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ISSN 1827-8817 00520

he di c a n o r c

La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta Theodor W. Adorno

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 20 MAGGIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Una Corte thailandese spicca un mandato d’arresto contro Thaksin Shinawatra, accusato di fomentare il terrorismo interno

La guerra di Bangkok Le camicie rosse danno fuoco alla Borsa e alla tv di Stato: ucciso un fotoreporter italiano Dietro alle proteste c’è la mano di Pechino, che cerca in ogni modo di “conquistare”il Paese Oggi a Todi il seminario Udc

Il partito della nazione oltre il bipolarismo di Francesco D’Onofrio incontro che si apre oggi a Todi costituisce una tappa fondamentale del cammino della costruzione del nuovo Partito che sta prendendo vita sul tronco dell’Unione di Centro. Si è partiti dalla sconfitta politica e culturale del cosiddetto “voto utile” con il quale il Pdl e il Pd erano andati alle elezioni politiche del 2008, con l’illusione che si stesse chiudendo in chiave bipartitica la transizione italiana aperta all’inizio degli anni NovanDobbiamo ta. L’Unione uscire di Centro è dallo stallo sopravvissuche blocca ta in Parlamento perl’Italia tra ché aveva ripopulismo e negazione petutamente affermato dei grandi che il pluracambiamenti lismo sociale italiano non poteva neanche indirettamente essere rappresentato in Parlamento da due aggregati elettorali che pretendevano di essere due partiti politici. Le ragioni della nostra vittoria elettorale erano strategiche. Avevamo infatti affermato che l’illusione di Pdl e Pd si sarebbe dimostrata tale proprio nel corso di questa legislatura, risultando evidente il limite della politica scelta all’epoca da Berlusconi e da Veltroni.

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L’esercito thai porta via un cadavere dalle strade di Bangkok. Nel quadrato, il fotoreporter italiano Fabio Polenghi morto durante gli scontri nella capitale. Nella giornata di ieri, i ribelli hanno appiccato il fuoco alla Borsa e alla televisione di Stato

SCONTRI ANCHE AL NORD

IL SILENZIO DI RAMA IX

CHI ERA FABIO POLENGHI

DIETRO LE PROTESTE

Il coprifuoco arriva ovunque

La Cina sfrutta un re debole

Il coraggio di un reporter

Il tycoon d’Asia che guida i rossi

di V. Faccioli Pintozzi

di Pierre Chiartano

di Antonio Picasso

di Massimo Fazzi

Non è mai un buon segno, quando un governo censura internet. Il segno è tanto più inquietante se avviene in Thailandia, storicamente liberale persino con i movimenti di protesta.

Si chiama Bhumibol Adulyadej, o Rama IX, ed è il monarca della Thailandia. È salito al trono nel 1946 ed è considerato un semidio. La sua debolezza è la debolezza del Paese.

Semplicemente un fotografo. Così Isabella Polenghi ha voluto commentare la morte del fratello Fabio, avvenuta a Bangkok durante gli scontri fra l’esercito e le “Red Shirts”.

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La sua faccia ha osservato la capitale in fiamme. Thaksin Shinawatra, ex “uomo forte” della Thailandia, è considerato a ragione l’ispiratore e il finanziatore delle camicie rosse. a pagina 4

Via al nuovo demanio. Intanto passano multe e carcere per le intercettazioni

Il federalismo Calderoli-Di Pietro Crolla Piazza Affari. Berlusconi: «Niente taglio delle tasse» COME CAMBIA IL PROVVEDIMENTO

di Marco Palombi

ROMA. L’immagine del nuovo federalismo all’italiana è un abbraccio inedito. Quello tra Roberto Calderoli e Antonio Di Pietro che ieri hanno festeggiato l’approvazione in commissione del primo decreto attuativo della “grande riforma”. Si tratta del cosiddetto “federalismo demaniale”. Sempre in Commissione, è passato un altro provvedimento molto contestato: chi pubblica le intercettazioni telefoniche sarà punibile o con una multa pesante (gli editori) o con il carcere (i giornalisti). Immediate le proteste. Ma per due novità che arrivano, ce n’è una che se ne va: «Non ci sono soldi per diminuire le tasse», ha ammesso Berlusconi.

a pagina 6 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

a pagina 8 I QUADERNI)

Ma in realtà Bossi ha (quasi) perso di Gianfranco Polillo opo tanto dibattere e di fronte al muro di critiche nei confronti di un approccio puramente giuridico, il Parlamento ha fatto la sua parte. Il parere uscito dalla Commissione bilancio della Camera dei deputati corregge, con condizioni vincolanti, l’originario testo del decreto sul cosiddetto “federalismo demaniale”. È una buona notizia sia per le esangui casse dello Stato, sia per coloro che temevano uno spezzatino.Cedere a cuor leggero beni pubblici – che appartengono a tutti noi – non sarà possibile. Il ricavato dell’eventuale valorizzazione andrà ripartito tra Centro e Periferia.

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Ancora speculazione nei mercati

Che cosa ha davvero in mente la Merkel Tra Euro debole e Borse a picco, il futuro dell’Europa passa sempre di più per Berlino Francesco Pacifico e Enrico Singer • pagine 10 e 11

• ANNO XV •

NUMERO

96 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

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Thailandia. I ribelli si arrendono, ma la guerra arriva nel Nord. Il governo ordina il coprifuoco e oscura Twitter e Facebook

Pechino chiama Bangkok Le camicie rosse danno fuoco alla Borsa e alla televisione di Stato. Ma ora aumenta il rischio di ingerenza da parte della Cina negli scontri di Vincenzo Faccioli Pintozzi

BANGKOK. Non è mai un buon segno, quando un governo censura internet. Il segno è tanto più inquietante se avviene in Thailandia, Paese storicamente liberale persino con i movimenti di protesta. Perché la sparizione improvvisa di Twitter e Facebook dalla Rete è quasi una prassi per Cina, Myanmar e tutte le altre nazioni autocratiche dell’area asiatica: ma vedere la schermata nera per i contatti thailandesi dimostra che gli scontri fra esercito e camicie rosse sono ben lontani dall’essere finiti. Tutti puntano l’attenzione sulla resa dei rossi nella capitale dopo una giornata campale: ma nessuno si prende il disturbo di notare che nel nord-est della Thailandia, la “terra elettorale” dell’ex premier Thaksin Shinawatra, i manifestanti hanno dato fuoco a un municipio. E l’esercito, nonostante la resa, autorizza i propri uomini a sparare a vista contro chi appicca incendi e «compie altri atti di terrorismo”. Ma andiamo con ordine. In Thailandia è in atto una vera e propria rivolta sociale che va oltre la lotta politica: si tratta di conflitti radicati nel passato e mai risolti, che vedono la contrapposizione di classi sociali diverse, mai del tutto omologate fra di loro. Nella giornata di ieri, la terza di guerriglia urbana fra esercito e manifestanti anti-governativi, si sono verificate decine di nuovi morti, che si aggiungono alle 16 vittime (oltre 140 i feriti) registrate nelle precedenti ventiquattro ore. Si parla di decine perché, dai vari roghi appiccati in giro per Bangkok, ancora non è uscito nessuno. Gli scontri fra militari e sostenitori del partito di opposizione “rosso” United Front for Democracy against Dictatorship (Udd) sono ripresi ieri in mattinata. L’esercito, dopo un iniziale momento di sbandamento, ha individuato una “live firing zone” in cui è stato autorizzato a operare in uno stato di guerra. Il Centre for the Resolution of the Emergency Situation ha dato il via libera ai soldati per «sparare proiettili veri ad altezza d’uomo». La prima offensiva dei militari è scattata nel tardo pomeriggio del 13 maggio scorso, allo scadere dell’ultimatum lanciato dal governo alle “cami-

cie rosse”. L’esecutivo aveva proposto elezioni anticipate per il 14 novembre prossimo e lo scioglimento del Parlamento entro fine settembre.

I leader della rivolta hanno chiesto (invano) la messa in stato di accusa del vice-premier, presunto responsabile delle violenze del 10 aprile. Un appello alla pace arriva dal segretario generale Onu Ban Kimoon, che ha «incoraggiato con forza [governo e camicie rosse] a ritornare al tavolo del dialogo». Intanto si fa sempre più grave il bilancio della crisi, divampata a metà marzo con le proteste di piazza dei manifestanti antigovernativi. In due mesi sono morte 46 persone, di cui una ventina negli ultimi tre giorni; oltre 1400 i feriti. L’ex premier in esilio Thaksin si è rivolto al governo perché riprenda i colloqui di pace. L’esecuti-

L’esecutivo thai autorizza in serata i militari a sparare a vista «contro chiunque appicchi il fuoco» vo intende proseguire nella linea dura e annuncia che «nei prossimi giorni la situazione tornerà alla normalità». Sul fronte delle “camicie rosse” emergono le prime spaccature: una parte dei leader intende continuare a oltranza la lotta; un secondo fronte, di pari consistenza, auspica la fine delle violenze e il ritorno alla legalità. Kokaew Pikulthong parla di «divisione 50 e 50» e aggiunge: «Fosse per me, preferirei fermarmi». Un altro leader “rosso”, Kwanchai Praipana, annuncia «lotta a oltranza fino a che il governo non si assume le proprie responsabilità». Nel frattempo si fanno sempre più critiche le condizioni delll’ex ufficiale dell’esercito Khattiya Sawasdipol, soprannominato il “Comandante rosso”. Alleatosi con i manifestanti anti-governativi, è considerato il capo operativo dell’ala “militare” delle “camicie rosse” e portavoce della lotta a oltranza contro il governo. Le sue condizioni sono critiche e, secondo i medici, «potrebbe morire in qualsiasi momento». Tutto questo cam-

LE FASI DELLA BATTAGLIA Il terzo giorno di scontri si apre con un assalto al cuore del potere: le camicie rosse danno fuoco alla Borsa

I rivoltosi tentano di aumentare le provocazioni contro l’esercito: la guerriglia inizia a usare i civili come scudo

I “rossi” attaccano la televisione. Lo scopo è quello di occupare le trasmissioni e lanciare un segnale al mondo

Dopo un iniziale momento di sbandamento, l’esercito si ricompatta e inizia a rastrellare le strade di Bangkok

È la fine, almeno della protesta nella capitale. I leader delle camicie rosse si arrendono da soli al governo

bia nel pomeriggio, quando il fronte dei rossi si ricompatta e decide a favore della resa. Ma questo non basta al governo, che sembra volersi vendicare: in serata emana ordini estremamente restrittivi, oscura i mezzi di comunicazione online e autorizza i militari a sparare a vista contro chi appicca il fuoco o compie «altri gesti di terrorismo». La mano dura era prevedibile, ma pericolosa. Come già detto, quello in corso in Thailandia non è più uno scontro di tipo politico, ma una vera e propria rivolta sociale. I conflitti, le divisioni, le ingiustizie del passato sono nodi che oggi vengono al pettine, perché nessuno le ha mai affrontate in modo serio. A questo si aggiunge una interferenza culturale di personalità che hanno studiato all’estero e che vogliono proseguire la battaglia per un cambiamento radicale della società. L’attentato al generale rosso è nei fatti un attacco mirato contro il leader dell’ala militare dei ribelli, che conosce le tecniche di guerra e ha curato la costruzione delle barricate: la sua morte indebolirebbe moralmente la resistenza. Il teatro della rivolta, inoltre, è concentrato in una zona limitata di Bangkok, mentre il resto della capitale e il Paese è sotto uno stretto controllo di polizia e militari. Per varcare i confini di una provincia è necessario superare i blocchi delle forze dell’ordine. Ma questo impedisce una diffusione a macchia d’olio della rivolta, tanto che sempre ieri i primi scontri si sono verificati persino nel nord del Paese. In tutto questo va sottolineato il silenzio di re Bhumibol, noto anche come Rama IX, che non è mai intervenuto in questi due mesi di crisi e che nessuno dei due fronti in lotta vuole coinvolgere nella guerriglia.

Q ue s t o s i l e n z i o , t u t t a v i a , contribuisce ad alimentare la confusione: il monarca era riuscito con la sua sola “moral suasion” a scongiurare almeno tre colpi di Stato, negli anni scorsi. Il regno di Bhumibol è noto per essere il più longevo del mondo. Il re è amato in modo sincero dalla popolazione: il sovrano si è infatti adoperato per migliorare le condizioni della popolazione, in modo particolare nelle aree rurali, e di sovente il suo intervento è stato fondamentale per risolvere crisi poli-


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Cecchini dell’esercito thailandese prendono la mira contro le barricate delle camicie rosse e contro i veicoli sospetti. Ieri, i leader della protesta si sono arresi: il rischio è che gli scontri ripartano nel nord della Thailandia. In basso il fotoreporter italiano Fabio Polenghi

Fabio, il coraggio di un reporter Sono sparite le attrezzature e anche le fotografie di Polenghi, ucciso ieri nella capitale di Antonio Picasso

BANGKOK. Semplicemente un fotografo. Così Isabella Polenghi si è limitata a commentare la morte del fratello Fabio avvenuta ieri a Bangkok, durante gli scontri fra l’Esercito thailandese e le “Red Shirts”, che vorrebbero sovvertire il governo attuale. Una riflessione che, nella sua sintesi, spiega l’essenza del mestiere del fotoreporter. Per chi segue le cronache, soprattutto di guerra, la presa diretta è un elemento irrinunciabile. Tuttavia i giornalisti possono scrivere un pezzo nella tranquillità di una stanza d’albergo. Molti inviati sono riusciti a raccontare i fatti accaduti spacciandosi in prima linea, quando venivano invece informati dalle loro “staffette” inviate sui fronti di combattimento a raccogliere notizie. Un fotografo però non si può permettere questo lusso. Per fare il suo mestiere - soprattutto oggi con la crisi mondiale dell’editoria e con la possibilità tecnologica di una circolazione sempre più dinamica delle immagini e delle notizie - Fabio Polenghi doveva esporsi in prima persona. Polenghi aveva 45 anni, milanese. Non era solo un fotografo di guerra.

Anzi, i suoi interessi spaziavano dal reportage al ritratto, dalla moda alla pubblicità. I suoi colleghi di Milano, che lo conoscevano da anni, ci tengono a sottolineare che non era uno sprovveduto. Polenghi si era trasferito nel sud-est asiatico circa tre mesi fa. Quasi un’intuizione, la sua - che è propria di chi scatta immagini - che la zona si sarebbe surriscaldata. Spesso, quando un reporter viene direttamente coinvolto negli avvenimenti – e la sua vita diventa il prezzo per un’ecces-

tiche. Per la stragrande maggioranza dei thailandesi il re è la vera anima del Paese. Nato negli Stati Uniti a Cambridge, in una stanza d’ospedale che era stata temporaneamente dichiarata territorio thailandese,

siva esposizione – si tende prima a farne un martire, poi a rivederlo come un irresponsabile. Polenghi era un fotografo. È giusto ripetere le parole della sorella per comprendere che alcuni mestieri implicano una variabile di rischio. Per essere bravi bisogna essere capaci di calcolare questa incognita.

È evidente quindi che, se a Polenghi non mancava l’accortezza, sia subentrato qualche altro elemento di squilibrio. Alcune fonti dalla Thailandia riferiscono che la macchina fotografica e il materiale che la vittima aveva addosso al momento dell’incidente non si trovano più. È possibile che, durante la confusione dei primi soccorsi, oppure nel trasporto di Polenghi in ospedale, i suoi strumenti di lavoro siano andati perduti. Chissà nelle mani di chi sono finiti e chissà se, una volta riottenuti, non saranno stati “depurati” di scatti scomodi a qualcuno. In casi come questi la censura è la prima ad attivarsi. Polenghi è stato colpito mentre era insieme ad alcuni colleghi di testate straniere che assistevano all’ingresso dei mezzi blindati dell’Esercito thailandese nel quartier generale del “Red Shirts” a Bangkok. La crisi del Paese ha subito un’escalation durante lo scorso

il re è salito al trono nel 1946 a 19 anni. In quegli anni l’istituto monarchico era in crisi e rischiava di essere eliminato. Il legittimo erede al trono era il fratello maggiore di re Bhumibol, che però è deceduto in cir-

fine settimana, quando durante le sommosse nella capitale sono morte 36 persone. Ieri il bilancio delle vittime si è fermato a 5, compreso il reporter italiano. Sono stati dati inoltre alle fiamme la sede di un canale televisivo privato, ma soprattutto il palazzo della Borsa di Bangkok, simbolo del dinamismo finanziario della “tigre asiatica”. In totale sarebbero però una ventina gli edifici presi di mira dalla sommossa. In questo modo si sta verificando ciò che gli osservatori stranieri temevano. L’intransigenza di ambo le parti ha aumentato le tensioni. Queste stanno prendendo il sopravvento in un impero economico che, a questo punto, si trova profondamente ferito

I giornalisti possono comodamente chiudersi in albergo a scrivere articoli. Per i fotografi è diverso nelle sue istituzioni. Le sommosse però stanno coinvolgendo anche il resto del Paese. Finora sono 24 su 76 le province che hanno dichiarato lo Stato di Emergenza. Da come viene valutata la resistenza delle “Red Shirts”, si prospetta davvero una guerra civile. In realtà la situazione interna del movimento di protesta appare in un certo senso fluida. Lo “United Front for Democracy against Dictatorship” (Udd), identificato qui in Italia con l’appellativo di “Camicie Rosse”, ap-

costanze mai chiarite. Re Bhumibol ha pochi poteri personali, ma ha superato 17 colpi di Stato, mai del tutto pacifici.

Ha visto 20 primi ministri e ben 15 costituzioni. A 78 anni

punto le red shirts indossate dai suoi militanti, si presenta con una base esplicitamente determinata ad andare avanti nelle manifestazioni. D’altro canto, proprio ieri sera, alcuni leader dell’Udd hanno dichiarato la resa di fronte allo strapotere delle forze regolari. Le Molotov e alcune armi da fuoco hanno potuto far poco di fronte ai carri armati che hanno devastato le barricate più o meno improvvisate nelle strade della capitale thailandese. La decisione del vertice del movimento è stata però accolta con aperta contrarietà da parte di coloro che da un mese sono scesi in piazza per sovvertire il regime.

Resta oltre modo sorprendente il comportamento di Thaksin Shinawatra. L’ex premier thailandese era caduto per mano di un golpe due anni fa e si era rifugiato a Dubai. Da lì non si è ancora mosso in queste quattro settimane di sommossa nel suo Paese, dove un gruppo consistente di manifestanti sta combattendo - e soprattutto morendo - per riportarlo alla leadership del governo. È uno scenario frequente in quella regione del mondo. Il “Principe” attende che i suoi sudditi si siano dimostrati sufficientemente valorosi per onorarli della sua presenza sul campo di battaglia. Sicuramente è un comportamento poco eroico da parte di Thaksin, più celebre per le sue qualità di tycoon e di finanziere piuttosto che come guerriero. In nome di Thaksin però, la Thailandia rischia di cadere nel baratro della guerra civile. Era questo che Fabio Polenghi cercava di far sapere all’Occidente.

comincia a mostrare dei segni di stanchezza, e questo preoccupa la popolazione. E la sua debolezza rischia di aprire la porta di servizio alla Cina, che non vede l’ora di approfittare della confusione per in-

serire propri uomini nelle infrastrutture del Paese. D’altra parte, il confinante Myanmar è già di fatto protettorato di Pechino. E un grosso territorio fa ancora più gola all’Impero di Mezzo.


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l’approfondimento

Ieri, il “Berlusconi d’Asia” ha dichiarato: «Se i militari sparano contro il popolo, è legittimo rispondere al fuoco»

L’ultima mossa

La guerra civile è la carta finale di Thaksin Shinawatra, l’ex premier, in esilio a Dubai, che finanzia le “camicie rosse”. Il suo esercito di fedelissimi sta usando tutti i mezzi possibili per ottenere il suo rientro in patria. Infiammando il Paese di Massimo Fazzi a sua faccia ha ricoperto, in senso letterale, la capitale in fiamme. Thaksin Shinawatra, ex “uomo forte” della Thailandia, è considerato a ragione l’ispiratore e il finanziatore delle camicie rosse. Che ne chiedono il rientro in patria dopo una brutta serie di indagini legate alla corruzione. Ma la sua vita, che sembra un romanzo, sembra attendere il nuovo capitolo; e anche se i suoi rapporti con la Cina sono un po’ troppo stretti (tanto da far aleggiare il sospetto che stia cercando di “vendere” il Paese a Pechino), merita un nuovo approfondimento. Gestore di cinema, poliziotto, miliardario, tycoon delle telecomunicazioni, primo ministro, presidente del Manchester City, primo ministro in esilio, condannato. E molto presto, probabilmente, primo ministro di nuovo. È impossibile stabilire quante vite potrà vivere Thaksin Shinawatra, ex “uomo forte” della Thailandia, che dal suo dorato esilio in giro per il mondo ispira - e molto proba-

L

bilmente sostiene economicamente - l’esercito di “camicie rosse” che in questi giorni sta mettendo a soqquadro il Paese leader del Sud-Est asiatico.

