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ISSN 1827-8817 00525

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Chi sopraffà con la forza,

ha sopraffatto il suo nemico soltanto a metà. John Milton

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QUOTIDIANO • MARTEDÌ 25 MAGGIO 2010

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Gianni Letta annuncia «duri sacrifici». Napolitano chiede «equità». Oggi il governo vara i tagli e (forse) un condono

Bombardiamo gli evasori Cinque proposte a Tremonti per una “guerra finale” contro i furbi 120 miliardi di euro: il mancato gettito fiscale vale quattro volte la manovra “lacrime e sangue”. Economisti e fiscalisti suggeriscono al ministro: «Deve diventare questa la tua priorità» Dopo il convegno di Todi tra nostalgia e cambiamento

Il Partito della nazione può risolvere il fallimento della Seconda Repubblica

Baldassarri: ridurre il nero con il contrasto d’interessi Subito deduzioni per chi dimostra le spese. Poi servono incroci mirati

Trasferire la pressione sui beni garantirebbe maggiore perequazione

Vaciago: trasformare ogni cittadino in “controllore”

di Marco Palombi

Polillo: seguire la traccia di tutti i pagamenti Le verifiche devono essere locali. E imposte più razionali sugli immobili

incontro che si è svolto a Todi ha costituito una tappa fondamentale del processo di passaggio dalla vecchia Udc al nuovo soggetto politico per ora definito come il Partito della Nazione. Si è trattato di una tappa fondamentale Nessuno perché è stato posto al cendegli attuali del dibattischieramenti tro to medesimo ha solide il tema di fonradici. do: passare E neanche una da un equilichiara visione brio politicoculturale predel futuro valentemente basato sulla nostalgia per la Democrazia Cristiana in quanto tale ad un equilibrio nuovo - del quale il nuovo partito sarà parte essenziale - tra nostalgia e cambiamento. Due sono state le decisioni annunciate nel dibattito concluso da Pier Ferdinando Casini. segue a pagina 6

L’

Intanto Parigi (contro Angela) va in cerca di una nuova Marianna

Paganetto: nuove tasse, dalle persone alle cose

C’è una sola arma: benefici immediati a chi chiede sempre la fattura

di Francesco D’Onofrio

Per il dopo Sarkozy in Francia cresce la voglia di una leader donna

Campiglio: un’anagrafe dei consumi e dei redditi Occorre confrontare le dichiarazioni con i lussi ostentati dai cittadini alle pagine 2, 3, 4 e 5

ROMA. Oggi pomeriggio il consiglio dei Ministri varerà una manovra economica da 24 miliardi di euro frutto di mediazioni, confronti, tagli, promesse e minacce. E, forse, senza il condono edilizio. Forse, perché i colpi di scena dell’ultimo minuto non solo sono possibili ma in qualche misura rappresentano la sostanza di questa manovra sulla quale si è consumato un braccio di ferro estenuate tra Berlusconi e Tremonti. D’altra parte, il governo è in difficoltà anche sul fronte della legge sulle intercettazioni che ha finito per subire forti modifiche dopo l’aut aut dell’amministrazione di Washington. a pagina 2

di Giancarlo Galli

PARIGI. «Sarko fait profil bas», dicono e scrivono gli opinionisti sia de Le Monde (quotidiano di riferimento della borghesia progressista) sia de Le Figaro, che mai ha dissimulato le simpatie per il centrodestra. In realtà, non fanno che registrare il disincanto dei francesi nei confronti del loro presidente, Nicolas Sarkozy, trionfalmente eletto nella primavera di tre anni fa, surclassando la socialista Sègolene Royal. a pagina 14

Il presidente minaccia ritorsioni contro Pyongyang mentre Hillary Clinton tratta con Hu Jintao

Obama assediato. Da Pechino a Seoul Le Coree e il confronto con la Cina mettono Washington in difficoltà

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

Dollaro e yuan creano un cordone di salvataggio

Se i due giganti corrono al capezzale dell’Euro

L’Occidente è sempre più preoccupato dallo spettro d’Oriente. Da un lato, Barack Obama ha minacciato azioni militari a fianco di Seul contro la Corea del Nord, dall’altro Hillary Clinton, a capo di una foltissima delegazione di alto livello cerca di trattare una tregua economica con la Cina. Che però gli volta le spalle. a pagina 8

seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

di Francesco Pacifico Al vertice bilaterale, Stati Uniti e Cina hanno finito per discutere di euro e delle soluzioni per frenare la caduta dell’economia più matura al mondo: serve un cordone per l’euro, insomma. a pagina 8 NUMERO

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 25 maggio 2010

Oggi il consiglio dei ministri vara una dura manovra da 24 miliardi

Napolitano chiede equità e Letta annuncia sacrifici. Ma c’è il giallo condono di Marco Palombi

ROMA. «La manovra conterrà una serie di sacrifici molto pesanti, molto duri che siamo costretti a prendere, spero in maniera provvisoria, con una temporaneità anche già definita, per salvare il nostro Paese dal rischio Grecia. Capiamolo così e ci capiamo tutti». Non si sa se sia frutto dell’astuzia della realtà o della lucida cattiveria di Giulio Tremonti, ma che sia stato Gianni Letta, il più tenace portatore sano degli interessi diffusi delle corporazioni italiane, ad annunciare nel pomeriggio di ieri la definitiva vittoria della linea lacrime e sangue sponsorizzata dal ministro dell’Economia, è una sorta di plastico memento sul fatto che la vita, se non è sogno, è teatro. Sono «provvedimenti urgenti», ha scandito il sottosegretario, che «ci vengono imposti dall’Europa … nel disperato, ma spero vittorioso tentativo di scongiurare una crisi epocale e di salvare l’euro». Disperato tentativo. Eccola la strategia comunicativa dell’esecutivo da quando è apparso chiaro che, fallita la resistenza di Berlusconi, il nuovo simbolo comune è la mannaia di Tremonti. «Il presidente voleva meno tagli», ammettevano sconsolati a palazzo Chigi. Il ministro infatti - dopo aver abbattuto chi voleva ammorbidire la manovra - ieri ha imposto la sua posizione rigorista con l’autorevole appoggio di Umberto Bossi, il quale sa benissimo che per dare una possibilità al federalismo fiscale bisogna accantonare fin da ora i soldi che servono a mettere in (provvisoria) sicurezza i conti pubblici. La scelta della Lega, insomma, ha spostato definitivamente l’ago della bilancia verso il ministro dell’Economia, realizzando di fatto quel “commissariamento” del Cavaliere di cui parlava Eugenio Scalfari su Repubblica due giorni fa. Su tutto, la benedizione di Giorgio Napolitano: il capo dello Stato, da Washington, s’è raccomandato che «i sacrifici siano equamente distribuiti» e augurato che «l’opposizione condivida le misure» del governo.

Alla fine, vince la linea del rigore assoluto promossa da Giulio Tremonti con l’appoggio della Lega: tagli a politici e statali e stop alle pensioni

Quanto a queste, ieri sera alla Consulta economica del Pdl è arrivato un menù decisamente tremontiano. Una manovra complessiva da 24 miliardi circa, la metà dei quali devono “con certezza”arrivare già quest’anno: tagli agli stipendi di politici e manager statali (il 5% sopra gli 80mila euro di reddito annuo, il 10% sopra i 130 mila), blocco degli stipendi pubblici fino al 2013, chiusura delle “finestre previdenziali” del 2011, riduzione dei trasferimenti per i ministeri e le autonomie locali (si parla, per queste ultime, di 10 miliardi in tre anni). Non è chiaro, infine, se finirà nel decreto anche un condono edilizio a maglie larghe, simpaticamente definito “regolarizzazione catastale”: nel caso potranno essere regolarizzate infatti non solo le cosiddette “case fantasma” (del tutto sconosciute al catasto), ma anche gli abusi su quelle già esistenti come, ad esempio, un ampliamento non denunciato. Sul fronte del contrasto all’evasione, entrano in manovra il nuovo redditometro, maggiori incentivi ai Comuni che partecipano al recupero e, soprattutto, la nuova soglia per la tracciabilità dei pagamenti, che passa da 12.500 a 5mila euro e l’obbligo di fattura elettronica sopra i tremila (stesse mosse, anche se meno stringenti, per cui ai tempi di Prodi il Cavaliere parlava di «stato di polizia tributaria»). Per il resto accorpamento di qualche ente previdenziale, stretta – l’ennesima annunciata - su consulenze, enti inutili e auto blu e infine, significativamente, il rientro delle spese della Protezione civile sotto il controllo preventivo del Tesoro. A meno di clamorose novità, insomma, della “manovra di riforme” annunciata da Tremonti non c’è traccia: domani pomeriggio, dopo l’incontro del governo con enti locali e parti sociali, il testo dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri ed essere approvato, magari in sei minuti come fu per la prima finanziaria della legislatura. Non bastasse una manovra così impopolare, la maggioranza si trova impantanata anche sul fronte intercettazioni. I capigruppo del PdL ieri hanno aperto a modifiche, ma solo nell’Aula del Senato (il ddl dovrebbe essere stato licenziato dalla commissione Giustizia nella notte): a Montecitorio il testo dovrà essere blindato altrimenti rischia di non uscire più dal Parlamento. I finiani, a suon di interviste, hanno fatto presente che bisogna tornare al testo approvato dalla Camera: niente carcere per i giornalisti, possibilità di dare notizie “per riassunto” sulle inchieste in corso, niente stop degli ascolti per i reati spia della criminalità organizzata come traffico di rifiuti o combattimento tra cani.

Inchiesta. Una domanda cruciale rivolta a cinque economisti

Cinque proposte per la guerra all’evasione fiscale Si possono recuperare almeno 20 miliardi facendo pagare le tasse a tutti gli italiani? a cura di Francesco Capozza, Franco Insardà, Errico Novi e Riccardo Paradisi

ROMA. Servono 24 miliardi di euro in due anni. È il prezzo di ventiquattro mesi di crisi internazionale vissuti pericolosamente (e allegramente) dal nostro governo: una recessione che negli ultimi mesi ha stretto in una morsa terribile l’Europa e la sua moneta. Il governo italiano da un paio di settimane è entranto nel pallone cercando di inseguire nuove entrate senza aumentare (in modo visibile, almeno) le tasse nazionali. E giù le solite idee: condoni, tagli alla spesa pubblica, verifica degli sprechi, scarico delle imposte sugli enti locali. Un modo come un altro per non scontetare l’elettorato, ma anche un sistema per evitare di cogliere l’occasione (in sé terribile) per

modernizzare il paese e affrontare il nodo di alcune riforme sostanziali. Come quella fiscale o quella pensionistica. Sta di fatto che, secondo un ricerca del Sole 24ore, basterebbe intervenire appena appena sull’evasione fiscale per risolvere il problema alla radice, essendo di 120 miliardi di euro il monte complessivo delle tasse non pagate dagli italiani ogni anno. E allora, ecco la domanda che abbiamo rivolto a cinque esperti: come si fa a recuperare in breve tempo almeno 20 miliardi di euro attraverso la lotta all’evasione? E, soprattutto, c’è un modo per farlo anche senza affrontare il nodo complessivo - che sembra irrisolvibile - della riforma fiscale?


prima pagina MARIO BALDASSARRI

Contrasto d’interessi per battere il nero «Subito deduzioni fiscali per chi dimostra le spese, cedolare secca, incroci mirati» conomista, esponente del Pdl, presidente della Commissione Finanze del Senato Mario Baldassarri pone una premessa al suo vademecum di tre mosse per combattere e seriamente la straordinaria evasione fiscale italiana: «La lotta all’evasione non si fa usando le vessazioni alla Vincenzo Visco. Quel tipo di metodo significa fare la faccia feroce senza poi peraltro avere gli strumenti per incidere sul serio».

E

Fatta la premessa Baldassarri presenta la sua proposta, declinandola in tre passi, l’uno consequenziale all’altro, ma tutti ruotanti intorno al perno del contrasto d’interessi nel rapporto fiscale. «La prima mossa è l’inserimento più largo e diffuso possibile delle deduzioni inserendo il contrasto di interessi nel rapporto fiscale. L’esempio è la cedolare secca sugli affitti con deduzioni per gli inquilini. È una proposta che ho presentato recentemente e che si basa sulla constatazione, direi elementare, che in un Paese dove risultano almeno dieci milioni d appartamenti sfitti esiste una quota di nero e di evasione considerevole. Nei paesi civili la lotta all’evasione si fa con il cliente che riceve un bene e un servizio e ha interesse ad avere la fattura, non con la delazione fiscale o altri metodi tanto odiosi quanto inefficaci».

La seconda mossa discende dalla prima: «Una volta che le transazioni sono regolarmente registrate – dice Baldassarri – ci vuole la capacità dell’amministrazione fiscale di fare i controlli. Allora i controlli diventano non vessatori ma sacrosanti. Perché se l’amministrazione non fa i controlli hai voglia a fare le fatture e gli scontrini. Lo scontrino fiscale l’abbiamo da vent’anni ma chi va a controllare i rotoli dei registri di cassa nei negozi?». La terza mossa è quella degli incroci mirati. «Si tratta della verifica fatta con i redditometri e gli studi di settore in cui è chiaro che, per fare un esempio banale, se tu paghi 4mila euro l’anno di bolletta di energia elettrica fornisce un indicatore preciso sul dichiarato». Sono cose che Baldassarri ripete dal 1978 quando fece il primo rapporto sull’anagrafe tributaria e sul controllo dell’evasione in Italia. «Oggi la tecnologia, rispetto ad allora, ci viene incontro per i controlli e le mappature. Fuori da questo tridente d’attacco all’evasione comunque c’è solo la demagogia dell’antievasione». Dell’oceano di evasione fiscale italiana comunque (si parla di cifre che vanno dai 100 ai 130 miliardi di euro), basterebbe per ora recuperare 15-20 miliardi di euro per far fronte all’emergenza attuale e sostenere la manovra del governo in

corso che dovrebbe aggirarsi sui 24 miliardi di euro. «È così. Ma dovrebbe essere messo ben in chiaro che ogni euro in più della lotta deve essere dichiarato quando c’è sul serio nelle casse dello Stato. E nel momento in cui entra sul serio deve andare a ridurre le tasse, non deve servire per tappare i buchi del bilancio o per risanare il deficit. Dovrebbe servire insomma per avere un paese più equo e più civile».

Notazione non peregrina visto che per Baldassarri in Italia c’è sempre la tentazione di fare fisco creativo. «Vorrei ricordare che Padoa Schioppa e Visco avevano sottostimato le entrate di 27 miliardi per poter dire che con la lotta all’evasione nell anno successivo avevano creato quattro tesoretti. Io l’ho chiamato falso in bilancio e nessuno per questo mi ha denuncia-

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to. Un falso in bilancio pubblico. Non trovo altro termine per definire l’operazione di sottostimare palesemente le entrate perché poi nel corso dell’anno 2007 emergessero entrate in più rispetto alla stima e potessero essere dichiarati come lotta all’evasione e tesoretti. E badi feci questo conteggio sulla base del report ufficiale del ministero dell’Economia presentato da Visco e Padoa Schioppa. I quali non hanno mai spiegato perché hanno scritto 27 miliardi in meno di quello che doveva essere il tendenziale a legislazione vigente. E arrivare a chiamare tesoretto un trucco di bilancio – dal sottoscritto, ripeto, denunciato ex ante – e arrivare ad attribuirlo alla lotta l’evasione, è letteralmente una follia. Ecco queste cose non dovranno ripetersi più se si vuole fare seriamente e sul serio contro l’evasione fiscale».

LUIGI PAGANETTO

Tassare le cose, non le persone «Trasferire la pressione sui consumi garantirebbe maggiore perequazione» ROMA. «L’unico modo per poter ridurre l’evasione fiscale è quella di incidere sui consumi e non sui redditi. Spostando, cioè, la tassazione su tanti cespiti, dai consumi alle attività finanziarie, un poco alla volta la pressione sarebbe più equilibrata e si eviterebbero sperequazioni».

Per Luigi Paganetto, presidente della Fondazione Economia Tor Vergata Ceis, occorre quindi spostare parte della pressione fiscale per dare ai cittadini la sensazione di una maggiore giustizia fiscale. «La Banca d’Italia ha svolto

un’interessante analisi sulle motivazioni per cui si evade. Se infatti c’è una gran parte dei cittadini che dichiara dei redditi talmente bassi non tassabili si arriva al punto che chi paga le tasse nella giusta quantità sono solamente i lavoratori dipendenti. La giustificazione che viene fuori è quella: non pago le tasse perché non lo fa nessuno». quindi, Bisogna, guardare con molta attenzione, secondo il professor Paganetto, l’area nella quale «si annida una reazione rispetto al fisco. Nell’indagine della Banca d’Italia, infatti, si evidenzia che il 17 per cento degli intervistati pensa che uno dei motivi per i quali si evade è che lo Stato incassa dei soldi e poi li spende male. Altri non pagano le tasse per riuscire a mantenere in vita la propria attività e altri ancora perché si rischia poco a non pagarle».

Emerge da quest’analisi, per Paganetto, il principio di quanto sia «importante che tutti paghino le tasse per scoraggiare gli evasori, altrimenti ci sarebbe una giustificazione forte a sottrarsi per tutti coloro che non sono lavoratori dipendenti. Sarebbe importante un’attività del fisco indirizzata a rendere evidente che le tasse si fanno pagare un po’ meno, ma a tutti.

Facendo in modo che a consumi maggiori corrispondano una maggiore tassazione Anche perché non credo sia possibile insistere sul concetto di reddito per ottenere equità fiscale. Vorrei ricordare che il concetto di reddito oggi è in discussione come misuratore del benessere, perché la collettività si determina attraverso i beni pubblici, ma questi non crescono perché non tutti pagano le tasse e non ci sono i soldi necessari. Il circolo vizioso è inevitabile e bisogna fare di necessità virtù facendo pagare le tasse ai cittadini che evadono, incidendo dove si manifesta la spesa: sui consumi».

L’effetto che si otterrebbe da questa azione, secondo Paganetto, «anche se fosse di modesta entità fornirebbe ai cittadini una motivazione per pagare le tasse e un piccolo spostamento farebbe percepire una sensazione di equità fiscale. Altrimenti il senso di ingiustizia finirebbe per legittimare la frenetica ricerca di un non corretto comportamento fiscale. Il risultato si otterrebbe con meccanismi automatici, poco legato all’attività amministrativa». La proposta di detrarre dalla denuncia dei redditi tutte le spese, la tassazione di contrasto indiretto sul modello statunitense, secondo il professor Paganetto, «non è facile da realizzare perché tra il sommerso in senso puro e quelli che evadono perché non possono pagare per garantire la sopravvivenza delle imprese il rischio è che si percepisca una forte ingiustizia fiscale». Legati all’evasione fiscale ci sono i controlli, ma Paganetto su quest’argomento è scettico: «da che mondo è mondo chi è oggetto di controlli fa di tutto per sottrarsi. Bisogna, invece, trovare dei meccanismi più automatici e meno legati all’attività amministrativa perché le imprese italiane sono moltissime e con pochi dipendenti. sarebbe impossibile effettuare dei controlli su tutti e quelli a campione non danno risultati soddisfacenti. In altri paesi i controlli funzionano, ma la dimensione media delle imprese è nettamente superiore a quella italiana». Maggiore pressione fiscale e maggiori controlli, secondo Paganetto «non danno i risultati sperati, anzi si cerca di evadere di più. Per superare questo impasse bisogna mettere in campo meccanismi che diano la sensazione di una maggiore equità fiscale, anche a costa di non realizzare una perfetta segmentazione della contribuzione, magari semplificando il sistema delle aliquote fiscali. Un cavallo di battaglia dell’economista Nicolas Kaldor».


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GIACOMO VACIAGO

Ridurre le tasse, ma solo a chi paga «Benefici immediati a chi chiede fattura e fa così il controllo sull’evasione altrui» ROMA. Fuori dalle retoriche rigoriste e autocompiaciute Giacomo Vaciago trova solo una formula, per definire la prossima manovra: «Indispensabile e inutile, come quelle precedenti: è uno strumento necessario per evitare il peggio, non per avere il meglio». Il professore di Politica economica della Cattolica di Milano si è ormai affezionato a questo paradosso, capace a suo giudizio di rifletterne un altro persino più deprimente: «L’evasione fiscale è il primo e principale problema della politica italiana da trenta o quarant’anni, ed è così in tutto il mondo: nei Paesi sottosviluppati, naturalmente». In quelli progrediti le leggi sono «rispettabili e rispettate» e «l’obbedienza al fisco è la prima cosa, è addirittura il fondamento della democrazia: i Parlamenti sono nati per questo, per determinare sulla carne dei cittadini come dovesse essere impiegato il prelievo. Gesù Cristo richiama gli infingardi e quando gli viene domandato se bisogna pagare le tasse chiede di chi sia il volto riportato sulla moneta. Viene da dire che a chi non paga le imposte andrebbe tolto il diritto di voto».

