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È la differenza di opinioni quella che rende possibili le corse di cavalli
Mark Twain
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 18 MAGGIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Un “lince” salta su un ordigno. Calderoli dice: «Andiamocene», ed è subito polemica nel governo
Ancora sangue italiano Chi ha ucciso il martire “rosso” di Bangkok?
Due soldati uccisi e due feriti (uno di loro è donna) in un attentato vicino a Herat.Le famiglie:«Che il loro sacrificio serva a qualcosa» TRA ANNUNCI E RETORICA
DOV’È BALA MORGHAB
Solo Di Pietro oltraggia il silenzio
Una Fortezza Bastiani in Afghanistan
La morte di Khattiya Sawasdipol serve all’esercito e agli insorti. Ma non ai thailandesi che vogliono la pace Osvaldo Baldacci • pagina14
di Riccardo Paradisi
di Luisa Arezzo
toccato a Bossi bacchettare il Calderoli: «Dall’Afghanistan non si può scappare: sarebbe una fuga inspiegabile», ha detto il Senatur dopo che l’ex delfino aveva tuonato: «Andiamocene!». Ma anche la voce di Di Pietro è risuonata stonata nella drammaticità di ieri: «Adesso via da questa guerra folle e sanguinaria».
ulla carta militare appesa alla parete del Regional Command West, a Herat, Bala Morghab è un puntino tra le montagne, a ridosso del Turkmenistan. In realtà, arrivandoci con l’elicottero, oltre la corona di monti (dove i taliban hanno i loro maggiori insediamenti) si apre la vallata fertile e strategica del Morghab.
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Come salvare la libertà religiosa in Europa
I leghisti contro l’ipotesi di nominare un ministro «anti-Tremonti» al governo al posto di Scajola
B&B: aria di scontro
Bossi e Berlusconi ai ferri corti su alleanze,manovra e carceri:in attesa della stretta sul federalismo,è sfida per stabilire chi comanda nel governo SCONTRO SULLA LEADERSHIP
Arriva alla Corte di Giustizia di Strasburgo il ricorso del governo italiano contro la sentenza che ha vietato il Crocifisso nelle scuole
TRA PROVINCE E COMUNITÀ
Che cosa c’è Lo Stato costa davvero dietro troppo. la lite su Casini Tagliamolo di Giancristiano Desiderio
di Gianfranco Polillo
assi per i casini di ieri. Ma come si fa con quelli di oggi? Ieri c’erano i democristiani che davano fastidio, ma oggi che quelli sono qui e non lì, come si può dare la colpa a Casini della confusione che regna nella maggioranza e adesso addirittura nel governo? Bossi e Berlusconi litigano, sia pure a distanza, su Casini.
atti e ribatti, dopo tanto tergiversare il momento della verità è arrivato. Non ci sarà tregua per la nostra economia, ma un clima ancora più pesante. Non siamo la Grecia, né la Spagna né il Portogallo. Non siamo nemmeno quel “bordello”che indica l’Economist, ma qualcosa bisogna pur fare per affrontare la crisi.
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I QUADERNI)
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Luca Galantini • pagina12
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WWW.LIBERAL.IT
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IN REDAZIONE ALLE ORE
L’islam moderato esiste: adesso dobbiamo farlo crescere Secondo un sondaggio del Middle East Forum, il 20% dei musulmani accetta l’ebraicità dello stato di Israele Daniel Pipes • pagina16 19.30
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Afghanistan. Massimiliano Ramadù e Luigi Pascazio sono morti, Cristina Buonacucina e Gianfranco Scirè sono rimasti feriti
Nuovo attacco agli italiani Colpito un lungo convoglio che da Herat andava a Bala Murghab «Non siamo noi il bersaglio: è un attentato all’Isaf», dice la Difesa di Pierre Chiartano embra essere stata una fatalità, se è mai possibile usare questo termine in una guerra. E in Afghanistan di guerra si tratta. Ma l’esplosione che ieri mattina ha colpito un convoglio multinazionale nell’ovest dell’Afghanistan è costata all’Italia due nuove vittime. Il sergente Massimiliano Ramadù e il primo caporal maggiore Luigi Pascazio erano dentro a un blindato Lince, posizionato nel nucleo di testa di una colonna composta da una quarantina di automezzi di diverse nazionalità, partita da Herat e diretta a Bala Murghab. La deflagrazione è stata potente e improvvisa, «innescata da un ordigno ad alta potenzialità». I cosiddetti Ied (Improvvised explosive device) bombe fatte in casa, costruite con esplosivo ricavato da altri ordigni e con detonatori e inneschi abbastanza semplici. Per loro non c’è stato alcuno scampo. All’interno del mezzo c’erano anche Cristina Buonacucina e Gianfranco Scirè, rimasti gravemente feriti, ma non in pericolo di vita. I militari italiani facevano parte del 32esimo Reggimento guastatori della Brigata alpina Taurinense, la versione italiana degli Hurt Locker resi noti dal film che ha vinto l’Oscar. Sono loro ad aver il compito di bonificare e controllare il percorso del convoglio durante il trasferimento. Altri controlli vengono invece svolti nelle ore e nei giorni precedenti il viaggio, com mezzi come il drone senza pilota Predator, dagli aerei Amx da ricognizionee anche dai satelliti del sistema Cosmos Skymed. In questo caso la destinazione del convoglio era la zona ”caldissima” di Bala Murghab. Una postazione avanzata detta Fob (Forward observation base) che si trova all’incrocio di uno snodo fondamentale per i signori dell’oppio. Dopo la primavera i raccolti di papavero prendono la
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strada delle ex repubbliche sovietiche per la raffinazione. Si calcola si tratti del 50 per cento di tutto l’oppio afgano. In passato in quella zona gli scontri erano stati durissimi. Il generale Massimo Fogari, capo ufficio Pubblica informazione dello Stato maggiore Difesa ha fatto notare come l’attentato non sia da imputare ad un attacco contro il contingente italiano – in modo specifico – ma contro l’Isaf, vista la composizione multinazionale del convoglio.
E altri due soldati della Nato sono morti, sempre ieri, nel teatro centrasiatico in seguito all’esplosione di ordigni artigianali nell’ovest e nel sud del Paese, a poche ore dall’attentato contro un convoglio militare italiano. Lo riferisce un comunicato dell’Isaf, senza precisare la nazionalità delle due nuove vittime. Sale così a duecento il numero di caduti tra le forze Nato in Afghanistan, dall’inizio dell’anno e 25 i militari italiani morti dall’inizio della missione. E altre 43 vittime civili, tra cui
L’Antonov 24 sarebbe caduto in una zona montuosa, nel nord del Paese, controllata dalle milizie talebane.
LE VITTIME Le due vittime dell’attentato di ieri sono il sergente Massimiliano Ramadù e il caporalmaggiore Luigi Pascazio. Ramadù era nato a Velletri (Roma) l’8 febbraio 1977. Era in servizio dal 15 dicembre 1998 e lascia la moglie Annamaria Pittelli. Luigi Pascazio, nato a Grumo Appula (Bari) il 23 novembre 1985, non era sposato. Nel 2006 aveva vinto il concorso da volontario, al termine del quale, sulla base dei meriti conseguiti in servizio si può passare nei ruoli effettivi dell’Arma.
Il blindato Lince – tra i migliori e più sicuri di quelli in dotazione alle forze Nato – occupava la quarta posizione del convoglio ed è stato l’unico ad essere colpito. C’erano anche veicoli spagnoli, americani, afgani, stava-
I FERITI La soldatessa ferita nell’attentato è Cristina Buonacucina, caporale del 32esimo reggimento Genio “Taurinense”, originaria di Foligno. Nell’esplosione ha riportato la frattura di una vertebra lombare e quella di una caviglia. Il secondo ferito è Gianfranco Scirè, 28 anni, di Casteldaccia, in provincia di Palermo: ha riportato la frattura della tibia. Nessuno dei due, per fortuna, è in pericolo di vita; ma certo le condizioni di Cristina Buonacucina sono preoccupanti.
sei stranieri, si aggiungono all’elenco della giornata, a causa dell’incidente aereo occorso ieri a un volo di linea afgano.
dalle prime ricostruzioni, nessuno dei vertici militari parla di un attacco mirato e diretto agli italiani. «Nelle missioni inter-
no trasferendo circa 400 militari alla base avanzata di Bala Murghab, nel nord della regione ovest. È anche per questo che, secondo quanto emerso
nazionali i rischi e gli allarmi sono continui», ha spiegato il ministro della Difesa Ignazio La Russa. I militari sono «assolutamente consapevoli di questo», eppure non rinunciano alla loro missione, a «un’opera essenziale per dare una maggiore serenità a questo paese, per riportare la pace e la stabilità». I militari italiani e soprattutto i reparti guastatori e artificieri delle nostre forze armate sono estremamente preparati nella bonifica di questi ordigni. Ce ne sono di vari tipi: con innesco a distanza mediante radiocomando, contro questi sistemi in ogni colonna esistono dei mezzi dotati di jammer , dei dispositivi elettrionici che disturbano qualsiasi frequenza un telecomando possa utilizzare. Altri «disturbatori»intervengono direttamente sui circuiti elettri-
ci dei timer o dei detonatori. Poi ci sono gli Ied con piastra a pressione. Un rudimentale congegno meccanico che chiude il contatto mediante il peso del mezzo quando vi transita. Questi ultimi sono estremamente difficili da individuare per un occhio che non sia più che esperto. Poi ci sono inneschi all’infrarosso e magnetici. Le salme di Ramadù e Pascazio saranno rimpatriate in Italia nelle prime ore di mercoledì, i due feriti torneranno invece appena sarà possibile, ha detto La Russa. Scirè ha riportato una frattura alla tibia sinistra, Buonacucina delle fratture multiple. Da Roma, per riportare i feretri in patria, è già partito il nuovo comandante del Comando operativo di Vertice interforze, il generale Giorgio Cornacchione.Tutti i militari coinvolti appartenevano al 32esimo reggimento Genio Guastatori della brigata alpina Taurinense e nel contingente italiano in Afghanistan erano inseriti nella Task-Force Genio, unità tra i cui compiti c’è quello di controllare e bonificare gli itinerari percorsi dalle pattuglie e dai convogli militari. Allo stato attuale i soldati italiani dispiegati nella regione ovest del paese asiatico, sono circa 2.800.
Dal prossimo mese di giugno arriveranno circa mille uomini, rinforzi decisi dal governo nell’ambito della nuova strategia fortemente voluta dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama e approvata dalla Nato. Il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen ha espresso ieri a Bruxelles «il cordoglio per i militari
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Il ministro mette in dubbio la nostra presenza: «Andiamocene!»
E il Senatùr bacchetta Calderoli: «Restiamo!»
Governo e opposizione uniti sulla nostra missione. Ma Idv e sinistra radicale chiedono il ritiro delle truppe di Riccardo Paradisi
ROMA. «Dall’Afghanistan non si può scappare, una fuga sarebbe difficilmente spiegabile agli occhi del mondo occidentale. E comunque non si tratta di una decisione che l’Italia possa assumere da sola, visto che la lotta contro il terrorismo è un impegno-chiave per l’Occidente». Parole, quelle di Umberto Bossi, che suonano come una bacchettata per l’improvvido ministro leghista della semplificazione Roberto Calderoli che alla notizia dell’attentato in Afghanistan contro i nostri militari aveva messo in dubbio l’opportunità di restare in quel teatro d’operazioni: «Al di là della perdita di vite umane, che veramente fa spaccare il cuore, bisogna verificare se questi sacrifici servano o meno a qualcosa. Però c’è una comunità internazionale, vediamo di prendere delle decisioni tutti insieme».
I parenti delle vittime scossi dal dolore hanno commentato: «Che almeno questa tragedia serva a qualcosa sia in Italia sia in Afghanistan» italiani uccisi in Afghanistan, e ha trasmesso le sue condoglianze alle famiglie delle vittime, al governo italiano e a tutti coloro che sono stati colpiti dal tragico evento». Lo riferisce la portavoce di Rasmussen, Carmen Romero. Il rappresentante dell’Alleanza, inoltre, ha aggiunto la portavoce, ha espresso il suo apprezzamento «per il solido contributo dall’Italia, che sta facendo moltissimo in Afghanistan» e «ha ringraziato gli italiani per il sostegno politico e operativo all’Alleanza», ha concluso Romero. Intanto, sempre ieri, Rasmussen presentava il rapporto del
gruppo di esperti incaricati di rivedere il concetto strategico dell’Alleanza per adattarla alle nuove sfide. Il rapporto è stato redatto da un gruppo di 12 esperti guidato da Madeleine Albright, ex segretario di Stato Usa, di cui fa parte anche l’ambasciatore italiano Giancarlo Aragona.
La decisione di rivedere il concetto strategico della Nato è del 2009, e con le raccomandazioni di ieri si apre la fase della discussione in seno all’Alleanza. Il documento sarà poi approvato dai capi di Stato e di governo della Nato nel vertice di novembre a Lisbona.
za e fermezza nel restare in Afghanistan». «Soprattutto in momenti così tragici – ha scritto Fini in un messaggio al Capo di Stato Maggiore – è necessario stringersi intorno ai nostri militari e ribadire convintamente la determinazione a proseguire nel nostro impegno fino al conseguimento degli obiettivi della missione internazionale». Il presidente del Senato, Renato Schifani, ha sottolineato che la missione è per la difesa della democrazia internazionale. La posizione del segretario Pd Pier Luigi Bersani non è diversa da quella sostenuta dal governo anche se non mancano sfumature polemiche come quella con cui Bersani invita a riflettere sull’evoluzione della missione: «Certamente noi non possiamo consentire che i talebani sconfiggano l’intera comunità internazionale, ma bisogna che riflettiamo sull’evoluzione di quella missione come sta per altro facendo il presidente Obama che ha espresso l’esigenza di un atto di responsabilità del governo afgano, un coinvolgimento più diretto e impegnativo per le potenze confinanti». L’Udc si appella invece alla «responsabilità nazionale delle forze politiche per essere e mostrarsi unite in un momento di lutto che non può significare arretramento».
Il Pd sostiene la linea della permanenza, anche se Bersani chiede un atto di responsabilità del governo afghano, un coinvolgimento più diretto e impegnativo per le potenze confinanti
Non c’è stato bisogno di arrivare a sedi internazionali per riflettere dunque sull’opportunità o no di restare in Afghanistan, lo stop alla sortita di Calderoli è arrivato dal leader padano Bossi in persona. Il quale ai cronisti che gli ricordano che lui stesso aveva chiesto dei tempi certi per il ritiro della missione italiana, risponde: «Si, io avevo chiesto un tempo per portare a casa i nostri militari, ora mi pare però che la realtà sia diversa. Non tutti gli alleati sono d’accordo e a decidere non è solo l’Italia, il governo italiano, sono tutti gli alleati». Bossi mette dunque un punto fermo nel dibattito sulla presenza italiana in Afghanistan chiudendo ogni spazio nella maggioranza a qualsivoglia ipotesi di exit strategy che peraltro nessuno in Parlamento – tranne l’Idv di Antonio Di Pietro – solleva esplicitamente. Il premier Silvio Berlusconi è il primo a sottolineare la «fondamentale importanza della missione in Afghanistan per la stabilità e la pacificazione di un’area strategica». Solco su cui stanno anche il ministro degli Esteri Franco Frattini: «la missione in Afghanistan resta per l’Italia una missione di pace, che continuerà e il titolare della Difesa, Ignazio La Russa, «la vera data di stabilizzazione e rientro dei nostri contingenti è quella del 2013. Entro quella data ci sarà un Afghanistan capace di contrastare autonomamente tutto ciò che puo’ avvenire». Al pari del premier, anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha espresso «cordoglio e vicinan-
A chiedere il ritiro delle truppe invece in modo esplicito è l’ex Pm Antonio Di Pietro. Secondo il leader dell’Idv: «Sono venute meno le ragioni per cui la comunità internazionale ha deciso di inviare truppe, non si tratta più di difendere la democrazia ma di essere coinvolti in una guerra tra fazioni». La compagnia di Di Pietro è tutta extraparlamentare. A invocare il ritorno a casa sono il segretario del Pdci Oliviero Diliberto, che parla di «sporca guerra già persa», e il leader di Rifondazione comunista Paolo Ferrero, che punta l’obiettivo contro Calderoli: «Presenti una mozione per i ritiro delle truppe». Anche i Verdi con Angelo Bonelli chiedono una exit strategy dall’Afghanistan che ormai diventata «Una guerra infinita». Per l’occasione si risente anche Marco Ferrando del Partito comunista dei lavoratori: che parla di ”guerra colonialista” e ricorda ai concorrenti della sinistra radicale e ormai extraparlametare: «Il Pcl, è l’unico partito della sinistra italiana a non aver mai votato questa missione».
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l’approfondimento
Secondo il presidente della società italiana di storia militare, restare in Afghanistan ormai ha poco senso
Perché stiamo ancora lì
Clausewitz insegna che ogni conflitto ha un momento culmine, passato il quale la bilancia pende da una sola parte: la sconfitta. Le sorti della guerra al Terrore sembrano segnate dalla vaghezza sull’identità del nemico. È ora di capirlo di Virgilio Ilari n Tutto quello che vorreste sapere sul sesso e non avete mai osato chiedere, di Woody Allen, c’è la scena di un coito vissuto dal punto di vista degli spermatozoi, rappresentati come “caschi blu”dell’Onu nella stressante attesa di essere lanciati da un aereo: tutti bianchi, tranne uno negro che mormora atterrito «che ci faccio io qui?». In realtà ogni spermatozoo sa benissimo cosa ci fa lì, semmai è il proprietario che generalmente ha le idee confuse circa il modo in cui li sta spendendo, per non parlare dei risultati a lungo termine. Noi europei lo sappiamo benissimo perché stiamo in Afghanistan. Per liberare le donne dal burqa! Direbbe l’on. Santanché. Per … direbbe l’on. Frattini. «Perché sto con gli Americani pure quando sbagliano», ha tagliato corto l’Amor Nostro. Di aver sbagliato i primi a esserne convinti sono da un pezzo proprio gli americani. Il “punto culminante” della Guerra al Terrore è già avvenuto anni fa. Nel 2003 sir John Keegan, guru militare deIla stampa britannica, sentenziò spocchioso che la fulminea conquista di Baghdad aveva definitivamente seppellito Clausewitz. Ma è proprio Clausewitz che ci somministra i
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concetti per intendere quel che percepiamo empiricamente. Uno di questi è appunto quello di “punto culminante”, l’evento alla cui vigilia tutti i diversi esiti della guerra sono compossibili, ma trascorso il quale la bilancia pende inesorabilmente e irreversibilmente da una parte, per quanto a lungo possa ancora durare la guerra. Nella campagna di Russia, che suggerì a Clausewitz il concetto, il punto culminante fu la decisione di Napoleone di non svernare a Smolensk e di continuare l’avanzata su Mosca, fidando nella fallace comparsa di un sole ingannatore.
Ma il comandante Mahan ci ha spiegato che nell’arco delle guerre napoleoniche del 18031814 il punto culminante avvenne quasi all’inizio; fu la distruzione della flotta francospagnola a Trafalgar, che precedette di due mesi la strepitosa ma inutile vittoria napoleonica di Austerlitz. E giustamente l’impero britannico fu poi costruito attorno a Trafalgar square, mentre alla gare d’Austerlitz ci scendevano Sherlock Holmes e il dottor Watson alla caccia di Moriarty. Nella guerra del Pacifico l’evento decisivo fu la distruzione delle portaerei
giapponesi a Midway, anche se la guerra si protrasse ancora per tre anni e mezzo e alla fine ci volle l’atomica. Nella “guerra al terrore”, poi, la sconfitta era già annidata nella megalomane e raggelante vaghezza sull’identità del nemico e sugli scopi della guerra. Ma di “romanzi di Alessandro” ne abbiamo avuti abbastanza. Saremo pure il Pianeta Venere (e che c’è di male poi?), ma queste cose non c’era un solo europeo che non le vedesse chiaramente (a parte gli esperti che componevano peana nel 2003, gli stessi che senza autocritiche si sono poi dedicati ai de profundis dal 2005). E allora perché ci siamo andati? La risposta l’ha già data Berlusconi. Perché è futile occuparsi del merito di una politica sulla quale nessuno stato europeo è minimamente in grado di incidere né da solo e meno che mai tutti insieme, mentre è essenziale per ciascuno dimostrarsi “leale”, e meglio ancora se “più leale”degli altri; almeno finché gli Stati Uniti continueranno a sembrarci la reincarnazione irreversibile della Roma Augustea, in grado di sopravvivere a Farsalo, Azio, Teutoburgo, Adrianopoli e Ctesifonte, figuriamoci al Vietnam e all’Iraq. Nell’agosto 2008, du-
rante la crisi della Sud Ossezia la Georgia minacciò di richiamare in patria metà del contingente che aveva in Iraq: ci accorgemmo così che ci aveva mandato duemila uomini, poco meno del massimo che l’Italia può mantenere in media operativi in Afghanistan per un intero anno. Che ci ha guadagnato la Georgia? D’accordo, noi mica siamo magliari!