La sua è una storia da raccontare, anche per spiegare come mai abbia guadagnato quel soprannome con cui ha tenuto banco fino alla detronizzazione nei meeting internazionali: il “Berlusconi d’Asia”. Un soprannome che lui ritiene un complimento. Nato il 26 luglio del 1949 a Chiang Mai, nella Thailandia meridionale, Shinawatra (che si pronuncia Chin-a-what) è il giovane erede di una dinastia che regna incontrastata nel campo del commercio della seta. Sono 50 anni che la sua famiglia non teme rivali nel settore, uno dei più redditizi dell’area, e il giovane Thaksin lavora sodo e a stretto contatto con il padre per assicurare il suo contributo. Per premiarlo dello zelo, l’anziano genitore Boonlert gli permette di aprire - appena sedicenne uno dei primi cinema della zo-

na: una mossa quasi profetica, visto il ruolo predominante che in futuro ricoprirà nel campo delle telecomunicazioni. Ottimo studente, il ragazzo entra nella Scuola di polizia nazionale, uno degli istituti più noti del Paese, da cui uscirà nel 1973 per partire alla volta degli Stati Uniti. Ha vinto una Borsa di Studio statale, che gli permette di laurearsi in Giustizia criminale nell’Università orientale di Richmond, nel Kentucky. Nel 1978 ottiene un dottorato all’Università di Huntsville, in

Tycoon delle tlc, ha puntato tutto sul populismo e sull’amore dell’elettorato

Texas, nella stessa materia.Torna in patria, convinto della necessità di assicurare l’ordine e la disciplina nella natia Thailandia: compito che svolge in maniera ottimale per quattordici anni, quando il richiamo del primo amore lo spinge a mollare tutto e tornare al cinema. Si butta nella produzione del non memorabile Bann Sai Thong per far felice il padre, ma pur se deluso dagli incassi della pellicola matura la scelta di lasciar perdere l’ordine pubblico. Nel 1987 mette in piedi la sua pri-

ma società - la Shinawatra Company - che ha la peculiarità di occuparsi in maniera esclusiva di un ramo del mercato fino ad allora quasi ignorato: la tecnologia informatica, sia per quanto riguarda il software che per ciò che concerne l’hardware.

Un anno dopo, l’esplosione commerciale: sostenuto brillantemente dalla rete di contatti già saldamente in mano agli altri membri della sua dinastia, si unisce alla Pacific Telesis e sfonda nelle telecomunicazioni. Ma un anno dopo, i conflitti con il troppo morigerato Consiglio d’Amministrazione convincono il piccolo leader a lanciare una nuova avventura: la Shinawatra Paging, che decide di puntare - ancora una volta con rara lungimiranza - nel campo della telefonia cellulare. Sulla strada, quasi incidentalmente, Thaksin approva il lancio di comunicazioni via satellite e convince il governo di Bangkok a sposare la causa: la motivazione più forte è che la


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Politici e generali hanno sempre guardato al Palazzo reale per avere soluzioni pratiche

L’incognita di re Bhumibol, un sovrano piccolo piccolo Il monarca, noto anche come Rama IX, ha fermato in passato diversi colpi di Stato. Oggi la malattia lo rende impotente davanti agli scontri di Pierre Chiartano i chiama Bhumibol Adulyadej o Rama IX è il monarca della Thailandia. È salito al trono nel 1946 ed è considerato un semidio, ma ora sta morendo. La sua debolezza è la debolezza del Paese, oggi in bilico tra una rivoluzione che non dispiacerebbe a Pechino e una situazione interna assai complessa. Il suo regno è uno dei più lunghi della storia in assoluto, non solo in Asia ma di tutto il pianeta. Il Paese è una monarchia costituzionale, ma Bhunibol non è mai stato alla finestra a guardare ciò che accadeva nel paese. Ha voluto fare il ”politico” nel vero senso della parola e ben oltre il ruolo simbolico che il sistema istituzionale gli aveva ritagliato. Si è guadagnato la fama di «Grande» o Maharaja termine con il quale lo chiamano i suoi concittadini e sudditi.

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Negli anni è riuscito a sventare numerosi tentativi di colpo di Stato, ma ora all’ottantreenne sovrano le forze stanno sfuggendo. L’attuale costituzione stabilisce chiaramente che il Re non ha più il potere legislativo, che spetta all’Assemblea nazionale, ma ogni norma ha comunque bisogno dell’approvazione del sovrano per diventare efficace. Con l’ultima Costituzione, entrata in vigore l’11 ottobre 1997, si è sancito il

tramonto delle giunte militari, che per lunghi periodi hanno gestito il potere. In particolare il Senato, non più di nomina regia, è eletto attraverso voto popolare ed è stata abolita la norma che riservava ai militari i due terzi della composizione della Camera dei deputati. Lui è dunque uno degli ultimi ostacoli che si frappone alle mire economiche cinesi nel Paese asiatico.

Fin dalla nomina del console della vicina potenza, Zhu Weimin, uomo forte e fidato di Hu Jintao, si è capito che questo sarebbe stato un anno cruciale per il Paese. I morti nelle piazze di Bangkok spiegano solo una parte dei problemi che sta attraversando il Paese, un tempo caposaldo dell’alleanza occidentale in Asia. Ora la forte minoranza cinese nel Paese che controlla il commercio e altre attività economicamente strategiche potrebbe diventare un cavallo di Troia per gli interessi del Chung Kuò. Sono la componente “non thai” più importante e hanno sempre avuto un ruolo egemone in economia. Ora il tentativo è quello di far passare la protesta come un conflitto sociale contro un governo classista, ma in realtà dopo l’uscita di scena dell’ex premier Thaksin Shinawatra, il nuovo governo ha continuato lungo la traccia d’iniziative populiste varate dalla precdente amministrazione, attirando le critiche della middle class e degli strati sociali più fortunati, che vengono chiamati «camicie gialle» per distinguerli dalla «camicie rosse» cui appartengono gli strati più poveri e rurali. Il rischio però che si passi dal conflitto politico a quello sociale non è remoto. Il re Rama IX è stato quello che spesso viene definito un monarca illuminato, visto che spesso ha utilizzato il patrimonio personale per finanziare progetti di sviluppo in aree depresse della nazione. Personaggio eclettico e amante delle arti, nasce nel 1927 al Mount Auburn Hospital di Cambridge nel Massachusetts. La madre non aveva sangue blu e lui appena dopo la nascita rientrò in Thailandia. Poi nel 1933 la famiglia rifà le valigie per la Svizzera, dove il futuro regnante dell’antico Siam, frequenterà le scuole fino all’università di Losanna. In quel periodo il fratello sale al trono e lui diventa un dignitario di rango. Lo scoppio della seconda guerra mondiale lo tiene ancora lontano dall’Asia.

Nel 1946 la storia di famiglia si tinge dei colori del giallo e del mistero. Il re fratello viene trovato nella camera da letto ucciso da un colpo di pistola alla testa. Bhumibol diventa principe reggente fino all’incoronazione ufficiale avvenuta nel 1950. Da allora l’impegno del monarca asiatico è stato improntato al bene dei suoi concittadini. Tanto che nel 2006 le Nazioni Unite lo hanno premiato per la sua ultradecennale attività a favore dei poveri e diseredati del suo Paese. Un riconoscimento abbastanza raro

fra le case regnanti. Da questo suo impegno nasce l’assoluto rispetto e l’amore che i thailandesi nutrono nei confronti del proprio re. Tanto che fare ironia sulla corona viene equiparato a un sacrilegio e a un’offesa da punire per legge. Un rapporto di fiducia quello che lega Rama IX al suo popolo che potrebbe salvare la Thailandia da guai peggiori. Ma il silenzio di re Bhumibol, notano molti osservatori – che non è mai intervenuto in questi due mesi di crisi – contribuirebbe ad alimentare la confusione. Nessuno dei due fronti in lotta lo ha voluto fino ad ora coinvolgere.

Ricordiamo infatti che il monarca è anche capo delle forze armate e difensore della religione buddista. Lo scorso 5 maggio era il giorno dedicato alla ricorrenza dell’incoronazione. Le camicie rosse che protestavano nel quartiere finanziario della capitale hanno festeggiato rimanendo dietro le barricate costruite dal generale Sawasdipol. Il vecchio re, ormai malato, ha fatto una breve apparizione a palazzo, nel centro di Bangkok, vestito con la divisa bianca da cerimonia. Seduto sul trono al fianco della consorte, la regina Sirikit, figlia dell’ambasciatore thailandese a Parigi e lì conosciuta negli anni Cinquanta. La coppia si fidanzò ufficialmente poco dopo e il 28 aprile 1950, una settimana prima dell’incoronazione ufficiale, si unì in matrimonio. La ricorrenza, che è festa nazionale, si è svolta in tutto il Paese, mentre alcuni monaci prendevano posizione di fronte alle barricate “rosse” per cantare preghiere in favore della salute del monarca. Bhumibol era stato ricoverato in ospedale nel settembre dello scorso anno per le sue ormai precarie condizioni di salute.

Thailandia «non può subire l’umiliazione di affittare da altri Paesi lo spazio sui mezzi spaziali». Nel 1990, l’oramai affermato tycoon delle comunicazioni festeggia una concessione ventennale con l’Organizzazione telefonica tailandese, che gli cede la gestione di rete e ripetitori. Allo stesso tempo, però, vanta un debito con la stessa di venti miliardi di baht (che tradotto in euro fa 460 milioni, più o meno) che dovrà ripagare nel corso dello stesso periodo. Oggi la rinominata Shin Corporation è una conglomerata delle comunicazioni che si divide in due aziende maggiori, la Shinawatra Computer e Communications Plc e la Advanced Info Service Plc; ma queste hanno il pacchetto azionario di maggioranza in altre quattro sussidiarie, attive sempre nel campo. E fino a qui, le similitudini con il primo ministro italiano sono evidenti. Ma un altro segno li accomuna: la “discesa in campo”, che per entrambi avviene nel 1994, con il medesimo intento di «ripulire la politica» nazionale. Nel frattempo però Thaksin si è sposato con Pojaman (Damapong, altra cadetta di una dinastia thai) e ha avuto tre figli: il maschio Parthongtae e le due figlie Praethongtarn e Pintongta. L’avventura nella cosa pubblica inizia con una cooptazione: il Partito del Dharma Palang decide infatti di offrirgli il ruolo di vice ministro degli Esteri nel governo di Chuan Leekpai.

Ma mentre questo cade, il non più giovane industriale ha scalato il Partito per farsi nominare, nel 1997, vice primo ministro del governo Chavalit. Nel 1998, come da lui stesso ammesso, il Dharma non riesce più a contenerne la verve politica e implode: è l’anno di nascita del Partito Thai Rak Thai, che tradotto rozzamente significa “i thai amano la Thailandia”, oppure “Forza Thailandia”. Nel 2001, forte di slogan populistici e orecchiabili, spezza l’opposizione del Partito Democratico e vince di netto la maggioranza governativa, volando al premierato. Il bacino elettorale che lo ha premiato è composto dalle parti più povere della popolazione e da quelle più ricche. I primi lo hanno votato - e continuano a sostenerlo donando il sangue per le strade di Bangkok in queste ore - perché hanno gradito la sua offerta di riforma del sistema sanitario e la moratoria dei debiti, la sua piattaforma nazionalista e la sua sfida a quella che ha definito “l’elite di Bangkok”. Mentre le aziende e le famiglie forti del Paese decidono di dare una possibilità all’uomo che ha dichiarato di voler gestire la Thailandia come un’azienda. Ieri ha detto al mondo dal suo esilio di Dubai - dove si trova da 4 settimane - che «se l’esercito spara, si può rispondere». Il prossimo capitolo si chiama guerra civile.


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diario

Cantieri. L’Italia sta franando a causa dell’equivoco della “rappresentatività limitata” nata dalle elezioni del 2008

Oltre il bipolarismo fallito

Nel Partito della nazione c’è la vittoria della strategia centrista di Francesco D’Onofrio segue dalla prima E cioè che due cartelli elettorali possono certamente combattere per vincere le elezioni ma non sono in grado l’uno di governare e l’altro di opporsi politicamente e non visceralmente. I fatti ci stanno dando ragione.

Dalle elezioni politiche del 2008, l’Unione di Centro ha dunque proseguito il proprio cammino di opposizione politica in Parlamento e di radicamento sociale nel Paese sulla base di una idea fondamentale che si sta dimostrando sempre più indispensabile per l’Italia: la responsabilità. Responsabili in Parlamento anche nei confronti delle propo-

Occorre uscire dall’angolo stretto che si è creato tra populismo e negazione delle trasformazioni ste della maggioranza parlamentare, contro ogni tentazione di antiberlusconismo ideologico. Responsabili nel Paese contro ogni tentazione di separatezza territoriale, padana o siciliana che sia. Responsabili nei confronti della necessaria coesione sociale, contro ogni tentazione di dividere gli italiani in virtuosi o fannulloni, a seconda del dove vivono o di quale mestiere svolgano. Abbiamo dovuto rilevare che i presuntuosi sostenitori del bipartitismo stanno tentando di ripiegare nella difesa di un ingannevole bipolarismo: si tratta comunque di un bipolarismo che non riesce a nascondere fino in fondo la pretesa originaria di un impossibile bipartitismo. Abbiamo infatti dovuto rilevare che entrambi i sostenitori del bipolarismo sono privi dell’idea stessa di unità nazionale se questa richiedesse un “governo di unità nazionale”: il bipolarismo che viene ancora oggi affermato si nutre infatti da un lato di una sostanziale deriva populista (di per se stessa incompatibile con qualunque idea di governi di unità nazionale) e dall’altro di un rifiuto pregiudiziale, ideologico e persino irremovibile, a fare i conti con le trasformazioni intervenute in questi anni nella società italiana quasi che si tratti di fatti personali e non politici. Il nuovo partito che si sta costruendo e che il convegno di To-

Nel pomeriggio il via ai lavori in Umbria. Sabato chiude Casini

Oggi a Todi apre Adornato TODI. I moderati italiani ripartono dalla nazione. A Todi, da oggi fino a sabato, presso l’Hotel Bramante, l’Udc lancia la sua provocazione: la nascita di un nuovo soggetto politico – il Partito della nazione – per superare questo nostro anomalo bipolarismo e con la prospettiva immediata di liberare nuove forze che consentano al nostro Paese di superare l’emergenza globale determinata dalla crisi economica e dall’indebolimento dell’Europa. I lavori del seminario promosso dalla Fondazione liberal saranno aperti oggi pomeriggio dalla relazione introduttiva di Ferdinando Adornato cui seguiranno gli interventi di Emma Marcegaglia, Raffaele Bonanni

e Carlo Sangalli. Venerdì, poi, sarà la volta degli esponenti dell’Udc da una parte e dei rappresentanti delle associazioni delle categorie produttive dall’altro, mentre le conclusioni saranno tirate, sabato mattina, da Pier Ferdinando Casini. Tutto all’insegna dell’alternativa a questo sistema: «Sia nel Pd che nel Pdl, scissioni o divisioni, figlie di fondamentali differenze di visioni istituzionali, logorano ulteriormente il rapporto di fiducia tra la politica e i cittadini, come il nuovo record di astensioni ha drammaticamente messo in luce. Una litigiosità ormai oltre i limiti del lecito occulta l’interesse nazionale: così le riforme rimangono perennemente al palo». E il rischio del declino continua a incombere. Inoltre, e questo è un tema caro all’Unione di centro «si moltiplicano gli attacchi all’unità nazionale e al concetto stesso di nazione, appena nascosti dietro un confuso progetto di federalismo che rischia di appesantire i costi di una burocrazia invasiva». «Nello stesso tempo – si legge ancora - appare sempre più urgente una vera e propria rifondazione della Repubblica, del senso dello Stato e del dovere, del rapporto fra i diversi poteri».

di concorrerà ulteriormente a definire nei suoi essenziali profili culturali e politici, sarà sostanzialmente un partito non clericale di ispirazione cristiana; un partito liberal-democratico non populista; un partito consapevole della necessità di coniugare in termini anche nuovi la scelta strategica della economia sociale di mercato ecologicamente compatibile.

Nuova centralità del Mediterraneo, che comporta un compito anche radicalmente nuovo per il ruolo strategico dell’Italia tutta; integrazione europea da proseguire e da completare nella consapevolezza del mutamento profondo intervenuto tra l’origine anche anti - sovietica dell’integrazione europea medesima e la fase successiva alla caduta del muro di Berlino; generosa ed intelligente apertura nei confronti del processo di globalizzazione in atto, sconfiggendo la tentazione di una impossibile chiusura autarchico localistica e senza cadere in altrettanto pericolose tentazioni cosmopolitane. Si tratta di un progetto certamente ambizioso di rinnovamento istituzionale e politico che richiede un profondo contributo culturale: non si tratta infatti di “giocare” a vincere le elezioni (cosa certamente rilevante per un soggetto politico), ma di concorrere seriamente a governare l’Italia tutta.


diario

20 maggio 2010 • pagina 7

Battuta Venezia: protesta il governatore leghista Zaia

Il verdetto ribalta in Appello la sentenza di primo grado

Il Coni: Roma candidata per i Giochi del 2020

G8, cento anni di carcere per 25 poliziotti della Diaz

ROMA. Il Coni ha scelto. Sarà

GENOVA. Al termine di undici ore di consiglio, i giudici della terza sezione della Corte d’Appello del Tribunale di Genova hanno emesso la sentenza: venticinque dei ventisette poliziotti indagati per l’irruzione e i pestaggi alla scuola Diaz dopo il G8 nella città ligure, sono stati condannati a un totale di cento anni di carcere. Il provvedimento, che ha riguardato anche i gradi più alti della polizia, rovescia l’esito della sentenza di primo grado che aveva stabilito la condanna per 13 imputati e l’assoluzione di altri 16, tutti facenti parte della catena di comando. I magistrati restituiscono dunque legittimità a quel che Michelangelo Fournier, uno dei funzionari di polizia imputati per la sanguinosa irruzione nella caserma Diaz del 2001, definì “macelleria messicana”. La Cor-

Roma a concorrere per l’assegnazione delle Olimpiadi. La candidatura ai giochi del 2020 è stata decisa ieri dalla Commissione di valutazione del Comitato Olimpico italiano, che ha assegnato la propria preferenza alla Capitale. Venezia esce dunque sconfitta dal derby che già nei giorni scorsi aveva innescato numerose polemiche preventive. La città eterna l’ha spuntata sulla Laguna con ampio margine di vantaggio, raccogliendo un punteggio di 32,3 su 35, a fronte di un modesto 20,1 su 35 racimolato dalla rivale. La valutazione espressa dalla Giunta nazionale del Coni nei riguardi della candidatura veneta, si pone pertanto al di sotto della soglia fissata dal parametro 6 individuata dal Cio (Comitato Olimpico Internazionale) per Rio 2016.

Come ampiamente preventivabile, la sonora bocciatura di Venezia a favore di Roma ladrona, ha scatenato l’irrefrenabile vis polemica leghista. «Sulle singole proposte delle due città – commenta il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia – è stata esercitata una evidente pressione mediatica per farne emergere una sola: quella romana. Non riusciamo neanche a stupirci per

Intercettazioni, editori e giornalisti a rischio Sì alla norma che prevede multe pesanti e carcere di Francesco Lo Dico

ROMA. Condanne molto più aspre per i giornalisti e multe record fino a 464mila euro per gli editori. È stata dura battaglia nella commissione Giustizia del Senato, ma alla fine lo scontro tra maggioranza e opposizione intorno al disegno di legge sulle intercettazioni si è concluso come i numeri in campo garantivano. In seguito alla fluviale riunione dell’altro ieri, terminata alle quattro meno venti della notte, Palazzo Madama ha dato il proprio placet a una serie di provvedimenti utili al Governo, e meno alla sicurezza degli italiani. A partire dal cosiddetto emendamento D’Addario, che nel nome omaggia l’intrattenitrice del presidente del Consiglio balzata agli onori delle cronache nei mesi scorsi per via di alcuni nastri che davano vivida contezza delle biricchine serate intercorse tra la escort e il Cavaliere. Onde scongiurare future intromissioni nei lettoni di Putin altrui, la norma vieta la registrazione di conversazioni private, salvo autorizzazione delle parti interessate. Giro di vite anche sulle riprese audiovisive. I trasgressori rischiano fino a quattro anni di reclusione, qualora sorpresi a realizzare video dolosi. Simili, per intenderci, a quello che Canale 5 dedicò ai calzini viola del giudice Mesiano, onde attestarne la bizzarria. La stessa che pochi giorni prima aveva suggerito al giudice del Tribunale di Milano, l’idea di non dare ragione al premier in occasione del risarcimento danni di 750 milioni di euro a carico di Fininvest. Saltano anche le riprese tv dei processi, anch’esse vincolate al consenso di tutti, e arriva anche una preziosa misura che la lista Anemone deve avere senz’altro accelerato nell’eventualità che alcuni giornalisti avessero ancora per molto l’ardire di fare il proprio mestiere. La misura“antitalpe”punisce chi rivela notizie di atti o documenti processuali coperti da segreto con il carcere: da uno a sei anni. Il ddl intercettazioni prevede poi come accennato condanne per la stampa e puni-

zioni esemplari per gli editori che pubblicano materiali non pubblicabili con multe fino a 464mila euro. Per l’incauto giornalista colto a pubblicare una notizia, è previsto l’arresto fino a due mesi e il pagamento di un’ammenda compresa tra i 2mila e i 10mila euro. Il prezzo da pagare sale sensibilmente se a essere pubblicata è un’intercettazione: fino a 20mila euro, e sospensione temporanea dalla professione. Ma il disegno di legge ha rivolto un pensiero anche Oltretevere, con una norma che rafforza l’obbligo del pm di informare il gotha ecclesiastico, nell’eventualità sia indagato o intercettato un sacerdote o un vescovo. Sul tavolo resta da definire un altro punto ”caldo”del ddl, quello relativo all’inasprimento delle pene per i giornalisti. Ampiamente soddisfatto dell’operato il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, che auspica un’accelerazione: «È tempo che il ddl sulle intercettazioni arrivi in aula. È un buon testo». Non così per il senatore centrista Giampiero D’Alia: «L’Udc non condivide né il metodo né il merito del ddl. Il governo e la maggioranza hanno preferito chiudersi a riccio, litigando al loro interno e proponendo emendamenti peggiorativi del testo o comunque insufficienti a risolvere i principali nodi del ddl», commenta D’Alia, che annuncia il voto contrario dell’Udc in commissione. In vista degli ultimi ritocchi al provvedimento, il presidente della commissione Giustizia del Senato, Filippo Berselli osserva che «nella notturna siamo andati abbastanza avanti nell’esame degli emendamenti, ormai non ne restano più molti da votare. Ma se volessero fare un vero ostruzionismo potremmo anche passare più di un’ora per esaminare una sola proposta di modifica».

