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ISSN 1827-8817 00522

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Solo i saggi posseggono delle idee; la maggior parte dell’umanità ne è posseduta Samuel Taylor Coleridge

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 22 MAGGIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Cesa, De Mita, Pezzotta e Buttiglione rilanciano il tema della responsabilità nazionale. Oggi attesa per l’intervento di Casini

«È l’ora di un nuovo governo» La crisi economica è grave, quella politica pure. Imperversano solo i demagoghi (Santoro, Bossi, Di Pietro). Da Todi i centristi insistono: all’Italia serve una grande svolta Appello di Washington a Roma

Gli Usa avvertono Berlusconi: «Intercettazioni indispensabili contro la mafia»

di Errico Novi

UN’ALLEANZA PROGRAMMATICA

TODI. Al convegno della Fondazione liberal è il giorno del nuovo partito della Nazione e della necessità di un nuovo governo e di una nuova alleanza politica che portino l’Italia fuori dall’emergenza internazionale. Tutti i leader centristi (Lorenzo Cesa, Ciriaco De Mita, Savino Pezzotta e Rocco Buttiglione) disegnano i contorni della proposta centrista. E c’è grande attesa per il discorso di chiusura di Pier Ferdinando Casini.

Non si può più perdere tempo Salvare l’Italia. E contribuire a salvare l’Europa. Non sono davvero di poco conto gli obiettivi del nuovo Partito della nazione nato a Todi. Enrico Cisnetto • pagina 7

LA MANOVRA E IL FEDERALISMO

Chi fa fronda contro Tremonti

a pagina 2

Politici e intellettuali davanti al nuovo progetto

Che cosa ne pensate del Partito della nazione? Gli esponenti di schieramenti diversi (Fioroni, Granata e Lanzillotta) e tre politologi (Cacciari, Feltrin e Sabbatucci) analizzano la nuova proposta dei centristi e il ruolo che può assumere in Italia il leader dell’Udc

di Francesco Pacifico e Marco Palombi

ROMA. Non capitava da molto tempo che gli Stati Uniti intervenissero direttamente sulla vita politica interna a un paese europeo, e invece ieri è successo. «Non vorremmo mai che succedesse qualcosa che impedisse ai magistrati italiani di fare l’otE il Pdl timo lavoro svolto risponde finora: le intercettazioni sono uno a Brauer: strumento essen«Facciamo ziale per le indagiun patto, ni nella lotta alla ognuno mafia». Queste pasi occupi role semplici ed delle riforme essenziali sono pronunciate di casa sua» state ieri nei locali dell’ambasciata Usa a Roma nel corso di una improvvisa conferenza stampa indetta dal sottosegretario al Dipartimento di Giustizia degli Usa con delega alla criminalità organizzata internazionale, Lanny A. Brauer. «Facciamo un patto: ognuno si occupi delle riforme di casa sua», gli risponde, dalle colonne di liberal, Maurizio Gasparri. Che aggiunge non senza ironia: «E comunque, se continuano a criticarci, ce ne faremo una ragione». a pagina 8

Franco Insardà e Riccardo Paradisi • pagine 4, 5, 6 e 7

Il pil sta risalendo, per questo nell’esecutivo c’è chi teme la fretta del Tesoro: e se i tagli servissero solo a finanziare la riforma leghista? Gianfranco Polillo • pagina 3

ARRIVA IL CODICE ETICO

Sei mesi per fare un partito aperto Il tesseramento si chiuderà a novembre, dopo di che i congressi locali e quello nazionale decideranno insieme il nuovo organigramma Riccardo Paradisi • pagina 5

Il mondo discute la scoperta di Craig Venter e gli eventuali usi commerciali dell’organismo

Il grande affare della cellula artificiale La Cei approva «ma attenti all’uso». E anche Obama frena di Francesco Lo Dico

L’opinione del genetista Bruno Dalla Piccola

ROMA. La cellula artificiale

«Così potremo ripulire il mondo dal petrolio»

scoperta da Craig Venter avrà grandi ricadute nel mercato della tutela dell’ambiente. Al punto che la Cei ha già dato il suo sì alla sperimentazione, «ma stando attenti agli usi successivi». Timori, invece, arrivano da Barack Obama che ha chiesto il parere della Commissione di bioetica. a pagina 10

seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

di Gabriella Mecucci «La prima ricaduta è la costruzione di batteri ecologici in grado di pulire la Terra. Se già li avessimo, il disastro della Louisiania verrebbe scongiurato. E del resto Craig Ven98 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

ter, che è un grande ricercatore, ha una sua company per commercializzare i batteri spazzini»: è il commento del genetista Bruno Dalla Piccola. a pagina 10

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 22 maggio 2010

Sfide. Il segretario dell’Udc disegna il contorno della sfida che i centristi lanciano all’Italia per farla ripartire

«Il coraggio di cambiare» Lorenzo Cesa: «Contro la crisi serve un governo di unità nazionale». Poi, sul nuovo partito: «Sarò io il primo a lavorare al progetto» di Errico Novi

TODI. Non parla, Pier Ferdinando Casini, in attesa dell’intervento di oggi. Si limita per tutta la giornata a seguire con attenzione i contributi degli altri dirigenti. Una volta sola si avvicina al microfono della sala conferenze: lo fa per assicurare alla platea del seminario di liberal che «Lorenzo Cesa aspetterà le vostre congratulazioni anche alla fine degli interventi», e che quindi non è il caso di accalcarsi. L’entusiasmo c’è, nonostante l’attimo colto dal segretario centrista sia di quelli che segnano un passaggio, una strada di non ritorno. «Non si tratta di darci una riverniciatina, dobbiamo andare oltre, e costruire il partito della nazione». Consenso e nostal-

LORENZO CESA

gia. C’è tutto, nella seconda giornata di Todi, sia nella relazione di Cesa che nelle dichiarazioni successive. Si contano anche inviti alla prudenza, come quello di Calogero Mannino, o appunti sulla scelta del nome, e Ciriaco De Mita ne rivolge tra i più critici. Ma il segretario apre senza indugi il timing del nuovo partito. Lascia aperta la definizione del nome, del simbolo, a cui «si provvederà con un concorso di idee», anche attraverso uno spazio sul web. Di certo è che da ieri l’Udc è un cantiere in vista del congresso, fissato per fine 2010 o inizio 2011. In questi casi «si deve dare il buon esempio», dice Cesa, «perciò mi sento di annunciare fin da ora che all’assise nazionale rimetterò il mio mandato». È lunga la teoria degli interventi: al dibattito su come procedere “Verso il partito della nazione” si iscrivono dirigenti nazionali e rappresentanti della base, custodi della storia dei moderati come De Mita e Mannino e

«È triste un Paese dove ognuno è chiuso nel suo fortino per combattere un nemico»

parlamentari entrati da poco nell’Unione di centro come Enzo Carra e Renzo Lusetti.

È però soprattutto il discorso del segretario a dare il segno della giornata, che è appunto di svolta. Cesa non esita a dire che «proprio il fatto di aver avuto ragione, di aver previsto in anticipo la crisi del bipolarismo, ci obbliga a chiudere con il passato. Sarebbe troppo comodo ora metterci a fare le maestrine sugli errori di un governo e di una maggioranza in affanno e di un’opposizione confusa e senza identità». Impossibile autocompiacersi «mentre l’Italia rischia di fare la fine della Grecia». Si riparte da una presa d’atto: «Il nostro Paese ha pensato di poter fare a meno della politica. L’onda non ha riguardato solo noi, ed è così che l’economia e la finanza in tutto l’Occidente hanno spesso ridotto in un angolo il dibattito pubblico». E invece «mai come oggi l’Italia ha bisogno di politica vera, di una guida che metta al centro l’interesse generale». Lo chiedono realtà come la neonata Rete Imprese Italia, ricorda Cesa, «quel sindacato responsabile di Cisl e Uil che a Parma raccoglie gli applausi di Confindustria». E come ignorare «quei moderati

che, da Rutelli ai Popolari del Pd e a chi non si riconosce in un Pdl sempre più cupo, guarderanno con attenzione a quanto stiamo preparando». Insomma lo spazio è aperto, si tratta di organizzarlo con un partito della nazione, «che sia moderno ed europeista, costruito con una nuova classe dirtigente senza perdere radici solide, fatte di storia, tradizione e valori». E ancora «un partito laico che si riconosca nella comune identità cristiana italiana ed europea e nella dottroina sociale della Chiesa». A costruire una «casa nuova» si provvederà con un processo «da partito vero». Perché, dice il segretario dell’Udc, «la cronaca degli ultimi anni dimostra che i partiti finti hanno il respiro corto». Si discuterà anche del nome, del simbolo e dello scudo crociato: «Fosse per me non lo eliminerei». Attorno all’idea del servizio per il bene comune, di un nuovo slancio da offrire al futuro del Paese, si dipana gran parte del dibattito. Anche nei

contributi esterni al partito ritorna lo stesso richiamo: «Abbiamo bisogno della politica che guarda ai problemi della gente», dice per esempio il presidente di Confartigianato Giorgio Guerrini, «non di chi va a favore di pochi e a discapito di molti», anche perché è così che «crolla l’interesse per la politica». Tema sul quale si sofferma il coordinatore dell’Udc in Sici-

CIRIACO DE MITA

«L’obiettivo deve essere la dimensione del popolo, il sentimento della comunità» lia Saverio Romano, convinto che sia stata «l’idea del partito leggero a favorire il preessapochismo e a privare, cosa gravissima, i cittadini della loro capacità di controllo, a vantaggio per esempio della grande finanza speculatrice».Tradire le radici non ha senso: «Afferrare il


todi 2010 SAVINO PEZZOTTA

futuro e imporlo non è nella nostra cultura», ricorda Ciriaco De Mita: piuttosto, dice l’ex presidente del Consiglio, «a noi spetta il compito, come Centro, di ridare cittadinanza al governo possibile, concetto espulso dalla politica negli ultimi anni».

«Dobbiamo essere un partito capace di interpretare le novità che attraversano il Paese»

E questo presuppone appunto «la ricerca come costruzione» che vuol dire partecipazione, «recupero dello spirito di comunità». E secondo De Mita è proprio questa l’accezione da dare al nuovo partito, «più ancora dell’idea di nazione», a suo giudizio «superata dalla sempre più chiara visione internazionale della politica. Comunità e popolo», dice, «sono le vere chiavi di quello che deve essere un grande movimento». Di tempo ce n’è per discutere, ma già si entra nel vivo sul tema del nome, dunque, e a farlo non è solo De Mita: Calogero Mannino offre un’opzione diversa dall’archiviazione dell’Unione di centro, forma politica che va rafforzata: «Rifacciamoci al progetto di De Gasperi che immaginò l’allargamento della Dc tenendo ferma la Dc, con una concentrazione politica aperta a Einaudi, a La Malfa». Mario Tassone raccoglie un applauso assai significativo quan-

re. Se non cambia la percezione di ciò che noi siamo è inutile modificare simbolo e nome. Dobbiamo pensarci come una cosa nuova, e pretendo nuovi contenuti», dice Pezzotta, «ci servono nuove metafore». Più di un dubbio sul concetto di nazione, in cui il presidente della Costituente di centro avverte «qualcosa di romantico». E poi: «Non va bene se facciamo la Margherita dei moderati, noi dobbiamo essere il partito della modernizzazione, certo prudente, ma capace di interpretare il cambiamento che attraversa il Paese». Una metafora che d’altra parte può avvicinare posizioni non coincidenti è senz’altro quella proposta da Francesco D’Onofrio, ampiamente evocata nella relazione di Adornato: la “metafora della responsabilità”. Secondo D’Onofrio «dovremmo trovare il modo di trasferire nel nome proprio la responsabilità, che è la cifra della nostra diversa offertta politica». ROCCO BUTTIGLIONE Responsabilità significa, fa notare Enzo Carra, anche «evitare di trasformarci in un partito-taxi. Piuttosto dobbiamo avere l’ambizione di governare la crisi, una cosa che fa tremare le vene ai polsi e per la quale serve l’unità nazionale». Ed è proprio questo il richiamo do chiede di «mantenere lo scu- rivolto da Rocco Buttiglione, do crociato, sarebbe un atto di nel discorso che pone un sigillo coerenza». E però a fronte di alla giornata. In concreto, dice posizioni più problematiche il presidente dell’Udc, «è certo per il processo di cambiamento a Berlusconi che spetta l’onere avviato se ne registrano anche di governare e fare le riforme, è di entusiaste, fra cui quella del lui che ha vinto le elezioni: ma deputato Udc Roberto Occhiu- se non se la sente di fare da soto: «Mi piace che nel nome ci lo è bene che dica “chiedo aiuto sia l’idea dell’unità del Paese. a tutti coloro che hanno senso Nei prossimi mesi il pericolo di responsabilità”». Ecco tornapiù forte arriverà proprio dalle re la “metafora” di D’Onofrio, a spinte secessioniste». Anche da cui Buttiglione aggiunge l’urparte di chi, come Savino Pez- genza di «uno scatto morale zotta, più invoca una trasfor- per la politica». Anche in modo mazione, viene chiesto «mag- da venire incontro «all’appello giore approfondimento» prima rivolto da papa Benedetto XVI di sciogliere tutti i nodi, com- per un nuovo modo di essere presi quelli su nome e simbolo: cristiani in politica». Lo si può «Questo seminario di Todi sarà fare, assicura il presidente delimportante se potrà segnare un l’Udc, «conservando lo scudo svolta», avverte l’ex segretario crociato, magari su uno sfondo della Cisl, «non vorrei che die- tricolore: quello che è certo è tro l’entusiasmo ci fosse una che come cattolici possiamo esscarsa disponibilità a cambia- sere fieri della nostra identità».

«Se Berlusconi non riesce a fare da solo chieda aiuto a chi ha più senso di responsabilità»

Che cosa c’è dietro il dissidio fra Tremonti e gli altri ministri

Intanto parte la fronda contro la manovra

Il Pil sta risalendo: perciò c’è chi sospetta che i tagli servano solo per finanziare il federalismo leghista di Gianfranco Polillo eekend di passione per ministri e addetti ai lavori. Si tratta di definire nel dettaglio la manovra che peserà, nel 2011 e nel 2012 sull’economia italiana. Le date di riferimento sono importanti. Salvo imprevisti, la cinghia la dovremo stringere dopo un breve periodo di tregua: da oggi alla fine dell’anno. Sei, sette mesi di respiro non sono comunque un fattore trascurabile. Avremo il tempo di vedere meglio come stanno andando le cose e regolarci di conseguenza. La prossima finanziaria, da approntare dopo la ripresa estiva, potrà eventualmente introdurre le misure correttive. Al di là della concitazione, alimentata da stampa e televisione, un atteggiamento saggio che consente di riflettere meglio su quello che sta realmente accadendo. C’è, infatti, qualcosa che non è immediatamente comprensibile. L’Italia è il Paese del Sud Europa che sta reggendo meglio a una crisi che ha origini esterne. Nel primo trimestre dell’anno il Pil è cresciuto ben oltre le previsioni iniziali, collocandosi ad una semplice lunghezza dall’exploit americano. Rispetto alla media dell’eurozona – compresa la stessa Francia e Germania - siamo avanti di un buon 0,4 per cento. Secondo l’Istat il “maturato” per l’anno in corso è già dello 0,6 per cento. Se consideriamo che i maggiori centri internazionali prevedevano per l’intero anno una crescita complessiva dello 0,8 per cento è facile vedere l’eccesso di pessimismo di quelle valutazioni. Il contrasto è talmente evidente che, noi stessi, avevamo dubitato della sua attendibilità. Poi, la Banca d’Italia ha pubblicato i dati della bilancia dei pagamenti. Rispetto al corrispondente trimestre dello scorso anno il miglioramento è sensibile – circa 3 miliardi di euro – ed il mistero risulta svelato. Esportiamo ed importiamo di più – segno che l’economia sta ripartendo – ma trasferiamo meno redditi all’estero. Il peso maggiore della crisi sembra essersi, almeno per il momento, scaricato sugli immigrati. Fenomeno non nuovo nella storia europea. Questo è stato il modello con cui la Germania ha fatto sempre fronte alle crisi di carattere economico.

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Del resto il sentiment delle grandi istituzioni internazionali è tutt’altro che negativo. L’ultimo endorsement viene dall’Fmi. Nel «fiscal monitor» del 14 maggio scorso l’Italia è collocata in una posizione non dissimile dalla Germania. L’aggiustamento dei conti pubblici italiani, nel prossimo decennio, dovrà essere pari al 4,1 per cento, al fine di rendere sostenibile il debito. Per la Germania si indica una cifra del 4 per cento. Mentre per la Francia si salta all’8,3 per cento ed per gli Stati Uniti addirittura al 12. Se a quanto finora detto si aggiungono i dati resi noti dall’Istat su fatturato e ordini per l’industria, in forte crescita, il quadro si decanta ulteriormente.

Come riassumere? La forte svalutazione dell’euro, nei confronti del dollaro e dello yen, ha dato respiro all’industria italiana sia direttamente – vendite sui mercati extra europei – che indirettamente come terzista verso l’industria tedesca. Il vincolo della bilancia dei pagamenti – la variabile effettiva a cui guardano i mercati – si è allentato. Se la domanda interna – consumi ed investimenti – non subirà una contrazione indotta dalle grida di “al lupo al lupo” potremo chiedere l’anno in corso con un tasso maggiore di sviluppo, rispetto alle previsioni iniziali. Ne beneficeranno le famiglie, ma anche lo Stato che vedrà ridursi il rapporto debito – Pil e godere di maggiori entrate. Quindi? Occorre soprattutto serenità. Manovre necessarie - per rispettare vincoli europei divenuti più stringenti – ma sobrie. Senza concitazioni o inutili vendette contro i fantasmi di “Roma ladrona”. Modernizzare la pubblica amministrazione resta un compito ineludibile. Sparare nel mucchio dei dirigenti rischia solo di creare problemi ben più gravi – a partire da quelli di ordine costituzionale – di quanto non ne risolva. E poi dov’è la coerenza? Si può colpire l’eccesso di statalismo e poi difendere il “socialismo municipale”? Ci vuole quindi raziocinio. Abbiamo due anni di tempo per realizzare la manovra. Impieghiamolo per sfuggire, se non altro, all’estemporaneità e fare le cose come si deve. Se poi qualcuno all’interno dell amaggioranza spienge di drenare risorse per finanziare il federalismo, sappia che a pagare non sarà solo il pubblico, ma, dato il complesso sistema dei vasi comunicanti che è alla base del sistema economico, l’intero Paese. Compreso il popolo delle partite IVA. Non si dimentichi il celebre apologo di Menenio Agrippa, nell’antica Roma. Come allora, ventre e membra devono saper convivere se si vuole continuare a vivere.

I primi mesi del 2010 hanno fatto segnare tutti indici positivi: molti dicono che bisogna tenerne conto nei bilanci

Un secondo elemento confortante viene dalle spese dello Stato. Il fabbisogno – vale a dire il deficit di cassa che trova contropartita nel debito – è migliore dell’anno precedente. Il minor esborso è pari a circa 7 miliardi. Segno di conti pubblici tutt’altro che fuori controllo. Naturalmente, tutto può cambiare rapidamente sotto l’incalzare di una crisi dal profilo insondabile. Ma non è buona regola fasciarsi la testa prima dell’eventuale rottura.


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Risposte. Tre esponenti moderati e riformisti rispondono alla provocazione lanciata dai centristi al seminario di Todi

Nuove idee in comune

Lanzillotta, Fioroni e Granata analizzano la proposta di Casini: «Ora può nascere davvero un inedito terreno di intesa» di Franco Insardà

TODI. Che cosa hanno in comune Giuseppe Fioroni, Linda Lanzillotta e Fabio Granata: l’interesse e l’attenzione per il progetto politico che in questi giorni a Todi sta prendendo forma.

genere. Detto ancora più chiaramente consente a quelle componenti dei maggiori partiti italiani, attraversati da conflittualità interne notevoli, di avere una sponda di interlocuzione importante su temi che personalmente ritengo Per Giuseppe Fioroni in fondamentali e cogenti per il questo momento di crisi eco- Paese. Quando noi finiani nelnomica il primo obiettivo è: la direzione nazionale del Pdl «Prima salviamo l’Italia e gli abbiamo posto la questione italiani, dopo ci occuperemo dell’egemonia leghista abbiadelle nostre contrapposizioni. mo ricordato e lo ha fatto in Guardo con attenzione a ogni particolare Fini che noi avevasforzo politico che pone come mo immaginato il Pdl come approdo una ricerca che porti partito della nazione. Con ciò a far fare un passo avanti al mettendo l’accento sul rischio bene comune e all’interesse che una trazione leghista del governo e della GIUSEPPE FIORONI maggioranza far potesse smarrire quella prospettiva. Per questo, lo ripeto, la nascita d’un partito della nazione che abbia nel patriottismo repubblicano e costituzionale la sua ragione sociale è importante per una prospettiva politica generale meno generale». Anche Linda Lan- appiattita sulla Lega». zillotta si dice d’accordo sul bisogno di «una grande coe- Il messaggio di Todi, secondo sione di forze del Paese per af- Fioroni, va letto come «una solfrontare una crisi che coinvollecitazione a tutte le ge tutta l’Europa. La manovra forze politiche a che si sta preparando è qualporre l’accento cosa di drammatico che ha bisulla responsogno per essere socialmente sabilità e sulla accettata, per non creare delle necessità di divisioni come in altri paesi». salvare il Paese Il cambio di passo per la poliprima di ogni tica nazionale che il semiinteresse nario di Todi sta sollecitando crea interesse in Fabio Granata che valuta «molto positivamente quello che sta accadendo al centro. La prospettiva di un partito della nazione, erede di una tradizione antica come quella dell’Udc, rappresenta un tassello di novità importante nell’asfittico panorama politico italiano che è messo in vibrazione da un’iniziativa del

«Bisogna salvare l’Italia. Guardiamo avanti per il bene comune e l’interesse generale»

particolare. Mentre registro con preoccupazione una risposta arrogante e dura di alcune forze della maggioranza che, come mastini ringhiosi, sono più attenti a evitare il confronto per il bene dell’Italia che a risolvere l’emergenza». La Lanzillotta ci tiene a rilevare che il progetto di un partito verso un futuro più riformista va nella direzione «già intrapresa da Alleanza per l’Italia, per l’interesse nazionale e all’idea di liberalizzazione e di modernizzazione per poter favorire la crescita della società. Ritengo che il progetto che parte da Todi sul piano dei contenuti deve, però, ancora essere definito». Il bipolarismo italiano è uno dei principali imputati del seminario di Todi e su questo si trovano concordi i tre esponenti politici sollecitati da liberal. Fioroni precisa: «Sono uno di quelli che ritiene che il sistema bipolare è qualcosa che gli italiani hanno compreso, ma che è una cosa totalmente distinta e distante dal sistema bipartitico. Credo che gli italiani sperano in un sistema bipolare senza una frantumazione di forze politiche parcellizzate, ma con alleanze tra soggetti politici che sui progetti e sulle proposte alternative si candidino come alleati al governo del Paese. Credo che il Pd in un sistema bipolare ha la necessità di costruire anche con questo soggetto politico, lanciato a Todi, un’alleanza politico-progettuale partendo dal presupposto che, nella costruzione di questo progetto e di questa alleanza, si costruisca un’Italia diversa e non deve mai pensare e mai ritenere di costruirla con schemi superficialmente scontati. Condividono con noi molte cose, ma bisogna porre in essere non solo un progetto, ma anche proposte concrete che possono cementare la disponibilità».

Più critici sul bipolarismo Granata e Lanzillotta. Secondo il vicepresidente della commissione Antimafia «chiunque si illudeva che in Italia fosse possibile una dinamica solo bipartitica deve prendere atto evidentemente che, se mai è esistita, quella dinamica è fallita.

Continuo però a credere che il bipolarismo possa essere qualcosa di diverso da questa caricatura muscolare dentro cui siamo costretti ad operare in un clima di guerra civile verbale permanente. Detto questo penso che la nascita di un polo

FABIO GRANATA

una crisi che coinvolge tutta l’Europa. La manovra che si sta preparando è qualcosa di drammatico che ha bisogno per essere socialmente accettata e sostenibile, per non creare delle divisioni che in altri paesi si stanno già creando. I mesi che ci attendono saranno molto duri sia sul piani dei sacrifici economici, sia dal punto di vista della coesione sociale, con un governo fortemente delegittimato dal sistema di corruttela che sta Questa emergendo. manovra per essere accettabile deve essere equa e se si chiedono sacrifici ai cittadini che pagano sempre le tasse bisognerebbe anche ricordarsi di quelli che hanno riportato i capitali evasi in Italia».

«Il progetto rappresenta una novità importante nell’asfittico panorama italiano»

di aggregazione con una capacità di elaborazione autonoma costringa Pd e Pdl a confrontarsi con un’altra opzione. Con E sul clima di sfiducia e l’evoquesta legge elettorale è diffici- cazione di nuove tangentopoli le pensare a una cosa diversa Fioroni aggiunge che «l’etica dal bipolarismo attuale». Men- deve qualificare ogni forma deltre l’ex ministro degli Affari l’agire umano e ancora di più di regionali pone l’accento sul quello politico, ritornando a esfatto che «uno degli esiti per- sere la stella polare della vita versi di questo bipolarismo è politica. Credo la maggioranza lo scontro più che il confronto può fare tutto meno che ignorae la Lega su questo è protago- re questo problema. Il rinnovanista in negativo. Noi e l’Udc mento della politica passa per ci siamo trovati a fare opposi- l’etica». Anche l’idea del goverzione su un federalismo im- no di unità nazionale, lanciato prontato su un progetto di di- qualche settimana fa da Pier visione e di sperequazione. Gli Ferdinando Casini, ha suscitato italiani sono stanchi della la- interesse. Linda Lanzillotta dicerazione e chieLINDA LANZILLOTTA dono alla politica di essere costruttiva e capace di realizzare quello di cui l’Italia ha bisogno. I due poli, per come si è andato evolvendo il bipolarismo in Italia, hanno dimostrato di non essere in grado di interpretare i bisogni del Paese. La politica non è mai stata così in basso e vedo ce: «Abbiamo parlato del goveremergere un preoccupante no di unità nazionale quando spirito di antipolitica, di anti- nacque l’Api per rimettere in separlamentarismo e una dele- sto il Paese, tenendo presente gittimazione delle istituzioni. due questioni fondamentali: la Sono d’accordo che ci vorreb- crisi e la legge elettorale, altro be una grande coesione di for- punto che delegittima il Parlaze del Paese per affrontare mento. L’obiettivo è quello di

«Serve una grande coesione di forze per affrontare la crisi europea»


todi 2010

Sei mesi per dar vita a un partito aperto Fino a novembre il tesseramento, poi i congressi e l’organigramma del nuovo soggetto di Riccardo Paradisi

TODI. «Abbiamo azzerato l’esecutivo nazionale dell’Udc perché ci incamminiamo verso un terreno nuovo, senza volerci presentare con i gradi da generale o da maresciallo. Verranno azzerati anche i quadri locali. Si comincia daccapo». Il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa fa sobbalzare mezza platea della sala convegni dell’Hotel Bramante di Todi quando annuncia il primo passo per andare oltre l’Unione di centro guidata per quattordici anni da Pier Ferdinando Casini ma anche oltre le esperienze centriste che lo hanno preceduto. «Abbiamo compiuto ogni sforzo per rendere più ragionevole il bipolarismo italiano - dice Cesa - due anni fa abbiamo preso atto che quel sistema non poteva cambiare dall’interno, abbiamo allora deciso di porci fuori di esso per superarlo. Abbiamo rischiato elettoralmente, perso una fetta consistente della nostra classe dirigente sul territorio che non se l’è sentita di seguirci in quella che a molti pareva una follia suicida. Ma quello che è accaduto e quanto sta accadendo ha dimostrato che avevamo ragione noi»

Ma allora perché andare oltre l’Udc? Perché se il centro è convinto di avere avuto ragione Casini e l’Udc stanno progettando un nuovo partito? La risposta di Cesa è che sarebbe troppo comodo sedersi in cattedra. Sarebbe «comodo e irresponsabile»: «Non si può andare avanti con l’Udc mentre mettere in moto un sistema di alternanze di forze politiche, in grado di governare l’emergenza e mettere in moto un sistema normale di confronto democratico delle forze politiche, sulla base di una ritrovata tranquillità economico-finanziaria e dei sistemi democratici». Sulla pro-

l’Italia rischia di fare la fine della Grecia. Bisogna andare oltre questo schema, oltre questa realtà e dunque anche oltre l’Udc. Non darci una riverniciatina. Andare oltre. Verso una formazione che vuole raccogliere le forze moderate per governare la nazione». L’Udc si avvia dunque a una transizione verso una forma partito nuova di cui si cominciano a indovinare anche i passi concreti, rispetto ai quali sembra per ora passare in secondo ordine anche la questione delle alleanze: «L’Udc non sa ancora che faranno Rutelli, i Popolari del Pd, i moderati che non si riconoscono più nel Pdl – dice Cesa – sappiamo comunque che prima o poi ci ritroveremo inevitabilmente a dialogare insieme. A loro però ora diciamo che qui sta per nascere una casa completamente nuova. Che siamo pronti a costruirla insieme con chi vorrà contribuire a farla. E lo vogliamo fare da pari a pari, senza invocare primogeniture».