E qui restiamo forse sul terreno dei paradossi. O no? «Non più di tanto». D’accordo, ma esclusa questa ipotesi dove si possono mettere le mani? «Si dovrebbe applicare un principio, che per approssimazione potremmo descrivere così: abbassare le tasse a chi le paga». Come persuadere gli evasori a far pace con l’erario, in presenza di un beneficio che a loro non spetterebbe? «Se si vuole battere l’evasione bisogna mettere in conto un lavoro di almeno dieci anni. Prepararsi a un percorso lungo, a un recupero graduale, è la prima cosa. Dopodiché forse è necessario prendere coscienza dell’abisso che ci separa dal resto del mondo civilizzato. Vuole sentire un aneddoto?». Prego. «Qualche anno fa mi sono trovato da visiting alla Federal reserve. Mi hanno chiesto quale fosse il valore delle banconote circolanti in Italia. Quando hanno sentito la risposta questi americani hanno detto: “Caspita! Ma quanta droga e prostituzione

avete in Italia?». Droga e prostituzione. «Certo. In qualsiasi altra democrazia le transazioni in contanti, oltre una certa cifra, sono cosa rara. Roba per spacciatori e prostitute, appunto. Si usano gli assegni o le carte di credito. Ma vede, siamo al nodo della tracciabilità. Prodi, Padoa-Schioppa e Visco ci hanno provato senza riuscirci. Ora Berlusconi ci litiga con Tremonti, che vorrebbe recuperare quel sistema».

Italiani dunque refrattari al pagamento “tracciabile”. Il professor Vaciago lascia cadere qualche divagazione metastorica sul Belpaese abituato per secoli a identificare il potere con un’entità straniera, e dunque incline a raggirarla. «Sono centoncinquant’anni che non è più così. È vero d’altra parte che gli evasori da noi non sono affatto odiati. Anzi in genere suscitano sentimenti d’invidia. In concreto credo che l’unico vero antidoto a questo tipo di furbizia consista nell’incentivare i contribuenti a richiedere fattura. Cioè nel trasformare ciascun cittadino nel principale revisore contabile dell’altro». Il sistema, spiega l’economista, va affinato rispetto a quello attuale, appesantito da complicazioni e burocrazia: «Si deve estendere la detraibilità in modo che l’onesto veda immediatamente calare le proprie imposte se fa lui il controllo sull’evasione altrui. Bisogna creare un vantaggio immediatamente fruibile per chi pretende regolare fattura. Innanzitutto in quei settori come l’edilizia, o i servizi, che più sfuggono al fisco». Addirittura Vaciago immagina «procedure semplificate con accredito della somma detraibile a chi paga una fattura». È una forma di controllo «decisamente sostenibile rispetto all’idea, evidentemente fuori dalla realtà, di sguinzagliare eserciti di agenti tributari. Certo non si può chiedere di denunciare chiunque sia visto a bordo di una Porsche. La via descritta invece è praticabile, e consentirebbe di innalzare ogni anno l’asticella, di estendere la premialità a un numero sempre maggiore di settori. Di fatto si realizzerebbe quel principio enunciato all’inizio: abbas-

LE SOLUZIONI IN EUROPA GRAN BRETAGNA In Gran Bretagna l’ultimo provvedimento in materia di lotta all’evasione è stato il divieto di circolazione per le banconote da 500 euro: venivano usate per evotare ricevute ufficiali. Recentemente, Gb e Lichtenstein hanno firmato un accordo che prevede sanzioni ridotte per gli investitori britannici che decidono di cooperare volontariamente con le autorità rivelando i loro conti segreti. Verranno offerti notevoli incentivi a collaborare: gli evasori «pentiti» dovranno versare solo un massimo di dieci anni di tasse arretrate e pagare una penale scontata pari al 10% delle imposte evase. Il trattamento speciale avrà una durata di cinque anni, dal 1° settembre 2009 al 31 marzo 2015. Superata questa scadenza i conti dei cittadini britannici che non hanno patteggiato con Londra verranno chiusi.

FRANCIA Per combattere l’evasione, la Francia ha adottato la lista nera dei paradisi fiscali. Parigi tasserà maggiormente le imprese con una presenza in questi paesi e territori. La lista risponde ai criteri fissati dall’Ocse per definire gli stati «non cooperativi»; per penalizzare gli scambi con i paradisi fiscali, le autorità applicheranno un’imposta del 50%, contro un massimo che prima era del 33%, sugli interessi e i dividendi versati da entità societarie francesi a favore di cittadini domiciliati nei territori della lista nera. Parigi ha anche aperto uno sportello presso il ministero delle Finanze per accogliere spontaneamente gli esportatori di capitali all’estero promettendo solo sconti minimi e la non perseguibilità penale. Alla fine di dicembre 2009 circa 3.500 francesi avevano deciso di regolarizzare la loro posizione.

sare le tasse innanzitutto a chi le paga». Tornando ai paradossi, il professore dell’università Cattolica osserva: «Se quei 120 miliardi sottratti all’erario tornassero tutti improvvisamente nelle casse dello Stato l’Italia fallirebbe». Perché? «Ovviamente perché quel denaro verrebbe portato via dalla spesa. A maggior ragione non si può pensare di guarire l’Italia dal virus dell’evasione nel giro di poco tempo. Servono almeno un paio di lustri. E visto che le misure da mettere in campo non sarebbero sempre popolari, su questo credo che servirebbe davvero una forma di unità nazionale. Non le può adottare l’Esecutivo in quel momento in carica con una fiducia votata per il rotto della cuffia. Qui più che altrove può trovare applicazione la proposta avanzata da Pier Ferdinando Casini. Fermo restando che il discorso sul voto politico strettamente connesso alla capacità fiscale fa parte della storia della democrazia». E i bamboccioni che dichiarano scarsi 10mila euro sopravvivendo grazie all’aiuto dei genitori? «Be’, bisognerebbe concedere il doppio voto al padre, lui che c’entra…». Paradossi? «Sì, paradossi».

GIANFRANCO POLILLO

Seguire la traccia dei pagamenti Non basta tagliare le imposte, servono anche nuovi controlli. Soprattutto locali di Gianfranco Polillo arliamo di lotta all’evasione, ma fuori dal contesto di un’emergenza che tale non appare, stando almeno ai dati reali della situazione economica e finanziaria dell’Italia. E parliamo di lotta vera dopo il susseguirsi di slogan che datano almeno da diversi decenni. Finora – e qui le responsabilità sono di tutti e a tutti i livelli istituzionali – questo bandierone è stato sventolato nelle campagne elettorali, ma i risultati sono stati modesti: visto che abbiamo livelli di evasione per lo meno pari a quelli degli anni ’80. L’eva-

P

sione e l’elusione fiscale, come dicono gli economisti, è un fenomeno di isteresi. Un fenomeno, cioè, che persiste nel tempo, anche quando sono venute meno le cause originarie che l’hanno determinato. Esso pertanto continuerà, anche se abbasseremo il livello del prelievo erariale complessivo. Operazione, comunque necessaria, se non altro per eliminare l’alibi di chi si nasconde dietro il dito di una sorta di autodifesa contro le inadempienze dello Stato centrale: incapace di fornire un corrispettivo effettivo, in termini di qualità dei


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LUIGI CAMPIGLIO

GERMANIA La Germania di Angela Merkel si è trovata all’interno di una serie di tempeste giudiziarie a causa dell’attivismo del governo nella caccia agli evasori. Forse proprio a causa di questo, gli evasori fiscali autodenunciatosi sono cresciuti moltissimo. In Germania, coloro che si autodenunciano per redditi e capitali sottratti al fisco non vengono perseguiti penalmente, con la sola condizione di non essere stati scoperti e pagare le imposte retroattive per dieci anni, oltre a un tasso d’intesse pari al 6%. Gli otto anni di carcere che si è preso il lobbista Karl Heinz Schreiber sembrano essere un ottimo deterrente. Il picco di evasione è stato toccato nel 2003, quando toccava 17,1% del Pil. Le riforme del mercato del lavoro, introdotte dall’allora cancelliere Gerhard Schröder, hanno comportato un calo del lavoro in nero.

SPAGNA Nella Spagna di Zapatero per combattere i furbetti del fisco il governo ha varato una sessantina di provvedimenti in quattro aree di riferimento: agevolazione dell’adempimento volontario, raccolta e selezione delle informazioni, controlli e azioni di recupero delle somme dovute all’erario. Il governo si attende di accrescere le entrate tributarie provenienti dalla lotta all’evasione fiscale, all’economia sommersa e al lavoro in ”nero”, di un importo pari allo 0,1% del Pil nel 2013. Al centro della strategia c’è lo scambio di informazioni tra i vari enti pubblici deputati al controllo. È stato poi creato un osservatorio antifrode per affinare il profilo di rischio dei contribuenti nei diversi settori economici e migliorare l’esito della lotta contro l’evasione in campo previdenziale e assistenziale.

servizi, al suo potere d’imposizione. Se questa è la premessa, la successiva conclusione è nell’escludere ogni misura miracolistica. Come nel caso della lotta alle mafie, la guerra è di lunga durata: occorrono cioè misure di carattere legislativo ma soprattutto d’intelligence, nel rendere effettivo e non solo teorico il contrasto a un’attività ai confini con il mondo del crimine, sia pure da colletto bianco. Che fare quindi? Iniziare fin da ora, ma sapendo che i risultati verranno solo in seguito e marceranno di pari passo con i cambiamenti profondi degli assetti istituzionali.

1. Dobbiamo guardare al “federalismo fiscale” – quello serio e non solo di facciata – come a una risorsa importante. La lotta all’evasione evoca più gli schemi logici della contro-guerriglia che non quelli della guerra tradizionale. Si deve, innanzitutto, conoscere il terreno. Lo Stato centrale è sempre troppo distante. Le trasformazioni sono continue, quasi molecolari. Ma la percezione del cambiamento avviene sempre in ritardo ed in

forme sommarie. Si guardi agli assetti urbanistici delle città italiane. Quartieri ieri abbandonati che, d’improvviso, risorgono a nuova vita. Che diventano luoghi d’incontro e di sviluppo di attività, una volta improbabili. Collettori di reddito che una conoscenza approfondita può censire e aggredire fiscalmente. Occorre poi motivare le pattuglie. Il decentramento nell’accertamento, a condizione che comporti una partecipazione agli utili dell’attività da parte dell’Ente locale, rappresenta l’incentivo giusto a scovare chi si nasconde nella giungla urbana, sfuggendo a ogni controllo. Per fare questo ci vuole il tempo necessario. Quindi un monitoraggio dell’apparato centrale; ma più in funzione del controllo sui controllori che non di sostituzione dei medesimi.

2. Occorre la tracciabilità dei pagamenti. L’evasione – specie dell’Iva – presuppone il pagamento in contanti. Occorre che questo argent de poche sia limitato alle piccole spese. I 100 euro proposti da Visco erano il segno di un’oppressione fiscale

eccessiva. Alzare quel livello significa controllare un segmento della grande e media distribuzione e quindi produrre un effetto a cascata da cui sarà difficile prescindere. Lo stesso vale per i professionisti, per i quali è possibile prevedere una soglia più bassa. La misura non è elegante, ma efficace.

3. Occorre rivedere la tassazione locale sui patrimoni. Può essere la tassa unica, ipotizzata da Calderoli, o una forma di tassazione sullo “spazio abitativo”. Se si accompagnasse alla totale esenzione dei trasferimenti degli immobili, avrebbe il vantaggio di rendere più fluido il mercato immobiliare e risolvere problemi di natura ben più complessa. Finora gran parte della mobilità urbana specie delle grandi città deriva anche dal fatto che si è restii a cambiare abitazione per i costi impliciti (registro, plusvalenze ecc.) che questa scelta comporta. Una misura come quella proposta tasserebbe le “cose” più che le “persone” e darebbe respiro al riordino complessivo del sistema fiscale.

Se cerchi i lussi, trovi gli evasori «La ricetta è semplice: basterebbe confrontare il reddito con i consumi» ROMA. Quasi 120 miliardi tra Irpef, Ires, Iva, Irap, altre imposte e contributi sociali. È la stima dell’evasione fiscale calcolata dal Sole 24 Ore che sottolinea nella sua inchiesta come il dato di riferisca al Pil 2009, in crescita rispetto al 2007 quando l’evasione stimata si fermava a 100 miliardi. Si tratta di una forchetta che oscilla tra i 232 miliardi e i 257 miliardi, cui corrispondono rispettivamente 105 e 118 miliardi di imposte non pagate. Segno - aggiungeva ieri il Sole - che la crisi cominciata due anni fa ha avuto tra gli altri, l’effetto di far crescere le attività nascoste, come per altro sostengono alcuni studiosi. «Non si tratta di mettere in atto una caccia alle streghe, ma in Italia evidentemente c’è qualcosa che non quadra se ci sono migliaia di cittadini che dichiarano al fisco entrate per 30 o 40 mila euro l’anno e poi girano in Mercedes e posseggono la casa al mare». È laconico il professor Luigi Campiglio, pro-rettore dell’università Cattolica di Milano e professore ordinario di Politica Economica. Chiedere ad un economista quali possono essere le possibili soluzioni per ridurre l’evasione fiscale e arginare la crisi (magari facendo tesoretto proprio di questi soldi emersi dalla lotta all’evasione) potrebbe far temere le risposte più varie e scientifiche. Invece Campiglio dà come possibile soluzione una semplice e a suo dire «immediatamente attuabile» soluzione: «Basterebbe dare un’occhiata – è l’opinione del pro-rettore della Cattolica – agli standard di consumo degli italiani». Per capirci: secondo Campiglio se uno dichiara di guadagnare duemila euro al mese è assai difficile che con questi soldi riesca a mantenere più di una casa, svariate macchine e magari anche la o il collaboratore domestico. «Io vivo a Milano e in questa città sfrecciano migliaia di macchine di lusso, i negozi d’alta moda o di design sono sempre affollatissimi e non solo di turisti, nel fine settimana si assiste al dileguarsi vero e proprio di mezza città verso le mete di villeggiatura. Mi pare evidente che qualcosa non torna se davvero gli italia-

ni che per il fisco guadagnano più di 200mila euro sono solo l’1%». Un ragionamento che non fa una piega, invero, ma come fare a “stanare” tutti questi ricconi travestiti da medio borghesi? «Occorre – spiega Campiglio – individuare quei segnali di consumo che meglio possono consentire di ipotizzare il livello del tenore di vita dei singoli cittadini», cioè, in buona sostanza, fare un elenco di quei beni che si può permettere solo chi ha un reddito alto? «Esattamente. Specie in un periodo come questo, sono certo che chi guadagna davvero 30mila euro all’anno difficilmente può permettersi certi lussi. Basterebbe stilare rapidamente un elenco come indicatore».

Certo, ma quali sarebbero i beni da mettere in questo elenco? «Innanzi tutto beni di lusso come macchine dai super motori, barche, case al mare e/o in montagna (i viaggi no, perché oggi tutti possono permettersi una vacanza visti i “pacchetti”e la rateizzazione offerta da quasi tutti i tour operator) ma anche il collaboratore domestico – non la badante, attenzione». Per di più il pro-rettore ritiene che vada bene «non fare una caccia alle streghe, ma non possiamo esimerci dall’ammettere che in questo paese il malcostume di non pagare le tasse sia, specialmente in certe regioni, uno sport praticato da molti». Parole condivisibili e certamente la soluzione che il professore di politica economica prefigura troverebbe un ampio consenso nell’opinione pubblica, tuttavia emerge il solito dilemma: è possibile realizzarla? E in che tempi, vista l’urgenza data dalla crisi? «Prevedere dei parametri sui redditi è poco dispendioso in termini di “copertura finanziaria” – un tema assai caro al nostro ministro Tremonti – è però necessario che ci sia la volontà politica di realizzare un disegno del genere. I tempi? Anche quelli, se si vuole, potrebbero essere brevissimi: questo governo decreta d’urgenza con una frequenza inconsueta. In questa fattispecie l’urgenza c’è eccome, la crisi rischia infatti di farci tracollare ai livelli della Grecia».


diario

pagina 6 • 25 maggio 2010

Stretegie. La svolta annunciata dai centristi va oltre la semplice contrapposizione tra nostalgia e cambiamento

L’Udc, dalla storia al futuro

Il convegno di Todi ha rilanciato un modello di cultura di governo segue dalla prima In primo luogo, il simbolo del nuovo partito non avrà più alcun nome, compreso quello di Casini, perché si tratta di un soggetto politico destinato a durare al di là di ogni singolo leader del quale pur si avverte la essenzialità; in secondo luogo la nostalgia che è stata ripetutamente indicata riguarda non tanto il partito specifico della Democrazia Cristiana, quanto la traccia profonda di una cultura di governo che aveva trovato nella Democrazia Cristiana e nei partiti laici con essa alleati il coagulo culturale e politico che aveva dato vita ad un sistema di governo nel quale si riusciva a contemperare le esigenze della tradizione con quelle della innovazione. Si tratta di due novità di grande rilievo perché si afferma per un verso la natura non personale ma politica del nuovo soggetto da costruire, e perché si afferma che la rigorosa salvaguardia della identità culturale è posta a fondamento di una cultura di governo, e non soltanto della rivendicazione orgogliosa di una identità fine a se stessa.

In qualche modo vi è stata una sorta di rottura tra il prevalere della logica della nostalgia che aveva trovato nel simbolo stesso della Unione di Centro la compresenza di tre esperienze comunque rifacentisi alla Democrazia Cristiana storicamente intesa: centro e scudo crociato erano stati di conseguenza i

costituisce per sua natura sia il rifiuto della mitizzazione di una inesistente età dell’oro alla quale far riferimento per opporsi a qualunque cambiamento, sia il rifiuto culturale prima ancora che politico di radici significative per affermare il primato della volontà popolare. Il prevalere assoluto della nostalgia significherebbe infatti rifiuto di qualunque cambiamento capace

Il partito da costruire nasce con l’orgogliosa rivendicazione del proprio passato ideale e pure con una chiara disponibilità alle novità simboli di una nostalgia più ancora che di una apertura culturale e politica al cambiamento. Si può affermare in tal modo che il partito nuovo da costruire nasce con l’orgogliosa rivendicazione del proprio passato ideale e con la evidente disponibilità al cambiamento, per tale intendendosi tutto ciò che si ritiene essenziale per meglio servire l’unità d’Italia nel contesto contemporaneo. Nostalgia dunque quale parte essenziale di un rapporto tra passato presente e futuro che

tate circostanze temporali e spaziali che l’Italia sta vivendo in questa stagione. L’intero schieramento che ha dato vita al Popolo delle libertà e all’alleanza preferenziale con la Lega Nord appare infatti sostanzialmente privo di radici e avventurosamente teso o a negare il significato profondo dell’unità nazionale o a disconoscere un qualunque equilibrio tra passato presente e futuro. Lo schieramento che ha dato vita al Partito Democratico a sua volta sembra ancora impigliato nel suo tentativo di passare da una nostalgia per radici che finirebbero necessariamente con l’essere prevalentemente quelle del primato dell’Unione Sovietica, ad un cambiamento che non riesce ancora a trovare significato compiuto come dimostrano i tanti scritti concernenti proprio la difficoltà di passare dalla sinistra tipica della modernità industriale alla sinistra – o a quel che le assomiglia – dell’epoca presente.

di Francesco D’Onofrio

di sollecitare le radici rispetto alla capacità stessa di far nascere nuovi frutti, mentre il disconoscimento delle antiche radici significa precipitare nel presente senza alcun rapporto né con il passato né quindi con il futuro.

Si può infatti rilevare che nel panorama politico italiano manca proprio questo senso di una nostalgia capace di essere al tempo stesso orgogliosa rivendicazione delle radici e disponibilità al cambiamento richiesto dalle mu-

Le giunte locali ancora in sospeso

Roma chiama Caserta ROMA. Potrebbe essere la settimana buona per chiudere due partite amministrative che vedono impegnata l’Udc: la giunta regionale del Lazio e la provincia di Caserta. Ieri mattina, con una telefonata, Renata Polverini e il segretario nazionale dell’Udc Lorenzo Cesa hanno deciso che non si terranno vertici finché la presidente non sarà pronta a definire gli assetti della giunta. La partita potrebbe chiudersi anche entro domani quando si riunirà il Consiglio regionale del Lazio. Quasi sicuramente i due che dovrebbero lasciare l’assessorato per fare posto agli esponenti Udc sono Stefano Battistoni (ex FI, Agricoltura) e Antonio Cicchetti (ex An, Cultura e Scuola), gli unici che possono contare su un seggio in Consiglio. Secondo indiscrezioni la Polverini sarebbe intenzionata a

proporre all’Udc le stesse deleghe dei due dimissionari per evitare un rimpasto generale. Per la provincia di Caserta anche il presidente dimissionario Domenico Zinzi si è detto fiducioso che entro la fine della settimana si possa giungere alla definizione della giunta, anche perché rimangono ancora due settimane all’eventuale scioglimento del Consiglio. Dovrebbe essere stata superata la questione della presenza dei sindaci in giunta (quelli di Aversa e Pignataro Maggiore), mentre è ancora da definire la rappresentanza dei partiti della coalizione. Il presidente Zinzi vorrebbe garantirsi la maggioranza in giunta grazie alla nomina di alcuni esponenti della Seconda università di Napoli, mentre il Pdl rivendica una composizione (f.i.) politica.