Ma dal nostro punto di vista di nipotini dell’Eroe dei Due Mondi, chiediamoci: per l’esito della crociata liberale il nostro “peso” è davvero più “decisivo” di quello della Georgia? Conteremmo di più se (con un’enorme spesa militare aggiuntiva) fossimo in grado di triplicare il contingente? Saremmo più credibili se, dopo gli attentati che colpiscono i nostri soldati e i nostri cooperanti, non delegassimo le contromisure al Ris di Parma e alla procura della Repubblica di Roma? Ovvero se, invece di farci i fatti nostri trattando direttamente coi talebani buoni o cattivi lasciassimo lavorare tranquilli per gli affari loro quei peracottari degl’inglesi, per non parlare di americani, francesi, tedeschi … In definitiva, cara contessa, ci noterebbero di più se restiamo o se
ce ne andiamo? La novità del post-guerra fredda e del post-unione monetaria è che, singolarmente presi, tutti gli stati europei, incluse le expotenze coloniali, si trovano di fronte alle iniziative militari americane nella stessa situazione dell’Italia. L’ulteriore constatazione è che la somma di un fascio di debolezze è una debolezza al quadrato, e che dunque non vi sono alternative all’ognun per sé e Dio per tutti, come ha dimostrato una volta per tutte il ridicolo conato francese di mobilitare l’Europa “allargata” contro le decisioni americane sull’Iraq, finito come ricorderete con un umiliante 17 a 3. Attingendo all’esperienza ultrasecolare del British Empire, lo storico Brian Ferguson ha dato ai suoi studenti americani l’unico consiglio distillato dalla saggezza coloniale europea: spegnete i riflettori; rimettete il pittoresco burqa alle donne delle caste inferiori e ammettete la crema nativa nelle oasi civili create in mezzo alla barbarie; arruolate a libro paga gl’insorti (come il vostro geniale Petreus ha già fatto in Iraq), mantenete i preziosi sepoys ben barricati a Khyber Pass, pagate i costi col traffico dell’oppio se non vi bastano i
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Il convoglio attaccato stava trasportando mezzi e uomini in una regione di grandi scontri
Noi, in una Fortezza Bastiani circondata dai talebani
L’attentato è avvenuto verso Bala Murghab, un avamposto strategico vicino al Turkmenistan, fondamentale per la lotta al terrorismo di Luisa Arezzo ulla carta militare appesa alla parete del Regional Command West (Comando della regione occidentale) a Herat, Bala Morghab è un puntino tra le montagne, a ridosso del Turkmenistan. In realtà, arrivandoci con l’elicottero, oltre la corona di monti (dove sono disseminati decine e decine di micro villaggi da cui gli elicotteri si allontanano grazie al volo tattico sempre temendo un colpo di mortaio) si apre la vallata bellissima, fertile e strategica, del Morghab. Qui, nel 2008, è stata approntata una Fob: acronimo per Forward Operation Base: la lingua di Isaf è l’inglese, ma il significato poco attraente si capisce anche così: la Fob è una postazione avanzata, in questo caso ricavata all’interno di una ex cartiera che ancora porta i segni di quando era un comando dell’Armata Rossa, vecchi carri armati in disuso compresi.
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Quando vi arrivarono i primi soldati italiani, nell’agosto 2008, dovettero combattere per settimane prima di poter consolidare la base. I fanti aeromobili del 66° reggimento, affiancati da truppe afghane e americane vennero bersagliati con razzi e mortai dalle postazioni talebane sulle alture. A Bala Morghab i combattimenti più intensi li affrontarono l’estate scorsa i parà del 183° reggimento Nembo che uccisero decine di miliziani inclusi molti combattenti stranieri di al-Qaeda. Quell’area al confine con il Turkmenistan è sempre rimasta calda per la presenza di diverse tipologie di miliziani (talebani, narcos, trafficanti di armi e qaedisti) e perché la popolazione pashtun sostiene in molti villaggi i ribelli. Nel villaggio di Morghab, a solo 14 chilometri dal confine con il Turkmenistan, vivono 800 famiglie, una forbice di popolazione che oscilla fra le 2400 e le 3500 persone. Il condizionale qui è d’obbligo, perché il censimento è una parola sconosciuta nel paese. Ufficialmente, nell’intera area rimangono da mettere in sicurezza soltanto gli ultimi 40 chilometri, quelli incuneati tra gole ripide e strapiombi da paura. Sembra poca cosa. E invece è tantissimo. Perché qui ogni metro è stato conquistato durissimamen-
te. E perché qui mai nessuno dei nostri militari - ma la regola vale anche per gli americani che con gli italiani condividono, da separati in casa, la Fob Todd (dal nome di un militare Usa ucciso in combattimento) esce a cuor leggero e senza essere armato di tutto punto. Da una torretta della sede della polizia afghana poco lontana (trecento metri al massimo, almeno 15 minuti per arrivarci in colonna con i Lince - questo per dare un’idea del dissesto delle strade) il pericolo si tocca con mano: solo uno spiraglio consente di vedere la cinta oltre la quale la valle è in mano ai talebani. Guai a sporgersi di più: si potrebbe facilmente restare vittima di un cecchino. Sì, perché i talebani (e qui lo sono veramente un po’tutti, difficile distinguere “il falso dal vero”) circondano l’intera zona. E la minaccia degli ordigni improvvisati, come quello che ha ucciso ieri il sergente Massimiliano Ramadù e il Primo caporal maggiore Luigi Pascazio ferendo i soldati Cristina Buonacucina e Gianfranco Scirè (genieri del 32° reggimento), resta costante. Evidentemente, per ottenere successi, i miliziani hanno incrementato il potenziale esplosivo e del resto la strada che dalla base spagnola di Qal-i-Now conduce a Bala Murghab è una vera e propria mu-
lattiera sulla quale è facile occultare bombe da far esplodere a pressione o con radiocomando. Il distretto di Bala Morghab, dove erano diretti i nostri, è insieme a quello di Jaywand il principale per la produzione di oppio. Secondo l’ultimo rapporto dell’Unodoc, nel solo 2009 la produzione è aumentata dell’822% rispetto all’anno precedente. Un dato per tutti: nel 2009, gli ettari di terra afghana coltivata a oppio erano 123mila, 5.441 dei quali nella provincia di Badghis.
Una zona a lungo contesa tra insurgents e militari afghani che, con il supporto delle truppe Isaf, in questa valle hanno combattuto, attaccato e subito attacchi e perdite. Il fine era quello di riconquistare il controllo della valle, punto strategico perché di frontiera, ma soprattutto perché da qui passa una tratto della Ring Road, l’anello di asfalto che circonda tutto l’Afghanistan collegando tra loro le città principali. Per garantire la sicurezza all’interno di tutto il Paese, il primo obiettivo deve essere quello della libertà di circolazione e del controllo delle principali vie di comunicazione. E poi, a pochi chilometri, sempre nella stessa provincia, c’è Gormach, tradizionale roccaforte talebana. Infine, la Nato sta cercando di espandersi verso nordest anche per ricongiungere Herat a Mazar-i-Sharif, area a responsabilità tedesca. Gli insurgents della zona, invece, proprio non ne vogliono sapere: troppo importante mantenere il controllo di quel tratto della Highway 1, la Ring Road, appunto, per continuare a svolgere indisturbati i traffici illeciti con il Turkmenistan. Fawzia Koofi, vicepresidente della Wolesi Jirga (la camera bassa del parlamento di Kabul), ha detto senza tanti giri di parole che l’aria che tira da quellee parti al momento è tesissima, «perché si avvicina l’appuntamento del 29 maggio, con la jirga (assemblea) di pace da cui il presidente Hamid Karzai spera di ottenere la legittimazione nazionale necessaria per avviare il processo di reintegrazione dei Talebani di “basso livello” nell’ambito della riconciliazione». Ma anche perché si avvicinano le elezioni parlamentari in programma per settembre e perché per alcune bande attive in Afghanistan è il momento di trasferire il raccolto di oppio, che nel 2009, secondo dati dello Unodc, è fruttato ben 2,8 miliardi di dollari. «L’obiettivo è creare un’atmosfera violenta in vista del voto e di indebolire le forze della coalizione». Quest’estate saranno gli alpini della Taurinense a dover affrontare le insidie di questo (nel linguaggio militare) settore.
profitti del petrolio. Se lo fate per trent’anni invece di frignare a ogni cambio di presidente, alla fine avrete una colonia che perderete con ignominia nelle prossime due generazioni.
Donald Rumsfeld non è più segretario alla Difesa, ma la sua dottrina che non sono le coalizioni a decidere le missioni, ma le missioni a decidere le coalizioni, è rimasta pienamente in vigore in tutte le “missioni di pace” a guida americana. È rimasta in vigore perché non ha alternativa: non è pensabile che gli scopi e le politiche delle missioni vengano decise da un vociante consesso di callidi sherpa aggrappati al telefonino con tremebondi e latitanti ministri degli esteri. Paradossalmente qualche minima voce in capitolo ce l’hanno sul terreno proprio i militari, e davvero dobbiamo soltanto alle sapienti e stagionate alchimie della Nato il miracolo che elaborati pasticci di passeri e d’elefante come quelli presenti in Iraq e Afghanistan siano in grado non dico di condurre operazioni militari, ma semplicemente di organizzare patetiche processioni corazzate fuori dalle basi senz’altri incidenti che d’incappare per sfiga in qualche trappola esplosiva meno artigianale del solito. A che ci serva il cosiddetto esercito attuale possiamo dedurlo dallo spettacolo quotidiano delle guardie fisse di città e della scritta smart www.esercito.difesa.it che orna leggiadramente le fiancate dei nostri automezzi militari; dai soldi buttati per la mini-naja e i martinitt della Scuola Militare Teulié; dalle campionesse di nuoto che occhieggiano dal Calendesercito 2010; dalle pernacchie del consiglio comunale greco indirizzate ai gorgheggianti artiglieri del Capitano Corelli. Ma finalmente possiamo cantargliele sul muso ai nostri partner europei che montano in cattedra : «ahò, quanno ancora voi facevate er tattoo, noi ggià s’eravamo aresi!». A liberarci della sovranità, bene o male, nel 1992 ci siamo riusciti: ma è più dura liberarsi dai costosi regalia. I simulacri di quelli che furono un tempo veri eserciti nazionali continueranno ancora a lungo a figurare tra le spese assistenziali dei bilanci europei. Ma almeno rinunciassimo alle ipocrisie e chiamassimo le cose come stanno! Ad esempio non c’è nulla di più antistorico che dare ai reggimenti attuali i nomi ereditati dalle guerre mondiali e dalla guerra fredda. Dovremmo ribattezzarli, sempre in omaggio alle nostre tradizioni militari nazionali, con nomi più pertinenti ed evocativi della realtà attuale: che ne dite di “Loyal Britons (9/60th Rifles)”, “24e RTG (Tirailleurs Gaulois)”, “Cohors Alpina Equitata IV Italorum”, “Regulares de Bilbao” e “US’s German Legion”?
diario
pagina 6 • 18 maggio 2010
Peccati. Alla domenica di solidarietà, Benedetto XVI ha risposto invitando il Vaticano e i fedeli al pentimento
Il Papa e la Chiesa in castigo Sulla pedofilia, il Pontefice ferma la campagna contro la stampa di Luigi Accattoli omenica c’erano 200 mila persone a San Pietro solidali con il Papa ed è stato certamente un fatto positivo: egli conduce una grande sfida a se stesso, alla Chiesa e al mondo e va sostenuto. Ma è significativo come l’obiettivo primo che addita ai cristiani non sia mai il “confronto” con il mondo ma quello con il “peccato”, tant’è che riesce a non lasciarsi irretire nella polemica con chi l’attacca dall’esterno. Onestà, penitenza e radicalità sono le parole d’ordine con cui fino a oggi ha invitato i suoi a reagire alla “crisi” della pedofilia, che chiama “prova”.
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Mentre la Curia Romana, i media ecclesiali e le associazioni cattoliche si propongono di rispondere all’attacco del mondo – e la manifestazione di piazza San Pietro aveva anche questa valenza – il Papa concentra l’attenzione sulla vera causa del male che affligge la Chiesa e insiste nella sua diagnosi della “sporcizia”, che già aveva svolto da cardinale e che ha ripreso la settimana scorsa in un messaggio ai cattolici tedeschi accennando al “tempo difficile” che stiamo vivendo e parlando di “zizzania”. «Negli ultimi mesi – ha scritto nel messaggio in-
in quel testo Benedetto parla delle luci e delle ombre che si riscontrano oggi tra i cristiani (al Kirchentag “ecumenico” partecipano sia i cattolici sia i luterani) e con linguaggio evangelico così conclude: «La zizzania esiste anche in seno alla Chiesa e tra coloro che il Signore ha accolto al suo servizio in modo particolare. Ma la luce di Dio non è tramontata, il grano buono non è stato soffocato dalla semina del male».
Occorre porre in evidenza un fatto già segnalato dal portavoce papale, padre
Di sicuro, Ratzinger continuerà a riconoscere le responsabilità dei religiosi che si sono resi colpevoli di gravi errori e abusi viato sabato al Secondo Kirchentag Ecumenico che si teneva a Monaco di Baviera – ci siamo dovuti confrontare ripetutamente con notizie che ci vogliono togliere la gioia nella Chiesa, che la oscurano come luogo di speranza. Come i servi della parabola evangelica anche noi vogliamo chiedere al Signore: non hai seminato del buon seme nel tuo campo, da dove viene la zizzania?». Con questo tono pacato, che nulla nasconde ma neanche drammatizza,
Lombardi, all’inizio della visita in Portogallo (11-14 maggio): Benedetto XVI non ha mai accusato i media per quello che vengono scrivendo sullo scandalo degli abusi sessuali del clero verso i minori. E non perché non ne abbia avuto motivo, dalla campagna di fine inverno condotta dal New York Times ai giornali tedeschi che tentarono di coinvolgerlo personalmente in un caso riguardante l’arcidiocesi di Monaco ai tempi del suo episcopato. Il Papa non ac-
cusa i media per non distogliere l’attenzione della Chiesa dalla fonte prima della “prova”, che a suo parere è la “sporcizia”, cioè la “zizzania”, cioè il “peccato” e non certo l’eco amplificatore e in parte strumentale che ne danno i media. Egli sa bene che basterebbe una sua parola per scatenare gli ambienti di Chiesa in una controffensiva apologetica che potrebbe confondere l’intelligenza del fenomeno e distrarre dal primo obiettivo, che a suo parere è quello di porre la comunità cattolica in atteggiamento penitenziale.
C’è stata anzi un’occasione in cui le sue parole assunsero una tonalità quasi di riconoscenza per l’efficacia con cui i media avevano imposto alla Chiesa l’attuale ripensamento in vista di una vera purificazione: «Noi cristiani – disse il 15 aprile alla Commissione Biblica – anche negli ultimi tempi, abbiamo spesso evitato la parola penitenza, che ci appariva troppo dura. Adesso, sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter far penitenza è grazia e vediamo come sia necessario fare penitenza, riconoscere cioè ciò che è sbagliato nella nostra vita». La via “penitenziale” l’aveva già fatta formulare
con chiarezza in un comunicato di metà febbraio sul suo incontro con i vescovi irlandesi: vi si diceva che Benedetto XVI «consapevole che l’attuale e dolorosa situazione non si risolverà rapidamente» aveva «esortato i Vescovi ad affrontare i problemi del passato con determinazione e fermezza, e l’attuale crisi con onestà e coraggio». Da allora sono state numerose le occasioni in cui ha parlato di “penitenza” in «riparazione per i peccati di abuso»: nella lettera agli irlandesi del 20 marzo in particolare, e nella conversazione con i giornalisti durante il volo Roma-Lisbona dell’11 maggio, quando disse che «la più grande persecuzione alla Chiesa non viene dai nemici di fuori, ma nasce dal peccato» e che dunque i cristiani hanno «profondo bisogno di reimparare la penitenza». La riflessione papale ha poi aggiunto l’altro ieri, nel ringraziamento alla folla di Piazza San Pietro, una terza parola chiave – dopo “onestà” e “penitenza” – che è “radicalità”: «Le prove che il Signore permette ci spingano a maggiore radicalità e coerenza».
Mi è capitato nelle ultime settimane di tenere un paio di incontri con ambienti giovanili in merito allo scandalo pedofilia e di insistere sulla scelta “penitenziale” del Papa ma forte veniva l’obiezione, dai ragazzi, su che fosse e che valore avesse oggi la penitenza: «Che significa sul piano pratico?» Credo che Benedetto ce lo mostrerà, se la Chiesa lo seguirà nell’ardua scelta. Si vedrà che riconoscere il “peccato” e farne penitenza vuol dire ammettere pubblicamente e senza sconti le proprie responsabilità, chiederne perdono a Dio e agli uomini, riparare per quanto è possibile il danno, cambiare regole e vita perché non si ricada in tentazione. Se la Chiesa è sopravvissuta ai millenni è stato per questa concretissima pedagogia. www.luigiaccattoli.it
diario
18 maggio 2010 • pagina 7
Immatricolazioni giù del 7,4%. Male anche la Fiat (-27,3%)
Gli esperti annunciano forti disagi fino a mercoledì
Ue, mercato dell’auto in discesa dopo 10 mesi
Nube vulcanica, cancellati altri mille voli
ROMA. Le immatricolazioni di automobili nell’Europa a 27, con l’esclusione di Cipro e Malta, hanno registrato ad aprile 2010 una flessione del 7,4% a 1.134.701 vetture da 1.225.731 di aprile 2009. Si tratta del primo calo registrato negli ultimi dieci mesi. Lo comunica l’Acea, l’associazione dei costruttori europei di autovetture, che specifica che nei primi quattro mesi dell’anno le immatricolazioni sono salite del 4,8% a 4.809.647 auto da 4.587.826 dello stesso periodo 2009. Per quanto riguarda Fiat, aprile ha segnato una flessione del 27,3% a 87.630 vetture da 120.499, mentre nei primi quattro mesi dell’anno la flessione è stata del 3,6% a 409.947 auto da 425.253. La quota di mercato di Torino ad aprile è scesa al 7,7% dal 9,8% di aprile 2009 e dall’8% di marzo 2010, mentre nei primi quattro mesi dell’anno è scesa all’8,5% dal 9,3%. Per la Fiat si tratta di un dato particolarmente significativo, che non può non essere messo in relazione con la fine della stagione degli incentivi del governo.
LONDRA. Altra giornata al-
Il primo mercato europeo, comunque, resta quello tedesco nonostante a propria volta abbia registrato ad aprile una flessione del 31,7% con
l’insegna della paralisi, quella che ieri ha prodotto la cancellazione di mille voli nei cieli europei. La nube di ceneri vulcaniche proveniente dall’Islanda, non accenna ancora a diradarsi, continuando a creare particolare disagio nello spazio aereo di Gran Bretagna e Olanda.
Comunali, Bolzano al centrosinistra Riconfermato Spagnolli, il Pdl piomba nel caos di Angela Rossi
ROMA. Alleanza vincente tra centrosinistra e Sudtiroler Volkspartei a Bolzano. La coalizione ha infatti conquistato al primo turno il Comune più grosso del Trentino, regione dove si è votato per le comunali anche in altri 315 centri al di sotto dei tremila abitanti.