Pezzotta, i circoli liberal, i popolari democratici di Ciriaco de Mita. Ma non solo. «Tutti - annuncia infatti Cesa potranno aderire. I singoli naturalmente, ma anche i movimenti, le liste civiche, i gruppi locali o regionali o nazionali che si riconosceranno nei valori e che risponderanno ai requisiti del codice etico che sarà varato entro pochi giorni». Un capisaldo fondamentale di questo codice etico è però già noto: l’incompatibilità tra le candidature alle elezioni e il ruolo di segretario regionale e provinciale. Ma oltre al codice etico, chi ha incarichi amministrativi, e vorrà aderire dovrà sottoscrivere il Decalogo dell’amministratore del partito della Nazione. Ogni adesione comunque verrà valutata da un coordinamento nazionale dei garanti. A questo coordinamento verrà affiancato un comitato promotore con il compito di sollecitare iniziative e incontri sul territorio. Chiuso il tesseramento entro il 30 novembre verrà avviata la fase delle assemblee congressuali che dovranno poi condurre al congresso fondativo. «Siamo a una nuova fase della storia del centro – spiega a liberal Antonio De Poli, portavoce dell’Udc. L’azzeramento dà lo start a un cammino che durerà fino al prossimo 30 novembre e

A breve sarà varato il codice etico: incompatibilità tra parlamento nazionale e incarichi locali

Il nuovo tesseramento che si apre da questi giorni e resterà aperto fino a novembre sarà quindi lo strumento sul quale ingaggeranno una competizione “virtuosa e democratica” i vari soggetti della costituente di centro: l’Udc innanzi tutto, la Rosa bianca di Savino

posta di Casini Giuseppe Fioroni si è dichiarato quasi subito d’accordo perché, dice: «se l’Italia brucia non la penso come qualche alleato che vorrebbe essere Nerone e suonare la cetra, pensando di costruire l’alternativa sulla cenere del nostro Paese. Un’Italia bruciata dalla crisi

non consente e non lascia spazi ad alternative di governo e quindi il nostro senso di responsabilità deve portarci a fare un passo avanti».

Fabio Granata sull’argomento lancia una sua proposta: «Allo stato attuale esiste una

che dovrà portare al nuovo manifesto del partito della nazione. Ognuno dei soggetti coinvolti nel cantiere del nuovo soggetto concorrerà alla sua costruzione e avrà in esso la propria rappresentanza secondo il peso politico che avrà acquisito in questi mesi».

Una competizione che l’esponente dell’Udc Saverio Romano, coordinatore siciliano dell’Udc, definisce «democratica e virtuosa»: «Perché rimetterà al centro dell’azione politica la partecipazione e la capacità di fare politica che dovrebbe essere il criterio con cui si selezionano le classi dirigenti. Non solo: questa stagione costituente aperta dovrà essere attrattiva anche per le energie e i movimenti che si muovono nella società civile». Chiusa la fase del tesseramento si celebreranno i congressi provinciali che manderanno i delegati al congresso nazionale, che si celebrerà all’inizio del 2011, dove verrà scritto il nuovo statuto. Congresso da cui nascerà l’organigramma del nuovo Partito della nazione, evoluzione storica dell’Udc, auto superamento del centro verso un’identità plurale cristiana e liberale. L’ambizione e la scommessa dei centristi è che il nuovo soggetto politico in costruzione potrà essere la risposta alla precipitazione della crisi bipolarista e alla necessità d’un nuovo paradigma politico per affrontare la grande crisi che sembra appena cominciata.

maggioranza di governo che è espressione di una volontà popolare. Un conto è un’apertura seria al centro, un allargamento all’Udc che sarebbe estremamente positivo, un altro quello che in sostanza sarebbe un capovolgimento tecnico a tavolino del risultato elettorale. Per

ora le cose stanno così, nel futuro, nel 2013, questa prospettiva indicata da Casini e Adornato può trovare sbocchi. Credo infatti che nel 2013 gli schieramenti politici attuali subiranno grandi mutazioni e ricombinazioni rispetto a come siamo abituati a vederli».


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l’approfondimento

. Nell’attesa dell’intervento di oggi al seminario di Todi, tre politologi analizzano la svolta del leader dei centristi

Tre consigli a Casini

Massimo Cacciari: «Avanti sulla strada delle alleanze verso le grandi riforme». Paolo Feltrin: «Attenti a non diventare solamente il partito del Sud». Giovanni Sabbatucci: «Fatene un contenitore trasversale» di Riccardo Paradisi

TODI. Partito della nazione, superamento del bipolarismo guerreggiato, governo di ampie intese e di responsabilità nazionale per mettere mano alle riforme e affrontare con efficacia la crisi economica. Il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini lancia da Todi la nuova proposta per andare oltre lo stallo politico italiano e lo fa all’immediata vigilia dell’anniversario dell’unità nazionale, culturalmente minacciata dal soffiare di separatismi incrociati che spirano da Nord a Sud del Paese. Che ne pensano osservatori e politologi del convegno di Todi e della proposta che sta emergendo dalle giornate umbre? Liberal ha chiesto il parere del filosofo Massimo Cacciari, dello storico Giovanni Sabbatucci e del politologo Paolo Feltrin.

Un giudizio positivo e senza riserve sul partito della nazione e su un governo nazionale di larghe intese arriva da Massimo Cacciari, che non vede altra via per uscire dall’impasse: «Mi pare ormai evidente che in Italia se si vogliono fare riforme sostanziali - da quella

elettorale al federalismo, dalla riforma del welfare al fronteggiamento della crisi economica - occorre una forte intesa di base tra le forze politiche responsabili. Le possibilità di affrontare questi temi attraverso maggioranze risicate è bloccata. Come può questo governo fare una politica di riforme con il condizionamento costante della Lega e la fronda interna finiana? Aprire una fase costituente, come mi sembra vorrebbe fare Casini attraverso il varo d’un partito aperto, mi sembra l’unica soluzione possibile in un momento come questo. Poi una volta ri-

«Il nuovo soggetto guarda al futuro, oltre lo stallo della politica italiana»

fatto il patto generale, ogni forza politica potrà riandare per conto proprio. Che è poi quello che è accaduto dopo la prima fase costituente del dopoguerra». Guardinga invece l’analisi di Paolo Feltrin, che pone una serie di riserve. «L’Udc ha superato bene la prova del fuoco delle elezioni politiche, che rischiavano di metterne in dubbio la sopravvivenza, schiacciando il centro nella tenaglia del bipolarismo. Ma ha avuto una performance non entusiasmante alle Regionali, dove ci si poteva attendere che il disagio che serpeggiava tra gli elettori del Pdl e del Pd confluisse al centro invece che scivolare nell’astensione».

L’osservatore smaliziato, a leggere queste parole, potrebbe farsi venire il sospetto che l’idea di andare oltre il centro verso il partito della nazione per Fel-

trin sia un modo per prendere ossigeno. Ma il politologo ha una seconda riserva e riguarda il logo, il marchio Partito della nazione: «Partito della nazione rischia di essere un messaggio che si rivolge solo a una parte geografica del Paese, al meridione d’Italia intendo. Se c’è un filo di ambiguità è questo. Insomma, mentre era chiaro cosa fossero l’Udc, il Ccd, il Cdu si aveva ben chiara la loro tradizione, la loro ragione sociale non è chiarissimo quale sia la ragione sociale del Partito della nazione. Si abbandona il centro come collocazione geografica datrice di senso, si dice, e si vogliono superare categorie già congedate dalla storia. Forse. Però la formula continua a lasciarmi perplesso: mi sembra generica». Queste sono le riserve. Feltrin concede però

anche dei crediti. «In effetti l’Udc coglie però un disagio che deriva dal fallimento delle fusioni. Non c’è dubbio che Pd e Pdl sono amalgame malriuscite. La presenza sullo scenario politico di un Partito della nazione fa emergere le contraddizioni dei principali attori del bipolarismo e apre una riflessione sulle ragioni profonde per cui quelle fusioni non hanno funzionato». Ragioni che non sono attribuibili solo al cattivo funzionamento di alcuni leader a sinistra o alle dinamiche divisive nel centrodestra animate dalla fronda finiana e dalla volontà d’egemonia leghista, ci sono questioni più strutturali che hanno a che vedere con la lunga storia delle famiglie politiche italiane. «L’iniziativa di Casini coglie questa contraddizione: avete messo assieme - è il messaggio - cose che non stanno assieme. Ed è un messaggio che taglia nel vero. Nella prima repubblica Dc e Psi erano lontani da loro. Eppure hanno governato insieme 15 anni. Se si fossero fusi avrebbero rotto. Meglio federarsi che fondersi allora è la lezione


Il discorso del presidente di Società Aperta al convegno della Fondazione Liberal

Non c’è più tempo da perdere: alleanza politica contro la crisi Tra scandali nazionali e debolezza internazionale, l’Italia è nel mirino della speculazione: solo un nuovo governo ci può salvare dal declino di Enrico Cisnetto alvare l’Italia. E contribuire a salvare l’Europa. Non sono davvero di poco conto gli obiettivi che dovrebbe darsi il nascente Partito della Nazione. Un compito straordinario per una fase della vita repubblicana, a 150 dall’unità d’Italia, altrettanto drammaticamente straordinaria. Per questo auspico, e con me tutta Società Aperta, che il convegno di Todi – uno dei pochi momenti di dibattito vero in un sistema politico che ha perso il gusto e cancellato i luoghi del confronto – sappia compiere almeno tre decisivi passi. Primo: assumere la piena consapevolezza dei gravissimi pericoli che incombono sul nostro Paese, sia per il riaprirsi di una fase sistemica di repressione giudiziaria di scandali in grado di ricreare le condizioni di vuoto politico che già si erano manifestate nel periodo 19921994, sia per la crisi finanziaria europea, che ha fatto dire al cancelliere tedesco Merkel che l’euro corre un drammatico rischio di sopravvivenza. Secondo: ragionare sulle scelte politiche che devono essere fatte per dotare il Paese degli strumenti necessari a prevenire una crisi di proporzioni inimmaginabili, ma nello stesso tempo per dargli la possibilità di costruire il cambiamento (la Terza Repubblica, per intenderci). Terzo: convincersi che l’unica possibilità di fare tutto questo sta nella creazione – subito, perché si è già in ritardo – di un nuovo soggetto politico, capace di raccogliere intorno a sé tutte le forze sane della nostra società e di unirle sulla base di un programma di governo che sia un grande progetto per la salvezza e la modernizzazione del Paese.

S

Ho scritto sabato scorso su liberal che l’Italia, stretta tra scandali nazionali e crisi internazionale, ha bisogno di un governo d’emergenza. Ripeto, anche a costo di annoiare, che siamo nel pieno di un’evidente contraddizione: più gira il ventilatore degli scandali, spandendo liquami a destra e a manca, più il governo s’indebolisce e, di conseguenza, più s’avvicina la fine di questa terribile stagione politica che abbiamo chiamato Seconda Repubblica. E questo è un bene. Ma più il governo mostra il fianco e più c’è il rischio che la speculazione internazionale punti le sue fiches sulla casella della crisi italiana, in modo non dissimile da come è successo in Grecia. E questo non è un male, è una tragedia. Inoltre rischia di essere letale il cocktail che somma i due sentimenti prevalenti degli italiani in questo momento: la paura della crisi, che rischia di paralizzare l’economia proprio quando si accende qualche piccolo segnale di ripresa, e la sfiducia generalizzata nei confronti delle istituzioni, con gli inevitabili, conseguenti rigurgiti di anti-politica. A ciò si aggiunga l’avvitarsi di contrasti interni al partito di maggioranza relativa e nel-

la stessa maggioranza di governo, lotte fratricide che s’intersecano con le inchieste giudiziarie.

Per questo ci vuole un governo d’emergenza. È sempre più evidente, infatti, che l’attuale esecutivo non è in grado di affrontare la situazione. Ma come si costruisce, e soprattutto con chi, un governo di riconciliazione nazionale capace di dare risposta alle drammatiche emergenze del Paese? Intanto chiarendo bene che non si tratta di un esecutivo tecnico, ma, al contrario, di larga convergenza politica. Poi intestandosi l’iniziativa politica che lo deve promuovere. E l’unica forza in grado di assumerla, questa iniziativa è l’Udc. Casini ha già coraggiosamente lanciato la proposta, il convegno di Todi mi pare si sia aperto all’insegna di questo progetto politico. Tuttavia il quadro è complicato. Non solo dal coma del Pd e dal funambolismo di Di Pietro: il tema vero è quello del centro-destra. La mia sensazione è che le strade di Berlusconi e della Lega siano destinate a dividersi, e non in tempi biblici. Questo naturalmente pone un problema non di piccolo conto: nella maggioranza l’interlocutore per il governo d’emergenza deve essere Berlusconi o Bossi? Dopo i reiterati niet del capo della Lega all’ingresso dell’Udc nel governo – tema che non si è mai posto e che spero nessuno voglia porre in questi termini – la risposta al dilemma sembrerebbe scontata: l’interlocutore è il Cavaliere. Ma ci sono due controindicazioni di non piccolo conto. Primo: oggi Berlusconi è un interlocutore debole, mentre Bossi, specie nell’asse con Tremonti, è forte. Secondo: Berlusconi conosce solo lo scambio “merce”, non quello politico, e l’Udc non può permettersi – dopo che alle regionali le è già stato appiccicato addosso il marchio d’infamia della politica dei due forni – di ritrovarsi a negoziare qualche ministero, tanto più dopo che Fini si è smarcato così clamorosamente dal premier. Allo stesso modo, bisogna essere coscienti almeno di una controindicazione “positive” nel valutare la posizione della Lega. La prima è che oggi dire Lega significa dire, prima di tutto e soprattutto, Tremonti. E il ministro dell’Economia è, di fatto, il vero capo del governo ormai da tempo;

è il vero artefice della difesa dei conti pubblici dall’assalto alla diligenza – seppure non altrettanto bravo come nell’uso del freno sia stato nell’azionare l’acceleratore della crescita – ed è l’unico candidato premier possibile alternativo a Berlusconi in questa fase.

Ultimo punto, la nascita del Partito della Nazione. Ormai è chiaro: per svolgere il ruolo di acceleratore del processo di superamento della Seconda Repubblica e di aggregatore di forze che siano protagoniste di un avvio virtuoso della Terza, non basta auspicare l’allargamento dell’attuale Udc, ma occorre puntare senza indugio alla creazione di un nuovo soggetto politico, che non basta sia un nuovo partito, ma bisogna che sia anche e soprattutto un “partito nuovo”. Ho detto più volte, e lo ripeto, che esso deve soprattutto essere il punto d’incontro tra cattolici e laici non integralisti, e che la forma di un “partito holding” mi sembra la più efficace. L’idea è semplice: creare un soggetto in cui tutte le forze esistenti – partiti, associazioni, fondazioni, movimenti – interessate al “partito della Nazione”, possano federarsi senza per questo perdere la loro identità e rinunciare alla loro autonomia. Questo consentirebbe a laici e cattolici, e alle loro diverse anime, di incontrarsi intorno ad un progetto rifondativo del Paese, della sua democrazia, delle sue regole basilari, ma nello stesso di mantenere intatta la loro capacità di iniziativa e battaglia politica sui temi più propri alle rispettive radici politico-culturali. Per capirci, sulle tematiche etiche, che io ritengo debbano essere di prerogativa del Parlamento e non far parte di un programma di governo, liberi tutti, mentre sul programma di governo – un grande “progetto Italia” che guardi all’esperienza storica dell’asse De Gasperi-La Malfa – piena convergenza e assoluta lealtà. Al primo lavoro ci penseranno i soggetti esistenti (o quelli che vorranno costituirsi intorno a delle specificità), al secondo dovrà badare il “partito holding”, che poi sarà quello che dovrà presentarsi alle elezioni e riscuotere il consenso di quei tanti che saranno politicamente orfani.

todi 2010 che se ne ricava. E non c’è dubbio che tanto in casa Pdl che in casa Pd quel problema si stia ripresentando con l’opposizione interna degli ex An da un lato e la diaspora riformista con Rutelli o cattolica dall’altro. Casini dunque aveva ragione a mostrare scetticismo di fronte alla fondazione del Pdl e con il senno di poi si può dire che ha fatto bene a non fondersi dentro quel partito». La riflessione finale di Feltrin riguarda i tempi della proposta politica del partito della nazione. «Tutti avvertiamo la sensazione che non sia lontano il momento del rimescolamento delle carte politiche. Si tratta di vedere se per i tempi della politica non sia troppo lontano. Tradotto: Pd e Pdl sono partiti in crisi ma non credo sia ancora suonata la loro ora. Sicché mi chiedo: è troppo presto per la proposta politica di Casini?».

Stesso discorso Feltrin lo fa sull’ipotesi del governo di responsabilità nazionale ritenuta da Casini inevitabile. «L’intuizione è esatta anche stavolta. Il problema è di nuovo il momento. È quello opportuno? Incrocia il deperimento effettivo dei due grandi aggregati del bipolarismo? Un bipolarismo anch’esso in crisi, d’accordo, ma ancora resistente. Non c’è dubbio, per fare un esempio concreto, che per esempio Rutelli ha compreso che nel Pd non c’era futuro ma ha sbagliato i tempi della rottura. Capisco però che tra la deriva minoritaria e la sfida di raccogliere il fallimento dei due grandi partiti del bipolarismo Casini abbia preferito giustamente la seconda opzione. E lo ha fatto con intuizioni lucide e lanciando una sfida coraggiosa. Ma in politica indovinare i tempi è più importante che indovinare le intuizioni». Apertura con riserve anche da parte di Giovanni Sabbatucci, ordinario di storia contemporanea alla Sapienza di Roma. «Questa iniziativa può allargare l’area di centro, ma un’idea di sostituzione rispetto all’area attualmente occupata dal Pdl e dalla Lega non la vedo molto plausibile. Vedo però spazi nuovi che si aprono per il partito della nazione visto che il Pdl è in difficoltà. Ma da qui, che si possa arrivare a una formazione maggioritaria oltre il centro e le altre categorie politiche ce ne passa. E per ora non la riesco a vedere. A meno che il partito della nazione non sia una candidatura a un altro centrodestra, anche se il berlusconismo lascerà comunque qualcosa dopo di sé». Quanto poi alle prospettive di un governo di unità nazionale Sabatucci lo vede possibile, «ma nella prospettiva d’un ulteriore aggravarsi della già critica situazione italiana».


politica

pagina 8 • 22 maggio 2010

Lezioni. Il durissimo attacco di Lanny A. Breuer, responsabile del Dipartimento penale statunitense e molto vicino a Barack Obama, rischia di far saltare i piani del governo

«Non aiutate la mafia» Il sottosegretario alla Giustizia Usa chiede all’Italia di non bloccare le intercettazioni: «Un’arma fondamentale» di Francesco Pacifico

ROMA. «Le intercettazioni sono uno strumento essenziale per le indagini». Non si è affidato a giri di parole Lanny A. Breuer, il capo del dipartimento penale del ministero di Giustizia americano, per bocciare i paletti che l’Italia si accinge a introdurre sull’utilizzo di questo strumento d’inchiesta. Concetto semplice e conciso per esprimere la contrarietà degli Stati Uniti verso misure che potrebbero rallentare direttamente e indirettamente la cooperazione giudiziaria su temi che stanno molto a cuore a Washington quali la lotta alle mafie, al terrorismo internazionale o al riciclaggio.

Va chiarito che – almeno tecnicamente – sarebbe sbagliato confondere l’uscita dell’Assistent attorney general della Criminal division come la posizione della Casa Bianca. Ma queste parole Breuer le ha pronunciate in una conferenza stampa convocata all’ambasciata americana di Roma. Senza contare che il funzionario è in missione in Italia per incontrare il capo della Dda Piero Grasso e per partecipare oggi a Palermo alle celebrazioni in memoria dei giudici Falcone e Borsellino. E non a caso ha sottolineato: «Non vogliamo che succeda niente che impedisca ai magistrati italiani di continuare a fare l’ottimo lavoro fatto finora». Sarà difficile per l’esecutivo negare l’insofferenza degli Stati Uniti sul provvedimento sulle intercettazioni. Il monito poi arriva dopo le tensioni striscianti tra i due Paesi, sorte in questi mesi dopo i ritardi da parte italiana sulla creazione delle squadre investigative sovranazionali e sull’introduzione nel nostro ordinamento del reato di autoriciclaggio. Misure che servono soprattutto per aggirare i tempi lunghi delle rogatorie internazionali. Di conseguenza, implicito o esplicito che sia il no di Washington, Palazzo Chigi si trova di fronte a uno scoglio insormontabile. Ed è molto probabile che dovrà cambiare i suoi piani visto che ancora ieri mattina, dopo un vertice con Silvio Berlusconi, il relatore del prov-

«Ci criticano? Ce ne faremo una ragione. I finiani con il popolo viola? Stanno bene lì»

Ma Gasparri ironizza: «Solo un... americano a Roma» di Marco Palombi

ROMA. Il sottosegretario Usa alla Giustizia, Lanny Breuer critica la legge italiana che blocca le intercettazioni. Presidente Gasparri, che ne pensa? Gli propongo un patto: loro non si occupano di noi e io non mi occupo di loro. Io d’altronde non è che mi metto a rilasciare commenti sulla riforma sanitaria di Obama: capisco che in America se ne faranno facilmente una ragione, ma pure noi arriveremo a farcela. E poi… E poi? E poi Un americano a Roma ce l’abbiamo già avuto, il grande Alberto Sordi. Scherzo ovviamente: ho stima degli Stati Uniti e apprezzo molto l’ambasciatore Thorne, l’ho visto pure allo stadio… Breuer teme siano ostacolate le indagini sulla mafia. Lo ripeto per l’ennesima volta: i reati di mafia, terrorismo eccetera sono esclusi. La ratio di questa norma, che comunque non è ancora legge, è del tutto condivisibile. Protestano anche editori e giornalisti per i divieti di pubblicazioni e le multe. State mettendo il bavaglio all’informazione? Macché, secondo me la legge è fin troppo morbida. Quando, senza che ci sia stato alcun giudizio della magistratura, vengono pubblicate tonnellate di intercettazioni, allora siamo di fronte ad un comportamento barbaro. E questo senza contare che spesso queste inchieste finiscono in nulla. E per questo è giusto non darne conto? Mica vieto a un giornale di scrivere una storia, semplicemente di pubblicare le intercettazioni. Vietate di pubblicarle anche per riassunto e

vietate la pubblicazione degli atti fino al rinvio a giudizio. Ma se hai una storia, diciamo che il sindaco del comune X è ladro, la pubblichi: poi se hai diffamato pagherai. Che c’entra con la libertà di stampa? La libertà di stampa significa che il giornalista va dal suo amico magistrato e quello con una chiavetta usb gli passa un pacco di intercettazioni? Non mi sembra un’operazione di grande spessore professionale…

Insisto: divieto di pubblicazione degli atti fino al rinvio a giudizio. Ma scusi, oggi (ieri, ndr) sui giornali c’è scritto che nelle indagini sugli appalti s’è scoperto che Matteoli ha un conto in Lussemburgo, passano tre ore e la Procura di Perugia smentisce. Chi gli chiede scusa a Matteoli? Può querelare anche lui. Sì, così passano gli anni e intanto uno viene esposto al pubblico ludibrio. C’è un casino incredibile, oggi su Matteoli e Bondi ci si è messo pure un giornale di centrodestra. Io dico che prima della lapidazione mediatica di qualcuno bisogna prendersi un attimo di calma, verificare le informazioni. Se il ddl fosse legge, avremmo saputo degli appalti del G8 solo fra qualche anno.

Ma se la magistratura ci mette degli anni ad istruire un processo è colpa del Parlamento? Il mondo dell’informazione ha diritto alla sua libertà, ma non ha il diritto alla lapidazione pubblica delle persone. Ma così la gente non saprebbe niente di inchieste importanti per anni. Il problema è proprio la tempistica. Adesso la situazione è completamente fuori controllo, sui giornali si pubblica di tutto. Questa legge può sembrare una sorta di contrappasso, ma non lo è: è la reazione ad una situazione, poi quando il clima sarà più sereno si vedrà… Quindi anche per lei è troppo rigida? No, diciamo che gli eccessi a cui abbiamo assistito in questi anni hanno determinato una norma che può apparire troppo rigida, ma non è così: è solo giusta, si ricordi di Matteoli. Ieri qualche finiano (Flavia Perina, Fabio Granata, Filippo Rossi e Carmelo Palma, ndr) s’è fatto vedere al sit in davanti a Montecitorio contro la “legge bavaglio”. Forse erano usciti dalla Camera e tornavano a casa… Si sono fermati qualche minuto. E vabbè, stavano nel posto giusto. Non è un giudizio eh… come si diceva anticamente “similia cum similibus”. E noi, come nel caso dell’americano, ce ne faremo una ragione…

vedimento, l’ex presidente dell’Antimafia Roberto Centaro, faceva sapere: «Il testo credo debba restare com’è ed è nella facoltà del governo ipotizzare voti di fiducia sia al Senato sia alla Camera». Quindi nessun passo indietro dopo l’affievolimento sulle pene per i giornalisti e sulle multe per gli editori.

Eppure in ambienti della maggioranza l’uscita di Breuer è apparsa come un fulmine a ciel sereno. Senza scomodare questioni di sovranità o alzare i toni, il sottosegretario alla Giustizia, Elisabetta Alberti Casellati, commenta a caldo: «Non so se in America conoscono bene i contenuti della nostra legge né la situazione italiana. Anche perché come ha ricordato il ministro Maroni, da quando è in


politica

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Vediamo che cosa c’è dietro la mossa dell’amministrazione Obama

Washington trema: «Ora chi fermerà i boss?» «La vostra legislazione è perfetta, ma se cambiano le cose, la magistratura non ci potrà più aiutare» di Pierre Chiartano

ROMA. Washington è seriamente preoccupata

carica questo governo sono stati arrestati oltre 5mila mafiosi, quasi 8 al giorno. Eppoi sulla criminalità organizzata non ci sono modifiche rispetto alle norme del passato». Per concludere, ecco un messaggio diretto a Washington: «Non abbiamo rinunciato a questo importante strumento investigativo. Il nostro intento è quello di limitare gli abusi: e gli

Inutile dire che vietare le intercettazioni in questi campi potrebbe avere come unico effetto quello di indebolire le indagini su fronti come il terrorismo internazionale e le frodi finanziarie, che l’amministrazione Obama considera priorità. Guarda caso Breuer ha ricordato che «l’Italia ha fatto grandi progressi nelle indagini e nel perseguimento di gruppi ma-

Il sottosegretario Alberti Casellati: «Noi abbiamo 120mila intercettati, loro solo 1.800». Il relatore Centaro non esclude la fiducia, mentre Bersani promette «ogni forma di ostruzionismo» Stati Uniti dovrebbero capirci visto che da loro i cittadini soggetti a intercettazione sono 1.800, da noi 120mila». A ben guardare il disegno di legge che il governo potrebbe blindare con la fiducia non pone modifiche sui reati di mafia: per questo tipo di indagini non sono previsti limiti temporali o di applicazione all’uso delle intercettazioni. Ma quello che spaventa gli Stati Uniti è che i paletti toccano invece i cosiddetti reati satelliti. Spiega Luigi Li Gotti, ex sottosegretario alla Giustizia e in passato legale di importanti pentiti come Tommaso Buscetta: «Usura, traffico di valuta e reati ambientali sono spesso fattispecie alle quali si affidano gli inquirenti per mettere nel mirino soggetti che con molta difficoltà potrebbero essere indagati per mafia, pur essendo legati ai clan».

fiosi operanti entro i suoi confini. Ma siamo consapevoli che insieme possiamo fare di più».

