giustizia, Legislativo come Presidente della Camera dei Lord, Giudiziario come Capo appunto del Giudiziario. Ma con la Legge di Riforma Costituzionale del 2005 quest’ultimo incarico è stato affidato a un Lord Chief Justi-
ce nuovo di zecca, e anche la Camera dei Lord si è dotata di un Lord Speaker eletto dai suoi membri. Meno studenti bocciati...
Infine, il Cancelliere dello Scacchiere: Chancellor of the Exchequer. “Scacchiere” che poi era una specie di abaco: una tovaglia di tre metri per uno e mezzo con sopra un reticolo somigliante appunto a una scacchiera, con cui veniva contate le entrate del Regno. Insomma, è quello che altrove è definito Ministro delle Finanze e del Tesoro. Anche qui i suoi poteri sono stati di recente ridotti, quando nel 1997 alla Banca d’Inghilterra è stata garantita l’indipendenza nella determinazione dei tassi di interesse. Ma, in un Paese la cui stessa democrazia si basa sul principio No taxation without representation, il Cancelliere dello Scacchiere resta comunque non solo uno dei quattro Great Offices of State, ma il secondo in importanza dei quattro: dopo Primo Ministro, e prima dei ministri degli Esteri e dell’Interno. Come il Primo Ministro, e a differenza di Esteri e Interno, il Cancelliere dello Scacchiere deve essere membro della Camera dei Comuni, che essendo la sola elettiva sola ha competenza in materia finanziaria e fiscale, proprio in omaggio al principio del «niente tasse senza rappresentanza». Forse non significa niente, ma mentre ci sono state Margaret Thatcher a Downing Street tra 1979 e 1990, Margaret Beckett come Foreign Secretary tra 2006 e 2007, Jacqui Smith tra 2007 e 2009 in quell’incarico di Home Secretary dove ora è andata Theresa May, nessuna donna è mai stata Cancelliere dello Scacchiere. E Gordon Brown non è stato che l’ultimo di una lunga serie di Cancellieri dello Scacchiere poi diventati Primi Ministri di cui fanno parte ad esempio anche John Major, James Callaghan, Harold Macmillan, Neville Chamberlain, Winston Churchill, Stanley Baldwin, Andrew Bonar Law, David Lloyd George, Herbert Henry Asquith, Benjamin Disraeli, William Gladstone. Ma tra i Cancellieri dello Scacchiere ci fu anche un premier mancato: il conservatore Lord Randolph Henry Spencer-Churchill, il papà di Winston, che era asceso alla carica il 3 agosto del 1886, a 37 anni. Ma contrasti con i colleghi lo costrinsero alle dimissioni il 22 dicembre, nel 1892 anda-
rono al potere i liberali, e dal 1893 iniziò a manifestarsi quella malattia che lo avrebbe portato alla tomba entro i 45 anni. Probabilmente sifilide, anche se la cosa in tempi recenti è stata contestata.
Dai tempi di Randolph Churchill, comunque, nella seconda carica del governo non era mai andato un titolare così giovane come George Gideon Oliver Osborne: il trentottenne, anzi non ancora visto che è nato il 23 maggio 1971, nuovo cervello economico del governo di coalizione Cameron-Clegg. Ma d’altra parte nel Regno Unito accanto al Governo di Sua Maestà esiste anche il Governo Ombra dell’Opposizione di Sua Maestà, e lì Osborne era diventato Cancelliere dello Scacchiere ombra addirittura a 33 anni, dopo essere stato eletto deputato a trent’anni. Nel ricordare questa carriera napoleonica è giusto ricordare che Osborne non è propriamente quel che si definirebbe un self made man. Lui persionalmente ha una fortuna di 4 milioni di sterline. La sua famiglia proviene dall’Ascendancy: l’aristocrazia anglicana che in Irlanda mantenne a lungo il quasi monopolio del potere politico e economico, fino allo sviluppo del nazionalismo cattolico nella seconda metà dell’800. Lui stesso è erede del titolo di Baronetto di Osborne, il cui attuale titolare è suo padre Peter, diciassettimo possessore della carica. Anche se ormai quel feudo, in quella Contea di Tipperary resa nota dalla famosa canzone, fa parte della Repubblica d’Irlanda indipendente. Lui ha studiato nelle scuole più esclusive: prima la Saint Paul’s School di