Luigi Spagnolli, sindaco uscente, resta quindi ben saldo sulla poltrona di primo cittadino, mentre il Pdl prende una sonora batosta. La forbice tra le percentuali dei due candidati risulta infatti molto larga: mentre Spagnolli ha raggiunto agevolmente il 50,41%, il candidato del centrodestra, Robert Oberrauch, si è attestato al 34,42 per cento. Un risultato attribuito alla litigiosità interna di un Pdl che non sembra trovare tregua neanche a Bolzano e nell’intera regione del Trentino e soprattutto che continua a litigare anche in campagna elettorale. Un partito frammentato, secondo il governatore dell’Alto Adige che ha affidato alle agenzie di stampa il suo commento a caldo. «Il centrodestra sta pagando per la frammentazione del Pdl, dove in questi giorni è successo di tutto – ha infatti dichiarato l’esponente Svp dell’Alto Adige, Luis Durnwalder – Di fronte a questa situazione mi sarei stupito se l’elettorato avesse ancora sostenuto i partiti di questa destra». Basso anche il risultato della destra di lingua tedesca nel capoluogo, con i Freiheitlichen che, pare, non riescano a raggiungere e superare nemmeno il 2%. Secondo Durnwalder «evidentemente gli elettori si rendono conto della differenza che c’è tra le promesse e la realtà dei fatti». Per quanto riguarda invece i risultati delle elezioni nelle varie province, tra le quali Pordenone, l’analisi del governatore altoatesino è positiva: «Le comunali sono andate molto bene – afferma ancora – anzi benissimo. La Svp ha perduto 2 sindaci in periferia, ma in cambio ne ha guadagnati altri 4. Si tratta – ha concluso – di un segnale positivo perché è un segnale che va nel senso della stabilità politica». Affluenza invece in calo di cinque punti e mezzo: dal 79,4% della scorsa
tornata elettorale, nel 2005, ieri si è recato a votare il 74,8% degli aventi diritto. Una percentuale frutto, secondo le prime analisi, delle divisioni interne al Pdl che sono state sotto gli occhi di tutti, soprattutto per quanto è accaduto a Merano dove i rappresentanti in seno al consiglio comunale del centrodestra hanno addirittura presentato una propria lista salvo essere sconfessati dai propri dirigenti nazionali che hanno comunque schierato i propri rappresentanti, mentre a Bolzano durante il giorno di chiusura della campagna elettorale le divergenze politiche tra le diverse anime del centrodestra sono finite a colpi di denunce e addirittura con scontri a suon di pugni. Il risultato è stato un picco negativo che ha fatto scendere l’affluenza alle urne dal 75,2% del 2005 (59.379 votanti) al 65,7% (51.286) di ieri, quasi dieci punti percentuali. Stessa storia a Merano dove dal 68,9 % del 2005 si è passati al 63,8%; a Laives, dal 78.7% del 2005 al 72,9% e a Bressanone: dal 77,2 % del 2005 al 73 per cento. Vanno al ballottaggio – e la sfida si concluderà tra due settimane – tre comuni che superano i quindicimila abitanti. A Bressanone, il sindaco uscente (Svp) che pare chiudere in vantaggio questo primo turno sfiderà il candidato dei Freiheitlichen Walter Blaas. A Laives Liliana Di Fede (Pd; Pineta Laives S.Giacomo ”La Civica”; Idv e Verdi) ha chiuso al 32,8%, mentre Christian Bianchi (Lega Nord; Pdl, Unitalia) al 28,1%.
Pessima performance degli azzurri in Trentino. Il governatore: «Nessuno stupore, questa destra non è credibile»
259.414 immatricolazioni da 379.626 di aprile 2009, seguito da quello francese in rialzo dell’1,9% a 190.917 da 187.359 auto, e da quello italiano che si contrae del 15,7% a 159.971 vetture da 189.661. «La flessione delle immatricolazioni di aprile, la prima in dieci mesi, è legata all’aumento delle immatricolazioni dell’anno scorso quando un crescente numero di mercati ha iniziato a beneficiare dal rinnovo degli incentivi», ha spiegato spiega l’Acea commentando i dati. E ha ricordato appunto come ora il sostengo dei governi stia finendo, dove non è già finito, a fronte di una situazione economica che resta difficile.
I dati raccolti da Eurocontrol parlano di un migliaio di rotte annullate. Le autorità aeroportuali britanniche hanno annunciato la chiusura dei principali scali di Londra, Heathrow e Gatwick, dall’1 alla 7 locali (corrispondenti alle 2 e alle 8 dell’ora italiana). Stessa sorte anche per il pic-
A Merano infine dovrebbe esserci il ballottaggio tra il sindaco uscente Guenther Januth (Svp) e Cristina Anna Berta Kury (Rifondazione Comunista;Verdi). Infine una curiosità: a Dobbiaco, in Val Pusteria, è stato eletto per la prima volta un sindaco di lingua italiana anche se è una lingua di minoranza, visto che solo il 13, 65% parla italiano mentre oltre l’86 è di madrelingua tedesca. È Guido Bocher, ex assessore comunale che con una lista indipendente ha raccolto il 37% dei consensi anche se non avrà comunque la maggioranza in consiglio comunale.
colo scalo di London City Airport, che raccoglie in prevalenza tratte aeree dedicate ai businessmen della capitale inglese. L’altro ieri erano rimasti fuori servizio molti altri scali del Regno Unito come Manchester, Birmingham, Liverpool,Teeside e Norwich. E non meglio era andata in Irlanda, dove l’aeroporto di Dublino è rimasto fuori uso per riaprire probabilmente i battenti alle 13 di oggi. In Scozia e in Galles diversi aeroporti sono rimasti chiusi fino a fine mattinata di ieri. Conseguenze anche in Italia, dove Fiumicino ha cancellato i voli per Londra e Amsterdam, e a Ciampino, dove la compagnia irlandese Ryanair ha cancellato un volo per Edimburgo. Grossi disagi anche nei Paesi Bassi, dove sono rimasti sigillati i gates d’imbarco di AmsterdamSchiphol e di Rotterdam. Secondo le ultime previsioni meteorologiche, domani è attesa una corrente di alta pressione dall’oceano Atlantico, che teoricamente dovrebbe essere in grado di alleviare la densità delle polveri vulcaniche. Si auspica dunque che mercoledì il traffico aereo possa tornare a scorrere con relativa agevolezza, in particolare nel funestato nord Europa.
politica
pagina 8 • 18 maggio 2010
Strategie. Senatùr irritato dal tentativo del Cavaliere di sostituire Scajola con una figura forte e mettere così in scacco Tremonti
Duello a distanza Alleanze, manovra, federalismo: per la prima volta Bossi e Berlusconi sembrano ai ferri corti di Errico Novi
ROMA. In gioco c’è sempre la stessa partita, ossia la leadership nel governo. Bossi e Berlusconi l’hanno disputata l’uno di fianco all’altro per due anni di legislatura. Qualcosa è cambiato nel momento in cui Fini ha messo in discussione la sacralità della leadership berlusconiana. E, soprattutto, dopo che le inchieste e gli scandali delle ultime settimane hanno fatto il resto. È emersa una forte fragilità dell’impianto di potere messo su dal premier: dopo il principio della monarchia carismatica sono finiti in discussione, tra case regalate, liste di favori e indagini su comitati d’affari, alcuni degli uomini chiave di Silvio, da Scajola a Verdini. In un simile disordine il Senatùr ha preso ormai a giocare una sfida in solitario. O comunque in piena autonomia dal Cavaliere. Tanto per cominciare è andata sempre più allentandosi la consuetudine delle cene ad Arcore. Poi uno dei sergenti di ferro leghisti, Maroni, ha mandato per aria il piano svuota carceri del guardasigilli Alfano. Quindi di fronte agli scossoni giudiziari il capo lumbàrd ha prontamente ricordato che «fino a quando ci siamo noi della Lega e Tremonti nessuna crisi può crearci problemi». Fino al veto preventivo, posto sempre da Bossi, alle ipotesi di accordo con l’Udc che gli stessi berlusconiani avevano ventilato: un modo per dire che se ci fossero strategie da ridisegnare, ammesso che ci siano, nessuna può realizzarsi senza il placet di Via Bellerio.
Ma è soprattutto quel pro memoria su Lega e Tremonti come pilastri della grande muraglia di governo, è soprattutto quel passaggio a illuminare la prospettiva bossiana: con Berlusconi in crisi per le disavventure dei suoi e per un Pdl dall’immagine compromessa, è sempre più l’asse del Nord tra il Carroccio e il superministro dell’Economia a fare da traino, nella maggioranza. Al cui interno oltretutto circola con insistenza un’interpretazione estrema del raffreddamento nei rapporti tra Bossi e Berlusconi: il numero uno lumbàrd, riferiscono alcune fonti, è sempre più perplesso dalla degenerazione affaristica in corso nel Pdl e, soprattutto, dai tentenna-
Stavolta la vera disputa è sulla leadership nel governo
Cosa c’è dietro lo scontro su Casini di Giancristiano Desiderio assi per i casini di ieri. Ma come si fa con quelli di oggi? Ieri c’erano i democristiani che davano fastidio, ma oggi che quelli sono qui e non lì, come si può dare la colpa a Casini della confusione che regna nella maggioranza e adesso addirittura nel governo? Bossi e Berlusconi litigano, sia pure a distanza, su Casini facendo finta di non sapere che i moderati non vogliono prendere né il posto di Scajola né il posto di nessuno. “Nomen omen” dice Bossi facendo il latinista, ma mai battuta è stata più fuori luogo di questa, giacché attribuire a Casini che è all’opposizione i guai del governo che comincia a non fidarsi più della sua maggioranza vuol dire puntare sulla confusione non sapendo più cosa fare. Se fosse solo un problema “del” governo ci si potrebbe passare sopra, ma dal momento che ci va di mezzo una cosetta piccola piccola che si chiama economia nazionale, allora, è bene far chiarezza sulle responsabilità.
P
Il ministro della Semplificazione, il Calderoli, ha cercato di semplificare e di rendere tutto più popolare: “Tagliamo del 5 per cento gli stipendi dei parlamentari”. L’Italia non uscirà dal pericoloGrecia con la propaganda del Calderoli. Il nodo è enormemente più complicato da sciogliere e Berlusconi se lo è fatto da dire direttamente dal Il Giornale del fratello che ieri lo invitava a sacrificare un po’ di popolarità per salvare il Paese. Nella manovra di salvataggio, oltre i 30 miliardi di euro, ci si possono mettere anche i tagli degli stipendi parlamentari e quant’altro ed è proprio il
“quant’altro” che fa la differenza. Perché andare d’amore e d’accordo quando tutto va bene lo sanno fare tutti, persino il centrosinistra; ma è quando le cose non vanno che bisogna dimostrare di essere uniti e di saperci fare. Gli interessi di questo governo e gli interessi del Paese cominciano visibilmente a prendere strade diverse. La Lega e Bossi insistono per l’attuazione del federalismo fiscale, mentre il presidente del Consiglio ha già preso atto che adesso più di ieri la strada federalista è in drammatica salita. Le priorità sono altre e il federalismo è in conflitto con la stabilità e la coesione che al momento serve all’Italia. Non è il momento giusto per mettersi a fare esperimenti. È su questo che stanno litigando Berlusconi e il suo alleato di governo. Casini non c’entra proprio nulla.
La posizione dei moderati ormai è nota. Ma forse vale la pena ripeterla ancora una volta: la debolezza del governo attuale, ancorché poggi su una ampia maggioranza parlamentare, è da rimpiazzare con la forza di un governo nazionale che faccia finalmente quanto è stato fin qui rimandato per rimettere l’economia italiana sui binari della ripresa e della crescita. La Lega pensa ancora che tutto si possa fare con il federalismo fiscale, mentre è ormai chiaro che il federalismo non è più una soluzione - semmai lo sia stato - ma un problema. Come si passi dal governo attuale al governo nazionale proposto da Casini è una questione che al momento Berlusconi non ha ancora ben chiara. Ma la fantasia non gli fa difetto.
menti del premier rispetto al repulisti, ritenuto indispensabile dal Senatùr. Bisogna aggiungere l’irritazione con cui sempre il capo leghista ha accolto la ricerca da parte del Cavaliere di un contraltare interno per Tremonti. I tentativi fatti da Palazzo Chigi con Luca di Montezemolo ed Emma Marcegaglia erano rivolti proprio a ridimensionare Via XX Settembre con una nuova figura forte da inserire nell’Esecutivo, in sostituzione del dimissionario Scajola. Una strategia che ha suscitato il risentimento di Bossi, legato da un patto sempre più inossidabile con il ministro dell’Economia.
Al punto che al Senatùr non sarebbe estraneo un disegno clamoroso, nonostante le rassicurazioni sulla lealtà alla maggioranza offerte ieri («la Lega non se ne va, gli altri vedano che fare», frase a cui si aggiunge quella di Calderoli sui governi di transizione che «sovvertirebbero la volontà popolare»): sempre secondo fonti della maggioranza e del Pdl in particolare, Bossi potrebbe arrivare lui stesso a sganciarsi dal Cavaliere se quest’ultimo «non farà pulizia» nel suo partito. Potrebbe nascere così un governo di salute pubblica guidato da Tremonti, ben sorretto dal consenso della Lega e allargato ben oltre i confini dell’attuale maggioranza, fino a quei settori del Pd che, come Franceschini ha detto, sono disposti a tutto pur di vedere deposto Berlusconi. Fantasie? Di certo per Bossi il pilastro della strategia coincide con il ruolo decisivo di Tremonti. A maggior ragione ora che la crisi europea costringe l’esecutivo a un’imprevista manovra correttiva: non a
politica
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Sta per arrivare un nuovo scontro sull’«indulto mascherato»
E tra Maroni e Alfano è rottura sulle carceri
Il Guardasigilli contro la riforma del sistema. Mentre i finiani contestano la stretta sugli immigrati di Francesco Capozza
ROMA. È proprio tempo di spaccature in seno
caso ieri il Senatùr ha ribadito il concetto a un incontro con gli amministratori veneti nella sede della giunta regionale. «Non possiamo perdere l’euro», ha puntualizzato subito, ad onta delle battaglie condotte in passato contro la moneta unica, «è l’ultima moneta di scambio che abbiamo. Con che paghiamo dopo?». E poi, a proposito della manovra, «il governo, in particolare il ministro Tremonti, dovranno tenere conto della volontà che emerge in Europa». Carta bianca dunque a Via XX Settembre, via libera ai tagli che il Professore di Sondrio riterrà opportuni. Su quelli Bossi non obietterà, e anzi già ne parla come se l’aggiustamento in arrivo
nelle fila padane. In passato toccava spesso a Maroni fare la parte del negoziatore con il centrosinistra, salvo subire i severi e bruschi richiami del conducator.
E poi c’è il federalismo: è la parola d’ordine, dice sempre il numero uno lumbàrd, pronto ieri pomeriggio a volare a Roma per l’ultima seduta della commissione parlamentare presieduta da Enrico La Loggia sul provvedimento che trasferisce i beni demaniali dallo Stato agli enti locali: «Dopodiché il Consiglio dei ministri darà via libera e il primo decreto attuativo sarà in Gazzetta ufficiale», dice Bossi. Ben consapevole che di resistenze ce ne sono, a cominciare da
«Noi non lasciamo la maggioranza», dice Umberto. Ma se Silvio non farà un repulisti tra i suoi, il capo lumbàrd potrebbe puntare su un esecutivo di salute pubblica guidato proprio dal superministro per i conti pubblici fosse da intestare proprio alla Lega prima ancora che al Pdl.
Sulle lacrime e il sangue da chiedere al popolo, il leader del Carroccio era stato chiaro già domenica, quando aveva spiegato che la riduzione delle indennità parlamentari invocata dal suo Calderoli non sarebbe bastata. Il ministro della Semplificazione ha assunto un po’ il ruolo della mina vagante, puntualmente disinnescata dal suo capo. Ieri lo si è visto anche a proposito del ritiro dall’Afghanistan: poco dopo che Calderoli si era chiesto «cosa ci stiamo a fare» Bossi lo ha rettificato osservando che «andarsene ora equivarrebbe a una fuga»; È un gioco delle parti notato tante volte
quella dell’Udc: ma proprio mentre il leader di Gemonio apostrofava Casini «nomen omen», sconsigliabile come alleato perché «dice sempre no», il suo alter ego Calderoli incrociava proprio il leader dell’Udc a Montecitorio. Tre quarti d’ora in cui il colonnello leghista ha enumerato le aperture già mostrate e quelle promesse per il futuro agli emendamenti centristi, come spiegato a fine incontro dallo stesso Casini. Un modo anche questo per tessere quella tela di rapporti autonoma rispetto a Berlusconi. E così, se l’ex presidente della Camera ribadisce a proposito delle aperture del Pdl che «si parla del nulla», è proprio il Carroccio a preparare una strada diversa per il futuro della legislatura.
alla maggioranza. Dopo i ripetuti scontri tra Fini e Berlusconi culminati in una quasi apocalittica direzione Pdl trasmessa in diretta televisiva, adesso è l’asse Lega-Pdl a scricchiolare. A tenere banco già da diversi giorni è il duello, tutto interno al governo, tra il titolare del Viminale Roberto Maroni e il guardasigilli Alfano. Oggetto del contendere, il disegno di legge sulle carceri ribattezzato, proprio da Maroni, lo “svuota carceri”. «Abbiamo una valutazione negativa sull’impatto che avrebbe il cosiddetto disegno di legge svuota-carceri, che consentirebbe ai detenuti di scontare l’ultimo anno di pena ai domiciliari», aveva detto solo dieci giorni fa Maroni, definendo il provvedimento all’esame della commissione Giustizia della Camera «peggio di un indulto, visto che gli effetti non sarebbero una tantum, ma varrebbero sempre».
Pronta era stata la replica del demiurgo del ddl, ovvero il Guardasigilli Angelino Alfano: «Macché indulto o amnistia, si tratta di misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza» sottolineava il ministro della Giustizia. «Com’è noto – era il punto del titolare del ministero di via Arenula non vogliamo svuotare le carceri e nessun detenuto sarà messo in libertà. Vogliamo realizzare 21.479 nuovi posti nelle arceri proprio perchè non intendiamo procedere a nuovi indulti o nuove amnistie». Il ministro leghista si era però talmente esposto nella sua contrarietà al provvedimento da guadagnarsi il plauso dell’Associazione nazionale funzionari di polizia: «Condividiamo le preoccupazioni espresse dal ministro dell’Interno Roberto Maroni a proposito degli effetti devastanti che provocherebbe il cosiddetto Ddl ’svuota-carceri se venisse approvato», dichiarava il segretario dell’associazione Enzo Marco Letizia. Ecco, dunque, che di lì a due giorni lo “svuota-carceri”, cambiava volto: il governo praticamente ha riscritto il testo in toto, presentando tre emendamenti in commissione Giustizia alla Camera.Tra le novità principali del nuovo disegno di legge c’è lo stop all’automatismo – presente nel primo testo Alfano - per cui ai detenuti cui resta un anno di pena vengono concessi i domiciliari. A decidere se consentire la detenzione domiciliare sarà il magistrato di sorveglianza. «Si è migliorato di molto il provvedimento e sono state accolte molte richieste che avevo fatto. Spero che continui ad essere migliorato prima della sua approvazione definitiva» il commento di Maroni. «Avevo espresso preoccupazioni che non mi sono inventato io, ma mi sono state sottoposte dalle forze dell’ordine cui spetta il compito di controllare gli esiti del provvedimento. Quindi - ha concluso - sono soddisfatto». «Finalmente - ha aggiunto un altro leghista, Matteo Brigandì - non si parla più sic et simpliciter di prendere i detenuti e portarli a casa. Ora bisognerà fare i conti con l’oste e l’oste in questo
caso sono i magistrati». Sul nuovo testo, tra l’altro, si vocifera che la Lega abbia trattato personalmente e senza interpellare il resto della maggioranza, con le opposizioni. Quanto meno con il Pd, che ha gradito non poco lo stralcio del ddl Alfano. «Per noi è un passo in avanti in termini di chiarezza» ha detto infatti la capogruppo dei democratici in commissione Giustizia alla Camera, Donatella Ferranti. La Lega, inoltre, è riuscita a far stralciare un articolo molto caro al guardasigilli Alfano che prevedeva la sospensione della detenzione con la messa alla prova presso i servizi sociali. Lo stralcio è stato votato quasi all’unanimità dalla Commissione: contro si è espressa solo la deputata radicale eletta nel Pd Rita Bernar-
Dopo i dissidi in Parlamento, il conflitto dovrebbe spostarsi adesso direttamente in Consiglio dei ministri dove la Lega metterà nuovi paletti dini, che ha perfino iniziato uno sciopero della fame per protesta contro il sovraffollamento delle carceri.
Fin qui i fatti dei giorni scorsi. A vederla così sembrerebbe l’ennesimo caso tra i tanti in cui il Carroccio è riuscito a dettare la propria linea alla maggioranza. Di un governo succube della Lega, infatti, abbiamo parlato più di una volta, tuttavia in questa occasione sembrerebbe, a sentire i rumors di palazzo, che la Lega si accinga a presentare degli ulteriori “paletti”al nuovo testo sulle carceri. In particolare si vocifera che uno dei punti su cui il Carroccio non sarebbe ancora soddisfatto è la questione del domicilio per gli scarcerati sotto tutela con un occhio rivolto in particolare agli extracomunitari che, per evidenti motivi, non avrebbero «un domicilio sicuro dove scontare la rimanenza della pena». In buona sostanza, la Lega vuole restringere ulteriormente la possibilità che si possano mettere in semi-libertà carcerati senza dimora certificata. Se le voci che ci giungono, quindi, sono esatte, siamo alla vigilia di uno scontro ancora più aspro: a quanto si apprende il lato finiano del Pdl sarebbe pronto ad alzare le barricate contro questo ennesimo diktat dei leghisti e si appresterebbe a puntare i piedi spostando lo scontro in Consiglio dei ministri.