La novità che si è manifestata a Todi investe pertanto entrambe gli schieramenti che orgogliosamente hanno tentato di definirsi come i baluardi politici dell’attuale bipolarismo italiano. Per quel che concerne il cambiamento è di tutta evidenza che tre sono le questioni di fronte sulle quali il nuovo soggetto politico è chiamato a pronunciarsi: la nuova stagione politica del Mediterraneo, che sta divenendo sempre più snodo essenziale dei rapporti tra l’Europa da un lato e l’Africa e l’Asia dall’altro; il processo di costruzione dell’unità europea, tuttora in bilico, tra residua sovranità nazionale e crescente integrazione europea; il complessivo processo di globalizzazione, che sta dimostrando sempre più di non avere soltanto significati economici. Tra nostalgia e cambiamento il nuovo soggetto politico si pone dunque alla ricerca di un nuovo equilibrio generale, essenziale per il governo dell’Italia nel tempo presente: si tratta di un programma certamente ambizioso che come tale richiede di conseguenza di passare dall’Unione di Centro e dal suo simbolo ad un nuovo simbolo e ad un nuovo nome.


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25 maggio 2010 • pagina 7

Un’indagine dell’Istat: sono 189.812 le aziende interessate

Il giudice di Milano rigetta il ricorso di Conto Tv

Esportazioni in calo: il 2009 è stato un anno nero

È regolare il contratto tra Sky e Lega Calcio

ROMA. Sono 189.812 gli operatori economici che hanno effettuato vendite all’estero di merci nel 2009. Lo comunica l’Istat, pubblicando i risultati di un’indagine sugli operatori commerciali dell’esportazione nel 2009. Fra il 2008 e il 2009 - sottolinea l’Istat -, il numero di esportatori ha subito una flessione del 3,3% (pari a circa 4.500 unità), generalizzata per tutte le classi di valore delle vendite sui mercati esteri. La distribuzione degli operatori per valore delle esportazioni mostra la presenza di 116.228 operatori (definiti ”microesportatori”) che presentano un ammontare di fatturato all’esportazione inferiore a 75.000 euro, con un contributo al valore complessivo delle esportazioni pari allo 0,6%. D’altra parte, 8.218 operatori appartengono alla classe di fatturato superiore a 5 milioni di euro e realizzano l’81% circa delle vendite sui mercati esteri. I primi cinquanta esportatori rappresentano il 16,6% del totale delle esportazioni nazionali, i primi 100 il 22,1%, mentre per i primi 1.000 la percentuale di export attivato è pari al 48,6%. Il 43,9% degli operatori - spiega l’Istat - esporta merci verso un unico mercato, il 15,3% opera su oltre dieci mercati; 136.834 operatori sono presenti sul mercato comunitario (esportando circa il 58% del totale delle vendite all’estero), 77.847 sui paesi europei non appartenenti all’Ue, 34.667 sul mercato dell’America settentrionale e 34.289 in Asia orientale. Dal 2008 al 2009 il peso relativo ai microesportatori passa dal 53,2 al 54,6%, mentre quello degli operatori che esportano più di 50 milioni di euro dallo 0,8 allo 0,6%. Dei circa 138 mila operatori attivi nel 2008, poco più del 25% registra, nel 2009, un incremento delle vendite all’estero.

MILANO. Il giudice civile di Mi-

Guerre delle vacanze nella maggioranza La Lega contro Gelmini sull’apertura delle scuole

lano, Claudio Marangoni, ha respinto il ricorso di Conto Tv che chiedeva di «congelare» gli effetti del contratto tra la Lega Calcio e Sky per la trasmissione delle partite di Serie A delle prossime due stagioni. In gioco c’era un contratto che, per le società che si apprestano a iscriversi al prossimo campionato, vale 1.149 milioni di euro per due anni. Dunque, per le società di calcio, sempre più in difficoltà, si tratta di una cospicua boccata d’ossigeno.

Nelle motivazioni alla sua decisione, il giudice Marangoni confuta la tesi dei legali di Conto Tv secondo i quali sarebbe

di Francesco Lo Dico

ROMA. «Per le scuole di ogni ordine e grado l’anno scolastico ha inizio dopo il 30 settembre». Le diciassette parole che fanno del ddl presentato dal senatore del Pdl Giorgio Costa, il provvedimento più conciso della storia repubblicana, avrebbero potuto mandare in visibilio un maestro della Semplificazione come il ministro Calderoli. E invece, nonostante la sallustiana concisione, il fuoco leghista si è sparso in abbondanti vampate contro lo smilzo codicillo degli alleati di Governo.

A versare benzina sull’ennesimo stucchevole dibattito di un Paese che rischia il crac da un giorno all’altro, le dichiarazioni del ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, che è apparsa alquanto lusingata dal posticipo delle lezioni. «È una proposta sulla quale si può discutere – ha detto la Gelmini dai microfoni di Sky Tg24 – io sono molto aperta su questo tema perché effettivamente il nostro Paese vive di turismo e oggi le vacanze per le famiglie non sono più concentrate a luglio e agosto». Ma il ministro ha voluto evidenziare anche come «a settembre si possono avere migliori opportunità sul piano economico. Per certi versi uno slittamento dell’inizio dell’anno scolastico – ha spiegato – potrebbe aiutare le famiglie a organizzare meglio il periodo delle vacanze e dare anche un aiuto al turismo. Vedremo come deciderà il Parlamento». Una discreta apertura di credito, che ai lumbàrd non è affatto piaciuta. «È inattuabile», chiosa la senatrice della Lega Nord, Irene Aderenti, «in quanto la direttiva europea prevede 200 giorni e va rispettata, perché se togliamo i giorni di scuola del mese di settembre si rischia di non rispettare questo minimo». Ma ciò che adombra il Carroccio, non è certo la sacrilega violazione della legislatura europea, altre volte conculcata senza grandi imbarazzi. «Le Regioni formulano già il calendario regionale delle lezioni – annota la senatrice – quindi ognuna di esse ha già questo tipo di autonomia di decisione formulandola in base alle problematiche climatiche e turistiche del territorio». Per il Governo della devolution, del federalismo

padano che salverà noi tutti dal tracollo, la scuola centralistica a regioni unificate non è esattamente un omaggio alla secessione. «Ci sono le regioni del Nord che hanno temperature, climi diversi e calendari turistici diversi: una provincia come il Trentino preferirebbe avere più vacanze nella stagione invernale», precisa la Aderenti venendo finalmente al punto. Prima il grembiulino, poi il ritorno alla votazione numerica, ora il calendario unico dettato da Roma ladrona. Che cosa spinge il Governo che ha dato abbrivo all’epopea padana , verso l’irresistibile fascinazione dei Sixties? Di certo non il boom economico. L’idea di Costa è secondo il segretario della Flc Cgil, Mimmo Pantaleo «un po’ stravagante. Dato il parere favorevole anche della Gelmini, posticipare l’inizio dell’anno serva al ministero per prendere tempo per risolvere le mille incertezze in cui oggi versa il sistema. Le vacanze estive sono una scusa, dietro il progetto di posticipare ci sono le conseguenze delle politiche sbagliate del governo». Ancora più esplicito il Pd, che parla di «macelleria scolastica». «Subordinare l’inizio della scuola alle esigenze del turismo – commenta il senatore Giuseppe Lumia – è un’idea barbara, frutto di una cultura politica rozza e cinica. La stessa che ha decretato i tagli e che adesso vuole continuare a tagliare, cancellando un altro mese di scuola».

«Proposta inattuabile», sentenzia il Carroccio. «Le Regioni devono restare autonome. Il Nord ha un clima diverso»

Sarcastica la responsabile scuola del Pd, Francesca Puglisi: «Se ne è accorta perfino la Lega che con questa proposta si finirebbe sotto i 200 giorni previsti dalle direttive europee». «Con chi dovrebbero stare in vacanza gli studenti, mentre i genitori lavorano?», si domanda la Puglisi. «Pensare di rilanciare il turismo facendo cassa di nuovo sulla scuola è da irresponsabili», commenta Fabio Evangelisti dell’Idv. «Il fatto che si parli di slittamento dell’inizio e non della fine ci fa pensare che si voglia ridurre l’offerta formativa», aggiunge il capogruppo del Pd nella commissione Cultura della Camera, Manuela Ghizzoni. Ma in fondo, con un sole e un mare così belli, chissenefrega.

molto difficile reperire frequenze satellitari. «L’impossobilità di acquisire ulteriori canali - scrive - sembra smentita dalle produzioni documentali delle controparti che dimostrerebbero invece l’attuale disponibilità di frequenze esistente sul mercato». Per il giudice, «gli elementi addotti dalla ricorrente - contemporaneo svolgimento di più incontri calcistici, difficoltà di reperimento di un sufficiente numero di frequenze satellitari - sembrano suscettibili di ridimensionamento». Il giudice, inoltre, ricorda di avere solo il potere di dichiarare nullo il contratto già esistente senza poter vincolare positivamente la volontà delle parti sul contenuto dei loro rapporti. «E la mera inibitoria dell’esecuzione del contratto stipulato ove concessa non potrebbe consentire l’immediata assegnazione ad altro soggetto dello stesso bene oggetto del contratto, dovendosi subordinare una rinnovata disponibilità dei diritti in questione in capo all’originaria titolare della formale declaratoria di nullità del contratto riservata all’esito del giudizio di merito», osserva il giudice. Insomma, la Lega Calcio si è correttamente comportata mentre le doglianze contenute nel ricorso di Conto Tv vengono definite «non fondate».


mondo

pagina 8 • 25 maggio 2010

Scenari. Obama promette aiuto a Seoul contro Pyongyang, ma quella del Pacifico rischia di diventare una guerra mondiale

Lo spettro d’Oriente Corea, Giappone e soprattutto Cina: reggerà l’egemonia Usa all’attacco? di Vincenzo Faccioli Pintozzi arafrasando Karl Marx, potremmo dire che c’è uno spettro che si aggira per l’Occidente. Soltanto che questo spettro è, di fatto, l’Oriente: l’altra faccia del mondo, sino a un paio di anni fa quasi del tutto silente, che oggi fa sentire con sempre più forza la propria forza sul palcoscenico internazionale. Un episodio che può aiutare a capire meglio il nuovo disegno globale viene dalla penisola coreana, mai come oggi sull’orlo di un nuovo conflitto interno.

P

Partiamo dall’inizio: ieri la Corea del Sud ha annunciato la sospensione degli scambi commerciali con la Corea del Nord e ha chiesto le scuse del regime comunista di Pyongyang per l’affondamento della corvetta

Cheonan, avvenuto lo scorso marzo, in cui morirono 46 marinai. In un discorso teletrasmesso, il presidente sudcoreano Lee Myung-bak - considerato un conservatore, nonché buon amico degli Stati Uniti ha confermato che Seoul ricorrerà dinanzi al Consiglio di sicurezza dell’Onu per reclamare sanzioni contro Pyongyang e ha avvertito che il suo governo prenderà misure di autodifesa in caso di una nuova provocazione nordcoreana.Seoul ha anche annunciato il divieto di navigazione ai mezzi navali

e minaccioso» e di domandare scusa per il suo attacco. «Noi approviamo la domanda del presidente Lee che la Corea del Nord chieda immediatamente scusa e punisca i responsabili dell’attacco - ha detto il portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs in una dichiarazione - e, cosa più importante, cessi il suo comportamento belligerante e minaccioso. Il sostegno degli Stati Uniti per la difesa della Corea del Sud è inequivocabile e il presidente statunitense ha ordinato ai suoi comandanti militari di coordinarsi stretta-

La crisi nucleare in Corea del Nord e Iran dimostra che la deterrenza, ormai, è nelle mani di Pechino e Mosca. L’America può soltanto chiedere (non pretendere) delle soluzioni pacifiche al problema nordcoreani nelle sue acque territoriali. Immediato e pieno il sostegno da parte del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama che - in un comunicato diffuso dalla Casa Bianca - ha assicurato la collaborazione militare delle truppe statunitensi «per evitare future aggressioni», precisando che le misure adottate contro Pyongyang sono «assolutamente appropriate». Il presidente Barack Obama ha chiesto inoltre alla Corea del Nord di cessare il suo «comportamento bellicoso

mente con le loro controparti sudcoreane per assicurare la sicurezza e impedire future aggressioni». Parallelamente il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha chiesto alla Cina di collaborare con gli Stati Uniti sulla delicata vicenda. Il capo della diplomazia di Washington è in missione in Cina - con una delegazione di 200 persone - per il Dialogo strategico ed economico sino-americano, una panoramica della cooperazione politica ed economica tra i due Paesi, che ha aperto i battenti a Pechino, sul-

lo sfondo della crisi nella penisola coreana. L’incontro annuale è solo il secondo in questa configurazione e deve permettere ai delegati di affrontare le relazioni economiche tra la prima e la terza economia mondiale, oltreché risolvere molte controversie. Gli Stati Uniti lavorano per evitare una escalation nella penisola coreana.

«La Corea del Nord - ha sottolineato Hillary Clinton - ha creato una situazione precaria nell’area, una situazione in cui ogni Paese vicino o prossimo

alla Corea del Nord comprende che essa deve essere limitata». Il capo della diplomazia statunitense ha detto che è in «piena consultazione» con la Cina, che ha «riconosciuto la gravità della situazione». Anche il Giappone si è schierato accanto alla Corea del Sud sul proposito di portare il caso dell’affondamento della corvetta Cheonan e le responsabilità di Pyong yang al Consiglio di sicurezza dell’Onu. «Non sono sicuro se prenderemo l’iniziativa, ma penso che sosterremo con forza la Corea del Sud», ha detto

Washington e Pechino annunciano un’intesa «per aiutare il Vecchio Continente a superare la crisi»

Un cordone per rivalutare l’euro di Francesco Pacifico

ROMA. Di questi tempi la rivalutazione dello yuan può attendere. Ieri a Pechino Hillary Clinton e Timothy Geithner hanno abbozzato di fronte alle ennesime promesse di Hu Jintao. Perché con l’Europa che rischia di far sprofondare la ripresa, si può anche far passare come impegno la disponibilità a «portare avanti la riforma del meccanismo di formazione del tasso di cambio sulla base dei principi dell’indipendenza del processo decisionale, della controllabilità e dei progressi graduali».

Al vertice bilaterale tra Stati Uniti e Cina la prima e la terza economia al mondo hanno finito ben presto per discutere di euro e delle soluzioni per frenare la caduta dell’economia più matura al mondo. Di più, il nuovo e il nuovissimo mondo hanno anche annunciato un cordone sanitario per l’euro, in grado di contenere la speculazione e di garantire il debito sovrano più del piano da 750 miliardi lanciato due settimane orsono da Unione europea, Fondo monetario e Stati membri. E pensare che poco più di 10 anni lo stesso patto

era stato stretto da Usa ed Europa quando la speculazione aveva fatto saltare le giovani borse delle Tigre asiatiche. Ieri mattina il governatore della Banca Centrale cinese, Zhou Xiaochuan, ha invece fatto sapere che «Cina e Stati Uniti sono d’accordo nel lavorare insieme per aiutare l’Europa a superare la crisi dell’euro. In generale vogliamo supportare le misure che l’Europa ha preso per superare le difficoltà. La nostra intenzione è quella di mantenere il ritmo della ripresa economica». La parola d’ordine, quindi, è stabilità. Soprat-


mondo

25 maggio 2010 • pagina 9

dalla Cina se agiscono da soli. Così come pochi problemi possono essere risolti se Stati Uniti e Cina non lavorano insieme. Non saremo d’accordo su ogni argomento ma ne discuteremo apertamente, come amici e compagni». Una linea, quella della Clinton, condivisa (ma non in maniera completa) anche da Pechino.

«La Cina e gli Stati Uniti - ha detto il presidente cinese, Hu Jintao - dovrebbero mantenere rapporti molto stretti per una piena comunicazione. Inoltre dovremmo portare avanti un dialogo strategico e consultazioni che mirino a rafforzare la comprensione reciproca, ad espandere il terreno comune e a promuovere la cooperazione». Hu Jintao, nel suo saluto all’apertura del forum sinoamericano, ha però voluto chiaramente indirizzare un messaggio ai ritrovati amici a stelle e strisce. «La sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale - ha detto Hu dinanzi alla

Pechino, ma anche il Medioriente non sembrano più essere disposti a subire. Lo ha detto con estrema chiarezza il presidente siriano Bashar el Assad in un’intervista apparsa ieri sulle colonne di Repubblica: «Per anni abbiamo atteso che Stati Uniti e Europa risolvessero i problemi che dichiaravano di voler risolvere. Non l’hanno fatto, e ora siamo pronti a pensarci da soli». Quel “soli”, però, non si riferisce in maniera esclusiva al governo di Damasco. Come chiarisce lo stesso “leoncino”, infatti, è il nuovo asse con Iran e Libano a voler intraprendere misure diplomatiche - più o meno convenzionali - per i problemi della regione. Israele in primis. Il tutto con la benedizione e la partecipazione pratica di quel convitato di pietra in ogni consesso internazionale: la nuova Russia di Putin, così simile a quella vecchia da scatenare moti di nostalgia. Il Cremlino ha lanciato, e su questo non ci sono più dubbi, una nuova strategia internazio-

Lo scoppio delle Borse mondiali rivaluta quei mercati, soprattutto asiatici, che si poggiano sull’economia reale e non sulla speculazione. È la fine della prerogativa economica occidentale

in conferenza stampa il portavoce del Governo di Tokyo, Hirofumi Hirano. «Naturalmente, il presupposto per questa iniziativa - ha osservato - è la stretta cooperazione tra Giappone, Stati Uniti e Corea del Sud. E se questo avviene, ci piacerebbe avere un ruolo, se ci sarà la possibilità, e ottenere che la Cina riconosca di essere nella stessa situazione». Il primo ministro, Yukio Hatoyama, ha detto la scorsa settimana che il Giappone dovrebbe «essere in prima linea» nel caso in cui Seoul decida di investire il

Consiglio di sicurezza dell’Onu per una risoluzione contro Pyongyang. Da settimane le due Coree sono ai ferri corti dopo il siluramento di una corvetta sudcoreana a opera della Marina del regime comunista di Pyongyang; e giovedì scorso un’équipe di esperti internazionali ha concluso che è stato un siluro nordcoreano ad affondare l’imbarcazione.

Per tutta risposta la Cina l’unico Paese ad avere una reale possibilità di calmare con la propria influenza la Corea del

tutto se – come ha previsto il Fmi – in un mondo che nel 2010 crescerà del 3,9 per cento, la Cina vedrà il suo Pil salire del 10 per cento. l’America del 2,7 e l’Europa appena dell’1,2. Non a caso Hu, pur non citando il malato, ha chiesto di «rafforzare il coordinamento sulle questioni globali e le crisi regionali». Sono vari i motivi per i quali Stati Uniti e Cina devono accompagnare l’Europa nella sua difficilissima battaglia contro la speculazione e il surplus di debito sovrano. Innanzitutto c’è la necessità di frenare la speculazione, che può estendersi all’Asia con estrema facilità. E sui suoi mercati, si sa, sono quotati gli stessi strumenti riassicurativi che hanno aperto per l’America la crepa dei subprime e girano una liquidità prodotta dagli emergenti che nessuna economia dell’area

Nord - ha dichiarato: «La Cina auspica che le parti mantengano la calma e la moderazione nell’affrontare le questioni rilevanti con la giusta correttezza». Un modo come un altro per prendere tempo. E per dimostrare al proprio avversario, gli Stati Uniti, che si può collaborare ma fino a un certo punto. Secondo la Clinton, per quanto riguarda il dialogo sinoamericano, le due nazioni «condividono obiettivi e responsabilità. Sappiamo bene che pochi problemi possono essere risolti dagli Stati Uniti o

(nemmeno la roboante Cina) riuscirebbe ad assorbire con la sua domanda interna. Non è un caso che dall’inizio dell’anno il secondo listino al mondo ad aver bruciato più risorse sia stata, dopo quello di Atene,

Clinton - sono i diritti fondamentali riconosciuti dalle norme che governano le relazioni internazionali. Per il popolo cinese, nulla è più importante che la salvaguardia della sovranità nazionale e dell’integrità territoriale». Pur se non chiaramente espresso, il riferimento del presidente cinese è alla politica americana nei confronti di Tibet e Taiwan e alle richieste di una rivalutazione della moneta nazionale. Ma questi sono i campi in cui, fino ad oggi, gli Stati Uniti hanno esercitato la loro egemonia internazionale: con l’intervento in teatri altrimenti sconosciuti - come il Vietnam e la stessa Corea, ma cinquant’anni fa - Washington ha creato di fatto un impero basato sull’ingerenza negli affari altrui. Una linea che non soltanto

nale per tornare al ruolo di guida di una parte di nazioni ideologicamente lontane da Washington. Come dice sempre Assad, «Mosca non ha mai considerata conclusa la Guerra Fredda, e neanche noi. Ha semplicemente cambiato forma».

Un punto di vista, purtroppo, verosimile e condivisibile. Come nel 1923, il Vecchio Continente è squassato da crepitii economici e da alleanze mai del tutto saldate, mentre l’America ha talmente tanti problemi interni da far pensare a un ritorno dell’isolazionismo. Il resto del mondo diventa bottino per chi ha la forza, il denaro e la capacità di accaparrarselo. E non ci sono dubbi che queste nuove volontà egemoniche siano nell’Estremo Oriente.

yuan sulla divisa europea pari a sei volte rispetto ai livelli di un paio di mesi fa. E questo trend può tramutarsi in feroce speculazione visto che Pechino deve mantenere bassi i tassi d’interesse per frenare le distorsioni sociali.