Londra; poi il Magdalen College di Oxford, dove si laureato in Storia. E a Oxford ha fatto anche parte dell’esclusivissimo Bullington Club: un ristretto circolo in cui si entra solo per invito, e nel quale senza essere ricchissimi non si sopravvive; non solo per le spese di rappresentanza, ma anche per i danni che bisogna poi pagare, nelle gazzarre goliardiche che hanno reso il club famigerato. Ma anche Cameron ne ha fatto parte: così come, tanto per fare qualche altro nome, il sindaco di Londra Boris Johnson; il già citato Randolph Churchill; i futuri sovrani Edoardo VII e EdoardoVIII; il successivamente re di Da-
15 maggio 2010 • pagina 31
Da Tipperary allo Scacchiere George Gideon Oliver Osborne nasce il 23 maggio del 1971 a Londra, primogenito di quattro fratelli nella famiglia di Sir Peter Osborne, 17° baronetto di Osborne di Ballentaylor nella Contea di Tipperary (la sua dinastia fa parte dell’aristocrazia anglo-irlandese, conosciuta in Irlanda come The Ascendancy). Osborne studia al Magdalen College della Oxford University, dove si laurea in Storia Moderna. Nel 1994 entra nel Conservative Research Department.Tra il 1995 e il 1997 lavora per il ministero dell’Agricoltura e per l’ufficio politico di Downing Street. Tra il 1997 e il 2001 lavora per il leader dei Tory, William Hague come speech writer e segretario politico. Ruolo in cui resta anche sotto la leadership di Michael Howard e David Cameron. Nel 2001 viene eletto alla Camera dei Comuni nel collegio di Tatton e diventa il più giovane deputato conservatore della storia. Dopo le ultime elezioni, diventa Cancelliere dello Scacchiere.
nimarca Federico IX; John Profumo, il ministro conservatore poi incappato nel famoso scandalo; Cecil Rhodes, che sarebbe poi diventato il grande araldo dell’imperialismo britannnico; e anche il principe russo Felix Yussupov, uccisore di Rasputin. Possiamo ricordare ìanche la moglie Frances, scrittrice, che ha due anni più di lui e che ha sposato il 4 aprile 1998, avendone Luke, Lucy e Liberty. Il suocero è infatti David Howell: barone di Guildford, ministro di Energia e Trasporti con Margaret Thatcher e attuale vice capogruppo conservatore ai Lord. Tuttavia, malgrado il titolo il papà di Osborne si è anche sporcato le mani con l’imprenditoria, partecipando alla fonda-
le dispendiose mattane del Bullingdon Club e a studiare trovò il tempo per dirigere la rivista dell’Università. E prestissimo si mise a lavorare presso il Servizio Sanitario Nazionale, dove doveva registrare i nomi di chi moriva a Londra, per poi passare ai grandi magazzini Selfridges. Ovviamente era un ripiego, in attesa di realizzare il suo sogno di diventare giornalista. Ma prima che un posto in una redazione gliene si offrì un altro come ricercatore presso il Partito Conservatore, e così nel 1994 ne divenne capo della Sezione Politica. Poi tra 1995 e 1997 fu consigliere del ministro dell’Agricoltura, Pesca e Alimentazione Douglas Hogg, proprio in piena emergenza Mucca Pazza. Tra
A 13 anni cambia nome, da Gideon a George: «Fu il mio piccolo atto di ribellione. E mia madre, a sorpresa, mi diede ragione» zione di una fabbrica di carta da parati. E lui iniziò a dare prove di indipendenza a 13 anni, cambiandosi in George l’originale nome di Gideon.
«Fu il mio piccolo atto di ribellione», avrebbe spiegato in un’intervista dopo la nomina a Cancelliere dello Scacchiere Ombra.“Non mi era mai piaciuto quel nome. Quando finalmente ebbi il coraggio di dirlo a mia madre lei mi rispose: “e neanche a me”. Così decisi di essere George come mio nonno, che era stato un eroe di guerra, La vita è più semplice da George». A Oxford oltre a partecipare al-
1997 e 2001 scrisse i discorsi per il leader conservatore William Hague. E sia con Hague che con Michael Howard e David Cameron continuò ad avere un ruolo da sparring partner nelle sedute con cui questi si preparavano alle interrogazioni al Primo Ministro: in pratica, svolgendo il ruolo di Tony Blair.