Per il governo il fronte giustizia diventa sempre più caldo. Se appare ormai una chimera la separazione delle carriere, persino la riforma delle professioni finisce in alto mare. «Il disegno di legge Siliquini è un mostro giuridico che rischia di spazzare via gli ordini», ha fatto notare il leader di Confprofessioni Gaetano Stella. E in questo clima anche il Pd alza i toni, scavalcando a sinistra Italia dei Valori. «Di fronte a norme del genere è per l’opposizione doverosa ogni pratica ostruzionistica», ha annunciato il segretario Pier Luigi Bersani. Lunedì, con i direttori dei giornali e il popolo viola a protestare davanti Montecitorio, si annuncia una settimana dura per il governo.

che la straordinaria collaborazione con i magistrati italiani sul fronte antimafia possa venir meno. E lo ha affermato per voce di un importante rappresentante del dipartimento di Giustizia in visita a Roma ieri. Non è ingerenza negli affari interni di un Paese amico, ma i «sinceri timori» che la nuova legge che limita le intercettazioni possa «creare problemi anche nella lotta alla mafia negli Stati Uniti» ha spiegato a liberal una fonte statunitense che ha voluto rimanere anonima. «Non vorremmo mai che succedesse qualcosa che impedisse ai magistrati italiani di fare l’ottimo lavoro svolto finora: le intercettazioni sono uno strumento essenziale per le indagini» nella lotta alla mafia. Lo ha dichiarato in una conferenza stampa all’ambasciata degli Stati Uniti a Roma il sottosegretario al Dipartimento di Giustizia degli Usa con delega alla criminalità organizzata internazionale Lanny A. Breuer. «La legislazione italiana finora è stata molto efficace. Ecco perché ci auguriamo che non accada mai nulla che possa impedire» le azioni della magistratura italiana, ha spiegato Breuer evidenziando «l’eccellente collaborazione» tra Italia e Stati Uniti nella lotta alla criminalità organizzata. «L’Italia ha fatto dei grandi progressi nelle indagini e nel perseguimento dei gruppi mafiosi operanti entro i suoi confini», ha sottolineato il sottosegretario, precisando di «essere consapevole che possiamo e dobbiamo fare di più». Appunto occorre fare di più e non di meno, è il “suggerimento” che arriva dalla giustizia statunitense.

perazione Pizza Connection. Si trattava di traffico di droga che arrivava grezza dal Medioriente per essere raffinata nel palermitano e poi inviata successivamente a New York per alimentare il consumo di stupefacenti. «Giuliani avrebbe voluto andare in Sicilia, ma Giovanni Falcone disse allora che era troppo pericoloso» spiega la nostra fonte. Oggi ci sono altre mafie che preoccupano maggiormente gli americani «come quella russa» ma quella italiana rimane «un problema molto serio».

Per molti investigatori badge&gun - come vengono chiamati gli agenti del Bureau - «la testa della mafia siculo-americana si pensa sia ancora in Sicilia». Un elemento che spiega l’apprensione - «non l’ingerenza» - che ha spinto il sottosegretario Breuer a fare quelle dichiarazioni. Fin dagli anni Ottanta la collaborazione tra le agenzie investigative della sponda atlantica era stata efficiente e continua. La scomparsa di Giovanni Falcone fu un duro colpo anche per gli statunitensi. Ora c’è un busto del giudice siciliano, ammazzato nell’attentato di Capaci, che fa mostra di sé nell’accademia del Federal bureau of investigations di Quantico in Virginia. Molto del lavoro svolto dalle corti federali per mettere in guinzaglio ai “bravi ragazzi” ha potuto avvalersi del contributo dei magistrati italiani delle procure distrettuali antimafia. Molti di loro si sono avvalsi di programmi di formazione bilaterali che hanno permesso alle toghe dei due Paesi alleati di affinare tecniche investigative e procedure di coordinamento giudiziario. E i risultati per il dipartimento di Giustizia Usa sono stati «eccellenti», tanto che un pezzo del braccio investigativo statunitense sarebbe cieco senza la collaborazione italiana. Ora tutto questo rischia di venir messo in pericolo dalla nuova normativa che il governo si appresta a varare. Un controsenso per un Paese civile che dichiara di voler combattere seriamente criminalità organizzata e corruzione. Una follia assoluta per il segnale che si lancerebbe, non solo ai gruppi criminali italiani, ma a tutte le mafie loro collegate. Dal 1984, ogni due anni, si riunisce una task force mista che lavora sulle minacce mafiose e terroristiche. Dal 2006 due ufficiali di collegamento dell’Fbi lavorano con la Polizia a Roma e due investigatori italiani fanno lo stesso nel quartier generale del Bureau a Washington.

Dal 2006 due ufficiali dell’Fbi lavorano con la Polizia a Roma e due italiani sono nel quartier generale del Bureau a Washington

Di qui nascono i dubbi che non sono solo del dipartimento di Giustizia, ma di molte altre agenzie investigative americane, che vedrebbero il loro lavoro reso assai più complicato se le norme sulla limitazione alle intercettazioni dovessero diventare legge. E fin a dai tempi del fraterno rapporto fra il giudice Falcone e l’allora giudice della Corte distrettuale di New York Louis Freeh, poi diventato direttore dell’Fbi (1993-2001), che Italia e Stati Uniti vanno a braccetto nella lotta alla mafia. «Ma anche Rudolph Giuliani quando venne in Italia volle incontrare Falcone che stimava tantissimo, così come apprezzava il lavoro dei magistrati antimafia» confida a liberal la fonte americana, bene informata sulla storia di questa collaborazione ultradecennela fra le toghe dei due Paesi alleati. Uno dei primi succesi di questa collaborazione fu l’o-


società

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Bio-tech. Le nuove forme di vita sintetica create da Venter riscrivono il nostro domani atteri ad personam, confezionati apposta per le nostre esigenze. Impacchettati, in offerta speciale, alle prime venti telefonate, in edizione limitata o su vasta scala. All’indomani dell’annuncio di Craig Venter, è ufficialmente iniziata l’era della vita a misura di Ikea. E una certa confusione dei ruoli in commedia. Dal Vaticano ti aspetti polemiche, ma il cardinale Angelo Bagnasco, vede nella cellula artificiale un «segno dell’intelligenza, dono di Dio per conoscere meglio il creato e poterlo meglio ordinare». E dal presidente Obama, arriva invece richiesta di approfondimenti sul conto di Venter.

B

Lui, lo scienziato che promette kit cellulari da montare a casa o in giardino come piccoli Tromso, è un personaggio dalle mille risorse. C’è la macchia di petrolio? E io ti invento cellule programmate per ripulire le acque. Effetto serra? Non c’è problema. Fabbrico per te piccole creature che climatizzano il pianeta. Negare al biologo di Salt Lake City uno sguardo visionario, sarebbe stupido. Perché geniale, è geniale. E parecchio ricco. E abile in laboratorio come negli affari. «Per lui l’innovazione avviene sotto l’egida del segreto commerciale», ha spiegato dalle colonne dell’Independent lo scienziato britannico Tom Wakeford – e questo è profondamente antidemocratico e va contro la trasparenza che caratterizza la buona scienza». Trasparenza è la parola chiave. La parola speculare a segreto industriale, lo stesso che protegge il laboratorio di Rockville. Venter ha preteso che il suo antro venisse dispensato dall’occhio indiscreto di Google View. Per parlare del magnate delle cellule, va subito sgombrato il campo da un equivoco.Venter non è quell’Alexander Fleming, che dalla sua penicillina non cavò mai un centesimo. Il farmacologo di Lichfield salvò milioni di vite, senza farlo pesare alle tasche di nessuno. Venter non esclude fini nobili, ma esclude del tutto di essere un filantropo: i fini dei miei esperimenti possono riguardare tutti, ha spiegato, ma giù le mani dai miei mezzi perché quelli sono miei e chi li vuole deve comprarli. Venter non è Fleming, proprio come la scienza non è più scienza, ma biotecnologia. Venter ama la ricerca quanto il business. Non si lascia incantare dal piacere della scoperta, ma dal prodotto che può ricavarne. L’avventura che lo ha portato alla creazione della vita artificiale, gli è costata quindici anni di lavo-

La rivoluzione delle cellule artificiali La Cei: «Segno di intelligenza. Ma serve cautela». Anche Obama frena e chiede approfondimenti di Francesco Lo Dico

Parla il professor Bruno Dalla Piccola, genetista all’Università di Roma

«Così potremo ripulire il mondo» di Gabriella Mecucci

ROMA. «È una scoperta molto importante. La prima ricaduta è la costruzione di batteri ecologici in grado di pulire le acque e la terra. Se già li avessimo, il disastro della Louisiania verrebbe scongiurato. E del resto Craig Venter, che è un grande ricercatore, è anche un eccellente businessmen. Ha una sua company, quindi, i batteri spazzini li immetterà sul mercato proprio lui. Un affare straordinario»: il professor Bruno Dalla Piccola, cattedra di genetica all’Università di Roma, parla con entusiasmo delle possibili ricadute della scoperta annunciata l’altro ieri e che oggi verrà spiegata sulla rivista Science. Professore di che cosa si tratta? Ho visto che qualcuno ha parlato di un gioco ad essere Dio. Quello che è stato fatto non c’entra nulla con la Creazione, è una straordinaria opera di assemblaggio. Il batterio fabbri-

cato possiede un genoma artificiale (fatto al computer) e si autoreplica. Quando Venter riuscirà a inserire un genoma con informazioni utili alla pulizia ambientale, gli inquinamenti, anche se gravi, ci faranno molto meno paura. È questa la sola applicazione? No, molte ricadute si avranno anche sul piano farmaceutico. Ma è difficile anticipare tutto quello che si potrà fare, la scienza marcia a grandi velocità e quello che oggi sembra molto lontano,fra 15 anni potrebbe diventare possibile. Ma tutto questo non è pericoloso? La ricerca scientifica non è pericolosa in sé. È una straordinaria forma di conoscenza e di avanzamento, le sue applicazioni però possono diventarlo. L’uomo deve saper scegliere quello che si può e si deve fare, e quello che è me-

glio che non si faccia: per questo esiste l’etica. Mi dica i pericoli che intravede... Ad esempio, c’è il rischio che i batteri fabbricati in laboratorio vengano utilizzati nella guerra batteriologica. Sarebbe terribile perché da questi organismi appositamente costruiti - non sapremmo difenderci. E se si arrivasse a costruire forme di vita complesse in laboratorio, penso agli androidi o ad altre creature? Per il momento questa mi sembra una prospettiva molto lontana. Da tempo ormai utilizziamo le staminali adulte per scopi terapeutici, ma non abbiamo fabbricato un fegato. Quelli prodotti da Verner sono organismi unicellulari, prima di arrivare agli organismi multicellullari occorrerà ancora molto tempo. Quando avvengono importanti scoperte non si può non gioire, poi occorre comportarsi in modo responsabile. Non tutto quello che si può fare, si deve fare.

ro, e circa 50 milioni di dollari del suo ingente patrimonio personale. Soldi veri, che il biologo ha sventolato in faccia alla scienza poco pragmatica. Il guanto di sfida lo lanciò quando fondò Celera Genomics. Il progetto era ambizioso: mappare il genoma dell’Homo Sapiens. Ci fu il plauso della comunità scientifica. Durò niente.Venter voleva sequenziare il dna. In pay-perview. Chi voleva accedere alla banca dati genomica, doveva pagare il servizio fior di dollari. Ne seguì un putiferio. I colleghi presero a considerare Venter alla stregua di un venditore di cammelli. Tuttavia, il dna take away fu un clamoroso flop. Il nostro fu costretto a dimettersi. Ma non a ricominciare da capo. Perché nel 2007, arriva al prodotto finito: il Mycoplasma laboratorium, batterio composto da una sola cellula, è un essere vivente particolare. L’unico a non portare una firma metafisica, ma quella di Venter. Il primo essere a pagamento. «Sta giocando a fare Dio?», gli domandano. E lui candido: «E chi dice che sto giocando?». Dalla cellula artificiale di tre anni fa, c’è stato poi un salto decisivo. Perché oggi il Mycoplasma è persino in grado di riprodursi. Macabro, folle, geniale? Forse un po’tutti e tre gli aggettivi. Ma di sicuro “redditizio”. Nel luglio 2009, la Exxon investe nel progetto dello scienziato seicento milioni di dollari. L’obiettivo, in (tanti) soldoni, è realizzare cellule capaci di produrre biocarburanti in sostituzione dei combustibili fossili in via di esaurimento. Milioni di schiavetti tecnologici che non vanno in pausa pranzo e non fanno scioperi, al servizio del clic di Venter. Manodopera da acquistare, ma non a basso costo, dall’unico grande monopolista del settore. Campi di interesse, e applicazioni sono pressoché infinite. Batterioperai che generano energia partendo dai fotoni della luce solare. Batteri che si nutrono di petrolio e ripuliscono il mare, batteri che catturano anidride carbonica dall’aria, alla faccia della scomoda verità di Al Gore. Nuovi biocarburanti, vaccini e medicinali. Tra dieci anni potrebbe sorgere un mondo che di Kioto se ne impipa bellamente. Tanto quanto oggi, ma senza più finti penitentiagite. Venter è sempre stato di parola. Ma soprattutto avido. Ancora pochi anni, e tanti saluti alla palingenesi, all’ansia millenaristica, al riscatto impossibile di una decadenza profetica. Maledetto.


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

LUCHETTI “La nostra vita” nelle sale dopo Cannes

EQUO E SOLIDALE di Anselma Dell’Olio

l cinema italiano è al 63esimo Festival di Cannes con il film di Daniele Lula Ragonese): due figli maschi alle elementari e un altro in arrivo, lui con un tachetti La nostra vita, uscito nelle sale italiane ieri, in contemporanea tuaggio proletario sulla schiena, lei con uno diverso al polso. Ascoltano le canzoni di Vasco Rossi, e le cantano con trasporto. Si amano, fanno con il passaggio sulla Croisette. È la seconda volta che il regista è Apprezzabile sesso nelle posizioni consentite da una gravidanza al nono mese, invitato nel concorso principale, dopo Il portaborse (1991). e discutibile l’unico portano i figlioletti a fare shopping e a svagarsi al centro Luchetti lavora spesso con gli stessi attori, e il nuovo film vefilm italiano in concorso commerciale, mangiando gelati, chiacchierando, diverde di nuovo in scena Elio Germano (Accio in Mio fratendosi. Elena sogna di andare in Sardegna con la tello è figlio unico, 2008) nel ruolo di Claudio, un alla Croisette. Eccellente dal punto famiglia l’estate; i cognati Piero (Raoul Bova), operaio edile trentenne. La scrittura, i dialodi vista tecnico-artistico, desta perplessità Loredana (Stefania Montorsi) e suo marito Vitghi, la colonna sonora, il montaggio, la fotograper la morale socio-politica sui mali torio (Emiliano Campagnola) prontamente la sfottofia, il cast, la direzione degli attori, i valori di fondo, no per la voglia di spassarsela nel parco giochi dei ricchi. lo rendono un film da vedere, da apprezzare e da discutedei nostri tempi. Un tocco (Per antonomasia, e senza nemmeno bisogno di nominarla, la re. Si resta con qualche perplessità non per ragioni tecnico-aralla Nanni Moretti Sardegna tutta intera è la Costa Smeralda). Loredana è in cassa intistiche, davvero eccellenti, ma per qualcosa nell’impianto socioloma “light” tegrazione,Vittorio ha lo stipendio ridotto e il fratello scapolo Piero, imgico e nell’intento didattico che impedisce di esserne pienamente entupacciato con le donne, è poliziotto municipale. siasti. L’inizio del film illustra il matrimonio felice di Claudio ed Elena (Isabel-

I

Parola chiave Teatro di Franco Ricordi Courtney Love vestita di nuovo di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

La musica in versi di Torquato Tasso di Francesco Napoli

Il gigante fuggitivo, Tolstoj cent'anni dopo di Gabriella Mecucci Il più bel “giallo” risolto da Maigret di Leone Piccioni

Una Biblioteca per Mnemosine di Marco Vallora


luchetti equo e

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di prospettiva provocata dal ritmo convulso - si sta così addosso ai personaggi che non si riesce a vedere oltre - comunica qualcosa d’evasivo. Che tempi pazzoidi erano! Sì, ma questo si sapeva già. Ci racconti qualcosa di nuovo, o almeno cerchi di convincerci che, quarant’anni dopo, ci deve importare qualcosa». La nostra vita non parla di politica in senso stretto. Ma sta «addosso» ai personaggi con la macchina a mano nervosa. E anche se non si nomina mai il capo del governo, l’ombra della «bestia nera» della sinistra incombe sulla repentina trasformazione (secondo esternazioni di Luchetti «naturale», visti i tempi e i governanti) dell’operaio in un piccolo imprenditore avido, amorale, criminale e dedito allo shopping selvaggio. Lucchetti ha lavorato più volte con l’autore di Il caimano, e nel Portaborse Nanni Moretti era Botero, il politico corrotto e corruttore. La nostra vita, però, correda il messaggio di una curvatura femminista. In un’intervista Luchetti afferma: «Quando c’è la sottrazione dell’elemento femminile, che media i sentimenti in famiglia, l’uomo oltrepassa i limiti e si affida a una prassi poco limpida che poi è quella di un paese intero, e che io ho messo in scena senza criticarla né assolverla.Volevo solo sottolinearne la naturalezza». Invece la critica eccome, e assolve l’operaio «vittima» della «prassi» contagiosa.

Claudio lavora nel cantiere fuori regola dell’imprenditore Porcari (Giorgio Colangeli) che impiega operai italiani e stranieri irregolari pagati in nero; il nome del personaggio non è casuale. Il protagonista nota che il buco predisposto per l’ascensore è pericolosamente scoperto: bisogna coprirlo con travi protettive. Di lì a poco Claudio trova in fondo a quel buco un uomo morto, quasi sepolto dai calcinacci. Una morte bianca, un sans papier rumeno. Porcari lo avvisa che se denunciano l’accaduto il cantiere sarà chiuso, lui passerà dei guai e addio stipendio. Seppelliscono il morto sotto un piazzale. Poco dopo Elena ha le contrazioni, Claudio la porta in ospedale e intrattiene i due figli nella sala d’aspetto; tutti e tre vestono la maglietta giallorossa da romanisti. È il terzo parto, niente paura. Poi l’attesa si fa lunga e il marito si agita; finalmente arriva l’ostetrica e chiede alla caposala di allontanarsi con i bambini per un gelato. Elena è morta; il bambino Vasco è vivo. Non sentiamo le parole del medico: vediamo la faccia di Germano, stordito, incredulo. Lo choc di questa morte improvvisa provoca una scossa madornale in Claudio, che sfocia in mania materialista (è un colpo di perplessità per lo spettatore: è così raro oggi morire di parto, che invece di emozionarci quando la donna muore senza spiegazioni, ci «risvegliamo» dal film. Forse è poca cosa, ma conoscere il perché di un evento insolito ai nostri tempi aiuterebbe a restare incollati alla storia). Il vedovo non trova altro modo per elaborare il lutto che dedicarsi senza scrupoli all’accumulo di tutto il denaro possibile, per potersi permettere ogni lusso. Non è facile digerire che sia automatico riempire il vuoto lasciato dalla scomparsa di una persona amata con il più sfrenato consumismo. L’unica premessa a questa svolta è la gita al centro commerciale (visto come orrido non-luogo, sostituto degenerato della piazza di paese, causa della deriva consumista e del degrado morale delle periferie) e la voglia dei lidi sardi desiderati dalla moglie. Lo script è (con Luchetti) di Stefano Rulli e Sandro Petraglia, tra i migliori all’opera in Italia. Hanno scritto tanti film di qualità per la tv e per il cinema: Perlasca, un eroe italiano di Antonio Negrin, Romanzo criminale di Michele Placido, Mio fratello è figlio unico (scritto con Luchetti) e il nostro preferito, La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana; quattro puntate di sei ore complessive, prodotte dalla Rai. Al Festival di Cannes, allora, era il miglior film della sezione Un certain regard. È il film italiano che ha avuto più successo all’estero negli ultimi vent’anni (salvo per La vita è bella, la cui reputazione, però, non ha resistito alla prova del tempo). È rimasto in cartellone in un cinema d’essai di New York per ben sei mesi, proiettato in due sale in due tempi di tre ore ciascuno. C’era sempre la coda al botteghino e A.O. Scott del New York Times lo ha incluso nella lista dei dieci film migliori dell’anno. Nella recensione di Mio fratello è figlio unico, Scott lo paragona a La meglio gioventù: sono entrambi fraternal films italiani con al centro due fratelli che attraversano in modo diverso la recente storia del nostro paese, con i forti contrasti ideologici di un’epoca iper politicizzata, prima, durante e dopo gli anni di piombo. Ecco il critico newyorkese sul penultimo film di Luchetti, pertinente alle nostre impressioni sul nuovo: «Il problema è che lo sforzo del regista di insufflare immediatezza e urgenza nelle storie di un’epoca movimentata dà a Mio fratello è figlio unico un’inevitabile aria di nostalgia. L’assenza anno III - numero 20 - pagina II

solidale

LA NOSTRA VITA GENERE DRAMMATICO DURATA 95 MINUTI PRODUZIONE ITALIA 2010 DISTRIBUZIONE 01 DISTRIBUTION

REGIA DANIELE LUCHETTI INTERPRETI ELIO GERMANO, ISABELLA RAGONESE, RAOUL BOVA, LUCA ZINGARETTI, STEFANIA MONTORSI, GIORGIO COLANGELI

Non nominare mai Berlusconi, o la politica in senso stretto, non cambia la morale del film. Luchetti in questo film è un Moretti light, perché offre al reprobo il riscatto di una famiglia oleografica, tutta amore e generosità, che come una rete di protezione lo salva quando si caccia nei guai. Claudio ha come vicini Ari (Luca Zingaretti, piercing, parrucca lunga e unta), un ex ladro diventato spacciatore dopo un incidente che lo inchioda alla sedia a rotelle, e sua moglie Celeste (Awa Ly), ex prostituta senegalese e cattolica osservante. Subito dopo la morte di Elena, è la sorella Loredana che si prende cura dei tre nipoti orfani, ma quando ritorna al lavoro, Claudio li affida all’amica africana. («Mi raccomando - dice Claudio ad Ari venditore di droghe - date al bambino il latte in polvere, capito, il latte in polvere, intesi?». Luchetti intende mostrare «alla pari» i proletari, secondo lui solitamente trattati nei film dall’alto in basso, come macchiette comiche e ignoranti, o strumentalizzati per motivi politici. Per rafforzare le sue intenzioni eque e solidali, ha disegnato spacciatori (anche Celeste lavora in ditta) «dal volto umano». Presentando la coppia come amici stretti di Claudio, invita a vederli come persone complesse, e non in maniera manichea. La nostra vita ha una sottotrama, un’ottima cosa rara in un film italiano, che coinvolge la famiglia rumena del morto. Gabriela (Alina Madalina Berzunteanu) è una bella donna con un figlio, Andrei (Marius Ignat), che arriva sul cantiere in cerca del padre del ragazzo, sparito da tempo. Erano separati, ma adesso Andrei ha bisogno di lavorare e lei vuole un aiuto. (Lo avrà da chi si sente in colpa per averne occultato il cadavere). È messa in bocca alla rumena integrata (gestisce un bar-ristorante sulla spiaggia) la lagnosa tesi del film: «Voi italiani pensate solo a soldi, soldi, soldi. Il resto non conta». È giusto schivare lo stereotipo della donna dell’Est avida e interessata, ma rovesciare il luogo comune ha un effetto comico involontario. Preparate i fazzoletti, però. Luchetti prende la scorciatoia della canzonetta per far piangere, e non è il solo (vedi Paolo Virzì e La prima cosa bella): qui è Anima fragile di Vasco Rossi. La commozione è assicurata. Da vedere.


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parola chiave

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TEATRO eatro è sicuramente una «parola chiave», da sempre, in Europa e nell’Occidente: per il semplice motivo che il teatro è «la Parola», il luogo, lo spazio in cui la Parola prende corpo e, pur rimanendo Parola scritta, assume anche la straordinaria veste di Parola pronunciata. Nel teatro, scrive Pasolini, la parola è «doppiamente glorificata»; è scritta, come nelle pagine di Omero, ma è anche parlata come al mercato o nella vita di tutti i giorni: «Non c’è niente di più bello», scrive sempre il poeta. Tale peculiarità della Parola teatrale non ci esime peraltro da una riflessione sul suo senso ultimo, senza dubbio una chiave per comprendere anche la situazione socio-esistenziale in cui viviamo. Il teatro è infatti un’arte eminentemente europea, le cui origini e ulteriori sedimentazioni riguardano tutti i paesi del Vecchio Continente: in epoche diverse essi hanno vissuto un momento d’oro del teatro e della drammaturgia; a cominciare dalla Grecia, dove tutto nasce, poi nell’Italia di Plauto e Seneca e della modernità; quindi nella Spagna del Siglo de Oro, con Calderon e Lope de Vega anzitutto. Poi la grande epoca elisabettiana in Inghilterra, la fioritura della Comédie Française in Francia, il grande teatro illuminista e romantico in Germania; ma poi anche il dramma borghese soprattutto in area scandinava e russa, e il teatro dell’Est europeo tra il XIX e il XX secolo che apre alle moderne avanguardie.

T

Un patrimonio davvero sublime, inestimabile, non solo dal punto di vista estetico ma anche etico: la storia del teatro, si può dire, è tutt’uno con la storia dell’Europa, in certo modo anche lo specchio del suo secolare conflitto interno, e nel momento in cui prendiamo in considerazione la drammaturgia occidentale - anche con i suoi risvolti nel melodramma e naturalmente nel teatro americano e di tutto il mondo - è evidente che ci apriamo al senso culturale del Vecchio Continente: per questo motivo il grande Giorgio Strehler, fondatore del Teatro d’Europa, era tanto interessato alle lingue straniere: «Vogliamo farla l’Europa?», disse un giorno. «Allora magari cominciamo a impararcele un po’ queste lingue europee!». Era evidente in Strehler il riferimento alla «Parola» europea, una Parola in tal senso babelica, divisa in almeno 25 idiomi, ma pur sempre una Parola, anzi la Parola chiave per il nostro Continente, se un giorno avrà l’aspirazione a chiamarsi davvero Europa e non soltanto Eurolandia. Il teatro, come noto, non si doppia, si ascolta sempre in lingua originale: e così l’incontro con la Parola delle altre nazioni rappresenta l’impatto linguistico e culturale con l’effettiva alterità del nostro Continente. Tuttavia, proprio nel secolo XX, la drammaturgia occidentale ha subito diverse aggressioni, sul piano politico anzitutto, poi su quello tecnologico e mediatico; con il risultato che la stessa parola «teatro» ha conseguito un notevole e ingiusto declassamento su vari fronti:

È un’arte sempre più svilita, considerata una succursale del cinema o della tv. Al di sopra di ogni parte politica, è il luogo per eccellenza della “libertà di parola” nel quale rifondare la vera unione europea

Il linguaggio della democrazia di Franco Ricordi

Sarebbe una grande conquista se l’annunciata legge-quadro per il settore teatrale fosse approvata grazie a una larga intesa e divenisse legge dello Stato. Riconoscerne il valore culturale di spettacolo dal vivo sarebbe il segnale di un nuovo corso, di un’inversione di tendenza per la rinascita del XXI secolo si parla di teatro come puro disimpegno o finzione, e si attribuisce l’aggettivo «teatrale» soltanto all’esagerazione ovvero ai detentori del doppiogioco. Alcuni pensano che il teatro sia una succursale del cinema o addirittura della televisione. In tutta Europa (anche se in Italia in maniera un po’ particolare), la parola teatro è stata ed è sempre più svilita, anche per la scarsissima attenzione dei giornali, della stessa critica teatrale (che non ha ormai quasi più spazi, e cer-

to non si può paragonare alla prosa critica di un tempo), degli intellettuali (che raramente ne sono interessati, se non esclusivamente nei confronti di certe fasce avanguardistiche, sempre vicine a precisi interessi di parte); e infine per la considerazione della politica che spesso, con la sua smania spettacolare (che è propria di tutti gli schieramenti, dall’estrema destra all’estrema sinistra), tende quasi a sostituirsi allo spettacolo, pensando forse che l’attore-politico so-

stituisca l’attore teatrale, che è invece una entità completamente diversa. È sfuggito, e senza dubbio anche per colpa dell’investimento politico della sinistra storica, il senso più autenticamente democratico dell’arte teatrale. E in questo purtroppo anche il suddetto grande regista Strehler, allievo diretto e ideologo italiano del teatro di Brecht, ha avuto una sua responsabilità: il teatro si è sempre più racchiuso in un vicolo cieco di polemica politica, e non può fare a meno di scagliarsi oggi contro una sola parte delle forze in campo (in Italia ormai una sola persona, sappiamo chi è…), senza avere il coraggio di ricercare la sua quintessenza politica e democratica che sta assolutamente al di sopra di una parte o dell’altra (il dramma, scriveva il genio di Aristotele, è «più elevato e più filosofico della storia»).