Il senatore D’Alia: «L’Udc non condivide né il metodo né il merito del ddl. Il testo è peggiorato e non lo voteremo»

un metodo che rende assolutamente veritieri gli slogan che il Nord usava qualche anno fa a proposito del malcostume di certi ambienti della capitale». Ma a proposito di slogan, è utile indagare i nomi che compongono la commissione del Coni. I testimonial antipadani che hanno brigato contro Venezia in Commissione di valutazione sono nell’ordine: Franco Carraro, veneto di Padova, Manuela Di Centa, friulana di Paluzza doppiamente sospetta perché deputata del Pdl e Francesco Ricci Bitti, romagnolo di Faenza. Del partito del Sud, restano Raffaele Pagnozzi da Avellino e Ottavio Cinquanta da Roma.

Analisi lucidissima, specie per la sintassi ipotetica associata all’ostruzionismo dell’opposizione. “Se volessero”, in fondo, previsioni del tempo, bollettini del traffico, e oroscopo del giorno, potrebbero eroicamente salvarli.

te d’Appello ha sottolineato che i vertici della polizia erano a conoscenza di quel che sarebbe accaduto, e di quanto si verificò puntualmente quel che accadde, quella notte del 21 luglio alla Diaz, culminata con l’arresto di 93 giovani tutti prosciolti dalle accuse e il ferimento (in alcuni casi grave) di oltre sessanta.

Ma a proposito degli alti funzionari di polizia condannati, il segretario dell’Interno, Alfredo Mantovano, assicura che «resteranno al loro posto», perché «hanno e continuano ad avere la piena fiducia del sistema sicurezza e del Viminale». Il verdetto dei giudici, spiega Mantovano, «è una sentenza che non dice l’ultima parola, in quanto afferma l’esatto contrario di quanto era stato stabilito in primo grado e quindi ora andrà al vaglio della Corte di Cassazione». Per converso, il viceministro precisa però che la solidarietà governativa «non significa che alla Diaz non sia successo nulla». Meno garantista, Fabrizio Cicchitto, secondo il quale la sentenza «criminalizza tutto e tutti, e fa propria la tesi più estrema dei noglobal che è totalmente accusatoria nei confronti delle forze dell’ordine».


politica

pagina 8 • 20 maggio 2010

Slogan. Approvato ieri (anche con i voti dell’Idv) il primo, contestatissimo decreto attuativo della “grande riforma”

Federalismo non padano Solo il Po resta allo Stato con il nuovo demanio celebrato dall’inedita coppia Di Pietro-Calderoli di Marco Palombi

ROMA. Si comincia. Il federalismo fiscale, dopo la legge delega approvata un anno fa dalle Camere, oggi porta al traguardo il primo dei decreti attuativi: dopo il voto favorevole di ieri della commissione Bicamerale al parere sul dlgs – sì da Pdl, Lega e Udc, astenuto il Pd, contrari Udc e Api – il Consiglio dei ministri di stamattina dovrebbe dare il suo via libera definitivo al provvedimento come modificato (o meglio riscritto) dai parlamentari. Al di là della pur rilevante decisione dell’organismo presieduto da Enrico La Loggia, su cui torneremo, la giornata di ieri ha consegnato all’immaginario pubblico un’altra immagine non aggirabile: Antonio Di Pietro e Roberto Calderoli che, in mattinata, tengono insieme una conferenza stampa nella sede di Italia dei Valori per spiegare il sì del partito dell’ex pm al decreto caro al Carroccio. Finalmente si ha anche la dimostrazione plastica di una vicinanza che è antropologica più che politica e risiede, se non in altro, in una certa tendenza all’inconsapevolezza lessicale tanto dei seguaci di Bossi quanto di quelli di Di Pietro. Quest’ultimo, tanto per dire, solo due settimane fa - a proposito delle polemiche sulle celebrazioni per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia - invitava i cittadini italiani, nel giorno delle celebrazioni, «a fare una grande pernacchia al ministro Calderoli, perché se la merita davvero».

Al di là dei non secondari aspetti teatrali, però, va segnalata pure la guerra scatenata a sinistra dall’appeasement federalista di Idv: il partito nato attorno ad una declinazione febbrile della questione morale, dal 2008 aveva cominciato a occupare tutti gli spazi politici della ex sinistra arcobaleno (diritti individuali, immigrazione, lavoro) fino ad arrivare allo scippo dei referendum sull’acqua pubblica presentati da Di Pietro anticipando il comitato nazionale formato da partiti e movimenti Verdi, Legambiente, vendoliani, eccetera - che avevano per primi investito su questa battaglia. Ieri Di Pietro, abbracciato a Calderoli, s’è beccato le contumelie esplicite del presidente verde Angelo Bonelli («La sua scelta è

Com’è cambiata la legge dopo l’iter in commissione

Ma Bossi stavolta è (quasi) sconfitto di Gianfranco Polillo opo tanto dibattere e di fronte al muro di critiche nei confronti di un approccio puramente giuridico, il Parlamento ha fatto la sua parte. Il parere uscito dalla Commissione bilancio della Camera dei deputati corregge, con condizioni vincolanti, l’originario testo del decreto sul cosiddetto “federalismo demaniale”. È una buona notizia sia per le esangui casse dello Stato, sia per coloro che temevano uno spezzatino. Un patrimonio tagliato a fette e disperso nei mille rivoli di una finanza locale che somiglia sempre più al delta del Mekong: il fiume in cui s’impantanarono le truppe americane nella guerra del Vietnam. Cedere a cuor leggero beni pubblici – che appartengono a tutti noi – non sarà possibile. Il ricavato dell’eventuale valorizzazione, destinato a far lievitare il valore del bene ceduto, andrà ripartito tra il Centro e la Periferia. Non sarà proprio una ripartizione equa, visto che al primo andrà solo il 25 per cento. Ma comunque meglio della cessione «a titolo non oneroso», come indicava il testo, prima di subire il vaglio parlamentare.

D

Inoltre gli Enti locali non potranno utilizzare la quota di loro competenza per aumentare la spesa corrente, ma solo per ridurre il loro debito che, sommato a quello dello Stato centrale, costituisce il debito complessivo della Nazione. Solo l’eventuale eccedenza potrà andare per spese di investimento. Dall’eventuale banchetto sono comunque esclusi gli enti locali in dissesto finanziario. Saranno riammessi a tavola, solo dopo aver pagato i debiti contratti e non onorati. Il de-

manio – questo è almeno l’auspicio – potrà indicare delle guildline per le procedure di concessione e di definitiva dismissione. Si spera così se non di evitare, almeno, limitare l’assalto alla diligenza. O se si preferisce l’uso improprio di beni concessi ad improbabili associazioni che si avvantaggiano del possesso gratuito o quasi di spazi ed immobili che non sono piovuti dal cielo, ma sono stati pagati da tutti i contribuenti.

Queste, quindi, le principali novità, frutto di un clima che la crisi finanziaria sta decisamente cambiando. Il federalismo – se si farà – dovrà tenerne conto, come ha detto con la consueta franchezza Renato Brunetta, sollevando le reazioni di Umberto Bossi. Che prima ha tuonato, per poi far buon viso a cattiva sorte. A noi resta la soddisfazione di aver contribuito a sollevare un problema, al quale è stata data parziale risposta. Speriamo, ora, che Giulio Tremonti, alle prese con la difficile quadratura del cerchio di una manovra complessa, come quella che si preannuncia all’orizzonte, possa fornire i dati di base su cui costruire un sistema che da un lato valorizzi le mille autonomie italiane; dall’altro non si traduca né in forme di strisciante separatismo; tanto meno in un definitivo abbandono della linea del Piave. L’Europa, in questo frangente, non sta a guardare. La debolezza dell’euro ci ricorda quanto siano insidiose le manovre speculative in atto contro la nostra moneta. Abbassare la guardia del rigore sui conti pubblici ci farebbe tornare indietro. Cosa che non possiamo assolutamente permetterci.

semplicemente vergognosa») e del portavoce della Federazione della sinistra Paolo Ferrero: «È gravissima la posizione di Idv, che regge il moccolo al governo su questa schifezza». Di Pietro, dal canto suo, s’è consolato attaccando l’astenuto Pd: «Non è né carne né pesce». Umberto Bossi, che martedì era «molto preoccupato», ieri invece festeggiava: «Questa è una prima tappa importante. Quando ci sono cose importanti e sentite dalla gente, alla fine i partiti si schierano da quella parte». Non è che l’inizio infatti: Calderoli, sempre accanto a Di Pietro, ha annunciato che il prossimo dlgs, quello fondamentale sulle entrate fiscali, sarà licenziato dal governo entro la metà di giugno e, visto il precedente, c’è da prepararsi al peggio.

Nel merito, quello che cambia da oggi è questo. Con uno o più decreti, palazzo Chigi individuerà i be-

ni dello Stato che possono essere conferiti «a titolo non oneroso» a regioni ed enti locali. A quel punto le amministrazioni possono fare domanda di attribuzione all’agenzia del demanio indicando contestualmente il progetto di valorizzazione e la relativa variazione urbanistica. Se il piano non viene poi rispettato è possibile anche il commissariamento dell’ente che, comunque, non vedrà gravare sul Patto di stabilità interno le spese relative al mantenimento del patrimonio trasferito. I beni possono essere conferiti anche ad apRoberto Calderoli ieri ha festeggiato il nuovo federalismo insieme a Antonio Di Pietro. A destra, Silvio Berlusconi


politica

20 maggio 2010 • pagina 9

La strategia economica dell’esecutivo è affidata solo alla “devolution”

«Tagliare le tasse? No, non ci sono i soldi»

Il premier rinvia la riforma fiscale: «La crisi non ce lo consente». Fini e Schifani: «Diminuire le spese» di Errico Novi

ROMA. Si erano sentiti al telefono «per cinquan-

positi fondi immobiliari, i quali – almeno nella prima fase – dovranno essere ad esclusiva quota pubblica. Nel caso ancora che l’ente decida di vendere le sue nuove proprietà, il ricavato netto sarà destinato per il 75% al livello territoriale e per il 25% ad un fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato (in sostanza, a riduzione del debito). Sempre attraverso un decreto, poi, il governo conferisce il demanio idrico e marittimo (spiagge, laghi e fiumi) alle regioni ma con la raccomandazione che una parte dei proventi delle relative concessioni (ad esempio quelle per gli stabilimenti balneari) sia assegnata

dov’è situato la maggior parte del patrimonio statale di pregio. Esiste poi un problema di moltiplicazione dei centri di costo: il dlgs, infatti, trasferisce beni e funzioni ma non prevede la chiusura e il trasferimento del personale (ad esempio quello dell’Agenzia del demanio o delle Capitanerie di porto) che oggi si occupa di gestire e mantenere questi beni. La scrittura del testo infine lascia aperte possibilità di svendita del patrimonio e cementificazione del territorio che decennali casi di cronaca non permettono di prendere sottogamba. Primo caso. Un comune mette in vendita il bene

Solo i centristi e i rutelliani hanno detto no al provvedimento che trasferisce agli enti locali gran parte dei beni pubblici che fin qui erano statali. Ora il governo deciderà quali e da quando alle provincie. L’unica eccezione prevista è il fiume Po, che rimane allo Stato, ma non i laghi che toccano più regioni (Garda, Maggiore) che potranno essere conferiti ai livelli territoriali se c’è accordo tra tutti i soggetti interessati. Ciò che viene trasferito come demanio - ed è una novità introdotta dalla Bicamerale perché il governo non ci aveva pensato – non potrà essere venduto: la cosiddetta “sdemanializzazione” del bene resta una decisione del governo nazionale.

Questo testo però, al di là delle contrarietà ideologiche, presenta più di un aspetto controverso. Intanto sembra creato per permettere ai comuni, strozzati dai debiti, di fare cassa: solo che la cassa la faranno soprattutto quelli del centro-nord,

indicando la nuova destinazione urbanistica (una ex caserma, poniamo, diventa zona residenziale): l’ente vende una ex caserma fatiscente (valore 1) e chi acquista si ritrova un’area per appartamenti, magari nel centro città (valore 5). Tradotto: chi acquista guadagna uno sproposito solo facendo l’atto di acquistare. Casi due e tre: il demanio agricolo e le fonti minerali e termali. Il primo non è esplicitamente escluso da questa operazione e potrebbe quindi essere “sdemanializzato” per diventare edificabile (oltre alla supercapitalizzazione per i compratori, cioè, esiste pure il rischio cementificazione del territorio), mentre le seconde – non essendo, secondo il codice civile, demanio indisponibile – potranno essere vendute.

ta minuti», come ricorda il Cavaliere, nella fatidica notte del 9 maggio, quella in cui la Germania disse sì agli aiuti alla Grecia. Ma nel giorno nero delle borse europee Silvio Berlusconi e Angela Merkel sono più lontani che mai. Il cancelliere tedesco si presenta al Bundestag con il pacchetto anti-crisi e ricorre al tono grave: «L’euro è in pericolo, se dovesse fallire, fallirebbe l’Europa». Il premier italiano esibisce invece un misurato ottimismo. I suoi giudizi in parte arrivano in differita, sotto forma di anticipazione del prossimo libro di Bruno Vespa, Nel segno del Cavaliere, in uscita il 28 maggio, ma anche a margine dell’incontro con il presidente egiziano Mubarak, in diretta dunque, mentre gli indici di tutto l’Occidente già fanno intravedere l’aria di burrasca.

È anche grazie alla sua arcinota abilità comunicativa che il presidente del Consiglio riesce a gestire l’inevitabile rinvio della riforma fiscale: «Ci sarà, ma non adesso. La situazione non lo consente», dice nell’intervista a Vespa. Non sarà necessario attendere, rassicura, un’altra legislatura: «Entro i prossimi tre anni, e dunque prima che finisca quella in corso, metteremo mano a una grande riforma che consisterà soprattutto nel ridurre la pressione fiscale». Come? «Grazie al federalismo, che è lo strumento più efficace nella lotta all’evasione». In nessun Paese, dice il Cavaliere, «si ipotizza un abbassamento delle tasse, né si pensa di poterlo realizzare, almeno da parte dei governanti più responsabili». La crisi appunto non concede spazi e non lo farà «fintanto che non sarà definitivamente superata».

sembra sovrapporsi in questo momento: dall’entourage del Cavaliere fanno intendere chiaramente che la caccia ai parassiti, agli approfittatori, agli evasori fiscali e agli sprechi della pubblica amministrazione diventerà appunto un tam tam continuo. Non a caso proprio su questa linea si è finalmente trovata una mission riconoscibile per i Promotori della libertà di Michela Brambilla, pronta a trasformare i suoi seguaci in cercatori di ruberie.

È così che la maggioranza trova una quadra almeno momentanea, con buona pace di Gianfranco Fini che in una fase del genere può giocare d’attesa e consolidare il ruolo di paladino del Sud nel Pdl. Il ritorno di un minimo di tranquillità deriva dal via libera in commissione sul federalismo demaniale che fa contento Bossi. Il premier conforta l’alleato sui tempi della grande riforma voluta dai leghisti che, come riporta l’intervista a Bruno Vespa, non subirà ritardi per colpa della crisi. E quel qudro che in tutta Europa diffonde autentico terrore, dal punto di vista del Cavaliere acquisisce tratti meno plumbei: ci sono segnali come «l’incremento degli investimenti in pubblicità da parte delle aziende italiane» che, dice Berlusconi, inducono a guardare «non con eccessivo pessimismo ma con ottimismo la realtà economica». Che, dice il presidente del Consiglio durante la conferenza stampa con Mubarak, «spesso è staccata dalla realtà finanziaria: l’andamento dell’economia reale non è quello che si legge nelle fluttuazioni delle borse».

Nuovo mantra del Cavaliere: «Stanare i parassiti e gli evasori». Con via XX Settembre torna il sereno. Alle Camere interventi anche sul personale

Fosse questa la vera medicina amara da somministrare al Paese, molti tirerebbero un sospiro di sollievo. Ufficialmente Giulio Tremonti non fornisce altre indicazioni, dopo l’impegno preso martedì a stanare evasori fiscali, falsi invalidi e chiunque approfitti parassitariamente del denaro pubblico. È d’altra parte questo, il nuovo mantra del governo, una linea attorno a cui si ritrovano improvvisamente il premier e il superministro dell’Economia, apparsi fino a poche ore prima piuttosto distanti. A via XX Settembre viene dunque riconosciuto un ruolo di “faro”nella tempesta finanziaria, mentre Berlusconi tiene volentieri, almeno per qualche altra settimana, l’interim dello Sviluppo economico e dunque la gestione di partite decisive come quella sul nucleare. Ma è soprattutto sul piano della comunicazione che il profilo dei due big dell’esecutivo

L’euro debole? Neanche quello deve far tremare le vene ai polsi, come invece capita alla povera Merkel: «Nel primo trimestre l’export è cresciuto del 17 per cento», aggiunge il Cavaliere, «e la svalutazione della moneta unica nei confronti del dollaro favorisce le nostre esportazioni». Ottimismo e rigore: sono due registri che il presidente del Consiglio alterna con grande fluidità, soffermandosi sia sulla «produzione industriale in ripresa» che sull’attenzione «nei tagli a spese superflue e privilegi». A muoversi in questo senso provvedono anche i presidenti delle Camere, che annunciano in una nota congiunta la decisione di contenere i costi del Parlamento. Ne parleranno mercoledì prossimo in una riunione allargata alle due presidenze, ma già ieri Fini ne ha discusso informalmente con i suoi vice e i questori di Montecitorio e oggi Schifani farà lo stesso. Non si esclude, e questa sarebbe la vera novità, una riduzione anche dei costi del personale.


scenari

pagina 10 • 20 maggio 2010

Le inquietudini tedesche secondo il germanista Gian Enrico Rusconi e la corrispondente di “Die Zeit” da Roma, Petra Reski

Nella testa di Angela

«L’Euro è in pericolo» ha detto la Merkel senza giri di parole Ma il problema non è la moneta unica né il crack greco: la Germania vuole riprendere la leadership europea dettando le regole a tutti gli altri. Deboli o no che siano di Francesco Pacifico

ROMA. «L’euro è in pericolo». Un tempo si chiamavano early warning e servivano per spingere le economie più deboli a sistemare i conti. Invece l’ammonimento che ieri mattina Angela Merkel ha lanciato ai partner europei non guarda alle finanze pubbliche da alleggerire, quanto alla futura governance che la Ue si darà. «Se non si fosse ancora capito, al centro della vicenda non ci sono l’euro o la Grecia, quanto la leadership in Europa della Germania. Parliamo di un Paese dove l’europeismo – a differenza di quanto accade da noi o in Francia – non è ammantato di retorica», nota il politologo Gian Enrico Rusconi, in questi giorni a Berlino perché impegnato in un ciclo di lezioni alla Freie Universität. Domani la Ue dovrebbe approvare i meccanismi di attuazione del piano d’aiuti da 750 miliardi verso i Paesi in crisi. Ma Berlino non ha alcuna voglia di cedere altra “sovranità europea”alla Francia e dopo la boc-

ciatura alle strette sul debito e alla tassa sulle transazioni ha deciso di mostrare i muscoli. Prima, è toccato alla Bafin, la locale autorità di controllo dei mercati, vietare le vendite allo scoperto su titoli e bond governativi. Ed è stata una scelta unilaterale, non concordata con gli altri Paesi, che ha finito per far crollare le Borse e l’euro. Poi – anche perché davanti al Bundestag – un’uscita più fragorosa di un cannoneggiamento. «L’euro è in pericolo. Tutti noi sentiamo che l’attuale crisi dell’euro è la più grande sfida che l’Europa deve affrontare da decenni, dalla firma del Trattato di Roma». E per essere più chiara, ecco la Merkel aggiungere: «Voglio andare al nocciolo della questione: l’euro è il fondamento per la crescita e la prosperità e dello stesso mercato comune. Ma se non saremo in grado di affrontare questo pericolo, allora le conseguenze per noi, in Europa, saranno incalcolabili». Inutile dire che i listini e la moneta non hanno gradito, finen-

do per dare ragione a chi, come il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker, ha consigliato alla Merkel più moderazione nelle sue uscite. Con l’euro che a fatica si è mantenuto sugli 1,23 sul dollaro, hanno gioito non poco le imprese esportatrici tedesche: le stesse che una settimana fa hanno brindato per la crescita del 20 per cento dei loro affari e lamentano il mancato taglio dalle tasse. «Pensare che la cancelliera si sia accodata, vorrebbe dire accusarla di un cini-

Si guarda al marco per ricordare una Germania che non c’è più

smo che non l’appartiene», nota Petra Reski, corrispondente di Die Zeit da Roma e originaria della Ruhr, «il cuore metallifero tedesco, dove la disoccupazione è schizzata al 14 per cento». Ed è proprio da qui che bisogna partire. Secondo la Reski, «la Merkel voleva soltanto ricordare quanto è difficile per la Germania salvare l’euro senza l’aiuto delle altre economie. Senza contare che si trova di fronte un Paese dove i padri sono preoccupati per i loro figli che non trova-

no un lavoro, mentre si dovrebbe aiutare la Grecia, nel quale si va in pensione a 53 anni e con un coefficiente di sostituzione del 95 per cento!». Per la cronaca l’età di ritiro in Germania è fissata a 65 anni, mentre l’ultimo assegno è pari al 45 per cento dell’ultimo stipendio. Ma per Rusconi è sbagliato parlare solo di soldi. «Nella crisi dell’euro», dice, «i tedeschi vedono soprattutto le ripercussioni all’identità comune europea che si è creata in questi anni. Un’identità che ha permesso loro di superare i fantasmi del passato, dei quali fino a poco tempo fa erano ostaggi. E nonostante tutto sarebbero pronti a nuovi sacrifici se ci fosse un obiettivo chiaro da raggiungere».