La prima e la terza potenza economica del mondo temono che le speculazioni sulla moneta comunitaria si trasferiscano sui mercati del Fareast dove è forte l’eccesso di liquidità e bassi i consumi lo Shanghai Composite Index: -20 per cento a fronte di un economia che nello stesso lasso di tempo è salita dell’11,9. E a ben guardare i titolo più colpi sono quelli più legati ai beni rifugio (immobiliare e servizi finanziari) o alle importazioni di materie prime (automotive). L’euro che oscilla tra l’1,2 e l’1,3 sul dollaro ha generato una svalutazione dello

Ma non c’è soltanto il fronte finanziario a interno a spingere Washington e Pechino a difendere l’Europa. Per motivi opposti le due potenze hanno bisogno di rivedere il loro modello di sviluppo e di rafforzare la loro domanda interna per superare la dipendenza dalle speculazioni finanziarie (Usa) e dalle esportazioni (la Cina). E soltanto un’Europa forte, con una moneta stabile, può nel contempo comprare i beni realizzati a ovest e est del mondo e a sua volta soddisfare la loro domanda interna con una produzione di nicchia.

Il Segretario Usa al Tesoro, Tim Geithner. Nella pagina a fianco, il presidente Obama. Sopra, l’esercito cinese


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panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Il «Supermarket Italia» secondo Massimo Fini assimo Fini è un ribelle. Con questo titolo - Il ribelle - ha pubblicato nel 2006 un bel libro con Marsilio. Ora il ribelle ne ha pubblicato un altro. È composto da articoli che ha scritto dal 1980 fino “ai giorni nostri”. Dunque, si tratta di cose già viste, già lette. Ma Fini è ribelle dentro, nell’anima e non ha potuto fare a meno di ripubblicare i suoi articoli. Mettendoli insieme, infatti, è venuto fuori quasi una cosa diversa. Il ribelle ha voluto raccontare la storia d’Italia degli ultimi trent’anni attraverso i suoi “pezzi”: non si tratta, dunque, di una scelta del tipo “il meglio di…”. È la personale storia d’Italia di Massimo Fini. Il titolo non poteva essere che questo: Senz’anima. Italia 19802010, edito da Chiarelettere.

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Il titolo fa capire dove si va a parare. Dice il giornalista: «Sono convinto che quando gli storici valuteranno l’attuale Italia democratica la considereranno la peggiore della sua pur lunga storia». Perché dov’è l’anima di questa nostra Italia? Nel successo e nei soldi. In fondo, è questa la critica che Fini muove non solo alla politica e ai suoi protagonisti, ma all’Italia nella sua interezza, quindi agli italiani e alla “cultura degli italiani” e degli “uomini di cultura”. È sostenibile quanto sostiene il ribelle? Ancora un esempio: «Vorrei essere un talebano, un kamikaze, un afghano, un boat people, un affamato del Darfur, un ebreo torturato dai suoi aguzzini, un bolscevico, un fascista, un nazista. Perché più dell’orrore mi fa orrore il nulla». Provocatore. Fini è fatto così: prendere o lasciare. Non ci sono mezze misure. Eppure, la vita è fatta proprio di questo materiale non eccelso, ma pur necessario: le mezze misure. Che non sono da confondersi con le mezze calzette. Ma il punto è proprio qui: Massimo Fini non è una mezza calzetta. Le cose che dice e scrive e sostiene hanno un che di esagerato, sono esagerate, fuori di misura. Però, hanno un’anima e quindi anche se non sono sempre condivisibili - e magari proprio per questo - vanno prese in considerazione. Bisogna confrontarsi con il ribelle. Prendiamo quella che è la critica di fondo che c’è nel libro di Fini e che, in sostanza, la si può ricavare da un altro libro, quasi un opuscolo, di Fini che ha avuto grande successo (già, perché il gran critico del successo è un giornalista di successo): Il vizio oscuro dell’Occidente. In queste poche pagine si dice quanto si ripete in altre parole nelle oltre 450 pagine di Senz’anima: tutto l’Occidente, che è la terra che ha creato l’anima, è andato a finire nel grande supermercato del libero mercato. Ora il libero mercato non è mica una cosa da disprezzare; anzi è quella cosa che fa gola a tanti, a tutti quelli che non ne fanno parte. Solo che a Fini non va giù che il mercato sia diventato l’unica cifra della vita individuale e sociale del nostro tempo e della nostra vita, privata e pubblica. Non gli va giù e si ribella per salvare almeno la sua, di anima.

Una Protezione civile targata Prestigiacomo L’Ambiente vuole alcune funzioni del sistema-Bertolaso di Lucio Rossi

ROMA. I giochi sembrano ormai fatti. Mancano pochi mesi all’avvicendamento previsto tra settembre e dicembre dell’ex prefetto dell’Aquila Franco Gabrielli alla guida del Dipartimento della Protezione civile. Ma rilevare il testimone di Guido Bertolaso, nel ciclone dello scandalo sugli appalti del G8, non sarà facile e non solo per l’oggettiva complessità della macchina che l’erede designato si appresta a sperimentare. Il dibattito sul post Bertolaso si era aperto già all’inizio dell’anno, complice il tentativo del governo di istituzionalizzare il meccanismo dell’emergenza con la creazione della Protezione civile spa, naufragato, senza troppi rimpianti per ampi settori dell’esecutivo. L’arrivo del prefetto Gabrielli apre inevitabilmente nuovi scenari: risale a oltre dieci anni fa l’ultimo tentativo in ordine di tempo per riportare il Dipartimento (oggi della Presidenza del consiglio) sotto l’egida del ministero dell’Interno che a via Ulpiano, negli anni di Bertolaso, è riuscito al massimo a imporre la presenza di un vicecapo alla Protezione civile, in rappresentanza dei Vigili del fuoco.

tempestiva e dettagliata al ministro dell’Ambiente “sugli eventi emergenziali da affrontare, con particolare riferimento alla loro natura, alle circostanze di luogo e di tempo, ai provvedimenti già adottati o da adottare, anche di competenza di altre amministrazioni ovvero di organi non appartenenti al ministero”. Previsto il sistema della reperibilità del personale e la continuità del servizio, inedito al ministero di via Cristoforo Colombo.

Insomma una vera e propria unità di crisi, che potrebbe tornare utile per fronteggiare emergenze come quella del fiume Lambro dei mesi scorsi in cui la macchina degli interventi non ha brillato per tempestività ed efficacia, nonostante l’invio da parte del ministero dell’Ambiente di cinque imbarcazioni e la promessa di diversi milioni di euro. Eppure la Prestigiacomo sembra aver in mente un sistema più operativo. A febbraio (prima del caso del Lambro), il ministero ha emesso un bando per il servizio di intervento rapido per il contenimento dell’inquinamento marino proveniente da incidenti marittimi, sversamenti da terminali petroliferi e piattaforme di estrazione ma anche inquinamenti di origine terrestre. Un bando con un importo di 25 milioni di euro all’anno per un contratto biennale prorogabile per altri due anni. Chissà cosa ne pensa il ministro Tremonti che nell’ultima Finanziaria ha tagliato di due terzi il bilancio del ministero dell’Ambiente provocando l’ira della Prestigiacomo che aveva minacciato di chiudere bottega. Una minaccia subito rientrata nonostante il piano sul dissesto idrogeologico varato ad ottobre dopo le frane di Messina e Giampilieri fosse stato decurtato drasticamente dal solito Tremonti che rispetto ai 3 miliardi richiesti in un apposito decreto, aveva dato il placet al Cipe per interventi per un solo miliardo. Tramontata dunque l’idea di accedere alle risorse attraverso mutui della Cassa Depositi e prestiti così come l’istituzione di tre strutture rispettivamente con funzioni di ”coordinamento, attuazione e vigilanza” coordinati da una struttura tecnica di missione e la nomina di commissari straordinari (eventualmente coadiuvati da un sub-commissario) per le situazioni di particolare complessità. Un’idea-fotocopia, quella della struttura di missione e dei commissari al modello della Protezione civile

Al dicastero di via Colombo nasce anche un servizio d’intervento rapido: è quasi una risposta ai tagli di Tremonti

Ma non è solo il Viminale ad attrezzarsi per il post Bertolaso. A scalpitare c’è anche il ministero dell’Ambiente. Stefania Prestigiacomo ha infatti firmato recentemente un decreto che istituisce un Comitato per il monitoraggio degli interventi ed il supporto alla corretta informazione istituzionale sulla gestione delle situazioni di emergenza. Il Comitato Rischi ed emergenze (Crea) è affidato al coordinamento del Capo del reparto marino ambientale del Corpo delle Capitanerie di Porto, mentre dei 14 membri, ben tre verranno designati dal Comando Carabineri per la tutela dell’Ambiente (a cui è stato affidato invece il coordinamento e la gestione del sistema Sistri di tracciabilità dei rifiuti). Nel decreto, che pure fa salve le competenze del Dipartimento della Protezione civile, viene specificato che il Comitato provvede “a garantire il coordinamento tra l’ufficio di Gabinetto del ministero, le direzioni generali e i relativi organi di supporto impegnati nelle attività di contrasto delle situazioni emergenziali, assicurando nel contempo il raccordo con le autorità – anche locali – preposte alle azioni di pubblica sicurezza che sono tenuti per legge alla gestione delle emergenze”. Tra i compiti del Comitato Rischi ed emergenze ambientali, anche l’informazione


panorama

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Dibattito. Ha suscitato molte reazioni il discorso del Pontefice sull’impegno della Chiesa nella società civile

Tra politica e appartenenza Il nuovo ruolo dei «fedeli laici» secondo papa Benedetto XVI ontro ogni riflusso è necessario tornare a un’idea forte di politica: l’ha detto venerdì il Papa al Consiglio per i laici riunito sul tema «Testimoni di Cristo nella comunità politica». L’ha detto nel suo linguaggio: «Bisogna recuperare e rinvigorire un’autentica sapienza politica» per fare fronte al «diffondersi» del «relativismo culturale» e dell’individualismo «utilitaristico e edonista».

C

Ma dal Papa ci si attende di ascoltare qualche indicazione su come e dove un cristiano debba oggi svolgere il suo impegno politico e Benedetto le ha date, più dettagliate del solito, ma tenendo fede all’impegno – già formulato dal Vaticano II – a evitare la sponsorizzazione di qualsiasi schieramento e insistendo sull’attenzione che i «fedeli laici« attivi in politica debbono prestare ai richiami e alla vita della Chiesa se vogliono giocare fecondamente la loro libertà di scelta. Ha indicato tre “attenzioni” che – considerate nel loro insieme e in ottica italiana: il Papa parlava ai cattolici di tutto il mondo – costituiscono una chance e una sfida per le componenti di centro del nostro panorama politico in quanto meglio collocate, rispetto ai due poli, per realizzare una buona rispondenza sia alle esigenze sociali sia a quelle etiche. La prima attenzione va alla “grande attualità” dei principi fondamentali della Dotttrina sociale della Chiesa, che Benedetto ha richiamato così: «Dignità della persona umana, sussidiarietà, solidarietà». Attualità da far risaltare in riferimento alle dimensioni nuove del mondo nelle quali promuovere «nuove vie di sviluppo al servizio di tutto l’uomo e di tutti gli uomini». La seconda attenzione – la più impegnativa per il dibattito tra i cattolici delle formazioni politiche mediane e gli altri tendenti ai poli – l’ha formulata come invito a «partecipare attivamente alla vita politica in modo sempre coerente con gli insegnamenti della Chiesa, condividendo ragioni ben fondate e grandi ideali nella dialettica democratica e nella ricerca di un largo consenso con tutti coloro che hanno a cuore la difesa della vita e del-

di Luigi Accattoli

Bagnasco sulla crisi e sulla pedofilia

L’allarme della Cei CITTÀ DEL VATICANO. Tra i tanti temi affrontati dal cardinal Agostino Bagnasco aprendo l’Assemblea della Cei, due sono i più significativi: quello della crisi in Italia e quello della pedofilia nella Chiesa. «Serve in Italia un impegno bipartisan per affrontare il nuovo giro di vite e le nuove ristrettezze imposte dalle decisioni dell’Unione Europea per affrontare gli ulteriori sviluppi della crisi economica»,. Ha chiesto il presidente della Cei che ha auspicato «un responsabile coinvolgimento di tutti nell’opera che si presenta sempre più ardua». Il porporato ha denunciato la disoccupazione, l’angoscia per il lavoro, specie nel Sud d’Italia ed ha chiesto «un supplemento di sforzo e di cura all’intera classe dirigente del Paese: politici, imprenditori, banchieri e sindacalisti». Dinanzi all’aggravarsi della crisi europea «non possiamo da parte nostra non

chiedere ai responsabili di ogni parte politica di voler fare un passo in avanti, puntando come metodo ad un responsabile coinvolgimento di tutti nell’opera che si presenta sempre più ardua. Servono - ha insistito Bagnasco - riforme che producano crescita, mettendo il più possibile in campo risorse che finanzino gli investimenti, in altre parole potenziare le piccole e medie industrie». Quanto al tema della pedofilia, il cardinale Bagnasco ha spiegato che «la Chiesa, in nessuna stagione, ha inteso sottovalutare il dramma della pedofilia». Ma «il nostro primo pensiero, la nostra prima attenzione è nei confronti delle vittime: ancora una volta esprimiamo a loro tutto il nostro dolore, il nostro profondo rammarico e la cordiale vicinanza per aver subito cio’ che e’ peccato grave e crimine odioso», ha concluso il presidente della Cei.

la libertà, la custodia della verità e del bene della famiglia, la solidarietà con i bisognosi e la ricerca necessaria del bene comune». Il Papa invita dunque a coltivare armonicamente priorità non facilmente componibili nella dialettica politica, dove non è la stessa cosa battersi per la libertà degli individui e per la solidarietà, concentrare le forze nella difesa della vita o nella vicinanza ai bisognosi. Chi si preoccupa della faticosa armonizzazione di tali priorità sono le forze a vocazione centrista nonchè le componenti moderate dei due poli e po-

d’occhio la Chiesa e che i pastori realizzino «nuove forme» per garantire loro «accompagnamento e sostegno». Il tenere d’occhio la Chiesa passerà anche – ha precisato Benedetto – attraverso «l’appartenenza dei cristiani alle associazioni dei fedeli, ai movimenti ecclesiali e alle nuove comunità». Tale appartenenza, ha detto ancora, sarà per i cristiani della politica «una buona scuola», potendo in essa fruire della «ricchezza carismatica, comunitaria, educativa e missionaria propria di queste realtà», cioè del tessuto associativo ecclesiale. Considero rilevante questo accenno all’appartenenza dei politici cristiani a movimenti, associazioni e comunità: non venendo più dai “pastori”indicazioni vincolanti per l’appartenenza agli schieramenti politici, né sollecitazioni alla convergenza in un’unica forza a ispirazione cristiana, da che cosa trarranno aiuto i «fedeli laici» impegnati in politica per «servire l’uomo e il bene comune alla luce del Vangelo», come si è espresso venerdì il Papa?

Vi sono certamente gli occasionali “giudizi morali” proposti dall’autorità magisteriale sulle tematiche più rilevanti, ma una pedagogia diffusa e immediata non può che venire dal tessuto associativo ecclesiale. Ed è – io credo – esperienza comune quella di sentirci, nella Chiesa, più tranquilli quando avvertiamo che i cristiani presenti nei diversi schieramenti non vivono isolatamente – e si direbbe nominalmente, ideologicamente – la loro ap-

È centrale il richiamo alla «ricchezza carismatica, comunitaria, educativa e missionaria» propria del tessuto associativo ecclesiale tremmo ipotizzare – a modo di scommessa interpretativa – che la Chiesa stia al centro più che ai due poli ma ben sappiamo che non lo dice e non lo dirà mai, perché ha scelto di non mescolarsi alla politica e di non parteggiare, volendo essere patria comune di tutti i battezzati quale che sia la loro scelta politica. La terza “attenzione” proposta da Benedetto aiuta a intendere le prime due e si incentra sulla necessità che i «politici autenticamente cristiani» tengano

partenenza alla comunità cattolica, ma la sostanziano con la partecipazione assidua ad ambienti dell’Azione Cattolica, a questo o a quel movimento ecclesiale, o quantomeno alla loro parrocchia di origine. Ancora più confortante è l’udire – raro ma si spera in crescita – che i politici cristiani appartenenti a più schieramenti realizzano momenti di incontro in cui ascoltano insieme il “polso” della comunità cattolica. www.luigiaccattoli.it


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l ministro dell’Interno Usa, Ken Salazar, si dice «molto arrabbiato e frustrato» con la British Petroleum. E in una conferenza stampa organizzata in Louisiana accusa la compagnia di essere venuta meno, «scadenza dopo scadenza» agli impegni presi dopo il disastro della “marea nera”. Dopo l’esplosione della piattaforma petrolifera “Deepwater Horizon”, insomma, il problema è giunto sulla terraferma e precisamente sui tavoli dei tanti soggetti responsabili del disastro ambientale. E nella “caccia al colpevole”, naturalmente, in cima alla lista c’è proprio la British Petroleum (Bp), titolare della concessione della piattaforma e incolpata di negligenza tecnica. Negli Stati Uniti si stanno muovendo sia il governo federale, con il Presidente Obama in prima persona, sia le organizzazioni ambientaliste. Nel fine settimana è arrivata in Florida perfino Erin Brockovich, l’attivista resa famosa dal film omonimo, in cui il suo personaggio era interpretato da Julia Roberts. Tutti vogliono vedere la Bp alla gogna.

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Chi è però questa multinazionale del petrolio che rischia di pagare un risarcimento senza precedenti per i danni provocati? La British Petroleum è una delle quattro più importanti compagnie estrattive di tutto il mondo. Insieme alla Royal Dutch Shell, alla Exxon Mobil e alla Total, domina il settore internazionale dell’oro nero. La sua sto-

La società è quello che resta della Anglo-Persian Oil Company (Apoc): fondata nel 1908, era celebre per la sua capacità di influenzare meglio dei suoi concorrenti i regimi politici stranieri a seconda dei propri interessi

ria si rifà ai primi decenni del XX secolo e al pionierismo nelle trivellazioni, in America Latina, nel Mare del Nord, ma soprattutto in Medio Oriente. La Bp è ciò che resta della Anglo-Persian Oil Company (Apoc). Questa, fondata nel lontano 1908, era celebre per la sua capacità di influenzare meglio dei suoi concorrenti i regimi politici stranieri a seconda dei propri interessi. Fu per diretta volontà dell’Apoc che il Primo

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La lunga epopea della multinazionale del petrolio che rischia di pagare un risarcim ministro iraniano, Mohammad Mossadeq, perse il potere a Teheran in seguito a colpo di Stato. Il consorzio delle Sette sorelle, con Londra che faceva da capo cordata, non potevano permettersi che l’Iran, ancora sotto il dominio della monarchia Pahlevi, nazionalizzasse tutte le concessioni petrolifere in mano agli stranieri. Mossadeq, pur essendo stato democraticamente eletto, cadde per evitare che l’Occidente perdesse il controllo di una delle sue fonti energetiche più consistenti. Dall’Apoc si passò alla Bp nel momento in cui anche lo scià perse il trono. Correva l’anno 1979. La rivoluzione di Khomeini cacciò definitivamente dal suolo iraniano il piede britannico. Londra questa volta se ne fece una ragione e cercò altrove nuovi giacimenti da conquistare. Venendo a un passato più recente, nel 2004 per esempio, troviamo la Bp in pole position per accaparrarsi le concessioni distribuite dalla Libia una volta che al regime di Gheddafi erano state cancellate la sanzioni da parte delle Nazioni Unite. Recentemente qualcuno ha ipotizzato – senza nascondere la malizia – che il ritorno in Libia del responsabile dell’attentato terroristico di Lockerbie, nel 1988, potesse nascondere la volontà del governo inglese di migliorare le relazioni con Tripoli e quindi favorire la presenza della Bp nel Paese nord africano, che è comunque più che solida.

Abdel Basset Ali al-Megrahi era stato identificato come l’esecutore materiale dell’esplosione del volo “Pan Am 103”, nella quale morirono 270 persone. Le indagini condussero a un palese legame tra lui e il colonnello Gheddafi. Al-Megrahi è rimasto rinchiuso in un carcere scozzese fino all’agosto dello scorso anno, poi a causa delle sue gravi condizioni di salute è stato rilasciato ed è tornato in Libia, dov’è stato accolto come un eroe. La stampa britannica ha sollevato una coltre di polemiche nei confronti del premier Gordon Brown, accusandolo di dimenticarsi del passato e di agire cinicamente a vantaggio degli interessi economici della maggiore compagnia petrolifera del Paese. Su Brown è pesata la critica di essere manipolato da una società privata che, in teoria, non potrebbe ingerire nelle questioni delle istituzioni governative. Effettivamente la British Petroleum è una società per azioni come tante altre, quotata al listino di Londra (Bp/Ln) e al Nyse di New York (Bp-Us). Da un punto di vista finanziario la distribuzione della proprietà appare relativamente frammentata. Il titolo è detenuto prevalentemente da banche d’affari britanniche (44%) e statunitensi (39%), con altri investitori provenienti da tutto il mondo. Come è la stessa Bp a segnalare, «ai sensi della legge sulla trasparenza della Financial Service Authority (Fsa) britannica, gli shareholders più grandi sono BlackRock con un 5,93% e Legal&General con un 4,18% di capitale azionario». In entrambi i casi si tratta di istituti di investimento basati a Londra, ma con un network di attività a livello globale. In particolare la BlackRock è una

La pecora Dopo l’ultimatum della Casa Bianca, si fa sempre più precaria la posizione della British Petroleum. Ecco come è nata una storia che rischia di naufragare improvvisamente di Antonio Picasso partecipata della Bank of America e della Barclays. Ma tra gli azionisti più illustri della Bp non si può dimenticare la Jp Morgan. La compagnia petrolifera britannica quindi vanta un sostegno creditizio che non si limita alla City di

Londra, bensì ha in suoi saldi agganci anche a Wall Street. Si tratta di una potenza industriale consolidata, accompagnata dalla muscolatura elastica della finanza globale. Questo le concede una palese spregiudicatezza


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mento senza precedenti dopo l’esplosione della piattaforma“Deepwater Horizon”

Stati Uniti, la quale ha ridotto il risarcimento a un decimo della pena inizialmente prevista.

hanno superato i 650 milioni di dollari. A questi dovranno essere aggiunti gli interventi di bonifica del territorio, delle acque e dei fondali marini. Senza calcolare l’impatto sull’economia degli Stati che si affacciano sul Golfo del Messico. Il Dipartimento federale dell’Ambiente a Washington non si è ancora esposto nel formulare stime per il volume monetario del disastro ambientale. L’agenzia di rating Fitch, al contrario, già alla fine di aprile aveva ipotizzato una cifra intorno ai 3 miliardi di dollari.