Tutto questo non toglie che non si possa sperare in una ripresa del teatro e della cultura teatrale per il XXI secolo. Ci sono infatti dati molto incoraggianti dal punto di vista del pubblico, e siamo certi che i giovani siano assolutamente interessati a tale spettacolo dal vivo, e ne comprendano bene la differenza con lo spettacolo mediatico. I ragazzi che vanno a teatro si rendono conto di trovarsi in un luogo in un certo senso rivoluzionario: la possibilità del «qui e ora» fra attori e spettatori pur nell’epoca dell’invasione mediaticobarbarica. E in questa maniera la forza del teatro occidentale - che ha resistito nella sua storia di 2500 anni agli attacchi più terribili, prima da parte del Platonismo, poi dei Padri della Chiesa e infine dell’Illuminismo - sta tornando a riemergere con tutte le sue forze: per il semplice motivo che esso rappresenta il linguaggio dell’uomo nella sua libertà più autentica, la sua più vera e disincantata «libertà di parola». E così possiamo ritornare all’Europa e al nostro paese: teatro è una parola chiave dell’Unione europea, e ogni singola nazione è tenuta a incrementarne la rinascita per il secolo XXI. E in tal senso siamo più che mai interessati alla vicenda italiana della legge per il settore, che si attende da ormai sessant’anni. Sarebbe una grande conquista per tutti se l’annunciata legge-quadro, che sembrerebbe in corso di approvazione anche grazie a una larga intesa tra Pdl, Idv, Pd, Lega e Udc, fosse definitivamente approvata dal Parlamento e divenisse legge dello Stato. Si tratterebbe senza dubbio del primo passo per un suo riconoscimento, così come recita il primo articolo di tale disegno, che appunto denota come la Repubblica riconosca il teatro nella sua quintessenza culturale di spettacolo dal vivo. Sarebbe certamente il segnale di un nuovo corso, di una possibile inversione di tendenza, rispetto a quanto sopra. E ancor più interessante proprio il fatto che ci si arrivi, necessariamente, attraverso le larghe intese. Teatro potrebbe divenire davvero una «parola chiave», per la comprensione della stessa cultura italiana ed europea; quindi, in ultima analisi, di noi stessi.


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Pop

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coi suoi adrenalinici rimandi agli Stooges di Iggy Pop e ad Alice Cooper; e nell’azzeccata, supersonica Loser Dust (inno contro l’abuso di cocaina) che paga pegno all’anarchica sacralità del punk. Tutto il resto, fra le urla e i bisbigli della (riabilitata?) signora dispensa ballate come le struggenti, mi verrebbe da dire «dylaniane» Someone Else’s Bed e Letter To God, nonché la folkeggiante Never Go Hungry; dà il via libera al pop ispido di Pacific Coast Highway e Samantha (con quel verseggiare, people like you fuck people like me, senza peli sulla lingua); elabora l’elettricità post Grunge e il buon indice d’orecchiabilità di No-

di Stefano Bianchi vrei scommesso che come al solito avrebbe preso tutti per i fondelli sfoggiando uno dei suoi proverbiali, succinti «baby doll» tolti all’ultimo istante dalla naftalina. E invece, in occasione dell’unico concerto italiano (a Milano, infilato in un breve tour europeo) non solo s’è presentata puntuale come un orologio svizzero ma si è addirittura guadagnata un bel po’ di applausi. Sul palco, anziché la furba derelitta che si era costruita uno straccio di notorietà sul matrimonio tossico e spettegolante con Kurt Cobain, c’era una Courtney Love vestita (fisicamente e musicalmente) di nuovo. Così mi sono detto: prova ad ascoltarlo il nuovo disco di questa sgarrupata «figlia di nessuno» (Nobody’s Daughter) che ogni volta non fa che rinfacciarci la sua vita grama (padre e madre latitanti, adolescenza in riformatorio e poi caccia alle rockstar nei panni di famelica groupie) tentando invano di redimersi. Dopo un album solista senza infamia e senza lode (America’s Sweetheart del 2004) e l’obbligo a trascorrere sei mesi in un centro di riabilitazione per disintossicarsi una volta per tutte dalla droga, la quarantacinquenne di San Francisco ha pensato bene di riesumare le Hole a dodici anni dal poppettaro, californiano Celebrity Skin. Ritroviamo, così, lo strepitante copyright delle sue ossessioni che almeno un paio di buoni dischi li aveva azzeccati: Pretty On The Inside (’91) e Live Through This (’94). Più che il gruppo, infatti, a sopravvivere è il marchio: agrodolce sinonimo, a suo modo, di garanzia. Al posto delle Hole originali (tre femmine più un maschio), a supportare (sopportare?) la Love madre e padrona ora ci sono Micko Larkin (chitarra), Shawn Dai-

A

Classica

musica

Courtney Love vestita di nuovo

ley (basso) e Stuart Fisher (batteria) con la preziosa collaborazione, qua e là negli undici pezzi, del batterista Jack Irons (ex Pearl Jam e Red Hot Chili Peppers), del cantante e chitarrista Billy Corgan (Smashing Pumpkins) e della vocalist Linda Perry (ex 4 Non Blondes). Non è che ci dia dentro come un’invasata, Courtney. Tutt’altro. Nobody’s Daughter, fatti i dovuti conti, mostra un’evidente durezza solo nel rock nerboruto e nell’efficace linea di basso che scandiscono Skinny Little Bitch,

body’s Daughter; fa in modo che il canto febbricitante della Love, in Honey, faccia a pugni con le chitarre acustiche per poi «camuffarsi» da Patti Smith e Marianne Faithfull nella melodicamente corposa For Once In Your Life, e infine sbavarsi sulle labbra il rossetto di PJ Harvey nell’acustica How Dirty Girls Get Clean (in soldoni: anche le ragazzacce, prima o poi, mettono la testa a posto) che all’improvviso si trasforma in un coriaceo rock & roll. Alla fine, esausta ma felice, Courtney Love canta che «è lunga la strada del ritorno da dove ero caduta». E suona sincera. Davvero. Hole, Nobody’s Daughter, Cherry Forever Records/Idj, 19,50 euro

zapping

CORSI DI ZAPPA e zampogna per tutti di Bruno Giurato

on ce l’abbiamo con nessuno, noi, anzi stavolta seguiamo la massima cristiana: si dice il peccato non il peccatore. Ma non ci va di arrivare al paradosso di amare il peccatore fino ad amare il peccato, quindi lo diciamo forte. Ce l’avete fatto piatto come le bambole. Perché va bene la contaminazione, va bene il popolo, va bene il patchanka e tutto, ma ci sono cose che non si possono fare. Basta con i Balcani e basta con il Sudamerica. Siamo colonizzati e va bene, ma anche basta. Già ci dobbiamo sorbire i critici che vanno a scovare certi cantautori del Midwest o certe etichette indipendenti di New York e si presentano ogni settimana con copie farlocche di Sufjan Stevens come cani giuggioloni. Ma non si regge che dall’altra parte, presso i no global e il sempre meno variegato gruppettarismo musicale (tornassero i tempi del punk e del Male di Vincino…) qualsiasi richiamo alla musica popolare si risolva in Balcani e Sudamerica. Sono con il popolo festaiolo, io, e via con uno zumpà forsennato alla Bregovic. Oppure: sono con il popolo oppresso, e sotto con gli accordi minori da tànghero (l’accento è sulla prima a non a caso). Non c’è concorso, festival anche jazz, riunione quasi informale che non veda qualche disgraziato di musicista imbarcarsi per questi lidi, senza approdo visto che siamo globalizzati e che in qualche minuto posso procurarmi gli originali. Dunque quelle degli italiani balcanizzanti e sudamericanti sono gioie e tristezze tutte private, relative al fallimento della propria cultura, romanticismi «ddu camere e cucina». E frustrazione per frustrazione se avessimo i famosi cinque minuti di potere, oltre a proibire gli accordi minori a tutti i gruppi rock, organizzeremmo corsi di alfabetizzazione forzati e coatti per tutti i malati di esotismo vongoloide. Corsi di zappa (non Frank) e zampogna per tutti.

N

Gossett e il do della “pira” che descrive Manrico n’autobiografia intellettuale vivida e sapiente, tessuta con brio e verve polemica, alimentata da una dottrina a tutta prova e insaporita da un’onestà intellettuale inconsueta; un vademecum storico-criticopratico destinato a chi ama l’opera italiana dell’Ottocento e abbia gli strumenti per decifrarla. Dive e maestri. L’opera italiana messa in scena (il Saggiatore, 4,00 euro), di Philip Gossett, musicologo trasvolatore di oceani (tiene cattedra a Chicago e a Roma), è tutto questo, ma qui da noi rischia purtroppo di restare lettera (quasi) morta. Poiché, a differenza che nella più parte d’Europa, in Italia l’alfabetizzazione musicale è molto, troppo scarsa; mentre il sostanzioso volume dello studioso americano, ragguardevole esempio di alta divulgazione in stile anglosassone, presup-

U

di Jacopo Pellegrini pone nozioni tecniche di base, che i melomani nostrani raramente possiedono (il glossario in appendice può offrire un primo valido aiuto). Per gli addetti ai lavori, invece, immergersi in queste righe è come ripercorrere le tappe d’una bella solida formativa amicizia: è merito precipuo delle ricerche pluridecennali condotte da Gossett e da altri «pionieri» (Celletti sulla vocalità, Rosselli sull’impresariato, ecc.: i nomi figurano tutti in bibliografia) l’aver impratichito musicologia e critica nei temi portanti di questo libro: l’organizzazione della vita operistica nell’Italia del XIX secolo, i metodi produttivi seguiti da librettisti e compositori, la trasmissione della musica (manoscritta o a stampa), le questioni relative alla critica testuale, essenziali per chi debba

approntare un’edizione critica (un campo in cui Gossett ha segnato una via maestra), i problemi concreti sollevati dalle produzioni teatrali (scelta della versione musicale o linguistica, tagli e trasposizioni dei pezzi, abbellimenti e variazioni canore, organico orchestrale, allestimento scenico). Come s’intuisce anche da questo nudo elenco, la carne al fuoco è tanta; il sapere formidabile; la chiarezza d’esposizione agevolata da rimandi e incroci interni (peccato l’edizione italiana un po’ troppo incline ai refusi e alle imprecisioni, a cominciare dal titolo, che nell’originale recita Divas and Scholars, dive e studiosi, dive e dotti). Il percorso narrativo, volentieri in prima persona e all’insegna d’un entusiasmo contagioso, offre esche abbon-

danti all’ironia: di solito improntato a un giusto buon senso, il tono di Gossett s’impenna quando vuole smontare tradizioni e convenzioni recepite acriticamente (abbreviazioni varie, note cambiate o aggiunte - i famigerati acuti non scritti: mi spiace per lui, e per Muti, ma i due do della «pira», se introdotti in un’esecuzione integrale del Trovatore, risultano indispensabili non per irretire il loggione, ma per completare il carattere di Manrico), o quando difende a spada tratta iniziative che lo hanno visto coinvolto in prima persona. D’un tratto, egli diventa l’eroe castigamatti, che annienta l’avversario e debella l’oscurantismo melodrammatico. Per questo credo poco alle sue battute autoironiche: pure concessioni retoriche d’uno spirito cosciente di sé, orgoglioso e suscettibile; insomma, specialista sapientissimo e anche un po’divo…


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arti Mostre

on soltanto la critica è talvolta anche una questione di memoria (ricordarsi di un nome perduto nel buio dell’oblio o della vecchiaia precoce, riaccendere le sinapsi su un’opera, una tela, che vedi benissimo, che ti è presentissima, negli occhi della tua memoria visiva, ma di cui non ricordi più titolo o autore, e in questo Wikipedia non può sovvenire a nulla) ma la critica è comunque in dialogo perpetuo, con questa terribile divinità, Mnemosine, a cui Warburg ha dedicato tutta la sua vita e la salute. Anche per motivi ben più banali. Per esempio: uno vorrebbe parlare ai suoi lettori d’una mostra, che ha tanto amato, ma come spesso succede (quelle bruttissime e inutili durano sempiterne) questa, su cui proprio vorresti buttarti, scopri, mannaggia, che è già finita. Che fare, rinunzi alla tua voluttà? Parlare d’una mostra che non c’è più - sì, terribile, è proprio finita nel nulla - in effetti non è così cortese farlo, nei confronti di chi non può recuperarsela, c’è da infuriarsi davvero. E poi ci sono sempre i caposervizi in agguato, a sgridarti e castrare i tuoi desideri, giustamente. Premessa stupida, per giustificare il fatto che parlerò d’una mostra che non c’è più, ma credo d’esserne assolto, questa volta. Una mostra ch’è durata un attimo, il fuoco d’un cerino, peccato davvero, nello spazio di quel lietissimo e interessante bailamme che è il Salone dei libri di Torino, sempre più iper-ricco, ma bailamme comunque, fin troppo denso di proposte incrociate, di spropositi di libri e tavolate di niente, di intellettuali che si parlavano addosso, nel doppio senso del termine, visto che le salette di conversazioni sono addossate una all’altra, come dita artritiche e non capisci più nulla, ti scoppia il cervello e su tutto, tutte quelle truppe cammellate e disorientate di miriadi di visitatori e carrozzine (ma se sono tanti così, i patiti dei libri, ma perché l’editoria lamenta e langue in una crisi, che è davve-

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Architettura

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Una Biblioteca per Mnemosine di Marco Vallora ro reale? Non sarà ch’è più forte qui la lusinga dell’evento in sé e basta, dell’esserci stati, del comprare un libro, che non si leggerà mai, soltanto per farlo firmare dal Divo? Che ne sarà della memoria vera di quel libro mai letto? Ne ha parlato magnificamente anche don Ravasi, forando il bailamme): di un salone che era appunto dedicato al tema della memoria, oggi. Ma mi domando quanti, in quel bailamme, che invitava soltanto alla fuga e al silenzio, abbiano messo il naso dentro quel piccolo antro nero, meraviglioso, di cui voglio parlarvi. Certo, durato i quattro o cinque giorni della manifestazione, ma dato il tema, quello della mnemotecnica, appunto, credo sia giusto e doveroso parlarne, lasciarne una memoria, comunque, una traccia e fornire però un’ulteriore ap-

piglio giustificante, al lettore. Perché questo squisito assaggio di pochi volumi preziosissimi annunzia al mondo l’avvenuto, finalmente, assestamento della Biblioteca della Memoria, auspice Umberto Eco, in quel sito curioso, di finte memorie antiche, che è San Marino (in Contrada delle Mura 6). Eco, che suggerì di comprare sul mercato quella rarissima collezione Young, che proveniva dall’America, da un oftalmologo malato del virus dei libri, e che oggi ha trovato la giusta «casa», in questo originalissimo museo di volumi storici sulla memoria. (La vostra gentile memoria prenda nota che il 28 e 29 maggio lo stesso Eco presidierà una sorta di corso sull’argomento). S’è detto «casa», con virgolette, proprio per richiamare il tema-chiave di questi

magnifici e fantasiosi volumi sulla mnemotecnica, la scienza antica del ricordare, che da Cicerone allo pseudo-Herennio, da Giulio Camillo a Spangerberg, da Raimondo Lullo a Giordano Bruno, a Cornelio Agrippa, e li mettiamo così alla rinfusa, hanno sempre ricorso agli elementi architettonici, alla struttura dell’abitazione stanze, sale, chiostri, abbaini - per sostenere la memoria retorica e visualizzar concetti astratti, in quegli affollati cervelli che non potevano ricorrere ad altri supporti mmemonici, cartacei oppure ai nostri computer. E così le idee platoniche diventavano scale, colonne, solai o ripostigli, corrodoi e trabocchetti, peggio che in un romanzo gotico, alla Melmoth. Una fantasia quasi morbosa e visionaria, nera, che rende meravigliosi, anche graficamente e cioè scenograficamente, questi «teatri della memoria» pre-surreali, questi piccoli volumi, dominati come da insetti, fra le pagine e i frontespizi, di scheletri che pensano e ricordano, di palombari frenologici, che mostrano le anse del nostro immaginare e almanaccare: mani, occhi, pinnacoli, piramidi, coccodrilli, campanellini e piedi demonici, che sostengono le nostre idee e il terrore atavico di dimenticare.

Dialoghi con il paesaggio in Portogallo

isolamento culturale del Portogallo negli anni del lungo regime totalitario viene finalmente interrotto nell’aprile del 1974 dai moti popolari, chiamati Rivoluzione dei garofani. A essi segue un periodo fecondo, pur nell’instabilità politica e nell’ambiguità culturale, che spinge le forze più vivaci della nazione al confronto, fino ad allora negato, con i movimenti artistici e culturali europei e internazionali. Un confronto che non stravolge la cultura architettonica lusitana, che durante gli anni del regime aveva coltivato ossessivamente il tema dell’identità nazionale nell’ottica della costruzione di un’architettura identitaria. La costruzione di un’architettura specificamente portoghese ha impegnato a lungo gli architetti in dibattiti e riflessioni, focalizzati in particolare sul tema della casa portoghese. Da un lato ci sono progettisti che, ispirati da uno stringente conservatorismo, ossequioso delle indicazioni del regime, propagandano la necessità di impiegare materiali e tecniche costruttive desunti dalla tradizione locale, perseguendo esiti pittoreschi; dal-

L’

di Marzia Marandola l’altro c’è chi guarda al linguaggio moderno e internazionale capace di declinarsi nei diversi contesti storici e geografici. Il primo esponente di un’importante e solida scuola di architetti portoghesi è Fernando Tavora (1923-2005), maestro di riferimento per tutti i progettisti lusitani, fino alla generazione più giovane. Con elegante semplicità, senza contrastare la tradizione architettonica nazionale, Tavora e i suoi seguaci fanno uso di materiali locali, coniugati con geometrie elementari e con la spiccata sensibilità al contesto orografico, producendo manufatti che dialogano armoniosamente con il paesaggio, spesso aspro e selvaggio del Portogallo, che viene interpretato da architetture che non ricorrono mai a gesti eclatanti o trovate strabilianti. Il bel volume di Carlotta Tonon dà conto dei risultati conseguiti da questa «scuola» nell’architettura delle ville unifamiliari. Si tratta di un repertorio estremamente godibile che individua, sostanzialmente, due

tipi distributivi e morfologici. Se nelle terre portoghesi settentrionali, dove il terreno è impervio, le ville si sviluppano in senso longitudinale, allineando tutti gli ambienti della casa che è contrassegnata da un unico affaccio, generalmente vetrato, nelle spiagge calde del sud le ville organizzano un saldo impianto centrico, con le stanze intorno a un patio centrale che diffonde la luce e assicura la ventilazione naturale. Osservando le suadenti immagini del volume si evince che esiste tra i progettisti portoghesi un rapporto attivo di scambio e un comune sentire che lega le diverse generazioni di progettisti, creando una catena virtuosa di qualità e di comunanza che arricchisce il patrimonio architettonico della contemporaneità. Il volume, contraddistinto da una elegante veste grafica, non fornisce un ragguaglio generico e indiscriminato delle ville portoghesi, ma è circoscritto a 18 esempi di ville costruite tra il 2000 e il 2010. Opere famose e di magistrale virtuosismo distributivo e volumetrico, come la Casa do Pego a Sintra di Alvaro Siza, dalla zigzagante volumetria o quella ad Alenquer dei fratelli Mateus che esalta i resti murari di una diruta preesistenza, sistemandovi un poetico patio metafisico. Carlotta Tonon, Ville in Portogallo, Electa, 240 pagine, 60,00 euro


MobyDICK

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LONTANO DA JASNAJA POLJANA, LA CASA DELLA VITA. LONTANO DALLA MOGLIE SOF'JA, DA UN MATRIMONIO OPPRESSIVO, DAI FIGLI INTERESSATI ALLA SUA EREDITÀ. LONTANO DA SE STESSO. TRENI, STAZIONI, VAGONI DI TERZA CLASSE, LOCANDE, NEVE E IL SUD - IL CAUCASO - COME META. NEL CENTENARIO DELLA MORTE, UN LIBRO (E UN FILM) TORNA A RACCONTARCI GLI ULTIMI DIECI GIORNI DI VITA DI LEV TOLSTOJ

il paginone

Il gigante

di Gabriella Mecucci el centenario della sua morte, Lev Tolstoj torna a farci visita. Per la verità, non ci ha mai abbandonati, nemmeno per una breve parentesi: il «gigante della letteratura russa» (definizione di Lenin) non ha mai cessato di fare compagnia agli uomini e al mondo. E se la sua «filosofia» cristianoanarchico-comunista è tramontata, resta incancellabile la sua ricerca dell’uomo e di Dio. Eppure, gli anniversari si prestano sempre a qualche ritorno. Lo vedremo al cinema (dal 28 maggio in Italia), nell’Ultima stazione (tratto dall’omonimo romanzo di Jay Parini, pubblicato da Bompiani), lo leggeremo in uno splendido racconto, La fuga di Tolstoj di Alberto Cavallari, ripubblicato, dopo 24 anni, da Skira e che dal 26 maggio in libreria. Entrambi si ispirano al medesimo episodio, quando, a 82 anni, il grande scrittore scappa dalla sua vecchia casa di campagna di Jasnaja Poljana e intraprende un lungo viaggio, interrotto solo dalla morte. Fugge «il gigante», fugge da un matrimonio-prigione, da una moglie e da una famiglia diventanti asfissianti e fugge - come chiunque se ne vada senza meta - anche da se stesso. E non è un caso che sia un grande inviato (poi anche direttore del Corriere) come Alberto Cavallari, un uomo dunque con la passione del viaggio, a raccontare in modo magistrale gli ultimi dieci giorni di vita di Tolstoj.

N

La notte fra il 27 e il 28 ottobre, Lev vede la moglie Sof’ja che fruga fra le sue carte per leggere, per controllare, per spiare: un nuovo, insopportabile gesto invasivo della propria vita da parte di quella donna, più giovane di lui - 68 anni - ingrassata, ma ancora bella, che lo tormenta. È stata una sposa che lo ha compreso e amorevolmente assistito sino a quando non è arrivata la conversione di Tolstoj alle teorie anarco-cristiane che lo hanno portato a rinnegare la Chiesa (ortodossa), il potere, la proprietà privata. Sof’ja non l’ha accompagnato oltre quella soglia: la donna che l’aveva aiutato

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nella scrittura di Anna Karenina, è diventata isterica, depressa sino a tentare il suicidio, e lui, che l’aveva amata appassionatamente, ha preso a non sopportarla più. Anche con i figli fatta eccezione per Aleksandra - il dialogo si è interrotto e hanno preso corpo la sfiducia e il sospetto. Ed è in questa temperie che Tolstoj ha avvertito l’invincibile impulso di andarsene da Jasnaja Poljana, la casa dell’infanzia in cui era tornato per scrivere e per coltivare la sua utopia mistica di una vita in comune coi contadini poveri. Fugge, dunque, dalla «prigione matrimoniale», il «gigante».

Scrive Cavallari: «Sonata a Kreutzer (la più dostojeskiana delle sue opere, che prende spunto dalla composizione di Beethoven) era stata “profezia”

Da esperto inviato, Alberto Cavallari descrive magistralmente la fine del grande narratore. E spiega come “Sonata a Kreutzer” sia un’allegoria del suo legame con la compagna di sempre: lui il pianoforte, lei il violino in perenne inseguimento e non autobiografia. Tuttavia se non si legge questo racconto solo come storia di un uomo tradito che uccide la moglie, ma come storia dell’odio - amore globale che trasforma (secondo Pozdicev) marito e moglie in due galeotti che si odiano l’un l’altro, legati alla stessa catena, avvelenandosi la vita l’un l’altro, sforzandosi di non accorgersene, era da Jasnaja Poljana che proveniva il suono straziante di quella musica. Essa infatti significa violino e pianoforte incapaci di suonare da soli. Il violino lancia il tema, il pianoforte lo riprende, gli strumenti si inseguono nel “presto”, si strappano la nota l’un l’altro, con energia ritmica e brutale in una fuga impetuosa. Poi il pianoforte si fa sommesso nei bassi, lo segue il violino nella calma, la calma stessa diviene antagonismo che riprende, sale, con note che lampeggiano in vertiginose rotazioni. Poi è il violino che s’inabissa, e lo segue il pianoforte, risalgono insieme in conflitto, di nuovo si scontrano, ridiscendono, ritornano a un altro “presto”. Proprio come a Jasnaja Poijana, dove Lev e Sof’ja si sono inseguiti per decenni, prima di Mosca dopo Mosca, in un crescendo possessivo e distruttivo, in un groviglio d’odio-amore». Citazione troppo lunga, ma la scrittura di Cavallari è così bella e

penetrante da far desiderare di lasciarla fluire. Non si poteva raccontare meglio da che cosa fuggisse in primo luogo Tolstoj. E, poi, scappava dai figli che volevano un testamento a loro favore mentre lo scrittore intendeva lasciare tutto ai contadini. Scappava dal suo passato e dal suo presente, dal lusso della sua vita di cui si vergognava. Scappava per andare alla ricerca di un futuro. Scappava per vivere, non per morire.

Lasciata la vecchia casa in carrozza, arriva alla stazione e inizia un lungo viaggio in treno: diverse le destinazioni scelte. Lev giunge in un posto per abbandonarlo subito dopo. Non ha tregua, sa di essere braccato dalla famiglia, dalla moglie. È in compagnia del suo medico e più avanti lo raggiungerà anche la figlia Aleksandra. Finisce in un monastero. Da lì la fuga verso il Sud: la voglia di raggiungere il Caucaso dove poter ritrovare la prima giovinezza, la caccia a cavallo, la vita selvaggia. Un susseguirsi di stazioni, di locande, di vagoni ferroviari di terza classe con la gente che lo riconosce e lo omaggia. Al centro di quei giorni inquieti c’è il treno: un simbolo di modernità e di morte per Tolstoj. La Karenina si suicida buttandovisi sotto, e vede per la prima volta il conte Vronskij, uscendo dallo scompartimento, appena arrivata a San Pietroburgo; quando lo reincontra e cede alla sua passione, lo scenario è una ferrovia innevata. Levin dichiara che per lui è tempo di morire mentre una locomotiva sferraglia sui binari e Nikolaj muore in una locanda nei pressi di una stazione. Sono molteplici le occasioni drammatiche che il grande scrittore ambienta intorno al treno. E, ironia della


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fuggitivo sorte, la sua fine inizia in un treno: il continuo spostarsi per giorni e giorni lo ha affaticato, il viaggio nel gelo della grande madre Russia lo ha fatto ammalare. È seduto ancora su di un vagone e sta sognando il Sud, quando viene scosso da violenti brividi di freddo: ha la febbre quasi a 39. Il giorno prima aveva scritto una lettera alla moglie, che non cessava di minacciare il suicidio, per spiegarle perché non sarebbe rientrato a casa. «Tornare con te - sosteneva - mentre perdura il tuo stato significherebbe per me rinunciare alla vita: e io non mi considero in diritto di farlo. Addio cara Sonja, Dio ti aiuti… La vita non è uno scherzo, e non abbiamo il diritto di abbandonarla così. È anche irragionevole misurarla secondo la durata del tempo, forse i mesi che ci rimangono da vivere sono i più importanti di tutti gli anni vissuti: bisogna viverli bene». A Tolstoj, quando scrisse queste parole restavano solo pochi giorni. La malattia mortale sarebbe arrivata da lì a 24 ore. Prima dello scoppio della febbre dettò ad Aleksandra un’ultima riflessione: «Dio è il tutto senza limiti, di cui l’uomo ha coscienza di essere una parte limitata. Solo Dio esiste veramente. L’uomo è la sua manifestazione nella materia, nel tempo, nello spazio. Più la manifestazione di Dio nell’uomo (la vita) si unisce alle manifestazioni (le vite) degli altri esseri, più l’uomo esiste. L’unione della sua vita con la vita degli altri esseri si realizza con l’amore, Dio non è l’amore, ma più l’uomo è amore più manifesta Dio, più esiste veramente».

A questo pensava l’ottantaduenne scrittore a pochi giorni dalla morte, quando ormai fiaccato da una febbre da cavallo, dovette scendere dal treno in una stazioncina periferica. Anche lì lo riconobbero: saluti, sorrisi ossequi, ma Lev non ce la faceva più a rispondere. Il capostazione gli mise a disposizione la più bella camera di casa sua. E lì per sei giorni, il grande Tolstoj visse la sua lenta agonia, punteggiata da momenti di incoscienza: delirò, si sveglio, spedì telegrammi, svenne, si riprese. Più volte mormorò questa frase: «Andrò in qualche posto, che nessuno me lo impedisca». La pagina in cui Cavallari descrive le sue ultime ore è di rara bellezza e dice qualcosa su di noi, parla a

famigliare che si ostina a negare la realtà «scandalosa» della morte. Ma lui solo quando è arrivato al capolinea afferra il senso vero di tutto: proprio mentre il trapasso è vicino diventa davvero vivo attraverso una dolorosa introspezione. E così riscatta un’esistenza mediocre, e si salva.