Eppure il passato vuol dire marco, parola magica che non viene cavalcata soltanto dalla stampa popolare. Ieri la Faz faceva sapere che la Svizzera sta facendo pressioni sulla Germania per creare la più solida area monetaria del mondo (tra il


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Quando nacque, la divisa europea era destinata alla parità con quella degli Stati Uniti

E se fosse una speculazione legata alla forza del dollaro? Nelle ore cruciali, Obama ha sempre chiesto l’intervento di Berlino: segno che la crisi è soprattutto una questione di parità monetaria di Enrico Singer elle ore convulse degli incontri incrociati tra i leader dei Paesi dell’euro, riuniti d’urgenza a Bruxelles, Barack Obama ha fatto due telefonate ad Angela Merkel e una a Nicolas Sarkozy. Quei contatti, annunciati da scarni comunicati ufficiali, sono stati frettolosamente archiviati come la dimostrazione dell’interesse del presidente americano per la «stabilità dei mercati» e per una «risposta forte» alla crisi innescata dal rischio di bancarotta in Grecia. Quasi fossero la testimonianza di solidarietà di un amico che si preoccupa dei guai altrui. In realtà, quelle tre telefonate hanno un significato molto più rilevante. Anzi, hanno un doppio significato. Ce n’è uno tutto politico che è presto detto: quando deve parlare con l’Europa, la Casa Bianca continua a chiamare Berlino e Parigi. Con buona pace del nuovo presidente stabile della Ue, il belga Herman Van Rompuy, ed anche dell’«amico Silvio» che pure ha rivendicato un ruolo da protagonista nella maratona che avrebbe dovuto restituire fiducia nella moneta comune europea. Nulla di nuovo sotto il sole. Ma ancora più importante è il secondo significato di quelle telefonate: Obama è preoccupato per il crollo dell’euro perché questo significa automaticamente che il dollaro sta tornando, suo malgrado, forte sul mercato dei cambi. Scombinando i piani di una politica che, a medio termine, in attesa di una ristrutturazione industriale ancora in ritardo,Washington ha basato su un dollaro debole per favorire le esportazioni americane, frenare quelle europee e bilanciare l’avanzata di quelle cinesi che sono sostenute da una ancor più artificiale debolezza dello yuan.

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Il convitato di pietra di questa crisi è proprio lui, il dollaro. Che con l’euro ha, ormai, una partita lunga più di dieci anni. Non tutti lo ricorderanno, ma quando la valuta comune europea nacque, il primo gennaio del 1999, come unità di cambio - non ancora come moneta nelle tasche della gente - il suo valore fu fissato a 1,16 dollari. Quella stima fu il risultato di complessi calcoli da parte dei governatori delle Banche centrali e dei ministri dell’Economia dei dodici Paesi che diedero vita alla Ume (l’Unione economica e monetaria). Una scommessa di quasi-parità che i mercati avrebbero dovuto verificare sul terreno. Il 2 dicembre di quello stesso anno, euro e dollaro si scambiavano già uno a uno. Il 27 gennaio del 2000 l’euro scese sotto la parità e il 26 ottobre toccò il suo minimo storico a 0,82 dollari. Per tutto il 2001 rimase sotto la parità e quando, finalmente, il primo gennaio del 2002 entrò in circolazione come moneta, la sua prima quotazione fu di 0,90 dolla-

ri. Da allora, in parallelo all’aumento del defict e del debito degli Usa, è stata tutta una corsa al rialzo determinata più che dalla salute dell’euro, dai mali del dollaro. Già alla fine del 2003, la moneta comune europea arrivò a 1,25 dollari per poi salire senza soste fino a sfondare - il 26 ottobre del 2009 - la quota-record di 1,50. Da ieri siamo tornati alle valutazioni del 2003 attorno a 1,20 e gli esperti prevedono che l’euro è destinato a scendere ancora. Probabilmente fino a quota 1,10. Ma come siamo arrivati a questo punto?

Se le monete fossero, come lo sono state un tempo, lo specchio della forza reale delle rispettive economie, la parità tra euro e dollaro che i padri fondatori della moneta comune europea auspicavano come ideale sarebbe ancora un obiettivo da perseguire. Ma nel mercato delle valute la speculazione gioca come, se non più, di quanto gioca in quello dei titoli di Borsa. E nella partita euro-dollaro la speculazione che aveva puntato sul default della Grecia ora ha investito tutto l’insieme dei sedici Paesi di Eurolandia mettendo in moto una reazione a catena di apparenti paradossi. Il primo riguarda proprio il cambio euro-dollaro. Il Financial Times, in un editoriale intitolato «Benvenuta debolezza» definisce «una benedizione» il deprezzamento della moneta europea nei confronti del dollaro, soprattutto per la Germania che vedrà an-

cora più favorite le sue esportazioni negli Usa (questo spiega in chiaro le preoccupazioni di Obama) e il francese Les Echos segue lo stesso ragionamento scrivendo che «il crollo dell’euro è un segno di debolezza, ma è anche un’occasione per l’economia europea». La discesa verso la parità con il dollaro, insomma, è considerata positiva dai settori dell’industria che puntano sull’export e dall’asse Berlino-Parigi, ma mette in crisi i rapporti con Washington e spinge Paesi come la Cina e la Russia - che avevano cominciato a spostare parte delle loro riserve monetarie dal dollaro all’euro - a cambiare di nuovo politica.Tra l’altro proprio Cina e Russia, oltre al Giappone, sono i principali finanziatori del debito pubblico americano e quando, un anno fa, il dollaro aveva perso metà del suo valore rispetto all’euro erano molto allarmati. Al punto che avevano cominciato a vendere i Treasury bonds Usa. Adesso, invece, Pechino ha ripreso ad acquistarli. E non soltanto perché glielo hanno chiesto il segretario di Stato, Hillary Clinton, e il responsabile del Tesoro, Timothy Geithner.

Chi muove la speculazione contro l’euro per restituire forza al dollaro (e alle proprie riserve nazionali) potrebbe essere anche nei palazzi del potere di Pechino e di Mosca. Fantapolitica? Forse. Di sicuro c’è la strategia dei Paesi produttori di petrolio e delle altre materie prime che vengono pagate in dollari. Quando la moneta americana scende, i prezzi salgono e questo annulla l’apparente vantaggio dei Paesi di Eurolandia che rischiano il doppio, invece, quando il dollaro risale. E l’illusione più pericolosa sarebbe pensare che la crisi si possa risolvere soltanto con strumenti finanziari come il fondo dei 750 miliardi di euro che, venerdì, sarà definitivamente approvato dalla Ue. La fiducia nell’euro si ricostruisce con la crescita economica e la crescita non viene dalla spesa che è destinata a pagare il debito, ma dagli investimenti produttivi. Il rischio è che i 750 miliardi finiscano nelle tasche degli speculatori e che l’economia di Eurolandia continui a stagnare. Allora sì che la minacciosa previsione della Merkel sull’euro «in pericolo» sarebbe la fine della moneta comune. E dell’Europa.

franco e il ritrovato euro) e gestire il grosso dei capitali in cerca di rifugio. «Si guarda alla vecchia divisa», sottolinea la Reski, «perché si pensa alla Germania locomotiva degli anni Settanta e Ottanta, che poteva permettersi di non licenziare e pagare a tutti il welfare. Ma questo sistema è stato spazzato dai debiti delle riunificazione e dalle pensioni dei cittadini dell’Est da pagare». Ragionamento sintetizzato da Rusconi con un perentorio: «Non si può tornare indietro. Ed è questo che spaventa».

Di conseguenza la palla passa alla politica, che non può ridurre il suo ruolo al controllo dei conti pubblici. «La situazione è molto seria perché si discute di salvataggio dell’euro in un momento in cui la Germania, partendo dal taglio delle tasse, vorrebbe vedere attuate altre politiche». Fotografa la situazione con dovizia di particolari Petra Reski: «È un momento delicato per la Merkel dopo aver perso le elezioni in Nord Reno-Westfalia. E se nel land non si è ancora formato un governo, a Berlino la cancelliera ha perso il controllo del Bundesrat. Ed è sotto pressione per le critiche degli avversari interni, che la rimproverano politiche troppo socialdemocratiche. Così non le resta che provare a difendersi sui temi di politica interna». Sembrano lontano i tempi nei quali Gerard Schroeder sfidava l’opinione pubblica riformando il welfare e perdeva le elezioni perché i suoi provvedimenti costringevano 5 milioni di tedeschi a uscire dall’alveo di un assistenzialismo parassitario. «La Merkel», aggiunge Petra Reski, «è abile perché non prende mai una posizione netta, mentre il suo predecessore ne prendeva fin troppe. E in questo momento la cosa si nota di più anche perché lo spettacolo che la Cdu e i liberali stanno dando non è il massimo. Soprattutto è stata criticata per non aver frenato le spinte in avanti degli alleati, che in tutta risposta l’accusano di fare politiche da Spd». Nel quadriennio della grosse Koalition il primo ministro faceva spesso sponda per con i socialdemocratici per avere la meglio sui falchi del suo partito. Sarà anche per questo che in un sondaggio dell’istituto Forsa il 43 per cento dei tedeschi vuole ritornare alle larghe intese. «Ma con chi?», ribatte Rusconi, «con l’ex vicepremier Steinmeier che l’altro giorno accusava la Merkel di aver sbagliato i tempi delle risposte alla crisi e che domani voterà il piano per la Grecia? La verità è che, se non è ancora possibile dare un giudizio sulla Merkel, siamo di fronte a una politica responsabile che ben rappresenta un Paese depresso, frustrato, che ha smesso da tempo di protestare».


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ampadina Limone? Chi può averla inventata se non Joseph Beuys? Dita Asparagi? Non c’è alcun dubbio: “duchampiane”. Invece no: questi oggetti metamorficamente paradossali sono frutto del genio creativo del torinese Armando Testa (1917-1992), re della pubblicità italiana ma anche raffinato designer e pittore, al quale è dedicata fino al 13 giugno al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano la retrospettiva Armando Testa. Il Design delle Idee (catalogo Silvana Editoriale, 35 euro) curata dalla moglie Gemma De Angelis Testa e da GiorgioVerzotti. Mostra che segue la personale che sempre al Pac gli venne dedicata nell’84, nonché le antologiche al Museo del Castello di Rivoli, Castel Sant’Elmo a Napoli (2001) e all’Istituto Italiano di Cultura di Londra (2004). Se siete cresciuti all’epoca di Carosello (e dopo Carosello andavate tutti a nanna), pensate a lui e vi riaffioreranno alla memoria Pippo, l’ippopotamo azzurro shocking dei pannolini Lines (’66-’67); i pupazzi conici di Caballero e Carmencita, testimonials del Cafè Paulista (’65); la sfera e la mezza sfera dell’aperitivo Punt e Mes (“un punto di amaro e mezzo di dolce”, recitava lo slogan nel ‘60); il calembour grafico tra bianco/nero e positivo/negativo del Digestivo Antonetto; gli occhialuti abitanti del Pianeta Papalla per gli elettrodomestici Philco (’66)... E ancora, l’ammiccante bionda berlinese Solvi Stubing che reclamizzava la Birra Peroni Nastro Azzurro (’68); il bebè col cucchiaio degli omogeneizzati Sasso (’64); l’attore spezzino Mimmo Craig alle prese con gli incubi del sovrappeso, sottofondo musicale di Edvard Grieg, per l’olio Sasso (’68)...

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Ma Armando Testa, in pochi lo sanno, «è stato il più artista fra i pubblicitari e il più anomalo fra gli artisti», ha dichiarato la moglie Gemma De Angelis Testa, «perché per primo si è simultaneamente espresso in tutti i codici della comunicazione visiva. Prima di Internet, visto che il computer era nella sua testa». Il Design delle Idee, dunque, omaggia il Testa che non vi sareste mai aspettati: bozzettista, pittore, scultore, fotografo. Caustico e ironico. Narratore di vizi e virtù del nostro amato/odiato Belpaese. Pronunciatore di frasi come «La massima aspirazione di un creativo è raggiungere a 60 anni la libera creatività che aveva a 6 anni» e «Quando mi trovo dinnanzi al foglio bianco non so cosa farò, che stile avrà il mio disegno. L’unica mia speranza è di non assomigliare a Testa». Spesso diceva, ipotizzando l’autobiografia che di fatto aveva cominciato a scrivere: «Sono nato povero ma moderno». Affermazione che si è sintetizzata in Povero ma moderno, titolo del cortometraggio girato da Pappi Corsicato che nel 2009 è stato premiato alla Mostra Cinematografica di Venezia e ora viene proiettato in uno spazio della mostra introducendoci non solo al lato umano di questo grande sognatore ma alla sua innata ironia, alla sua sfrenata fantasia, all’anticonformismo delle sue idee. Al suo essere, in buona sostanza, «visualizzatore globale» come lo ha definito Gillo Dorfles cogliendone i legami fra uomo e mondo, produzione e consumo, creatività “pura” e creatività finalizzata a uno scopo. Scrive Giorgio Verzotti nel catalogo: «Dicono disegnasse in continuazione, anche quando parlava con le persone, come se dovesse in ogni istante bloccare idee visive, segni, immagini che la presa diretta sulla realtà gli suggeriva: attitudine da artista, più che da pubblicitario. Un flusso creativo continuo che si è espresso in disegni di piccole dimensioni che poi venivano ritagliati via dai fogli su cui erano stesi. Appunti brevissimi, ma anche schiz-

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Dall’epoca d’oro della “reclame televisiva” alle sperimentazioni con pittura, fo

ARMANDO TESTA

Quando il creativo disegnava le idee Da Carosello al made in Italy, dall’arte al mercato: Milano rende omaggio al primo re dell’advertising di Stefano Bianchi

zi piuttosto elaborati, testimonianze di una sapienza compositiva certa e di una profonda conoscenza dell’arte moderna e contemporanea». Ovvero l’arte di Pablo Picasso, Man Ray, Piet Mondrian e le asimmetrie della Bauhaus che Ezio D’Errico, pittore astratto, gli insegna alla Scuola Tipografica Vigliardi Paravia di Torino. Qui (ragazzino, dopo aver lasciato la scuola e lavorato come apprendista operaio in una fabbrica di ferri battuti con lo scopo di portare qualche soldo in famiglia: madre vedova, un fratello più grande e due sorelle piccole) Testa ha modo di sperimentarsi come compositore tipografo. Fuori dall’orario di lavoro è iperattivo e curiosissimo: passa con estrema naturalezza dallo scrittore Pitigrilli a Marinetti futurista, da Napoleone

all’architetto Sant’Elia; si dà al ballo pur non essendo dotato d’orecchio musicale («Ma nonostante ciò», ricorda la moglie, «conservò un portamento stiloso, da “tanghero”») e si dedica alla bicicletta, passione che lo conquista totalmente quando pedala da Torino a Savona e per la prima volta vede il mare. Legato a quell’indelebile ricordo, lo elaborerà in una serie di manifesti e dipinti sottoforma di cubi e invitanti fette di mare.

L’arte, al di là dell’efficacia del messaggio pubblicitario, affiora nel manifesto dell’Industria Colori Inchiostri, datato ‘37, che si rifà all’astrazione geometrica, per poi imporsi nelle spirali del ciclista griffato Superga (’47) e nel vortice del gentiluo-


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otografia, scultura, design e fotografia. Più che un pubblicitario, un vero artista

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più varie e stravaganti». Che dire poi degli scatti anni Ottanta alle fette di prosciutto crudo che si trasformano in montagne e poltrone, o di quelle porzioni di mortadella che diventano buste da invito al party?

In questo caso, nella testa di Testa («La creatività richiede allenamento, proprio come fare i 100 metri. Occorre provare, provare e non aver paura di perdere tempo sullo stesso tema») a mettersi in gioco sono i generi alimentari che da pubblicizzati si trasformano in caricaturizzati: «Nel mio mestiere devo esaltare quotidianamente il cibo fra posate preziose, bocche avide, piatti scintillanti. Ma a volte provo il desiderio di mollare tutto, stringere la mano al kitsch e interpretare spaghetti, frutta, prosciutto e uova in liberi e voluttuosi accostamenti. E fare dell’arte visiva in cucina». Irresistibili, rimanendo in tema, i peperoncini che duellano come Spadaccini infiammati (’87); gli ortaggi e la frutta secca ritratti a mo’ di mostri; la coppia di Amanti (’85), che altro non sono se non olive in un letto di ravioli (i cuscini) e spaghetti (le lenzuola). Le serigrafie su seta degli anni Settanta, invece, ritraggono in un geniale miscuglio di umano, vegetale, animale e mangereccio il Topo Rapanello (’73), un dito con l’unghia smaltata di rosso che diventa il Marabù dall’Alto Kenia (’77), un tubo ricurvo che si tramuta in Cane Randagio (’72), una noce (Nocero Umbro del ’91) che dischiude il guscio palesando una bocca famelica, un uovo al tegamino che si“panoramizza”in Isola di Breakfast (’86). Infine il design.

mo con cilindro e papillon che sponsorizza l’Asti Spumante Riccadonna (’48); nei cromatismi acidi e nei potenti contrasti dei vermuth “Re dal 1796” marchiati Carpano (’49); nella visionarietà “magrittiana”che fa galleggiare nell’aria un cappello Borsalino (’54). Spiega Germano Celant: «Rispetto alle figurazioni realistiche di Dudovich, Cappiello, Sepo e Boccasile dove la comunicazione avveniva attraverso la conferma dell’esistente e dell’assenso dato dalla società che consumava il prodotto, e rispetto alle visualizzazioni dinamiche e astratte di Depero e Nizzoli, Pintori e Carboni dove lo scenario del consumo era sostituito da una suggestione visiva affidata all’energia pura e affascinante di forme, caratteri e colori,Testa introduce esseri dalle origini complesse e sconosciute; figure che scaturiscono dalla mescolanza dei corpi: “cose” non definibili, che inquietano e fanno sorridere per la loro sintassi aggrovigliata e sorprendente.

Da Papalla a Pippo, tutto il racconto di Armando vive di contrari e di doppi dove l’oggetto si fa soggetto e viceversa: costruzione scultorea in cui cerca di afferrare più realtà. Di fatto la produzione del suo lavoro segue una continua interrogazione sul suo riuscire a “regredire” a uno stadio primario, quello giocoso, sognato e distaccato del bambino che si gode la sua “pappa”:

l’immagine». Ciò che va in scena (è proprio il caso di dirlo) nella rutilante retrospettiva di colui che ha saputo innovare il linguaggio della comunicazione in Italia, è un insieme di cose straordinarie all’insegna del Segno («Attenti al segno!», ammoniva. «Prima ancora di farlo, bisogna saperlo leggere»).

Come le pressoché sconosciute opere degli anni Sessanta ispirate a Mondrian, realizzate con la formica e la sovrapposizione di cornici d’epoca; le dense, libere pennellate (alla Jackson Pollock? Alla Mario Schifano?) che scandiscono la voglia d’astrattismo negli anni Ottanta; i numeri schiacciati, giganti, rossi e neri, impressi come marchi della pubblicità sugli acrilici su tela del ’90. Ma l’Armando Testa più imprevedibile, giocoso e paradossale campeggia nelle fotografie a colori e in bianco e nero che assemblano“performance”di dita. «Il dito», sosteneva, «è un protagonista nella vita dell’uomo e possiede una bellezza formale decisamente superiore all’orecchio e in competizione con l’occhio». Una vera ossessione, la sua, probabile memoria del lavoro in tipografia che «dà vita a una marea di piccoli disegni», puntualizza Giorgio Verzotti, «dove il dito umano, spesso accoppiato a un suo doppio, subisce un’ininterrotta metamorfosi, essendo delineato, anzi ricreato, nelle raffigurazioni

Alcune delle opere più celebri di Armando Testa. Nella pagina a fianco: Punt e Mes (1960); Carmencita e Caballero (1965); Ritratto di Testa (1985) Sedia con matita (1972). Qui sopra: Dita Asparagi (1975); Croce (1990); Lampadina Limone (1968)

Quello vero, che riesce a dare un senso tanto alla Forma quanto alla Sostanza. Se lo ricorda bene, Gemma De Angelis Testa: «Nel ’71, Armando progettò e realizzò armadi con le lettere in rilievo sulle ante in “collegamento”fra loro. Alcuni di essi, ravvicinati, formano addirittura un significato. E poi le sedie, oggetti a metà fra arte e design, come la Sedia Antropomorfa del ’76: seduta su un piano di cristallo pensata come simposio di “saggi”; o la Sedia con matita del ’72, trafitta da un lapis giallo che si fa aguzzino e insieme appoggio del soggetto fungendo da lancia che trafigge e gamba che sostiene; o ancora, la Sedia AT del ’90 che invece ha una valenza performativa. Mio marito si ispirò a una situazione reale: una delle tante conferenze alle quali partecipava che vedevano il relatore di turno alquanto noioso. Ipotizzò una sala piena di queste sedie e il pubblico (se stesso incluso) che a un certo punto si siede a cavalcioni con le braccia e il capo sulla T, in modo da fare una solenne russata nei momenti più critici del congresso. Accompagnata, in sottofondo, dal Volo del calabrone di Rimskij-Korsakov». In piombo su legno, apoteosi della scultura/design, le Croci del ’90 svelano invece una visione intimista delle cose e del mondo: «Ho sempre amato la croce per la sua bellezza formale e per la sua forza strutturale al di là del significato religioso che l’accompagna. È uno dei segni più elementari creati dall’uomo. Questo simbolo assoluto, per il quale ho cercato di trasformare un segno in emozione alludendo al capo reclinato di Cristo, è un’immagine che vive da 2000 anni nella memoria dell’uomo». Oltre l’immagine pubblicitaria, conclude Gemma De Angelis Testa, «c’è la scultura che porta in grembo un’idea universale: il corpo di Cristo che si fa struttura e viceversa. Geniale simbiosi fra significato e significante, contenitore e contenuto, è a mio parere il punto chiave di tutto il lavoro di Armando».