A questo punto è logico prevedere che il problema si trasformi in una questione politica. La Bp potrebbe fare appello al “caso Alaska” come precedente per evitare un onere assicurativo troppo gravoso. Washington dal canto suo, al di là delle promesse pubbliche di Obama – che pencolano tra il populismo ambientalista e il revanscismo made in Usa contro gli interessi britannici – non potrà reggere molto di fronte al coinvolgimento di così tanti poteri forti finanziari e industriali nazionali. L’economia statunitense, in pratica, si potrebbe trovare di fronte alla realtà di essere correa nell’incidente. Facile quindi che preferisca partecipare alla distribuzione delle responsabilità, piuttosto che far ricadere il problema solo su Londra. Peraltro una legge federale Usa limita a 75 milioni di dollari il tetto di risarcimento da attribuire alla singola compagnia petrolifera. È possibile che nelle prossime settimane, al Congresso Usa, si discuta una revisione al rialzo di questa penalità. Tre senatori democratici hanno presentato una proposta per alzare a dieci miliardi di dollari il risarcimento dei danni

nera politica. Come si vide ai tempi di Mossadeq e come sembra che le si possa attribuire un intervento in backstage nel questione del terrorista libico alMegrahi.

Sul fronte degli investimenti infine è interessante notare che la Bp è stata una dei primi sostenitori dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (Btc), che unisce i ricchi giacimenti dell’Azerbaijan nel Mar Nero con il porto turco Ceyan nel Mediterraneo. La realizzazione del progetto ha richiesto 3,6 miliardi di dollari. Londra ha partecipato all’operazione con un 30% di capitale. Il Caucaso si dimostra quindi la “nuova frontiera” degli idrocarburi anche per i petrolieri britannici. A questo punto appare chiaro che la disputa tra Londra e Mosca, per una più equa distribuzione delle risorse energetiche provenienti dalla regione e sulla base di prezzi cal-

mierati, risulta essere meramente di facciata. Gli inglesi vantano una presenza sul territorio che permetterà loro di avere voce in capitolo anche nelle operazioni future. È il caso di “Southstream” e “Nabucco”, i due gasdotti in via di progettazione che dovrebbero contendersi l’onore e l’onere di rifornire l’Europea centrale di gas naturale (Gnl). Il primo ha come sponsor principale Gazprom e quindi il Governo russo, il secondo nascerebbe dal consorzio delle compagnie di settore degli Paesi balcanici ed è sostenuto dall’Unione europea.

A prescindere dal vincitore della partita, la British Petroleum potrà incassare una sua partecipazione nella distribuzione degli utili di ciascun progetto, in quanto già controlla il Btc e con esso il sistema di smistamento di Gnl estratto nell’area di Baku. Delineata l’identità tentacolare della compagnia britannica, a questo punto si può tornare alla questione della “Deepwater Horizon”. La Bp è davvero quella che negli Usa voglio far passare come l’unica colpevole dei danni subiti dalle coste della Louisiana, della Florida e del bacino del Mississippi? Finora le spese per bloccare la marea nera

La Casa Bianca ha promesso che costringerà l’autore dell’incidente a pagare tutto, senza gravare sul contribuente Usa nemmeno per un centesimo. Di conseguenza, si è innescata la classica catena di scarico di responsabilità. Da Londra si è diffusa la precisazione che la “Deepwater Horizon” è di proprietà della Transocean, data in leasing alla Bp. La prima è una compagnia svizzera, leader mondiale nel settore delle trivellazioni. La multinazionale petrolifera ha reso nota la sua disponibilità a risarcire i pescatori della Louisiana vittime della marea nera. «Siamo i responsabili del petrolio fuoriuscito», ha ammesso l’Amministratore delegato del gruppo, Tony Hayward, il quale però ha rimarcato che si è trattato di un guasto tecnico. «Quindi a risponderne dovrebbe esserne la Transocean». Merita un’ulteriore sottolineatura il fatto che nelle attività collaterali e di servizio, che ruotano intorno alla piattaforma in questione, appare anche la Halliburton. La società statunitense vicina all’ex vicePresidente Usa Dick Cheney ha fornito materiale per la realizzazione delle infrastrutture in cemento che sorreggono la “Deepwater Horizon”. A questo punto emergono due domande. Tenuto conto che la falla si è venuta a creare sul fondale marino, chi ne è l’effettivo responsabile? La risposta può essere volutamente ambigua. Il disastro è stato causato dal petrolio, di cui è proprietaria la Bp, ma l’oro nero è fuoriuscito da una falla nel corso delle trivellazioni effettuate con incuria dalla Transocean e delle contestuali giunture di cemento infiltrate dalla Halliburton. Seconda questione: esiste una polizza assicurativa capace di coprire un danno di simile portata? È ancora una volta la Fitch a ricordare un precedente simile. Nel 1989, un “geyser” imprevisto di 250 mila barili di greggio, presso un giacimento nella zona di Prince William in Alaska, provocò un dramma ecologico simile a quello nel Golfo del Messico oggi. La titolare della concessione petrolifera, la Exxon Valdez, fu condannata in primo grado da un Tribunale a pagare 5 miliardi di dollari di allora per i danni provocati. Grazie all’abilità del pool di avvocati della società, la causa si è conclusa solo nel 2003 con la sentenza della Corte suprema degli

Il titolo è detenuto prevalentemente da banche d’affari britanniche (44%) e statunitensi (39%), con altri investitori provenienti da tutto il mondo. Gli azionisti più grandi: BlackRock (5,93%) e Legal&General (4,18%) economici legati a una perdita di petrolio offshore. Tuttavia, se la British Petroleum fosse costretta a pagare da sola il disastro ambientale provocato dalla “Deepwater horizon”, rischierebbe il fallimento. Ma questa è una possibilità impensabile, che non giova a nessuno. Né in ambito petrolifero, né in quello finanziario, né tanto meno al mondo del lavoro statunitense e britannico, entrambi alle prese con un tasso di disoccupazione crescente. Nel frattempo al numero 10 di Downing Street, il nuovo Primo ministro, David Cameron, si trova già di fronte a una grossa sfida, e a una pesante eredità lascatagli da Brown.


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Cugini. L’Eliseo non è mai stato così in basso nei sondaggi (21% di gradimento): la rielezione nel 2012 ormai è a rischio

La nuova Marianna Parigi è in crisi, Sarkozy crolla nei consensi: cercasi candidata da contrapporre alla Merkel di Giancarlo Galli

PARIGI. «Sarko fait profil bas», dicono e scrivono gli opinionisti sia de Le Monde (quotidiano di riferimento della borghesia progressista) sia de Le Figaro, che mai ha dissimulato le simpatie per il centrodestra. In realtà, non fanno che registrare il disincanto dei francesi nei confronti del loro presidente, Nicolas Sarkozy, trionfalmente eletto nella primavera di tre anni fa, surclassando la socialista Sègolene Royal. I sondaggi sono a dire poco impietosi. Sarko, battendo ogni primato negativo, raccoglie appena il 21 per cento dei consensi. E nessuno era mai arrivato così in basso: nei momenti più critici delle rispettive presiden-

Mitterrand. Questi restò all’Eliseo per quattordici anni. Poi Chirac, dal 1995 al 2007. Infine, Sarkozy. Per comprendere la politica francese contemporanea, è necessario un remake storico. Gli eccessi del parlamentarismo incapace di affrontare i problemi della decolonizzazione, portarono sul finire degli Anni Cinquanta, nel pieno della guerra d’Algeria, alla nomina di un quasi-dittatore: Charles De Gaulle, padre della Patria e artefice della Resistenza al nazismo durante l’occupazione. Il “gollismo” divenne sinonimo dell’orgoglio, spesso smisurato, dei francesi. Con De Gaulle, la Francia rifiutò l’adesione alla Nato e si dotò di un

In Francia molti cominciano a parlare della possibilità che la prossima sfida presidenziale possa essere tutta al femminile, con la Bruni contrapposta alle leader socialiste Royal e Aubry ze, Valery Giscard d’Estaing toccò un minimo del 34 per cento, Francois Mitterrand del 41, Jacques Chirac del 36. Con un’aggravante statistica per Sarkozy: il capo del governo Francois Fillon lo precede di ben venti punti nella graduatoria del gradimento nell’opinione pubblica, e dietro le quinte si sussurra che il presidente, in autunno, intenda “farlo fuori”. Per irrefrenabile gelosia.

Comunque, in questo maggio parigino guastato dalla pioggia e dalle nubi del vulcano islandese che limitano l’agibilità degli aeroporti, s’è registrata una strana “anomalia politica”. È consuetudine che il presidente celebri l’anniversario della nomina, facendo partecipe il popolo (magari con un’esternazione televisiva) delle sue intenzioni.Tanto più attese poiché essendo stato il mandato presidenziale ridotto da sette a cinque anni con riforma costituzionale, nella primavera 2012 si apriranno le urne. Tenterà Sarko il bis sulle orme dei predecessori, o getterà la spugna, per “manifesta inferiorità”, come s’usa dire nel linguaggio pugilistico? Precedenti storici: Giscard venne sconfitto nel 1981, a sorpresa, dall’outsider

MIlano perde il 2,59%

Le Borse europee in altalena Torna l’incertezza sulle Borse europee e statunitensi, con andamenti deboli contrastati e volatili che vedono altenarsi fasi di perdita a tentativi di recupero. Venerdì Wall Street aveva siglato la seduta in netto rialzo, ma il salvataggio annunciato nel passato fine settimana di una cassa di risparmio in Spagna - la Cajasur, su cui sabato è intervenuta la Banca di Spagna - ha favorito una ripresa dei nervosismi. Negli scambi pomeridiani Londra ha segnato un +0,13%, Parigi +0,01%, Francoforte -0,40%. Madrid è in ribasso dell’1,27% mentre a Milano l’Ftse-Mib cede il 2,59% e Zurigo lo 0,89%. Soprattutto le questioni spagnole ieri sono pesate anche sull’euro, tornato a indebolirsi dopo due sedute di stabilità: nel pomeriggio la divisa dell’unione a 16 era calata a 1,2381 dollari, laddove venerdì scorso a tarda serata si attestava sopra 1,25. I paesi europei sembrano sempre più orientati a drastiche strette di bilancio. Secondo diverse indiscrezioni la Germania prepara una cura prolungata sui conti, che tra tagli alla spesa e aumenti delle entrate dovrebbe rimpinguare il bilancio di 10 miliardi di euro l’anno. Intanto in Gran Bretagna, dove il prossimo 22 giugno verrà presentata una manovra correttiva, il ministro delle Finanze, George Osborne ha anticipato tagli alla spesa pubblica da 6,2 miliardi di sterline e il blocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione.

arsenale nucleare autonomo. Prese le distanze dalla Comunità economica europea. Il mitico Sessantotto, esploso nelle università parigine e poi dilatatosi a macchia d’olio, portò De Gaulle alle dimissioni, al ritiro dalla vità pubblica.

Vaccinata dal parlamentarismo inconcludente, la Francia mantenne però ferma la barra del presidenzialismo: il concetto (un po’ napoleonico) del Capo che sorveglia, dirige; ed in ultima istanza, decide. Così Giscard provò ad imprimere al paese una sterzata verso il liberalismo; Mitterrand fu almeno agli inizi socialista determinato, nazionalizzando banche e industrie; Chirac, pallido e più cauto, nel cuore euroscettico (almeno in questo erede del pensiero di De Gaulle), si barcamenò. Avendolo conosciuto in anni lontani, giovanili, che mi consentirono successive frequentazioni, più amicali che giornalistiche, posso a ragione sostenere che Chirac era un uo-

mo lacerato dal dubbio. Meglio: dalla consapevolezza della decadenza della Francia sullo scenario internazionale. Temeva, da ex gollista, lo strapotere Usa; paventava la debolezza dell’Europa di Maastricht. Ma si sentiva “disarmato”. Un aristocratico della politica, Chirac. Sin da quando era stato sindaco di Parigi, privilegiando amici e clientele (politiche) che finiranno, a mandato concluso, con trascinarlo nelle aule giudiziarie. Un vecchio gentiluomo, in ogni caso. Anche lui amava le belle donne, le attrici, e non diversamente s’era comportato il socialista Mitterrand. Erano tuttavia stagioni in cui un presidente di Francia aveva diritto ad un “privato”. Inaccessibile. Quantomeno ai giornali.

L’era di Chirac ebbe fine sì per la scadenza di un mandato non triplicabile, ma soprattutto per il declino cardiologico del primattore, che non riuscì a darsi un successore. Così il boccino del potere finì nelle


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Qui a destra, Segolène Royal (sopra) e Martine Aubry che si contendono la leadership socialista per le presidenziali del 2012. Potrebbero trovarsi di fronte addiritura Carla Bruni Sarkozy. Nella pagina a fronte, Angela Merkel

fra le nomine politiche: la presidenza dell’UMP il partito di maggioranza relativa che si proclama erede di De Gaulle. Con un’idea precisa: arrivare alla presidenza della Repubblica sull’onda di un vasto consenso popolare. UMP significa infatti Unione della Maggioranza presidenziale.

mani di Nicolas Sarkozy, rampante di gran classe e determinazione. Nato nel 1955 da antenati ungheresi, Nicolas è una sorta di ènfant prodige della politica. Si proclama gollista granitico, frequenta gli ambienti giusti, ed il suo attivismo incanta. Chirac, che che nemmeno immagina di scaldarsi una serpe in seno, lo tiene in palmo di mano. È il 1993. Il centrodestra (traduco all’italiana, per comprensione) ha vinto le elezioni ma ha da convivere con la presidenza socialista di Mitterrand. Sarkozy, appena trentottenne, è nominato ministro del bilancio. Con Chirac è Amore & Tradimento, in un susseguirsi d’incarichi ministeriali e fracassanti parentisi aventiniane. Chirac tenta di sostituirlo con Dominique de Villepin dai nobili lombi. Un disastro. Seguono processi (finiti in una bolla di sapone), dove Sarko ministro degli interni è accusato di avere “spiato” Villepin. E viceversa. Nel frattempo, Sarko è riuscito ad ottenere la più importante

Durante una cena a Nizza, Sarko ebbe a dire: «La Francia è un paese col cuore a destra che spesso vota a sinistra, in mancanza di un leader credibile». Fece centro. Col 54 per cento dei voti sgominò l’estrema destra del Fronte Nazionale di Jean-Marie Le Pen, umiliò la socialista Segolène Royal, già moglie del segretario del PS François Hollande. Istallandosi all’Eliseo col dichiarato proposito d’imprimere una svolta storica alla politica francese, alla ricerca della perduta Grandeur. Poiché mai la Francia s’era rassegnata all’inesorabi-

ropea: per contrastare la Germania della vieppiù spigolosa, intrattabile, Angela Merkel.

I francesi sembrano aver perso fiducia in quello che doveva essere l’uomo della rinascita. La battuta più cattiva che circola è: «Che ha fatto il presidente in questi due anni? È andato a donne» le declino: dapprima confrontata col primato Usa, poi col ritorno in forze della Germania. In sostanza, Sarkozy si riprometteva di riportare il paese agli antichi splendori, ed ergerlo nuovamente a protagonista sullo scacchiere internazionale. Senonché la crisi dell’economia, iniziata nel 2008, ha reso velleitari i propositi del neopresidente. Chiedendo alla gente comune come ai ceti dirigen-

abbia concluso ti, cosa Sarkozy nel primo triennio del quinquennio, i più maliziosamente rispondono: «È andato a donne!». Infatti, dopo la rottura del secondo matrimonio, ha impalmato la bella e stravagante Carla Bruni, italico sangue, ex indossatrice, pasionaria col cuore “a gauche”. Sarebbe tuttavia ingiusto, dicono altri, negare a Monsieur Le President talune “buone relazioni”: col più potente finanziere di Francia, Vincent Bollorè (noto in Italia, per la presenza in Mediobanca e Generali), che lo ha ospitato sul suo yatch nella luna di miele con la Bruni; e un filo diretto con Silvio Berlusconi, sino a far delineare un solido “asse” francoitaliano. In chiave eu-

Nel pieno della crisi delle Borse, della Finanza, dell’euro che in qualunque momento potrebbe andare in frantumi, Sarkozy appare tetanizzato. Non decide, non sceglie: a Parigi si sussurra che per via della moglie filo terzomondista a oltranza, si sia comportato da Ponzio Pilato durante il dibattito parlamentare che ha portato, con maggioranza-bipartisan, al divieto del burqa. Comprensibile: le elezioni regionali di marzo hanno decretato la sconfitta senza appello dei candidati governativi. Certo, ha pesato la disaffezione (nemmeno il 50 per cento di votanti); ma se i socialisti hanno fatto il pieno, non è possibile nascondere la resurrezione dell’estrema destra, guidata dalla battagliera Marine Le Pen, figlia d’arte. Mentre sul fronte opposto avanzano i verdi, resistono alcuni bastioni comunisti. In che modo reagirà Sarko? Non è tipo che s’arrenda, certo. Ma chi, l’altra settimana, ha partecipato alla riunione dei “fedelissimi”, all’Eliseo, riferisce di un uomo che, innanzitutto, cercava di rassicurare se stesso, all’insegna del “nulla è perduto”. Ha lasciato ovviamente in sospeso l’ipotesi di una ricandidatura nel 2012, rinviando la scelta all’autunno e magari più in là. Poi, una battuta (riferiscono), strizzando l’occhio alla fedelissima Michéle Alliot-Marie, presidente dell’associazione “eletti gollisti”: «Forse è venuto il tempo delle donne di Francia...». E s t er n a z io n e s a lo tt i er a o anticipatrice di un pensiero che comincia a tormentarlo? Proviamo a fare gli astrologhi: se i destini dell’euro, dell’Europa comunitaria, dipendono in larghissima misura dagli atteggiamenti della Cancelleria di Berlino, perché non contrapporle una “donna di Francia”? Guarda caso: in campo socialista sgomitano Martine Aubry (figlia di Jacque Delors, padre della Comunità europea), sindaco di Lilla e primo segretario socialista. La contrasta, puntigliosa, la mai doma Segolène. A destra miete consensi e simpatie Marine Le Pen: cattolica che si richiama a Jean d’Arc, scalda gli animi con gli appelli, focosi ma non razzisti, alla “riconquista” di fronte al pericolo dell’islamizzazione strisciante. Mi sussurra all’orecchio un politologo parigino, fra il serio ed il faceto: «Sarko potrebbe tirare dalla manica un asso… La bellissima Carlà, ormai cittadina a pieno titolo. Immagina un confronto presidenziale fra Carlà , Marine, Martine, Segolène…». Pas possible, tento di replicare. «Nulla è impossibile, in Francia, terra di rivoluzione permanente», ribatte. E perché no, dopo tanti fallimenti al maschile?


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Turismo. Nella terra degli dei crollano le prenotazioni (-30%) ATENE. Ce la farà l’Ellade a imboccare la strada di uscita dalla crisi? Al di là di tutte le altre risposte possibili, una delle certezze delle finanze greche è stato da sempre il turismo, calcolato intorno al 20% del Pil nazionale, con un posto di lavoro su cinque nel settore. Un buon afflusso di vacanzieri contribuirebbe a ridare fiato ai disastrati conti pubblici. Ma come andrà questa stagione estiva? «Sicuramente le immagini di violenza legate ai tre impiegati morti a causa di molotov lanciate in una filiale della ateniese Marfin Bank, hanno scatenato un’ondata di paura in chi programmava vacanze nelle nostre isole» ha dichiarato Andreas Andreadis, presidente della Federazione alberghiera e vicepresidente delle imprese turistiche greche. Non solo. «La preoccupazione per i ripetuti scioperi dei controllori di volo e dei camalli portuali non giovano» ha aggiunto Andreadis. Risultato? Nelle ultime settimane, sono arrivate duemila cancellazioni al giorno, soprattutto dalla Germania, e se in aprile la previsione era di un meno 15% di prenotazioni alberghiere per quest’estate, ora si parla di un ribasso del 30% rispetto al 2009. Forse per questo i controllori di volo hanno rinunciato a partecipare agli scioperi generali già fissati dai sindacati il 20 e 29 maggio. Ma i tre morti della Marfin Bank e le immagini choc che hanno fatto il giro del mondo c’entrano fino a un certo punto. Già i primi quattro mesi del 2010 non sono andati bene, registrando un calo del 5,77 % di arrivi vacanzieri nei 13 maggiori aeroporti greci da gennaio ad aprile.