O forse nella mente di Lev è passata come un lampo la morte di Anna Karenina. Il salto, il buio, le rotaie, il treno e quella luce improvvisa che rischiara le tenebre, una luce il cui segreto scompare con la donna. C’è la salvezza in quel chiarore? Tolstoj non giudica. La sua eroina è doppia: la creatura provocante, astiosa, vendicativa vive dentro quella solare e bellissima. In Anna c’è un fondo oscuro, imperscrutabile che la condanna al castigo finale. Dostoevskij scrisse: «Questo romanzo contiene una parola di non piccolo peso sul problema della responsabilità umana. Il male preesiste ai personaggi; presi nel vortice della menzogna essi giungono a uno scioglimento delittuoso…». Tolstoj non giudica, ma quella tenue luce che squarcia le tenebre non può bastare per riscattare Anna. O forse il grande scrittore nei momenti finali della sua agonia ha visto passargli davanti quella lunga schiera di uomini umili, semplici, poveri che formano il grande esercito russo di Guerra e pace? Ha rivisto, a una a una, le loro morti, dietro le quali c’è la salvezza. Una morte breve e un riscatto certo è possibile solo per i diseredati, che per Tolstoj sono i veri protagonisti della storia. Sono loro, e non i principi e i generali, a difendere, sacrificando la loro vita, la grande madre Russia. Quelle forze anonime compongono una complessa individualità popolare. Ed è solo questa individualità che trionfa su Napoleone. O forse tutte queste morti e tante altre sono riapparse fulmineamente e contemporaneamente a Lev proprio mentre esalava l’ultimo respiro. Sul tavolo accanto al letto, teneva I fratelli Karamazov, il capolavoro di Do-

Dettò alla figlia Aleksandra un’ultima riflessione: «Dio è il tutto senza limiti... Più la manifestazione di Dio nell’uomo si unisce alle manifestazioni degli altri esseri, più l’uomo esiste... Più l’uomo è amore più manifesta Dio» ciascuno di noi. «Vennero tutti a vederlo morire; vennero i figli, i medici celebri, gli amici, gli inviati del governo, gli arcipreti, i giornalisti per descriverlo, i mugiki per vegliarlo accendendo sulle colline intorno miriadi di falò. Ma a Tolstoj non importava più niente di tutto questo. Giorni e notti erano treni che passavano, carrozze a cavalli che iniziavano la corsa dove i treni si fermavano, e il tempo era solo un passaggio di movimento, alberi, cieli, neve, campi che correvano via. Soltanto l’interessava la continuazione della sua fuga, ormai diventata diversa, non più allontanamento furtivo e precipitoso dagli altri e da se stessi, ma viaggio senza fine, corsa libera nel mondo, avventura di Ulisse che non cessa, che nessuno vorrebbe cessata, malgrado la vecchiaia e la morte». Siamo arrivati alla fine. Chissà quale idea di morte sarà balenata davanti agli occhi di Lev fra le tante che aveva magistralmente raccontate? Forse quella di Ivan Il’ic, il più bello e compiuto dei suoi racconti, quando il protagonista scopre l’essenza vera della vita proprio dentro il tunnel della malattia. L’ambizione, la carriera, la ricchezza: tutte le cose in cui aveva creduto sono solo menzogna. Intorno a lui passa l’intero microcsmo

stoevskij. Come lui Tolstoj si era battuto - anche se in modo del tutto diverso - contro il nichilismo. Quello scontro titanico, raccontato nel romanzo, e che vede il vitalismo ingenuo (Dimitri) e la fede (Aliosha) battersi contro chi vuol distruggere ogni forma di religiosità (Ivan), perché - come scrive Dostoevskij - «se Dio non esiste, tutto è permesso». Accanto a Tolstoj c’erano tutti, poco prima che morisse: c’erano i figli, le persone che lo avevano amato, i correligionari e c’era persino l’altro grande romanziere russo. E poi c’erano i suoi sogni, le sue utopie, i suoi deliri, le sue creature letterarie. A due ore dalla fine arrivò anche la moglie, il violino della Sonata a Kreutezer. Lev era incosciente e non la riconobbe. Qualcuno però giurò di sentirlo biascicare: «Fuggire… Fuggire». Da chi? Da lei? O nella sua mente obnubilata, balenò l’estrema volontà di scappare dalla morte? Chissà? Ma questo non era possibile nemmeno per lui. Nemmeno per il «gigante» di tutte le letterature. Idee, sentimenti, utopie, parole finirono in un tenebroso gorgo. Coperti dal silenzio. Il viaggio era finito. Per Tolstoj non ci sarebbe stato ritorno. Ma le sue creazioni vivono un eterno, meraviglioso ritorno.

Nella pagina a fianco, Lev Tolstoj in una foto di Prokudin-Gorskij e in un ritratto del pittore russo Repin. In alto, la copertina del libro di Alberto Cavallari e alcune immagini dello scrittore: a cavallo, in convalescenza, con i bambini, mentre gioca a scacchi. A fianco e sopra, Christopher Plummer e Helen Mirren in “L’ultima stazione”


Narrativa

MobyDICK

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a prosa di Tagore, premio Nobel nel 1913, è una come una leggera tunica di lino bianca, lavata e stirata prima di essere offerta al lettore. La stessa che alcuni suoi personaggi indossano dopo ore di fatica. Intrisa di aromi, rimanda subito all’India del Gange, ai monsoni, al caldo torrido, alle colline, ai pascoli e ai villaggi dove la gente vive in concordia quasi fanciullesca. Un paese dove, al di là di ogni retorica, conta molto la virtù; una zona del mondo in cui, malgrado l’esistenza di soffocanti caste sociali, si bada al tratto gentile e alla bellezza della singola persona.Tagore (1861-1941), noto anche per la poesia, il teatro e l’impegno in campo filosofico e politico, prese le distanze da Gandhi preferendo al radicale nazionalismo indiano il tentativo di conciliare Oriente e Occidente, anche sul piano religioso con la ricerca d’un punto d’incontro tra monoteismo cristiano e politeismo induista. L’editore Guanda ci propone una sua raccolta di racconti. Inediti in Italia. Come sovente accade, il racconto d’un grande scrittore contiene la tematica della sua intera opera o perlomeno dà una segnaletica importante del suo cielo narrativo. La prima novella, che dà il titolo all’antologia (13 testi, tutti abbastanza brevi), è una sorta di specchio dell’autore. Il «Vagabondo» è lui stesso, o meglio quello che avrebbe desiderato essere, costretto come fu a occuparsi dell’amministrazione dei beni della famiglia e a sposarsi con una donna che non desiderava. È la vicenda del giovane Tara, di modesta famiglia, che asseconda la propria vocazione: vivere libero da qualsiasi costrizione, o geografica o personale, mai intralciato da abitudini e nemmeno da rapporti fortemente affettivi. Ed è così che si allontana dal nucleo originario, col quale mai è in naturale contrasto, e si aggrega a giramondo, acrobati, musicanti, artigiani, attori. Assorbe tutto velocemente, rispetta gli altri, si mostra gentile e disponibile. Comprende, giorno dopo giorno, che la vita di errabondo è ciò che è più in sintonia col suo carattere. Così come lo è l’ascoltare il crepitare delle pesanti piogge estive sul fogliame degli alberi: «Tutto questo gli dava gioia… tutto lo agitava fin nelle profondità della sua anima». Capita che Tara incontri un potente e garbato «signore», l’uomo più potente di Katalia, cittadina verso la

L

libri

Rabindranath Tagore IL VAGABONDO Guanda, 167 pagine, 14,00 euro

Sotto il cielo di Tagore Una raccolta di racconti inediti dello scrittore indiano che tentò di conciliare Oriente e Occidente

Riletture

di Pier Mario Fasanotti

quale sta per far ritorno a bordo di un battello. Tara accetta l’invito e a poco a poco si fa ben volere, a eccezione della figlia del suo ospite, la bambina Charu, che si dimostra invidiosa e capricciosa. Tara, silenzioso, educatissimo e frugale, osserva il paesaggio che sfila davanti ai suoi occhi di viaggiatore su un battello: «tutto passava e si allontanava». Il suo ospite-benefattore intuisce la sua natura gentile e non lo tempesta di domande.Tara ha una purezza che pare eternamente angelica: «Aveva visto e compreso molte cose volgari, ma in lui non c’era posto per la volgarità…. s’allontanava dai flutti fangosi del mondo come un cigno…». Sì, lui s’allontana sempre. Con occhi e spirito sempre all’erta e una gran voglia di apprendere. Il viaggio dura due anni. A Katalia, Tara conquista l’affetto e la cordialità della gente e così facendo gonfia la stizza e l’invidia di Charu che, secondo il costume indiano, è già pronta per un matrimonio.Tara studia la lingua inglese, Charu lo vuole imitare. Tra i due ci sono scontri scherzosi, come tra fratello maggiore e sorella viziata. La famiglia del «signore» di Katalia comincia a guardarsi attorno per la scelta del futuro sposo della ragazzina. Ma lei disdegna qualsiasi incontro. Ed è a questo punto che il padre comincia ad accarezzare l’ipotesi di darla in sposa a Tara. Ovviamente invia messi nella sua città natale per saperne di più. Alla fine, appurata l’onestà della famiglia del giovane, cominciano i preparativi per il fidanzamento, che coincidono con l’arrivo delle piogge impetuose su una terra arida e su fiumi ridotti a misere pozzanghere. Ma Tara se ne va «prima che quella cospirazione di amore e tenerezza fosse riuscita ad accerchiarlo completamente». Il ragazzo bramino fugge in una notte di pioggia, diretto verso «la Madre Natura, tranquilla nella sua serena indifferenza». Particolarmente toccante è un altro racconto di Tagore, intitolato «Una notte speciale»: è la breve e intensa avventura di un modesto insegnante che per poche ore si trova ad avere accanto la donna, splendida e sposata a un uomo ricchissimo, che lo aveva respinto anni prima. Non si dicono una parola. Nella mente dell’uomo rimarrà l’indelebile traccia dell’unica notte felice della sua vita.

Simenon, il passatempo preferito anche da Ungaretti on ho mai scritto di Georges Simenon: non c’era certo bisogno del mio parere dopo che tutto il mondo per tanti anni ha parlato di lui e delle sue opere. Ma due circostanze mi spingono a scrivere queste poche righe su un autore tanto importante. Prima di tutto il ricordo di un episodio che riguarda Giuseppe Ungaretti: nella confidenza che avevo con lui gli chiesi più volte quali erano le sue letture, diciamo così, di passatempo (non dunque di studio). Mi rispose più di una volta che il suo autore preferito era Simenon, il che mi lascò lì per lì interdetto pensando solo ai gialli di Maigret. Ma Ungaretti si riferiva anche ai romanzi veri e propri di Simenon. È accaduto in questo periodo che siano usciti quasi contemporaneamente due titoli di Simenon: uno della serie Maigret e l’altro un suo romanzo del ’48. Sulle inchieste di Maigret, Simenon ha scritto almeno 75 romanzi: l’editore Adelphi ne ha stampati almeno 64, molti dei quali in varie edizioni. Credo di averli già letti tutti o quasi tutti. Il più recente si intitola Maigret e il caso Nahour, in assoluto uno dei più belli della serie. Si gioca tutto intorno a quattro

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di Leone Piccioni personaggi: uno assassinato e gli altri tre sospettati. Il lettore entra, come sempre, nel giro degli indizi, delle testimonianze, delle riflessioni che Maigret conduce con molta attenzione e con qualche perplessità per arrivare alla soluzione dell’enigma. Una soluzione non facile alla quale il lettore più che mai partecipa con piena collaborazione. Una donna di grande bellezza, il marito assassinato, gran giocatore che studia i calcoli della probabilità, l’amante della donna, un segretario del marito defunto, che non ammetterà mai la sua colpa: ecco i personaggi. Il romanzo Il ranch della giumenta perduta, uscito qualche tempo prima (già recensito su Mobydick da Pier Mario Fasanotti il 6 marzo scorso, ndr), si svolge in un iniziale ambiente western, un ambiente che sarebbe piaciuto a Sergio Leone. Ma nella seconda parte si insinua una vera e propria ricerca che ricorda il mestiere dell’indagatore dei gialli. Non credo che sia tra i più belli che Simenon ci ha lasciato (Adelphi ne ha tradotti più di una qua-

“Maigret e il caso Nahour” è in assoluto uno dei più bei gialli risolti dal mitico Commissario

rantina, anche questi quasi tutti letti da me). Il protagonista del romanzo ha subìto tanti anni prima un attentato. A distanza di tempo, gli nasce l’imperiosa volontà di saperne il perché e di conoscere il nome del mandante (un killer, infatti, sparò e fu ucciso dal protagonista). Il ritrovamento di vecchie carte, incomplete e non tutte leggibili, riferisce solo l’iniziale del mandante: un’H che potrebbe anche leggersi come una N o una R o una A. Ma con il passare del tempo e con l’atteggiamento deciso preso da amici e parenti del protagonista, il mistero si chiarisce e va in una direzione tutta diversa da quella subito pensata dal protagonista. Ma avendo toccato il tema dei romanzi di Simenon non posso non citarne per lo meno tre che sono veri capolavori: per lo stile, per la figura dei protagonisti, per l’intrecciarsi degli eventi, per le pagine anche di amore, di tristezza sul passare del tempo e degli avvenimenti. Sono, secondo il mio parere, Tre camere a Manhattan, Il presidente e Il treno. Questa volta non ci sarà bisogno di invocare o di chiedere delle ristampe, perché questi grandi romanzi sono già stati ristampati e sono dunque a disposizione dei lettori che non li conoscono.


Maestri

MobyDICK

runo Zanardi, studioso, restauratore e critico, docente universitario, è stato allievo di Giovanni Urbani e ha intrattenuto rapporti di familiarità con Cesare Brandi. Ha restaurato, tra l’altro, la Colonna Traiana, gli affreschi e i mosaici della Basilica di Santa Maria Maggiore e del Sancta Sanctorum a Roma, i rilievi di Antelami al Battistero di Parma, parte degli affreschi della Basilica di Assisi, gli affreschi di Correggio nella chiesa di San Giovanni a Parma, gli affreschi di Tiepolo a Palazzo Labia a Venezia. Ha pubblicato per Skira importanti saggi tra storia dell’arte e storia delle tecniche artistiche: Il cantiere di Giotto e Giotto e Pietro Cavallini. La questione di Assisi e il cantiere medievale della pittura a fresco; e di storia della tutela, Conservazione, restauro e tutela. Unico studioso italiano, è stato chiamato dalla Cambridge University a far parte del gruppo internazionale di esperti che ha lavorato al Companion to Giotto. Zanardi mette ora a confronto, nel volume Il restauro (Skira, 230 pagine, 32,00 euro), le teorie dei suoi «maestri», Giovanni Urbani e Cesare Brandi, analizzando anche quanto c’è di complementare e quanto di distante tra questi due studiosi. Tutto di complementare e molto di distante, si scopre nel libro. Infatti, secondo l’autore, se il lavoro di Urbani presuppone il contributo fondativo dato da Cesare Brandi al restauro, è anche vero che Urbani si è ben presto mosso verso una storicizzazione del lavoro di Brandi. Più in dettaglio, si può dire che per Brandi il restauro è un problema critico ed estetico da valutare caso per caso. Per Urbani il tema del restauro va invece spostato al patrimonio artistico inteso come insieme. Da qui il passaggio che Urbani compie dal restauro alla conservazione. La conservazione del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente.

B

Il libro è molto documentato e preciso. E l’autore è stato spinto da una chiara motivazione in questa impresa editoriale che - come si scopre leggendo il volume è quella di voler conservare la memoria dell’impegno civile e culturale sotteso al lavoro di Brandi e di Urbani. Una memoria che, in particolare per Urbani, rischiava di perdersi insieme al profondissimo fondamento teorico del suo pensiero (Urbani fu uno dei primi lettori in Italia, già negli anni Cinquanta, di Heidegger, che leggeva in francese non essendo ancora tradotto da noi e non conoscendo il tedesco). Una memoria che rischiava di perdersi insieme al decisivo contributo tecnico-scientifico e organizzativo dato da Urbani alla conservazione del patrimonio artistico, intesa come attività di prevenzione dai rischi ambientali (sismici e idrogeologici ad esempio). E ancora, perdersi insieme all’enorme portata innovativa - tuttavia del tutto misconosciuta anche oggi - del suo intendere il patrimonio artistico come componente ambientale antropica altrettanto necessaria, per il benessere dell’uomo, delle componenti ambientali naturali: arrivando così a concepire una speciale «ecologia culturale» mai fondata, va sottolineato, su temi demagogici o ideologici, «verdi» per intenderci, bensì sulla consapevolezza dell’inevitabilità delle

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ALTRE LETTURE

UN SOGNO “EUROPEO” PER MIGLIORARE L’ITALIA di Riccardo Paradisi

ognando l’Europeo (Rubbettino, 175 pagine, 14,00 euro) è una raccolta di saggi brevi dove Emilio Tarditi tratta argomenti che vanno dalla storia all’economia, dalla letteratura alla sociologia, dalla politica al giornalismo. Il titolo vuole essere un omaggio allo storico settimanale che, negli anni della prima formazione intellettuale dell’autore, contribuì a migliorare lo stile e i contenuti della sua scrittura. Oggi, il significato della parola «europeo» nella sensibilità interpretativa dell’autore non corrisponde più a un sogno di scrittura di fine gusto letterario, bensì a un augurabile cambiamento del costume e della mentalità degli italiani, su cui pesa ancora il giudizio di Giacomo Leopardi che li ritiene non capaci di veri costumi (cioè di vera moralità), ma solo di abitudini.

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A lezione

di restauro da Brandi e Urbani Bruno Zanardi mette a confronto le teorie dei due principali artefici della conservazione del patrimonio artistico in Italia, complementari e distanti. E mette all’indice la politica ministeriale degli ultimi quarant’anni, troppo sensibile al particolare e troppo poco all’insieme di Rossella Fabiani trasformazioni territoriali (urbanistiche e infrastrutturali) di qualsiasi paese moderno sotto la spinta di dinamiche socio-economiche. Trasformazioni da sfruttare come occasioni di sviluppo compatibile, cioè di una composizione razionalmente programmata, perciò armonica, di azioni tra loro apparentemente antinomiche quali conservazione e sviluppo. E facendo di quella composizione la premessa per un progresso della società civile. Di Brandi e Urbani, Zanardi ricorda il rapporto di stima e di affetto che li ha sempre legati. E anche la capacità di Brandi di restituire in parole le emozioni estetiche destate da un’opera d’arte e la straordinaria acutezza del pensiero di Urbani a cui si univano doti altrettanto straordinarie e tra loro opposte: da una parte, un leggendario uso di mondo, che ne faceva uomo di grandissima eleganza e simpatia, dall’altra una completa riservatezza sul suo lavoro di studioso.

In questo momento di crisi che sta attraversando l’Italia, sono tanti i tagli alle spese: alcuni giusti, altri invece sono colpi mortali alla cultura e al nostro patrimonio artistico. Secondo Zanardi i tagli alle spese sono un argomento troppo spesso usato in senso demagogico a conferma del generale dilettantismo del settore ministeriale, ma anche di chi ne parla. L’autore, infatti, evidenzia come il Ministe-

ro dei Beni Culturali dal 1974 a oggi ha accumulato decine, se non centinaia di milioni di residui passivi, cioè denari accreditati e non spesi. E allora lo studioso si chiede a che cosa servirebbero altri soldi in questo settore: per continuare a eseguire restauri estetici di singole opere, la cui necessità si basa su soggettivi giudizi estetici formulati all’impronta, come dimostra il sempre più frequente intervenire su opere già restaurate più volte? Restauri che colgono risultati conservativi che nel migliore dei casi lasciano inalterate le condizioni di partenza del manufatto su cui s’interviene. Oppure quei soldi servirebbero per una radicale inversione di tendenza delle politiche di tutela? Vale a dire per l’attuazione di politiche che finalmente non vedano più nel patrimonio storico e artistico una somma di singole opere da restaurare una per una, bensì una totalità indissolubile dal suo contesto storico, ambientale, naturale, paesistico e urbano? Una totalità, perché - secondo Zanardi - è soltanto sul piano dell’insieme che la scienza (economica, chimico-fisica, storico-artistica) può venirci incontro, essendo quello il terreno su cui già si muove per suo conto. Il rapporto indissolubile con l’ambiente, tanto da esserne divenuto una fondamentale componente qualitativa, è la caratteristica peculiare del nostro patrimonio storico e artistico. È per questo che la principale forma per valorizzarlo è conservarne o ripristinarne, dove ciò sia ancora possibile, la sua caratteristica ambientale, non certo organizzare istericamente mostre o simili caduchi ripetitivi eventi.

PICCOLI TIRANNI CRESCONO COLPA NOSTRA? *****

ambini che al supermercato si gettano a terra urlando; che scoppiano a piangere e non la smettono più appena gli si dice di «no»; che sputano agli insegnanti; che sgridano i genitori… Questi e altri comportamenti dispotici o prevaricatori dipendono, secondo Michael Winterhoff - uno psichiatra tedesco di fama internazionale - dal fatto che i bambini vengono spesso trattati come individui alla pari. Le conseguenze di questo atteggiamento, come spiega Winterhoff in Figli o tiranni? (Tea edizioni, 176 pagine, 9,00 euro) possono essere disastrose, perché portano alla progressiva caduta dei confini tra bambini e adulti, di quelle strutture forti - regole e punti fermi - che garantiscono un sano sviluppo della psiche dei piccoli. Soltanto trattando i bambini come tali - questa la tesi centrale del libro - è possibile garantire loro una crescita positiva.

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VERRÀ L’APOCALISSE E AVRÀ I TUOI OCCHI *****

a visione apocalittica della storia di Gioacchino da Fiore (1135-1202) affonda le proprie radici nella tradizione cristiana, fino all’Apocalisse di Giovanni, il libro che Gioacchino considera la chiave per decifrare l’intera Bibbia. Benché numerose opere abbiano trattato dell’influsso dell’abate calabrese, poche hanno tentato di determinarne la posizione nella storia del pensiero come L’abate calabrese, lo studio di Bernard McGinn su Gioacchino da Fiore nella storia del pensiero occidentale (Marietti 1820, 264 pagine, 23,00 euro). McGinn colloca questa straordinaria figura sullo sfondo dell’ambiente storico e dei precedenti dottrinali per poi intraprendere un’accurata analisi della sua teologia simbolica attraverso lo studio dei principi esegetici, della dottrina trinitaria e della teologia della storia.

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di Enrica Rosso on erano sufficienti i quattrocento testimoni che hanno assistito la scorsa primavera alla rappresentazione avvenuta a San Pancrazio, la sua casa fucina in Umbria, a liquidare I Demoni, ultima monumentale creazione del Maestro Peter Stein. Dodici ore di maratona teatrale a replica (dalle11 alle 23), scandite da tre pause brevi, più il pranzo e la cena da consumare insieme spettatori e attori «a dar luogo a una vera comunità teatrale». Venticinque attori in scena, tutti italiani, oltre allo stesso regista nel ruolo di Padre Tichon. Il musicista Arturo Annechino che firma le musiche originali e le esegue dal vivo al pianoforte con Giovanni Vitaletti e Massimigliano Gagliardi. Dodici spazi teatrali, spesso inediti, per un massimo di cinquecento spettatori a rappresentazione «perché ci vuole intimità», allestiti appositamente. Venticinquemila chilometri da percorrere per raggiungere le dodici città che ospiteranno l’evento, di cui sette italiane e cinque internazionali. Un’operazione titanica che ha richiesto una mole di lavoro notevolissima e altrettanta pazienza, dopo la rottura con il Teatro Stabile di Torino, per misurarsi con una forma compiuta e la realtà di un tour mondiale che debutta in grande stile oggi, a Milano, nel ventre dell’Hangar Bicocca. Riaperto dopo un periodo di restauro, l’ex spazio industriale, ora luogo di sperimentazione artistica multidisciplinare, si sviluppa su quindicimila metri quadrati dipinti di blu scuro e protetti da un argenteo guscio. Dietro i numeri, le realtà produttive di Teatro Stabile di Innovazione di Milano, in collaborazione con Napoli Teatro Festival Italia, oltre a Wallenstein Betriebs-GmbH Berlin dello stesso regista. Già incoronato dal Premio Ubu come miglior spettacolo del 2009, il testo è stato adattato per il teatro dal pluripremiato regista berlinese partendo dai precedenti di Camus, Casdorf, Dodin e Wajda rielaborati e arricchiti dai molti dialoghi presenti nell’originale dostoevskijano ripensati per la scena. Una scenografia essenziale e la recitazione di ispirazione cinematogra-

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Televisione

Teatro

MobyDICK

spettacoli DVD

I Demoni

secondo Peter Stein

LE MILLE E UNA STORIA DEI BIMBI DEPORTATI ove mesi prima che la seconda guerra mondiale deflagrasse in tutta la sua drammaticità, diecimila bambini, in prevalenza ebrei, furono messi in viaggio dalla Germania verso l’Austria, la Cecoslovacchia e l’Inghilterra dai loro genitori. Una diaspora, nota come kindertransport, che è passata sotto silenzio per molti anni. Mark Jonathan Harris rievoca le commoventi pagine di quel trasloco forzato nel suo La fuga degli angeli, documentario che racconta le mille e una storia di questi bambini e le tristi costanti: le famiglie affidatarie, i tentativi di ricongiungimento coi propri cari, l’eco delle persecuzioni naziste. Tenero e inquietante.

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CONCERTI

FABIO CONCATO CANTA PER IL KENIA fica vicina alla scuola russa, sono le due cifre fondamentali della messa in scena. La scelta del testo - «il romanzo più politico di Fëdor Dostoevskij» - è guidata dal desiderio di focalizzare il male del secolo attraverso il confronto di due generazioni profondamente diverse. I padri, colti ma perdenti perché poco combattivi, accomodati nelle loro convinzioni, e i figli, assestati ognuno a suo modo nell’indifferenza di un presente ideologicamente svuotato. Un evolversi inquieto, che perde consistenza e memoria, disintegrando le vecchie certezze per sostituirle con una realtà sradicata. Un atteggiamento molto vicino al vissuto odierno. Tutt’intorno un turbinio di incontri, amori, mondanità, insomma la vita in tutte le sue infinite sfaccettature. Dopo le date di

Vienna e Amsterdam, il 19 e il 20 giugno la compagnia si trasferirà alla Ex Birreria Miano di Napoli, il 26 e 27 sarà al Palazzetto dello Sport di Ravenna, proseguirà per Atene e New York (dove è stato fatto registrare il sold out nel giro di tre ore) per poi tornare in settembre a Parigi e il 2 e 3 ottobre all’Auditorium di Roma (a cui seguirà dal 4 all’8 - iniziate ad appuntarvelo - Faust-Fantasia, melologo da concerto con Peter Stein protagonista assoluto del palco) e poi ancora Pordenone, Reggio Emilia e a fine ottobre, nonostante tutto, al Teatro Astra di Torino indicato per il debutto dell’anno precedente.

I Demoni di Peter Stein, prima tappa 22-23 e 29-30 maggio a Milano, Hangar Bicocca, Info 02.36592544 www.idemoni.org

er iniziativa di Popi Fabrizio, nasceva tre anni fa Karibuvillage, progetto umanitario nato per aiutare gli abitanti del villaggio keniota di Chakama. Oggi, il piccolo paese africano vicino all’oasi di Malindi, ha già un asilo, insegnanti di supporto e luce elettrica. Merito di molti musicisti italiani che si sono dedicati alla causa. In primis Fabio Concato. E proprio il cantautore milanese inaugura nella sua città Africa, parole e musica, kermesse di beneficenza al via a piazza Cantore martedì 25 maggio, con un recital che lo vedrà accompagnato da Ornella D’Urbano alle tastiere e Larry Tommasini alle chitarre.