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Geopolitica. I Paesi del Bric, dell’Ibsa e dell’Ocs sono alla ricerca di un nuovo ordine mondiale

Enigma non-allineato Favorevoli al multipolarismo o schierati contro l’Occidente e complici dell’Iran nucleare? di Alexandre Del Valle ra sabato e lunedi scorso, tre incontri strategici hanno inaugurato la vera fine del sistema transitorio unipolare caratterizzato dal dominio non contestabile della superpotenzaa americana e che fece seguito al sistema bipolare ereditato dalla guerra fredda. Primo, l’accordo storico russo-turco firmato in occasione della visita del presidente russo Dimitri Medvedev in Turchia mercoledi scorso 16 maggio. Un accordo che prevede di vendere ai turchi il 70% del gas e del petrolio necessario ad Ankara, e che garantisce in cambio il free-pass navale dai Dardanelli e la costruzione di una centrale atomica in Turchia.

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Questa cooperazione strategica tra i due ex-nemici storici in Asia centrale e nel Caucaso preparata da qualche anno, incarna la mutazione della la Turchia (ex-cavallo di Troia americano e della Nato contro l’avanzata dell’Unione Sovietica verso Mediterraneo e al Medio Oriente) in un nuovo attore strategico regionale “autonomizzato”, protagonista di una nuova diplomazia multilateralista e eurasiatica, capace anche di contraddire i piani dell’ex padrone-alleato americano e della Nato in questa

Terzo incontro strategico di estrema importanza geopolitica, Erdogan (convinto da Davutoglu) si è recato a Teheran il sabato scorso per incontrare il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad assieme al leader di un altro attore strategico del nuovo scacchiere mondiale post-guerra fredda: il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva, invitato d’onore del 14esimo vertice del gruppo del 15 (G-15 dei Non Allineati). Ricordiamo che il Brasile e l’Iran sono entrambi membri del G-15, creato in occasione della nona Conferenza dei Paesi Non Allineati tenutasi a Belgrado nel 1989. Il G15 riunisce non solamente la Russia, la Cina, l’Iran, il Brasile, l’India o la Turchia, ma anche altri paesi storici dei non-Allineati, come l’Algeria del presidente Abdelaziz Bouteflika che ha anche lui solidarizzato apertamente con il regime dei Mullah ed era presente a Teheran lunedi. Per non compromettere la loro relazione “amichevole” con l’Occidente, e seguendo una strategia a doppio raggio, Erdogan e Lula hanno giustificato la loro presenza compromettente nella capitale della Repubblica islamica totalitaria affermando di voler risolvere con “mezzi diplomatici” la questione del nucleare iraniano ed evitare cosi l’adozione di nuove sanzioni contro Teheran. Va ricordato che da mesi, l’Agenzia Internazionale per l’energia atomica (Aiea) propone all’Iran di arricchire il suo uranio in Russia e in Francia, ma Teheran ha rifiutato. Quindi in occasione del summit del G15 di lunedi scorso, la Turchia e il Brasile, da sempre contrari alle nuove sanzioni rafforzate contro l’Iran, hanno proposto un accordo, appoggiato dai Paesi non-Allineati del G15, che consiste nel depositare 1200 chilogrammi di uranio iraniano arricchito al 3,5 per cento in Turchia (il materiale resterà proprietà iraniana e monitorato da rappresentanti iraniani e dell’Agenzia atomica internazionale). In cambio, la Turchia e il “Gruppo di Vienna” (Aiea, Usa, Russia, Francia) si è impegnato a fornire all’Iran il combustibile arricchito al 20 per cento necessario per il reattore di ricerca (medico) di Teheran.

Le tre democrazie più grandi e più potenti del sud (Brasile, India e Sudafrica) nel vertice del mese scorso hanno chiaramente respinto ogni nuova sanzione contro il regime di Teheran zona del mondo. Secondo, il venerdi scorso 14 maggio, in occasione di una visita ufficiale ad Atene del premier turco Recep Tayyip Erdogan, Ankara ha approfittato della crisi finanziaria greca per lanciare una nuova cooperazione coll’ex-nemico, proponendo comunque di “comprare” il debito greco in cambio di alcune isole rivendicate del Mar Egeo... Un segno chiaro che la rinascita geoeconomica della Turchia post-kemalista “amica con tutti” vuole tornare nelle zone strategiche che controllava all’epoca ottomana. Ad una scala più globale e regionale, la nuova Turchia ambisce di controllare non solo il Mare Egeo, i Balcani, e il Medio Oriente, ma anche l’ex- via della Seta verso Pechino, grazie ai paesi turcofoni membri del T6 (sei paesi turcofoni del Caucasio e dell’Asia centrale), in nome di una geopolitica neo-ottomana, eurasiatica e panturchista cara al ministro degli affari esteri turco Ahmed Davutoglu.

Quali lezioni possiamo trarre di questi accordi e vertici? Prima di tutto, permettono alla Repubblica islamica di Mahmud Ahmadinejad e Ali Khamenei di guadagnare tempo e rischiano di rovinare definitivamente gli ultimi tentativi per far approvare nuove sanzioni

rafforzate (embargo sulla benzina venduta all’Iran ad esempio) contro l’Iran al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. È chiaro che malgrado la proposta turca, niente impedirà all’Iran di continuare di sviluppare il suo programma nucleare segreto, a cui Turchia, Brasile e il “G15” fanno finta di non credere. Il fatto che l’Occidente non possa rifiutare la proposta a doppio senso del tandem Lula-Erdogan, fa perdere l’ultima legittimità alle sanzioni rafforzate nell’ambito dell’Onu.

Poi, questi ultimi eventi dimostrano l’Occidente non può più come negli anni ’90 fare ciò che vuole e non tener conto dei paesi emergenti e dei nuovi blocchi che esigono un mondo multilaterale. Blocchi checontestano il modello liberaldemocratico instaurato dopo il 1945 con la nascita dell’Onu, il cui il Consiglio di sicurezza (composto da cinque grandi e da tre Paesi occidentali) non riflette più i nuovi rapporti di forza mondiali. Sempre presentato in Europa come un moderato convertito al sistema liberale, Lula aderisce infatti ad una visione dell’ordine mondiale ben diversa da quella occidentale, una visione non cosi lontana nel fondo di quella espressa più violentemente dal “bolivarista” Hugo Chavez, e molto simile a quella multipolarista russa, cinese e indiana. Infatti, che lo vogliamo o no, il mondo è cambiato e l’Occidente non è più in grado di imporre al resto del mondo tutte le sue concezioni. I paesi del Bric (le economie emergenti: Brasile, Russia, India e Cina) come il Brasile, ma anche come la Turchia (si dovrebbe quindi parlare di Brict) vogliono tradurre in termini strategici i loro vantaggi geoeconomici (possedono una gran parte del debito dei paesi occidentali), richiedendo di riformare il sistema economico e finan-

ziario mondiale (condanna del protezionismo occidentale; fine alla supremazia del dollaro) e difendendo i paesi canaglia come l’Iran che sfidano l’Occidente “arrogante”. Il Brasile e la Turchia auspicano l’edificazione di un nuovo scacchiere internazionale nel quale l’Occidente non può più dettare né la sua concezione “ipocritamente” droit-de-l’hommiste della geopolitica né l’imposizione di sanzioni contro i paesi del Sud che vogliono anche loro fare parte del club di quelli che contano, cioè del club nucleare. Esigono un nuovo sistema internazionale basato non sui diritti del’Uomo considerati spesso da loro come una “superstruttura” dell’egemonia occidentale, ma sul pragmatismo geoeconomico, la realpolitik, la supremazia degli interessi nazionali (”alter-nazionalismo”) e regionali e una nuova definizione dei diritti dell’Uomo più ”olistica”, quindi snaturata, come lo vediamo all’interno del Consiglio dei diritti dell’uomo basato a Ginevra.

Ricordiamo che questo Consiglio è composto e controllato da paesi dittatoriali del sud che calpestano questi stessi diritti in nome della superiorità dell’interesse collettivo su quello dell’individuo secondo loro troppo sacralizzato in Occidente. Come lo si è visto un mese fa in occasione del vertice del Bric a Brasilia, il 15 aprile (secondo vertice dopo quello del giugno del 2009 ad Ekaterinburg, in Russia), lo scopo dei nuovi attori emergenti e strategici del dopo guerra fredda è di porre fine al mondo unilaterale euro-americano. Durante il vertice di Brasilia, il Bric ha proposto di rimpiazzare il dollaro con una nuova divisa e di, instaurare un nuovo sistema finanziario e strategico mondiale meno occidentale e meno europeo. I quattro paesi del Bric rappresentano una popo-


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lazione di 3 miliardi di persone, cioè il 40% dell’umanità. La loro superficie è di 38.400 milioni di kmq (Russia 17; Cina 9,6; Brasile 8,5, India 3,2). Rappresentano il 15% del prodotto interno lordo mondiale e il 50% della crescita economica attuale.

Nel 2020, il loro Pil globale raddoppierà e sarà equivalente a quello di Stati Uniti, del Giappone, della Germania, del Regno Unito, della Francia, dell’Ita-

lato da Mosca), area subcontinente indiano (Asean), ecc. Ricordiamo anche che nel 2005, i Presidenti del Venezuela e di Cuba, seguiti dal Presidente boliviano Evo Morales, hanno dato vita al progetto “Alternativa bolivarista per le Americhe” (Alba), progetto ideato da Hugo Chavez e dai fratelli Castro di Cuba per i paesi latinoamericani dei caribi, che fu firmato a L’Avana per contrastare la Zona di Libero Scambio delle Americhe promosso da Washington (Zlea).Ricordiamo che hanno aderito all’Alba anche il Nicaragua, l’Equador, la Repubblica Dominicana, Saint-Vincent e Grenadine, Antigua e Barbuda. E che a l’Avana, durante il 14° summit dei paesi Non-Allienati, Cuba, la Bolivia, il Venezuela hanno sostenuto il «diritto» dell’Iran e di qualsiasi nazione di dotarsi d’istallazioni atomiche. La velleità «antiegemonica» del Venezuela produttore di petrolio condivide gli obiettivi strategici dell’Ocs, del Bric, di istaurare un “mondo multipolare” capace di controbilanciare l’unipolarismo americano. Per la prima volta dal sistema globale stabilito dall’Occidente nel 19451950 (Onu-Fmi-Nato), i Paesi “emergenti” e i loro alleati o futuri membri come l’Indonesia, o la Turchia, sono in grado di influire sulle regole del nuovo gioco internazionale e bilanciare o respingere le decisioni prese dall’Occidente.

Il creatore del “Fronte globale anti-sistema”, l’argentino ”rosso-nero” anti-americano e negazionista Noberto Ceresole, sarebbe fiero dell’amicizia tra il suo discepolo Chávez e Ahmadinejad lia, del Canada, e della Spagna aggiunti. Tra il 2008 e il 2014, il 60% della crescita mondiale sarà dovuta a questi 4 paesi che hanno in comune anche un desiderio di rivincita. La loro caratteristica è anche quella di aver fatto decollare il commercio “Sud-Sud” fino ad allora inesistente. All’Onu o altrove nei vertici internazionali, i paesi del Bric votano spesso nella stessa direzione, propongono risoluzioni comuni e in sintonia con il gruppo dei paesi arabi, quello dei Non-Allineati, o quello dell’Organizzazione della Conferenza islamica (57 paesi islamici), che chiedono tutti un sistema internazionale meno demo-liberale e meno centrato sull’Occidente. Con il Bric, non si tratta solo delle potenze emergenti come il Brasile, l’India, la Russia e la Cina, ma anche tutti i loro satelliti regionali o alleati locali e anche le zone d’influenza quali Unasur, Csi (Communità degli Stati Indipendenti, spazio ex sovietico control-

Una di queste decisioni consisteva nel sanzionare l’Iran. Infatti, dal 2006, le potenze del Bric sono le prime responsabili della durata e dell’inefficienza dei negoziati tra l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (e il gruppo dei 5+1) e l’Iran, perfettamente

consapevole che i leader del Bric e dell’Ocs, la Cina e la Russia, sono in grado di impedire ogni voto all’Onu di sanzioni efficenti contro l’Iran. Fatto significativo: l’Iran è non solamente risparmiato dal Bric, ma «membro osservatore» dell’Ocs all’Organizzazione della Conferenza di Shangai, ”club” anti-egemonico eurasiatico creato da Mosca e Pechino nel 2001 che riunisce Russia, Cina e 5 repubbliche ex sovietiche autoritarie e dispensatrici di idrocarburi dell’Asia centrale. L’Ocs assieme ai Paesi osservatori (India, Pakistan, Mongolia, Iran) comprende il 44% dell’intera popolazione mondiale. I suoi obiettivi sono molteplici: 1) ripulire di ogni presenza occidentale (truppe americane) la zona strategica del gruppo, e quindi bloccare la presenza militare americana in Asia centrale e nel Caucaso; 2) creare un’area di sicurezza attorno alle riserve di petrolio del Mar Caspio; 3) ripristinare la presenza nell’area di influenza latinoamericana e nell’Asia centrale e nel Mare cinese, dopo il contraccolpo della fine della Guerra fredda. I

l Bric e l’Ocs, concepiti all’indomani dell’11 settembre 2001, ambiscono a ridisegnare le mappe geostrategiche mondiali in campo economico, finanziario, politico e militare. Per riassumere, a rifiutare o impedire l’efficacia delle eventuali sanzioni contro Teheran e a esigere una riforma globale del sistema internazionale (Fmi, Onu) e un ordine mondiale multilaterale, sono i Paesi del Bric, i paesi dell’Ibsa (Brasile, India e Sud Africa), le tre democrazie più grandi e più potenti del sud, che nel vertice del mese scorso hanno anche chiaramente respinto ogni nuova sanzione contro Teheran e chiesto di risolvere la crisi con l’Iran solo con la diplomazia. Poi una parte dei Paesi dell’Ibsa, che in-

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tende promuovere anche esso la cooperazione tra questi tre paesi e la cooperazione sud-sud in generale. Di fronte all’egemonia statunitense e europea, e a ciò che numerosi paesi del Terzo Mondo avvertono come «arroganza occidentale» (Fmi, «droit-del’hommisme» [la cosidetta strumentalizzazione dei diritti dell’Uomo], democrazia liberale, istituzioni internazionali ecc.), è sempre più evidente alle Nazioni Unite un’alleanza tra stati totalitari, (”rosso-verde-neri”) attorno ai grandi temi internazionali. La Corea, la Bielorussia, Cuba o la Cina non votano le sanzioni contro il regime islamista-militare arabo di Khartoum, che ha già provocato lo sterminio di 2 milioni di neri cristiani o di musulmani nel Sudan meridionale o nel Darfur. I paesi ”rossi” non votano le sanzioni contro l’Iran nazislamista di Ahmadinejad, che avrà fra poco la bomba nucleare, anche grazie al Bric, alla Turchia o al Brasile. In cambio, il Sudan, la Siria o l’Iran, sono solidali con gli stati comunisti colpiti da sanzioni, come nel caso di Cuba o della Corea del Nord. Alle conferenze antioccidentali organizzate dal Consiglio per i diritti dell’Uomo dell’Onu a “Durban I” nel 2001 e a Ginevra (Durban II) nel 2009, e in maniera ricorrente alla sede di questo strano Consiglio, o in quella dell’Onu di New York, si constata sempre di più la radicalizzazione del fronte antioccidentale rosso-verde che ricorda la Tricontinentale. L’autore di quest’articolo ha constatato personalmente al Consiglio dei Diritti dell’Uomo, nel 2008 e nel 2009, che paesi totalitari o rossi come Cuba, la Bielorussia, la Corea del Nord o il Venezuela votano e sostengono le proposte formulate dal gruppo degli Stati arabi e dall’Organizzazione della Conferenza Islamica (Oci), che miravano a sanzionare Israele o a perseguire «l’islamofobia» e «la diffamazione contro le religioni».

Allo stesso tempo, questi stati rossineri-verdi diffendono il diritto dell’Iran ad acquistare un’industria nucleare, pur sapendo, anche se lo negano, che nasconde un programma nucleare militare che contribuirà a cambiare l’equilibrio fragile nel Medio Oriente e nuocerà agli interessi occidentali in questa zona. A questa postura che sfrutta un clima di risentimento e di revanchismo che favorisce alleanze contro-natura per distruggere l’unilateralismo occidentale, partecipano, pur essendo non apertamente nemici dell’impero euro-americano, i paesi a ”doppio viso”come il Brasile, la Russia, la Cina, la Turchia, l’Indonesia, il Pakistan o l’Algeria, che aiutano d’un modo o l’altro l’Iran futura potenza atomica. Questo nuovo fronte ambiguo unisce quelli che sono apertamente i nostri nemici e quelli che si presentano come “intermediari di pace” tra noi e i nostri nemici (come Erdogan e Lula lunedi a Teheran sulla questione del nucleare). Ricorda comunque la Tricontinentale oppure il “Fronte globale anti-sistema” concepito dal pensatore argentino ”rosso-nero” anti-americano Noberto Ceresole. Ispiratore di Hugo Chavez, questo geostratega negazionista, che voleva unire l’ultra-nazionalismo, il sovietismo e l’islamismo radicale contro l’Occidente, sarebbe stato meravigliato da quello che sta accadendo adesso con i vertici dell’Ocs, del Bric e dei Non-Allineati. Sarebbe “fiero” dell’amicizia tra il suo discepolo Hugo Chavez e il suo “fratello” Mahmud Ahmadinejad.