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l’approfondimento
Tremonti a Bruxelles per l’Eurogruppo si confronterà con i colleghi degli altri Paesi su come mettere sotto controllo i conti
Quello che ci chiede l’Europa Per tutti, l’imperativo è tagliare il più possibile entro il 2013. La Francia punta a 95 miliardi, la Spagna a 50, la Germania vuole raggiungere quota 60 entro il 2015. Noi siamo più modesti: 27 miliardi. Il vero problema è come di Franco Insardà
ROMA. «Ci vorrebbe Quintino Sella, ma con tutta questa corruzione e illegalità non vedo una persona che abbia una tale statura morale». Giacomo Vaciago, docente di Politica economica e direttore dell’istituto di Economia e Finanza alla Cattolica di Milano, evoca il ministro delle Finanze passato alla storia per il suo impegno per pareggiare il bilancio statale.
Giulio Tremonti è, intanto, a Bruxelles per capire che aria tira. A giudicare anche dal messaggio della Commissione Ue, a poche ore dall’inizio dell’Eurogruppo che dovrebbe decidere un giro di vite sui conti dei Paesi dell’Eurozona, questa volta si fa sul serio: «Il consolidamento delle finanze pubbliche è essenziale ed è una priorità immediata». Il portavoce del commissario Ue agli affari economici e monetari, Olli Rehn, ha ribadicto che «bisogna fare il necessario per rafforzare la governance economica e incoraggiare gli Stati membri negli
sforzi di consolidamento dei loro bilanci. La fiducia non è una cosa che si recupera in pochi giorni, ma che si riconquista progressivamente attraverso un’azione di consolidamento dei bilanci e di attuazione delle necessarie riforme strutturali».
debito, la proposta della Commissione Ue per modificare il Patto di stabilità introducendo la procedure per “debito eccessivo” e una forma di controllo preventivo da parte di Bruxelles sulle leggi di bilancio. Questi i temi che delle riunioni dell’Eurogruppo e dell’Ecofin.
Sarà una prima occasione
L’ammontare di risparmi sul fronte della spesa pubblica che il governo francese vuole realizzare entro il 2013 ammonta a ben 95 miliardi. Cinquanta miliardi e’ invece l’obiettivo della
importante di confronto per il nostro ministro dell’Economia che, in occasione dell’Eurogruppo, avrà la possibilità di discutere con i suoi colleghi europei sulle misure che tutti i governi stanno studiando per le manovre di finanza pubblica che hanno come primo obiettivo quello di mettere sotto controllo i conti pubblici. L’andamento dell’euro sul mercato valutario, i conti pubblici dei Paesi con particolare attenzione alle misure di correzione e al
Spagna nel triennio. Mentre la Germania si propone di raggiungere quota 60 di tagli da realizzare entro il 2015. Mentre l’Italia, si propone una manovra di 27 miliardi di euro: 13 miliardi nel 2011 e 14,6 nel 2012. Tremonti ha spiegato che si tratterà di «una Finanziaria europea» e a sostegno di questa posizione dall’Italia Umberto Bossi ha detto: «Il governo, in particolare il ministro Tremonti dovrà tenere conto della volontà dell’Europa. E noi non possiamo perdere anche l’euro
Per Vaciago e Paganetto bisogna puntare sulla crescita
è l’ultima moneta di scambio che abbiamo». Per il professor Vaciago l’Italia si trova di fronte a tre possibilità: «Una manovra lacrime e sangue per la quale, appunto, occorrerebbe fare un concorso internazionale per cercare un Quintino Sella che, con rigore morale e serietà, chieda agli italiani almeno tre anni di sacrifici per aggiustare i conti pubblici e non parlarne più. Un’altra per prendere in giro l’Europa. La terza per stimolare l’economia alla crescita e con le risorse prodotte si possano ripagare i debiti».
Su quest’ultima soluzione si trova d’accordo anche Luigi Paganetto, professore di Economia internazionale e presidente della Fondazione di Economia all’università di Tor Vergata, secondo il quale la questione centrale è quella di «assicurare la crescita, perché la stabilità non si riesce a realizzare attraverso maggiori imposte o minori spese, senza puntare sullo sviluppo per aumen-
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Il vero rischio è che la finanza internazionale smetta di credere ai nostri governi sulla parola
Il nostro ”Stato” costa troppo, sapremo fare veri risparmi?
I tagli di cui si parla sono solo palliativi: occorre cogliere l’occasione per cancellare i centri di spesa, dalle province alle comunità montane di Gianfranco Polillo atti e ribatti, dopo tanto tergiversare nella speranza che dal mercato potesse venire una risposta positiva, il momento della verità è arrivato. Non ci sarà tregua per la nostra economia, ma un clima ancora più pesante. Non siamo la Grecia, né la Spagna né il Portogallo o l’Irlanda. Non siamo nemmeno quel “bordello” che indica l’Economist per classificare il neo «Regno delle due Sicilie»: nickname del Mezzogiorno. Ma certo è che la situazione è difficile e questa volta non ce la caveremo con le infinite risorse dell’ottimismo o del semplice esorcismo. Non è nemmeno colpa nostra. Siamo al centro di un ciclone che ha origini lontane. Che investe l’intero pianeta, facendo emergere le debolezze di ciascun Paese. Anche di quelli – la Spagna o l’Irlanda, appunto – che solo qualche anno fa sembravano aver trovato la ricetta delle felicità e ora ballano sulla tolda del Titanic. Del resto chi ha detto che l’euro continuerà a essere la moneta che finora abbiamo conosciuto? Quella di Paul Vocker – il grande vecchio che affianca Barack Obama nella gestione economica americana – è stata solo una “voce dal sen fuggito”, come ha lasciato intendere, bacchettandolo, Carlo Azeglio Ciampi o la scelta deliberata di affondare il coltello nella piaga? L’euro reggerà o no?
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Questo è il quadro allarmante in cui si colloca la manovra che Giulio Tremonti - e non vorremo essere nei suoi panni - dovrà decidere. Mentre il Pd affila le armi della critica, denunciando l’immobilismo dei due anni trascorsi.
Giudizio, per molti versi, ingeneroso. Se l’Italia avesse seguito quei consigli - aumentare il deficit di 1 punto di Pil per venire incontro alla richieste più che legittime di pensionati e lavoratori - oggi la manovra non sarebbe di 25 miliardi per il 2011 e 2012, ma del doppio. Senza pensare al maggior esborso d’interessi a seguito dell’inevitabile aumento dello spread sui titoli in scadenza. Spread che, nonostante la politica di austerity finora perseguita, ammonta a oltre 100 punti base, rispetto al bund tedesco. Forse non sarebbe stata una nuova Grecia, ma, certo, ci saremmo andati vicini. Gli anni delle vacche grasse sono finite: questo è il dato da cui partire e porre alla base di ogni successivo ragionamento. Assisteremo quanto prima a una modifica del “Patto di stabilità”. E sarà sale da spargere sulle ferite. Ma ancor prima di “Maastricht due” – vale a dire la ratifica delle tesi avanzate dalla Commissione europea, pur con le possibili modifiche ed emendamenti – saranno i mercati a indicare la rotta. Lo si è visto in questi giorni con il crollo della borsa e la caduta delle quotazioni dell’euro a vantaggio di un dollaro che, solo qualche mese fa, sembrava un’anatra zoppa. Ci aspetta, pertanto, un percorso di guerra che dovremo saper affrontare con lucidità e pazienza, sperando che il sistema politico italiano possa dimostrarsi più saggio di quanto finora non è stato. È quasi inutile aggiungere che se dovesse continuare il “reciproco assedio” tra maggioranza e opposizione tutto diventerà più difficile.
Due sono le possibili strade, non necessariamente contrapposte. Una manovra di contenimento a brevissimo termine, ma accompagnata dall’avvio di un intervento di carattere strutturale che rimetta in carreggiata l’economia italiana. Riconciliandola con un mondo che, nel frattempo, è profondamente mutato, ma che noi abbiamo continuato a vedere con gli occhi del passato. Prima abbonderemo questa illusione e minori, nel tempo, saranno i sacrifici nonché più rapida sarà l’uscita da un tunnel che dura ormai da troppi anni. Nell’immediato, deciderà Giulio Tremonti. Lo farà raschiando, come sempre, il fondo del barile: dipendenti pubblici – a
partire dai “capoccioni”come dice Calderoli – pensioni – riducendo l’inutile spreco dell’eccesso di “finestre” – spese dei ministeri; Enti locali – un nuovo “patto di stabilità” interno – un piccolo sacrificio richiesto alla politica, sotto forma di devoluzione di una quota parte del reddito di parlamentari e consiglieri regionali. Tutto giusto, ma basterà?
Il dato di fondo è l’eccesso di Stato. Negli anni Settanta, Pietro Ingrao aveva invocato la tesi della “democrazia assoluta”. Spazi di partecipazione sempre più ampia, come antidoto al prevalere del mercato e della logica brutale del capitale. A distanza di anni possiamo toccare con mano il risultato finale di quella impostazione. Una nuova eterogenesi dei fini. Il moltiplicarsi dei livelli di decisione – dai municipi alla Stato centrale, passando per Comuni, Province, Comunità montane, Regioni, Authority e via decidendo – come, in un gioco di specchi, ha reso tutto enormemente costoso. E non solo per le spese vive che quella complessa organizzazione ha comportato. Ma per la paralisi indotta dal sovrapporsi di competenze e funzioni. Un potere di veto quasi assoluto che ha fatto lievitare le spese e ritardato all’infinito la modernizzazione del Paese. Mentre l’estero si organizzava su basi completamente diverse: taglio dei costi, razionalizzazione delle strutture produttive, semplificazione e così via. Ma servono realmente, in Italia, mille parlamentari, millecentosedici consiglieri regionali; i quasi quattromila consiglieri provinciali; più di 200 mila consiglieri comunali? Per non parlare delle centosettanta comunità montane, dei venti municipi romani, dei dieci milanesi e così via. Un esercito che trascina con sé una sussistenza fatta di migliaia e migliaia di dipendenti: dirigenti, autisti, faccendieri e così via. Quando si parla di costo della politica è a questo che si deve pensare, altro che devolvere una mensilità di qualche parlamentare bendisposto verso l’obolo. Il grande sviluppo tecnologico di questi ultimi anni ha esteso i confini della conoscenza e del controllo in tempo reale. Ha creato strutture a rete fin troppo pervasive. Il privato ne ha catturato le potenzialità, adeguando le strutture organizzative. Ha sostituito i grandi santuari della produzione con dei network flessibili e in grado di rispondere ai rapidi mutamenti del mercato. Semplice traduzione, in termini economici, delle esigenze dei cittadini. Solo gli istituti della democrazia – sempre più presunta e meno effettiva – sono rimasti immobili: cristallizzati nel tempo che fu. Quando parliamo del percorso di guerra è a questo che pensiamo. Dovremo disboscare, razionalizzare, introdurre la logica dei “costi/benefici”. Altrimenti tutto sarà inutile: semplice questione di tempo.
tare gli introiti del bilancio pubblico in maniera strutturale, costante e significativa. facendo degli sforzi soprattutto nel settore dell’innovazione e della ricerca». Gli interventi devono essere strutturali, secondo Paganetto, e la manovra «deve avere un respiro europeo ed è necessario un coordinamento che guardi la politica Ue in chiave complessiva. Più che intervenire sulla domanda, espressa dai salari pubblici e privati, ma credo che sia fondamentale guardare alla spesa degli enti territoriali e sui bilanci pubblici in generale. Quando si parla di tagli è necessario non pensare ai tagli lineari, ma intervenire su alcuni capitoli di spesa, mentre per altri bisognerà prevedere maggiori investimenti che vanno nella direzione dello sviluppo. Occorre, quindi, un rigore nella spesa, senza dimenticare, ovviamente, una seria lotta all’evasione fiscale».
« D o po l’ e s p e r i e n z a g r e c a l’Europa ci sta aspettando alla prova della piazza - secondo Vaciago -. perché in tutti questi anni abbiamo fatto delle manovre contro le quali non ha protestato nessuno, perché non erano manovre serie. Questa volta non penso che l’Europa farà sconti e chiede all’Italia un Quintino Sella. Bisogna tagliare a monte nelle competenze, ma chi lo spiega alla metà dei comuni e delle province italiane che non hanno futuro? O alle regioni che non arrivano a un milione di abitanti? La cosa peggiore è quella di lasciare in essere tutto e dare meno risorse con tagli lineari che affamano questi enti e alimentano la corruzione. È un modo per certificare l’assenza del governo, che non è in grado di risolvere i problemi, ma li sposta. È necessario cancellare alcuni centri di spesa Le tasse in questo Paese alcuni ne pagano troppe, altri molto poche. Sarebbero più comprensibili i provvedimenti antievasione che il governo Prodi aveva iniziato a fare, ma che sono stati aboliti». Il sistema da adottare, secondo Paganetto, è quello di : «dare dei segnali di ripresa ai mercati . Pensare di farlo riducendo l’incidenza pensionistica o di qualche posta della massa complessiva dei conti statali non è sufficiente. I mercati si convincono con provvedimenti di tipo strutturale. La difficoltà vera è convincere gli operatori finanziari che tutti i Paesi della Ue non si troveranno a subire l’onore del debito e del pagamento degli interessi, ma che è stato rimesso in moto un processo di crescita. Per l’Italia ci sono i margini per raggiungere gli obiettivi, ma occorre farlo in maniera virtuosa. Il bilancio pubblico ha dei margini ampi per interventi né lineari, né legati solo alla riduzione della massa statariale, ma per interventi strutturali».
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Il 30 giugno la “Grande Chambre” discuterà la richiesta presentata dal governo it
Come salvare la libert Il ricorso contro la sentenza sul Crocifisso nelle scuole approda alla Corte di Giustizia di Strasburgo di Luca Galantini trasburgo, 3 novembre dello scorso anno: con una sentenza che suscitò clamore e critiche in tutta Europa la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo stabilì che l’Italia doveva rimuovere il Crocifisso dalle aule scolastiche, accogliendo il ricorso presentato da Soile Lautsi Albertin, cittadina italiana di origine finlandese, «in nome del principio di laicità dello Stato». Sentenza miope sotto il profilo giuridico costituzionale e profondamente ipocrita sotto il profilo dei presupposti etici di libertà che ogni Stato democratico è chiamato a garantire e promuovere a favore dei propri cittadini. Il 30 giugno prossimo, davanti alla Grande Chambre della Corte di Giustizia a Strasburgo si discuterà il ricorso presentato dal Governo italiano avverso quella pronuncia ispirata ad una visione ideologica e settaria della libertà religiosa. La ricevibilità del ricorso è un primo importantissimo passo nella giusta direzione per ribaltare il giudizio di primo grado. Si apre ora la seconda fase, e cioè quella di un nuovo giudizio da parte della Grande Chambre in ordine alla presunta violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo da parte dell’Italia a seguito dell’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche. In tal senso, in occasione del deposito della memoria del ricorso alla Corte di Giustizia da parte del governo italiano, tramite il ministero degli Affari Esteri, il 29 aprile scorso, si è svolta una prima seduta di dibattito della sentenza presso il Consiglio d’Europa a Strasburgo.
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La sessione, promossa da una delle parti costituitasi nel processo, l’European Centre for Law and Justice (Eclj), ha visto la partecipazione delle Rappresentanze Diplomatiche di parecchi Paesi membri del Consiglio d’Europa, di magistrati della Corte di Giustizia dei Diritti dell’Uomo, di consulenti giuridici ed esperti dei vari Paesi coinvolti. La missione italiana, guidata dal vicepresidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il professore Roberto de Mattei, è stata tra i principali attori dell’assemblea. Facciamo alcune osservazioni generali sulla delicatissima questione oggetto del ricorso del governo italiano: in gioco è infatti, secondo tutti gli esperti di diritto coinvolti nella sentenza “Lautsi vs Italie”il diritto di libertà per eccellenza di ogni persona umana,
ovvero la libertà di religione e le sue manifestazioni in luoghi pubblici. È bene rammentare subito - a scanso di equivoci sovente alimentati ad arte - che la Corte di Giustizia dei Diritti dell’Uomo è emanazione istituzionale del Consiglio d’Europa e non già dell’Unione europea. È emanazione cioè di un’organizzazione internazionale che riunisce parecchi Stati non facenti parte della Ue, e i cui orientamenti sono sovente in disaccordo con i principii fondamentali che ispirano la normativa comunitaria in tema di libertà religiosa: è questo il caso dell’intollerante Turchia, che dietro il velo della laicità di Stato sostiene de facto l’islam come religione nazionale discriminando violentemente ogni altra manifestazione di fede in pubblico.
In buona sostanza si è osservato che questa sentenza è il frutto del lavoro di una Corte che, sotto l’egida del Consiglio d’Europa, rischia di seppellire il senso stesso del progetto di unificazione culturale dell’Europa - prima ancora che economico e politico - come pensato dai Padri fondatori De Gasperi, Adenauer, Schuman. La decisione della Corte di Strasburgo costituisce un classico esempio di impostazione laicista volta a rinchiudere la manifestazione della libertà di religione, in particolare quella cristiana, in un vero ghetto. In questa prospettiva si inquadrano le motivazioni della sentenza, secondo la quale l’esposizione di ogni simbolo religioso lede il diritto di scelta dei genitori su come educare i figli, quello dei minori di credere o meno, e lede anche il “pluralismo educativo”. Il giudizio della Corte risulta illogico e quanto meno incerto nel suo più profondo contenuto. La sentenza disconosce il ruolo della religione, in particolare quella cristiana, nella costruzione della società civile e del diritto pubblico e promuove un indifferentismo religioso che è in profonda contraddizione con la storia, la cultura e il diritto del popolo italiano e dei popoli europei: una manifestazione di aggressività laicista ostile alla libertà religiosa è oggettivamente rivelata nella Sentenza Lautsi come in genere anche nei provvedimenti di quei giudici italiani poi cassati e annullati da autorità giurisdizionali di grado superiore, come la pronuncia del Tar avverso la sentenza sul Crocifisso di Ofena. Il Crocifisso rappresenta un simbolo religioso, culturale e identitario e proprio
per questo non ha mai assunto una valenza coercitiva, come invece sostiene la Corte nella sua sentenza.
Come hanno testimoniato le precedenti decisioni prese dal Consiglio di Stato in Italia, il Crocifisso rappresenta un elemento di coesione identitaria fondato sui valori e presupposti etici che animano la Carta fondamentale del nostro Paese, in una società che non può prescindere dalla sua tradizione cristiana riconosciuta e promossa addirittura nella Costituzione. Ne deriva che se togliessimo il crocifisso dalle scuole, in quanto luoghi pubblici, dovremmo togliere tutte le croci e le magnifiche opere sacre che sono presenti nelle nostre strade e nelle nostre piazze, il che sarebbe senza dubbio assurdo. Togliere il simbolo della Croce dagli spazi educativi per “laicità” è ancora e purtroppo l’esibizione arrogante di una troppo esclusiva e autoritaria “volontà dello Stato”, e
La croce rappresenta un simbolo di fede, culturale e identitario. E proprio per questo non ha mai assunto una valenza coercitiva, come invece ha sostenuto il Tribunale
peggio, di un automatismo astratto e incontrollabile delle sue leggi, prive del necessario collegamento con i valori ed i principii etici, morali, religiosi a cui ogni Costituzione scritta si deve ispirare. Escludere ogni sfera pubblica dalle tradizioni religiose consegue all’intenzione di inibirle e ricacciarle nell’infinita frammentazione del privato e quindi negare allo Stato il suo ruolo di promotore, custode e difensore delle libertà dell’uomo. Nel corso della sessione dei lavori al Consiglio d’Europa, i relatori hanno concentrato il fuoco di fila contro le valutazioni della Corte di Giustizia su tre temi fondamentali di natura giuridica filosofica costituzionale che sono alla base della illogica sentenza: i principii di neutralità dello Stato, di laicità attiva e negativa e di sussidiarietà.