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di Francesco Lo Dico

Pupe e secchioni, il peggio della rete “giovanile” hi ha la pazienza o la curiosità di seguire questi commenti o segnalazioni sui programmi televisivi, sa che chi scrive - come milioni e milioni di italiani - è nauseato dal tono trash che impera oggi. Lo ascrivo alla mancanza di fantasia, alla caduta verticale del buon gusto, al serpeggiare nella società italiana del voyeurismo, all’imposizione da parte della pubblicità e delle cosiddette tv commerciali (Canale 5 come spiegazione e insieme origine di tanta ottusità sociale?), alla non cultura dilagante, alla cultura pensata come palcoscenico della noia, al mancato stimolo degli insegnanti nell’affrontare quella materia grezza, e già inquinata dall’ambiente urbano o suburbano, che è l’adolescenza. Solo adolescenza? Quanto dura questa età del vuoto che immediatamente diventa griffe o del suono che stenta a diventare frase compiuta? A osservare la televisione, direi fino a quarant’anni. I cinquantenni e gli ultra-

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di Pier Mario Fasanotti sessantenni probabilmente si sentono gratificati in quanto guardoni. O, più teneramente, ricordano o rimpiangono un passato, vero o immaginario. Italia 1 (rete «giovanile» di Mediaset) manda in onda lo spettacolino La pupa e il secchione. Un confronto tra maschi imbranati (ci sono o ci fanno? Più probabile la seconda ipotesi) e ragazze disinibite con tanta voglia di coniugare la libertà ideologica con il togliersi il reggipetto. Le «pupe» sono, in tutto il loro splendore corporale, il metronomo del fallimento del femminismo più intelligente e meno radicale. Qualcuno pensa ancora che siano «oggetti». Ma via! Sono solo felici di diventare soggetti, e pure dominanti. Le armi? L’abbondanza della carne, l’armonia delle forme, la seduzione intesa sempre come malizia, la consapevolezza di essere finalmente «regine». Su Italia 1 va in onda, verso mezzanotte, La pupa hot - Il ritorno. In

pratica, la sintesi filmistica degli scherzi e delle «punizioni» inflitte agli uni e alle altre. Procediamo con l’avvertenza di non fare commenti (oggi scansiamo il superfluo). Sullo sfondo c’è una bella casa in stile Novecento con bellissimo parco. Potrebbe essere in Toscana o in Lazio. Apprendiamo il nocciolo della «punizione»: tornare tutte a casa in mutande. No, non si può fare. In coro: «Ma noi le mutandine non le portiamo mai!». Il rimedio è dietro l’angolo: via il reggiseno. Una mulatta sudamericana alza le braccia al cielo e lancia gridolini liberatori. Dalla regia tale Pasqualina commenta con gravità: «I secchioni hanno pensato bene di farci camminare con le tette all’aria». Rivolta al secchione-commentatore, un chimico «che non ha mai fatto l’amore», aggiunge: «A me star nuda piace». Inespressiva riprovazione di lui. Reazione di lei: «Ma se mi vedi sempre senza vestiti! Mi dici

che ormai mi conosci a memoria!». Lui, nel forzoso ruolo dell’imbarazzo, dice la cretinata para-poetica: «Ma io ti immagino…». Altra scena-punizione: un ragazzo steso sul letto. Ha solo i boxer. Quella di turno scrive frasi e disegna cuoricini con la panna spray sull’intero corpo della vittima. Entra poi un’altra «pupa» che ha il compito di pulirlo con la lingua. La stessa, in regia, fa poi la sua confessione: «Mi è piaciuto molto, adoro la panna e il cioccolato, non sono mai sazia. E poi a me leccare piace». Marysthell Garcia, 27 anni («sono giovane dentro»), è attorniata da cinquesei ragazzi. Inchiesta sulla sua vita. Quale? Ma che domanda! Le misure, i fidanzati, il sesso. La «pupa» sdraiata sulla chaise-long pronuncia una frase che probabilmente ha studiato a lungo: «Meglio cento giorni da pecora che uno da leone». Chi vuol capire capisca (sic). Breve annotazione: gli stacchi pubblicitari erano molto interessanti.


MobyDICK

poesia

22 maggio 2010 • pagina 21

La musica in versi del Tasso amerata Cornello è un paesino di 630 abitanti dell’alta Val Brembana che dall’Unità a oggi non ha mai contato più di 1200 abitanti e che puoi raggiungere solo a piedi. Lì ebbe origine una famiglia che dal XIII secolo in avanti acquisì il monopolio dei servizi di corrieri postali. La loro abilità nel recapitare la corrispondenza tra Venezia e le principali città d’Italia, in particolar modo con Milano e Roma, non fece che accrescere la loro fama, tanto da essere investiti quali corrieri ufficiali della corrispondenza del Papa. E fu un tal Giovan Battista de Tassis a recare a Carlo V la notizia dell’avvenuta elezione a imperatore. Andar lì, in quel piccolo borgo, significa poter visitare le rovine del Castello dei Tassi o il Museo della famiglia Tasso o pensare che Torquato Tasso possa esser nato là. Ma il grande poeta della Controriforma, figlio di Bernardo e di Porzia de’ Rossi, nobildonna toscana, è nato a Sorrento nel 1544, essendo allora il padre al servizio del principe di Salerno Ferrante Sanseverino. Da ragazzo Torquato viaggiò molto con l’amatissimo genitore: Urbino, Venezia, ma soprattutto Napoli dove i gesuiti lo educarono e dove cercherà, molto avanti negli anni, un rifugio alla sua insania mentale. E poi le aristoteliche Padova e Bologna tra il 1560 e il 1565, fino ad approdare a Ferrara in occasione delle nozze di Alfonso II d’Este e al seguito dell’immancabile fratello cardinale, Luigi. Il periodo alla corte degli Estensi è stato certo quello biograficamente più felice, poi il tormento si è impadronito del suo animo arrivando a consumarlo inesorabilmente giorno dopo giorno fino al 25 aprile 1595 quando si spense a Roma, poco prima di ricevere l’agognato alloro di poeta in Campidoglio per volere del pontefice.

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di Francesco Napoli

Soavissimo bacio, del mio lungo servir con tanta fede dolcissima mercede! Felicissimo ardire de la man che vi tocca tutta tremante il delicato seno, mentre di bocca in bocca l’anima per dolcezza allor vien meno! Torquato Tasso dalle Rime

Ma se queste sono le tracce più lampanti del poema, sottotraccia si addensano un nugolo di ulteriori significati sotterranei: eroismo, religiosità e magia si dispongono al di sotto dei singoli canti e delle ottave fondate su uno stile e un linguaggio del tutto originale. Con l’intreccio tra disgiunzione e ripetizione («parlar disgiunto» diceva a riguardo Della Casa) Tasso crea una ricca gamma di effetti, svela tutte le capacità foniche e visive del linguaggio a cui attribuisce echi e baleni che si spingono in ogni direzione. Nel corso della sua esistenza Torquato Tasso fu prodigo, tra l’altro, anche nella composizione, di liriche per quasi ogni circostanza, ma nelle sue Rime ci si avvede come sia assente un centro. I componimenti, infatti, ruotano intorno a un’unica esperienza presa a modello ma di fatto seguono indirizzi molteplici, come ci segnala anche la distinzione voluta dall’autore stesso tra rime d’amore, rime encomiastiche e rime religiose. La novità più interessante della sua produzione lirica è la musicalità - ai suoi versi si accompagna la musica di tanti compositori coevi, come Gesualdo da Venosa spesso originata da situazione sentimentali elementari o da figure naturali semplicissime dalle quali ricava echi dolci e leggeri, movimenti percorsi da una sognante affettività. E tra i madrigali d’amore forse quello qui riportato «Soavissimo bacio», di ispirazione dantesca se si vuole, è l’emblema del continuo intreccio di quelle sonorità diffuse per le quali «se la poesia è fattura di ritmi e di accordi, il Tasso ha toccato i limiti della civiltà letteraria» (Battaglia).

Le vicende umane di Torquato Tasso hanno dato spunto a un vero e proprio «mito biografico» trattato da Goldoni in una sua commedia a Donizzetti in un’opera lirica, ma pure da Goethe in un dramma in cinque atti dalle tinte forti come da Giacomo Leopardi in una delle più esemplari Operette morali («Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio famigliare») e da George Byron nel Lamento del Tasso. Un mito forse originato anche dalla stessa concezione tassiana della letteratura. Infatti, egli assegnò all’attività letteraria un valore assoluto facendone il luogo del supremo riconoscimento di sé. In Tasso la creazione poetica si connette strettamente alla riflessione critica e teorica: la sua scrittura cerca sempre di confrontarsi con schemi programmatici e norme generali, così come possiamo già leggere nelle giovanili carte del Discorso dell’arte poetica sopra il poema eroico, pagine molto legate alle prime fasi della costruzione della Gerusalemme liberata. L’autore sembra avere una sua fissazione a riguardo: il passaggio del romanzo cavalleresco della tradizione ferrarese, Orlando innamorato di Boiardo e Orlando

il club di calliope

furioso dell’Ariosto, a poema eroico moderno fondato sui canoni dell’epica classica. Parte allora da un presupposto di poetica e cioè che la poesia è «imitazione» delle azioni umane e affronta il nodo della scelta della materia del poema sulla base di uno stretto rapporto tra poesia e storia, tra vero, verisimile e meraviglioso. Resta per lui al fondo, però, almeno nella prima parte della sua attività, l’idea che il fine intrinseco della poesia sia comunque il «diletto» e quindi al vero e al verisimile va aggiunto un bel po’ di meraviglioso. Un meraviglioso a cui Tasso associa un aggettivo molto significativo per gli anni della composizione della sua Liberata, e quindi tra 1559 e 1575 e fino alla pubblicazione del 1581: «cristiano», un attributo sintonico con l’era della Controriforma pienamente in atto. Molteplici i temi che si possono ricavare dalla lettura di questa magistrale opera: quello della Crociata, la centralità della città santa, l’opposizione rigida e contrapposta di mondi e valori, il tutto immerso in uno schema sostanzialmente tragico del divenire e con un disegno psicologico dei personaggi, maschili e femminili, di sorprendente modernità, oltre che nitore. Goffredo di Buglione, Rinaldo, Tancredi e gli eroi, a modo loro, pagani; e poi Clorinda, Armida ed Erminia.

L’INNOCENZA COME REGOLA DI VITA in libreria

MEMORIA

di Loretto Rafanelli

Chissà se i miei gesti nella casa - aprire la porta del bagno per buttare i tuoi vestiti nella cesta, riaccendere la luce della cucina e poi spegnerla di nuovo dopo aver innaffiato i fiori sul balcone chissà se questo che tu ascolti prima di dormire sarà un giorno la tua memoria favolosa come lo è per me lo scorrere dell'acqua nella cucina fredda all'alba - quando mio padre si alzava per andare a lavorare e quelle voci che pianissimo si articolavano nel silenzio. Alba Donati

an Twardowski (1915-2006) è oggi il poeta più letto e amato della Polonia, straordinario continuatore della tradizione polacca di poeti-sacerdoti. Ora, per la prima volta è tradotto in Italia con l’antologia Affrettiamoci ad amare (Marietti, 120 pagine,14,00 euro). La sua scrittura è alimentata dallo stupore, quello stupore che caratterizza anche la sua profonda fede. Egli ci dice che bisogna credere e vivere «come un bambino», e fare della semplicità e della trasparenza la propria linea di vita. Sia nella poesia che nella fede; così che lirica e amore divino siano una unica cosa. La sua poesia diviene un messaggio sulla pienezza della vita, sulla gioia delle mille elementari offerte che la natura ci regala, sul superamento dell’ossessione del tempo e della morte, «momento di speranza massima». Una poesia che dialoga con Dio, con Cristo e con la gente comune, quasi a voler essere un tramite tra questi. E nella francescana forza dell’amore la sua voce ci dice: «piccole e grandi infelicità indispensabili per la felicità/ tu dalle cose semplici impara la serenità».

J


Fantascienza

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e le vie della Provvidenza sono infinte, quelle dell’editoria nondimeno, in più sono del tutto impreviste. E così capita che due romanzi scritti tempo fa a diversi anni uno dall’altro, escano invece adesso quasi contemporaneamente: una bella soddisfazione per un autore che ha all’improvviso una doppia ribalta e due pubblici diversi per farsi apprezzare, dopo venticinque anni di carriera iniziata pian piano, senza forse i clamorosi prosceni amati da altri, ma al motto nullo die sine linea accumulando una esperienza di narratore e critico invidiabile, dove la quantità non sta a scapito della qualità.

S

Errico Passaro, questo il suo nome, è stato un appassionato di narrativa non-mimetica sin da ragazzo: infatti nel 1985, ad appena 19 anni, giunse in finale al Premio Tolkien con il breve romanzo orrorifico-dannunziano Il delirio, pubblicato poi in un volume collettaneo dall’editore Solfanelli. È quindi apparso con articoli e racconti un po’ dappertutto, ha curato per una decina d’anni una pagina domenicale sul fantastico per il Secolo d’Italia, ha partecipato a molti altri concorsi piazzandosi ai posti d’onore, ha pubblicato una serie di romanzi: Nel solstizio del tempo (con R. Genovesi, Keltia, 1992), tra mito e fantasia; Gli anni dell’Aquila (Settimno Sigillo, 1996), una ucronia che meriterebbe dopo un quindicennio di essere rivista e ampliata; Le maschere del potere (Nord, 1999), romanzo fantastico edito, tagliatissimo, dall’editore, che anch’esso meriterebbe di essere ripreso; Il regno nascosto (con G. Marconi, Dario Flaccovio, 2008), una lunga storia dedicata alla stirpe dei nani inserita nel filone tolkieniano. Insomma, una rivisitazione di quasi tutti i generi che si comprendono sotto la definizione di «Immaginario». E ora è la volta di questa doppietta: Zodiac, una storia di fantascienza uscita sul numero di aprile di Urania; e Inferni, un romanzo tra orrore e religione appena pubblicato da Bietti, una casa editrice che sta dimostrando un interesse piacevolmente sospetto per la narrativa non-realistica. I due titoli permettono un esame per così dire comparato di come Errico Passaro si muova nella science fiction e nel fantasy/horror, e di quali siano le linee di tendenza della sua narrativa. E questo diciamolo subito, anche se Zodiac dà l’impressione immediata di essere un testo abbondantemente sforbiciato per poter entrare nelle pagine standard di una collana da edicola, per di più abbinato a un altro, che lo ha nella sostanza ridotto a un ro-

MobyDICK

ai confini della realtà

Prigionieri

delle stelle

(e altri Inferni) di Gianfranco de Turris manzo quasi di pura azione, da romanzo di idee quale doveva essere inizialmente.

Che idee? Niente di più e niente di meno, se vi pare poco, una lunga elaborazione in forma di fantascienza sul libero arbitrio e la libertà individuale degli esseri umani sottoposti a una dittatura… deterministica. Sì, perché a Errico Passaro non mancano affatto le idee originali e coraggiose immaginando nel suo romanzo che in un futuro lontanissi-

prio segno zodiacale e vive in quartieri appositi: il protagonista si chiama Florian G. che sta per Gemelli, ad esempio. Non solo, i bioritmi, per così dire, sono cambiati: si vive di notte sotto l’influenza delle stelle, e si dorme di giorno; non si sa nulla del passato e della esplorazione dello spazio: le stelle sono simboli astrologici, non corpi reali; e così via di stranezza in stranezza. Ma a un certo punto succede qualcosa, vale a dire che Florian, nientemeno che il capo della polizia politica, si

Età dell’Acquario: l’umanità è sotto il giogo del Consiglio dello Zodiaco che nega il libero arbitrio e regola la vita dei cittadini secondo gli oroscopi. Ma un giorno Florian... È lo scenario di un racconto di Errico Passaro, autore anche di un romanzo il cui eroe agisce in un Aldilà Molteplice mo - quello dell’Età dell’Acquario l’umanità sia sotto il giogo del Consiglio dello Zodiaco che niente altro è se non l’espressione umana di un megacomputer che ogni santo giorno elabora gli oroscopi dei cittadini e a ognuno di essi fa pervenire a casa un bollettino con le indicazioni per le prossime 24 ore. La popolazione è suddivisa a seconda del pro-

rende conto che in lui si agita qualcosa di nuovo, scopre di essere un «tipo puro» dei Gemelli e di potersi sottrarre all’influsso del Consiglio; si unisce a un gruppo di ribelli e, nonostante questi siano stati messi in scacco, riesce a raggiungere il megacomputer che in sostanza è lo Zodiaco e, sacrificandosi, a distruggerlo. Un eroe che si accorge di essere

«diverso» e che combatte «uno contro tutti», alla fine raggiungendo il suo scopo e modificando in meglio la storia dell’umanità. Non di meno, anche se con altre particolarità, è Corrado Marziali di Inferni, il quale a differenza di Florian è però un eroe morto! Infatti, defunge la notte di Capodanno del 1995 per ritrovarsi in un aldilà a tutti inimmaginabile: scopre ad esempio che non esiste un solo Inferno ma tanti inferni quante sono le religioni, le sette e le eresie dell’umanità; e che in questo Aldilà Molteplice ci sono i «cacciatori di anime» che si contendono quelle dei defunti: non tutte però, non quelle dei credenti che vanno subito alle loro destinazioni, ma quelle degli agnostici che in nulla credevano in vita, proprio come lui.

Ma, in questa nuova via, se così si può dire senza cadere in contraddizione, il vecchio Marziali, quasi a voler riscattare i lati negativi della precedente, si scopre diverso e dopo aver attraversato le brutture dell’Inferno di Dio che sono una replica di quelle terrene con i suoi topoi (il Grattacielo, l’Ospedale, la Megacasa, la Discoteca «summa dell’Inferno» ecc.), s’impone al suo «cacciatore» che gli fa da guida e capovolge la situazione: come Lucifero è andato all’assalto del Paradiso rimanendone sconfitto e precipitando nell’Abisso, così Marziali (nomen omen) va all’assalto di Satana, questa volta avendo la meglio sulle sue schiere grazie all’appoggio degli altri Inferni, ma con il dubbio prima, e poi la consapevolezza di «essere stato utilizzato» dall’Onnipotente e poi «messo da parte» con i propri rimorsi. Governerà l’Inferno di Dio, ma proprio questa sarà la pena cui è stato destinato in eterno per l’ignavia della sua vita terrena. Passaro si è dunque immaginato due protagonisti che affrontano con il medesimo scopo - ancorché in maniere diverse e con risultati diversi - entità enormemente più grandi di loro alla fine sconfiggendole, Davide contro Golia: Florian G., manovrato insieme ai «dissidenti» ma non oltre un certo punto, muore dando il via a un nuovo inizio per la collettività umana governata dallo Zodiaco e senza libero arbitrio; il vecchio Corrado Marziali, anche lui manovrato ma sino alla fine, regnerà sull’Inferno cristiano credendo di poter far qualcosa di nuovo ma dovendo arrendersi a un «Dio che si distingue così poco dai modi del Maligno» rientrando nell’eterna routine. Entrambi, però, nel futuro e nell’aldilà hanno le stesse caratteristiche: il coraggio, la determinazione, il disinteresse personale.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando,Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza

Bisogna ripristinare le agevolazioni fiscali della Tremonti-ter Bisogna adottare le opportune misure che possano ripristinare le agevolazioni fiscali introdotte dalla cosiddetta “Tremonti-ter”, per l’acquisto di nuovi macchinari e nuove apparecchiature compresi nella divisione 28 della tabella Ateco, ordinati fino al 31 dicembre 2010 e consegnati nei diciotto mesi successivi all’ordine. Il decreto legge in esame ha il fine di sostenere la domanda in particolari settori industriali e favorire la ripresa economica del Paese. Il provvedimento intende anche incoraggiare gli investimenti attraverso l’introduzione di apposite agevolazioni fiscali atte a favore le imprese che operano in determinati comparti industriali. La ricerca e l’innovazione tecnologica rappresentano per molte aziende una grande opportunità di sviluppo.

Sarah Ostinelli

IL CENTRO DEL CENTRO DEL CENTRO Egregio Desiderio, Lei dice: «(Berlusconi) provi a fare lo statista, magari dopo quindici anni gli riesce». È già da un pezzo che Berlusconi, con tutte le sue gaffes e i suoi difetti, si è affermato come il solo leader e il solo statista che l’Italia abbia conosciuto nella sua storia recente. È difficile capire come qualcuno possa ancora riuscire a negarlo. È veramente commovente osservare una piccola pattuglia di democristiani, eredi di una Dc che tanto ha da farsi perdonare dal Paese, ostinarsi a mantenere il partito in una surreale politica di centro, una politica contro natura (elettori docent) e fuori del tempo (nessuno li segue). Che piaccia o no ai pochi eredi di un sistema di potere (quello irripetibile della Dc), oggi la politica non può concepirsi, e ancor meno praticarsi in altro modo che nel bipolarismo e nel federalismo. Lascia veramente stupefatti l’ostinazione di un gruppuscolo politico a voler fermare l’evoluzione della storia e la direzione ormai irreversibile che essa ha preso. Invece di continuare a “guardare a sinistra” (con lo lo sguardo e per tattica, non con il cuore) e a sognare inattuabili ammucchiate, suscettibili tutt’al più di un po’ di benevole ironia, essi farebbero bene a rendersi conto dei cambiamenti avvenuti e trarne le necessarie conseguenze. Forse la piccola corte dei seguaci di una politica che appar-

tiene al passato e che gli italiani considerano archiviata per sempre non s’è ancora accorta del cambiamento considerevole e irreversibile che l’avvento di Berlusconi ha introdotto nel Paese. Di questa incapacità di valutare l’uomo e di capire il proprio tempo, tuttavia, non può esser reso responsabile Berlusconi che le prove di statista non solo le ha già date, ma le ha date in abbondanza. Ma di questa incapacità di capire l’evoluzione dei tempi e adattarsi ad essa, è sola responsabile la cecità intellettuale e la spocchia sterile di un gruppetto di nostalgici che incapaci di vivere al presente e di dare il loro contributo alla vita politica, si sono sdegnosamente rifugiati su un Aventino sul quale rischiano brutto di invecchiare e di morire, nella speranza folle che un giorno o l’altro gli italiani rinuncino alle loro profonde convinzioni politiche e si convertano al Centro del Centro del Centro.

Carlo Signore

Resta da capire perché lo statista faccia la corte al centrista. g.d.

INELEGGIBILITÀ PER CONDANNATI IN STATUTO PDL Crediamo che in questo momento il Pdl, come partito di maggioranza e guida del Paese, sia chiamato a dare un segnale forte anche al suo interno. Per ciò concor-

L’IMMAGINE

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KIEV. È una battaglia un po’ zigzagante quella del governo ucraino contro l’abuso di alcolici nel Paese. A gennaio era entrata in vigore la nuova legge che prevedeva restrizioni per quel che riguarda il consumo di alcolici a bassa gradazione (fino a 8,5 gradi) nei luoghi pubblici, dai trasporti ai giardini pubblici, ora alla Rada è stato invece respinto un nuovo emendamento che prevedeva il divieto anche sugli aerei. Netta la presa di posizioni dei deputati, che in massa e trasversalmente, hanno bocciato la proposta con un inequivocabile 422 a 1. Insomma, si continuerà a potere bere birra sopra i cieli ucraini, ma si dovrà evitare se si gira in treno, in bus e a piedi nei parchi. Il giro di vite contro alcolici di ogni genere, non solo quelli leggeri, è cominciato ormai da qualche tempo, già con la Tymoshenko al governo e prima del passaggio di consegna ad Azarov. All’inizio dell’anno sotto il vecchio governo è iniziato il divieto di fare pubblicità a bevande alcoliche su giornali e quotidiani e di vendere birra ai minorenni, un paio di settimane fa il nuovo gabinetto ha annunciato di voler aumentare drasticamente la tassa sui superalcolici con lo scopo di rimpolpare le casse dello Stato e scoraggiare l’abuso di vodka.

diamo pienamente con la proposta, lanciata dal ministro Meloni, di inserire nello statuto del partito una clausola che impedisca la ricandidatura dei politici condannati in via definitiva per reati di corruzione. Si tratta naturalmente di una proposta che si andrebbe ad affiancare al decreto anti-corruzione, che va rafforzato e approvato in tempi celeri. Una garanzia in più a disposizione del Pdl per coniugare in modo concreto la linea giustamente indicata dal presidente Berlusconi: severità di giudizio nei confronti di chi fa politica e ha responsabilità pubbliche, trasparenza delle procedure e garantismo contro i linciaggi mediatici. Riteniamo che una semplice ma ferma regola di questo tipo non possa che rafforzare il Popolo della libertà il quale, va ribadito con forza, è composto da moltissime persone che con onestà e dedizione lavorano ogni giorno per il bene del Paese. Non è ammissibile che i comportamenti di pochi ingenerino nell’opinione pubblica l’idea di una politica diffusamente corrotta e connivente. Il centrodestra ha condotto battaglie storiche in nome della legalità. Oggi dobbiamo dimostrare che questa battaglia è il primo valore del Pdl.

L’ARCA DELL’ALLEANZA

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Kiev lotta con la vodka. Inutilmente

Barbara e Paola

Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 18278817

e di cronach

LE VERITÀ NASCOSTE

Lutti in maschera L’uomo che vedete ha subìto un lutto. Nel suo paese, l’isola di Nuova Irlanda in Papua Nuova Guinea, i cari si commemorano con maschere di legno intagliate a mano: le malagan. Per ogni lutto gli uomini del posto ne realizzano diverse dai tratti antropomorfi, animaleschi (serpenti, coccodrilli, cani, pesci) o simbolici (Sole, Luna)

Franceschini afferma di essere pronto pronto a un governo straordinario che tenga fuori la destra di governo. È un’assurdità che è meglio non commentare, anche perché nel contempo l’opposizione strizza l’occhio a tutti coloro che non possono entrare nella attuale coalizione di governo, nella speranza che si formi un’Arca di Noè: speriamo che questa volta vada in una isola sperduta dove bisticciare senza fare danno al Paese.

Bruno Russo


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Storie. Dopo gli scontri etnici del 2008, il governo cinese impone di denunciare Tenzin Gyatso. Non tutti obbediscono

L’ultimo dei tibetani L’abate del monastero buddista di Wara non tradisce il Dalai Lama e sfida Pechino di Vincenzo Faccioli Pintozzi embra strano, a immaginarlo dall’Occidente del terzo millennio. Ma il terreno su cui sorge la prefettura tibetana di Chamdo è pieno di pavoni, che girano liberamente in una delle zone più fredde dell’altopiano. Sono gli uccelli più propizi di tutto il tantra buddista, e la loro presenza è indice di eccezionalità. Forse per questo non deve stupire che il monastero Sakya Wara, che sorge nel centro della prefettura, è un posto eccezionale: in effetti è l’unica lamaseria che oggi, a rischio della propria esistenza, si oppone al diktat di Pechino per non rinnegare il Dalai Lama. Tutto inizia nell’aprile del 2008, quando i monaci che lo abitano decidono di protestare in maniera pacifica contro il governo cinese che ha rifiutato un nuovo incontro con il leader buddista costretto a vivere in esilio a Dharamsala, nel nord dell’India. Dalle stanze ovattate del monastero dove si insegna, studia e pratica il buddismo più antico della zona - parte una rivolta sociale che si concluderà nel sangue. Subito dopo quei fatti, il governo centrale ordina soprattutto ai luoghi di culto della zona di lanciare un programma di “rieducazione culturale”. In pratica, in pieno stile maoista, si obbligano i monaci a seguire dei corsi tenuti da funzionari comunisti che ripetono un loro particolare mantra: il Dalai Lama è un traditore rinnegato, il Tibet fa parte della Cina, Pechino è l’unico padrone. I monaci di Wara decidono di disobbedire, e allontanano il loro funzionario politico e gli agenti che lo seguono: non

S

potendo sparare contro dei religiosi, quanto meno non impunemente, si decide una strategia più sottile e iniziano gli arresti mirati. Gli ultimi sei - di una serie di quaranta - sono avvenuti fra il 15 e il 16 maggio scorso, quando diversi agenti della pubblica sicurezza sono entrati nottetempo nel monastero per “cercare armi”.

Il 15 maggio Thinley e Nangsey - 25 e 27 anni - sono stati arrestati nelle loro stanze; Soegon è stato fermato mentre suonava l’allarme all’ingresso della polizia. Kelsang Gyurmey, 29 anni, è stato invece trovato nella sua casa d’origine: gli agenti erano entrati nel monastero per cercare proprio lui. Tutti e quattro i monaci studiavano filosofia buddista: al momento sono rinchiusi nel carcere della contea di Jomda. Il 16 maggio, inoltre, i poliziotti sono tornati a Wara e hanno arrestato altri due monaci anziani: Sonam Gonpo, 40 anni, e Tagyal di

Lama, che incarna l’indentità tibetana. Nei fatti, Pechino cerca di fermare i religiosi dal preservare, mantenere e trasmettere la cultura della loro regione». Secondo Tenzin, «tutti noi che viviamo nel mondo libero siamo profondamente rattristati da ciò che sta accadendo in Cina. C’è un senso di inutilità, ci sentiamo incapaci di aiutare i nostri fratelli che soffrono nel

La lamaseria è una delle più antiche di tutto l’altopiano. Qui (nonostante le freddissime temperature) si moltiplicano indisturbati i pavoni, considerati dal tantra gli animali più propizi 29. Gli agenti li hanno accusati di “aver fallito nell’educare i giovani monaci”, come prescritto dal programma di educazione patriottica lanciato subito dopo gli scontri dell’aprile del 2008. Urgen Tenzin, direttore esecutivo del Tibetan Centre for Human Rights and Democracy, spiega a liberal: «Senza una serie di cambiamenti radicali all’interno della leadership cinese non ci sono speranze per un miglioramento della situazione dei diritti umani in Cina o in Tibet. I monaci e i monasteri continuano ad essere nel mirino della persecuzione cinese a causa della religione buddista e di Sua Santità il Dalai

Paese: l’unica cosa che possiamo fare è denunciare quanto accade, perché la Cina tiene molto alla sua immagine pubblica. Se Pechino vuole divenire un Paese responsabile, deve migliorare la situazione dei diritti umani. La non violenza è la strada da seguire».

Il monastero di Wara è un posto, come detto, speciale: ai suoi lati scorrono due fiumi, che i circa 200 monaci che lo abitavano definivano “due pesci dorati”. Qui sono custodite le tre statue auree dei Buddha Maitreia, quelli che devono ancora rivelarsi al mondo. Qui la tradizionale religione Bon (nel

caso specifico, la bianca) è riuscita a mutare il proprio aspetto adottando la tradizione buddista. Quella Bon è l’antica religione del Tibet e del Nepal, diffusa anche in alcune aree dell’India, del Bhutan e nelle province cinesi del Sichuan, del Gansu e dello Yunnan.