Colpa dei rigori dell’inverno? Niente affatto: il maggiore picco di “non arrivi” è

Odissea vacanze, la Grecia è low cost Boom di disdette a Zante, Cefalonia e Kos. Resiste Santorini. I prezzi giù del 10% di Gilda Lyghounis

nelle Cicladi, con la sua vista mozzafiato sulla caldera del vulcano. Davanti a questi indicatori negativi, i greci sono corsi ai ripari. A cominciare dal premier socialista Ghiorgos Papandreu, che ha lanciato la sua richiesta di aiuti all’Unione europea con un video realizzato proprio a Kastellorizo, l’isola dove è stato girato Medi-

Per arginare il tracollo la Germania ha invitato i suoi cittadini a scegliere le isole elleniche come meta estiva. Un gesto (finora) isolato stato proprio aprile, quando in Grecia le temperature erano già decisamente primaverili, a differenza del resto d’Europa. In particolare, le isole che hanno più sofferto l’assenza di turisti sono state, in ordine decrescente, Zante nelle isole Ionie, Kos nel Dodecanneso, Cefalonia, Samos, Heraklion capoluogo di Creta (dove si nuota da aprile a ottobre visto che è la più meridionale delle isole elleniche). L’unica a sfuggire al trend negativo? Santorini

terraneo, il film che è valso a Gabriele Salvatores il premio Oscar: quindi un’isola piccolissima ma conosciuta in tutto il mondo con le sue calette bianche e il mare blu.

«Da qui la Grecia intraprende un’Odissea che la riporterà a Itaca» ha detto Papandreu. In questo ritorno all’agognato approdo della fine della crisi lo hanno seguito gli albergatori, che hanno tagliato ovunque i prezzi. «Anche se questi ribassi ci porteranno, inizial-

Incendio sull’isola della battaglia fra greci e persiani

Le fiamme di Salamina Non bastasse la crisi a far scappare i turisti, ieri ci sono messe pure le fiamme. Oltre cinquanta vigili del fuoco, con diciassette automezzi e due aerei antincendio, lottano senza sosta contro gli incendi che stanno devastando l’isola di Salamina, teatro nel 480 avanti Cristo della battaglia navale fra i greci al comando di Temistocle e i persiani di Serse, non lontano dal porto di Atene. «Il fuoco non è ancora sotto controllo ma la situazione va migliorando», hanno detto i vigili del fuoco secondo i quali l’origine dell’incendio non è ancora chiara. Si tratta del primo incendio di rilievo della stagione estiva. Lo scorso anno oltre ventimila ettari andarono in fumo a causa di incendi nella regione di Atene ed altre parti del paese. Continua invece (ma non fa più no-

tizia) la rivolta sociale, ma viene presentata in modo diverso da media e polizia. Secondo giornali e tv, ieri, all’Università Aristotele di Salonicco, diverse decine di studenti avrebbero lanciato bombe molotov e dato fuoco ai cassonetti dell’immondizia. Gli estremisti avrebbero incendiato anche alcune auto in sosta per poi dileguarsi prima dell’arrivo della polizia. Per quest’ultima, invece, gli autori dell’attacco, avvenuto fra le 3 e le 4 di ieri notte, erano solo quattro o cinque. Apparentemente, hanno precisato le fonti, i erano giovani usciti dalla stessa università dove si stava svolgendo una festa informale, e forse ubriachi avrebbero dato fuoco ai cassonetti dell’immondizia e lanciato le molotov contro un’auto parcheggiata non lontano.

mente, a una perdita delle entrate economiche di circa il 7-9 % - continua il presidente della Federazione alberghiera, Andreas Andreadis. - Già l’anno scorso abbiamo registrato ribassi nei guadagni intorno al 10 % rispetto al 2007, anche e soprattutto a causa della crisi economica globale e per via della concorrenza dei Paesi confinanti, che praticano da tempo sconti maggiori (vedi Turchia, ndr.) a scapito della qualità. La nostra industria ha sperato quest’anno in una ripresa grazie alla debolezza dell’euro, specie con l’arrivo di vacanzieri da parte di Paesi-chiave per la Grecia, come la Germania e la Gran Bretagna. Purtroppo le immagini dei cortei e degli scioperi hanno in parte bruciato queste rosee aspettative».

Già, anche se proprio da Berlino, ritenuta da molti greci la principale responsabile del crack greco, con i tentennamenti della cancelliera Angela Merkel sul prestito da concedere all’Ellade e, soprattutto, con le copertine irriguardose della Bild Zeitung e di Focus, arriva qualche segnale di speranza. Il viceministro tedesco del Turismo, Ernst Burkbaher, ha proposto un’alleanza con il suo collega omologo greco per convincere i tedeschi a scegliere la Grecia come meta di vacanze, invitando a un summit anche l’ambasciatore di Atene in Germania. Slogan dell’iniziativa: «Quest’estate andate nella terra degli dei!». Sensi di colpa? Certo che anche i greci ci mettono del loro. Proprio in questi giorni è scoppiato lo scandalo dell’ormai ex ministra del Turismo, la bellissima Angela Gherekoy, che ha dovuto presentare le proprie dimissioni a causa della miliardaria evasione fiscale di suo marito, il popolare cantante Tolis Voskopulos. Solo nel 1969, lui aveva venduto 300mila copie (in un Paese di meno di 10 milioni di abitanti!) della canzone Agony. Un titolo, un presagio? Una cosa è certa: più di 15mila chilometri di costa, 190 mila spiagge e oltre 6.000 fra isole e isolette sono ancora lì, come quando Henry Miller nel suo diario di viaggio nella terra degli dei Il Colosso di Maroussi, anno 1939 (tempo di crisi anche quello!), li rimirava e scriveva che «scattavano in su dal mare, come se Omero in persona avesse allestito quello spettacolo».Tutto da scoprire. © Osservatorio Balcani e Caucaso


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I sequestratori chiedono la scarcerazione di un parente

Il consigliere economico di Medvedev contro Karpov

Yemen,rapita coppia Usa per far liberare un uomo del clan

Scacchi,la partita che il Cremlino non doveva mettersi a giocare

SANA’A. Due turisti americani,

MOSCA. Segno dei tempi: anche lo sport russo più intellettuale è riuscito a generare un tale scandalo da angustiare persino il Cremlino e acquisire rilevanza mondiale. Non c’è pace all’interno della Federazione nazionale degli Scacchi per la nomina del nuovo capo della World Chess Federation (Fide). Lo spuntare della candidatura dell’ex campione del mondo Anatoli Karpov ha portato la bagarre ai più alti livelli, guadagnando per lui il possibile sostegno di Francia, Germania e Usa. Ma un serio scontro in patria. Secondo alcuni Karpov dovrebbe sostituire l’attuale numero uno della Fide, Kirsan Iliumzhinov, presidente della Calmucchia - repubblica buddista nel sud della Russia - noto per

marito e moglie, sono stati rapiti ieri da uomini armati nella regione yemenita di Bani Mansur, 70 chilometri a ovest della capitale Sana’a. Secondo fonti della sicurezza locale, con la coppia di stranieri sono stati presi in ostaggio anche la guida e l’autista yemeniti che li accompagnavano. Il sequestro sarebbe opera di un commando armato appartenente a una tribù locale. I rapitori hanno già presentato le loro richieste alle autorità: in cambio della liberazione degli ostaggi chiedono la scarcerazione di Hamoud Shaghna, un membro del loro clan, attualmente detenuto nel carcere centrale della capitale. La richiesta è arrivata attraverso l’autista, Ali al Arashi, cui i sequestratori hanno permesso di telefonare all’agenzia France Presse per comunicare le loro condizioni. «Vogliono la liberazione di un membro della loro tribù che si trova in carcere» ha detto l’uomo, assicurando che gli ostaggi americani sono trattati bene.

I sequestratori, hanno fatto sapere gli inquirenti, hanno portato gli ostaggi in una casa del villaggio di al Hamra, allontanandosi di pochi chilometri rispetto alla zona di Bani Mansur dove sono stati prelevati. Dal loro villaggio, che si trova

«Israele ha l’atomica e la offrì al Sudafrica» Scoop del “Guardian” che pubblica le prove del 1975 di Luisa Arezzo el 1975 Israele, in piena era dell’apartheid, offrì testate nucleari al Sudafrica. La rivelazione arriva dalla prima pagina del quotidiano britannico Guardian, che cita e pubblica parzialmente documenti in tal senso firmati da Shimon Peres, (attuale presidente di Israele e all’epoca ministro della Difesa) e dall’allora ministro della Difesa sudafricano Pieter Willem Botha, (futuro primo ministro e poi presidente del Sudafrica dal 1984 al 1989). Secondo il quotidiano i documenti rappresentano la prima prova documentale del fatto che Israele disponga effettivamente di armi atomiche, circostanza mai ufficialmente confermata né smentita. «Si tratta di informazioni infondate, senza alcun collegamento alla realtà - ha detto alla radio la portavoce di Peres, Ayelet Frisch - ed è riprovevole che il giornale non si sia rivolto al presidente israeliano prima della pubblicazione per ascoltare i suoi commenti. Siamo pronti ad inviare una lettera perentoria per la pubblicazione dei fatti corretti». Il principale documento declassificato dal Sudafrica, è la minuta top secret degli incontri avvenuti il 21 marzo 1975 tra alti rappresentanti dei due paesi, tra cui il comandante delle Forze Armate sudafricane, Armstrong, che in un memo successivo parlò dell’interesse di Pretoria per missili con testata nucleare. I documenti sono stati scoperti da uno studioso americano, Sasha Polakow-Suransky, durante una ricerca sulle relazioni tra Israele e Sudafrica destinata alla pubblicazione del libro che esce questa settimana negli Usa L’alleanza segreta tra Israele ed il Sudafrica dell’apartheid. Per lo studioso funzionari israeliani «offrirono formalmente alcuni missili del tipo Jericho, con capacità nucleare». Il progetto Jericho prese poi il nome in codice di Chalet; il 4 giugno del 1975, Peres e Botha si videro a Zurigo. Nelle minute si dice che Botha espresse interesse «in un certo numero di unità Chalet», a patto che fosse disponibile «il carico corretto», ovvero la testata atomica. Peres disse che lo era «in tre taglie», formula che si ritiene essere un riferimento a: convenzionale, chimico

N

e nucleare. La notizia, se confermata, minerebbe la considerazione di paese responsabile propria di Israele. Come dire, vende anche lei, dunque non ci si può fidare. Una manna per la propaganda islamica. Molti si chiederanno che razza di notizia sia sapere che Israele abbia il nucleare, visto che è un segreto di pulcinella. Ma sotto un prifilo squisitamente tecnico-formale le cose non stanno così.

Il nucleare israeliano ad uso civile è conosciuto: sono noti i due principali impianti di ricerca (Dimona e Sorek); la Commissione Israeliana per l’Energia Atomica, fondata nel 1953 da Ben Gurion, ha un sito web in ebraico e inglese; Israele collabora da sempre con l’Aiea ed è firmatario di vari accordi internazionali come la Convenzione sulla tempestiva notifica di incidente nucleare (entrata in vigore dopo Chernobyl), la Convenzione per la protezione fisica dei materiali nucleari e la Convenzione sull’assistenza in caso di incidenti nucleari. Ma le cose stanno in modo assai diverso per quanto riguarda il nucleare militare. Su questo, sin dai primi anni ’60, Israele persegue una strategia di intenzionale ambiguità. In altri termini, le autorità non smentiscono né confermano l’esistenza di un programma israeliano per armi nucleari, limitandosi a ribadire che Israele «non sarà il primo paese a introdurre armi nucleari in Medio Oriente». Sul piano del diritto internazionale, l’ambiguità israeliana è protetta dal Trattato di non proliferazione nucleare, unico impegno multilaterale vincolate in tema di armi atomiche. E lo è per due motivi. Primo, perché il (presunto) programma nucleare militare israeliano risale a prima che il Trattato entrasse in vigore (1970) e anche a prima che venisse scritto (1968). Secondo perché Gerusalemme non ha mai firmato il Trattato di Non Proliferazione: e non lo fa non perché non ne condivida le finalità, ma perché si riserva il diritto – questo sì ufficialmente – di dotarsi di quelle armi il giorno che lo facesse un suo nemico giurato.

Citati documenti firmati da Peres e Botha, entrambi all’epoca ministri della Difesa. Gerusalemme smentisce

nella provincia di Sana’a, hanno deciso quindi di condurre le trattative. Al momento non si hanno notizie di iniziative della polizia per liberare con la forza i due stranieri, mentre fonti locali hanno assicurato che i sequestratori non hanno finalità politiche e che trattano bene i loro ostaggi. Le tribù dello Yemen rapiscono spesso gli stranieri per usarli come merce di scambio nelle dispute col governo centrale. I circa 200 stranieri sequestrati nel Paese nell’ultimo decennio sono stati rilasciati quasi tutti incolumi. Lo scorso 18 maggio due operai cinesi, rapiti da una tribù yemenita, erano stati rilasciati dopo due giorni di prigionia.

la costruzione di una città degli scacchi, ma anche per un’imbarazzante storia relativa a un incontro con gli alieni. Anche la fama di Karpov è legata alle stelle, ma solo perchè nel 2003 un gruppo di astronomi, dopo aver scoperto un nuovo corpo astrale, lo battezzò con il suo nome.

Contrario alla nomina di Karpov, però, si è dimostrato Arkady Dvorkovic, potente consigliere economico di Medvedev, secondo il quale «Karpov non è una persona davvero onesta», e comunque «un grande giocatore non è per forza un buon manager». Il suo intervento a gamba tesa ha suscitato non poco scalpore, visto che avrebbe ben altro a cui pensare. Soprattutto perché Iliumzhinov è davvero una figura eccentrica. I suoi incontri con gli extraterrestri hanno fatto innervosire Andrei Lebedev del Partito Liberal-Democratico già coprotagonista di ben altro scandalo (la morte di Litvinenko). Che ha chiesto al presidente Medvedev di avviare un`inchiesta per stabilire se Iliumzhinov «abbia condiviso segreti di stato con gli alieni». Una mossa per screditare Iliumzhinov (e il consigliere di Medvedev). Ma la questione è arrivata in parlamento e promette di non fermarsi lì.


cultura

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Ritratti. A cinquant’anni dall’inizio del suo esilio, il leader buddhista pubblica per Mondadori l’“Autobiografia spirituale”

Sette secoli in Tibet La morsa cinese e la rivolta della saggezza: così Tenzin Gyatso diventò il Dalai Lama di Dianora Citi opo che arrivammo a Lhasa [siamo circa nel 1940, il futuro 14° Dalai Lama ha 5 anni], ci insediammo nel palazzo estivo dei Dalai Lama. […] Avevo in testa un’unica idea: ritrovare una certa scatola, che, dicevo, conteneva i miei denti. Feci aprire tutti i bauli del mio predecessore finché trovai […] un cofanetto avvolto in broccato. Esclamai che conteneva i miei denti. E infatti vi trovai una dentiera appartenuta al tredicesimo Dalai Lama».

«D

Scrivere la biografia di qualcuno che «con naturalezza riferisce i ricordi d’infanzia, gli aneddoti e le gesta delle sue tredici vite anteriori» potrebbe apparire un po’ complicato. Stenderne il percorso spirituale potrebbe sembrare impossibile. E invece è semplice, quando parliamo dell’attuale Dalai Lama, quattordicesimo sulla linea di reincarnazione che parte da Gendundrup (1391 d.C.) e riconosciuto come prima emanazione di Avalokiteshvara, il Buddha della Compassione. Sua Santità (questo il titolo che gli spetta come capo spirituale del buddismo tibetaal secolo Jampel no), Ngawang Lobsang Yeshe Tenzin Gyatso, mantiene un legame “vivente” con i suoi tredici predecessori, ne «evoca la presenza, cara e familiare». La sua attuale vita (per la prossima … ancora deve decidere! Non ha escluso di poter diventare una donna!), come afferma spesso, è quella di un semplice uomo, e in quanto tale, impegnato a promuovere i valori umani; è quella di un monaco buddhista, e in quanto tale, impegnato a promuovere l’armonia tra le religioni; è quella di Dalai Lama, e in

quanto tale, capo spirituale e portavoce del popolo tibetano, oppresso dall’occupazione cinese. La sua Autobiografia spirituale (Mondadori, 213 pagine, 18,50 euro), pubblicata nel cinquantesimo anniversario dell’inizio del suo esilio e composta da una raccolta di scritti e discorsi curata da Sofia Stril-Rever, è divisa in tre parti. Ciascuna è dedicata a una “vita” di Tenzin Gyatso, prima come uomo, poi monaco, e infine Dalai Lama. La curatrice, nell’offrirci preziose pillole di riflessione, ha scelto pensieri e insegnamenti nei quali il comune elemento di partenza “concettuale”, alla luce dei tre diversi «impegni» di vita, è la nozione di «essere umano» e di «umanità», valida per ciascuno di noi. Autobiografia spirituale dove alla pa-

no di evitare la sofferenza»? Uno dei cardini del monaco buddhista Gyatso è la promozione, lo sviluppo, il rafforzamento dei valori umani e delle qualità interiori di ciascun uomo, che possono portare alla pace e alla realizzazione della felicità, prima personale, poi “universale”. Si può trasformare il mondo? L’educazione costante ha cambiato il monaco Tenzin: come, per il proprio bene, è credibile cambiare se stessi attraverso il mutamento dello spirito, così, per il bene dell’umanità, sarà possibile migliorare il mondo rendendolo pacificato. L’impegno del Dalai Lama per la causa tibetana è solo il punto di partenza per perseguire una politica tesa verso l’altruismo e la solidarietà, nella costanza dell’insegnamento di Gandhi, la nonviolenza («un giorno [il Dalai Lama] dichiarò che se il suo popolo si fosse allontanato dalla via della nonviolenza egli avrebbe cessato di essere il loro portavoce». Ma i cinesi, che occupano da anni il Tibet, non ne sono poi tanto convinti!). Nel 1989 accettò il Nobel per la Pace (idealmente un tributo postumo al Mahatma) come essere umano e come tale lo volle condividere con tutti gli essere umani. «Mi capita di essere un tibetano, che ha scelto di essere un monaco buddhista. […] Il titolo di Dalai Lama si riferisce al compito che mi è destinato».

«In base alla legge di reciprocità, noi facciamo parte del mondo e viceversa. Chi si trasforma, trasforma il mondo» rola “spirituale” è attribuito il senso di «dispiegamento dei valori umani, essenziali per il bene di tutti», capace di trascendere le barriere delle confessioni religiose e arrivare al profondo del cuore. Ecco il filo conduttore che collega come in un unicum il primo e il quattordicesimo Dalai Lama, che accomuna la saggezza di oggi con quella di sette secoli fa: la consapevolezza della nostra condizione, qualsiasi essa sia, la volontà di migliorarla trasformando il mondo per raggiungere la vera felicità. È forse falso affermare che gli uomini non vogliono soffrire e tutti vogliono una vita felice, individualmente, familiarmente e socialmente? È forse falso dire che alla fin «fine gli esseri umani sono simili, fatti di carne, ossa e sangue e tutti cerca-

Un compito , pacificare il mondo, difficile, ma che crede realizzabile riponendo la speranza nel «coraggio dei tibetani, nell’amore per la verità e

per la giustizia sempre vivi nel cuore umano. E la mia fede risiede nella compassione del Buddha». Ciascuno di noi può essere il protagonista di una rivoluzione etica e spirituale, raggiungendo un maggiore senso di responsabilità verso il mondo attraverso la conoscenza interiore e la compassione. Quale “compassione”? Non quella che si intende nel mondo occidentale, la “nostra” compassione («moto dell’animo che ci fa sentire dispiacere o dolore dei mali altrui quasi li soffrissimo noi»), talvolta collegata al desiderio, alla pietà, all’attaccamento: come l’amore tra marito e moglie. Può succedere «che in noi il desiderio sia così forte da fare sì che la persona cui siamo attaccati ci appaia buona anche quando in realtà è molto negativa»; oppure, se e quando uno dei due coniugi cambia, l’altro pure cambia il proprio comportamento. In questo caso, ci chiarisce il monaco Tenzin, non è vero amore ma solo personale bisogno emotivo. Altre

volte la si associa erroneamente alla pietà. La vera compassione buddhista, che non muta di fronte ai comportamenti altrui, che non trae la sua origine dal piacere di avere qualcuno vicino, che nasce «dalla convinzione che [tutti] rifuggono la sofferenza e cercano la felicità. Anche i nostri nemici. […] La vera compassione è imparziale, […] porta alla pacificazione delle tensioni interiori, alla pace e all’armonia».