Il celebre giurista e filosofo Joseph Weiler, Direttore del Centro Jean Monnet, ha rimarcato l’estrema pericolosità del concetto di neutralità dello Stato in campo giuridico affermato dai giudici della Corte di Giustizia: lo Stato, proprio perché il suo compito primario è quello di tutelare, promuovere e garantire le plurime manifestazioni della libertà di pensiero dei cittadini, in forma individuale come associata, non può esimersi dal considerare il fattore religioso in sé - nella sua valenza di pilastro costitutivo della vita associata delle persone - all’interno della sfera pubblica della società civile. Disinteressarsi della dimensione sociale - pubblica - della fede religiosa di una comunità civile significa discriminare una delle manifestazioni di identità culturale che sottendono alla definizione dei valori prepolitici della Carta costituzionale. Il tentativo di ricondurre ad una “privatizzazione “ della fede del Cristianesimo, escludendo l’apporto fecondo che il comune sentire religioso della società italiana apporta nella dimensione pubblica equivale a discriminare la religione rispetto alle plurime svariate manifestazioni associative di pensiero in pubblico. Va da sé, rileva Weiler, che sia compito dello Stato, di ogni Stato, assicurare i modi e le forme del pluralismo religioso e della tolleranza nel rispetto reciproco, ma sempre e comunque impegnandosi a considerare, promuovere, garantire i valori religiosi, etici, prepolitici che animano la piattaforma comune della società. In ciò si inserisce il valore
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taliano. È l’occasione per ribaltare una decisione miope e profondamente ipocrita
tà religiosa in Europa questioni religiose per rispetto al pluralismo delle fedi, si finisce per impedire, discriminare, non tutelare l’espressione della libertà religiosa della maggioranza dei cittadini in ambito pubblico. Ha osservato opportumanente il Presidente emerito della Corte Costituzionale Mirabelli, partecipe al workshop, che nella nostra Costituzione in verità non si cita minimamente il concetto di laicità. Ad oggi invece si coglie, nel programma politico-istituzionale di attuazione dell’unificazione europea, la tentazione, come è tipico del caso Lautsi, a cedere ad un’applicazione del concetto di laicità “negativa”, o “escludente” o “discriminatoria”. Sebbene lo sforzo dei philosophes fosse orientato al conferimento di contenuti positivi – quali “libertà”,“autonomia”,“tolleranza”, “fraternità” ed altro ancora – alla nozione di “laicità”, non si può ancora dire che esso sia stato coronato da effettivo successo. precipuo del principio di sussidiarietà, principio costituzionale dei Trattati Ue di cui troppo spesso se ne dimentica l’origine in quanto partorito dalla Dottrina Sociale della Chiesa con l’Encicilica Quadragesimo Anno del Pontefice Pio XI. Il principio di sussidiarietà della Ue impone infatti che le istituzioni europee lascino i Paesi membri liberi di legiferare in materia di libertà religiosa dei propri cittadini, senza imporre decisioni autoritative, ma limitandosi ad armonizzare le leggi nazionali con quelle europee.
La Corte di Giustizia ha invece assunto una posizione oramai obsoleta e retrograda a livello costituzionale ispirandosi alla cosidetta “laicità negativa”, tipico concetto di ispirazione della legislazione francese ottocentensca, di impronta illuministica: con il pretesto di imporre l’indifferenza dello Stato sulle Da sinistra a destra, il vicepresidente del Cnr Roberto de Mattei, il giurista e filosofo Joseph Weiler e Alcide De Gasperi, Padre fondatore del progetto di unificazione culturale dell’Europa
sione di un pensiero unico omologatore nella sovranità politica delle società civili e nei valori a cui si ispirano, primo tra tutti il fattore religioso. Il giudice della Corte di Giustizia di Strasburgo in rappresentanza della Spagna, Borrego Borrego, ha efficacemente evidenziato come la sentenza Lautsi appartenga ad un mondo giuridico “virtuale”, che non è in grado di confrontarsi con la realtà culturale, storica, sociale e locale che caratterizza il patrimonio valoriale dell’esperienza politica europea. Ben altro valore propositivo presenta il principio di “laicità positiva”, che prevede il necessario riconoscimento di un margine d’apprezzamento alla religione, alla fede come fattore sociale che a pieno diritto deve essere tutelato e promosso in ambito pubblico, in quanto espressione dell’identità culturale di una determinata società civile. In caso contrario i valori enunciati nelle Carte costituzionali
Ancor oggi il termine “laico”mantiene una valenza semantica negativa ed un significato dedotto in maniera indiretta. In breve: dice, di una persona, di una istituzione o di un pensiero ciò che non è, piuttosto che ciò che è. Esso esprime, insomma, una alterità, una opposizione (più o meno radicale) ad un dato o ad una tradizione di matrice religiosa, sovente cattolica. Come già affermava lo statista Jaques Delors, il principio di sussidiarietà di matrice cristiana è invece lo strumento che impedisce l’inva-
Si deve razionalmente prendere atto del ruolo decisivo del Cristianesimo nel nostro continente, nel nostro Paese e nella costruzione del suo pensiero politico e giuridico occidentali si riducono a sterile esercizio di stile: è bene rammentare il limpido cristallino pensiero del giurista e filosofo Passerin d’Entreves, secondo cui la legge non è solamente una misura dell’azione, ma è pure un giudizio di valore dell’azione.
La legge, infatti - per quanto con ipocrisia talune Corti di Giustizia tentino di ignorare il punto - indica ciò che è bene e ciò che è male: ed a loro volta il bene
ed il male sono le condizioni che giustificano un obbligo giuridico. È dunque l’intima relazione tra morale e diritto il tratto distintivo di una matura equlibrata normativa generale in materia di libertà religiosa, come in ogni altro ambito dei valori non negoziabili della libertà umana. Occorre concludere che il fenomeno religioso e in particolare l’eredità cristiana dell’Occidente costituiscono un dato primario ed essenziale anche a livello politico-normativo che resta tale nonostante l’opposizione e la negazione. La laicità è il ribaltamento o, comunque, il prolungamento - di un quadro culturale determinato dall’evento cristiano. Viene alla mente il celebre asserto di Donoso Cortés e prima ancora di Giambattista Vico nella Scienza nuova: ogni grande questione politica dipende da una fondamentale questione teologica che, se fraintesa, non mancherà di produrre esiti nefasti. Ad esso si collega, oggi, una delle tesi più note di Norberto Bobbio che sono paradossalmente una critica costante al pensiero laicista antireligioso relativista che attenta all’identità valoriale dell’Europa: l’impossibilità di fondare razionalmente i diritti umani e tuttavia di rinunciarvi. Posta innanzi a queste prove, l’Europa, dev’essere costretta a ripensare quella stessa nozione di laicità che è scaturita dal suo seno, come uno dei caratteri peculiari della propria civiltà.
Il suo limite consiste nel carattere astratto - puramente razionalista - che la laicità ha ricevuto all’atto della nascita e che la Sentenza Lautsi tradisce in misura palese. La pretesa illuministica di rinvenire una lex uguale sotto ogni latitudine - e perciò universale non poteva formulare, di necessità, altro concetto di laicità discriminatoria e anticristiana. Tutti i cittadini sono senz’altro uguali di fronte alla legge e nessuno può essere, di conseguenza, discriminato per le proprie convinzioni, religiose o d’altra natura. Questo principio, solennemente proclamato dalla nostra Costituzione repubblicana e senz’altro intangibile, non impedisce di riconoscere il ruolo decisivo del Cristianesimo nella costruzione del nostro continente, del nostro paese fino a modellarne il paesaggio, la lingua, i comportamenti sociali, il pensiero politico e giuridico. Il principio di realtà impone di prenderne atto, con serena constatazione razionale.
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mondo
Thailandia. Khattiya Sawasdipol, leader della protesta, è deceduto in ospedale. La domanda è: chi lo ha ammazzato?
Un martire per Bangkok La morte del generale rosso serve all’esercito e agli insorti. Ma certo non ai thailandesi di Osvaldo Baldacci e la situazione da tempo critica in Thailandia sembra ora uscita fuori controllo molto è incentrato sulla figura di Khattiya Sawasdipol, morto ieri dopo giorni di agonia seguiti al colpo che il 13 maggio lo ha centrato mentre concedeva un’intervista dal presidio tutt’ora occupato dalla camicie rosse nel cuore di Bangkok. La situazione thailandese si trascina dal 2006 con una tensione altissima e diversi scoppi di violenza che hanno provocato decine di morti. Eppure appena una settimana fa sembrava di essere vicinissimi ad un accordo che portasse alla pacificazione almeno momentanea del Paese con la soluzione demandata a democratiche elezioni anticipate. Poi all’im-
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provviso la situazione è precipitata: il cerino che ha incendiato il campo dei rossi è stato il non ancora chiaro attentato proprio a lui, a “Seh Daeng”, il nome con cui il leader scomparso era conosciuto e che significa “generale rosso”, con riferimento al suo passato militare e al colore delle camicie degli oppositori. Seh Daeng, che si paragonava a William Wallace, il medievale patriota ed eroe nazionale scozzese tradito dalla nobiltà nella sua lotta per l’indipendenza, di cui narra il film Braveheart, aveva 58 anni ed era stato sospeso dall’esercito nel 2008 dopo aver criticato apertamente la gerarchia. Nonostante la punizione, il generale aveva continuato a circolare in divisa mimetica e con un cappello da cui pendeva una fila di spolette di bombe a mano. Ed era presto diventato uno dei massimi leader del movimento di opposizione al governo, quello che da mesi invade
Bangkok con le sue camicie rosse e la volontà di manifestare a oltranza contro il potere del palazzo.
Da gennaio è aperta su di lui un’inchiesta a seguito di un attentato contro il quartier generale dell’esercito e la scoperta nella sua abitazione di granate, di una pistola e munizioni. Ma lui non se ne curava ed è stato tra i principali protagonisti del presidio dell’opposizione che ha occupato il centro finanziario di Bangkok, quello che ora è sotto assedio da parte di esercito e po-
lizia. Anzi, aveva contribuito in modo determinante a militarizzare la protesta e a rendere il presidio una specie di campo fortificato, tutt’ora difficile da espugnare anche per la presenza di armi come mitra e persino due carri armati strappati all’esercito. Raccontano che di notte Khattiya Sawasdipol, pugnale alla cintura, andava in giro ispezionando le difese della cittadella, protetta da barricate di bambù, pneumatici inzuppati di kerosene e filo spinato, mentre dedicava le ore del giorno ad aggirarsi fra le migliaia di opposi-
Il ritardo della diplomazia internazionale Perché il braccio di ferro fra camicie rosse e governo è stato sottovalutato da tutti hailandia: i giorni più lunghi. Ieri mattina è scaduto l’ultimatum dato dal Governo di Bangkok affinché le Camicie Rosse sgomberassero i presidi distribuiti nella capitale. Tuttavia passato l’orario prestabilito, nessuna delle due parti è entrata in azione. Il fine settimana di sangue appena trascorso è stato segnato da 36 morti, tra i quali anche il generale Khattiya Sawasdipol, alias Seh Daeng (Comandante rosso), popolare e fervido sostenitore degli insorti.Tra i feriti, c’è anche un fotoreporter italiano, Flavio Signori. Il nostro Ambasciatore a Bangkok, Michelagelo Pipan, ha verificato di persona le sue condizioni e si è assicurato che si sia trattato di una “ferita di striscio”. Nel frattempo, si è diffusa la notizia che la Polizia avrebbe fatto ricorso a proiettili veri, in sostituzione di quelli di gomma, utiliz-
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di Antonio Picasso zati generalmente nelle sommosse urbane. Nelle mani degli insorti restano invece bottiglie Molotov, sassi e petardi. Tuttavia alcune testimonianze dirette parlano di armi da fuoco che stanno cominciando a circolare anche tra le forze irregolari. Finora siamo arrivati a 60 morti e oltre 1.600 feriti dall’inizio di aprile, da quando il movimento insurrezionale che vorrebbe il ritorno al potere dell’ex Primo ministro, Thaksin Shinawatra, è sceso in piazza. In realtà i venti di un’accesa protesta avevano cominciato a soffiare già a metà marzo.Tuttavia nessuno si immaginava un impeto così forte.
Le cronache di ieri riportano uno scenario di guerriglia urbana in cui la Polizia e gli insorti si sono fronteggiati in più
punti della città. L’epicentro della sommossa resta Rama IV road, una delle arterie principali della capitale thailandese e che da venerdì costituisce il quartier generale delle Camicie Rosse. In questi giorni le forze regolari vi hanno tentato più assalti, ma questi sono tutti falliti. Gli insorti, coadiuvati da alcuni esponenti delle Forze Armate, com’era appunto Sawasdipol, stanno dimostrando sia forza d’animo sia una profonda capacità in fatto di guerriglia. In altri quartieri invece sembra essere tornata la calma. La gente però non nasconde la paura di essere coinvolta, in tempi brevi, in una battaglia di strada ancora più cruenta rispetto a quella che si è combattuta tra sabato e domenica. Abbandonandosi alla retorica si potrebbe parlare di quiete pri-
ma della tempesta. Secondo le stime sono circa 5 mila i guerriglieri a presidio delle barricate di Bangkok. Questi attendono prontamente una nuova ondata di attacchi da parte della Polizia. Il Governo thailandese, scaduto l’ultimatum, ha dal canto suo sospeso gli inviti rivolti agli insorti e trasmessi in televisione di tornare pacificamente nelle proprie case. Allo stato dell’arte quindi non si possono fare altro che previsioni negative.
La prima osservazione da sottolineare è che si tratta di una questione palesemente sottovalutata da parte di tutta la comunità internazionale. Solo ora infatti la diplomazia occidentale sta accedendo in suoi motori. In modo assolutamente analogo a quanto accaduto in Yemen all’inizio dell’anno le ambasciate del Regno Unito e degli Stati Uniti hanno deci-
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La situazione è degenerata subito dopo lo sparo del cecchino lo scorso 13 maggio. Personaggio controverso, Seh Deng si definiva il Braveheart asiatico. E dava molto fastidio, non solo al governo... tori accampati, stringendo mani e mettendosi in posa per le foto. Una di queste passerelle però gli è stata fatale, quando durante un’intervista al New York Times all’interno dell’accampamento un cecchino è riuscito a colpirlo alla testa. Il contesto dell’attacco non è chiaro: le camicie rosse hanno subito accusato governo ed esercito, ma questi hanno smentito ogni coinvolgimento. Fatto sta che da quel momento la situazione è precipitata, ed è cominciata la vera e propria battaglia tra le forze dell’ordine e i cinquemila manifestanti asser-
ragliati nell’improvvisato forte. Gli scontri da allora sono costati 36 morti e 200 feriti, che fanno salire a più di 60 le vittime e almeno 1.600 i feriti da quando lo scorso marzo si sono riaccese proteste e violenze. E ieri alle dieci è scaduto l’ultimatum di evacuazione lanciato dal governo agli irriducibili. In realtà però la situazione potrebbe essere un po’ più complessa di quanto appaia a prima vista.
Gli attori sulla scena in Thailandia sono infatti diversi e diversificati, e non sono chiare le
so di bloccare le proprie attività in loco e di chiudere le rispettive sedi a Bangkok. Ancora una volta l’Italia si è distinta nel prendere una decisione contraria a questo gesto che appare come un “si salvi chi può” da parte dei Governi stranieri, incuranti dei loro connazionali eventualmente presenti in Thailandia e soprattutto disinteressati a una questione che potrebbe avere pesanti risvolti in tutto il Sud-Est asiatico. Il solo fatto che il Paese sia la meta turistica di 14 milioni di persone ogni anno – tra questi 160 mila sarebbero italiani – dovrebbe far riflettere le singole cancellerie ed evitare gesti sconsiderati, com’è appunto quello di abbandonare la sede diplomatica nel momento in cui la situazione volge al peggio. L’obiettivo potrebbe essere quello se non altro di salvare una protagonista influente del Sud-Est asiatico dal baratro della violenza fratricida. Solo ora la tigre thailandese stava recuperando le forze dopo la crisi finanziaria di fine
motivazioni che muovono tutti i soggetti in campo né tantomeno la logica delle loro scelte. Proprio Seh Daeng, ad esempio, era senz’altro uno dei leader più estremisti delle camicie rosse, uno di quelli che si era opposto all’accordo di pochi giorni fa con cui il primo ministro Abhisit Vejjajiva si era impegnato ad elezioni anticipate in novembre. Accordo che le camicie rosse sembravano avere accettato. Ma poi cinquemila di loro, guidate proprio dal generale rosso, hanno rifiutato di abbandonare il presidio nel cuore di Bangkok. E
2008. Lo scorso anno l’economia nazionale aveva subito una contrattura del 2,8%. Il piano di ricostruzione industriale, in termini di infrastrutture e di interventi statali sulla Borsa si è arrestato però con l’inizio dei disordini.
Di fronte a tutto questo l’economia globale non può pensare di restare immune da potenziali ripercussioni. Ne consegue la necessità che i governi stranieri si concentrino su questa ennesima
ro Paese in una potenziale guerra civile. D’altra canto, vista la loro tenacia, non si può escludere che gli insorti riescano a ottenere il risultato che si sono prefissati. Questo però è possibile unicamente attraverso un aiuto interno dai centri di potere. Il che significa un golpe. Entrambe le possibilità rendono vana la road map proposta dal premier, Abhisit Vejjajiva, il quale si è detto disponibile ad andare al voto entro agosto, in cambio dell’immediato sgombero delle strade da parte degli insorti. A questa mano tesa delle autorità, le Camicie Rosse avrebbero dovuto rispondere, entro le dieci del mattino di ieri, rimuovendo i loro posti di blocco. Non essendoci stata questa reazione, si può pensare che i manifestanti intendano andare fino in fondo, senza rinunciare allo scontro fisico. L’appello dell’ex premier Thaksin ne è un’ulteriore conferma. Il tycoon votato alla politica, deposto nel 2008 e che ora resta nel suo esilio dorato di Dubai ha invitato le parti ad evitare «il terribile abisso delle violenze». Ma ha an-
Al momento sono due le soluzioni possibili, entrambe gravi. O le truppe regolari placano la protesta nel sangue, o i guerriglieri, con un aiuto esterno, attuano un golpe. In ogni caso “salta” la road map proposta dal premier crisi politica. Nella sua complessità si può prevedere da una parte un bagno di sangue vero e proprio, in cui le truppe regolari plachino con la violenza qualsiasi velleità di ritorno al potere a parte di Thaksin Shinawatra. In questo caso però, il rischio è che il movimento delle Camicie Rosse riesca a dilatare la protesta oltre la capitale, coinvolgendo l’inte-
Seh Daeng non era certo tra quelli che mitigava gli animi: era arrivato ad accusare apertamente di corruzione i leader dell’opposizione che avevano accettato l’accordo col governo. Era quindi uno dei principali ostacoli sulla via della pacificazione, e probabilmente questo gli è costata la vita. Che poi siano stati i suoi nemici al governo a pensare di risolvere la situazione eliminandolo, o magari ci sia stata una sponda tra suoi rivali interni non possiamo dirlo, ma non è difficile immaginare che lo scenario non sia così chiaramente spac-
cato tra chi sta da una parte e chi dall’altra. Anche perché non è poi tanto chiaro perché il governo abbia ora deciso di usare il pugno di ferro fino al massacro quando appena una settimana fa la situazione sembrava potersi sbloccare: fu un bluff quell’accordo? O è cambiato qualcosa? O a voler eliminare le frange più estremiste sono più soggetti di quanti se ne vedono? Molti sanno che la situazione thailandese è complicata, e la violenza contro le camicie rosse, anche in caso di successo del o sgombero, potrà accendere una guerriglia in tutto il Paese, se non la guerra civile. A confrontarsi sono infatti due mondi contrapposti, quello più rurale delle camicie rosse e quello più urbano delle camicie gialle e del governo. E qual è il ruolo dell’ex premier Thaksin, vero leader dell’opposizione? In esilio a migliaia di chilometri di distanza, è stato tra i primi a dirsi favorevole a un accordo con il governo e anche in queste ore ha rilanciato l’ipotesi di un compromesso, però è proprio e sempre lui ad essere accusato dal governo di essere dietro le quinte del fallimento delle trattative. Anche perché è evidente che tra le stesse camicie rosse ci sono differenze di vedute. Anche tra il leader dentro il presidio, alcuni hanno ammesso che sarebbero favorevoli a trattare lo sgombero, ma non se la sentono di abbandonare la loro gente. Da alcuni di loro sono partiti diversi appelli al dialogo, con la richiesta della mediazione delle Nazioni Unite e soprattutto l’invito a un intervento del re Bhumipol, figura molto rispettata in Thailandia anche se proprio di questi tempi si avvertono scricchiolii nella fede dei cittadini nella monarchia. E questo è un ulteriore elemento da considerare attentamente, sia per le sue potenzialità stabilizzatrici sia nella direzione opposta, se il prestigio del re venisse incrinato o attaccato.
che aggiunto che «l’azione dell’attuale governo disonora la nostra storia e indebolirà le istituzioni democratiche nazionali». Uno sprone, quello di Thaksin, affinché le Camicie Rosse non arretrino di neanche una posizione. Altrettanto sconcertante è il silenzio del sovrano. Re Rama IX, dall’inizio dei disordini, è apparso in pubblico solo una volta. Mai però ha preso una posizione di mediazione o di parte per sbloccare la crisi.