Viene solitamente definita come religione legata allo sciamanesimo e all’animismo. Il suo fondatore è considerato Tonpa Shenrab Miwoche, proveniente secondo la tradizione dalla “terra di Olmo Lungring”, probabilmente l’attuale Iran. Il Bon distingue tre fasi del proprio sviluppo: una orale, di “bon manifesto”, in cui sarebbe stata prevalente la prassi dell’estasi oracolare e dei sacrifici, forse anche umani. Nella fase successiva, di “bon differente”si officiavano soprattutto culti funerari regali. Infine i testi sacri del bon riconoscono una terza fase di “bon trasformato”, in cui si ammette l’influsso del pensiero buddista. Quest’ultima è l’unica fase storicamente accertabile del bon nella forma attuale e risale all’epoca dell’introduzione del buddismo in Tibet (VII-VIII sec). Il Bon ha raggiunto la sua massima diffusione nell’area himalayana e subhimalaiana nel VII secolo dopo Cristo. Dopo la diffusione


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22 maggio 2010 • pagina 25

Il palazzo Potala, sede ufficiale della Regione autonoma tibetana. Fino al 1949 era la residenza del Dalai Lama e del governo. Nella pagina a fianco Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, e il monastero “ribelle” di Sakya Wara del buddhismo in Asia, si è mescolato con quest’ultimo e oggi sopravvive in una serie di rituali e di usanze considerate compatibili con il buddismo stesso.

In Tibet esistono diversi monasteri buddhisti-bon, il maggiore dei quali è il monastero di Menri, fondato nel 1405 da Nyammey Sherab. Ma quello di Wara è quello dove, oltre all’unione fra la cultura ancestrale e quella tradizionale, è andata maturando sempre di più l’idea di un’identità tibetana. Lo scontro frontale di Pechino contro questo luogo di culto non è casuale. D’altra parte, la conferma più autorevole viene dallo stesso Dalai Lama, secondo cui «il governo cinese sta portando avanti diverse iniziative politiche per uccidere il buddismo.Tra queste, una campagna per la rieducazione patriottica in molti monasteri del Tibet. Stanno costringendo monaci e monache a vivere in una

condizione di semiprigionia, negando loro il diritto allo studio e alla preghiera pacifica. La repressione in atto sta trasformando i monasteri in musei». Secondo il leader della setta della “sciarpa gialla”, Pechino «vuole intenzionalmente cancellare il buddismo dal Tibet». Lo ha denunciato nel corso del tradizionale discorso annuale, tenuto a Dharamsala, (sua residenza e sede del governo tibetano in esilio). Da qui è partito anche un invito ai funzionari del governo autonomo del Tibet, controllato da Pechino: «Visitate la comunità tibetana in esilio, per comprendere meglio i suoi obiettivi politici».

Il Premio Nobel per la pace ha ribadito di «non avere nessuna intenzione di ricoprire cariche politiche una volta ottenuta una reale autonomia». Si tratta, in effetti, dell’ennesima rassicurazione in questo senso da parte del Dalai Lama, che

Il leader buddhista partecipa a più di un’ora di chat aperta sul canale di uno scrittore cinese

E Twitter unisce il Nobel e la Cina di Massimo Fazzi l Dalai Lama, leader spirituale tibetano in esilio, ha tenuto ieri una chat online con gli internauti cinesi tramite Twitter. Lo scopo dichiarato dal Premio Nobel per la Pace è quello di far conoscere le sue ragioni al popolo cinese, utilizzando uno strumento per aggirare la censura cinese. Il Dalai Lama ha partecipato a un’ora di trasmissione sull’indirizzo di Twitter dello scrittore cinese Wang Lixiong, critico verso la politica cinese in Tibet e nello Xinjiang, dalle ore 8 alle 9 ora di New York, da dove è avvenuto il collegamento. È la prima volta che il Premio Nobel 1989 partecipa a un incontro di tale lunghezza.

I

tre 260 domande, per la gran parte provenienti dalla Cina e scritte in cinese, scelte tramite una votazione cui hanno partecipato 12mila persone. Wang porrà al leader spirituale alcune tra le domande più frequenti che interessano i cinesi.Tra queste, c’è l’incertezza circa il futuro del Tibet e la successione del Dalai Lama. Infatti il vero Panchen Lama, ovvero la per-

Una delle domande rileva che «i dialoghi tra il governo tibetano in esilio e il Partito comunista cinese vanno avanti da 10 anni senza risultati. Quali sono le maggiori cause di contrasto?».

Il problema tibetano è riesploso agli occhi del mondo con le proteste del marzo 2008, represse dall’esercito nel sangue dei tibetani con oltre 200 morti. All’epoca generò proteste mondiali, specie in occasione del passaggio della torcia per le Olimpiadi di Pechino 2008. All’epoca il governo cinese, per far rientrare la proteste mondiale e la minaccia di boicottare i Giochi da parte di molti statisti, aprì un colloquio con rappresentanti del Dalai Lama, che Pechino ha deciso di chiudere senza risultati poco dopo la fine delle Olimpiadi. La questione tibetana è molto sentita dalla popolazione cinese, che ritiene gli abitanti del nord del Paese dei “traditori” per come hanno reagito alla colonizzazione cinese. Di sicuro, per il Tibet è importante mantenere aperto ogni canale di comunicazione con la Cina. Anche quello composto da squilletti.

Oltre 12mila persone si iscrivono online per cercare di avere una risposta alla propria domanda. Selezionati 260 utenti “molto soddisfatti”

Ma lo strumento è sempre più usato da personaggi pubblici, come fa il presidente Usa Barack Obama, per raccogliere domande prima dei suoi incontri pubblici. In Cina Twitter è oscurato dalla metà del 2009, ma molti cinesi aggirano la censura e lo ricevono e ci scrivono. Wang ritiene che vi siano oltre 80mila abituali utenti di Twitter, in Cina. Già ieri sera il moderatore aveva selezionato ol-

sona poi deputata alla scelta del Dalai Lama, è stato sequestrato da Pechino da anni e si ignora dove sia. In Cina il Dalai Lama è descritto come un pericoloso terrorista separatista e le sue parole sono censurate. Per cui egli spera, tramite Twitter, di potersi rivolgere direttamente ai cittadini cinesi per far loro conoscere le sue ragioni. Wang, in una lettera caricata sul suo blog, ha spiegato che «da anni in Cina esiste solo lo scenario ufficiali del problema tibetano ed è innegabile che questo rende difficile [al popolo cinese] conoscere la verità della questione».

secondo il regime cinese usa la sua autorità spirituale per rovesciare il governo comunista. Intanto, in occasione della ricorrenza religiosa in cui il leader ha parlato, circa un migliaio di tibetani hanno marciato a New Delhi, esibendo striscioni contro le aggressioni perpetrate dai cinesi in Tibet e inneggianti al Dalai Lama. Durante la manifestazione, organizzata dal Tibetan Youth Congress, ci sono stati alcuni momenti di tensione quando un giovane dimostrante ha cercato di sfondare la barriera eretta dalla polizia indiana. E il giorno prima una trentina di attivisti tibetani erano stati fermati dalle forze dell’ordine mentre tentavano di marciare verso l’ambasciata cinese. La ricorrenza coincideva infatti anche con il secondo anniversario delle violenti proteste scoppiate a Lhasa e nel resto dell’altopiano tibetano in occasione delle celebrazioni per i Giochi Olimpici dell’agosto 2008. Ribadendo la sua politica della “via di mezzo” nelle rivendicazioni con la Cina, il Premio Nobel per la pace ha poi detto di non «voler assumere alcun ruolo politico nel governo in esilio o in un eventuale governo futuro in Tibet in caso di soluzione della controversia». Il Dalai Lama ha anche ricordato il suo incontro con il presidente americano Barack Obama e ha criticato la mancanza di libertà civili in Cina. «È essenziale - ha concluso che il miliardo e 300 milioni di cinesi abbiano libero accesso alle informazioni sul loro Paese e sul resto del mondo».

Ma tutto questo sembra non avere alcuna presa nei confronti del regime. Che, dopo aver cercato in ogni modo di piegare le religioni che considera “occidentali”- come il cristianesimo, ignorando le testimonianze storiche dei monaci nestoriani ha incrociato la spada contro quel buddismo che riteneva essere d’aiuto al governo in quanto improntato al rispetto delle autorità. L’incognita è evidentemente il Tibet, dove Buddha incontra il Bon e decide di portare avanti pacificamente la propria affermazione di identità. Dove i pavoni passeggiano tranquilli mentre le acque dei due fiumi costeggiano il monastero, mentre si avvicinano i poliziotti.


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Eurocrisi. A Bruxelles si discutono le nuove regole per sostenere la moneta Bruxelles lo hanno già ribattezzato il patto d’acciaio. È il Patto di stabilità rivisto e corretto secondo la linea dura che la Germania di Angela Merkel vorrebbe imporre ai Paesi di Eurolandia. E che ieri il suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, ha portato sul tavolo della riunione straordinaria dell’Ecofin. Così, per uno di quegli strani scherzi del destino che qualche volta capitano, proprio nell’anniversario del Patto d’Acciaio - quello vero - firmato da Galeazzo Ciano e Joachim von Ribbentrop il 22 maggio del 1939, Berlino ha messo nero su bianco la sua proposta per salvare la moneta comune dalla crisi. Si tratta soltanto una curiosa coincidenza, naturalmente. Perché i protagonisti e la posta in gioco non sono nemmeno paragonabili. Senza contare che il Patto d’Acciaio tra la Germania nazista e l’Italia fascista finì molto male, mentre questa volta è l’euro che rischia di finire male e la Merkel spera di convincere gli altri leader europei che è arrivato il momento del rigore. Perché i piani finanziari curano i sintomi, ma non il male. Come dire che gli aiuti alla Grecia - già approvati - e il fondo complessivo dei 750 miliardi, di cui ieri sono stati studiati i meccanismi, non bastano.

A

Le tre debolezze rivelate dalla crisi greca, secondo il documento tedesco, sono «l’inadeguatezza degli strumenti del Patto di stabilità, del sistema di sorveglianza economica e dell’Unione monetaria rispetto ai problemi di liquidità». Da questa premessa, che è difficile non condividere, discendono nove proposte che solo in parte coincidono con quelle che il commissario europeo per gli

Il Patto d’acciaio in versione Merkel Chi non rispetta gli obiettivi di stabilità perde fondi e diritto di voto in Consiglio di Enrico Singer

glia sostenibile del 60 per cento del Pil. L’idea centrale della trasformazione del Patto di stabilità in una specie di patto d’acciaio è la corretta gestione della moneta comune deve essere al centro dell’insieme della policy europea in modo da approfondire la dimensione politica dell’Unione monetaria. Nel documento tedesco si affer-

Il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, ha presentato un piano in nove punti. Alla Bce il controllo dei bilanci nazionali Affari economici e monetari, il finlandese Olli Rehn, ha presentato già il 9 maggio. Il piano illustrato da Wolfgang Schäuble è più severo. In particolare, al punto 6, rilancia la sospensione del diritto di voto in Consiglio «almeno per un anno» ai Paesi che dovessero «violare in modo grave le regole dell’Unione monetaria». Sia per quanto riguarda il mantenimento del deficit entro il tetto del 3 per cento, sia per quanto riguarda la riduzione della massa del debito verso la so-

ma che «i membri della zona euro che non rispettano i principi di riduzione dei deficit dovranno essere privati temporaneamente di nuovi trasferimenti europei» e che i programmi di bilancio nazionali - in pratica le leggi finanziarie - dovranno essere esaminati dalla Bce o da un «gruppo ad hoc di istituti di ricerca indipendenti». Questa è un’altra differenza sostanziale tra il piano di Berlino e quello della Commissione europea che aveva rivendicato a sé il compito del

Cameron a Berlino: «Valuta forte, bene per tutti»

Londra “tifa” per l’euro Il Cancelliere tedesco, Angela Merkel, difende le scelte adottate per far fronte alla crisi, blocco delle vendite allo scoperto in testa, mentre il neo primo ministro britannico David Cameron rimarca le differenze con l’Eurozona sottolineando, però, che un area euro forte «è nell’interesse di tutti». In una conferenza stampa congiunta a Berlino i due leader hanno preferito sorvolare sulle profonde differenze di prospettiva che dividono i due Paesi nel definire le misure anti-crisi. Cameron ha detto che è compito della Financial Services Authority decidere se introdurre il blocco allo short selling anche in Gran Bretagna: «Il tema delle vendite allo scoperto nel Regno Unito è materia per la Fsa e penso che sia questo il modo

giusto di affrontare il problema». Ma la Merkel ha difeso la sua scelta sostenendo che può rappresentare uno stimolo alla discussione europea sulla regolazione finanziaria: «Abbiamo valutato che per quanto riguarda il tema della vendita allo scoperto e dei credit default swap gli sforzi sulla regolazione di Bruxelles potrebbero intensificarsi adesso anche se questa regolazione non si è sviluppata ancora come avevamo immaginato. Forse il provvedimento contribuirà a far sì che le cose si muovano più rapidamente». In questo senso Cameron ha però ribadito che non intende cedere sovranità a Bruxelles: «È del tutto da escludere che si possa arrivare ad un trattato che trasferisca poteri da Westminster a Bruxelles».

coordinamento preventivo delle politiche di bilancio. La Germania, poi, chiede che - seguendo il suo esempio - «tutti i Paesi della zona euro assumano l’impegno politico di inserire il rispetto delle regole del Patto di stabilità nelle loro leggi nazionali». Il piano prevede anche «una procedura che regoli le insolvenze degli Stati»: una formula diplomatica per introdurre la possibilità di applicare i meccanismi tipici del fallimento e di procedere alla ristrutturazione del debito, eventualità che fu ipotizzata - ma poi unanimemente esclusa - nel caso della Grecia.

Alla linea dura sostenuta all’Ecofin, la Germania ha accompagnato una mossa distensiva. Le due camere del Parlamento tedesco hanno approvato la partecipazione al maxipiano di salvataggio dell’eurozona da 750 miliardi di euro al quale Berlino contribuirà con la quota più alta di tutti: 147,6 miliardi. L’approvazione era stata caldeggiata ieri mattina da Wolfgang Schäuble in un discorso pronunciato poco prima di partire per Bruxelles. Al Bundestag i voti a favore sono stati 319 contro 72 contrari. I voti necessari erano 312, mentre la maggioranza che sostiene Angela Merkel è di 332 deputati, ma già mercoledì, durante il dibattito, una decina di parlamentari della maggioranza si erano espressi contro il pacchetto di sostegno alla moneta comune dimostrando che nella coalizione di governo ci sono pericolose fratture. Anche per questo Angela Merkel insiste perché al capitolo degli aiuti finanziari s’intrecci quello delle nuove e più vincolanti regole che si stanno discutendo a Bruxelles. La rinione di ieri dei ministri dell’Ecofin era stata convocata dal presidente stabile della Ue, Herman Van Rompuy, che guida la task force alla quale l’ultimo Consiglio europeo ha affidato il compito di discutere le proposte per rafforzare il coordinamento delle politiche economiche. Oltre al piano del commissario Olli Rehn e a quello presentato da Wolfgang Schäuble, ci sono molte altre proposte, compresa quella che prevede la trasformazione del debito nazionale in debito comune garantito dagli Stati membri. Ma il dibattito è appena all’inizio. La speranza è di concluderlo in tempo per il Consiglio dei capi di Stato e di governo di ottobre che dovrà mettere il suo sigillo alla soluzione.


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22 maggio 2010 • pagina 27

L’Eurasec cerca di imitare l’Ue e i suoi patti di libero scambio

Non accenna a diminuire la tensione fra le Coree

Putin propone un’area libera da dogana per l’ex Urss

Seoul attacca: «Violato l’armistizio del 1953»

MOSCA. Potrebbe sembrare un ritorno all’Urss, ma per ora è solo un’imitazione di qualcosa d’altro. E pure mal riuscita.Vladimir Putin dice di voler ampliare l’unione doganale con l’adesione di altri Stati aderenti all’EurAsEc, parte dell’ex spazio sovietico. Ma il primo ministro russo con queste parole esprime più un “vettore politico”- uno dei tanti - che una soluzione economica. Fa una grande proclama: «Lavoreremo in questa direzione». Ma benchè le frasi avranno il loro peso, nei fatti l’obiettivo è davvero molto distante.

SEOUL. Il presidente sudcorea-

La faticosa nascita dal primo gennaio di un’unione doganale che comprende Russia, Bielorussia e Kazakistan, alimenterebbe oggi qualche speranza in più. Peccato però che quest’ultima per ora funziona male e abbia già dimostrato in più occasioni notevoli disguidi. E quanto all’EurAsEc stanno cercando di attivare il lavoro, ma per ora si tratta più di annunci che di passi reali”. La EurAsian Economic Community, più che un ritorno all’Urss, è infatti un tentativo di imitazione dell’Unione Europea. Per quanto riguarda l’estensione geografica è solo parte dell’ex spazio sovietico: comprende Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan, Rus-

Il premier thai: «Pace, ora e senza condizioni» La road map del governo esclude le camicie rosse di Antonio Picasso

BANGKOK. A Bangkok sembra che sia tornata la calma. Tuttavia è presto per esporsi in conclusioni che potrebbero essere ribaltate ancora una volta. La settimana che si sta concludendo è stata la più sanguinosa di questo mese di scontri e ha visto coinvolto anche Fabio Polenghi, fotoreporter italiano ucciso mercoledì durante l’assalto dei mezzi blindati al quartier generale delle “Red Shirts”. La stima dei danni non è stata resa ancora ufficiale. Il centro di Bangkok però mostra le ferite di un’intensa guerriglia urbana. I combattimenti hanno coinvolto i centri commerciali e il palazzo della Borsa, simboli della forza finanziaria del Paese. Né le forze regolari né gli insorti volevano che ciò accadesse. Le due fazioni infatti di fronteggiano per governare la Thailandia sostanzialmente con gli stessi strumenti e non per sovvertirne i poteri economici. Thaksin Shinawatra, l’ex Primo ministro deposto mediante un golpe nel 2008, vorrebbe riprendere il potere. Ci sta provando facendo ricorso alla violenza urbana come strumento politico, ma ben se ne dall’eguarda sporsi in prima persona sulle barricate. Ieri il primo ministro Abhisit è tornato a proporre la sua road map per la riconciliazione nazionale. Pluralismo partitico, giustizia, ma soprattutto la data del 14 novembre per le elezioni parlamentari. Nelle trattative che hanno preceduto l’escalation di violenze degli ultimi giorni alcuni esponenti dello’Udd si erano dichiarati sostanzialmente favorevoli a trattare. Il problema è però emerso nel momento in cui la base dei combattenti, le vere “Red Shirts”, ha esplicitamente rigettato l’ipotesi di negoziati con il governo. Sembra che la dissidenza si stia spaccando a metà fra una leadership disposta al confronto e la massa scesa in strada che mantiene una posizione di oltranzismo. È probabile che la prima fazione si sia resa conto dell’impossibilità di resistenza permanente. L’attacco a Road IV road tra lunedì e martedì ha dimostrato che le Forze Armate sono schierate quasi totalmente a

fianco delle istituzioni governative. Le “Red Shirts” invece considerano le trattative un gesto di resa, dopo un mese di combattimenti e circa un centinaio di morti. Se adesso l’Udd siglasse un accordo con il premier Vejjajiva tutto questo sarebbe stato vano. Per sfogare la loro rabbia nei confronti della loro stessa dirigenza, vista come traditrice della causa, alcuni gruppi di dissidenti hanno appiccato incendi e devastato i negozi di alcuni quartieri del centro città. Un gesto di anarchia, che dimostra il gap che si sta venendo a creare fra il comando dell’insurrezione e i semplici militanti.

Certamente non ha giovato all’Udd e alla sua unità interna la perdita dell’ex generale Khattiya Sawasdipol, “Seh Daeng” (il comandante rosso), il solo esponente di rango dell’establishment thailandese che si era esposto in favore delle “Red Shirts”. Con la sua morte, è venuta a mancare una mens cogitans, nonché uno stratega che avrebbe potuto gestire meglio l’insurrezione. Un’intransigenza uguale e contraria, del resto, si riscuote in seno alle istituzioni governative. Ieri il Tribunale della capitale thailandese ha respinto la richiesta di rilascio di 114 “Red Shirts”, in quanto “una volta scarcerati potrebbero provocare nuove violenze”. Nel frattempo resta lo stato di emergenza dichiarato in tutto il Paese. Per questo si può parlare solo di calma apparente. È possibile che le “Red Shirts”si siano ritirate solo temporaneamente, al fine di rinserrare i ranghi e tornare alla carica nei prossimi giorni. In merito va sottolineato il fatto che i dirigenti dell’Udd avevano sì mostrato segnali di apertura alla “road map” di Vejjajiva, ma non si erano dichiarati favorevoli a tutti gli effetti. Il nodo cruciale resta infatti quella data del 14 novembre per andare al voto. Troppo lontana secondo i sostenitori di Thaksin. L’attuale governo invece ritiene che sia prioritario ricostruire le aree di Bangkok che hanno fatto da teatro degli scontri. D’altra parte rimandare il voto può aiutare a evitarlo.

Ieri il tribunale di Bangkok ha respinto la richiesta di rilascio di 114 “Red Shirts”: «Potrebbero provocare nuove violenze»

sia, Tajikistan e Uzbekistan. Fuori la Georgia e le repubbliche del Baltico. L’Ucraina e la Moldova sono soltanto osservatori. Ed è vero che sin dai suoi albori, la creazione di uno spazio commerciale ed economico comune, è stato un obiettivo. Ma per ora ben poco di vede. La vera mission è costituire un “contrappeso” all’Ue, riaccorpando alcuni paesi dell’ex Unione Sovietica. Ma l’assenza di programmi sul lungo periodo, la presenza di sistemi fiscali sfavorevoli e il gran numero di formalità amministrative hanno reso difficile qualunque tentativo di stimolo degli scambi interni. In modo da limitare quelli con l’Unione europea.

no Lee Myung-bak ha ordinato contromisure “risolute e sistematiche”verso Pyongyang. Durante la riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza nazionale, Lee ha affermato che l’attacco alla corvetta Cheonan viola l’armistizio Onu del ’53, che ha messo fine alla guerra di Corea. Intanto Seoul ha bloccato gli aiuti verso il Nord, tagliando la fornitura di medicine, generi di prima necessità e cibo. ieri il presidente ha presieduto la riunione del Consiglio di sicurezza nazionale (Nsc), mentre si fanno sempre più tese le relazioni fra le due nazioni dell’Est asiatico. Il Capo di Stato ha chiesto un approccio prudente verso una

questione che definisce “seria e grave”. Il presidente, spiega il suo portavoce, parla di «attacco militare a sorpresa dalla Corea del Nord», giunto quando il popolo sud-coreano «si riposava nella notte». Esso rappresenta una «violazione della Carta Onu e l’Accordo di base fra Nord e Sud», che obbliga i due fronti a non invadersi.

Intanto Corea del Sud e Stati Uniti valutano l’innalzamento del livello di allerta verso Pyongyang. Il Ministro della difesa conferma «il monitoraggio dei movimenti nordcoreani» e una possibile revisione del “Watchcon”, basato sulle informazioni dell’intelligence e di analisi di esperti. Ad oggi Seoul è ferma a Watchcon-3, ma è possibile un innalzamento al livello 2, che comporta “indicazioni di minaccia vitale”. La tensione fra le due Coree hanno portato al blocco degli aiuti da Sud al Nord. Il 14 maggio scorso il Ministero sud-coreano per l’unificazione ha cancellato la prevista consegna al regime di Pyongyang di un milione di vaccini contro l’epatite, destinati a bambini e giovani nordcoreani. Esso è solo uno dei tagli agli aiuti deciso da Seoul, che ha rimosso dal bilancio tutti i progetti di sostegno.


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grandangolo Gb. La sinistra inglese si interroga sul prossimo segretario

I “gemelli diversi” che dividono il (vecchio) New Labour

I fratelli Miliband scelgono due temi opposti per lanciare le loro candidature alla guida dell’opposizione e di un futuro governo di sinistra: il più giovane punta sull’idea (statica) di “essere laburisti”, mentre il maggiore, favorito nella corsa, scommette sul partito che verrà e rinuncia al dualismo Blair-Brown: «Tutto da rifare» di Antonio Funiciello ei prossimi mesi il Labour sarà impegnato a scegliere il sostituto di Gordon Brown: il nuovo segretario del partito che lì (come ovunque, fuorché in Italia) è anche il capo dell’opposizione e, soprattutto, l’indiscusso candidato premier alle successive elezioni. Il Labour sceglie il proprio segretario con l’Alternative Vote, il sistema elettorale adottato in Australia scelto dai Liberal Democratici per sostituire (referendum permettendo) l’uninominale secca a turno unico da anni vigente in Gran Bretagna. Gli aventi diritto al voto per la scelta del nuovo leader laburista potranno pronunciare due preferenze per il candidato del collegio uninominale: una prima e una seconda scelta. Nel caso in cui nessun candidato leader ottenga la maggioranza assoluta, si elimina il candidato con il numero minore di prime preferenze e si distribuiscono le sue seconde preferenze agli altri rimasti in gara. Nel 1994 Tony Blair non ebbe bisogno di alcuna successiva ri-distribuzione, perché ottenne, insieme all’alleato Gordon Brown, il 57% dei consensi contro due suoi futuri ministri, John Prescott (24%) e Margaret Beckett (19%). Il prossimo segretario del Labour sarà eletto da un collegio diviso in tre parti: i membri del partito, i parla-

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mentari e i partiti locali federati. Ad oggi, ai nastri di partenza sono schierati i fratelli David ed Ed Miliband, punte di diamante già del New Labour di Blair e Brown, e l’uscente ministro della scuola Ed Balls. Quest’ultimo, come atto ufficiale di ingresso nella competizione per la leadership del partito, ha scritto avantieri una lettera ai colleghi parlamentari per perorare la sua causa.

re credibile nel farlo. Abbiamo bisogno di passione, ma dobbiamo essere ostinati e rifiutare ogni tentazione di romantiche auto indulgenze». Un po’ più moderato di Ed Balls, l’altro Ed, il Miliband più giovane, uscente Segretario di Stato per l’energia e per il cambiamento climatico dell’esecutivo Brown. Atto ufficioso della sua discesa in campo, un articolo apparso questa

Balls è un “sinistro”, molto vicino a Brown, e nella sua lettera la perduta identità passata del Labour gioca un ruolo importante. «Dobbiamo usare questa elezione per la nuova leadership del Labour - ha scritto Balls - per mostrare ancora una volta che i nostri valori laburisti sono quelli della maggioranza rispettabile e laboriosa della gente in questo paese, gente normale in cittadine normali, che lavora duro per redditi medi e modesti, che gioca secondo le regole». L’attacco alle ambizioni dell’era blairiana e al presunto rapporto incestuoso con la City non poteva essere più esplicito. «Dobbiamo essere un’opposizione dura ed efficace, ma anche un governo in attesa di rientrare. E non dobbiamo dimenticare mai che mentre redigiamo un programma radicale per il cambiamento e l’equità, dobbiamo esse-

Il prossimo leader laburista sarà eletto dagli attuali membri del partito, dai parlamentari e dai partiti federati settimana sul Daily Mirror, nel quale Ed Miliband traccia le coordinate del suo progetto per il rilancio del Labour, che «dovrebbe essere un partito che le persone sono ancora orgogliose di sostenere. Ma prima dobbiamo capire che cosa è andato storto. Penso che la ragione per la quale il partito ha perso così tan-

ti elettori è che la gente ha pensato che abbiamo perso di vista le persone per cui noi dobbiamo impegnarci».