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Usa. Elezioni speciali in Pennsylvania, primarie in Kentucky e Arkansas oi no. Questo il messaggio forte e chiaro arrivato dal mini-supermartedì statunitense, quello di varie primarie in vista delle elezioni di mid-term. In un Paese dove il seggio al Congresso dura una vita, anche se attraverso voti continui, e dove spesso è più o meno ereditario, se non per linea di sangue senz’altro per linea di comunanza politico-economica, stavolta gli elettori hanno dato una risposta secca: nessun parlamentare uscente, nessun membro dell’establishment ha ottenuto la conferma. Sia dalla parte dei Repubblicani che da quella dei Democratici hanno vinto le ali più identitarie, contrapposte alle macchine delle burocrazie di partito. Il trionfo del voto di protesta e contro Washington, da qualunque parte lo si legga. Si votava in Pennsylvania, Kentucky e Arkansas. L’attenzione alle scelte dei due elettorali stavolta era altissima, perché si voleva finalmente misurare quanto fossero davvero significativi i venti di scontento che soffiano sull’America. E si è capito che sono venti di tempesta. La crisi economica, certo, ma anche la disaffezione verso l’establishment politico, con Washington da più parti definita come “marcia”. Ecco dunque che in entrambi gli schieramenti prevalgono gli estremi, e così ad esempio si scopre che il movimento dei “Tea Party”non è solo un fremito di opinione, ma ha la capacità e la concretezza di conquistare posizioni politiche e di pesare, portando i suoi uomini nel cuore del potere, contro tutti e tutto. In Kentucky è stato proprio un esponente dei Tea Party a spuntarla con una affermazione netta, il 60% dei voti, non contro un rivale qualunque ma contro il candidato

V

Nelle mini mid-term vince il voto “contro” Dem o Gop, il risultato premia sempre i candidati contrari all’establishment di Osvaldo Baldacci

spetto, impegnata a tutto campo nella vita statunitense, in tv quanto in politica: Sarah Palin, che ha sostenuto Paul e ha festeggiato la sua vittoria affermando che quella di Paul è una “sveglia per la nazione”. Certo, bisogna vedere se la forza dei Tea Party sarà un vento in poppa per i GOP a novembre o se al contrario

La sconfitta più clamorosa è quella di Arlen Specter, che dopo cinque mandati al Senato come repubblicano era passato ai democratici che aveva il sostegno dell’establishment, Trey Grayson, l’attuale segretario di Stato dello stato, scelto dal leader dei Repubblicani in Senato, Mitch McConnell. Una marcia inarrestabile e non episodica, visto che nelle primarie dell’Utah già era stato sconfitto un senatore di lungo corso e per di più ultraconservatore Bob Bennett, con l’affermazione confermando la presa di questa linea sulla pancia dei conservatori più intransigenti. E con una leader di tutto ri-

sarà un elemento che si mette di traverso, con la possibilità di dividere il voto e di spaventare i moderati. Qualche segnale di pessimismo per i Repubblicani c’è: ad esempio proprio in Kentucky Paul ha ricevuto meno voti dei due sfidanti democratici. E brutti segnali arrivano anche dalla Florida e da altri luoghi dove i candidati centristi pensano a contrapporsi come indipendenti a quella che vedono come una estremizzazione conservatrice del partito. Certo i democra-

Rand Paul vince la sfida nel Bluegrass State

E avanzano i Tea Party «Ho un messaggio, un messaggio dal Tea Party - ha detto Rand Paul dopo la sua vittoria alle primarie repubblicane in Kentucky - Siamo qui oggi per riprenderci il governo di Washington. Il sistema di Washington è terribilmente guasto. Io credo che siamo sull’orlo di un precipizio. È tempo che le cose siano fatte in modo profondamente diverso». È lui la novità di questo momento elettorale. Prima della campagna elettorale era poco noto, giusto come figlio del deputato texano Ron Paul, due volte candidato alla nomination repubblicana per la Casa Bianca e celebre per le tesi ultraliberiste (nel suo programma presidenziale figurava perfino l’abolizione della Banca centrale), idolo dei Tea Party. Ed è il movimento anti-tasse e anti-Stato che lo ha spinto al

successo, con l’appeal di chi sfida «quelli di Washington». Paul è un medico oculista alla sua prima esperienza in politica. La sua linea politica ricalca quella del padre e sposa in pieno le proteste dei Tea Party, ispirate ad un programma di lotta agli aumenti fiscali e alle riforme di Obama considerate un salasso per il bilancio federale piuttosto che ai temi sociali cari alla destra religiosa. Rand ha incentrato tutta la sua campagna sulle tasse, contro il bailout, contro le politiche stataliste e all’insegna di un ritrovato isolazionismo degli Stati Uniti in politica estera. La prova concreta che il Tea Party non è solo in grado di tenere sotto pressione e influenzare il partito repubblicano, ma anche di saper vincere le elezioni quando presenta i suoi candidati. (O.Ba.)

tici stanno forse anche peggio, perché non hanno un’idea forte come quella dei Tea party per canalizzare la protesta, mentre cominciano le incrinature e le disillusioni verso l’idea forte che era stata Obama. Brucia ad esempio il risultato dell’Arkansas: la senatrice uscente Blanche Lincoln, appoggiata da tutto il clan di Clinton che qui era stato governatore, è stata costretta a un umiliante ballottaggio contro il vice governatore Bill Halter, ottenendo solo il 44% contro il 42. L’organizzazione Move.On, il capillare movimento nato su Internet dieci anni fa a San Francisco e diventato il nerbo dell’ala sinistra del partito di Obama, la ha accusata di essere “al servizio delle lobby di Wall Street”. La sconfitta più clamorosa è però quella di Arlen Specter, che dopo essere essere stato eletto in Pennsylvania a cinque mandati al Senato come repubblicano, l’anno scorso è clamorosamente passato ai democratici. L’ottantenne aveva incassato l’esplicito appoggio del partito, con il presidente Obama che si è personalmente esposto con messaggi telefonici. Anche Joe Biden era con lui. Niente da fare. L’outsider Joe Sestak ha avuto buon gioco da attaccarlo come un opportunista. «Questa è la democrazia, una vittoria del popolo sull’establishment, sullo status quo e persino su Washington» ha dichiarato ai sostenitori un entusiasta Sestak.

Prima di lui un altro democratico membro del Congresso in carica era stato battuto alle primarie, il deputato Alan Mollohan in West Virginia. La rabbia degli elettori e il voto di protesta penalizzano quindi entrambi i partiti, ma i democratici rischiano molto di più. Piccolo conforto per loro la vittoria nelle elezioni suppletive per il seggio vuoto dalla morte del deputato John Murtha: contro il repubblicano Tim Burns una ben oliata macchina elettorale democratica ha portato al Congresso l’assistente di Murtha Mark Critz, nonostante la Pennsylvania stia diventando sempre più conservatrice e i repubblicani speravano di confermare lì il loro trend di riscossa, che a gennaio aveva visto l’elezione in Massachusetts di Scott Brown, un repubblicano, che a sorpresa aveva conquistato lo storico seggio dei Kennedy, e poche settimane dopo il repubblicano Chris Christie prendere il posto del governatore democratico del New Jersey, Jon Corzine.


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I primi risultati dell’inchiesta interstatale: uno già identificato

Gli agenti feriscono 15 persone e ne arrestano altre quattro

Sull’aereo di Kaczynski «c’erano due sconosciuti»

Tibet, la polizia spara sulla folla riunita contro una fabbrica

MOSCA. C’erano due persone estranee all’equipaggio nella cabina del Tupolev 154 caduto il 10 aprile scorso a Katyn, in Russia, causando la morte del presidente polacco Lech Kaczynski e di altri 95 passeggeri che dovevano rendere omaggio alle vittime polacche dell’eccidio staliniano del 1940. Lo riferisce la presidente del comitato interstatale per l’aviazione Tatiana Anodina. Uno degli “estranei”è già stato identificato, nonostante i rumori di fondo legati al fatto che la porta della cabina era aperta: «La voce di una delle persone è stata identificata, quella di un’altra deve essere sottoposta ad una identificazione supplementare da parte polacca», ha spiegato la Anodina in una conferenza stampa sui risultati preliminari dell’inchiesta. Anodina non ha precisato chi è la persona identificata nè il contenuto delle conversazioni.

PECHINO. Gli abitanti di 11 vil-

Ma secondo l’agenzia polacca Pap, una delle due voci di estranei sarebbe quella del capo dell’Aeronautica militare, generale Andrzej Blasik, anche lui morto nello schianto. Sempre secondo la Pap, non è confermata la notizia secondo cui la voce della seconda persona in cabina sarebbe quella del capo del cerimoniale, Mariusz Kaza-

Clegg: «Reggeremo. E daremo una scossa» Il lib-dem promuove la strana alleanza con i tories di Lorenzo Biondi

LONDRA. Nella terra del modello Westminster, il primo governo di coalizione del dopoguerra è stato accolto con scetticismo. Nella lista delle priorità di Downing street, allora, al primo posto c’è scritto: rassicurare il Paese. La coalizione giallo-blu saprà produrre un governo stabile e riformista, che non si impantana in trattative infinite e che mira a durare per tutti e cinque gli anni della legislatura. L’accordo tra conservatori e lib-dem va blindato, ingabbiato in regole ferree. Patti chiari, amicizia lunga. I liberaldemocratici avranno le riforme istituzionali che tanto bramano, incluso l’agognato proporzionale (anche se solo nella Camera dei Lord). Con la promessa di comportarsi da alleati fedeli, senza pericolose sbandate a sinistra. In questi primi giorni le mosse dei personaggi chiave del nuovo governo sono state eloquenti. Ieri a Londra Clegg annunciava la più grande «scossa» per la democrazia britannica dal 1832 a questa parte. Nelle stesse ore il cancelliere George Osborne, braccio destro del premier, era a Bruxelles per la sua prima riunione dell’Ecofin. Dove ha fatto capire che la presenza dei lib-dem nel governo non basterà ad ammorbidire la posizione di Londra nei confronti dell’Unione europea. Le questioni domestiche, prima. Dopo gli scandali dei rimborsi spese, le acrobazie di Gordon Brown per fissare le elezioni nella data «più propizia» per il Labour e il «fallimento» del sistema elettorale nell’assegnare una maggioranza chiara in parlamento, una qualche riforma del modello Westminster era inevitabile. Ma Nick Clegg è riuscito a strappare ai suoi alleati molto più di quanto si potesse immaginare. Non solo la promessa di un referendum sulla legge elettorale e della nomina di una folta pattuglia lib-dem alla Camera dei Lord. Nel patto c’è anche il passaggio (dal 2015) ad un bicameralismo di tipo continentale, con una Camera alta completamente eletta su base proporzionale. E poi c’è la norma sulla durata del parlamento, che verrà fissata a cinque anni sottraendo al premier il potere discrezionale di scioglimento. Lo scioglimento anticipato potrà essere votato dal parlamento stesso, ma con una maggioranza del

55%. I conservatori oggi detengono il 47% dei seggi: senza i loro voti la maggioranza qualificata è irraggiungibile. Ecco la promessa di fedeltà di Clegg: i lib-dem avranno le riforme che chiedono, ma in cambio rinunciano alla possibilità di far cadere il governo e di rimandare il Paese alle urne.

Nel gergo della politologia britannica, Cameron e Clegg hanno raggiunto un agreement to disagree: si sono accordati sulla possibilità di non andare d’accordo. Il programma di governo verrà concordato nei minimi dettagli: su tutto il resto i lib-dem si riservano la possibilità di votare con l’opposizione. Per ottenere questa libertà, Clegg ha promesso di allinearsi alle scelte dei conservatori su alcune questioni «secondarie». Ad esempio l’Europa. I lib-dem, tradizionalmente europeisti, accetteranno l’euroscetticismo «pragmatico» di Cameron. Il primo ministro conservatore, in cambio, cercherà di tenere a bada la destra del suo partito. È un equilibrio difficile. Cameron, appena arrivato a Downing street, ha contattato Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, che incontrerà oggi e domani a Parigi e Berlino. È il primo gesto di pacificazione tra i tre leader di centro-destra, dopo che i conservatori britannici hanno fatto infuriare i colleghi continentali abbandonando il gruppo del Partito popolare europeo a Strasburgo. Allo stesso modo, il cancelliere Osborne ha aperto la sua prima relazione di fronte all’Ecofin promettendo «un nuovo approccio, costruttivo e coinvolto». Ma i problemi sono cominciati da subito, passando dalla teoria alla pratica.Si discuteva della nuova direttiva europea sugli hedge fund, che i banchieri della City vedono come un attacco nei loro confronti. Osborne ha dovuto alzare bandiera bianca: «Era una battaglia già persa», ha dichiarato una fonte a lui vicina. Ma ha contrattaccato immediatamente, obiettando un fermo «no» all’ipotesi di incrementare del 6% il bilancio dell’Unione (che costerebbe mezzo miliardo di euro alle casse britanniche). Coalizione o no, la priorità rimane l’«interesse nazionale».

Il vice premier ha fatto capire che con Cameron c’è un’intesa forte, basata «sulla possibilità di non andare d’accordo»

na. Il capo dell’Aeronautica militare Krzysztof Zaleski e il capo di stato maggiore Mieczyslaw Stachowiak, nuovi vertici della difesa polacca nominati dopo la sciagura, si sono entrambi dimessi nelle ultime ore. Dopo l’incidente i media avevano avanzato l’ipotesi che i piloti avessero subito pressioni da parte del presidente o del suo entourage per atterrare lo stesso, nonostante la fitta nebbia e la scarsa visibilità all’aeroporto di Smolensk, 400 km a sud ovest di Mosca. La presidente del comitato interstatale per l’aviazione ha inoltre precisato che i piloti del Tupolev non si addestravano con regolarità al simulatore.

laggi nei pressi di Madang, cittadina al centro della provincia tibetana del Gansu, si sono scontrati nel fine settimana con la polizia dopo una lunga protesta contro l’inquinamento di un cementificio vicino, che tra l’altro occupa illegalmente un’area dedicata al culto religioso e una strada (nella foto). Quattro manifestanti sono stati arrestati mentre altri 15 sono in ospedale con ferite da arma da fuoco: gli agenti hanno infatti aperto il fuoco contro le persone. Lo scontro è stato denunciato da una cittadina cinese di etnia han, che ha confermato l’arresto dei 4 tibetani avvenuto lo scorso 15 maggio. Secondo l’International Campaign for

Tibet, che ha raccolto la denuncia, i tibetani si sono riuniti fuori dalla Amdo Cement per chiedere maggiori controlli sugli scarichi. Avevano preparato anche una petizione, da presentare alle autorità.

Subito dopo l’assembramento è intervenuta la polizia in assetto anti-sommossa, che ha aperto il fuoco: 15 persone sono state colpite. La petizione chiede alle autorità di intervenire contro l’inquinamento selvaggio del cementificio, che tra l’altro “deve spostare i suoi capannoni da una zona riservata alla religione e da una pubblica strada”. La Amdo Cement, una volta totalmente statale, è stata costruita nel 1985: nel 1998 è stata privatizzata, e da allora è divenuta una delle maggiori della provincia del Gansu. I manifestanti protestano per le condizioni di vita in generale, seriamente compromesse dalla produzione industriale: “Per chi vive qui, la produzione agricola è impossibile. I campi danno di meno, una riduzione che arriva anche al 60%. Le pecore e le mucche non mangiano più l’erba, e questo ci costringe a comprare cibi industriali a prezzi altissimi”. Sembra dunque peggiorare la situazione del Tibet e delle province sino-tibetane.


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Passerella. Intanto ieri, applausi scroscianti e pubblico commosso dopo la visione de “La nostra vita” di Daniele Luchetti, unica pellicola italiana in concorso

La rivincita di Bellocchio Dopo l’amarezza dello scorso anno, il regista di “Vincere” ha tenuto la lezione ospitata dal festival di Cannes di Andrea D’Addio

CANNES. «Considero l’invito qui al Festival un omaggio. Non penso alle polemiche dell’anno scorso per l’esclusione di Vincere dai premi, i riconoscimenti dipendono da tanti fattori, prima di tutto dalla giuria». Parole di Marco Bellocchio, ieri autore della prima e unica lezione di cinema per il pubblico ospitata dal festival di Cannes. Un onore nelle scorse edizioni concesso a registi del calibro di Jean-Pierre e Luc Dardenne, Quentin Tarantino, Martin Scorsese, Emir Kusturica, Wim Wenders, Oliver Stone, Nanni Moretti e Francesco Rosi. L’anno scorso il regista piacentino restò a bocca asciutta dai premi ufficiali nonostante le varie standing ovations che seguirono le proiezioni del suo film e le tante indiscrezioni che lo volevano come probabile vincitore. «So bene che sia il direttore Gilles Jacob che il direttore generale Thierry Fremaux mi stimano molto e che non hanno bisogno di soluzioni di questo tipo per dimostralo. Certo, l’invito fa piacere, così come penso sia un bel segnale per il cinema italiano».

Il suolo francese è da sempre stimolo di polemica per i nostri cineasti. Parigi è vista come un modello da imitare per ciò che riguarda finanziamenti pubblici e sostegno alla produzione nazionale. Afferma sempre Bellocchio: «Qui è stato da poco deciso di realizzare un Centro nazionale di cinematografia finanziato attraverso una tassazione indipendente dalle altre imposizioni statali. In paesi come l’Italia, in cui quando si deve tagliare qualcosa, si taglia la cultura, una soluzione di questo tipo renderebbe il cinema più indipendente e fecondo. Si salverebbero posti di lavoro e si stimolerebbe un’eccellenza tecnica. Rispetto a quando ero giovane, c’è stata una rivoluzione tecnologica che dà la possibilità a chiunque di girare un proprio film anche con pochi soldi. Non è più necessaria la pellico-

Salvo rarissime eccezioni, come Daniele Luchetti, Pietro Marcello e Michelangelo Frammartino

Ma del nostro cinema si parla per le polemiche, non per la qualità di Alessandro Boschi a qua non sembra davvero un granché. Questa edizione del festival di Cannes sembra vivere più per motivi extracinematografici che cinematografici. Le lacrime di Juliette Binoche per lo sciopero della fame iniziato nelle carceri di Theran dal regista Jafar Panahi, le polemiche sull’assenza di Bondi, quelle per il film di Sabina Guzzanti che è stato il motivo per cui Bondi non è venuto, le quali polemiche permettono a un prodotto modesto di incassare e anche molto al botteghino. Jean-Luc Godard che non va. Ma il dispiacere più grande è per un’altra assenza, quella di Terrence Malick, del quale a tuttora non ci sono notizie. C’è poi chi dice che nemmeno i produttori e i distributori siano più quelli di una volta, dall’eleganza e la cravatta si é passati all’ascella sudata e all’assalto al buffet.

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Frammartino che ha presentato nella sezione “Quinzaine des Realizateurs”Le quattro volte, un “caprolavoro”, come ha argutamente affermato lo stesso regista sintetizzando brillantemente quello che in effetti è uno dei cardini del film, vale a dire una capra. Per una volta diventa protagonista, sono sempre parole sue, tutto ciò che sta sullo sfondo. Non solo i francesi a dire la verità ne hanno parlato bene. Nell’ordine hanno avuto parole esaltanti anche Variety e Screen International. Frammartino si è visto paragonare ad un altro Michelangelo, Antonioni. Naturalmente parliamo dell’Antonioni vero, quello bravo, e non quello preso in giro da Dino Risi attraverso Vittorio Gassman ne Il sorpasso: «L’hai visto L’eclisse? Io c’ho dormito, una bella pennichella, bel regista Antonioni, c’ha un Flaminia Zagato, una volta sulla fettuccia de Terracina m’ha fatto allunga’ er collo». Che forse era lo stesso Antonioni, ma non aveva in uggia Risi che raccontava l’Italia in un modo molto differente dal suo. Il fatto è che oggi, salvo rarissime eccezioni, se ci si trova a parlare del cinema italiano è più per qualche polemica che per qualche bel film. Però su Luchetti abbiamo delle speranze. Come ne avevamo a ragione sull’ultimo Paolo Virzì. Belloccio Bellocchio è già un’altra cosa. Come pure Giorgio Diritti. Ma se dovessimo dire cosa ci fa essere ottimisti sul cinema dovremmo pensare a Frammartino e ad altri documentaristi (si possono definire così?), uno in particolare, Pietro Marcello, che con il suo celebrato La bocca del lupo sta raccogliendo ampi consensi ovunque. C’è da aggiungere che forse il cinema italiano difficilmente prescinde dalla televisione. Esempio ne sia la neonata Wild Side Torino, ideata da Fausto Brizzi, Marco Martani, Mario Gianani e Lorenzo Mieli con sede nei locali di via Cagliari della Film Commission Piemonte. Si parla di produzioni sia per il grande che per il piccolo schermo. C’è già una commessa della Bbc che trasmetterà una saga sulla famiglia dei Medici prodotta dai quattro. Per il cinema lo stesso Marco Martani, quello di Cemento Armato, sta mettendo in cantiere Mia sorella è una foca monaca, dal romanzo di Christian Frascella. Nel nostro cinema “due camere e cucina” forse qualcosa si muove.

Sempre ieri, l’Italia ha piazzato un altro bel colpo grazie allo splendido documentario “Le quattro volte”

Per questo pare che l’Italia, quasi senza colpo ferire, stia facendo una discreta figura. Grazie in primo luogo a Daniele Luchetti e al suo film in concorso, La nostra vita, poi a Giovanna Mezzogiorno, che ci rappresenta in giuria con l’elegante seanconneryano Alberto Barbera. Certo, come al solito i francesi non ci aiutano molto. Sarà anche un caso, ma da quando storpiarono il nome di Marco Bellocchio nel più gratificante ma errato Marco Belloccio, non si sono più fermati. Ecco che così, proprio per il film di Luchetti, scopriamo che il protagonista è Riccardo Scamarcio, nome invero piuttosto complicato da scrivere per un francese. Che invece è stato scritto benissimo. Solo che Scamarcio nel film di Luchetti non c’è, essendo il protagonista Elio Germano. Ma nell’articolo della rivista francese si va oltre, dimostrando peraltro una logica coerenza che ha il solo difetto di prescindere dalla realtà. Si dice infatti che il bell’attore pugliese si accaparra tutte le parti nei migliori film italiani. E questa diventa una teoria davvero formidabile, perché per l’estensore lo Scamarcio interpreta anche i film che non interpreta. Il cinema italiano ha piazzato gusto ieri l’altro un bel colpo con Michelangelo

la, basta il digitale. Allo stesso tempo però non bisogna accontentarsi e si deve continuare ad investire nei laboratori, nella qualità delle immagini, negli strumenti che si utilizzano. Bisogna rendere appetibili i nostri prodotti finali perché è l’unica possibilità che abbiamo per esportarli. Se Vincere è stato venduto in molti paesi, è per questa cura che abbiamo messo in tutti gli aspetti della sua realizzazione. Quando venni a Cannes per la prima volta erano gli anni ’70, c’era un altro palazzo del cinema, eppure da allora si sono succeduti solo due direttori. È questa la più grande delle differenze con l’Italia. Qui si dà la tranquillità a un direttore di lavorare nell’ottica di un lungo periodo, da noi si vuole tutto e subito. E se qualcosa non va bene alla politica, si cambia». Il successo che riscosse Bellocchio è lo stesso che si augura Daniele Luchetti, che ieri ha avuto il piacere di ricevere applausi alla fine della proiezione del suo La nostra vita. L’unico film italiano in concorso ha emozionato un pubblico più volte commosso. Siamo nella periferia di Roma. Un giovane capocantiere italiano, buono, forse ignorante, ma sempre attento che i suoi operai si mettano il casco e ricevano per tempo stipendi e sacchetti pranzo, diventa vedovo mentre sua moglie dà alla luce il terzo maschietto. Cambiano gli equilibri e, alla serena ingenuità del passato si va a sostituire un’ambizione che non guarda in faccia a nessuno. “Avere e ostentare”, è questo il nuovo motto di un papà che


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Da “La prima cosa bella” di Virzì a “Io, loro e Lara” di Verdone

Pellicole in cerca di distribuzione

Non solo film in concorso: alla Croisette si va a caccia di possibili “buyers” stranieri pensa al consumismo come l’unica altra madre possibile per i propri figli. Cambierà opinione, ma solo dopo aver toccato un fondo da cui sembrava non esserci uscita. Una storia forte, tanto vicina per tematiche al Biutiful presentato il giorno prima da Iñárritu (anche qui un papà solo che vive per i figli), quanto lontano per il pudore dimostrato nella rappresentazione del dolore. Una vera e propria lezione di cinema quella dell’italiano, se messa in confronto con la furbizia da mercato nero del film del messicano che, fino a oggi, in molti danno purtroppo come favorito alla Palma d’oro.