Gli osservatori stranieri concordano nel sostenere che la monarchia sarà la prima vittima istituzionale a cadere una volta pacificato il Paese. Qualunque sia l’esito della crisi. L’unica voce fuori dal coro di questi estremismi è stata quella dell’Arcivescovo di Bangkok, Francis Xavier Kirengsak Kovithavanij, il quale ha richiamato entrambe le parti in causa al bene comune, come «valore primario per tutto il Paese». Tuttavia monsignor Kovithavanij rappresenta una comunità cristiana che compone solo lo 0,7% della popolazione totale thailandese (62 milioni di abitanti). Una percentuale troppo esigua per influire in modo determinante sulle sorti del Paese.
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Medioriente. Finora la diplomazia non si è occupata del problema più importante er molto tempo si è pensato che la firma di un trattato di pace tra un Paese arabo di spicco e Israele avrebbe posto fine al conflitto arabo-israeliano. Ma il trattato di pace del 1979 tra Egitto e Israele ha cancellato quell’aspettativa; anzi ha sortito l’effetto opposto di rendere altri Paesi e la stessa popolazione egiziana ancor più anti-sionisti. Gli anni Ottanta hanno fatto nascere la speranza che il conflitto sarebbe terminato con il riconoscimento di Israele da parte dei palestinesi. Il totale fallimento della Dichiarazione di Principi del 1993 (i cosiddetti Accordi di Oslo) ha in seguito sotterrato quell’aspettativa. E poi? A partire dal 2007, è emerso un nuovo interesse: far sì che i palestinesi accettino Israele come Stato ebraico sovrano. L’ex-premier israeliano Ehud Olmert ha posto i termini della questione: «Non intendo in alcun modo trovare un compromesso sulla questione dello Stato ebraico. Ciò costituirà una condizione per il nostro riconoscimento di uno stato palestinese».
P
Olmert è stato il peggior primo ministro israeliano, ma aveva ragione a questo proposito. La diplomazia araboisraeliana si è occupata di una miriade di questioni secondarie, senza affrontare il nodo nevralgico del conflitto: «Dovrebbe esistere uno Stato ebraico?» E la questione chiave è il disaccordo su questa risposta, non sui confini di Israele, il diritto di quest’ultimo all’autodifesa, il controllo del Monte delTempio, il consumo delle risorse idriche, la costruzione di abitazioni nelle città cisgiordane, i rapporti diplomatici con l’Egitto o l’esistenza di uno stato palestinese. I leader palestinesi hanno reagito protestando con veemenza ed esprimendo il loro «categorico rifiuto» di accetta-
Obiettivo: far crescere l’islam moderato Il 20% dei musulmani accetta l’ebraicità di Israele. È una base per risolvere il conflitto di Daniel Pipes
l’amministrazione Obama ha approvato la posizione palestinese tornando ad affossare le richieste israeliane. Se i politici palestinesi non accettano la natura ebraica di Israele, che ne pensano i palestinesi ma anche più in generale il mondo arabo e musulmano?
Sondaggi e altri riscontri evidenziano una media a lungo termine del 20 per cento di coloro che riconoscono l’esistenza di Israele sia nel periodo mandatario che adesso, sia
I risultati dei sondaggi commissionati dal Middle East Forum sono incoraggianti, malgrado quasi un secolo di indottrinamento re Israele come Stato ebraico. Hanno perfino simulato di essere sconvolti all’idea di uno Stato definito dalla religione, malgrado la loro stessa “Carta costituzionale dello Stato di Palestina”, nella sua terza bozza, stabilisca che «l’arabo e l’Islam sono [rispettivamente] la lingua e la religione ufficiale palestinese». E così i tentativi di Olmert sono stati vani. Nel 2009, alla guida di Israele in veste di premier, Benyamin Netanyahu ha reiterato la posizione di Olmert nella sua linea diplomatica. Purtroppo
che si tratti di musulmani residenti in Canada o di palestinesi che risiedono in Libano. Per saperne di più sulla corrente opinione araba, il Middle East Forum ha incaricato la Petcher Middle East Polls di porre una semplice domanda a un migliaio di adulti in quattro paesi differenti: «L’Islam definisce [il vostro Stato]; qualora ne ricorrano le condizioni, accetteresti uno Stato ebraico d’Israele?”» (In Libano la domanda è stata posta in modo leggermente diverso: «L’Islam definisce la maggior
«Teheran manipola Turchia e Brasile» GERUSALEMME. Suscita reazioni di aperto scetticismo in Israele, pur in assenza per ora di commenti ufficiali del governo, l’annuncio dell’accordo tripartito fra Iran,Turchia e Brasile in base al quale Teheran dichiara la disponibilità a inviare uranio in Turchia per l’arricchimento. «Dobbiamo studiarne i dettagli per capire se questo accordo sia serio o no, se significhi qualcosa o sia solo un ennesimo trucco dell’Iran per prendere tempo», ha detto all’agenzia di stampa Ansa un alto funzionario da Gerusalemme a condizione di restare anonimo. «Ci sono tutti i motivi per essere scettici poiché il regime di Teheran ha ripetutamente ingannato la comunità internazionle e ha già annunciato in passato l’accordo su proposte analoghe (con la Russia, ndr) salvo tirarsi indietro all’ultimo minuto», ha aggiunto. Secondo il funzionario, «ci sono buone
possibilità che l’Iran abbia manipolato la Turchia e il Brasile», in particolare «sfruttando l’assai scarsa esperienza del Brasile su questioni che riguardano il Medio Oriente». Intanto, domani il presidente palestinese Mahmoud Abbas avrà un nuovo incontro con l’inviato speciale Usa per il Medio Oriente,
George Mitchell, già da ieri in Israele. Lo ha riferito il caponegoziatore palestinese Saeb Erekat all’emittente radiofonica Voice of Palestine. «Se Israele continuerà con gli insediamenti ebraici - ha dichiarato Erekat - avrà condannato questi negoziati prima ancora del loro inizio».
parte degli Stati in Medio Oriente; qualora ne ricorrano le condizioni, accetteresti uno Stato ebraico d’Israele?»).
Questi i risultati: il 26 per cento degli egiziani e il 9 per cento dei sauditi residenti nelle aree urbane hanno risposto (nel novembre 2009) affermativamente, e così ha fatto il 9 per cento dei giordani e il 5 per cento dei libanesi (intervistati nell’aprile 2010). I sondaggi rivelano un ampio consenso della popolazione a prescindere dal’attività lavorativa, dalla posizione socioeconomica e dall’età degli intervistati. Per nessuna ragione spiegabile le donne egiziane, più degli uomini, e gli uomini sauditi e giordani, più delle donne, accetterebbero un Israele inteso come Stato ebraico, mentre rispondono affermativamente i libanesi di entrambi i sessi. Esistono però in Libano alcune variazioni significative, come del resto ci si potrebbe aspettare. In questo Paese, il 16 per cento degli intervistati residenti nella parte settentrionale (largamente cristiana) accetterebbe un Israele ebraico di contro all’1 per cento appena di consensi espressi nella Bekaa Valley (a prevalenza sciita). Ancor più significativo il fatto che ponderare queste risposte a seconda della dimensione delle popolazioni intervistate (rispettivamente 79, 29, 6 e 4 milioni) si traduce in una media complessiva del 20 per cento di coloro che accettano l’ebraicità di Israele, a chiara conferma della percentuale esistente. Anche se si tratta di una piccola minoranza, il fatto che essa perduri nel tempo e nelle aree geografiche è incoraggiante. Che un quinto di musulmani, di arabi e perfino di palestinesi accetti Israele come Stato ebraico denota l’esistenza di una base per risolvere il conflitto arabo-israeliano, malgrado quasi un secolo di indottrinamento e intimidazioni. I sedicenti mediatori di pace devono dirigere la propria attenzione sull’obiettivo di accrescere la dimensione di questa coorte di moderati. Passare dal 20 al 60 per cento muterebbe sostanzialmente la politica del Medio Oriente, ridimensionando il ruolo di Israele e consentendo alle popolazioni di questa regione danneggiata di occuparsi dei loro problemi reali. Non del sionismo, oh no, ma di problemi minori come l’autocrazia, la brutalità, la crudeltà, il complottismo, l’intolleranza religiosa, l’apocalitticismo, l’estremismo politico, la misoginia, la schiavitù, l’arretratezza economica, la fuga di cervelli e di capitali, la corruzione e la siccità.
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La proposta di Medvedev: impianti sciistici al posto delle bombe
I ribelli fanno esplodere un bus: uccisi anche undici poliziotti
Mosca sogna un paradiso per turisti nel Caucaso
Attentato maoista in India: 35 morti
MOSCA. Tra le ambizioni russe c’è quella di trasformare il Caucaso settentrionale, colpito dalla guerriglia separatista, in una destinazione turistica, con un progetto miliardario per realizzare impianti sciistici di alto livello. Lo vuole il presidente Dimitri Medvedev in persona e ha dato mandato al governatore della zona, il superprefetto Alexandre Khloponin, di mettere a punto un piano dettagliato per la costruzione di cinque impianti nelle cinque inquiete repubbliche della zona, tra cui Daghestan e Ossezia del nord, in dieci anni e con un budget da capogiro: tra i 450 e i 500 miliardi di rubli, circa 150 miliardi di dollari, il doppio dei fondi previsti per le Olimpiadi di Soci nel 2014. A rivelare l’ambizioso piano è stato ieri il quotidiano russo Kommersant. Che presenta la notizia come la risposta del Cremlino alla pressante necessità di affrontare il grave problema dell’occupazione nel Caucaso, dove la guerriglia è sempre attiva con uno stillicidio quotidiano di attacchi e morti.
RAIPUR. Almeno trentacinque
Ma certo non sfugge che dietro al megaprogetto vengano totalmente disattese le istanze indipendentiste della regione. Che al posto delle piste da sci vorrebbe veder riconosciuta la propria sovranità. Se portato a termine, il disegno potrebbe modificare profondamente questi remoti territori scarsamente popolati, con la costruzione di ol-
Una moschea del perdono a Ground Zero. NY insorge Dopo il primo ok al progetto, scoppia la polemica di Laura Giannone
NEW YORK. La sindrome del politically correct, ieri ha raggiunto uno dei suoi paradossi. Con la proposta di costruire una moschea da 100 milioni di dollari a pochi passi da Ground Zero. Proposta che sta suscitando grandi polemiche e ha scatenato (giustamente) l’ira dei familiari delle vittime dell’11 settembre. Si tratta del progetto della «American Society for Muslim Advancement» (Società americana per la promozione della religione musulmana) di costruire nel cuore di NewYork un grande centro culturale islamico. Oltre a una delle moschee più grandi dell’Occidente nell’edificio di 13 piani, che un tempo ospitava i grandi magazzini della «Burlington Coat Factory» e che fu seriamente danneggiato dagli attentati del 2001. Al suo interno, dovrebbe essere presente anche una piscina, un teatro e un centro sportivo. La struttura, a soli 200 metri da Ground Zero, sarebbe il fiore all’occhiello di un’iniziativa molto più ampia ribattezzata «progetto Cordoba» che secondo i suoi ideatori avrebbe un’unica finalità: avvicinare il mondo musulmano all’Occidente.
va» e raccoglie le firme affinché il progetto sia fermato. Il consigliere di zona Paul Sipos ha affermato di non essere contrario alla costruzione di una grande moschea a New York, ma sostiene che sarebbe giusto edificarla lontano da Ground Zero: «Se i giapponesi decidessero di costruire un centro culturale a Pearl Harbour, tutti considererebbe questa scelta poco accorta - dichiara Sipos al New York Post - Se i tedeschi aprissero una società corale dedicata a Bach vicino ad Auschwitz, anche se sono passati tanti anni, sarebbe giudicata un’iniziativa mostruosa. Non ho nulla contro l’Islam, ma mi chiedo: Perché proprio qui?».
Dello stesso avviso il cinquantanovenne Scott Rachelson che da anni aiuta i familiari delle vittime dell’11 settembre: «È il peggior quartiere dove costruire una moschea». Daisy Khan, moglie dell’imam Feisal Abdul Rauf e presidente della «American Society for Muslim Advancement» conferma che il progetto ha come scopo la definitiva riconciliazione tra americani e musulmani: «Per noi sarà più di un simbolo - dichiara la donna di fede islamica ai media americani - Sarà la piattaforma che darà voce alla maggioranza dei musulmani che soffrono per colpa degli estremisti». La sorpresa e l’indignazione dei cittadini di New York, causerà adesso un prevedibile rallentamento dell’operazione. Che aveva già ricevuto un primo ok dalla circoscrizione Lower Manhattan all’ampliamento della cosiddetta “moschea del Perdono”, un centro religioso già esistente che al momento viene utilizzato solo per la preghiera del venerdì e che nel giro di qualche anno dovrebbe essere ampliato secondo il progetto Cordoba House. La battaglia però è appena cominciata, e certamente non sarà nè rapida nè, tantomeno, indolore.Visto che Ground Zero è non solo per New York e non solo per gli americani, ma per l’intero Occidente, il simbolo di una guerra ancora in corso.
Il centro religioso costerà 100 milioni di dollari. Ma i familiari delle vittime non lo vogliono: «È uno sputo su di noi»
tre 800 chilometri di piste e la creazione 104mila posti letto. Ma anche la realizzazione di nuove strade e collegamenti e non da ultimo l’ampliamento degli aeroporti della zona per accogliere l’afflusso dei visitatori: fino a cinque milioni di persone all’anno nelle speranze di Mosca e dei responsabili locali. Una cifra stratosferica secondo gli operatori del settore che reagiscono con scetticismo all’annuncio: visto che al momento esistono tre impianti sciistici in Caucaso che attraggono ogni anno 400mila visitatori.
morti (24 civili e 11 poliziotti), ma secondo la stampa locale il numero delle vittime potrebbe anche arrivare a cinquanta. È questo il tragico bilancio di sangue di un attentato dei ribelli maoisti in India centrale: i terroristi hanno fatto esplodere una mina al passaggio di un autobus nel distretto di Dantewada, nello stato di Chhattisgarh. Secondo quanto riporta il sito internet del Times of India i morti sarebbero almeno quaranta. E al momento di andare in stampa ci sarebbe ancora un numero non specificato di corpi ancora intrappolati tra le lamiere dell’autobus. I ribelli, secondo le forze locali di polizia, avrebbero usa-
Secondo l’Imam Feisal Abdul Rauf il progetto farebbe rivivere un edificio della città che, dopo gli attentati terroristici del 2001, è stato completamente abbandonato. Inoltre - continua il religioso - il centro culturale stimolerebbe la nascita di un’identità «islamico-americana»: «Il centro culturale sarà anche un luogo ricreativo per chi ama lo sport -ha dichiarato l’imam ai media internazionali - e aprirà le sue porte a tutti, non solo ai fedeli islamici». Anche se da progetto la moschea potrà ospitare almeno duemila fedeli per la preghiera del venerdì. Le parole del religioso, tuttavia, non hanno convinto la maggior parte dei newyorkesi che considerano il progetto «un insulto alla memoria». Molti cittadini si sono dichiarati contrari e hanno ideato il sito web «nessuna moschea a Ground Zero» che denuncia pubblicamente la «scandalosa iniziati-
to un ordigno a distanza. La sicurezza indiana ha lanciato un’operazione per individuare i ribelli che già da mesi hanno iniziato a colpire i civili nei loro attentati. Sempre nel distretto di Dantewada il 6 aprile i guerriglieri avevano massacrato 76 guardie di sicurezze.
Gli agenti a bordo dell’autobus, tutti in borghese, erano aggregati alle forze di sicurezza impegnate nella lotta alla guerriglia maoista, molto attiva nella regione. Da qualche mese, è in corso una vasta operazione anti-guerriglia denominata “Caccia verde” che vede impegnati 56mila uomini delle forze di sicurezza. Secondo il premier Manmohan Singh, la guerriglia maoista costituisce la più grave minaccia alla sicurezza interna del paese. I ribelli, stimati tra i 10 e i 20mila, controllano alcune zone rurali e sostengono di battersi in difesa dei diritti degli agricoltori senza più terre e delle tribù locali. Lo scorso anno oltre 600 persone sono morte in attacchi attribuiti alla guerriglia maoista. Il movimento nel 2009 è stato messo al bando come “organizzazione terroristica”.
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Arte. Fu uno dei massimi esponenti del Rinascimento, ma soltanto la Germania dedica una mostra all’artista che con “La Primavera” segnò il ’500
L’inverno di Botticelli Determinò i canoni estetici della bellezza neoclassica, ma a cinque secoli dalla nascita l’Italia lo dimentica di Massimo Tosti a bellezza, come manifesto della sua arte. Ancora oggi – a cinque secoli di distanza – il suo cognome è aggettivato per descrivere i lineamenti puri e luminosi di un volto femminile, definendolo “botticelliano”. A dire il vero, quello non era il suo cognome. Alla nascita si chiamava Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi, ma poi divenne celebre come Botticelli, pare ereditandolo da un orafo che si chiamava Botticello, nella cui bottega aveva fatto l’apprendista, dimostrando le indubbie sue qualità artistiche. I suoi capolavori – La Primavera e La nascita di Venere – sono considerati ancora il paradigma della bellezza femminile.
L
nitamente tenero e delicato, spinto alle nostre rive come un dono del cielo». Ma, poi, come si fa a definire la bellezza? «Chiedete a un rospo che cosa è la bellezza, il vero bello», scrisse Voltaire: «vi risponderà che consiste nella sua femmina, coi suoi due begli occhioni rotondi che sporgono dalla piccola testa, la gola larga e piatta, il ventre giallo e il dorso bruno». Difficile per un extraterrestre strabuzzare gli occhi di fronte a una donna che non sia verde di
carnagione, alta cinquanta o sessanta centimetri, dotata (possibilmente) di un’antenna in cima al cranio. La bellezza è relativa, come la bruttezza. Questione di gusti e di abitudini. Atterrasse un’astronave di marziani, scopriremmo forse la loro totale indifferenza di fronte a Monica Bellucci o a George Clooney (dipende dai sessi, ovviamente), ma anche un accenno di disgusto davanti alla Venere di Botticelli, alla cupola di San Pietro o alle Piramidi di Giza, che pure erano una delle sette meraviglie del mondo antico. Nicole Kidman non deve farsi illusioni: non la eleggeranno mai miss Marte, mentre – per assurdo – qualche speranza potrebbe nutrirla il gobbo di Notre Dame, come l’aveva immaginato Victor Hugo, o Marilyn Manson.
È singolare che – nel cinquecentesimo anniversario della sua scomparsa (morì a Firenze, la sua città, il 17 maggio 1510) – I canoni estetici sono un pronon siano previste celebrazioni. dotto della cultura, e dipendoSoltanto a Francoforte, in Gerno dalla geografia e dalle epomania, nei mesi scorsi è stata che.Vitruvio, nel I secolo avanti organizzata una mostra delle Cristo, dettò le giuste misure sue opere. In Italia, nulla. Col(riprese millecinquecento anni pa, presumibilmente, di Caradopo da Leonardo da vaggio che (morto un Vinci nel De divina secolo dopo) ha catalizzato l’attenzione di tutproportione) del corti. O, più semplicemenpo umano, come fraNel 2011, anno della cultura dell’Italia in Russia, alte, della distrazione. zioni della figura intecune preziose opere di Sandro Botticelli potranno es«La Venere di Botticelra: la faccia doveva sere ammirate dal popolo russo presso il Museo li», scrisse sessant’anni essere 1/10 della lunPushkin di Belle Arti di Mosca. L’iniziativa è compreghezza totale, la testa fa uno dei maggiori sa in un ricco programma di manifestazioni che storici dell’arte del Nocelebra l’amicizia dei due Paesi alla luce dei salcecento, Ernst Gombridi legami instaurati negli ultimi anni tra Cremch, «è tanto bella che lino e Palazzo Chigi. Nell’accordo siglato dai non rileviamo l’innaturispettivi ministri dei Beni culturali, Avdeev e rale lunghezza del colBondi, è compresa inoltre un’esposizione di opere lo, le spalle spioventi e di Caravaggio in terra moscovita. Ma per alcuni lo strano modo con cui celebri lavori di Botticelli che prenderanno la via il braccio sinistro è racdel Cremlino nei prossimi mesi, numerosi argencordato al corpo. O, ti dei Medici facenti parte della collezione russa piuttosto, dovremmo saranno visibili in Italia, in un quadro di scamdire che tutte queste libi temporanei che comprende tra l’altro le note bertà che Botticelli si uova Fabergè commissionate per decenni dalla prese con la natura per famiglia zarista. Il calendario prevede inoltre ottenere la grazia della concerti, letture e festival teatrali. In particolare, sua linea, accrescono la l’anno sarà inaugurato a Roma con una mostra dedi1/8, la lunghezza del bellezza e l’armonia cata a Alexander Deineka, e chiuso con il Bolshoi di torace 1/4, e così via. del disegno, in quanto Mosca al Teatro alla Scala di Milano. Oggi non sono più accentuano l’impresquelle le misure, ansione di un essere infi-
Nella foto grande, “La Primavera” di Sandro Botticelli. L’artista fiorentino, il cui vero nome era Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi firmò alcune delle più importanti opere del Rinascimento. come “La nascita di Venere” (qui sotto) e “L’adorazione” (più giù un dettaglio) Nella pagina a fianco, tre dipinti di “Nastagio”. Più giù ”L’adorazione”
la mostra
che se la taglia 38 è caduta in disgrazia. Si potrebbe persino teorizzare la legge dei corsi e ricorsi storici, con il fascino opulento e materno che si alterna a quello androgino e spigoloso. E poi ci sono le mode, che esplodono e tramontano nell’arco di una generazione. Per la bellezza come per la bruttezza (che ne è il naturale opposto).