Il tono del pezzo prosegue identitario, come quello della lettera di Ed Balls: «La gente ha sentito che abbiamo smarrito la nostra strada… La gente non ha capito come sia stato possibile che coloro che lavoravano nella City e che ci hanno portato a questa recessione se la siano cavata facendo milioni, mentre loro faticavano per far quadrare i conti». Insomma, neanche lui si lascia scappare l’occasione per attaccare la City, quasi ad additarla a nuovo “Impero del male” fatto in casa. Il suo slogan - Essere Labour (Being Labour) - suona come una anafora, che anche nel cuore del pezzo ripete con forza le priorità del suo impegno: «Essere Labour significa credere nel dare a ogni persona, e non solo ai ricchi, la possibilità di andare avanti nella vita.... Essere Labour significa credere in un paese in cui ognuno si prende cura dell’altro e non lasciare le persone affondare o galleggiare... Essere Labour significa che quando devi affrontare decisioni difficili hai sempre in mente chi ha bisogno di una mano da parte del governo...». Di diverso tono, profilo e statura, il discorso con cui il fa-


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I vertici democratici riuniti a Roma in Assemblea, ma dal Nazareno non arrivano grandi novità

Ma alla fine della Fiera, Bersani delude chi sognava la “svolta british” er capire quale spirito aleggiava all’Assemblea nazionale del Pd partita ieri alla Fiera di Roma, occorre risalire alla vigilia del raduno. La nitida fotografia dello stato dell’arte, è quella che ritrae i senatori democratici riuniti a pranzo per conoscere in anteprima le mosse per rilanciare il partito. «Abbiamo commissionato alla Ipsos di Nando Pagnoncelli una importante ricerca nella quale, tra l’altro, è stato chiesto agli italiani di posizionare i partiti lungo il «continuum» conservazione-innovazione», spiega il vicesegretario Enrico Letta. «Ebbene, noi siamo finiti schiacciati sulla conservazione, mentre i nostri avversari sono percepiti come innovatori». E così, non appena il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, prende la parola all’Assemblea Nazionale, tutti si aspettano “magnifiche sorti e progressive”, e invece fluisce copioso il recente passato. Degli altri. «Ci chiariscano Tremonti, Gasparri e Calderoli, di quante volte si siano moltiplicati i voli di Stato rispetto al Governo Prodi. Addirittura, nel frattempo, sono stati secretati», commenta il leader del Pd. E ancora: «Il tema dei costi e dei privilegi della politica non puo’ essere sottaciuto perché determina un fortissimo disagio nell’opinione pubblica». E poi, la ricetta anti-casta: «Basterebbe alla destra riprendere l’emendamento nostro di un anno fa – spiega Bersani – che ai fini di sostegno alle fasce di povertà prevedeva un prelievo straordinario per i redditi dai parlamentari in su». Più netta, almeno a parole, l’impressione di una vera svolta a proposito del ddl intercettazioni, che aveva visto il Pd sospeso tra il complice e il timido. Bersani lo ha ufficialmente definito la norma «un bavaglio all’informazione» e il Pd considera “doveroso”ricorrere all’ostruzionismo per fermarlo. «Bisogna combattere perché non diventi impossibile illuminare i fatti di malversazione e di corruzione. La giusta esigenza di eliminare l’abuso delle intercettazioni e la loro conseguente diffusione si sta ribaltando in norme che danneggiano gravemente le indagini e mettono un bavaglio all’informazione sconosciuto ad ogni Paese democratico», spiega il segretario in Assemblea. Ma dopo la sconfitta alle ultime ele-

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vorito alla corsa per la leadership, David Miliband, ha tenuto nel suo collegio, la città costiera di South Shields della contea di Tyne and Wear, nell’Inghilterra nord-orientale. «Sono un idealista - ha esordito David Miliband dopo ringraziamenti neppure troppo rituali - un idealista sulla Gran Bretagna e sul cambiamento politico. Credo che si debba giudicare un paese dalla condizione dei deboli e non solo da quella dei forti, che si costruiscano forti comunità sulle responsabilità come sui diritti. Credo che abbiamo bisogno di un’economia di mercato, ma non di una società di mercato. Credo che l’ingiustizia sia reale ma non inevitabile e che sia il compito della politica aggredirla, in casa come all’estero. Questo è quello che ho provato a fare stando al Governo».

David Miliband si è poi fatto carico delle attese che il Regno Unito pretende di vedere soddisfatte sulla sua generazione, che è poi pure quella di Cameron e Clegg. «Faccio parte di una generazione moderna. Idealistica e non dogmatica. Ma anche tradizionale: credo soprattutto nel potere delle idee progressiste che rendono il mondo un posto migliore. I miei genitori vennero in questo paese fuggendo dalla persecuzione. Hanno visto il potere delle idee causare sofferenza di dimensioni monumentali. Ma la loro risposta non è stata quella di smettere di discutere. Hanno difeso un nuovo modo di pensare. E io ho ascoltato e ho provato ad imparare. Ed ho passato la mia vita di adulto cercando di trasformare le idee nelle ricette politiche che migliorano le vite umane. Oggi dobbiamo vincere ancora la battaglia delle idee. E quando lo faremo, ci conquisteremo il diritto di cambiare il paese in meglio». David Miliband ha insistito molto sull’ide a che il Labour debba riconquistarsi il suo primato culturale su conservatori e liberaldemocratici: il proposito di vincere la battaglia delle idee, passaggio propedeutico per tornare al governo del paese, è il leit motiv di tutto il suo discorso. «Dobbiamo iniziare a chiederci perché abbiamo perso. Il problema essenziale è semplice. In un’elezione nel nome del cambiamento siamo stati percepiti come i difensori del vecchio ordine. Il futuro è la parola più importante in politica; ma abbiamo dato l’idea di non essere al passo coi tempi. Comprendiamo ciò e possiamo ricostruire. Dobbiamo essere in tal senso

brutalmente onesti: per troppa gente, non siamo stati quel partito della gente che fu creato 100 anni fa, ma il partito dei politicanti... Perché è avvenuto questo? Perché la nostra sfida dopo tre mandati governativi era il rinnovamento». Miliband prosegue rivendicando i meriti dei tredici anni di governo laburista, ma su Blair e Brown è netto: «L’era Blair-Brown è finita. Non mi interessano definizioni come blairiano e browniano. Il New Labour non è più nuovo. Ci serva da lezione; ne possiamo beneficiare; cerchiamo di emularne i successi, ma non di ripeterne i mantra». Quello che Miliband prospetta è il Next Labour, il Labour che verrà, uno slogan efficace molto più dello statico Being Labour (Essere Labour) del fratello Ed. Queste le conclusioni del suo discorso: «Conosciamo il campo di battaglia della politica - non all’interno del partito ma per essere stati al governo. La politica del potere: non siamo riusciti a inchiodare i Tories alla vacuità della Big Society perché non abbiamo dimostrato la nostra fede nello Stato che diffonde poteri; il Labour è stato fondato anche per dare il potere alla gente e non dobbiamo mai perdere di vista questa missione».

Il secondo punto, si legge, «la politica di protezione: quanto dobbiamo provvedere per noi stessi, quanto lo stato deve fare da sé e quanto bisogna fare insieme; tutto ciò riguarda insieme i diritti e le responsabilità, nel welfare, nell’assistenza sociale, nei confronti del crimine e del comportamento antisociale. La politica dell’appartenenza: il mondo fuori la vostra finestra di casa; l’immigrazione, le nuove abitazioni, l’ambiente circostante, i luoghi di svago. So in che Gran Bretagna voglio vivere. Un Paese in cui il potere è ridistribuito, il merito è ricompensato tanto quanto i bisogni sono soddisfatti, i collegamenti globali sono benvenuti. E so di che tipo di Labour ha bisogno quella Gran Bretagna: un movimento vivo e pulsante, non solo una macchina. Il compito che il partito ha di fronte è facile da dichiarare e duro realizzare. Scegliere un leader che sappia infiammare l’immaginazione, unire i diversi talenti ed essere un candidato credibile come Primo Ministro». E, conclude, «soprattutto vincere la battaglia delle idee. Io ho fede non tanto nella possibilità di vincere le elezioni, ma in quella di cambiare il paese. Questa è la base su cui oggi avanzo la mia candidatura».

zioni, negata in maniera goffa, arriva dal leader del Pd una confessione piena: «Per quante sfumature possiamo usare per interpretare le recenti elezioni regionali, il fatto indifferibile è che non siamo ancora riusciti ad intrepretare il disagio e l’inquietudine profondi che il Paese vive e che si esprimono piuttosto in disamoramento o in radicalizzazione impotente», ha detto Bersani. La soluzione indicata dal segretario è innanzitutto «smettere di fare girotondi» su se stessi, perché la politica, «compresa la nostra», non può farsi ascoltare dagli italiani, se non affronta la questione dell’«etica pubblica, dell’illegalità, della corruzione».

Per mettersi al passo con il futuro, e tornare a essere progressisti, la strada è ancora lunga, insomma. E lo slogan che campeggia nel Padiglione 1 della Fiera di Roma, la dice lunga: «Prepariamo giorni migliori per l’Italia». Ma anche, paradossalmente,“Pd open”, a significare un partito ancora a metà del guado. Tutto ciò, quando pochi giorni fa, David Miliband, candidandosi a leader del Labour (il Next Labour, come l’ha chiamato lui, dopo il New Labour del suo maestro Tony Blair), ha precisato che la premessa del lavoro dei prossimi anni sta nella rinuncia a pretendere di ricombattere le battaglie del passato («we renounce today re-fighting the battles of the past»). Proprio quello che ogni giorno fa il Pd: dalla crociata antinuclearista alle nostalgie proporzionaliste, dalla retorica antievasione fiscale alle varie malinconie nei confronti dei blocchi sociali perduti. Miliband ha anche sostenuto che per ritrovare la sintonia con la nazione britannica, il Labour deve rinnovare ideologia e idee - in una parola: visione politica - e, su quella base elaborare, nuove coerenti politiche. L’opposto della centralità laburista che Bersani ha propugnato fino a oggi per il suo Pd. «Andiamo direttamente al cuore dei problemi degli italiani e assumiamoci – ha esortato i suoi – la responsabilità che compete a una delle più grandi forze progressiste», dice il segretario. Del nuovo progressismo all’inglese che soffiava alla vigilia, tra le file dell’Assemblea, è spirato solo un pallido fiato.


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il personaggio della settimana Opinione pubblica italiana di nuovo divisa tra feroci detrattori e affezionati difensori

Michele chi? Il tribuno Sant’Euro

Osservatore schietto, puntiglioso e instancabile. Ma anche fazioso, castigatore e «narcisista». Ritratto di un giornalista scomodo (e milionario) che, per l’ennesima volta, è riuscito a spiazzare tutti di Roselina Salemi iciamo la verità, Michele Santoro era una spina nel fianco, qualunque fianco, e, sentendosi come il generale Custer, assediato, ha pensato non fosse una buona idea fare la sua stessa fine. Santoro poi, tiene molto al suo scalpo ricciuto e se lo terrà. In tema, c’è anche la lettera che conteneva un proiettile di fucile winchester e la scritta “Morirai” che gli è stata consegnata in ufficio nel giugno 2009.

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Così, mentre Annozero va ancora in onda, si celebra il suo funerale (chiude il 10 giugno, ma l’eutanasia non c’è ancora stata: a sorpresa Santoro, durante la puntata su “Peccati e reati”ha dichiarato che potrebbe ripensaci, se glielo chiedono) e si scopre, come succede spesso ai funerali, che il caro estinto era amatissimo e la sua perdita è dolorosa. Nel guazzabuglio di questi giorni, densi di dichiarazioni di tutti i tipi, dalla curiosa sintonia tra maggioranza e opposizione che insieme definiscono «scandalosi» sia la buonuscita - veramente buona, non c’è dubbio - sia i futuri compensi di Santoro come autore Rai, alle rievocazioni di Lucia Annunziata, molto leopardiane (salernitani, amici da bambini, padri ferrovieri, elite operaia), dall’attacco di Velina Rossa alla dietrologia che traduce tutta l’intricata vicenda in un grosso favore a Italia Uno, dal paragone con Paolo Bonolis (per il valore pubblicitario del programma, a spanne, 350mila euro a puntata) al tono stizzito di Bruno Vespa che è uscito dalla Rai con una semplice liquidazione (150mila euro nel 2001), per arrivare al popolo di Facebook, deluso, amareggiato, invidioso,

esaltato, è facile perdere di vista l’unico fatto concreto: ancora una volta (la terza) Michele Santoro ha spiazzato tutti. Chi lo voleva dentro e chi lo voleva fuori, gli amici (che hanno saputo del suo accordo dai giornali) i nemici (che si sono sentiti in dovere di rendergli l’onore delle armi) e i commentatori in cerca di un’etichetta, tra Masaniello e Don Chisciotte. I colleghi semplicemente non capiscono come sia riuscito a portarsi a casa tre anni di stipendio da direttore, un paio di milioni di euro, e sette puntate di docu-fiction a un milione l’una, chiavi in mano, la più alta cifra mai pagata per un giornalista italiano. Battute facili: “Michele Sant’Euro”, “Dalla trincea all’incasso” (questa citazione fa rima con il cognome dell’autore, Aldo Grasso),“L’Oro di Salerno”.Tutto questo succede quando Santoro ha 58 anni, l’età giusta per spendere un nome che è anche un marchio e diventare imprenditore di se stesso, dirigere una web tivù, puntare sul multimediale, allearsi o non allearsi con Grillo e i grillini, fondare un partito, nonostante abbia sempre giurato che non gli interessa o, volendo, ritirarsi ai Caraibi. Nel guazzabuglio di questi giorni, molti dimenticano che Michele Santoro ha un suo karma, che non poteva né arrendersi né andare in pensione come uno qualunque in un piano di esodo incentivato se ne parla in Rai, nel piano industriale 2010-2012 - non poteva rischiare un sentenza sfavorevole della Cassazione che l’avrebbe obbligato a fermarsi in attesa di un nuovo processo, non poteva continuare ad alzare l’asticella delle sfide e non poteva ripiegare sul delizioso chiacchiericcio del talk show innocuo destinato a sostituire le asprezze della realtà. Anni di inchieste, Samarcanda e Sciuscià, Il Rosso e il Nero, Tempo reale, Il Raggio verde e Circus gli hanno creato attorno una mistica rivoluzionaria da Vendicatore dei Torti e Scopritore di Verità, la stessa che fa sembrare sconvolgente l’accordo economico condotto dal manager delle star, quel Lucio Presta molto noto nel nostro piccolo star system per i contrat-

ti di Paola Perego, Simona Ventura e Paolo Bonolis. Nel guazzabuglio di questi giorni, molti non ricordano che Michele Santoro ha fatto informazione, ma anche spettacolo vero, con un gusto intensamente teatrale, che è rimasto una sua cifra. Ha trovato una via per il cuore del pubblico (c’è chi venderebbe la mamma pur di riuscirci e a lui viene naturale) ha messo insieme il suo mestiere di giornalista e lo share (20,34 per cento per Annozero, oltre 5 milioni di spettatori), la Verità e il Successo, alchimia sottile, non replicabile, dimostrata da due riconoscimenti scelti a caso: il Telegatto e Il Premio Flaiano. Come si esce da una situazione così? Con un colpo di scena. In tivù, Santoro ha fatto cose straordinarie e cose discutibili. Ha scoperto per primo la potenza di fuoco della Lega, è stato l’instancabile ricercatore dei problemi sotto traccia, ha fotografato un’Italia profonda e sconosciuta, operaia, marginale, estromessa dal gioco della politica, ha portato lo share di Samarcanda su Rai Tre dal 2 al 15 per cento, arrivando anche al 30 e diventando un caso.

Chi ha visto le puntate di quegli anni, più dei temi, il razzismo, l’integrazione, il lavoro, la crisi, la casa, il futuro, le speranze dei giovani, ha in mente l’emozione della piazza, i pezzi di realtà che entrano in casa all’ora di cena, lo sguardo nelle vite degli altri, l’identificazione o il sospiro di sollievo perché a noi va meglio. Era l’Italia preberlusconiana (migliore?) eppure i problemi non gli mancavano. Anzi, il primo colpo di scena è stato proprio il passaggio a Mediaset nel 1996 per lavorare a Italia Uno. Il programma si chiamava Moby Dick e non fu un’esperienza felicissima. Ma già allora, nel presentare il suo libro Michele chi? pubblicato da Baldini e Castoldi, Santoro diceva tutto quello che c’è da sapere su di lui e il suo manifesto: «Abbiamo messo i piedi nel piatto del salotto romano che considera la televisione di qualità una specie di rendita di posizione. Cominciamo a dimostra-


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re che i programmi seri possono fare ascolto. Non basterà più essere titolari di una rubrica da qualche parte per fare la televisione. Perciò devono fermarci subito. In fin dei conti chi siamo? Non abbiamo la villa a Capalbio. Non abbiamo la terrazza in città. E, soprattutto, non rispettiamo i tempi e la logica dei politici...». Sono passati 14 anni e tutto si può dire di Santoro, ma non che manchi di coerenza. Fazioso («Grazie a Dio»), narcisista («Chi fa televisione non può non esserlo»), vicino a Beppe Grillo, tanto da

espressione del Pci locale. Achille Occhetto, sospettoso, l’aveva definito subito «un leghista di sinistra».

E forse qualcosa c’era perché nel ’94 un vivace Umberto Bossi lo aveva elogiato pubblicamente: «Senza le trasmissioni di Santoro l’Italia non avrebbe perso coscienza degli sprechi di denaro pubblico, del disastro culturale, economico e sociale del sud provocato dal sistema dei partiti». Ma Bossi voleva fare il federalismo, mentre Santoro ha sempre fatto e voluto fare televisione. Anche

A girare per il web si scopre che le parole «immorale» e «vergognosa» sono associate 228 volte alla sua fastosa e invidiata liquidazione far gridare allo scandalo per il collegamento con il V2-day («Non di rado lo condivido»), drastico con Prodi («Era una pappamolle»), liquidatorio con il Pd («Non è un partito»), feroce con l’Idv di («Italia dei Valori Immobiliari»), con stoccata finale, giovedì a Vespa («Che possa fare lezione di morale e di contratti a noi è veramente troppo». A mettere in fila le polemiche, le scelte, gli interventi, i giudizi degli altri, viene fuori sempre lo stesso profilo un po’ anarchico che gli costò nel ’79 l’allontanamento dalla direzione del quindicinale La voce della Campania,

la politica, in fondo, l’ha vissuta come una specie di sala d’attesa. Dopo il cosiddetto “editto bulgaro” di Berlusconi (18 aprile 2002), il licenziamento e la causa con la Rai, c’è il secondo colpo di cena, la discesa in campo. Nella lista “Uniti per l’Ulivo” (2004) come deputato al Parlamento europeo, Santoro ha raccolto 730mila voti di preferenza, abbastanza per costruire un consenso. Per passare dall’altra parte, quella di chi ai talk show va come ospite e litiga per avere il tempo di parlare. Invece, vinta la causa con scorno della Rai, condannata a pagare 1 milione e 400mila euro e a

reintegrarlo in prima serata, eccolo in video a Rockpolitik, da Adriano Celentano. Davanti a 11 milioni di telelespettatori, annunciando la fine del videoesilio, dichiara la sue intenzioni: «Io voglio il mio microfono, quello che hai tu, voglio decidere che cosa sono le cose da raccontare, le luci e le ombre». Parte l’avventura di Annozero, con i ritocchi e il colore, con Rula Jebreal e Beatrice Borromeo prima, poi con Margherita Grambassi , campionessa olimpionica di scherma e carabiniere, la cui partecipazione scomoda il ministro Ignazio La Russa. Argomenti: la Sicilia e Totò Cuffaro, il caso Forleo-De Magistris, la querela per la puntata sui preti pedofili, il comizio di Beppe Grillo, la lite con Sgarbi e, al culmine dell’ultima stagione, il valzer delle escort e dei trans, Patrizia D’Addario e il bagno di Palazzo Grazioli, Noemi Letizia e il l’affaire Marrazzo, l’Aquila e la Protezione Civile, con annessi e connessi. Girando per blog e siti, un passatempo non indispensabile ma utile, ci si sente sommersi dal vocio di detrattori e difensori, dalla folla di interpretazioni e illazioni che, almeno per questa settimana stanno oscurando la crisi dell’euro, l’economia scricchiolante e molte altre serissime questioni. C’è chi dice che Santoro ha bruciato, in quest’ultima stagione, tutto il carburante disponibile e ha preferito decidere quando e come andarsene con un certo vantaggio. C’è chi gli rimprovera il calcolo (e certo, un accordo complesso come il suo non è frutto di un exploit improvviso, ma di una lunga , severa riflessione): le parole “immorale” e “vergognosa” sono associate 228 volte alla sua fastosa e invidiata liquidazione. Ma c’è chi tratta Santoro come crudelmente fa il sistema dell’intrattenimento di massa con i calciatori e le soubrette.Vali per quello che porti a casa. E, senza Annozero, la prima serata di Rai Due tornerà indietro al 10-12 per cento di share e banalmente, incasserà meno soldi. Lucia Annunziata l’ha detto chiaro e tondo: Michele è una star, «mi sono anche abbastanza scocciata di sentire che uno di sinistra deve essere per forza povero. Stiamo sul mer-

Dalla laurea a Annozero Nato a Salerno il 2 luglio 1951, Michele Santoro si è laureato in Filosofia con 110 e lode.Giornalista professionista, è stato direttore de La Voce della Campania e ha collaborato a molte testate. Prima di essere assunto in Rai nel 1982, ha lavorato per la radio come conduttore di rubriche e autore di sceneggiati radiofonici. In televisione, dopo una breve esperienza agli esteri del Tg3, ha realizzato speciali e settimanali: Tre sette, Oggi dove, Specialmente sul Tre, Tg terza. Nel 1991 ha pubblicato il libro Oltre Samarcanda e nel 1996 Michele chi?. Nello stesso anno ha lasciato la Rai per Mediaset come direttore della testata Moby Dick, che ha prodotto anche Moby’s. Nel ’99 il ritorno in Rai con il programma Circus su RaiUno. Nel 2000 lancia anche Sciuscià, una serie di reportage d’autore, narrati con il linguaggio cinematografico. Nel novembre 2001 comincia Sciuscià Edizione Straordinaria. Il 31 maggio del 2002 va in onda l’ultima puntata di Sciuscià, la Rai cancella il programma. Per difendere il diritto all’informazione Santoro ricorre alla magistratura che ordina alla Rai di reintegrarlo nel lavoro. Accadrà diversi anni più tardi: nel 2006 gli viene affidata la conduzione di Annozero.

cato? La Rai è sul mercato? Michele Santoro è sul mercato? E allora deve essere pagato per quello che pesa». Nel guazzabuglio di questi giorni, molti non capiscono di essersi inventati ognuno il proprio Santoro, cinico o idealista, calcolatore o puro, difensore dell’informazione o astuto conoscitore dei meccanismi televisivi, paladino dei deboli o romanziere dell’immagine, castigatore o anche opportunista, e ci restano tutti male. Bisognerà scrivere la sua storia. Dire che era così anche al liceo, che era bravo ma indisciplinato, che studiava, ma rimorchiava anche, che la filosofia gli piaceva, ma gli piaceva di più la leadership (un altro dei suoi soprannomi era Santorescu). Che una vena d’anarchia non l’aveva mai abbandonato e questo gli avrebbe sempre impedito di entrare in schieramenti ortodossi e nuotare pacifico dentro la corrente.

E allora va bene anche la dichiarazione finale, giovedì sera: «Se pensate che Annozero sia un prodotto proibito, scabroso del servizio pubblico, che non prevede quel tasso di libertà, di spregiudicatezza, di senso critico, allora lasciatemi andare». Certo, è meglio uscire di scena così, coperto d’oro, che lamentarsi per il mobbing, dover ribadire che non si è arreso a Berlusconi, trovare, a sorpresa, difensori appassionati soprattutto nei Centri Media e nei venditori di spazi pubblicitari. Pazienza se qualcuno grida al tradimento. Quanto al paragone con il generale Custer, si sa che non ci sarebbe stata alcuna battaglia a Little Big Horn senza la corsa all’oro sulle Colline Nere e senza l’errore fatale di sottovalutare i Sioux. Custer è morto, Michele ha studiato la storia e, almeno lui, l’oro l’ha trovato.


ULTIMAPAGINA Sport. Inaspettata affermazione del gioco inglese nel Paese in guerra

Kabul scambia gli aquiloni con il Mondiale di Antonio Picasso

rima delle tante guerre che lo hanno devastato, l’Afghanistan era conosciuto come il “Paese degli aquiloni”. Merito in parte del best seller di Khaled Hussein: appunto Il cacciatore di aquiloni. Oggi il Paese martoriato dai conflitti può vivere un altro piccolo sogno di pace. La Nazionale afghana di cricket ha partecipato al “2010 Icc World Twenty20”, la competizione più prestigiosa organizzata ogni due anni dall’International Cricket Council (Icc) e che quest’anno si è svolta fra il 30 aprile e il 16 maggio nelle Indie Occidentali. Vincitrice effettiva del torneo è stata l’Inghilterra, che ha battuto l’Australia. L’alloro di vincitore morale è andato all’Afghanistan invece. La sua squadra ha ottenuto la qualificazione al torneo grazie alla tenacia dei suoi giocatori, che si sono uniti riuscendo a superare le barriere etnico-tribali, proprie del Paese. Il cricket, uno degli sport meno popolari per la cultura latina, viene al contrario praticato con pathos in quei Paesi che hanno un passato di colonia britannica. In Pakistan e in India, ma anche in Balgladesh e Sri Lanka, i bambini giocano a cricket come i nostri adolescenti giocano “al pallone”nelle strade e nelle piazze di città e villaggi. Alle partite di cricket, le cui regole per noi appaiono complicatissime, si può assistere nelle vie polverose dell’Asia centrale, così come suoi prati verdi di Hyde Park a Londra, oppure lungo le spiagge dell’Australia.

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L’Afghanistan, che a onor del vero le Giubbe rosse di Sua Maestà britannica non sono mai riuscite a conquistare, ha assorbito questo sport grazie agli ufficiali inglesi, che lo praticavano nelle pause delle loro difficili campagne di guerra. Si è trattato di un dot ut des culturale. Siamo nel pieno dell’Ottocento e mentre gli ufficiali della regina Vittoria arrivano nell’Asia centrale con uno sport che nel loro Paese vanta una tradizione antica già di tre secoli, le tribù locali affascinano gli ufficiali di cavalleria occidentali con il loro buzkashi. Anche quest’ultimo ha un origine secolare. Nella sua identità più originaria, oggi vietata dalle leggi di Kabul, due tribù rivali

montando a cavallo si contendono la carcassa di un montone, che deve essere trascinato oltre una linea di meta prestabilita. A suo tempo, nei club d’equitazione inglesi il povero animale venne sostituito con una palla. Ne nasce così il polo. E mentre a Londra sbarca questo nuovo e aristocratico gioco, in Asia centrale prende piede il cricket. Torniamo ai nostri giorni. La Nazionale afghana di cricket è stata fondata nel 1995, ma solo dopo il 2001 ha imboccato la strada giusta per arrivare al “2010 ICC World Twenty20”. Ciascuno dei suoi giocatori ha alle spalle un passato di guerra e di rifugiato nei diversi campi profughi del Pakistan. Esperienze drammatiche, queste, superate a livello individuale grazie alla passione per questo sport e alla volontà di dimostrare che l’Afghanistan nasconde, nelle sue pieghe di drammi attuali e

revisionare ed emanare nuove regole. L’Mcc è sponsorizzato addirittura dalla Camera dei Lord del Regno Unito. Londra è sempre stata molto sensibile, da un lato alla diffusione dei suoi sport, dall’altro all’Afghanistan in termini geopolitici. Conquistata Westminster quindi, il passo per la squadra afghana si è accorciato immediatamente. Al di là della sua partecipazione nelle competizioni nazionali, adesso il “pitch” – la linea di meta da superare lancian-

di CRICKET do la pallina – è quella radicare questo sport nel contesto nazionale. I giocatori afghani vorrebbero trasformarsi in strumento di coesione fra le etnie e le tribù che invece si combattono nel loro Paese. “Vorremmo essere da esempio alle nuove generazioni del nostro popolo”, dice ancora Ahmedzai. D’altra parte il progetto si sta scontrando con le magre risorse economiche messe a disposizione dal Governo di Kabul. L’Afgfhanistan Cricket Board ha proposto ai singoli giocatori un compenso mensile tra i 400 e i 700 dollari al mese.

Fondata nel 1995, la Nazionale afghana è riuscita soltanto ora a qualificarsi ufficialmente per il “2010 Icc World Twenty20”, la competizione internazionale più prestigiosa di questo sport, organizzata ogni due anni dall’International Council

sedimentati, le forze per poter rialzarsi e cominciare a scrivere nuove pagine di pace. «Abbiamo cominciato dal nulla», ricordano i due battitori Raees Ahmedzai e Saif Kattar. «Noi stessi abbiamo intagliato una a una le mazze da cricket per venderle raccogliere i fondi». L’iniziativa è giunta nei circoli inglesi e ha suscitato l’attenzione di alcuni membri del Marylebone Cricket Club (Mcc), una sorta di Fifa di questo sport, l’unico soggetto che ha titolo di

Una cifra dignitosa, se si pensa che il salario di un loro connazionale medico si limita a 40 dollari. La squadra però lamenta il fatto questi contributi includerebbero tutto: allenamenti, spese per la manutenzione degli attrezzi sportivi, viaggi di promozione dell’iniziativa. Di conseguenza hanno chiesto una sponsorizzazione all’Etisalat, compagnia di telecomunicazioni degli Emirati Arabi. Sono in attesa di risposta però. Nel frattempo, con le loro poche risorse sono riusciti a riproporre il cricket come modello di unione nelle scuole di 24 delle 34 province del Paese. La loro può essere una piccola luce che irrompe nelle tenebre dell’incubo afghano.


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