Le parole chiave del pensiero del Dalai Lama, e della contemplazione religiosa buddista, sono pochissime: le positive, amore e compassione, le negative, ignoranza, ira e odio, i tre veleni mentali. Per un bambino «essenziale è la manifestazione dell’amore alla nascita. […] Consapevoli o no, da quel giorno abbiamo un vitale bisogno di affetto. Credo che nessuno nasca affrancato da questo bisogno di amore. […] La compassione, […] quello che io a volte chiamo l’affetto umano, è il fattore decisivo


cultura

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Sempre più dura la repressione culturale contro la popolazione del Nord

E la Cina fa la guerra anche ai telefonini

Pechino proibisce i motivi tradizionali tibetani come suonerie per i cellulari. E blocca le fotocopiatrici locali di Massimo Fazzi

della nostra vita». Ricorda con tenerezza le «cure amorevoli della madre, una donna immensamente compassionevole». Coltivando l’amore e la compassione, combattendo l’ira e l’odio, è possibile trasformare se stessi, «le nostre percezioni, il nostro modo di pensare e il nostro comportamento […] In base alla legge di reciprocità connessa al principio dell’interdipendenza, noi facciamo parte del mondo e il mondo fa parte di noi. Chi si trasforma, chi trasforma se stesso, trasforma il mondo». L’aiuto che viene dalla religione è innegabile. Il buddhismo, cui si riferisce il monaco Tenzin Gyatso, quella spiritualità che promuove lo sviluppo di qualità umane come «l’amore, la pazienza o la tolleranza combattendo i desideri eccessivi», non è in contrasto con le grandi religioni del mondo. Anzi, ci ammonisce il Dalai Lama, «è preferibile attenersi alla tradizione spirituale d’origine. Non è necessario diventare buddhisti quando si è occidentali. […] Nella pratica tutte le religioni si ricongiungono: tutte prescrivono infatti l’intima trasformazione del nostro flusso coscienziale, ciò che farà di noi persone migliori».

Chiunque può coltivare le qualità umane positive, l’amore e l’altruismo, senza seguire una religione, ma, come regola generale, questa permette di «accrescere le qualità con maggiore efficacia». Dunque la pratica spirituale non può essere scissa dalla capacità e dalla possibilità di diventare uomini migliori e la via migliore è quella del dialogo e della armonia tra le religioni. La forza dello spirito è la chiave della felicità.

LHASA. Le autorità cinesi in Tibet non sanno veramente più cosa inventarsi. Dopo le repressioni del marzo del 2008, quando l’Esercito di liberazione popolare scese per le strade di Lhasa contro monaci e giovani che chiedevano maggiore autonomia, Pechino si è resa conto che non c’è modo per fermare quel senso di insofferenza verso la presenza cinese nella regione. E ha messo in atto una campagna che punta a colpire ogni espressione di cultura locale. L’ultima trovata, in ordine di tempo, farebbe sorridere se non fosse tragicomica: le autorità hanno messo al bando le suonerie dei cellulari che riproducono popolari canzoni tibetane. È quanto si apprende dall’ufficio del Dalai Lama a New Delhi: «Agli studenti e agli insegnanti di una scuola superiore vicino alla città tibetana di Shigatse è stato ordinato di cancellare dai loro telefonini alcune canzoni popolari perché considerate “nocive” dai funzionari locali» si legge in un comunicato diffuso dall’addetta stampa Tsering Tsomo. La lista delle suonerie vietate contiene 27 motivi famosi in lingua tibetana. In un messaggio pubblicato lo scorso mese sul sito internet della scuola, le autorità ordinavano la rimozione delle canzoni in formato audio o video da cellulari e I-pod. Secondo il comunicato, inoltre, Pechino ha anche vietato ai negozi di fotocopie di Lhasa di riprodurre o stampare materiale scritto in tibetano. L’ordine di non fotocopiare o stampare materiale scritto in tibetano, dice a liberal un attivista tibetano, «rappresenta l’ennesima misura repressiva del governo cinese contro il Tibet. La situazione dei diritti umani nel Paese sta scadendo sempre più velocemente, e questa ultima decisione dimostra in maniera evidente l’autoritarismo cinese in Tibet. È la prova che Pechino vuole uccidere la nostra identità: dall’arresto dei nostri intellettuali si è arrivati a questo».

mento in un lager del regista Dhondup Wangchen sono i tentativi per tacitare le nostre voci migliori». Il nuovo ordine è stato emanato lo scorso 10 maggio.

I funzionari cinesi, ufficialmente, hanno proibito la stampa e la fotocopia di materiale scritto in tibetano «perché è in questo modo che i ribelli fomentano il popolo contro la Cina». Secondo il China Daily, «la polizia controllerà in maniera regolare che le nuove misure vengano messe in pratica». Un monaco, che voleva copiare dei mantra buddisti, si è sentito rispondere: «Non possiamo farlo. La polizia ci ha riuniti per ordinarcelo, e noi non lo facciamo». Un altro negozio, nella prefettura di Nakchu, si è difeso così: «La legge dice che dobbiamo conoscere il contenuto del materiale da fotocopiare. Ma noi non abbiamo traduttori per il tibetano: secondo i poliziotti, dovremmo pagarlo noi. Ma non abbiamo intenzione di farlo, e quindi non fotocopiamo». La questione tibetana continua a essere al centro della polemica della comunità internazionale con la Cina. Student for a Free Tibet, gruppo che opera per i diritti umani nella regione, ha chiesto al Segretario di Stato americano Hillary Clinton (in visita in Cina) di non visitare il padiglione tibetano all’Expo di Shanghai: «L’amministrazione Obama deve sostenere con forza la libertà di espressione e la libertà del Tibet durante l’incontro con il governo cinese». A queste misure, che colpiscono di fatto ogni possibilità di trasmettere la cultura tradizionale, vanno aggiunti i sempiterni arresti ai danni di monaci e studenti che rifiutano la campagna di ri-educazione patriottica. Imposta sempre dopo le proteste del 2008, questa campagna prevede che in ogni centro abitato del Tibet venga pubblicamente denunciato e ripudiato il Dalai Lama, che Pechino considera la “mente” delle agitazioni. A farne le spese, ultimi in ordine di tempo, sono i monaci del monastero di Wara: guidati da un abate estremamente coraggioso, hanno rifiutato l’ordine cinese e inneggiano quotidianamente al leader buddhista in esilio. Nelle ultime settimane, i poliziotti hanno compiuto circa due raid alla settimana contro il monastero, portando via diversi monaci per volta. E ora, con i nuovi bandi in vigore, sarà ancora più difficile conoscerne la sorte. Il Tibet inizia dunque a morire, partendo dalle sue musiche.

Banditi i ventisette canti della mitologia locale. Per il governo «fomentano i giovani contro la Repubblica, sono un vero pericolo per tutti»

Il palazzo Potala, sede del governo tibetano. In alto il Dalai Lama e, a destra, il Karmapa Lama

Secondo Urgen Tenzin, direttore del Tibetan Centre for Human rights and Democracy, «dall’inizio delle proteste tibetane anti-cinese, nel marzo 2008, Pechino ha lanciato una campagna contro scrittori, blogger e insegnanti interni. La loro colpa è quella di aver condiviso con il mondo le notizie della repressione interna. L’arresto dell’intellettuale Tagyal (noto con il nome di penna di Shogdung) e il trasferi-


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cultura

Libri. San Paolo ripubblica “Sotto il sole di Satana”, romanzo dello scrittore francese che si confrontò duramente con la fede

Georges Bernanos, furore di Dio di Maurizio Ciampa Nella foto grande, un celebre fotogramma di “Mouchette Tutta la vita in una notte”, che il regista francese Robert Bresson trasse a partire da un romanzo di Georges Bernanos. (in basso nella foto) Lo scrittore francese mise al centro della sua produzione letteraria un tormentato rapporto con la fede

t maintenant à nous deux». «A noi due», pare abbia detto Georges Bernanos poco prima di morire all’alba del 5 luglio 1948. Nessuno dei familiari probabilmente se ne sorprese. Non più di tanto: erano ormai assuefatti al suo fiammeggiante furore, alle dichiarazioni battagliere, allo strenuo antagonismo che da sempre animava lo scrittore.

«E

Quella fulminea frase, in cui si spegne e forse anche si rappresenta la vita di Bernanos, possiamo immaginarla pronunciata con la voce bassa e grave del morente, il tono sommesso, quasi un grido soffocato. C’è sì contrapposizione in quella frase, ma c’è anche familiarità, c’è confidenza. Bernanos e il suo Dio si dovevano conoscere bene e da vicino, pur nell’ininterrotta controversia, nella frastagliata cornice delle passioni estreme che hanno divorato la vita dello scrittore francese incendiandola. E nell’impeto di una lotta senza requie. «Era un po’ come se stesse sul ring ogni giorno, in attesa dell’ultimo incontro che avrebbe chiuso la sua esistenza disordinata e irta di ossessioni e di delusioni», ha scritto Carlo Bo introducendo nel 1998 i Romanzi, raccolti in un unico volume da Mondadori. Sotto il sole di Satana, ora ripubblicato dalle edizioni San Paolo ( pagine 329, 19,50 euro) vive nel perimetro di questo ring. Il libro esce nel 1926 con grande successo. Bernanos è sulla soglia dei quarant’anni. Può finalmente dedicarsi alla letteratura, ma è quello che davvero vuole? O la letteratura è troppo poco per lui che è alla ricerca di altre strade e di altre battaglie? «Nutro per l’arte che non abbia altro fine che se stessa un indicibile disprezzo…Il dono letterario non è niente o poca cosa», dichiara a una giovane aspirante scrittrice che gli si rivolge per un consiglio.Tutto è poco rispetto al Bene e al Male di cui Bernanos vuole trovare la misura; tutto è poco di fronte alle forze che sconquassano il cuore delle sue umili creature e alle domande che lo

scrittore ne ricava. Non c’è forma letteraria che lo possa appagare. Dal punto estremo nel quale è collocato, può solo guardare dentro esse attenersi. «È questa idea del tutto o niente familiare alla mia giovinezza, che mi ha perduto», dirà qualche anno dopo. Appare veramente così: perduto nello spazio delle umane cose, smarrito nel buio. Si definisce “vagabondo”: «Se entro in cielo vorrei che fosse proprio in qualità di vagabondo». Non è un’immagine letteraria e

pello, da parte di Pio XI, dell’Action francaise, il movimento politico nazionalista di Charles Maurras cui Bernanos è stato legato fino alla fine della prima guerra mondiale; infine la dolorosa rottura con Jacques Maritain, la voce più autorevole del cattolicesimo francese. Bernanos non si trattiene, esplode. Non ha strategie personali, l’elevata temperatura dell’anima non glielo consente. Svetta nelle sue parole un’ira lucida, acuminata come una lama: «La

La presenza e la rocciosa irriducibilità del male esaltano, qualora ce ne fosse bisogno, l’attualità dei suoi scritti. Dopo i genocidi e le fosse comuni, la cattiveria gli apparve irredimibile non è un gioco sociale: Bernanos rifiuta onori e incarichi di prestigio. Il 1926, l’anno in cui esce Sotto il sole di Satana, resta comunque fra i più duri da sostenere. Sembra attaccato su più fronti, colpito al cuore: la grave malattia della moglie; poi la condanna senza ap-

compiango – dice a Maritain – perché lei non ama gli uomini…Parla bene lei, troppo bene…È sicuro di aver ricevuto la missione di parlare? Ha disonorato con inutili palinodie la nozione stessa di obbedienza e l’umile sottomissione dei cuori…». Questo è Bernanos, un uomo di fuoco, costantemente in guerra e fisicamente incapace di mezze misure. Assorbe le tensioni che trova attorno a sé e le restituisce moltiplicate. Sotto il sole di Satana ne è lo specchio, ma in uno scenario metafisico in cui Dio e Satana si fronteggiano nel corso di una lotta dall’esito alterno.

Ma dov’è Dio e dov’è Satana? La mappa che orienta le anime sondate dai romanzi di Bernanos, da Sotto il sole di Satana a Diario di un curato di campagna che uscirà dieci anni dopo, è difficilmente leggibile: tutti i segni che vi compaiono sono come slabbrati, alterati, linee mobili difficili da afferrare. «Per lui esistevano il diavolo e Dio – dice ancora Carlo Bo –, e nei momenti di maggiore cupezza e disperazione forse aveva il sopravvento la figura di Satana, vale a dire del male invincibile, perché percepito come unica via d’uscita dalla solitudine e dall’isolamento». Torniamo brevemente a quell’ultimo grido sul let-

to di morte: «E ora a noi due». Come se finalmente l’uomo Bernanos si fosse sbarazzato del Mondo, avesse messo a tacere i suoi rumori per guardare il volto di Dio e per presentare a lui la sua protesta. Come Giobbe, viene immediatamente da dire. Sì, come Giobbe che trascina Dio in giudizio ma da Dio non si allontana, neppure dal suo fondo silenzio. Assedia quel silenzio, cerca un varco da aprire nelle sue alte mura anche quando tutto è contro di lui. «E ora a noi due»: quante cose vibrano in queste poche parole, pronunciate forse sotto la pressione del delirio, e quanta vita, quanta disperazione! Ma anche quanta fedeltà! Chi può dire «E ora a noi due» se non chi è rimasto nel solco della relazione con il suo Dio? Questo è accaduto a Georges Bernanos, scrittore e pugnace lottatore. Le sue ultime parole lo rappresentano anche più delle sue opere, che talvolta s’inoltrano in un intrico di paradossi dove è difficile seguirlo. Ma vale la pena seguirlo, vale la pena ritrovare il clima incandescente del suo spirito. La presenza e la rocciosa irriducibilità del male esaltano, qualora ce ne fosse bisogno, l’attualità di Bernanos. Dopo le catastrofi, dopo i genocidi e le fosse comuni, che cosa possiamo ragionevolmente pensare della presenza del Male nella storia dell’uomo se non la sua inesauribilità? Il Male non è giunto al termine della sua parabola; Satana è ancora freneticamente attivo. Anche se si stenta a chiamarlo per nome, e questo forse gli dà dei vantaggi.

Georges Bernanos lo chiamava per nome. In Sotto il sole di Satana e nell’intera sua opera ne ha seguito le metamorfosi, i camuffamenti, ne ha percepito la mobilità: «Si nasconde così come mente, prende tutti i volti inclusi il nostro. Non aspetta mai, non si concede soste da nessuna parte. È nello sguardo che lo sfida, è nella bocca che lo nega: è nell’angoscia mistica, è nella sicurezza e nella serenità dello stolto…Principe del mondo! Principe del mondo!».


spettacoli

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ono giorni emozionanti quest’ultimi per la reginetta americana del pop, Miley Cyrus, che festeggia l’uscita del suo singolo di lancio I can’t be tamed, il cui video ha già prepotentemente monopolizzato tutti i principali canali musicali, radio, internet (YouTube, MySpace) e tv. E il cui disco omonimo uscirà tra un mese. Già il titolo la dice lunga. «Non posso essere addomesticata», afferma la provocante cantante.

S

Nel video appare in una versione nuovamente sexy e sensuale. Una creatura rara vestita di piume circondata da ballerini vestiti come uccelli tropicali. In una grande voliera che viene introdotta dal curatore del museo come «la creatura più rara sulla terra. Miley Cyrus comunque non vuole deludere i suoi vecchi fan. Non vuole abbandonare la sua vecchia immagine di teenager statunitense acqua e sapone a cui la Disney ci aveva abituati quando era diventata la star della serie per giovanissimi Hannah Montana». Vuole solo dare un tocco di novità alla sua immagine, nota a tutti ormai da qualche anno, come attrice e musicista. Ormai ha intrapreso la sua strada e il suo nuovo singolo sembra essere una sorta di dichiarazione di indipendenza. Selvaggia, seducente, trasgressiva. Indossa un corpetto in metallo disegnato dal marchio The Blonds del costo di 25mila dollari realizzato usando 2400 pezzi di metallo lavorati a mano. E il fatto che non arrivi nemmeno a 20 anni di età rende il tutto ancora più piccante e intrigante. Non solo il video di Can’t Be Tamed sembra mostrare una nuovissima Miley, ma anche il testo e la musica del brano prendono una direzione completamente diversa da quella che ci si aspetterebbe. Le sonorità sono da club, decisamente lontane da quelle a cui Miley aveva abituato i suoi giovani fan. E il testo fa capire che la giovane star ormai sta crescendo e non ha intenzione di sottostare a quell’immagine acqua e sapone confezionata per lei. Ormai famosa in tutto il mondo, la aspettavano persino a Roma questo 21 e 22 Aprile per annunciare l’uscita del suo nuovo album e per presentare il suo nuovo film The last song. Ma non ha potuto essere presente all’anteprima anche lei vittima dei disagi aerei di queste ultime settimane. Ma chi è Miley Cyrus e soprattutto si tratta di un vero prodotto musicale? Molti potrebbero considerarla la solita ventenne figlia d’arte che quasi come un cliché si sente in dovere di produrre qualcosa per sentirsi qualcuno o seguire le orme del

X-Factor. In radio il nuovo singolo della Cyrus, reginetta del pop Usa

Ecco Miley, la nuova fidanzata d’America di Valentina Gerace

Attrice e stilista non vuole abbandonare la sua vecchia immagine di teenager Disney. Per tutti è ancora l’eroina Hannah Montana

padre. In realtà basta ascoltare i suoi album (Breakout, 2008, The time of our lives 2009) per arrivare alla conclusione di come nonostante la sua giovanissima età, Miley rappresenti oggi un’artista pop tra le più originali e innovative.

La sua musica orecchiabile, divertente, colorata e creativa e accompagnata sempre da video coinvol-

In queste pagine, Miley Cyrus, cantante e attrice che ha conquistato gli States

genti che lasciano intravedere anche il suo talento da showgirl, oltre che cantante. E bastano queste doti per capire come Miley abbia intuito benissimo come bisogna muoversi nel mondo della musica per ritagliarsi uno spazio nel mercato discografico di oggi. C’è tutto nei suoi album. Il vecchio pop energico di Britney Spears, alcune connotazioni vocali di Nelly Fur-

tado, lo spirito country di Shania Twain, un non so che di Kylie Minogue e un tocco profondamente pop melodico in certe ballate che la fanno rassomigliare a Taylor Swift, giovanissima cantante country del momento. Miley sostiene di voler provare generi diversi di musica e film. Senza restare intrappolata in una categoria che ridurrebbe sicuramente la sua indole da creativa ribelle. Parole sagge, pronunciate da una baby-star dall’ambizione di ferro. Pantaloni in pelle, giubbotto in pelle e un top nero che lascia scoperto l’ombelico. L’immagine che mostra di sè in questo video di I can’t be tamed porterebbe a paragonarla alle veterana Ryhanna, o Britney Spears. Eppure ci tiene a sottolinearlo Miley. Non le interessa assomigliare a nessuno. Nè fare video hot per attirare l’attenzione. L’originalità è la qualità per cui vuole essere premiata. E anche il video che la rappresenta in gabbia, è la metafora di una natura che non puo’ nè accetta di scendere a compromessi o essere controllata in alcun modo, obbedendo a degli schemi o degli insegnamenti precisi. La musica è libertà di espressione. È la capacità di mescolare rock e classico. Trasgressivo e romantico. Femminilità e forza.Oltre a un talento naturale, sicuramente Miley è avvantaggiata per essere figia d’arte. Il padre è un cantante country e la madre la sua manager. Le sue sorelle sono tutte musiciste, cantanti e attrici. A 9 anni Miley recita già di fronte a suo padre nella serie tv Doc. Nello stesso anno debutta sul grande schermo in Big Fish dove fa la parte di Ruthie da piccola. Nel 2005 dopo quasi un anno di casting è stata scelta per il ruolo di protagonista in un nuovo progetto Disney, Hannah Montana, film che le darà la fama. Il 2008 è l’anno di Breakout e partecipa al doppiaggio del cartone animato Disney Bolt: un eroe a 4 zampe a fianco di John Travolta e la cui colonna sonora le fa guadagnare la sua prima candidatura al Golden globe con il singolo I Thought I Lost You.

Oggi Miley è al secondo posto nella classifica dei venti giovani vip più ricchi del mondo, grazie a un guadagno di circa 25 milioni di dollari all’anno. E puo’ vantare di tante collaborazioni importanti. Come quelle con Taylor Swift, Beyonce, Fergie, e Mariah Carey. E come se non bastasse è anche attrice (The Last Song, di Nicholas Saprk e Sex and the City 2) e stilista, creatrice di una linea di vestiti casual per ragazze. Perché non riconoscerle dei meriti e dedicarle un ascolto?


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

La Russa: molto potere, poca politica, zero umanità. Il divario è tra culture In una coalizione ogni partito ha il diritto di cercare i maggiori consensi, ma è un errore quando un partito cede ad un altro posizioni strategiche, politiche e di consenso, senza una visione d’insieme e un dibattito interno. Avere affidato alla Lega gli assessorati provinciali all’Agricoltura ad esempio è uno di questi errori che hanno portato ad un calo di voti al Pdl o all’astensionismo. La presenza costante degli amministratori della Lega sul territorio, in continua sinergia con i loro rappresentanti alle Camere nazionali e al Parlamento europeo, ha dato agli elettori la sensazione di un partito organizzato e sinergico! Tutto questo non è avvenuto nel Pdl. Le polemiche pretestuose servono alla vecchia concezione della politica, ben nota all’on La Russa e ad alcuni suoi cari amici, una politica che premia troppo spesso prima l’amicizia e la fedeltà (che è qualcosa di diverso dalla lealtà). Non è un mistero che i cittadini siano “arrabbiati”con quella politica che dà alla stessa persona più incarichi elettivi o negli enti pubblici. Se l’on. La Russa credesse in una politica nuova per la destra dovrebbe essere il primo a proporre la regola: una testa, un incarico e a promuovere incontri, provinciali e regionali, con tutti gli eletti di ogni ordine e grado per aiutare il chiarimento ed il confronto.