C’è una battuta di Totò (che non somigliava neppure da lontano all’uomo vitruviano, con quella scucchia pronunciata, e l’asimmetria del volto) che merita di essere rievocata. La pronunciava in Totò contro Maciste (un dimenticabile film del 1962): «Non sono brutto, ma mi arrangio». E torna alla
mente un tormentone di Nino Frassica (in Quelli della notte): «Non è bello quel che è bello, ma che bello, che bello che bello...».Vale anche per il suo contrario, naturalmente. Ovverosia, vale per la versione mista, quella delle streghe del Macbeth di Shakespeare che recitano: «Il bello è brutto, e il brutto è bello». Roba da far impazzire Umberto Eco che alla bellezza e alla bruttezza (e ai canoni dell’estetica, più o meno attuali) ha dedicato due ponderosi saggi, carichi di immagini per testimoniare i criteri di scelta e selezione. Dove i capolavori botticelliani sono giustamente catalogati come prototipi di bellezza, mentre fra i testimoni del brutto figura Domenico Ghirlandaio (contem-
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poraneo di Botticelli, chiamato insieme a lui ad affrescare le pareti della Cappella Sistina) per il suo Ritratto di vecchio con nipote) che pure esprime tenerezza e bontà.
Un’antitesi rifiutata da Botticelli, che intriso di cultura platonica (come Pico della Mirandola, Poliziano, e cento altri artisti, che seguivano le sagge lezioni platoniche di Marsilio Ficino alla corte di Lorenzo il Magnifico), citava il filosofo greco secondo il quale «il bello corrisponde al buono». E lo identificava con il corpo femminile, anche se era in odore di omosessualità, come ci ha raccontato Angelo Poliziano (quello che potrebbe essere l’Alfonso Signorini del Rinascimento fiorentino), in uno dei Detti piacevoli: «Sandro di Botticello fu stretto da messer Tomaso Soderini a tor moglie. Risposegli così: – Messer, i’ vi vo’ dire quello che m’intervenne una notte. Sognavo aver tolto moglie, e fu tanto el dolore che io n’ebbi nel sogno, che io mi destai; et ebbi tanta la paura di non lo risognare, che io andai tutta notte per Firenze com’un pazzo, per non avere cagione di radormentarmi. – Intese messer che non era terreno da porvi vigna». Tradotto nel volgare dei
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Tutte le libertà che si prese con la natura accrescono la grazia e l’armonia dei disegni, che incarnano esseri infinitamente delicati giorni nostri, suona più o meno così: «Messo alle strette da Tommaso Soderini perché prendesse moglie, Botticelli rispose: ’Messere, io voglio dirvi cosa mi accadde una notte. Sognavo d’essermi sposato, e fu tanto il dolore che ne ebbi nel sogno, che mi svegliai, ed ebbi tanta paura di sognarlo di nuovo, che andai tutta la notte per Firenze come un pazzo, per non rischiare di riaddormentarmi’. Soderini capì che quello non era un terreno fertile». Pettegolezzi di cui molti erano vittime nella Firenze di allora, capitale dell’arte e di ogni genere di peccato, fustigata da Gerolamo Savonarola, di cui anche Botticelli divenne un seguace. E questo spiega l’intransigenza di alcune opere della maturità, in palese contrasto con la gioia di vivere (ispirata dai versi di Lorenzo de Medici e del solito Poliziano) che traspare dalla Primavera. Alla corte del Ma-
gnifico, Botticelli dette il meglio (e il peggio) di sé. Il meglio per la leggerezza delle sue opere e per l’approccio sempre gioioso quale che fosse il tema delle sue opere: i miti dell’antichità pagana, i racconti del Decamerone (come i quattro episodi della storia di Nastagio degli Onesti) o i dipinti dedicati all’Antico e al Nuovo Testamento. Dette il peggio come cortigiano: i suoi compagni lo giudicavano uno scroccone senza scrupoli, e un esecutore di qualunque commessa, anche la più sgradevole. Come – per esempio – quando (per un compenso di 40 fiorini) accettò di dipingere appesi alla forca, sulla facciata del palazzo comunale, gli uomini che avevano partecipato alla congiura dei Pazzi nella quale fu assassinato Giuliano de’ Medici. E da cortigiano adulatore, nell’Adorazione dei Magi, mise in fila nel presepio, i principali esponenti della famiglia che guidava Firenze: l’uomo in ginocchio ai piedi della Madonna è Cosimo, quello al centro, in primo piano, con il manto rosso, è il figlio di Cosimo e padre di Lorenzo, Pietro il Gottoso, mentre il giovane a sinistra con il farsetto rosso, appoggiato alla spada, dovrebbe essere il Magnifico.
Dopo la morte di Lorenzo, e l’adesione alle crociate savonaroliane, Botticelli illustrò (in 88 disegni) la Divina Commedia di Dante Alighieri. «Eseguì e storiò un Dante in cartapecora che è tenuto cosa meravigliosa», scrisse il Vasari: «figurò lo Inferno e lo mise in stampa, dietro al quale consumò di molto tempo, per il che non lavorando fu cagione di infiniti disordini alla vita sua».
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Tra gli scaffali. Piero Tannini racconta origini e fortune di numerosi vocaboli in un piacevole saggio: “La bellezza dell’asino”
La vita segreta delle parole
Nella foto grande, un’illustrazione di Michelangelo Pace. Più giù, la copertina del nuovo saggio di Piero Tannini dedicato a questioni linguistiche e all’etimo di parole ed espressioni curiose: “La bellezza dell’asino”, pubblicato da Salani. In basso, un’ antica opera medievale che rappresenta l’alfabeto latino
di Dianora Citi uando si dice “parliamo di lingua”, la mente di ciascuno partirà per “la tangente” che più gli si confà. Il traduttore intenderà quell’idioma in cui o da cui traduce, il chirurgo otorinolaringoiatra avrà subito presente l’organo umano e il ristoratore il più noto ingrediente cucinato, secondo la tradizione romana, alla vaccinara.
Q
Dobbiamo prima di tutto definire con precisione il campo. Piero Tannini nel suo La bellezza dell’asino (Salani Editore, 140 pagine, 13 euro) lo fa subito con l’aiuto di un chiaro sottotitolo: “breve storia di molte parole”. Infatti la sua è una breve ricostruzione di elementi formativi, storicamente esaminati, di molte “combinazioni” di lettere che, unite insieme, vanno a formare quegli elementi, le parole, che ci permettono la comunicazione. Ecco una parola ‘delicata’ (latino delicatus, participio di delicare composto da de e lacere, ‘attrarre’), comunicazione: questa, intesa come trasmissione di notizie e informazioni tra gli individui per mezzo del linguaggio, rappresenta ciò che distingue l’uomo dagli altri esseri viventi come entità pensante. Viene da chiedersi, come comunicavano tra loro Adamo ed Eva, che lingua usavano quando si parlavano d’amore? Il terreno della storia della lingua è enormemente vasto e coinvolge storici, filologi, paleografi, semiologi, semantici, glottologi. I punti fermi raggiunti sono pochi: gli attuali 5.000 linguaggi del mondo possono essere riconducibili a circa 300 famiglie linguistiche, riducibili a poche unità capostipite, altrimenti detti temi o radici. Tanto sia complicata la definizione originaria di ogni lingua, lo possiamo desumere dalla polemica scoppiata tra gli studiosi nell’Ottocento, cui pose fine drasticamente la Société de Linguistique di Parigi. Nata nel 1864, con lo Statuto del 1866 stabilì, all’articolo 2, che «la Société n’admet aucune communication concernant, soit l’origine du langage, soit la création d’une langue universelle». Come a dire, nessuna speculazione passatista, non perdiamoci in un ambito così puramente speculativo da non permettere il raggiungimento di alcun serio approccio scientifico verificabile. Così ha cercato di fare Piero Zannini, studioso triestino, ingegnere matematico, allievo della Scuola Normale Superiore di Pisa, cultore di linguistica e etimologia: una breve storia di molte parole. La storia delle parole in ogni lingua è legata alle vicende dei gruppi umani che la usano, alle migrazioni, ai conflitti, alle conquiste o alle disfatte, all’ambiente e allo sviluppo, ai contatti con i sistemi linguistici vicini, alle mode. Tante, e non ce ne accorgiamo quasi più, sono le parole straniere, inglesi o francesi, ad esempio, entrate nella nostra lingua. Per lungo tempo al
provenzale attinsero i nostri primi autori volgari e il francese fu per secoli la lingua delle aristocrazie europee. Molte parole francesi sono rimaste, tanto da essere considerate “italiane”. Zannini nel capitolo “Viaggio a Parigi” ne elenca alcune: boudoir (la camera dove ci si ritira per bouder, per tenere il broncio), o dessert (participio passato di desservir, sparecchiare, quindi ciò che si serve prima di sparecchiare), o silhouette (dal nome di Etienne de Silhouette, ministro francese del XVIII secolo che con le sue tasse fece “dimagrire” il popolo). Dunque le parole di una lingua ne fanno trasparire, con la loro storia, il “dna”, la ricchezza dei contatti e delle influenze: so-
ne ad altre parole (mancus, difettoso nella mano, monco, o caecus, difettoso nell’occhio, cieco) sta a indicare una carenza, una mancanza, un difetto.
La nostra lingua è costruita con apporti dialettali e prestiti da altre lingue, da un substrato latino e greco, ma anche dal longobardo e dall’arabo. Ci sono parole con etimi oscuri, forme onomatopeiche e composte. Prendiamo una “frase fatta”: la bellezza dell’asino. La spiegazione apparentemente aneddotica riferisce di uno scolare del XII-XIII secolo che, in un messale, di fronte a un testo che in una colonna terminava con die e cominciava la seguente con busillis, chiese al teologo Giovanni di Cornovaglia chi fosse busillis, credendolo il nome di un re o similare, non avendo riconosciuto la corretta cesura
Il termine “silhouette” è oggi sinonimo di figura snella, ma pochi sanno che deriva dal cognome di un ministro francese, che fece “dimagrire” il popolo con le tasse no il pedigree del passato di un popolo. Ho detto pedigree: Zannini, puntuale, nel capitolo dedicato al “piede” ci fa notare che questa parola inglese, in uso fin dal 1400, deriva dal francese antico, pié de grue, piede di gru, cui facevano ricordare i trattini disegnati negli alberi genealogici e riferiti ad ogni discendente. Pochi, tanto per rimanere nel “piede”, magari sapranno che la parola “peccato” è tratta da peccus, il piede difettoso o, meglio, colui che è difettoso nel piede, dunque “uno che zoppica nell’anima”. E se notiamo bene il suffisso –cus, comu-
diebus illis, in quei giorni). Cosa c’entra la bellezza con l’asino? Niente. È la bellezza di chi è giovane, senza particolari doti di avvenenza, di chi ha solo l’incanto della gioventù destinato a svanire presto. E l’asino? La curiosa definizione è la riprova di come il prestigio di una lingua viene dalla cultura, prima che dalla diffusione. Il modo di dire deriva dal francese “la beauté de l’âge” dove l’età (âge) fu tradotta erroneamente con âne,‘asino’. Difendiamo perciò il povero asino ricordando, con Seneca, che «non è la deformità del corpo a rendere brut-
ta l’anima, ma la bellezza dell’anima a far bello il corpo». I simpatici disegni di Teresa Sdralevich aiutano nella comprensione di alcuni dei bizzarri racconti di Zannini, come nel capitolo sulla parola “alto”: da altus, participio passato di alere, ‘allevare’, ‘nutrire’. Dunque alto è chi è ben nutrito, ben allevato. Lo stesso vocabolo latino altus, in tedesco è diventato alt, che sta a indicare ‘il vecchio’, l’età. Da noi invece ‘vecchio’, proviene dalla radice indoeuropea wetos, anno. Il latino vetus, nel suo significato originario di ‘anno’, mi fa venire in mente quelle belle ragazze che in televisione fanno le “veline”. Tentiamo una spiegazione sintetica: da vetus, ‘anno’ a vetulus, ‘vitello’, ‘bestiola di un anno’; dal latino vitulinum,‘di vitello’, al francese velin, con cui si indicava, per traslitterazione, la carta-pergamena leggera, fatta con la morbida e fine pelle del vitello, in italiano divenuta la carta velina. Nel XX secolo la ‘velina’era il foglio leggero adatto alla scrittura a macchina che permetteva la ‘ripetizione’ delle copie. In gergo giornalistico le notizie scritte sui fogli ‘leggeri’ vennero chiamate veline, e nel 1988, Antonio Ricci, inventore di “Striscia la notizia”, affidò a delle belle ragazze la consegna delle ‘veline’ giornalistiche da leggere. Con un passaggio metonimico ‘velina’ designò la ragazza, che rimase tale pur privata del ruolo di messaggera. La popolarità della ‘velina’ è legata anche a un erroneo collegamento etimologico con l’abbigliamento (vel-) e con la giovane età della ragazza (-ina).
Non meno curiosa è la storia dell’alfabeto, posta quasi a premessa del volume: secondo questa innovativa teoria non furono i fenici ad inventarlo nell’VIII secolo a.C., come abbiamo sempre creduto, bensì delle popolazioni semitiche vissute almeno sette secoli prima.Tutto ciò in base ai reperti trovati nel sito di Serabit elKhadem, nel deserto del Sinai. La notizia passerà prima o poi al vaglio della Société de Linguistique di Parigi.
spettacoli
18 maggio 2010 • pagina 21
ndubbiamente un grande incontro quello tra Marguerite Duras e Mariangela Melato: due donne di pancia che san tirare di fioretto. Il dolore prodotto dal Teatro Stabile Di Genova in scena al Teatro Valle fino al 23 maggio ne è il frutto, il regista Massimo Luconi, il tramite. Un testo rubato all’intimità, scritto in forma privatissima, senza velleità di divulgazione.
I
Una prefazione illuminante di ritegnosa autodenuncia, quella che Marguerite Duras fa precedere alla stampa de Il dolore. «Ho ritrovato questo diario in due quaderni. Non ricordo di averlo scritto. So che è opera mia, sono stata io a scriverlo, riconosco la calligrafia, ma non mi vedo nell’atto di scriverlo», e ancora: «Il dolore è tra le cose più importanti della mia vita. La parola -scrittoqui stonerebbe. Mi sono trovata davanti a pagine uniformemente piene di una calligrafia minuta, straordinariamente regolare e calma. Mi sono trovata davanti a un disordine formidabile del pensiero e del sentimento che non ho osato toccare, e davanti al quale mi vergogno della letteratura». Bene cosi, è tutto chiaro. L’abitudine alla scrittura l’ha forse salvata dalla follia. Un diario come spazio neutro per razionalizzare, un nido segreto di accoglienza, per mettere nero su bianco e non impazzire. Appuntato di getto, a ondate, in modo discontinuo, per alleggerirsi. Abbandonato poi, per quarant’anni dimenticato, sommerso, lasciato depositare nei meandri della memoria, sotterrato dal continuo fluire della quotidianità. La sopravvivenza, a volte, richiede rispetto e un poco di vigliaccheria. Risulta essere oggi un inno alla vita, un grido di rabbia postuma affatto soffocato che si esprime a tratti penosamente diluito nel pianto. I fatti sono citati, circoscritti dalle anse del sentimento, raccolti e composti come in un ipotetico catalogo del come potrebbe essere. Di fatto siamo nell’aprile del 1945, a Parigi e la signora Duras ci apre il suo cuore e ci permette di partecipare a quelle giornate senza fine in cui l’unica occupazione è fare i conti con la mancanza di informazioni relative al marito Robert Antelme deportato dai tedeschi nel campo di concentramento di Dachau. In questo stesso periodo è impegnata attivamente sul fronte della resistenza e collabora ad un giornale, Libres, che si occupa di tenere i contatti tra i deportati e i loro congiunti. Ogni suo sforzo converge in una volontà forte di non rassegnazione per reagire alla
Palco. L’attrice in scena fino al 23 maggio al Teatro Valle con un’opera della Duras
I diari di Marguerite, Melato canta il dolore di Enrica Rosso guerra che impazza. Per Duras «la solitudine è una cosa senza la quale non si fa niente, senza la quale non si guarda più niente», ma essa distrugge.
La scrittura di Duras viaggia per frammenti interiori, schegge di vita che prendono improvvisamente consistenza e una riga dopo si disperdono smarrite nel vortice di un nuovo pensiero che prende il sopravvento. Qui più che altrove. In tutte l’immanenza di un dolore atroce, intangibile e ossessivamente presente. Mariangela Melato è interprete superba di un materiale incandescente per contenuti, ricondotti a una forma prosciugata e splendida nella sua urgente compattezza. Ha curato personalmente insie-
me al regista Massimo Luconi l’adattamento, se l’è messo addosso e si sente, non per identificarsi ma per raccontare, mettersi a disposizione dei fatti. E vestita da Paola Marchesin in abiti contemporanei, quasi casual – ma nulla lo è sulla scena – un paio di pantaloni basici, maschili e una maglia larga, informe, buona ad occultare, a cancellare le forme di un corpo che diverrebbero offensive in presenza di un altro corpo, quello di Robert divenuto oramai solo un involucro. Una scena piazza che si offre nuda – a parte i libri: a mucchi o piccole cataste, isole di pen-
Nella foto grande, e qui sopra, due momenti de “Il dolore” di Margerite Duras portato in scena da Mariangela Melato al Teatro Valle di Roma
La scrittura viaggia per frammenti, schegge di vita che prendono forma e si disperdono subito in un nuovo pensiero
siero razionale, tangibili e perciò più che mai confortanti – che viene invasa dallo scheletro gigantesco di un albero abbattuto proteso verso il nulla, da una pioggia di scarpe come fossero cadaveri, da americane che calano e abbagliano come nelle retate delle SS in piena notte. La regia offre spunti, lancia appigli, crea spazi e intanto il tempo scorre. Melato-Duras disseziona il tempo, impreca, spera, coltiva illusioni, e racconta, racconta. Scorrono immagini, si materializzano persone, si fanno i conti con la realtà: «Una panetteria ancora aperta, devo decidermi a prendere il pane, è criminale fare scadere il tagliando». Quando l’attesa finisce, quando, finalmente riuscita ad avere notizie certe del marito, si adopera per farlo rientrare a Parigi e si ricongiungono, la platea si annichilisce e diventa palpitante consapevolezza dell’orrore. L’uomo che viene virtualmente restituito non è che il guscio vuoto di ciò che è stato un tempo. Deprivato della consapevolezza di avere un’anima che lo diversifica dagli animali, Robert è un pugno di ossa, un groviglio di organi incontinenti buoni solo a rilasciare liquami a testimonianza delle angherie subite. Difficile sopportarlo e non fuggire. Duras riluce di pietas e lo accompagna nel percorso che gli rende la vita nonostante abbia già deciso di lasciarlo per un altro. Ai ringraziamenti, applausi avvolgenti e consolatori, lunghissimi, quasi commemorativi. Melato prende la parola con semplicità. Ringrazia lei noi per essere li, solo per aver scelto di partecipare e di prendere parte al grande scambio umano che solo in teatro può avvenire: la catarsi. Grazie a noi si è data la libertà di esplorare e darsi fondo, dice. Grazie a Lei, Signora Melato, per la maestria con cui non si è voluta sovrapporre al testo limitandosi a offrircelo su un piatto d’argento.
Per chi vuole di più a testimonianza del percorso dell’artista, i velluti rossi del Teatro Valle ospiteranno nei prossimi giorni le proiezioni di alcune sue memorabili interpretazioni. Giovedi 20 maggio alle 17.30 “Vestire gli ignudi” di Pirandello per la regia di Giancarlo Sepe del 1986. Venerdi 21, alla stessa ora Medea di Euripide ancora diretta da Sepe nello stesso anno. Ingresso libero fino ad esaurimento posti.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
La crisi peggiora. Il governo difenda il lavoro. Soprattutto nel Sud Prima la Grecia. Adesso la Spagna. La crisi avanza in tutti gli Stati dell’Unione europea. Preveniamo ulteriori danni e riduciamo il debito pubblico del nostro Paese: investiamo in infrastrutture e servizi. Il governo, frenando sui progetti tipo Ponte di Messina, favorisca la costruzione delle piccole e medie infrastrutture che, specie nel Sud, possono agevolare lo sviluppo dell’agricoltura e del turismo, sistemi produttivi già presenti e da sviluppare al massimo. Potenzialmente, possono ancora generare lavoro e benessere e contrastare la nulla o mala occupazione. Prendiamo la Sicilia: mancano le autostrade, le linee ferroviarie sono a binario unico. E gli aeroporti? Agrigento lo attende da 50 anni! Sforzandosi di allocare meglio le risorse nel Meridione si rafforza il principio di unità, si rilancia il Sud, si agevola il Nord, si aiutano le famiglie (sempre più esposte al rischio povertà) e anche i conti dello Stato.