I due film saranno in concorrenza anche per l’assegnazione del premio per il migliore attore. Se il comunque bravissimo Javier Bardem ha prestato il proprio corpo a un dimagrimento dalla grande efficacia visiva, l’Elio Germano plasmato da Luchetti è un fuoco vivo di rabbia e amore, un elemento di tensione continua che conferma il talento del giovane attore romano di Mio fratello è figlio unico. Le polemiche, nel caso il film non venga preso in considerazione in nessuna categoria, sono dietro l’angolo. In un concorso che finora ha regalato davvero pochi titoli degni della nomea del festival, La nostra vita, nonostante alcuni limiti, vale un riconoscimento. Escludendo l’attenzione riservata al Draquila di Sabina Guzzanti, sia il

A sinistra, il regista Daniele Luchetti e, sopra, alcuni fotogrammi del suo film “La nostra vita”. In basso, il regista Marco Bellocchio. A destra, un fotogramma della pellicola “La prima cosa bella” e il cineasta Paolo Virzì

film di Luchetti ieri sia Le quattro volte il giorno prima, hanno dimostrato come i nostri autori abbiano poco da invidiare agli altri europei. Le quattro volte di Michelangelo Frammartino è ritenuto come una delle vere e proprie sorprese. Presentato all’interno della “Quinzaine des réalisateurs”, il documentario sul ciclo della vita rurale in una Calabria nascosta ha avuto proiezioni ricche di pubblico dopo le ottime critiche ricevute. Un vecchio raccoglie polvere davanti ad una chiesa, sperando che ingerendola si salverà da una malattia che lo sta portando alla morte. Verrà seppellito in una terra dove pascoleranno le sue ex capre. Tra di loro, un piccolo perde di vista il resto del gruppo e si riposa sotto un albero. Quello stesso albero sarà poi tagliato dagli abitanti del paese per una festa tradizionale. Con il legno si farà un particolare carbone che poi brucerà nei caminetti, vagherà nell’aria e ritornerà polvere. È questo ciò che viene raccontato attraverso quattro capitoli dalla pellicola in uscita il prossimo 28 maggio. Il successo ottenuto sulla Croisette ha convinto l’Istituto Luce a uscire con ben 25 copie. Per un documentario senza dialoghi e con protagoniste capre e cani arrabbiati, si tratta già di un bel successo. Con la speranza che il box office premi, finalmente, il cinema di qualità. Italiano, perché no.

l mercato del cinema di Cannes, è una sorta di festival nel festival. Dei film in concorso si parla pochissimo, la grande area messa a disposizione dagli organizzatori nel seminterrato del Palazzo del cinema, è un susseguirsi infinito di stand, tavoli di incontro e locandine di film che poco e nulla hanno a che fare con le varie competizioni. I film di autore sono una minoranza, vincono horror e commedie. C’è il cinema coreano, quello turco, iraniano, tedesco, canadese e così via.

I

Ogni cinematografia nazionale allestisce il proprio spazio e invita possibili buyers a vedere la “mercanzia”. In alcuni casi, quando la società produttrice è grande, lo stand se lo gestisce da solo ed evita di allearsi con i concorrenti nazionali. Non si vendono solo film finiti. Spesso si cercano produttori per progetti che devono ancora partire, altre volte si cerca l’attenzione dei tanti direttori di festival che vengono qui a cercare possibili gioielli nascosti. Quando ci si lamentava dell’assenza da Cannes del ministro dei Beni culturali italiano, Sandro Bondi, non era in realtà il suo mancato passaggio sulla passerella che dispiaceva, ma l’aiuto che avrebbe potuto dare ai tanti film nostrani qui presentati che, ci si augura sempre, con la sua presenza e i suoi probabili contatti, avrebbe cercato di vendere all’estero. L’Italia presenta sicuramente uno dei listini più interessanti. Si cercano distributori stranieri per La prima cosa bella di Paolo Virzì, Io, loro e Lara di Carlo Verdone (che ha l’onore di avere anche un piccolo cartellone sulla facciata prin-

cipale del Carlton Hotel, il più prestigioso sulla Croisette), L’uomo che verrà di Giorgio Diritti e tanti altri. Nel frattempo l’horror Shadow dell’ex Tiromancino Federico Zampaglione è stato venduto in quasi tutto il mondo, mentre il prossimo progetto di Paolo Sorrentino con Sean Penn protagonista, ha trovato i partner produttivi per dare il via alle riprese la prossima estate. La doppia ora di Giuseppe Capotondi è stato venduto agli americani della Samuel Goldwyn Company, il Vallanzasca di Michele Placido alla Fortissimo, mentre il film d’animazione Storia di Leo avrà una distribuzione internazionale grazie alla Weinstein Company. Ma non solo. L’Italia compra pure: la Medusa ha acquistato i diritti per il prossimo progetto americano di Gabriele Muccino, Passengers, una storia di fantascienza con Keanu Reeves, mentre la Bim di Valerio De Paolis distribuirà il bel film in concorso Another Year di Mike Leigh, oltre a Tamara Drewe di Stephen Frears e Chatroom di Hideo Nakata.

Non tutti però sanno fare gli affari. Tra i film in concorso non comprati da alcun distributore italiano, spicca infatti il Biutiful di Inarritu, con protagonista il premio Oscar Javier Bardem. Sembra che la richiesta iniziale per la cessione dei diritti in Italia sia stata di tre milioni di euro. Babel, il film precedente del messicano, incassò in Italia circa due milioni e mezzo. Difficile che con queste premesse, si potrà arrivare ad un accordo. Il cinema è cultura per il pubblico, ma business per tutti gli altri. E nessuno fa beneficenza. (a.d’a.)


società

pagina 20 • 20 maggio 2010

etti due tifosi della Lazio in due contesti diversi, dove il calcio non c’entra nulla. Uno di ventisei anni a bordo di un’auto, insieme con gli amici in viaggio sull’Autostrada del Sole per andare a vedere la partita Inter-Lazio di Serie A. L’altro di venticinque anni in sella ad un motorino nei pressi dello stadio Olimpico dopo l’incontro Roma-Inter di Coppa Italia, diretto ad una festa di amici. E metti che sulle loro strade si piazzano due agenti della Polizia di Stato, in divisa d’ordinanza, protagonisti di due atti scelleratamente arbitrari. Metti che il primo ragazzo si chiama(va) Gabriele Sandri e che quella mattina dell’11 novembre 2007 ci ha rimesso la vita. Metti che il secondo ragazzo ha ancora la fortuna di chiamarsi Stefano Gugliotta, pure dopo la sera del 5 maggio 2010. Due casi simili. Due storie maledettamente attuali, distanti nella dinamica e nell’epilogo finale, ma tristemente di dominio pubblico e d’interesse popolare. Gabriele venne ucciso senza un perché, colpito mortalmente da un colpo di pistola sparato da una parte all’altra della carreggiata autostradale, alla luce del sole. Stefano ha avuto salva la vita anche se gli è stata rovinata in quella notte da incubo che lui vorrebbe dimenticare. Entrambi figli di Roma, entrambi con mamma e papà a casa ad aspettarli, entrambi vittime del sistema. O quanto meno di un abuso ora al vaglio degli inquirenti, come per il reato di lesioni volontarie con l’aggravante del ruolo di pubblico ufficiale per cui è indagato il poliziotto di Viale Pinturicchio. O addirittura di un delitto, come per l’omicidio colposo con colpa cosciente con cui in primo grado (derubricandone il dolo della volontarietà) è stato condannato a 6 anni l’agente di Badia Al Pino. Purtroppo il povero Gabbo ora riposa al cimitero: «Attendiamo giustizia giusta. Non è tollerabile che un poliziotto uccida un cittadino invece di difenderlo. L’assassino di mio figlio deve essere giudicato per il reato commesso, senza sconti, senza alibi», dice il papà Giorgio che non si dà pace. Rimettendoci un dente e ammaccature varie, Stefano ha invece trascorso sette interminabili giorni in una cella d’isolamento a Regina Coeli, tentando uno sciopero della fame, coi genitori in ansia ad aspettarlo fuori dal carcere: «Mi picchiavano mentre spiegavo - ripete Gugliotta - Mi hanno colpito a bocca aperta, mentre dicevo che non c’entravo nulla. Adesso aspetto giustizia».

M

Informazione e depistaggi. Gabriele Sandri non potrà mai raccontare la sua versione ma

A sinistra, un’immagine di Gabriele Sandri. Sopra, uno scatto di Stefano Gugliotta. In basso, una foto di Cristiano Sandri, il fratello di Gabbo

L’analisi. Quel che accomuna (tragicamente) i due giovani tifosi della Lazio

Gli strani casi di “Gabbo e Guglia” di Maurizio Martucci

Come la stampa, la politica, la giustizia e le forze dell’ordine hanno reagito all’omicidio del deejay e al pestaggio di Gugliotta per il trionfo della verità si ritrovarono in tribunale cinque testimoni super partes, tutti con la stessa ricostruzione:

«L’agente impugnò l’arma con entrambe le braccia e poi sparò. Come se si fosse trovato ad un poligono di tiro». Stefano Gugliotta ha incontrato la bontà di un cittadino che, udendo grida e trambusto dal balcone, si è affacciato dalla finestra, video-fonino in mano, registrando l’aggressione. Nel primo caso la Corte d’Assise di Arezzo ha ritenuto i testi poco attendibili ed a tutt’oggi l’agente non ha scontato nemmeno un giorno di galera, in attesa dell’appello e (se necessa-

Oggi in Campidoglio nasce la Fondazione Sandri Con la firma dello statuto da parte del sindaco di Roma Gianni Alemanno, nasce oggi in Campidoglio la “Fondazione Gabriele Sandri”, pensata per diffondere la cultura della legalità e della giustizia soprattutto tra i giovani. La sede è nella centralissima Piazza della Libertà della Capitale, alle spalle di Piazza del Popolo. Socio fondatore, oltre il Comune e la famiglia Sandri, è la Federazione Italiana Giuoco Calcio. Il Consiglio d’amministrazione sarà composto dal presidente Cristiano Sandri (fratello di Gabbo) e dai consiglieri Antonello Valentini (direttore generale della Figc), l’onorevole Walter Verini (deputato), l’onorevole Alessandro Cochi (delegato allo Sport del sindaco capitolino), Maurizio Martucci (giornalista e scrittore), Stefano Re Cecconi (figlio del centrocampista della Lazio del primo scudetto del 1974) e Luca Di Bartolomei (figlio del capitano della Roma del secondo tricolore del 1983).

rio) pure della cassazione. Nel secondo caso pubblico ministero e sostituto procuratore di Roma hanno valutato probanti le immagini amatoriali per liberare un innocente (indagato comunque per resistenza a pubblico ufficiale). Per la storia di Gabbo, più che del delitto, su Rai 2 Annozero parlò di ultrà e di violenza nel calcio, di un Daspo (mai avuto), dei sassi in tasca e del tasso alcolico rinvenutogli nel sangue dopo una notte in discoteca. Per “Guglia” c’è stato il video di

Rai 3 su Chi l’ha visto?, seguito mediaticamente dal teorema delle scorribande ultrà e degli scontri con la Polizia (cui non aveva partecipato), dello status da pregiudicato e di un’alterazione psico-fisica da stupefacenti. Cioè? E allora? Se la sono cercata? Erano dei nulla di buono, quindi se la sono meritata? E invece i poliziotti? La loro condotta? Potevano fare quello che hanno fatto? Ma chi sono? Niente, nessuna informazione. Silenzio, tanto, assordante. Il vissuto di Luigi Spaccarotella resta ancora oggi un mistero, ignorato dai reporter più esigenti che della vita privata della vittima ne fecero persino un diario di bordo a puntate, come ad invertire arbitrariamente il ruolo della vittima con quello del carnefice. Così come ci è sconosciuta l’identità del poliziotto che ha picchiato e poi arrestato Stefano, quella sera coperto da un fazzoletto in volto e dal fatto che in Italia gli agenti in servizio non sono identificabili da alcun codice né da un alfanumerico identificativo sulla divisa (indice di trasparenza e di democrazia avanzata).

Politica e Polizia. Per l’omicidio dell’A1 si indignò il Capo dello Stato Giorgio Napolitano e quello della Polizia Manganelli: «Sandri non era un eversivo». Ma quando da Biella il Questore Poma disse che «Spaccarotella non doveva nemmeno sfoderare l’arma dalla fondina», la segreteria piemontese della “Confederazione Sindacale Autonoma di Polizia” insorse a difesa della categoria. Un po’ come tuonarono il sindacato del “Movimento per la sicurezza” e il “Consap” per difendere la Polizia da attacchi gratuiti e strumentali: «L’episodio di Viale Pinturicchio è una devianza operativa gravissima, ma bisogna avere il coraggio di dire che il 99,9% dei poliziotti è mal pagato e mal equipaggiato». Ma il punto specifico è proprio quello 0,1% periodico che non si può sottovalutare né sminuire. «Mele marce», si dice in gergo. Ma quante sono? Elio Vito, ministro per i Rapporti con Parlamento, ha annunciato che «in caso di responsabilità penali di uno o più agenti» il ministero degli Interni si costituirà parte civile in un ipotetico giudizio pro-Gugliotta. Per il processo d’appello Spaccarotella, oltre la pubblica accusa e la famiglia Sandri, c’è la Procura Generale della Toscana e nulla più. Basterà per fare giustizia senza video-fonino? E pensare che nell’autogrill della morte c’erano le telecamere a circuito chiuso. Quel giorno però, cosa strana, non ripresero nulla perché fuori uso. Almeno così ci dissero, senza farci vedere niente...


spettacoli

20 maggio 2010 • pagina 21

Musica. Oltre 13mila fan sono accorsi da tutta Italia, al Mediolanum Forum di Milano, per il concerto di martedì dei Kiss

Riecco i magnifici quattro di Valerio Venturi

In questa pagina, alcune immagini della famosa band statunitense dei Kiss. Il gruppo rock, per la gioia di oltre 13mila fan accorsi da tutta Italia, si è esibito martedì scorso al Mediolanum Forum di Milano, registrando un tutto esaurito

MILANO. Assistere a uno spettacolo dei Kiss è un’esperienza consigliata e quasi obbligatoria per chi si dice rockettaro. Il gruppo truccatissimo di Gene Simmons e Paul Stanley ha 37 anni di carriera ma li porta benissimo, e lo show che si è tenuto lo scorso martedì sera a Milano, al Mediolanum Forum, non certo ha deluso le aspettative. Più di tredicimila i fan dei Kiss accorsi da tutta Italia. Lunghe file, tanti a cercare biglietti introvabili; borchie, visi truccati, età trasversali e tanta voglia condivisa di partecipare ad un vero e proprio rito collettivo. Ci si aspettavano botti, fiamme, esplosioni e voli spettacolari sulla teste degli spettattori - come al solito - oltre al meglio delle canzoni suonate con energia e spirito guerresco: e così è andata.

Anche se i pompieri hanno vietato alla band di usare il fuoco, i Kiss hanno usato i fuochi artificiali e hanno colorato con chiome, tacchi e vestiti fetich un palco ornato da grossi megaschermi. Paul Simmons e soci si sono rivelati dei veri fenomeni da baraccone, nel senso buono del termine: e pazienza se la voce del frontman ogni tanto si è rivelata scarica, se le presentazioni dei brani sono le stesse da trent’anni, se alcune delle canzoni suonate non sono tra le migliori del quartetto; l’importante, per chi ama i Kiss, è che Gene Simmons sputi sangue, che Paul Stanley plani sugli astanti, che Tommy Thayer spari ciccioli con la chitarra elettrica e che Eric Singer utilizzi in modo disinvolto le bacchette della batteria come un bazooka da concerto. Perché i Kiss sono da sempre una band da vedere, oltre chè da sentire. Una band che colleziona ad ogni concerto reggiseni su reggiseni, lanciati dalle fan sul palco, come da copione. Ma la musica c’è stata eccome: la serata è stata aperta dal brano Modern Day Delilah, tratta dal nuovo album Sonic Boom - che non ha mai conquistato i

fan, anche se è entrato direttamente al secondo posto della classifica americana di Billboard e nelle top ten di tutto il mondo. Quando arrivano Cold Gin, Deuce, Calling Dr. Love, e ancora Black Diamond e Detroit Rock City la gente va in delirio - o quasi: Milano resta città che manifesta affetto a volte in modo poco melodrammatico.

I privilegiati dello show di Assago già sold-out da mesi - ascoltano in ordine sparso anche Strutter, Let Me Go Rock n’ Roll, Hotter Than Hell, Shock Me, Modern Day Delilah, Parasite, Say Yeah, 100,000 Years, I Love It Loud, Rock and Roll All Night e vari generosi bis. Totale: oltre due ore di musica; bi-

sione? Scuotere il pianeta Terra per spargere il verbo di “Sonic Boom”.Colpisce che i Kiss abbiano ancora benzina nel serbatoio; ma così è, e non è un caso che gli anni zero sia minati-salvati dal fenomeno delle reunion. La storia del combo newyorkese parte nel lontano 1973. Si scelgono musica e make-up: questa volta Stanley è il “Figlio delle stelle”, Simmons il “Demone”, Tommy Thayer (sostituto di Ace Frehley alla chitarra) è “L’uomo dello Spazio” ed Eric Singer

Ci si aspettava uno spettacolo fatto di botti, fiamme, esplosioni e voli a effetto sulla teste degli spettatori, oltre al meglio delle canzoni suonate con energia. E così è andata... glietto caro, ma l’investimento vale la spesa. Insomma: per dire che la tappa italiana del sovrabbondante “Sonic Boom Over Europe: From The Beginning To The Boom”- dopo Irlanda, Svizzera, Italia, Austria, Repubblica Ceca, Germania, Norvegia, Finlandia, Svezia, Danimarca, Olanda, Francia, Spagna, Belgio, Regno Unito e, per la prima volta, Slovacchia - ha confermato che i Kiss, ricchi di storia, hanno ancora voglia di rockeggiare. I Tokio Hotel - sia concesso il paragone blasfemo - sono avvisati. D’altronde Paul Stanley aveva promesso «un nuovo stage, una nuova setlist, nuovi abiti di scena», e che sarebbe stata ripercorsa «l’intera storia musicale della band su un palco che ci fa fare un passo da gigante nonostante i nostri tacchi da 8 pollici». Quindi gli adepti del combo non vedevano l’ora di vedere la rinascita di quello che il bassista Gene Simmons ha definito «un mostro a quattro ruote. La nostra mis-

(alla batteria al posto di Peter Criss) “L’uomo gatto”. Ora come allora: i “personaggi” da interpretare si scelsero alla fondazione. Quindi venne il primo album di successo, nel 1975: si tratta di Alive, un doppio disco dal vivo che li ha catapultati nell’Olimpo delle rockstar. Da allora il fan club ha continuato a ingrossarsi in maniera incredibile: la band decise bene di capitalizzare creando merchandising infinito: bambole, flipper, fumetti, il filmato Kiss meets the phantom of the park, prodotto e trasmesso dalla rete Nbc nel ’78. La ballad I was made for lovin’ you, scritta da Paul Stanley nel 1979, dà ai Kiss un successo planetario. Negli anni Ottanta, per un po’, i rockettari decidono di mollare il make-up che ha contribuito a renderli celebri: si mostrano senza trucco e pubblicano The Kiss Unmasked.

Il suono diventa pop-metal, Peter Criss lascia la band e al suo posto subentra Eric Carr, che muore nel 1991 a causa di problemi cardiaci. Anche Frehley abbandona, ma i due superstiti proseguono l’attività con discreto insucces-

so. Nel 1989 i Kiss girano il video di Rise to it in cui riappaiono, dopo sette anni, le maschere di Paul e Gene. Si pregusta un ritorno agli antichi, barocchi fasti. Segue un Unplugged in formazione originaria e la definitiva riscossa. Nel 1999, dopo l’uscita dell’album Psycho Circus, Simmons e soci offrono i primi live in 3d della storia. Altro anno importante è il 2005: esce il doppio dvd Rock the nation live!, registrato nel corso dell’estate dello stesso anno. L’ultima prova è il cd Sonic Boom, dell’ottobre 2009, a cui è seguito il tour ora in programma.