C.M.

IMITIAMO LA GRAN BRETAGNA In Gran Bretagna sta nascendo un governo all’insegna del rinnovamento. Il merito è di David Cameron, che ha aperto ai liberaldemocratici di Nick Clegg. Cameron, astro nascente del nuovo Conservative party, già prima della campagna elettorale che lo ha visto protagonista, e che gli ha fatto guadagnare il 36% dei consensi, ha mutato il dna del suo partito: aprendo agli omosessuali, alla possibilità di legalizzare le cosiddette “droghe” leggere, alla sanità pubblica e a nuove politiche ambientali. Optando per un’alleanza con i liberaldemocratici di Clegg - noto per il suo libertarismo ed il suo anti-statalismo non fa che consolidare questa linea di governo all’insegna dei diritti civili e del risanamento economico. I laburisti

di Gordon Brown, ormai lontani dai successi e finanche dalle politiche riformatrici di Tony Blair, che li hanno visti protagonisti della politica britannica dal 1997, sono invece arretrati al 29%. L’Italia avrebbe moltissimo da imparare dalla Gran Bretagna. Nel nostro Paese, oltre a non esistere un partito laburista o socialdemocratico, non esiste nemmeno un partito liberaldemocratico forte e coeso (potremmo dire che gli unici a rappresentare una politica “alla Nick Clegg”, da noi, sono i repubblicani, i liberali e i radicali. Che comunque, assieme, non fanno certo il 23% dei libdem britannici. E gli unici che si rifanno alla nuova destra europea di Cameron e di Sarkozy sono oggi i “finiani”, grazie al rinnovamento di posizioni apportato dal presidente della Camera. La situa-

Le rovine di Kabul Un ufficiale dell’Afghan National Police pattuglia le rovine del palazzo di Darul Laman a Kabul. L’edificio fu costruito negli anni Venti durante lo sforzo di modernizzazione del Paese compiuto dal Re Amanullah Khan.

zione, da noi, è ben triste e ancora lontana dalla costituzione di un forte asse all’insegna di un nuovo liberalismo, che guardi alla riduzione della spesa pubblica, all’abbassamento delle imposte e ad una politica in favore dei diritti civili: dall’approvazione di una legge per le unioni civili sino ad una per la legalizzazione della cannabis, passando per una legge che legalizzi eutanasia e prostituzione.

Luca Bagatin

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

TRAGEDIA DI GENOVA: DOLORE E COMMOZIONE ALLA LIPU Dolore e commozione sono i sentimenti della Lipu-BirdLife Italia alla notizia dei tragici fatti accaduti a Susissa, dove due guardie zoofile, Paola Quartini ed Elvio Fichera, sono state uccise dal titolare di un canile. Stiamo acquisendo tutti gli elementi utili per capire la dinamica di questo assurdo evento e valutare tutte le azioni che saranno necessarie.

Lipu-BirdLife

dal “Wasghington Post” del 23/05/10

Mano tesa e dito sul grilletto di Michael D. Shear ano tesa e arma in pugno, possiamo sintetizzare così la nuova dottrina Usa sulla sicurezza. Sabato scorso, a West Point, il presidente Barack Obama ha reso più chiare le linee d’indirizzo della politica sulla sicurezza nazionale. È una presa di distanze dalla precedente amministrazione, focalizzata sulla «guerra preventiva», e che invece vuole l’enfatizzazione delle istituzioni internazionali e il ruolo dell’America nel promuovere i valori della democrazia. È con il discorso fatto davanti agli ufficiali dell’ultimo anno della accademia militare più famosa d’America, che Obama ha tracciato le differenze da quello che George W. Bush aveva definito «un ben definito internazionalismo americano». Si vorrebbe invece costruire e modellare «un ordine internazionale» utilizzando la diplomazia e il coinvolgimento.

M

Il nuovo inquilino della Casa Bianca aveva più volte parlato della necessità di ricostruire un’immagine internazionale degli Stati Uniti, vista ormai con sospetto da molte cancellerie, e di costruire nuove alleanze. Bush andò West Point nelle more della tragedia dell’11 settembre 2001, puntando il proprio discorso sulla sicurezza interna del Paese, Obama ha invece scommesso sull’importanza delle nuove alleanze. «Sì, abbiamo le idee chiare sulle carenze del nostro sistema internazionale. L’America non ha mai ottenuto risultati al di fuori degli ambiti della cooperazione internazionale. Li ha ottenuti spingendo questi contensti nella direzione della libertà e della giustizia. Promuovendo

le nazioni che accettavano le proprie responsabilità e punendo chi invece le rifiutava» ha affermato il presidente. Si tratta del nono discorso inaugurale a West Point fatto in periodo bellico e il comandante in capo delle forze armate – che ha due conflitti in corso – ha espresso la sua fiducia nella cooperazione per risolvere le crisi economiche, militari e ambientali. «L’ordine internazionale che stiamo cercando di costruire è qualcosa che vogliamo sia in grado vincere le sfide del nostro tempo» ha poi puntualizzato. Contrastare l’estremismo violento, le minacce nucleari di ogni tipo, intervenire sui cambiamenti climatici e promuovere un’economia sostenibile, aiutare i Paesi a sfamarsi e ad avere cura dei propri malati; prevenire i conflitti e curare le ferite che provocano. Questi sono i punti su cui Obama vuol far ruotare la nuova politica estera americana. Un Paese coinvolto nel mondo e nei suoi problemi, una sorta di passaggio simbolico dal ruolo di sceriffo a quello di medico del pianeta. Nonostante ciò gli sforzi per la guerra in Afghanistan sono aumentati, così come le preoccupazioni sull’estremismo islamico e i danni che può provocare a livello globale. Obama ha citato gli attentati sventati a Time square e quello sul volo di linea diretto a Detroit per ricordare che la guardia non vada abbassata. E l’Afghanistan è in cima all’agenda presidenziale, soprattutto nella raccolta del consenso interno. Obama è consapevole delle difficoltà che ci sono e che continueranno a persiste-

re anche in futuro, ma è fiducioso che il gioco valga la candela. Che l’impegno, anche militare «aiuti il popolo afgano» nella strada verso la costruzione di una società e di un Paese migliore. Che alla fine, anche sul piano militare, si potrà conseguire una vittoria. Ma che le prospettive d’impegno saranno sul medio lungo termine. Sull’Iraq invece il lavoro Usa «sta per terminare» e con il ritiro definitivo all’interno dei compound del grosso delle truppe, per agosto, «si consegnerà al popolo iracheno un Paese più sicuro».

«Voi o chiunque altro indossi una divisa americana, siete la pietra angolare della nostra difesa e un ancora per la sicurezza globale». Obama ha anche promosso una chiamata civile al servizio del Paese per salvaguardare l’economia e la difesa di quei «diritti universali che sono scritti sulla nostra Costituzione». Il presidente ha poi lodato la figura del «soldato-studioso» come una nuova funzione che oltre a salvaguardare il Paese ne promuoverà un’immagine diversa all’estero.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Devo studiare, oppure all’esame sarò spellato vivo Di nuovo pioggia. La lettera che ho scritto per mio padre è l’esempio più eccentrico di società per azioni che si sia mai visto. Mio padre la concepisce come una difesa della Chiesa Ufficiale; io, come un attacco a tutte le religioni; quindi puoi immaginare che strazio scriverla. Ma l’ho escogitata bene, tant’è che lui si è limitato a intervenire con un paio di correzioni, purtroppo entrambi sufficienti a compromettere non poco il mio, di significato. Hai un’idea di quanto sia imbarazzante e fastidioso tutto questo? Spero davvero che tu stia meglio, e che da te il clima sia più clemente che da noi. Mi sono ripreso bene, credo, o almeno ci sono molto vicino; non così bene, tuttavia, come quando sono venuto al Nord; ma non posso pretenderlo, considerando per di più che il nero inverno è alle porte. I giardini virano al rosso, con qualche chiazza scura qua e là; e nelle strade comincia a ristagnare in maniera veramente permanente il fango invernale. La stagione è eccezionalmente precoce. Devo tralasciare tutto il resto e gettarmi a capofitto nell’esame, altrimenti sarò spellato vivo. Hai mai visto, o immaginato, un individuo così goffo nel sigillare lettere? Ogni volta mi scotto la vita. Non so perché stamattina sono così distratto.Vorrei dirti un sacco di cose oggi, ma non riesco a spremere niente. Robert Louis Stevenson a Frances Sitwell

LE VERITÀ NASCOSTE

Il rivale di Putin? È solo Stalin MOSCA. Seconda batosta elettorale per il partito putiniano Russia Unita, che nel giro di due mesi ha dovuto cedere ai comunisti anche la seconda città della regione siberiana di Irkutsk, dove si trova il Baikal, il lago più profondo del mondo: nel voto anticipato di due giorni fa a Bratsk, sede di una delle maggiori centrali idroelettriche del mondo, Aleksandr Serov ha trionfato con il 39,7 per cento dei voti, lasciandosi alle spalle sia il sindaco ad interim uscente Aleksandr Dostalciuk (21,7) sia Serghiei Grishin (16,85), entrambi di Russia Unita. Il partito guidato dal premier aveva scelto di appoggiare il secondo, commettendo forse un errore tattico, sottolinea oggi la stampa. Ma il secondo segretario del comitato regionale comunista, Ievgheni Rulkov, interpreta diversamente il successo: «Gli elettori si sono stancati delle promesse del partito al potere». In ogni caso i comunisti avevano sbaragliato Russia Unita anche in marzo, quando il loro candidato Viktor Kondrashiov aveva vinto nettamente le elezioni a Irkutsk. Questo secondo smacco, per la macchina da guerra elettorale del capo del governo, è un incubo da “profondo rosso”nella strategica regione siberiana. D’altra parte, il rinato partito comunista infastidisce l’immagine della nuova Russia anche dalle parti della capitale. Durante la grande parata per la fine della Seconda Guerra mondiale - che ha portato a Mosca persino i militari di Stati Uniti e Gran Bretagna - sono apparsi per le vie delle gigantografie di Jospi Stalin. Ovvero di colui che i reduci indicano come il “vero vincitore” del conflitto mondiale. Putin teme questo revival stalinista: sa che il mondo non lo gradirebbe, ma soprattutto teme che la popolazione possa preferirne il ricordo all’attuale leadership.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

SOLIDARIETÀ A RAFFAELE LOMBARDO Lavoro a fianco del presidente Raffaele Lombardo da ben undici anni, senza limiti d’orario, sei e anche sette giorni alla settimana, con la fatica e la passione di febbrili giornate; a fianco di un lavoratore instancabile, coinvolgente, animato dall’entusiasmo e dalla certezza delle proprie convinzioni. In questo lungo percorso, standogli vicino, condividendone gli impegni e gli stati d’animo, ho avuto modo di conoscerlo e di apprezzarne sempre più le qualità umane, oltre che l’autorevolezza e le grandi capacità del politico e dell’amministratore. Ne ho osservato la determinazione e la coerenza, i mutamenti d’umore e le sfuriate, la capacità di ascolto, l’attenzione agli altri e a coloro che soffrono, la fermezza delle idee, la pazienza e la forza nel superare le avversità. Ho sentito soprattutto l’amore profondo che egli nutre per la Sicilia, la dedizione al futuro della sua terra e dei siciliani. Il riscatto della nostra Isola e del Meridione è il tema trainante e costante della sua azione politica, la ragione prima e ultima del programma autonomista. Una fede politica che sempre è stata sorretta da un’integrità e rigore morale e da un’onestà intellettuale della quale, qui, desidero dare forte testimonianza. Esprimo la mia solidarietà al nostro presidente, un politico quali pochi, se mi è consentito dirlo, la Sicilia può vantare. Spero che questa lettera induca molti altri a fare altrettanto. A recargli cioè sostegno morale e civile e a fargli sentire la vicinanza della “sua”gente, di quella che lo ha eletto credendo nel suo progetto.

Maria Bonanno segreteria particolare del presidente regione Sicilia

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

LA CARENZA DI POLITICHE PER IL TURISMO I turisti, che arrivano a Pisa, confermano come questa città rimanga una tappa obbligatoria per migliaia di persone provenienti da tutto il mondo. Tutto ciò nonostante che l’amministrazione non riesca a mettere in piedi interventi adeguati per migliorare l’accoglienza degli ospiti. Da anni si parla di grandi progetti, che dovrebbero migliorare il volto di Pisa; progetti che però tardano ad essere avviati e nel frattempo i turisti si trovano in una città che pare rassegnata a “tirare a campare”e a vivere di rendita, grazie alla presenza della piazza più bella del mondo e ad una situazione geografica e logistica favorevole. Più volte è stato raccontato ciò che vivono coloro che arrivano in pullman o con i propri mezzi al parcheggio scambiatore di via Pietrasantina. Il primo biglietto da visita della città è un percorso pedonale abbastanza “desolante” e pieno di ostacoli che li dovrebbe portare alla Torre: si inizia con l’attraversamento di un passaggio a livello e poi di via Contessa Matilde, attraversamento quest’ultimo che, nonostante il semaforo, rappresenta un’impresa non facile per i gruppi di turisti e possibile causa di intoppi per gli automobilisti che se li trovano davanti. C’è, inoltre, l’assalto dei molti venditori abusivi e la vista dei molti chiostri che da anni non dovrebbero trovarsi più in quella piazza. Girando in città, un turista si trova in difficoltà anche per l’assenza di servizi igienici pubblici, tranne quelli, non sempre aperti e mai segnalati, di sotto le logge dei Banchi. E ancora, se un turista chiedesse a un cittadino pisano dove trovare un ufficio informazioni, credo che la maggioranza degli intervistati non saprebbe cosa rispondere. In realtà ne risultano quattro, gestiti dall’Apt (Agenzia pisana per il turismo): al Duomo, all’aeroporto, in piazza Vittorio Emanuele II e di fronte al comune di Pisa. Sarebbe importante un ufficio nei pressi della stazione ferroviaria e, più in generale, un miglioramento delle strutture e, soprattutto, un’attività di marketing più appropriata per una città che praticamente di turismo vive (distribuzione di piantine della città, supporto di personale qualificato magari con postazioni internet per prenotazioni istantanee nelle diverse strutture ricettive della città). E a proposito di prenotazioni tramite internet. Pochi giorni fa i sindaci di Pisa e Lucca, insieme alla società che gestisce l’aeroporto Galilei, hanno presentato alla stampa un progetto di coordinamento che punta ad offrire, nel periodo di bassa stagione, un pacchetto che incentivi la visita e la sosta sul territorio nelle due città. Tutto ciò dovrebbe avvenire attraverso il nuovo portale www.visitpisalucca.it che però al momento risulta vuoto. È vero che il progetto è proiettato per il futuro, ma visto che è stato presentato in pompa magna, iniziare ad inserire in quel sito qualche politica di marketing o, se ancora non c’è, qualche piccola informazione turistica che già esiste nel web, non sarebbe affatto male. Pisa con le sue bellezze ha le carte in regola per vincere ma gli amministratori e gli operatori potrebbero fare qualcosa in più. Carlo Lazzeroni P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L PI S A

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ULTIMAPAGINA Giamaica. Trafficanti in piazza contro il governo per impedire l’estradizione del boss della droga. Imposto il coprifuoco

Narcos in rivolta nella patria di Osvaldo Baldacci ob Marley, Usain Bolt, Asafa Powell. Dici Giamaica e pensi a musica reggae, sole, mare, velocità, vacanze, treccine. Magari alla marijuana, ai rasta, a peace & love. Ma c’è poca pace e poco amore su quell’isola caraibica. Dietro i cartelloni soleggiati che reclamizzano vacanze da sogno, c’è un Paese con un altissimo tasso di rischio per le violenze, la criminalità e il narcotraffico, che resta uno dei paesi con il più alto indice di omicidi al mondo.Violenze guidate da bizzarri personaggi con nomi come “Coca Cola”, ma che dietro questi appellativi hanno una storia di sangue e di stragi. E allo stesso tempo sono in grado di fare e disfare governi. Come sta accadendo in queste ore a Kingston, la capitale dell’isola delle Grandi Antille, già prima considerata una delle città più pericolose del mondo. Non possiamo escludere che i colpi di mitra sulle barricate siano accompagnati dai ritmi di musica reggae a tutto volume, né che molti degli uomini armati passino il tempo lasciato libero da spaccio e violenze a curare lunghe treccine e a scegliere capi di abbigliamento dai colori rasta. Ma certo in questo momento nelle strade più povere di Kingston hanno poca fantasia di pensare alle vacanze sole-e-mare e non li rincuorano i record del mondo di un fenomeno dell’atletica come il fulmine Usain Bolt. Forse di lui vorrebbero la velocità, per allontanarsi dagli spari e magari anche da un’isola che dalle nostre parti è vista come un sogno eventualmente avvolto in una nube di fumo, ma per chi ci vive è un incubo. E non allieta il quotidiano avere a che fare con personaggi apparentemente folkloristici che si fanno chiamare “Coca Cola”.

B

Se si pensa a quello che accade anche da noi quando si arresta un boss mafioso, con scenate in piazza, resistenza alla polizia, applausi ai catturati, e donne e bambini che piangono, forse è meno difficile comprendere come interi quartieri di Kingston possano essere messi a ferro e a fuoco per impedire l’arresto di un narcotrafficante di primo piano. Due poliziotti sono stati uccisi ieri. Secondo quanto riferito dalla polizia giamaicana, gli agenti sono stati aggrediti dopo aver ricevuto una richiesta di soccorso da parte di un automobilista. Il caos è iniziato giovedì e ieri ha raggiunto un livello tale che le autorità si sono dovute impegnare ad evacuare donne e bambini da alcune zone. Giovedì le gang armate giamaicane hanno innalzato barricate in una zona lunga più di un chilometro della capitale giamaicana, soprattutto a West Kingston, utilizzando veicoli, sacchi di sabbia, filo spinato e tutto ciò che hanno potuto trovare, hanno ammassato armi nelle strade di Kingston e attaccato violentemente la polizia in particolare nella zona di Tivoli Gardens per impedire l’arresto del leader dei narcotrafficanti locali, Christopher “Dudus” Coke, minacciato di estradizione verso gli Stati Uniti. Oltre ai due poliziotti uccisi nel corso degli scontri, si registrano sei agenti e alcuni civili feriti da alcuni colpi d’arma da fuoco esplosi durante la guerriglia urbana che si è scatenata nella capitale, mentre quattro commissariati

di BOB MARLEY sono stati attaccati e incendiati. Uno di essi è stato dato alle fiamme dopo che i poliziotti, assediati e a corto di munizioni, sono stati costretti ad abbandonarlo. È assolutamente da notare che secondo le autorità locali «numerosi esponenti di molte gang - solitamente rivali tra loro e pronte a scontrarsi per le vie - provenienti da qualsiasi parte dell’isola si sono aggiunti ai criminali di Tivoli Gardens per proteggere “Dudus”Coke e sono determinati a lanciare attacchi coordinati contro le forze di sicurezza».

so a procedere all’arresto e all’estradizione di Dudus Coke che Washington reclama da anni: prima il leader laburista non poteva fare nulla, perché, dicono gli esperti, Coke è un sostenitore importante del partito laburista.

Ma tra un reggae e uno spinello la crisi economica bussa anche sotto il sole della Giamaica: il governo ha cambiato idea sull’estradizione di Dudus solo perché alle corde dal punto di vista economico. Un Paese che quasi non ha reddito se non quello illegale, si è visto porre l’estradizione come condizione per l’accesso a un prestito di 1,27 miliardi di dollari da parte del Fondo monetario internazionale, deliberato a febbraio. Dudus Coke, 42 anni, è accusato di essere alla guida della Shower Posse gang, il più importante cartello per il traffico della droga e delle armi di quest’isola dei Caraibi. Questa gang, secondo le autorità americane, dispone di ramificazioni a New York ma anche nel resto degli Stati Uniti dove fornisce marijuana e crack. Gli Usa vogliono giudicare Coke perché considerato il capo di una rete internazionale di narcotraffico che genera milioni di dollari all’anno ed è responsabile di centinaia di omicidi durante le guerre della cocaina negli anni Ottanta e Novanta, grazie alle quali Kingston si è guadagnata il titolo di capitale mondiale degli omicidi.

Dudus Coke, 42 anni, è accusato di essere alla guida della Shower Posse gang, il più importante cartello per il traffico di droga e armi di quest’isola dei Caraibi, con ramificazioni negli Usa dove fornisce marijuana e crack Per questo il premier giamaicano Bruce Golding ha proclamato lo stato di emergenza in alcune zone della capitale Kingston e nel distretto di St Andrews, che durerà un mese. Le bande non hanno nessuna intenzione di rispettare il coprifuoco e anzi hanno preso il totale controllo di alcune strade, dove infuria una vera battaglia. «Le minacce contro la sicurezza del nostro popolo saranno represse in modo forte e deciso», ha affermato Golding in un messaggio alla nazione. Ma anche lui ha qualcosa da farsi perdonare. Infatti solo ora il suo governo si è deci-


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