Domenico Scilipoti
LE POLITICHE DEL GOVERNO FRUTTO DEL DIALOGO TRA LE PARTI SOCIALI Che in Italia sia in atto un attacco ai diritti dei lavoratori lo sostiene solo la Cgil, ma non è così. Le politiche del lavoro del governo godono di un largo consenso e sono state portate avanti attraverso un intenso dialogo con tutte le forze sociali da cui la Cgil ha voluto escludersi. In un periodo di grandi difficoltà economiche sono stati rinnovati i contratti di lavoro in un clima di pace sociale, vengono garantiti, con continuità, interventi di sostegno al reddito adeguati e flessibili, sono in preparazione riforme importanti nei campi della risoluzione delle controversie, del mercato del lavoro e dello Statuto. Del resto, che i lavoratori, soprattutto quelli del settore privato, votino per i partiti della maggioranza è una circostanza assolutamente nota e verificata.
CRIMINALITÀ FRA IMMIGRATI, SPECIE CLANDESTINI
G. C.
Per prevenire l’aggravamento di tumulti e
malavita, l’immigrazione va limitata alle persone regolari, aventi lavoro, casa e mezzi di sussistenza. Può apparire interessata la campagna martellante e accanita - di potenti, privilegiati, contemplativi e sedicenti progressisti - a favore dell’immigrazione praticamente illimitata. L’Italia non è un istituto d’assistenza e beneficenza: non può caricarsi pure della povertà straniera. Anche perché risulta indebolita da disoccupazione, deresponsabilizzazione, ideologia, privilegio partitocratico, carenza produttivistica, sperpero e grande debito pubblico. Buonismo, perdonismo e scarsa efficienza del sistema penale italiano incentivano l’ingresso di stranieri pericolosi, che da noi rischiano meno. In media, il tasso di criminalità degli stranieri è 3,4 volte (se regolari) e 28,3 volte (se irregolari) quello degli italiani. Bisogna contrastare l’immigrazione clandestina nel Belpaese sovrappopolato, straccione e spendaccione. Le prigioni italiane soffrono per sovraffollamento e suicidi. I carcerati d’origine straniera dovrebbe-
Pescare all’indiana Un’immagine di pescatori da Poovar Beach, nel sud dell’India. I pescatori si svegliano all’alba per calare le loro reti e verso le sette del mattino iniziano a ritirarle. I frutti della pesca sono poi divisi tra 30-50 persone
ro scontare la pena nelle loro nazioni originarie. I fautori dell’invasione non amano l’Italia e neppure i migranti, i quali possono ridursi a schiavi o rei quando eccedano le nostre oggettive possibilità d’accoglienza.
Gianfranco Nìbale
LA LECITA PERPLESSITÀ La questione della caccia divide la maggioranza e non è certo di destra, se ricor-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
diamo il famoso referendum di tanti anni fa che venne silurato proprio dalla sinistra dopo che si era detta favorevole ad una incipiente abrogazione. Uccidere animali indifesi in un momento in cui l’inquinamento già fa la sua parte è una cosa che lascia molto perplessi, ma fa più rabbia che si sia fatta una legge “facile” per adeguamento alle norme europee.
Lettera firmata
da ”Today’s Zaman” del 17/05/10
Niente scappatelle per l’Akp di Ekrem Dumanli iro di vite su moralitàe costumi all’interno dell’Akp, il Partito della giustizia e sviluppo del premier Racip Erdogan. Se un membro del partito, regolarmente sposato, dovesse venir scoperto avere una relazione extraconiugale, le dimissioni dal partito sarebbero obbligatorie. Lo ha affermato in una dichiarazione il premier appena rientrato dalla visita ufficiale in Grecia. L’intervento prendeva spunto da una vicenda che aveva coinvolto il leader del partito nazionalista d’opposizione Chp (Republican people’s party) Denyz Baikal che aveva rassegnato le dimissioni da leder del partito, dopo che erano state rese note delle registrazioni compromettenti su di una sua relazione. Erdogan ha espresso il cattivo gradimento per questo tipo di pubblicità, dando ordine che venissero perseguiti gli organi di stampa e i siti internet che avevano messo on line le registrazioni galeotte.
G
Ora il procuratore capo di Ankara ha aperto un’inchiesta «non c’è altro che possa fare al momento» ha poi commentato l’alto magistrato che ha anche criticato alcuni articoli di stampa che chiosavano sul possibile aumento di consensi del Chp legato a tutta la vicenda. Un intervento, quello di Erdogan, sul decadimento morale della nazione, sulla caduta dei valori e, soprattutto, su come sia necessario condannare chi non se ne fa testimone con l’esempio. Insomma soffia un nuovo vento in Turchia che parla di etica e costumi. «Non possiamo voltarci dall’altra parte solo perché sono comportamenti che riguardano la sfera della vita privata» ha poi aggiunto il primo Ministro. «Quando affermo che chi imbroglia
non è una vittima, mi riferisco a entrambe le parti, sia l’uomo che la donna» ha spiegato Erdogan, facendo riferimento diretto alla relazione extraconiugale. Chiaramente poi l’intervento è scivolato sul recente pacchetto di emendamenti costituzionali. Sono considerati incostituzionali «solo da quelle elite» che vorrebbero mantenere uno status di privilegio rispetto al potere giudiziario. Il premier ha anche affermato che andrebbe cassato l’articolo 15 della Carta costituzionale, perché non permette che vengano perseguiti per legge gli autori del colpo di Stato del 1980.
Ha respinto anche gli addebiti di chi nell’opposizione lo accusa di voler stabilire «una dittatura civile» nel Paese. E di chi come il Chp non vuole far votare il parlamento i propri deputati sugli emendamenti costituzionali. «Hanno una forma di governo del partito simile ad una dittatura e la vedono solo fuori del Chp» ha risposto il premier. mentre partecipava a un’iniziativa della confindustria turca. Non sono mancate neanche critiche per il Supreme election board (Ysk) (una specie di corte costituzionale, ndr) che ha indetto il referendum popolare sugli emendamenti per il 12 settembre e non come si aspettava il premier e la maggioranza di governo per il mese di luglio. Da molte parti si è ammesso che l’Ysk avrebbe fatto una forzatura nel ritardare così la consultazione popolare. Sarebbe stata trattata come una vera elezione e di conseguenza si sarebbero calcolati i 120 giorni dalla pubblicazione degli emendamenti costituzionali sulla gazzetta ufficiale. Domenica scorsa in un altro intervento il pri-
mo ministro avrebbe fatto notare che il 12 settembre – che per coincidenza cade nel trentesimo anniversario del colpo di Stato del 1980 – la Turchia avrà un occasione per scrollarsi di dosso un passato che ancora pesa sul presente.
«Questa riforma costituzionale salva la Turchia da una legge per classi privilegiati e restaura nel Paese la regola della legge» ha poi sottolineato Erdogan. Criticata anche la scelta del Chp di fare ricorso alla Corte costituzionale contro gli emendamenti. «C’è chi si rivolge alla Corte costituzionale. Noi ci rivolgiamo alla nazione. Non abbiamo dubbi. Abbiamo sempre affermato che la nazione è più che sufficiente per noi. C’è chi cerca altre strade, ma a noi basta il giudizio del Paese».
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Si jeunesse savait, si vieillesse pouvait Caro Bob, se dovessi ricominciare daccapo, non so, si jeunesse savait, si vieillesse pouvait, non so proprio, credo che rifarei quel che ho fatto, tranne forse cercare di essere più casto in gioventù e di onorare il Sesso al pari di una religione. È una dannazione che il Cristianesimo ci educhi a non riconoscere né a santificare il Sesso. Sembra guardarlo di traverso, girando la testa, oppresso com’è da reminescenze di eremiti e asiatici flagellatori di se stessi. All’alba dei venticinque anni ho riconosciuto definitivamente nel Lingam e nello Yoni i veri simboli religiosi. Potremmo riconoscerli anche con un solo occhio. Ma, per un terribile iato, le nostre moderne religioni non riescono a vedere né a rendere venerabile ciò che dovrebbero vedere per primo e venerare maggiormente. Ebbene, è così, non ho saputo essere più saggio della mia generazione. Bisogna ammetterlo, è a suo modo grandioso il successo, seppure parziale, che ha accompagnato i tentativi di ridurre una religione emotiva - una Scabra Condotta, per nulla o poco allettante - i fatti simbolici, misteriosi e costitutivi della vita. Non che quella condotta non sia costitutiva ma, caspita!, è così desolante! Robert Louis Stevenson a Bob Stevenson
LE VERITÀ NASCOSTE
Come divorziare e vivere felicemente ROMA. Divorziare felicemente è possibile: basta sapere a chi rivolgersi. «L’Italia è oggi pronta per accogliere una nuova figura professionale: il “divorce planner”. Dopo i professionisti per matrimoni è ora il momento di formare i professionisti del divorzio. Gente capace di aiutare le persone che devono divorziare, seguendoli e consigliandoli in tutte quelle tappe che portano due persone a dirsi addio». Lo sottolinea Nicola Santini, giornalista ed esperto di marketing, che da due anni gestisce la più importante scuola di formazione per wedding planner a livello italiano. «In Italia - evidenzia Santini - i divorzi, nel 2009, sono stati 60mila e le separazioni 90 mila. Numeri importanti che oltre a tratteggiare un fenomeno sempre più presente nella società italiana, possono costituire il punto di partenza per costruirsi una carriera ricca di soddisfazioni». «L’avvocato oggi non basta più - precisa Santini perché è preparato per gestire al meglio gli aspetti piu’ tecnici del divorzio. Ma tanti sono gli altri aspetti che ricadono e pesano sulle spalle fragili di chi decide di dirsi addio. Imparare a gestire il rapporto con l’ex, scegliere gli avvocati migliori, trovare una nuova casa, ricrearsi un’immagine presso amici e parenti e gestire il rapporto con i figli sono tutte attività delicate. Rispetto alle quali esistono regole precise che possono fare la differenza tra un divorzio di successo che porta ad una nuova vita e un divorzio penoso che conduce all’infelicità perenne». «Il corso - cobìnclude Santini - si articola in cinque fine settimana e si terrà nelle maggiori città italiane. Non tutti potranno accedere perché ci sarà una preselezione volta ad individuare i candidati migliori». Adesso, dopo il planner per matrimoni e divorzi, ci manca solo quello per le scappatelle extra-coniugali.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
IL TESTIMONE DELLA CAUSA RADICALE Diversamente non poteva essere: il leader dei radicali ha ammesso di essere bisex. «Nella mia vita ho amato tre quattro uomini». Diversamente perché, coerentemente alla “weltanshauung radicale”, Marco Pannella altro non ha fatto che mettere in pratica e testimoniare i principi libertari e libertini partoriti dai fuoriusciti di una costola della sinistra. Poteva non essere “diversamente”, o meglio, “pluri” orientato, il maggior devastatore della famiglia italiana? Poteva non disdegnare le pratiche sodomitiche colui che ha permesso lo “sdoganamento” del divorzio e dell’aborto in Italia? Poteva non fare coming out colui che si batte per i “diritti” degli omosessuali, per l’eutanasia e per la droga libera? Poteva non “reclamizzare”l’ideologia gay colui che sui temi della pedofilia non ha speso una sola parola di condanna? Di Pannella se ne possono dire di cotte e di crude, tranne che sia un cattivo testimone della causa radicale.
Gianni Toffali - Verona
«Grave e insostenibile»: con nessun altro aggettivo Caldoro avrebbe potuto meglio definire un aumento della tassazione in Campania. A 150 anni dall’Unità d’Italia, il governo dimostri con i fatti la solidarietà tra i territori della Repubblica e sblocchi le risorse accantonate, perché non siano i cittadini a pagare gli errori degli amministratori. Sarebbe opportuno che gli assessori alla Salute che si sono succeduti negli ultimi 15 anni dessero conto delle loro scelte, e con loro il dominus della sanità campana.
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina,
Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
GIOVEDÌ 20 ORE 16, TODI, HOTEL BRAMANTE
Consiglio Nazionale Circoli liberal
SEMINARIO TODI 2010 20, 21 E 22 MAGGIO - TODI - HOTEL BRAMANTE
“VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” - Per difendere l’unità d’Italia e ricostruire la Repubblica Inizio lavori giovedì 20, ore 16,30 SEGRETARIO
Marco Di Lello
Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
APPUNTAMENTI MAGGIO 2010
LE SCELTE FATTE
Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak
POCHI MA BUONI Viviamo tempi difficili, pieni di particolarità, e di scandali rocamboleschi. La Chiesa cattolica e il Papa stanno attraversando tempi bui, tanto bui che neanche l’esposizione della Sacra Sindone e il ricordo di Giovanni Paolo II riescono a fare superare. Va detto che chi si macchia di reati contro i minori va perseguito e rimosso. Il ruolo della Chiesa nei secoli è stato di primaria importanza nella storia dei popoli e delle economie politiche degli Stati. La Chiesa dunque come Istituzione va difesa, ma solo essa in quanto tale. Coloro i quali vivono all’ombra dell’istituzione ecclesiale avendone benefici, e commettendo delitti vanno allontanati da ogni ruolo e funzione. Ma cosa c’è dietro questo scandalo che è mondiale? Qualcosa di più di un semplice reato. C’è sicuramente una Chiesa nuova e diversa che deve nascere se non vuole essere travolta dalla storia, c’è sicuramente anche chi ci specula, c’è una concezione nuova della società. Ecco dunque che urge da parte della Chiesa tralasciare i numeri e puntare realmente sulla qualità e convinzione delle scelte dei sacerdoti, perché sempre più spesso vediamo parroci demotivati, che vivono il sacerdozio come un impiego, e già questo è grave, figurarsi le accuse che in questo periodo storico stanno coinvolgendo la Chiesa a livello internazionale. La vera Chiesa siamo noi fedeli, ma le rappresentanze ecclesiali devono stringere i cordoni dell’accesso al sacerdozio, meglio territori e comuni con validi supplenti, che parrocchie con sacerdoti che poco fanno e nulla dicono da consacrati. Il ruolo dei sacerdoti e dei vescovi diventa sempre più importante e impegnativo in una società complessa come la nostra, in cui i rapporti interpersonali mutano, le religioni monoteiste hanno un ruolo sociale e culturale diverso dal passato, in cui anche l’aspetto non dogmatico del celibato va ripensato per avere una Chiesa di sacerdoti che potrebbero essere sposati e non sposati, a secondo delle singole scelte individuali. L’indole antropologica umana non può sempre essere dominata dalla sola fede, la chiesa deve rivedere le proprie teorie sulla sessualità, per avere maggiori sacerdoti consacrati convinti e forti nel corpo e nello spirito per vivere la castità per un’intera vita. Luigi Ruberto C I R C O L I LI B E R A L MO N T I DA U N I
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
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ULTIMAPAGINA Disagi. Anche Sean Penn e Jean Luc Godard disertano il festival all’ultimo momento, dopo Hopkins, Scott e Banderas
A Cannes vanno in scena di Andrea D’Addio il giorno di Stephen Frears, Alejandro González Iñárritu e Takeshi Kitano, insomma, uno di quelli più ricchi del festival, non a caso posizionato dagli organizzatori a metà della manifestazione, eppure si respira aria di disfatta.
È
La notizia del giorno è infatti duplice: sia Jean Luc Godard che Sean Penn non verranno sulla Croisette. Il forfait del maestro francese, uno dei più attesi sulla Costa Azzurra dato il suo spirito anticonvenzionale, è stato davvero dell’ultimo minuto. «Non ho la voglia e la forza per venire.Verrei al festival fino alla morte, ma non sono disposto a fare un passo di più, mi dispiace molto» ha scritto, forse in tono polemico, in un bigliettino di sole lettere maiuscole indirizzato a Thierry Frémaux, direttore generale del festival. Dell’assenza di Godard si è saputo solamente pochi minuti prima dell’inizio della conferenza stampa del suo Film Socialisme, inserito nella sezione Un Certain Regard, mentre i giornalisti stavano entrando in sala: stupore dei presenti e imbarazzo degli organizzatori. Di Sean Penn e del suo mancato arrivo si è invece saputo l’altro ieri. Giovedì sarà proiettato il suo ultimo lavoro da interprete, Fair Game, un film d’azione che probabilmente Cannes aveva accettato di inserire in concorso solo per dare visibilità al suo protagonista. Il regista è Doug Liman, lo stesso di blockbuster come The Bourne Identity e Mr & Mrs Smith , film ben lontani dalle solite politiche d’autore scelte per il cartellone ufficiale. Il festival, per giustificare l’assenza di Penn, ha parlato di motivi legati al continuo impegno del divo in questioni umanitarie. Non può attraversare l’Atlantico, ha poco tempo libero e quel poco preferisce utilizzarlo per ragioni più nobili. La scusa sembra parecchio ambigua e lascia qualche dubbio. È vero che la settimana scorsa Penn è stato condannato da un tribunale della California a svolgere 300 ore di servizio sociale per avere aggredito un paparazzo, ma non saranno due giorni a Cannes ad accelerare il suo scontare della pena. E dire che solo due anni fa l’attore e regista americano fu invitato come Presidente di giuria. Bella riconoscenza! Alcuni dicono, ma nessuno conferma, che giovedì Penn presenterà un discorso al senato americano sullo stato di Haiti a cinque mesi dal terremoto. Strano che un evento di tale importanza possa essere organizzato con solo una settimana d’anticipo, se anche fosse vero, di certo l’assenza era preventivata da tempo ed è stata comunicata solo all’ultimo per salvare quantomeno le apparenze di un festival che i grandi nomi, almeno, li aveva invitati. La domanda a questo punto è questa: che il festival di Cannes stia perdendo quel fascino che lo rende un evento a cui non si può non partecipare? L’annata in questione si sta infatti rivelando piuttosto povera in termini di star (da cui consegue la copertura mediatica e gli investimenti futuri degli sponsor). E anche
gli ASSENTI
Anthony Hopkins. In basso: Sean Penn. Nelle foto in alto, Ridley Scott e Jean Luc Godard. A sinistra la locandina del Festival
quelle poche che erano attese, stanno spesso mancando l’appuntamento. Il primo della lista è Sir Ridley Scott che, nonostante avesse l’onore dell’apertura ufficiale, si è limitato a un collegamento via streaming (oltretutto di qualità pessima) durante la conferenza stampa per parlare del suo Robin Hood. Pochi giorni prima era stato operato al ginocchio (un intervento pianificato da tempo) e non aveva calcolato bene i tempi di recupero. Sabato le assenze sono state meno clamorose, ma altrettanto importanti. È vero che Woody Allen è un genio che non ha bisogno di condividere la scena con nessuno per attirare l’attenzione, ma quando nel cast del proprio film si hanno Anthony Hopkins e Antonio Banderas, il tanto pubblico di Cannes si aspetta di vederli almeno qualche minuto sul tappeto rosso a rilasciare autografi. E invece nulla, nonostante Anthony Hopkins stia girando un film in questi giorni a Roma (e cioè a meno di due ore di aereo) e Banderas non abbia avuto negli ultimi anni performance di particolare richiamo.
Cannes lo avrebbe un po’ rilanciato, eppure ha preferito dedicarsi ad altro. Marco Müller, il direttore del festival di Venezia, si starà già sfregando le mani. L’anno scorso Cannes stupì tutti ospitando i nuovi film dei vari Tarantino, Haneke, Sam Raimi, Terry Gilliam, Ange Lee, Lars Von Trier. Prima ancora che Venezia annunciasse il proprio programma, Cannes aveva già vinto, e con distacco, l’annuale competizione. Date le premesse, il 2010 sembra invece sorridere alla manifestazione lagunare. Con il già annunciato Quentin Tarantino a capo della giuria, tutti danno ormai per certa l’apertura della Mostra con L’albero della vita, nuova opera dello schivo e poco prolifico Terrence Malick (sei film in quarant’anni, pochissime interviste). Si tratta di un vero e proprio evento. Qualche mese fa lo davano per certo a Cannes, averlo in Italia a inizio settembre sarebbe un bello smacco per il festival che si considera il primo della classe.