In tutti questi lustri, la band newyorkese ha conseguito un palmares di prestigio: oltre 110 milioni i dischi venduti nel mondo, molti gli album d’oro e di platino ottenuti. Il leggendario merchandising, presente in ogni tappa del tour, continua a ingrossarsi e a generare utili: ora ci sono le bare customizzate, l’instant-cd, i pupazzetti... D’altrocanto, al momento di fondare i Kiss, Simmons e Stanley avevano un’idea chiara del futuro: volevano sfondare ed essere tremendamente “pop”, al di là dell’uso di suoni aggressivi, di citazioni nazistoidi e di riferimenti satanici: non a caso avevano come modello i Beatles, non a caso ammirano ora Lady Gaga - dice Simmons: «Lady Gaga in realtà è Lady Kiss. Mi piacciono le sue atmosfere e le sue performance così spettacolari. Lei è il personaggio più divertente dai nostri tempi a oggi: è la nostra versione femminile». Sono un grande classico inevitabile. Un po’ pattone, ma efficace.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Il protestante vuole mangiare bene, il cattolico preferisce dormire tranquillo La produzione di beni e servizi ha una funzione economica ed etica, perché concorre a liberare l’umanità dal bisogno. Esiste un nesso fra religione e benessere. La stragrande maggioranza delle nazioni povere professa religioni arcaiche e non cristiane. Il cristianesimo favorisce lo sviluppo: fra i Paesi cristiani, i protestanti precedono spesso i cattolici nella graduatoria del reddito medio per abitante. Nel calvinismo sono diffusi: il lavoro come vocazione, il rigore morale, l’imprenditorialità, l’assunzione dei rischi. Nel cattolicesimo si aspira a sicurezza, beneficenza e cultura umanistica. Secondo un motto: “il protestante preferisce mangiare bene, mentre il cattolico vuole dormire tranquillo”. La realtà fattuale associa al cattolicesimo un forte avanzamento, non solo economico. In Italia, le repubbliche marinare conobbero una notevole floridezza. Con la più efficiente bottega del Trecento, Giotto fu anche abile uomo d’affari e scrisse una canzone satirica contro l’esaltazione della povertà.Vi fu il miracolo economico: il prodotto industriale italiano del 1961 raddoppiò quello del 1953. In Italia si è sviluppata una fiorente attività, non solo turistica. La relativa arretratezza dell’Italia meridionale risente di residui arcaici.

Gianfranco Nìbale

NON CONVIENE ESSERE SAVIANO Logiche approssimate e contorte girano intorno alla cultura di destra e alla appropriazione indebita o meno di elementi e icone, svendute anzitempo alla sinistra. Credo in realtà, che in tanti anni e con una realtà lottizzata dalla cultura del dopoguerra, si sia ritenuto di identificare ogni novità di successo come qualcosa che non poteva essere certo di destra, essendo questa ancora identificata con il fascismo, con l’orrore della guerra, con la conservazione. La stessa destra poteva a malapena interagire con tale realtà ed esprimere lecitamente le proprie identificazioni, se non restando nelle classiche icone rivoluzionarie che seppur invise, erano comunque ghettizzate dalla politica ufficiale di allora. Adesso le cose sono cambiate, al punto tale che alcuni personaggi, come lo stesso Saviano, sono oggetto di una discussione

molto vaga. La verità è che ho provato le dimensioni della questione; in una fila di un mercato dove alcuni signori mi avevano scambiato per lo scrittore affermando poi in coro: «Non vi conviene essere Saviano». Allora il problema è che molti personaggi scomodi che dicono le cose come sono, sono respinte dal “comune senso del pudore”, che albera sia nella gente che in alcuni ambienti istituzionali. Se la destra si riconoscerà in questi, per i valori espressi nelle lotte alle criminalità, sarà vincente due volte, la seconda per il coraggio espresso nel cavalcare le raffigurazioni scomode che alberano nella deviante cultura dell’indifferenza.

Bruno Russo

VERIFICHE SERIE E CONTROLLI PERIODICI PER CHI HA ARMI DA FUOCO L’uccisione di due guardie zoofile, a Sussi-

Il bambino e il bue d’acqua Un bambino “a cavallo” di un bufalo d’acqua in una risaia di Sapa, una città di frontiera nella provincia di Lào Cai nel nord-est del Vietnam. Sapa è la principale città mercantile dell’area, in cui vivono molte minoranze etniche

sa, sulle alture della riviera genovese di levante ha scatenato polemiche nel mondo politico e degli ambientalisti. Renzo Castagnola, un cacciatore 65enne, ha ucciso i due agenti di polizia giudiziaria, che stavano procedendo ad una verifica delle condizioni in cui versavano i suoi cani, a seguito di una denuncia per maltrattamenti su animali. Dopo aver ascoltato la lettura del decreto, al momento di firmare, l’uomo ha detto: «Vado a prendere una penna». Invece è tornato armato e ha co-

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

minciato a sparare, ferendo anche sua moglie che stava tentando di fermarlo. Poi si è tolto la vita. Castagnola aveva il permesso per detenere armi da caccia e questo la dice lunga circa la serietà delle verifiche con le quali si assegna il porto d’armi. Hanno perso la vita tre persone in questa faccenda, e si farebbe bene a regolamentare meglio e soprattutto a porre in essere verifiche periodiche su tutti i possessori di armi, sia ad uso sportivo che venatorio.

Alessandra De Giorgi

da ”The Indipendent” del 19/05/10

I social network mettono ko Nestlé di Martin Hickman a Nestlé ha reagito. Il gigante mondiale dell’alimentazione ha risposto alle accuse e agli attacchi di migliaia di consumatori. La multinazionale del cioccolato ha affermato che l’introduzione dell’olio di palma nel nelle famosissime tavolette di cioccolata sarà fatta in maniera più ecologica. L’attacco era stato accusato vista la campagna da guerriglia marketing scatenata su internet. L’azienda svizzera ha invitato una società di audit affinché controlli la sua catena di produzione e possa così certificare la correttezza di ogni passaggio industriale. Le accuse erano arrivate principalmente da Green Peace, che aveva paventato un pericolo deforestazione, proprio a causa dell’utilizzo dell’olio di palma al posto del tradizionale burro di cacao.

L

La Nestlé si è quindi impegnata a rescindere i contratti di fornitura con qualsiasi azienda che per produrre l’olio alimentare distrugga la foresta pluviale per creare nuove aree coltivabili a palma. Insomma, il primo produttore al mondo di cibo non vuole che prodotti come Kitekat, Aero e Quality Street siano associati a una condotta antiambientale. La mossa è arrivata dopo circa tre mesi di campagna martellante da parte di Green Paece, utilizzando un terreno di scontro molto particolare, come i social network. Quindi Facebook e YouTube hanno determinato un cambiamento nell’approccio di una grande major. Più di un milione di utenti hanno potuto veder su YouTube lo spot di Green Peace contro il Kitekat, nonostante per un certo periodo sia stato oscurato a causa di un’azione legale. Tutta la vicenda ha dimostrato come le grandi aziende siano vulnerabili alle

campagne promosse attraverso i social network dalle Ngo. Un mezzo che riesce a galvanizzare i consumatori in una maniera che prima dell’avvento del web non era possibile. E ha fatto emergere la controversia sui danni ambientali che deriverebbero dalla coltivazione dell’olio di palma. Migliaia di ettari di foresta pluviale sono state distrutte in Indonesia e Malaysia per fare spazio alle nuove coltivazioni. Privando così molte tribù delle loro terre, provocando cambi climatici dovuti a emissioni nocive e mettendo a repentaglio specie come la tigre di Sumatra, l’orso malese, il leopardo maculato e un particolare genere di armadillo. La campagna aveva utilizzato soprattutto l’orangutango, un mammifero fra i più vicini alla specie umana che vive solo in particolari zone del Borneo e di Sumatra, soggette oggi a una pesante deforestazione. Da quando un’inchiesta dell’Indipendent ha scoperto che questo olio è presente in almeno 40 tra i prodotti più venduti nelle drogherie e nei supermercati inglesi, molte società produttrici hanno deciso di sposare una politica industriale ecocompatibile. Tra queste oltre la Nestlé troviamo anche Mars, Cadbury e Marks & Spencer. Il marchio svizzero è quello che si muoverà con meno rapidità, visto che ha dichiarato che solo nel 2015 raggiungerà i requisiti per la certificazione ambientale richiesti dal Wwf. L’offensiva contro la Nestlè era cominciata il 17 marzo, con una protesta pubblica in Inghilterra e postando la famosa clip su YouTube (intitolata Have a break?). Si vedeva un impiegato du-

rante una pausa mentre scartava una merendina Kitekat che in realtà conteneva il dito sanguinolento di un orangutango. E, cosa ancora peggiore, si citavano delle aziende concorrenti come Unilever e Kraft che invece stavano ovviando alle wrost practice che la major del cioccolato ancora praticava. La campagna accusava una ditta – che si affermava essere fornitrice degli svizzeri – la Sinar Mas di usare la deforestazione per produrre il grasso vegetale.

Il 15 aprile attivisti di Green Peace erano piombati nell’assemblea generale della società, a Losanna, mostrando le prove delle loro accuse. La difesa della multinazionale si basava sui numeri poco chiari della controversia. Cioè non si sa se la maggior produzione di olio da palma sia destinata al settore alimentare o al biofuel. Comunque alla fine Nestlé ha dovuto piegare la testa ai consumatori inferociti.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog

dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Non si può vivere attraverso l’esperienza degli altri Per vivere bisogna avere coraggio. Sia il seme intatto sia quello che sta incrinando il guscio hanno le stesse proprietà. Eppure, solo quello che sta spaccando l’involucro è in grado di lanciarsi nella avventura della vita. Un’avventura che richiede un’unica audacia: scoprire che non si può vivere attraverso l’esperienza degli altri, e che bisogna essere disposti ad abbandonarsi. Non si possono prendere gli occhi di uno, le orecchie di un altro, per scoprire in anticipo che cosa accadrà: ogni esistenza è diversa dall’altra. Qualsiasi cosa mi aspetti, desidero che il mio cuore sia pronto a riceverla. Che io non abbia paura di posare il braccio sulla spalla di qualcuno, anche se dovesse essermi tagliato. Che io non tema di fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima, anche se dovessi essere ferito. Lasciami essere stupido oggi, perché la stupidità è tutto ciò che possiedo da donare stamane; posso essere rimproverato per questo, ma non ha importanza. Domani, chissà, forse sarò meno stupido. Quando due persone si incontrano, devono essere come due gigli acquatici che si schiudono l’uno accanto all’altro, mostrando ciascuno il proprio cuore dorato e riflettendo il lago, le nuvole e i cieli. Non riesco a capire perché un incontro generi sempre l’opposto di tutto ciò: cuori chiusi e paura di soffrire. Kahlil Gibran a Mary Haskell

LE VERITÀ NASCOSTE

Cina, un kit di mazze per i bimbi a scuola SHANGHAI. Si moltiplicano i casi di folli armati che, in Cina, attaccano le scuole e gli studenti armati di coltelli o armi da fuoco. E la risposta? Bastoni per proteggere i propri figli dagli assalti dei malintenzionati. È questa l’ultima trovata lanciata sul mercato cinese e acquistabile on line, dopo i recenti attacchi alle scuole cinesi con l’uccisione di bambini. Ne da notizia lo Shanghai Daily. Dopo il sesto attacco in due mesi, nei quali uomini armati di coltello e altre armi bianche hanno attaccato asili facendo 17 vittime, sono sempre di più i genitori che stanno pensando a forme di difesa personale. «Non posso più permettere che mio figlio sia ferito o peggio da qualche pazzo. Ci deve essere qualche strumento di difesa che possa essere usato per proteggere i bambini quando vanno a scuola e quando tornano a casa» ha detto un genitore intervistato dal giornale cinese. Il nuovo kit di sicurezza, che sta già avendo un grande successo, è composto da un bastone speciale con una struttura semicircolare sulla punta. Può servire a tenere lontani gli aggressori o ad afferrarli senza ferirli. Inizialmente venduto a 98 yuan (intorno a 10 euro), in pochi giorni il suo costo è schizzato a 1.900 yuan, visto il numero delle richieste e la scarsità degli esemplari ora disponibili. La maggior parte degli ordini del nuovo bastone sono arrivati dalle province dello Hunan, del Guangdong e dello Zhejiang. Nessun ordine, almeno fino ad ora, da Shanghai, città - secondo un commerciante del nuovo kit - ritenuta più sicura delle altre e dove non si sono mai verificati attacchi di quel genere. Tuttavia, mazze o non mazze, il problema della sicurezza dei minori rimane un forte mal di testa per Pechino. Che l’ha creato, con la legge del figlio unico.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

QUANTO COSTANO 11 MINISTERI INUTILI? Quanto costano i ministeri, con relativi sottosegretari, personale di segreteria, consulenti, auto blu, uffici, eccetera? Una semplice razionalizzazione porterebbe all’eliminazione di 11 dicasteri: Semplificazione Normativa (Calderoli), Riforme per il Federalismo (Bossi), Attuazione del Programma (Rotondi), Rapporti con le Regioni (Fitto), Rapporti con il Parlamento (Vito), Politiche Europee (Ronchi), Pari Opportunità (Carfagna), Gioventù (Meloni), Turismo (Brambilla), Ambiente (Prestigiacomo) e Salute (Fazio). Il ministro alla Semplificazione Normativa, fiutata l’aria che tira, propone il solito specchietto per le allodole: diminuire lo stipendio di ministri e parlamentari del 5%. Ricordiamo che le indennità parlamentari sono già state decurtate del 10% nel 2006 e sono bloccate dal 2007 (non adeguate a quello del primo presidente di Corte di Cassazione). Calderoli, sul sito del suo ministero, dichiara che «la stima complessiva del risparmio annuo potenziale connesso all’attuazione delle misure di semplificazione è di oltre 21 miliardi di euro». La notizia ci ha piacevolmente sorpreso; abbiamo pensato che così non avremmo dovuto sottoporci all’ennesimo salasso per coprire i buchi delle pubbliche finanze del governo di cui fa parte, ma ci siamo subito ripresi leggendo attentamente: si tratta di “stima”. Pensavano di aver risolto i nostri problemi finanziari con la riduzione del 5% e i risparmi della semplificazione. Non ci sembra che sia proprio così. A Berlusconi chiediamo atti di rigore e serietà per affrontare la difficile situazione economica, a iniziare dalla composizione del suo governo.

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

APPUNTAMENTI MAGGIO 2010 OGGI ORE 16, TODI, HOTEL BRAMANTE

Consiglio Nazionale Circoli liberal

SEMINARIO TODI 2010 20, 21 E 22 MAGGIO - TODI - HOTEL BRAMANTE

“VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” - Per difendere l’unità d’Italia e ricostruire la Repubblica Inizio lavori oggi, ore 16,30 SEGRETARIO

Primo Mastrantoni

Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak

TODI 2010, IL CENTRO NAZIONALE Esattamente un anno fa, dal nostro seminario di Todi, i “padri” costituenti dell’Unione di Centro, Ferdinando Adornato, Lorenzo Cesa, Savino Pezzotta e Rocco Buttiglione, anche in rappresentanza dei rispettivi movimenti di riferimento, avevano elaborato e dato in pasto alla discussione politica e culturale del nostro Paese il manifesto per una nuova Italia. Alla chiusura dello stesso seminario il nostro leader e presidente dei centristi,Pier Ferdinando Casini, aveva aggiunto e per la prima volta enunciato la nascita di un nuovo grande partito di tutti i moderati italiani, laico, cristiano e liberale: “il partito della Nazione”. Naturalmente il nuovo soggetto politico voleva e vuole essere insieme il punto di arrivo e quello di (ri)partenza per una nuova sfida per l’Italia e l’Europa. Una sfida che è cresciuta in quest’anno e oggi si manifesta tutta intera nel fallimento di un falso bipolarismo all’italiana, nel nuovo ruolo dei cattolici impegnati in politica, nella mancanza di riforme condivise per il Paese e le scadenze economiche e finanziarie che toccano l’Italia e l’Europa intera, oggi solo economica e con quella politica ancora tutta da costruire. Dal punto di vista interno un percorso, quello verso il partito della Nazione che, il segretario nazionale Lorenzo Cesa ha annunciato all’ultima direzione nazionale dell’Udc, con l’azzeramento di tutte le cariche del partito per dare la vera possibilità alle persone e alle componenti politiche, sociali e culturali di costruire insieme il destino del nuovo partito e quello dell’Italia intera. Poi, Casini ha nel frattempo aggiunto altre due cose. Uno: la necessità e la certezza di un vero e nuovo rinnovamento della classe dirigente, che si concretizzi non nel fattore generazionale ma nello stile, nel fare, nello sviluppare e interpretare la politica da parte degli addetti ai lavori in rapporto e sintonia con il territorio. Due: la richiesta di un “governo dei migliori” o di “salute e unità nazionale” che governi realmente l’Italia per il bene comune degli Italiani. Ecco quali sono, secondo me, le buone premesse del nuovo progetto del partito della Nazione, che mette al centro la libertà e democrazia, il vero elemento di novità e l’unico in Italia di chi come noi propone un modello di “bipolarismo” basato sulle coalizioni e sui programmi tra uomini, valori e sensibilità comuni. Non per vincere, ma per bene guidare e governare il Paese, tutto intero. Vincenzo Inverso S E G R E T A R I O NA Z I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

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ULTIMAPAGINA Tendenze. Questi gli ingredienti che stanno movimentando le notti romane

Arte, nuove frontiere della comunicazione e… di Mario Accongiagioco roprio così. L’ ultima frontiera per promuovere un evento è “non”pubblicizzarlo. Ce lo insegnano le Secret Moovin Society (alla lettera “Società Segrete Moovin) il cui acronimo,“Sms”, la dice lunga sulla comunicazione dei nostri giorni. Un gruppo di organizzatori di eventi notturni, avvalendosi di un team di ingegnosi “comunicatori” , ha creato su Facebook una vera e propria società segreta delle notti romane. L’ultimo evento in ordine di tempo, il giorno della liberazione, è stato celebrato rievocando le atmosfere dadaiste del Cabaret Voltaire. È questa l’ultima creazione dell’art director di scuola newyorkese Frank Honiric, alla cronaca Alessandro Franconetti, che ha curato questo secondo incontro della “Sms”, dopo il successo di Prohibition (evento che invece rievocava gli anni del proibizionismo americano e che riproduceva un tipico “speakeasy”). «Questi eventi», ci spiega lo stesso Frank Honiric, «hanno la peculiarità di far filtrare contenuti artistici e culturali attraverso l’utilizzo delle grammatiche dell’intrattenimento facendo immergere gli ospiti in un percorso tra arte e costumi di epoche passate ma, per cultura, a noi vicine.Tutti gli eventi “Sms”reinterpretano infatti in chiave contemporanea dei periodi storici in cui un gruppo di persone ha deciso di inserirsi nel monologo culturale con l’obiettivo di inserire una “seconda voce”nel “dibattito pubblico”».

P

per chitarra numerato e in argento). «La comunicazione», aggiunge Frank Honiric, «prende ispirazione dai codici della massoneria e delle società segrete di una volta». La programmazione, fittissima, consisteva in forme artistiche che richiamassero lo spirito dada attraverso una concezione contemporanea e figlia dell’era digitale come la musica elettronica, l’installazione concreta, la video arte, e le rappresentazioni legate alla street art e al linguaggio pubblicitario.

Uno degli artisti presenti a Dada, l’artista pugliese Matteo De Ruggeri aka Eraser, si è esibito in una performance di “circuit bending”, ovvero di musica prodotta con vecchi

SOCIETÀ SEGRETE

«È un format culturale che parla ai giovani e li avvicina alle arti senza intimidirli. I club sono un luogo ideale perché vengono associati alla notte e al divertimento», ci dice uno dei gestori del Babel Club diVilla Borghese, «per noi è un esperimento che sta riscuotendo grande successo per la sua unicità». Molti sono infatti gli ospiti che ci rispondono, come Luca (romano di 28 anni che lavora a Londra): «Ho viaggiato molto e mi fa piacere vedere che anche a Roma ci sia finalmente un’apertura del mondo della notte alle arti e alla sperimentazione performativa». A sentire i clienti, insomma, di eventi così sembrano non essercene molti dalle nostre parti. L’appuntamento è stato promosso solo attraverso marketing virale e blitz di comunicazione web che, tramite la pubblicazione in rete di finti telegiornali, hanno fornito poco alla volta gli indizi necessari per raggiungere la location (svelata solo il pomeriggio dell’ evento e rigorosamente via sms). L’evento era gratuito, ma destinato alle sole persone (500 circa) che, dopo essersi sottoposte a una vera e propria caccia al tesoro, hanno trovato il medaglione di“appartenenza” alla Secret Moovin Society (un plettro

giocattoli, pupazzi e videogiochi da lui stesso modificati. Il collettivo Archicracy, capitanato dal giovane architetto Silvia Panaro, ha invece creato un percorso scenografico trasformando lo spazio del Babel Garage, ottenuto all’interno del parcheggio di Villa Borghese, in un’installazione architettonica dal forte richiamo all’estetica dadaista esaltando la figura umana con il suo annullamento. L’installazione era infatti composta da manichini, pneumatici, materiale plastico riciclato e stoffe che sottolineano, attraverso il filo invisibile del nonsense, la disintegrazione dell’uomo e del suo intervento terreno. Erano inoltre esposte le “book pages” dell’illustratore Veneto Michele Cavaliere (una delle giovani matite di Cuore e ora vignetta del giorno del free-press City) e una dozzina di tele dello street artist Starz. È inoltre intervenuta Vivie La Gloire che ha rievocato il senso di provocazione, tipico dei salotti dada, omaggiando in due blitz performativi, la tradizione burlesque e il drag queen show. «Lo sviluppo di questi eventi notturni », dice ancora il curatore, «si dirigerà ulteriormente verso ambiti formativi. Il nostro obiettivo è quello di creare una forma ibrida di intrattenimento notturno, che sappia mescolare al divertimento anche arte e formazione. Già nel mese di giugno, infatti, faremo dei workshop di circuit bending presso un’importante struttura museale romana in cui saranno poi gli studenti stessi a suonare durante l’ evento notturno». Non bevete troppo dunque, perché anche di notte non è più concesso distrarsi.

Due le grandi novità della movida capitolina: il primo è la non-convenzionalità della promozione dell’evento, il secondo è la proposta di un nuovo concetto di divertimento che porta costume e cultura al centro della scena


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