Ma nel 2001 arriva appunto la svolta, in quella circoscrizione di Tatton che si trova poi nel Cheshire: proprio la Contea del bizzarro gatto di Alice nel Paese delle Meraviglie, che nella traduzione italiana è a volte chiamato Stregatto. In modo ef-
fettivamente altrettanto bizzarro del felino che a volte spariva lasciando solo il suo sorriso, in quella tradizionale roccaforte conservatrice nel 1997 era stato eletto il giornalista della Bbc Martin Bell: come indipendente, e grazie all’appoggio tattico di laburisti e liberali contro Neil Hamilton. Un esponente della destra conservatrice sostenitore di pena di morte e diritto a vendere organi, che aveva fatto causa alla stessa Bbc dopo la rivelazione di suoi contatti con gruppi neo-nazisti europei. Osborne riuscì appunto a recuperare quel seggio, vincendo con 8611 voti di scarto e diventando il più giovane membro conservatore della Camera dei Comuni. E nel 2005 fu rieletto portndo il suo vantaggio a 11.731 voti: il 51,8%. Nel settembre del 2004 Osborne entrò dunque per la prima volta nel Gabinetto Ombra come sottosegretario: per la precisione, Shadow Chief Secretary to the Treasury. E nel maggio 2005 passò a sorpresa allo Scacchiere, sia pure sempre Ombra. Fu una sorpresa: ma Hague dopo aver dato nel 2001 le dimissioni da Premier ombra per la sconfitta aveva rifiutato di tornare in posizione subordinata; e Cameron aveva preferito l’Educazione: meno prestigiosa, ma con più impatto immediato presso gli elettori. Quando poi a dicembre Howard lasciò la carica di leader conservatore si pensò dunque anche a Osborne come suo successore, ma lui stoppò subito: va bene il ragazzo prodigio, ma non oltre certi limiti. E l’incarico andò così a Cameron, per cui Osborne ha fatto lealmente da responsabile della campagna elettorale, dopo che i due si fatti a vicenda i padrini dei rispettivi figli. Per questo si è parlato di un rapporto tra i due come quello che ci fu tra Blair e Brown a metà degli anni ’90; ma a parte che lui ha riservato a Brwon critiche durissime talvolta tacciate di estremismo, di nuovo Osborne ha smentito ogni ambizione a Downing Street. Almeno per il momento. Mentre Cameron spiega di averlo scelto «non per amicizia, ma perché è la persona giusta al posto giusto». Per fare cosa, però? Nell’ottobre del 2005 Osborne stabilì un comitato per studiare una semplificazione del sistema fiscale, e la proposta che ne uscì fu una flat tax del 22%, con una quota di esenzione elevata dalle 4435 sterline alle 10.000-15.550. Ma
questo piano non è stato poi incluso nel programma conservatore, e se pure lo fosse stato sarebbe presumibilmente caduto dopo l’accordo di coalizione con i liberali.
In compenso, Osborne è un fervido sostenitore della sterlina, e in questo campo sono stati i liberali a dover invece rinunciare al loro favore per l’euro. Curiosamente, proprio i liberali lo avevano duramente contestato in un passato anche recente. Ad esempio, nel dicembre del 2008 il portavoce liberale agli Interni Chris Huhne aveva chiesto di indagare su una sua presunta richiesta di un finanziamento da 50mila sterline al magnate dell’alluminio russo Oleg Deripaska, e nel 2009 sempre i liberali lo avevano accusato di aver evaso 55mila sterline al fisco col cambiare l’ordine della sua prima e seconda casa: una storia per la quale è tuttora sotto inchiesta. E durante l’ultima campagna ha fatto solo due discorsi: non solo perché impegnato a gestire quelli di Cameron, ma perché laburisti e liberali lo avevano individuato come un punto debole della squadra conservatrice. Immagine di radicalismo antifiscale e di vicinanza ai neocon Usa a parte, vari imprenditori hanno rilevato come il neo-Cancelliere dello Scacchiere non abbia «nessun retroterra economico o aziendale». Non è appunto laureato in Economia, e neanche ha fatto il manager. La situazione economica internazionale impone però tagli anche al Regno Unito, e proprio per il suo profilo ultraliberista Osborne è considerato il più credibile per questo compito. Il disavanzo è infatti ormai a 163 miliardi di sterline, oltre l’11% del Pil. Il deficit commerciale è schizzato, nel mese di marzo, a 7,5 miliardi di sterline contro i 6,4 previsti da un panel di economisti, con le importazioni cresciute del 5,2% contro l’1% di aumento dell’export, malgrado la svalutazione della sterlina. Decisa come prima mossa simbolica una riduzione del 5% dello stipendio agli stessi ministri, altri 6 miliardi di sterline di costi saranno abbattuti nei prossimi mesi, ma difficilmente basteranno. Cresce dunque l’ipotesi di un aumento della tassazione su capital gain e dell’Iva che potrebbe passare dal 17,5 al 20% su numerosi beni di consumo. Se funziona, bene. Se no, si sapeva già che Osborne era a rischio di impopolarità.